Persio Antonio Persio Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to
navigationJump to search Antonio Persio (Matera, 1543 – Roma, 11 febbraio
1612[1]) è stato un filosofo italiano.
Due suoi trattati Diagram from Antonio Persio's 'Del bever caldo',
Venice 1593.jpg Indice 1 Biografia
2 Opere
3 Note
4 Collegamenti
esterni Biografia Figlio dello scultore Altobello Persio e fratello di Ascanio,
linguista, Domizio e Giulio, rispettivamente pittore e scultore, compì i primi
studi a Matera dove prese gli ordini minori.
Trasferitosi a Napoli dove divenne sacerdote[2], conobbe Bernardino
Telesio di cui diventò discepolo, e scrisse diverse opere a difesa e
chiarimento del pensiero del suo maestro. Dopo la morte dello stesso Telesio,
fece pubblicare alcuni suoi scritti minori intitolandoli Varii de rebus
naturalibus libelli. Nel 1572 si
trasferì a Venezia, e nel 1576 diventò parroco a Padova e pubblicò il Trattato
dell'ingegno dell'huomo, in cui riprendeva la teoria telesiana dello spiritus,
principio spirituale, movimento, vita, intelligenza[2]. Nel 1590 si trasferì a Roma, dove morì nel
1612; qui conobbe anche Tommaso Campanella e Galileo Galilei e pubblicò un
trattato di carattere medico, Del bever caldo, in cui riprendeva diverse idee
già trattate in precedenza riguardo allo spirito e ai consigli per la sua
conservazione[2]. Opere Digestum vetus
seu Pandectarum iuris civilis: commentarijs Accursii ... praecipue autem Antonii
Persii philosophiae ... illustratus, Venezia, Francesco De Franceschi, Gaspare
Bindoni, Nicolò Bevilacqua, Damiano Zenaro, 1574. Trattato dell'ingegno dell'huomo, Venezia,
Aldo Manuzio, 1576. Liber nouarum positionum, in Rhetoricis Dialecticis Ethicis
Iure ciuili Iure pontificio Physicis, Venezia, Iacopo Simbeni, 1575. Digestum
vetus, seu Pandectarum iuris civilis tomus primus: cum pandectis florentini,
Venezia, De Franceschi, Francesco ; Bindoni, Gaspare, il vecchio ; Bevilacqua,
Niccolò ; Zenaro, Damiano, 1575. Disputationes libri novarum positionum Antonii
Persii, triduo habitae Venetiis anno MDLXXV, mense maio. Edidit Andreas
Alethinus, Firenze, Marescotti, 1576. Del bever caldo, costumato da gli antichi
Romani , Venezia, Ciotti, 1593. B. Telesio, Varii de naturalibus rebus libelli
ab Antonio Persio editi, Venezia, Felice Valgrisio, 1590. Varii de naturalibus
rebus libelli Note ^ "Antonius Persius vixi annis LXIX. mensibus VIII.
diebus V. Ad plures abij anno salutis 1612. XI kalendas Februarias", Index
capitum librorum Abbatis Antonii Persii lyncei De ratione recte philosophandi
et de natura ignis, et caloris, Romae, apud I. Mascardum 1613, p. 6 n.n. Scheda «Trattato dell'ingegno dell'huomo»
Libraweb.net Collegamenti esterni Antonio Persio, su Treccani.it – Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Antonio
Persio, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Antonio Persio, su Open Library,
Internet Archive. Modifica su Wikidata «Persio, Antonio», in Dizionario di
filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Controllo di
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Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia Categorie: Filosofi
italiani del XVI secoloNati nel 1543Morti nel 1612Morti l'11 febbraioNati a
MateraMorti a Roma[altre]
Pessina Enrico Pessina Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to
navigationJump to search Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando
il rugbista a 15 e scrittore, vedi Enrico Pessina (rugbista). Enrico Pessina
Enrico Pessina.jpg Ministro di grazia e giustizia del Regno d'Italia Durata
mandato 24
novembre 1884 – 29 giugno 1885 Monarca Umberto
I di Savoia Capo del governo Agostino
Depretis Predecessore Niccolò
Ferracciu Successore Diego
Tajani Legislature XV
Ministro dell'Agricoltura, Industria e Commercio del Regno d'Italia Durata
mandato 10 novembre 1878
– 19 dicembre 1878 Capo del governo Benedetto
Cairoli Predecessore Benedetto
Cairoli Successore Salvatore
Majorana Calatabiano Legislature XIII
Senatore del Regno d'Italia Legislature dalla
XIII Deputato del Regno d'Italia Legislature VIII,
X, XIII Sito istituzionale Dati generali Titolo di studio Laurea in
Giurisprudenza, Laurea in Filosofia Enrico Pessina (Napoli, 17 ottobre 1828[1]
– Napoli, 24 settembre 1916) è stato un giurista, filosofo e politico italiano.
Fu senatore del Regno d'Italia nella XIII legislatura. Indice 1 Biografia
2 Intitolazioni
3 Opere
4 Note
5 Bibliografia
6 Altri
progetti 7 Collegamenti
esterni Biografia Compì all'Università di Napoli sia studi giuridici che
filosofici. Fu allievo di Pasquale Galluppi, di cui curò l'edizione postuma
della "Storia della filosofia", un anno dopo la morte del filosofo
calabrese.[2] Di idee liberali, fu
oppositore dei Borboni, prendendo parte ai moti del 1848. L'anno successivo
pubblicò il suo Manuale di diritto costituzionale che gli procurò la persecuzione
della polizia e poi il carcere. Nel 1856 sposò Giulia Settembrini, figlia di
Luigi Settembrini, all'epoca del matrimonio recluso nell’Isola di Santo
Stefano. Nel 1860 Pessina fuggì dal Regno e risiedette a Livorno, per essere
nominato l'anno dopo professore di diritto nell'Università di Bologna. Con la caduta dei Borboni, tornò a Napoli
dove fu sostituto procuratore generale. Deputato dal 1861 e poi Senatore del
Regno d'Italia dal 1876 (XIII legislatura), fu ministro dell'agricoltura,
industria e commercio nel Governo Cairoli I (1878) e ministro di grazia e
giustizia e culti nel Governo Depretis VI (1884-1885). Nel 1875 fondò la rivista giuridica Il
Filangieri con Federico Persico. Nel
1899 divenne socio dell'Accademia dei Lincei.
Morì nel 1916 nella sua casa in via del Museo Nazionale, strada che
prese in seguito il suo nome: via Enrico Pessina. Anche il palazzo dove visse e
morì è da allora ricordato col suo nome.
Intitolazioni Presso la sede storica dell'Università Federico II di
Napoli c'è un'aula a lui intitolata. A
lui è dedicato uno dei 229 busti di italiani illustri che ornano la passeggiata
del Pincio a Roma. Opere Elementi di procedura penale, 1876 Fra le
numerose sue opere, si ricordano:
Manuale del diritto pubblico costituzionale, Napoli: Stabilimento
poligrafico, 1849. Elementi di procedura penale, Napoli, Nicola Jovene, 1876.
il Naturalismo e le scienze giuridiche, discorso inaugurale letto nella Regia
Università di Napoli il 17 dicembre 1878 da Enrico Pessina, Napoli: Tipografia
dell'Accademia Reale delle Scienze, 1879 1876 Elementi di diritto penale, vol.
1, Napoli, Riccardo Marghieri, 1882. Elementi di diritto penale, vol. 2,
Napoli, Riccardo Marghieri, 1883. Elementi di diritto penale, vol. 3, Napoli,
Riccardo Marghieri, 1885. Manuale del diritto penale italiano, Napoli: Eugenio
Margheri, 1895 Manuale del diritto pubblico costituzionale, con prefazione di
Giorgio Arcoleo e introduzione di Ignazio Tambaro, Napoli: G. Priore, 1900 Note
^ La voce dell'Enciclopedia Italiana a cura di Emilio Albertario (vedi
Bibliografia) indica la data del 7 ottobre 1828. ^ Enrico Pessina (a cura di),
Storia della filosofia di Pasquale Galluppi. A cui si aggiunge l'elogio
funebre, Milano : Gio. Silvestri, 1847. Bibliografia Emilio Albertario, «PESSINA,
Enrico» in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
1935. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina
dedicata a Enrico Pessina Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons
contiene immagini o altri file su Enrico Pessina Collegamenti esterni Enrico
Pessina, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Modifica su Wikidata Enrico Pessina, in Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Opere di
Enrico Pessina, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN)
Opere di Enrico Pessina, su Open Library, Internet Archive. Modifica su
Wikidata Enrico Pessina, su storia.camera.it, Camera dei deputati. Modifica su Wikidata
Enrico Pessina, su Senatori d'Italia, Senato della Repubblica. Modifica su
Wikidata Biografia di Enrico Pessina a cura di Luciano Malusa, in La
storiografia filosofica in Italia nell'Ottocento, sito del Dipartimento di
Filosofia dell'Università di Genova. Scheda sul sito del Senato., su
notes9.senato.it. Predecessore Ministro
di grazia e giustizia del Regno d'Italia Successore Flag
of Italy (1861–1946).svg Niccolò Ferracciu 24
novembre 1884 - 29 giugno 1885 Diego
Tajani
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Filosofia Politica Portale Politica Categorie: Senatori della XIII legislatura
del Regno d'ItaliaDeputati dell'VIII legislatura del Regno d'ItaliaDeputati
della X legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XIII legislatura del Regno
d'ItaliaGiuristi italiani del XIX secoloFilosofi italiani del XIX
secoloPolitici italiani del XIX secoloNati nel 1828Morti nel 1916Nati il 17
ottobreMorti il 24 settembreNati a NapoliMorti a NapoliMinistri
dell'agricoltura, dell'industria e del commercio del Regno d'ItaliaMinistri di
grazia e giustizia e culti del Regno d'ItaliaGoverno Cairoli IGoverno Depretis
VIStudiosi di diritto penale del XIX secoloStudiosi di diritto penale del XX
secolo[altre]
Petrarca Francesco
Petrarca (Arezzo, 20 luglio 1304 – Arquà, 19 luglio 1374[1]) è stato uno
scrittore, poeta, filosofo e filologo italiano, considerato il precursore
dell'umanesimo e uno dei fondamenti della letteratura italiana, soprattutto
grazie alla sua opera più celebre, il Canzoniere, patrocinato quale modello di
eccellenza stilistica da Pietro Bembo nei primi del Cinquecento. Uomo
moderno, slegato ormai dalla concezione della patria come mater e divenuto
cittadino del mondo, Petrarca rilanciò, in ambito filosofico, l'agostinismo in
contrapposizione alla scolastica e operò una rivalutazione storico-filologica
dei classici latini. Fautore dunque di una ripresa degli studia humanitatis in
senso antropocentrico (e non più in chiave assolutamente teocentrica), Petrarca
(che ottenne la laurea poetica a Roma nel 1341) spese l'intera sua vita nella
riproposta culturale della poetica e filosofia antica e patristica attraverso
l'imitazione dei classici, offrendo un'immagine di sé quale campione di virtù e
della lotta contro i vizi. La storia medesima del Canzoniere, infatti, è più un
percorso di riscatto dall'amore travolgente per Laura che una storia d'amore, e
in quest'ottica si deve valutare anche l'opera latina del Secretum. Le
tematiche e la proposta culturale petrarchesca, oltre ad aver fondato il
movimento culturale umanistico, diedero avvio al fenomeno del petrarchismo,
teso ad imitare stilemi, lessico e generi poetici propri della produzione
lirica volgare dell'aretino.Francesco Petrarca nacque il 20 luglio del 1304 ad
Arezzo e da ser Petracco, notaio, ed Eletta Cangiani (o Canigiani), entrambi
fiorentini[3]. Petracco, originario di Incisa, apparteneva alla fazione dei
guelfi bianchi e fu amico di Dante Alighieri, esiliato da Firenze nel 1302 per
l'arrivo di Carlo di Valois, apparentemente entrato nella città toscana quale
paciere di papa Bonifacio VIII, ma in realtà inviato per sostenere i guelfi
neri contro quelli bianchi. La sentenza del 10 marzo 1302 emanata da Cante
Gabrielli da Gubbio, podestà di Firenze, esiliava tutti i guelfi bianchi,
compreso ser Petracco che, oltre all'oltraggio dell'esilio, fu condannato al
taglio della mano destra[4]. Dopo Francesco, nacque prima un figlio naturale di
ser Petracco di nome Giovanni, del quale Petrarca tacerà sempre nei suoi
scritti e che diverrà monaco olivetano e morirà nel 1384[5]; poi, nel 1307,
l'amato fratello Gherardo, futuro monaco certosino. L'infanzia raminga e
l'incontro con Dante A causa dell'esilio paterno, il giovane Francesco
trascorse l'infanzia in diversi luoghi della Toscana – prima ad Arezzo (dove la
famiglia si era rifugiata in un primo tempo), poi a Incisa e Pisa – dove il
padre era solito spostarsi per ragioni politico-economiche. In questa città il
padre, che non aveva perso la speranza di rientrare in patria, si era riunito
ai guelfi bianchi e ai ghibellini nel 1311 per accogliere l'imperatore Arrigo
VII. Secondo quanto affermato dallo stesso Petrarca nella Familiares, XXI, 15
indirizzata all'amico Boccaccio, in questa città avvenne, probabilmente, il suo
unico e fugace incontro con l'amico del padre, Dante[N 1]. Tra Francia e
Italia (1312-1326) Il soggiorno a Carpentras Tuttavia, già nel 1312 la famiglia
si trasferì a Carpentras, vicino Avignone (Francia), dove Petracco ottenne
incarichi presso la Corte pontificia grazie all'intercessione del cardinale
Niccolò da Prato[6]. Nel frattempo, il piccolo Francesco studiò a Carpentras
sotto la guida del letterato Convenevole da Prato (1270/75-1338)[7], amico del
padre che verrà ricordato dal Petrarca con toni d'affetto nella Seniles, XVI,
1[8]. Alla scuola di Convenevole, presso la quale studiò dal 1312 al 1316[9],
conobbe uno dei suoi più cari amici, Guido Sette, arcivescovo di Genova dal
1358, al quale Petrarca indirizzò la Seniles, X, 2[N 2]. Anonimo,
Laura e il Poeta, Casa di Francesco Petrarca, Arquà Petrarca (Padova).
L'affresco fa parte di un ciclo pittorico realizzato nel corso del Cinquecento
mentre era proprietario Pietro Paolo Valdezocco[10]. Gli studi giuridici a
Montpellier e a Bologna L'idillio di Carpentras durò fino all'autunno del 1316,
allorché Francesco, il fratello Gherardo e l'amico Guido Sette furono inviati
dalle rispettive famiglie a studiare diritto a Montpellier, città della
Linguadoca[11], ricordata anch'essa come luogo pieno di pace e di gioia[12]. Nonostante
ciò, oltre al disinteresse e al fastidio provati nei confronti della
giurisprudenza[N 3], il soggiorno a Montpellier fu funestato dal primo dei vari
lutti che Petrarca dovette affrontare nel corso della sua vita: la morte, a
soli 38 anni, della madre Eletta nel 1318 o 1319[13]. Il figlio, ancora
adolescente, compose il Breve pangerycum defuncte matris (poi rielaborato
nell'epistola metrica 1, 7)[13], in cui vengono sottolineate le virtù della
madre scomparsa, riassunte nella parola latina electa[14]. Il padre, poco
dopo la scomparsa della moglie, decise di cambiare sede per gli studi dei figli
inviandoli, nel 1320, nella ben più prestigiosa Bologna, anche questa volta
accompagnati da Guido Sette[13] e da un precettore che seguisse la vita quotidiana
dei figli[15]. In questi anni Petrarca, sempre più insofferente verso gli studi
di diritto, si legò ai circoli letterari felsinei, divenendo studente e amico
dei latinisti Giovanni del Virgilio e Bartolino Benincasa[16], coltivando così
i primi studi letterari e iniziando quella bibliofilia che lo accompagnò per
tutta la vita[17]. Gli anni bolognesi, al contrario di quelli trascorsi in
Provenza, non furono tranquilli: nel 1321 scoppiarono violenti tumulti in seno
allo Studium in seguito alla decapitazione di uno studente, fatto che spinse
Francesco, Gherardo e Guido a ritornare momentaneamente ad Avignone[18]. I tre
rientrarono a Bologna per riprendervi gli studi dal 1322 al 1325, anno in cui
Petrarca ritornò ad Avignone per «prendere a prestito una grossa somma di
denaro»[18], vale a dire 200 lire bolognesi spese presso il libraio bolognese
Bonfigliolo Zambeccari[19].Nel 1326 ser Petracco morì[20], permettendo a
Petrarca di lasciare finalmente la facoltà di diritto a Bologna e di dedicarsi
agli studi classici che sempre più lo appassionavano. Per dedicarsi a tempo
pieno a quest'occupazione doveva trovare una fonte di sostentamento che gli
permettesse di ottenere un qualche guadagno remunerativo: lo trovò quale membro
del seguito prima di Giacomo Colonna, arcivescovo di Lombez[21]; poi del
fratello di Giacomo, il cardinale Giovanni, dal 1330[22]. L'essere entrato a
far parte della famiglia, tra le più influenti e potenti dell'aristocrazia
romana, permise a Francesco di ottenere non soltanto quella sicurezza di cui
aveva bisogno per iniziare i propri studi, ma anche di estendere le sue
conoscenze in seno all'élite culturale e politica europea. Difatti, in
veste di rappresentante degli interessi dei Colonna, Petrarca compì, tra la
primavera e l'estate del 1333, un lungo viaggio nell'Europa del Nord, spinto
dall'irrequieto e risorgente desiderio di conoscenza umana e culturale che
contrassegnò l'intera sua agitata biografia: fu a Parigi, Gand, Liegi,
Aquisgrana, Colonia, Lione[23]. Particolarmente importante fu la
primavera/estate del 1330 allorché, nella città di Lombez, Petrarca conobbe
Angelo Tosetti e il musico e cantore fiammingo Ludwig Van Kempen, il Socrate
cui verrà dedicata la raccolta epistolare delle Familiares[24]. Poco dopo
essere entrato a far parte del seguito del vescovo Giovanni, Petrarca prese gli
ordini sacri, divenendo canonico, col fine di ottenere i benefici connessi
all'ente ecclesiastico di cui era investito[N 4]. Nonostante la sua condizione
di religioso (è attestato che dal 1330 il Petrarca è nella condizione di
chierico[25]), ebbe comunque dei figli nati con donne ignote, figli tra cui
spiccano per importanza, nella successiva vita del poeta, Giovanni (nato nel
1337), e Francesca (nata nel 1343)[26]. Ritratto di Laura, in un
disegno conservato presso la Biblioteca Medicea Laurenziana[27]. L'incontro con
Laura Secondo quanto afferma nel Secretum, Petrarca incontrò per la prima
volta, nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone, il 6 aprile del 1327 (che
cadde di lunedì. Pasqua fu il 12 aprile, e il Venerdì santo il 10 aprile in
quell'anno), Laura, la donna che sarà l'amore della sua vita e che sarà
immortalata nel Canzoniere. La figura di Laura ha suscitato, da parte dei
critici letterari, le opinioni più diverse: identificata da alcuni con una
Laura de Noves coniugata de Sade[N 5] (morta nel 1348 a causa della peste, come
la stessa Laura petrarchesca), altri invece tendono a vedere in tale figura un
senhal dietro cui nascondere la figura dell'alloro poetico (pianta che, per
gioco etimologico, si associa al nome femminile), suprema ambizione del
letterato Petrarca[28]. L'attività filologica La scoperta dei classici e
la spiritualità patristica Come accennato prima, Petrarca manifestò già durante
il soggiorno bolognese una spiccata sensibilità letteraria, professando una
grandissima ammirazione per l'antichità classica. Oltre agli incontri con
Giovanni del Virgilio e Cino da Pistoia, importante per la nascita della
sensibilità letteraria del poeta fu il padre stesso, fervente ammiratore di Cicerone
e della letteratura latina. Difatti ser Petracco, come racconta Petrarca nella
Seniles, XVI, 1, donò al figlio un manoscritto contenente le opere di Virgilio
e la Rethorica di Cicerone[N 6] e, nel 1325, un codice delle Etymologiae di
Isidoro di Siviglia e uno contenente le lettere di san Paolo[29]. In
quello stesso anno, dimostrando la passione sempre crescente per la Patristica,
il giovane Francesco comprò un codice del De Civitate Dei di Agostino d'Ippona
e, verso il 1333[30], conobbe e cominciò a frequentare l'agostiniano Dionigi di
Borgo San Sepolcro, dotto monaco agostiniano e professore di teologia alla
Sorbona[31]. Dionigi regalò al giovane Petrarca un codice tascabile delle
Confessiones, lettura che aumentò ancor di più la passione del Nostro per la
spiritualità patristica agostiniana[32]. Dopo la morte del padre e l'essere
entrato a servizio dei Colonna, Petrarca si buttò a capofitto nella ricerca di
nuovi classici, cominciando a visionare i codici della Biblioteca Apostolica
(ove scoprì la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio[33]) e, nel corso del
viaggio nel Nord Europa compiuto nel 1333, Petrarca scoprì e ricopiò il codice
del Pro Archia poeta di Cicerone e dell'apocrifa Ad equites romanos, conservati
nella Biblioteca Capitolare di Liegi[34].Oltre alla dimensione di explorator,
Petrarca cominciò a sviluppare, tra gli anni Venti e Trenta, le basi per la
nascita del metodo filologico moderno, basato sul metodo della collatio,
sull'analisi delle varianti (e quindi sulla tradizione manoscritta dei
classici, depurandoli dagli errori dei monaci amanuensi con la loro emendatio
oppure completando i passi mancanti per congettura). Sulla base di queste
premesse metodologiche, Petrarca lavorò alla ricostruzione, da un lato, dell'Ab
Urbe condita dello storico latino Tito Livio; dall'altro, della composizione
del grande codice contenente le opere di Virgilio e che, per la sua attuale
locazione, è chiamato Virgilio ambrosiano[N 7]. Da Roma a Valchiusa:
l'Africa e il De viris illustribus Marie Alexandre Valentin Sellier, La
farandole de Pétrarque (La farandola di Petrarca), olio su tela, 1900. Sullo
sfondo si può notare il Castello di Noves, nella località di Valchiusa, il
luogo ameno in cui Petrarca trascorse gran parte della sua vita fino al 1351,
anno in cui lasciò la Provenza per l'Italia. Mentre portava avanti questi
progetti filologici, Petrarca cominciò a intrattenere con papa Benedetto XII
(1334-1342) un rapporto epistolare (Epistolae metricae I, 2 e 5) con cui
esortava il nuovo pontefice a ritornare a Roma[35] e continuò il suo servizio
presso il cardinale Giovanni Colonna, su concessione del quale poté
intraprendere un viaggio a Roma, dietro richiesta di Giacomo Colonna che
desiderava averlo con sé[36]. Giuntovi sul finire di gennaio del 1337[37], nella
Città Eterna Petrarca poté toccare con mano i monumenti e le antiche glorie
dell'antica capitale dell'Impero Romano, rimanendone estasiato[38]. Rientrato
nell'estate del 1337 in Provenza, Petrarca comprò una casa a Valchiusa,
appartata località sita nella valle della Sorgue[39], nel tentativo di sfuggire
all'attività frenetica avignonese, ambiente che lentamente cominciò a detestare
in quanto simbolo della corruzione morale in cui era caduto il Papato[N 8].
Valchiusa (che durante le assenze del giovane poeta era affidata al fattore
Raymond Monet di Chermont[40]) fu anche il luogo ove Petrarca poté concentrarsi
nella sua attività letteraria e accogliere quel piccolo cenacolo di amici
eletti (a cui si aggiunse il vescovo di Cavaillon, Philippe de Cabassolle[41])
con cui trascorrere giornate all'insegna del dialogo colto e della
spiritualità. «Più o meno in quello stesso periodo, illustrando a Giacomo
Colonna la vita condotta a Valchiusa nel primo anno della sua dimora lì,
Petrarca delinea uno di quegli autoritratti manierati che diventeranno un luogo
comune della sua corrispondenza: passeggiate campestri, amicizie scelte,
letture intense, nessuna ambizione se non quella del quieto vivere (Epist. I 6,
156-237).» (Pacca, pp. 34-35) Fu in questo periodo appartato che
Petrarca, forte della sua esperienza filologico-letteraria, incominciò a
stendere le due opere che sarebbero dovute diventare il simbolo della
rinascenza classica: l'Africa e il De viris illustribus. La prima, opera in
versi intesa a ricalcare le orme virgiliane, narra dell'impresa militare romana
della seconda guerra punica, incentrata sulle figure di Scipione l'Africano,
modello etico insuperabile della virtù civile della Repubblica romana. La
seconda, invece, è un me Gli anni successivi all'incoronazione poetica,
quelli compresi tra il 1341 e il 1348, furono contrassegnati da un perenne
stato d'inquietudine morale, dovuta sia a eventi traumatici della
vita daglione di 36 vite di uomini illustri improntata sul modello
liviano e quello floriano[42]. La scelta di comporre un'opera in versi e
un'opera in prosa, ricalcanti i modelli sommi dell'antichità nei due rispettivi
generi letterari e intesi a recuperare, oltre alla veste stilistica, anche
quella spirituale degli antichi, diffusero presto il nome di Petrarca al di là
dei confini provenzali, giungendo in Italia. Tra l'Italia e la Provenza
(1341-1353) Giusto di Gand, Francesco Petrarca, pittura, XV secolo,
Galleria Nazionale delle Marche, Urbino. L'alloro con cui Petrarca fu incoronato
rivitalizzò il mito del poeta laureato, figura che diventerà un'istituzione
pubblica in Paesi quali il Regno Unito[43]. L'incoronazione poetica Il nome di
Petrarca quale uomo eccezionalmente colto e grande letterato fu diffuso grazie
all'influenza della famiglia Colonna e dell'agostiniano Dionigi[44]. Se i primi
avevano influenza presso gli ambienti ecclesiastici e gli enti a essi collegati
(quali le Università europee, tra le quali spiccava la Sorbona), padre Dionigi
fece conoscere il nome dell'Aretino presso la corte del re di Napoli Roberto
d'Angiò, presso il quale fu chiamato in virtù della sua erudizione[45].
Petrarca, approfittando della rete di conoscenze e di protettori di cui
disponeva, pensò di ottenere un riconoscimento ufficiale per la sua attività
letteraria innovatrice a favore dell'antichità, patrocinando così la sua
incoronazione poetica[46]. Difatti, nella Familiares, II, 4, Petrarca confidò
al padre agostiniano la sua speranza di ricevere l'aiuto del sovrano angioino
per realizzare questo suo sogno, intessendone le lodi[47]. Nel contempo,
il 1º settembre del 1340, la Sorbona fece sapere al Nostro l'offerta di una
incoronazione poetica a Parigi; proposta che, nel pomeriggio dello stesso
giorno, giunse analoga dal Senato di Roma[48]. Su consiglio di Giovanni
Colonna, Petrarca, che desiderava essere incoronato nell'antica capitale
dell'Impero romano, accettò la seconda offerta[49], accogliendo poi l'invito di
re Roberto di essere esaminato da lui stesso a Napoli prima di arrivare a Roma
per ottenere la sospirata incoronazione. Le fasi di preparazione per il
fatidico incontro con il sovrano angioino durarono tra l'ottobre 1340 e i primi
giorni del 1341 se il 16 febbraio Petrarca, accompagnato dal signore di Parma
Azzo da Correggio, si mise in viaggio per Napoli col fine di ottenere
l'approvazione del colto sovrano angioino. Giunto nella città partenopea a fine
febbraio, fu esaminato per tre giorni da re Roberto che, dopo averne constatato
la cultura e la preparazione poetica, acconsentì all'incoronazione a poeta in
Campidoglio per mano del senatore Orso dell'Anguillara[50]. Se conosciamo da un
lato sia il contenuto del discorso di Petrarca (la Collatio laureationis), sia
la certificazione dell'attestato di laurea da parte del Senato romano (il
Privilegium lauree domini Francisci Petrarche, che gli conferiva anche
l'autorità per insegnare e la cittadinanza romana)[51], la data
dell'incoronazione è incerta: tra quanto affermato da Petrarca e quanto poi
testimoniato da Boccaccio, la cerimonia d'incoronazione avvenne in un arco
temporale tra l'8 e il 17 di aprile[52]. In seguito all'incoronazione
incominciò a comporre l'Africa e il De viris illustribus.[53]Gli anni
successivi all'incoronazione poetica, quelli compresi tra il 1341 e il 1348,
furono contrassegnati da un perenne stato d'inquietudine morale, dovuta sia a
eventi traumatici della vita privata, sia all'inesorabile disgusto verso
la corruzione avignonese[55]. Subito dopo l'incoronazione poetica, mentre
Petrarca sostava a Parma, seppe della prematura scomparsa dell'amico Giacomo
Colonna (avvenuta nel settembre del 1341[56]), notizia che lo turbò
profondamente[N 9]. Gli anni successivi non recarono conforto al poeta
laureato: da un lato le morti prima di Dionigi (31 marzo 1342[57]) e, poi, di
re Roberto (19 gennaio 1343[58]) ne accentuarono lo stato di sconforto;
dall'altro, la scelta da parte del fratello Gherardo di abbandonare la vita
mondana per diventare monaco nella Certosa di Montreaux, spinsero Petrarca a
riflettere sulla caducità del mondo[59]. Nell'autunno del 1342[60],
mentre Petrarca soggiornava ad Avignone, conobbe il futuro tribuno Cola di
Rienzo (giunto in Provenza quale ambasciatore del regime democratico
instauratosi a Roma), col quale condivideva la necessità di ridare a Roma
l'antico status di grandezza politica che, come capitale dell'antica Roma e
sede del papato, le spettava di diritto[61]. Nel 1346 Petrarca fu nominato
canonico del Capitolo della cattedrale di Parma, mentre nel 1348 fu nominato
arcidiacono.[62] La caduta politica di Cola nel 1347, favorita specialmente
dalla famiglia Colonna, sarà la spinta decisiva da parte di Petrarca per
abbandonare i suoi antichi protettori: fu infatti in quell'anno che lasciò,
ufficialmente, l'entourage del cardinale Giovanni[63]. A fianco di queste
esperienze private, il cammino dell'intellettuale Petrarca fu invece
caratterizzato da una scoperta importantissima. Nel 1345, dopo essersi
rifugiato a Verona in seguito all'assedio di Parma e la caduta in disgrazia
dell'amico Azzo da Correggio (dicembre 1344)[64], Petrarca scoprì nella
biblioteca capitolare le epistole ciceroniane ad Brutum, ad Atticum e ad
Quintum fratrem, fino ad allora sconosciute[N 10]. L'importanza della scoperta
consistette nel modello epistolografico che esse trasmettevano: i colloquia a
distanza con gli amici, l'uso del tu al posto del voi proprio
dell'epistolografia medievale ed, infine, lo stile fluido e ipotattico
indussero l'Aretino a comporre anch'egli delle raccolte di lettere sul modello
ciceroniano e senecano, determinando la nascita delle Familiares prima, e delle
Seniles poi[65]. A questo periodo di tempo risalgono anche i Rerum memorandarum
libri (lasciati incompiuti), l'avvio del De otio religioso e del De vita
solitaria tra il 1346 e il 1347 che furono rimaneggiati negli anni
successivi[64]. Sempre a Verona, Petrarca ebbe modo di conoscere Pietro
Alighieri, figlio di Dante, con cui intrattenne rapporti cordiali[66]. La
peste nera (1348-1349) «La vita, come suol dirsi, ci sfuggì dalle mani: le
nostre speranze furon sepolte cogli amici nostri. Il 1348 fu l'anno che ci rese
miseri e soli.» (Delle cose familiari, prefazione, A Socrate [Ludwig van
Kempen], traduzione di G. Fracassetti, 1, p. 239) Dopo essersi slegato dai
Colonna, Petrarca cominciò a cercare nuovi patroni presso cui ottenere
protezione. Pertanto, lasciata Avignone insieme al figlio Giovanni, giunse il
25 gennaio del 1348 a Verona, località dove si era rifugiato l'amico Azzo da
Correggio dopo essere stato scacciato dai suoi domini[67], per poi giungere a
Parma nel mese di marzo, dove strinse legami con il nuovo signore della città,
il signore di Milano Luchino Visconti[68]. Fu, però, in questo periodo che
iniziò a diffondersi per l'Europa la terribile peste nera, morbo che causò la
morte di molti amici del Petrarca: i fiorentini Sennuccio del Bene, Bruno
Casini[69] e Franceschino degli Albizzi; il cardinale Giovanni Colonna e il
padre di lui, Stefano il Vecchio[70]; e quella dell'amata Laura, di cui ebbe la
notizia (avvenuta l'8 di aprile) soltanto il 19 maggio[71]. Nonostante il
dilagare del contagio e la prostrazione psicologica in cui cadde a causa della
morte di molti suoi amici, Petrarca continuò le sue peregrinazioni, alla
perenne ricerca di un protettore. Lo trovò in Jacopo II da Carrara, suo estimatore
che nel 1349 lo nominò canonico del duomo di Padova. Il signore di Padova
intese in tal modo trattenere in città il poeta il quale, oltre alla
confortevole casa, in virtù del canonicato ottenne una rendita annua di 200
ducati d'oro, ma per alcuni anni Petrarca avrebbe utilizzato questa abitazione
solo occasionalmente[72][73]. Difatti, costantemente in preda al desiderio di
viaggiare, nel 1349 fu a Mantova, a Ferrara e a Venezia, dove conobbe il doge
Andrea Dandolo[74].L'incontro con Giovanni Boccaccio e gli amici fiorentini
(1350) Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Giovanni Boccaccio § Boccaccio e Petrarca. Nel
1350 prese la decisione di recarsi a Roma per lucrare l'indulgenza dell'Anno
giubilare. Durante il viaggio accondiscese alle richieste dei suoi ammiratori
fiorentini e decise di incontrarsi con loro. L’occasione fu di fondamentale
importanza non tanto per Petrarca, quanto per colui che diventerà il suo
principale interlocutore durante gli ultimi vent'anni di vita, Giovanni Boccaccio.
Il novelliere, sotto la sua guida, incominciò una lenta e progressiva
conversione verso una mentalità ed un approccio più umanistico alla
letteratura, collaborando spesso con il suo venerato praeceptor in progetti
culturali di ampio respiro. Tra questi ricordiamo la riscoperta del greco
antico e la scoperta di antichi codici classici[75]. L'ultimo soggiorno
in Provenza (1351-1353) Tra il 1350 e il 1351, Petrarca risiedette
prevalentemente a Padova, presso Francesco I da Carrara[74]. Qui, oltre a
portare avanti i progetti letterari delle Familiares e le opere spirituali
iniziate prima del 1348, ricevette anche la visita di Giovanni Boccaccio (marzo
1351) in veste di ambasciatore del Comune fiorentino perché accettasse un posto
di docente presso il nuovo Studium fiorentino[76]. Poco dopo, Petrarca fu
spinto a rientrare ad Avignone in seguito all'incontro con i Cardinali Eli de
Talleyrand e Guy de Boulogne, latori della volontà di papa Clemente VI che
intendeva affidargli l'incarico di segretario apostolico[77]. Nonostante
l'allettante offerta del pontefice, l'antico disprezzo verso Avignone e gli
scontri con gli ambienti della corte pontificia (i medici del pontefice[64] e,
dopo la morte di Clemente, l'antipatia del nuovo papa Innocenzo VI[78]) indussero
Petrarca a lasciare Avignone per Valchiusa, dove prese la decisione definitiva
di stabilirsi in Italia. Il periodo italiano (1353-1374) A Milano: la
figura dell'intellettuale umanista Targa commemorativa del soggiorno
meneghino di Petrarca situata agli inizi di Via Lanzone a Milano, davanti alla
basilica di Sant'Ambrogio. Petrarca iniziò il viaggio verso la patria italiana
nell'aprile del 1353[64], accogliendo l'ospitale offerta di Giovanni Visconti,
arcivescovo e signore della città, di risiedere a Milano. Malgrado le critiche
degli amici fiorentini (tra le quali si ricorda quella risentita del
Boccaccio[N 11]), che gli rimproveravano la scelta di essersi messo al servizio
dell'acerrimo nemico di Firenze[N 12], Petrarca collaborò con missioni e ambascerie
(a Parigi e a Venezia; l'incontro con l'imperatore Carlo IV a Mantova e a
Praga) all'intraprendente politica viscontea[79]. Sulla scelta di
risiedere a Milano piuttosto che nella natia Firenze, bisogna ricordare l'animo
cosmopolita proprio del Petrarca[80]. Cresciuto ramingo e lontano dalla sua
patria, Petrarca non risente più dell'attaccamento medievale verso la propria
patria d'origine, ma valuta gli inviti fattigli in base alle convenienze
economiche e politiche. Meglio, infatti, avere la protezione un signore potente
e ricco come Giovanni Visconti prima e, dopo la morte di lui nel 1354, del
successore Galeazzo II[81], che si rallegrerebbero di avere a corte un
intellettuale celebre come Petrarca[82]. Nonostante tale scelta discutibile
agli occhi degli amici fiorentini, i rapporti tra il praeceptor e i suoi
discipuli si ricucirono: la ripresa del rapporto epistolare tra Petrarca e
Boccaccio prima, e la visita di quest'ultimo a Milano nella casa di Petrarca
situata nei pressi di Sant'Ambrogio poi (1359)[83], sono le prove della
concordia ristabilita. Nonostante le incombenze diplomatiche, nel
capoluogo lombardo Petrarca maturò e portò a compimento quel processo di
maturazione intellettuale e spirituale iniziato pochi anni prima, passando
dalla ricerca erudita e filologica alla produzione di una letteratura
filosofica fondata da un lato sull'insoddisfazione per la cultura
contemporanea, dall'altra sulla necessità di una produzione che potesse guidare
l'umanità verso i principi etico-morali filtrati attraverso il neoplatonismo
agostiniano e lo stoicismo cristianeggiante[84]. Con questa convinzione
interiore, Petrarca portò avanti gli scritti iniziati nel periodo della peste:
il Secretum[85] e il De otio religioso[83]; la composizione di opere volte a fissare
presso i posteri l'immagine di un uomo virtuoso i cui principi sono praticati
anche nella vita quotidiana (le raccolte delle Familiares e, dal 1361,
l'avviamento delle Seniles)[86] le raccolte poetiche latine (Epistolae
Metricae) e quelle volgari (i Triumphi e i Rerum Vulgarium Fragmenta, alias il
Canzoniere)[87]. Durante il soggiorno meneghino Petrarca iniziò soltanto una
nuova opera, il dialogo intitolato De remediis utriusque fortune (sui rimedi
della cattiva e della buona sorte), in cui si affrontano problematiche morali
concernenti il denaro, la politica, le relazioni sociali e tutto ciò che è
legato al quotidiano[88].Nel giugno del 1361, per sfuggire alla peste, Petrarca
abbandonò Milano[N 13] per Padova, città da cui nel 1362 fuggì per lo stesso motivo.
Nonostante la fuga da Milano, i rapporti con Galeazzo II Visconti rimasero
sempre molto buoni, tanto che trascorse l'estate del 1369 nel castello
visconteo di Pavia in occasione di trattative diplomatiche[89]. A Pavia
seppellì il piccolo nipote di due anni, figlio della figlia Francesca, nella
chiesa di San Zeno e per lui compose un'epigrafe ancor oggi conservata nei
Musei Civici[90]. Nel 1362, quindi, Petrarca si recò a Venezia, città dove si
trovava il caro amico Donato degli Albanzani[91] e dove la Repubblica gli
concesse in uso Palazzo Molin delle due Torri (sulla Riva degli Schiavoni)[92]
in cambio della promessa di donazione, alla morte, della sua biblioteca, che
era allora certamente la più grande biblioteca privata d'Europa: si tratta
della prima testimonianza di un progetto di "bibliotheca
publica"[93]. La casa veneziana fu molto amata dal poeta, che ne
parla indirettamente nella Seniles, IV, 4 quando descrive, al destinatario
Pietro da Bologna, le sue abitudini quotidiane (la lettera è datata intorno al
1364/65)[94]. Vi risiedette stabilmente fino al 1368 (tranne alcuni periodi a
Pavia e Padova) e vi ospitò Giovanni Boccaccio e Leonzio Pilato. Durante il
soggiorno veneziano, trascorso in compagnia degli amici più intimi[95], della
figlia naturale Francesca (sposatasi nel 1361 con il milanese Francescuolo da
Brossano[96]), Petrarca decise di affidare al copista Giovanni Malpaghini la
trascrizione in bella copia delle Familiares e del Canzoniere[N 14]. La
tranquillità di quegli anni fu turbata, nel 1367, dall'attacco maldestro e
violento mosso alla cultura, all'opera e alla figura sua da quattro filosofi
averroisti che lo accusarono di ignoranza[64]. L'episodio fu l'occasione per la
stesura del trattato De sui ipsius et multorum ignorantia, in cui Petrarca
difende la propria "ignoranza" in campo aristotelico a favore della
filosofia neoplatonica-cristiana, più incentrata sui problemi della natura
umana rispetto alla prima, intesa a indagare la natura sulla base dei dogmi del
filosofo di Stagira[97]. Amareggiato per l'indifferenza dei veneziani davanti
alle accuse rivoltegli, Petrarca decise di abbandonare la città lagunare e
annullare così la donazione della sua biblioteca alla Serenissima.
L'epilogo padovano e la morte (1367-1374) La casa di Petrarca ad Arquà
Petrarca, località sita sui colli Euganei nei pressi di Padova, dove l'ormai
anziano poeta trascorse gli ultimi anni di vita. Della dimora Petrarca parla
nella Seniles, XV, 5. Petrarca, dopo alcuni brevi viaggi, accolse l'invito
dell'amico ed estimatore Francesco I da Carrara di stabilirsi a Padova nella
primavera del 1368[64]. È ancora visibile, in Via Dietro Duomo 26/28 a Padova,
la casa canonicale di Francesco Petrarca, che fu assegnata al poeta in seguito
al conferimento del canonicato. Il signore di Padova donò poi, nel 1369, una
casa situata nella località di Arquà, un tranquillo paese sui colli Euganei,
dove poter vivere[98]. Lo stato della casa, però, era abbastanza dissestato e
ci vollero alcuni mesi prima che potesse avvenire il definitivo trasferimento
nella nuova dimora, avvenuta nel marzo del 1370[99]. La vita dell'anziano
Petrarca, che fu raggiunto dalla famiglia della figlia Francesca nel 1371[100],
si alternò prevalentemente tra il soggiorno nella sua amata casa di Arquà[N 15]
e quella vicina al Duomo di Padova[101], allietato spesso dalle visite dei suoi
vecchi amici ed estimatori, oltre a quelli nuovi conosciuti nella città veneta,
tra cui si ricorda Lombardo della Seta, che dal 1367 aveva sostituito Giovanni
Malpaghini quale copista e segretario del poeta laureato[102]. In quegli anni
Petrarca si mosse dal padovano soltanto una volta quando, nell'ottobre del
1373, fu a Venezia quale paciere per il trattato di pace tra i veneziani e
Francesco da Carrara[103]: per il resto del tempo si dedicò alla revisione
delle sue opere e, in special modo, del Canzoniere, attività che portò avanti
fino agli ultimi giorni di vita[79]. Colpito da una sincope, morì ad
Arquà nella notte fra il 18 e il 19 luglio del 1374[103], esattamente alla
vigilia del suo settantesimo compleanno e, secondo la leggenda, mentre
esaminava un testo di Virgilio, come auspicato in una lettera al
Boccaccio[104]. Il frate dell'Ordine degli Eremitani di sant'Agostino
Bonaventura Badoer Peraga fu scelto per tenere l'orazione funebre in occasione
dei funerali, che si svolsero il 24 luglio nella chiesa di Santa Maria Assunta
alla presenza di Francesco da Carrara e di molte altre personalità laiche ed
ecclesiastiche[105]. Per volontà testamentaria le spoglie di Petrarca
furono sepolte nella chiesa parrocchiale del paese[105], per poi essere
collocate dal genero, nel 1380, in un'arca marmorea accanto alla chiesa[106].
Le vicende dei resti del Petrarca, come quelli di Dante, non furono tranquille.
Come racconta Giovanni Canestrini in un suo volume scritto in occasione del
500º anniversario della morte del Petrarca «Nel 1630, e precisamente dopo
la mezzanotte del 27 maggio, questa tomba fu spezzata all'angolo di mezzodì
[quindi a sud, n.d.a], e vennero rapite alcune ossa del braccio destro. Autore
del furto fu un certo Tommaso Martinelli, frate da Portogruaro, il quale, a
quanto dice un'antica pergamena dell'archivio comunale di Arquà, venne spedito
in quel luogo dai fiorentini, con ordine di riportare seco qualche parte dello
scheletro del Petrarca. La veneta repubblica fece riattare l'urna, suggellando
con arpioni le fenditure del marmo, e ponendovi lo stemma di Padova e l'epoca
del misfatto.» (Canestrini, p. 2) I resti trafugati non furono mai
recuperati. Nel 1843 la tomba, che versava in stato pessimo, venne sottoposta a
restauro del quale venne incaricato lo storico patavino Pier Carlo Leoni,
impietosito dallo stato pessimo in cui il sepolcro versava.[107] Il Leoni,
però, a seguito di complicazioni burocratiche e di conflitti di competenza e
questioni anche politiche, fu addirittura processato con l'accusa di
"violata sepoltura".[108] Il dilemma dei resti Il 5 aprile 2004
vennero resi noti i risultati dell'analisi dei resti conservati nella tomba del
poeta ad Arquà Petrarca: il teschio presente, peraltro ridotto in frammenti,
una volta ricostruito, è stato riconosciuto come femminile e quindi non
pertinente. Un frammento di pochi grammi del cranio, inviato a Tucson in
Arizona ed esaminato con il metodo del radiocarbonio, ha inoltre consentito di
accertare che il cranio femminile ritrovato nel sepolcro risale al 1207 circa.
A chi sia appartenuto e perché si trovasse nella tomba del Petrarca è ancora un
mistero, come un mistero è dove sia finito il vero cranio del poeta. Lo scheletro
è stato invece riconosciuto come autentico: esso riporta alcune costole
fratturate; Petrarca fu infatti ferito da una cavalla con un calcio al
costato[109][110]. Pensiero e poetica Anonimo, Francesco Petrarca
nello studium, affresco murale, ultimo quarto del secolo XIV, Reggia Carrarese,
Sala dei Giganti, Padova. Il messaggio petrarchesco Il concetto di humanitas
Petrarca, fin dalla giovinezza, manifestò sempre un'insofferenza innata nei
confronti della cultura a lui coeva. Come già ricordato nella sezione
biografica, la sua passione per l'agostinismo da un lato, e per i classici
latini "liberati" dalle interpretazioni allegoriche medievali
dall'altro, pongono Petrarca come l'iniziatore dell'umanesimo che, nel corso
del XV secolo, si svilupperà prima in Italia, e poi nel resto d'Europa[111].
Nel De remediis utriusque fortune, ciò che interessa maggiormente a Petrarca è
l'humanitas, cioè l'insieme delle qualità che danno fondamento ai valori più
umani della vita, con un'ansia di meditazione e di ricerca tra erudita ed
esistenziale intesa ad indagare l'anima in tutte le sue sfaccettature[112]. Di
conseguenza, Petrarca pone al centro della sua riflessione intellettuale
l'essere umano, spostando l'attenzione dall'assoluto teocentrismo (tipico della
cultura medievale) all'antropocentrismo moderno. Petrarca e i classici
Fondamentale, nel pensiero petrarchesco, è la riscoperta dei classici. Già
conosciuti nel Medioevo, erano stati oggetto però di una rivisitazione in
chiave cristiana, che non teneva quindi conto del contesto storico-culturale in
cui le opere erano state scritte[113]. Per esempio, la figura di Virgilio fu
vista come quella di un mago/profeta, capace di adombrare, nell'Ecloga IV delle
Bucoliche, la nascita di Cristo, anziché quella di Asinio Gallo, figlio del
politico romano Asinio Pollione: un'ottica che Dante accolse pienamente nel
Virgilio della Commedia[114]. Petrarca, rispetto ai suoi contemporanei, rifiuta
il travisamento dei classici operato fino a quel momento, ridando loro quella
patina di storicità e di inquadramento culturale necessaria per stabilire con
essi un colloquio costante, come fece nel libro XXIV delle
Familiares[115]: «Scrivere a Cicerone o a Seneca, celebrandone l'opera o
magari deplorandone con benevolenza mancanze e contraddizioni, era per lui un
modo letterariamente tangibile (e per noi assai significativo simbolicamente)
di mostrare quanto a loro dovesse, quanto li sentisse, appunto, idealmente suoi
contemporanei.» (Guglielmino-Grosser, p. 182) Oltre alle epistole, all'Africa
e al De viris illustribus, Petrarca operò tale riscoperta attraverso il metodo
filologico da lui ideato tra il 1325 e il 1337 e la ricostruzione dell'opera
liviana e la composizione del Virgilio ambrosiano. Altro aspetto da cui
traspare questo innovativo approccio alle fonti e alle testimonianze
storico-letterarie si avverte, anche, nell'ambito della numismatica, della
quale Petrarca è ritenuto il precursore[116].Per quanto riguarda la prima
opera, Petrarca decise di riunire le varie decadi (cioè i libri di cui l'opera
è composta) allora conosciute (I, III e IV decade) in un unico codice,
l'attuale codice Harleiano 2193, conservato ora al British Museum di
Londra[117]. Il giovane Petrarca si dedicò a quest'opera di collazione per
cinque anni, dal 1325 al 1330, grazie ad un lavoro di ricerca e di enorme
pazienza[118]. Nel 1326, Petrarca prese la terza decade (tramandata da un
manoscritto risalente al XIII secolo[119]), correggendola e integrandola ora
con un manoscritto veronese del X secolo vergato dal dotto vescovo
Raterio[119], ora con una lezione conservata nella Biblioteca Capitolare della
Cattedrale di Chartres[120], il Parigino Latino 5690 acquistato dal vecchio
canonico Landolfo Colonna[121], contenente anche la quarta decade[119].
Quest'ultima fu poi corretta su di un codice risalente al secolo precedente e
appartenuto al preumanista padovano Lovato Lovati (1240-1309)[119]. Infine,
dopo aver raccolto anche la prima decade, Petrarca poté procedere a riunire gli
sparsi lavori di recupero nel 1330[122]. Il Virgilio Ambrosiano L'impresa
riguardante la costruzione del Virgilio ambrosiano è invece molto più
complessa. Iniziato già quand'era in vita il padre Petracco, il lavoro di
collazione portò alla nascita di un codice composto di 300 fogli manoscritti
che conteneva l'omnia virgiliana (Bucoliche, Georgiche ed Eneide commentati dal
grammatico Servio del VI secolo), al quale furono aggiunte quattro Odi di
Orazio e l'Achilleide di Stazio[123]. Le vicende di tale manoscritto sono assai
travagliate. Sottrattogli nel 1326 dagli esecutori testamentari del padre, il
Virgilio ambrosiano verrà recuperato solo nel 1338, data in cui Petrarca
commissionò al celebre pittore Simone Martini una serie di miniature che lo
abbellirono esteticamente[124]. Alla morte del Petrarca il manoscritto finì
nella biblioteca dei Carraresi a Padova, tuttavia, nel 1388, Gian Galeazzo
Visconti conquistò Padova ed il codice fu inviato, insieme ad altri manoscritti
del Petrarca, a Pavia, nella Biblioteca Visconteo-Sforzesca situata nel castello
di Pavia[125]. Nel 1471 Galeazzo Maria Sforza ordinò al castellano di Pavia di
prestare, per 20 giorni, il manoscritto allo zio Alessandro signore di Pesaro,
poi il Virgilio Ambrosiano tornò a Pavia. Nel 1499, Luigi XII conquistò il
Ducato di Milano e la biblioteca Visconteo-Sforzesca venne trasferita in
Francia, dove ancora si conservano, nella Bibliothèque nationale de France,
circa 400 manoscritti provenienti da Pavia. Tuttavia il Virgilio Ambrosiano fu
sottratto al saccheggio francese da un certo Antonio di Pirro. Sappiamo che a
fine Cinquecento si trovava a Roma, ed era di proprietà del cardinal Agostino
Cusani, fu poi acquistato da Federico Borromeo per l'Ambrosiana[126].
L'umanesimo cristiano Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso
argomento in dettaglio: Umanesimo cristiano. La religiosità petrarchesca Il
messaggio petrarchesco, nonostante la sua presa di posizione a favore della
natura umana, non si dislega dalla dimensione religiosa: difatti, il legame con
l'agostinismo e la tensione verso una sempre più ricercata perfezione morale
sono chiavi costanti all'interno della sua produzione letteraria e filosofica.
Rispetto, però, alla tradizione medievale, la religiosità petrarchesca è
caratterizzata da tre nuove accezioni prima mai manifestate: la prima, il
rapporto intimo tra l'anima e Dio, un rapporto basato sull'autocoscienza
personale alla luce della verità divina[127]; la seconda, la rivalutazione
della tradizione morale e filosofica classica, vista in un rapporto di
continuità con il cristianesimo e non più in chiave di contrasto o di mera
subordinazione[128]; infine, il rapporto "esclusivo" tra Petrarca e
Dio, che rifiuta la concezione collettiva propria della Commedia
dantesca[129]. Comunanza tra valori classici e cristiani La lezione morale
degli antichi è universale e valida per ogni epoca: l'humanitas di Cicerone non
è diversa da quella di Agostino, in quanto esprimono gli stessi valori, quali
l'onestà, il rispetto, la fedeltà nell'amicizia e il culto della
conoscenza[130]. Sul legame spirituale tra gli antichi e i cristiani è
significativo il celebre passo della morte di Magone, fratello di Annibale che,
nell'Africa VI, vv. 889-913[131], ormai morente, pronuncia un discorso sulla
vanità delle cose umane e sul valore liberatorio della morte dalle fatiche
terrene che in nessun modo si discosta dal pensiero cristiano[132], anche se
tale discorso fu criticato da molti ambienti che ritenevano una scelta infelice
porre in bocca ad un pagano un pensiero così cristiano[133]. Ecco un passo del
lamento di Magone: Edizione dell'Africa stampata nel 1501 a
Venezia, nella stamperia di Aldo Manuzio. Nel particolare, l'Incipit del poema.
(LA) «Heu qualis fortunae terminus alte est! / Quam laetis mens caeca bonis!
furor ecce potentum / praecipiti gaudere loco; status iste procellis / subjacet
innumeris, et finis ad alta levatis / est ruere. Heu tremulum magnorum culmen
honorum, Spesque hominum fallax, et inanis gloria fictis / illita blanditiis!
Heu vita incerta labori / dedita perpetuo, semperque heu certa, nec unquam /
Stat morti praevisa dies! Heu sortis iniquae / natus homo in terris!»
(IT) «O qual è il traguardo dell'alta sorte! / Quanto l'anima (è) cieca davanti
alle fauste imprese! Ecco la follia dei potenti, godere delle altezze vertiginose;
questo stato è esposto ad infinite tempeste, ed è destinato a cadere chi si è
innalzato a quelle vette. O tremante sommità dei grandi onori, fallace speranza
degli uomini, vana gloria adornata da finti piaceri! O vita incerta, dedita ad
una fatica incessante, come certo è il giorno di morte, né mai previsto
abbastanza! O che sorte iniqua per l'uomo nato sulla terra!» (Africa, vv.
889-898) L'agostinismo del Secretum e dell'Ascesa al Monte Ventoso Vista
del Mont Ventoux dalla località di Mirabel-aux-Baronnies. Infine, per il suo
carattere fortemente personale, l'umanesimo cristiano petrarchesco trova nel
pensiero di sant'Agostino il proprio modello etico-spirituale, contrario al
sistema filosofico tolemaico-aristotelico allora imperante nella cultura
teologica, visto come alieno dalla cura dell'anima umana[134]. A tal proposito,
il filosofo Giovanni Reale delinea lucidamente la posizione di Petrarca verso
la cultura contemporanea: «La diffusione dell'averroismo, col crescente
interesse che suscitava per l'indagine naturalistica, sembra a Petrarca che
distragga pericolosamente da quelle arti liberali, che sole possono dare la
sapienza necessaria per conseguire la pace spirituale in questa vita e la
beatitudine eterna nell'altra [...] La sapienza classica e cristiana, che
Petrarca contrappone alla scienza averroistica, è quella fondata sulla
meditazione interiore attraverso alla quale si chiarisce a sé stessa e si forma
la personalità del singolo uomo.» (Reale, p. 16) L'importanza che
Agostino ebbe per l'uomo Petrarca è evidente in due celebri testi letterari del
Nostro: il Secretum da un lato, in cui il vescovo d'Ippona interloquisce con
Petrarca spingendolo ad un'acuta quanto forte analisi interiore dei propri
peccati; dall'altro, il celebre episodio dell'ascesa al Monte Ventoso, narrato
nella Familiares, IV, 1, inviata (seppur in modo fittizio[N 16]) a Dionigi da
Borgo San Sepolcro[135].La forte vena morale che percorre tutte le opere
petrarchesche, sia latine che volgari, tende a trasmettere un messaggio di perfezione
morale: il Secretum, il De remediis, le raccolte epistolari e lo stesso
Canzoniere sono impregnati di questa tensione etica volta a risanare le
deviazioni dell'anima attraverso la via della virtù[136]. Tale applicazione
etica negli scritti (l'oratio), però, deve corrispondere alla vita quotidiana
(la vita, appunto) se l'umanista vuole trasmettere un'etica credibile ai
destinatari. Prova di questo binomio essenziale è, per esempio, la Familiares,
XXIV, 3 indirizzata a Marco Tullio Cicerone[N 17]. In essa il poeta esprime, in
un tono di amarezza e di rabbia al contempo, la scelta dell'oratore romano di
essersi allontanato dall'otium letterario di Tuscolo per addentrarsi nuovamente
nell'agone politico dopo la morte di Cesare e schierarsi a fianco del giovane
Ottaviano contro Marco Antonio, tradendo così i principi etici esposti nei suoi
trattati filosofici: «Ma qual furore a danno di Antonio ti mosse?
Risponderai per avventura l'amore alla Repubblica, che dicevi caduta in fondo.
Ma se codesta fede, se amore di libertà ti sprone (come di sì grand'uomo
stimare si converrebbe), ond'è che tanto fosti amico di Augusto? [... ] Io ti
compiango, amico, e di sì grandi tuoi falli sento vergogna. [...] Oh! quanto
era meglio ad un filosofo tuo pari nel silenzio dei campi, pensoso, come tu
dici, non della breve e caduca presente vita, ma della eterna, passar
tranquilla vecchiezza [...]» (Delle cose familiari, XXIV, 3, A M.T.
Cicerone, traduzione di G. Fracassetti, 5, p. 141) L'impegno
"civile" del letterato La declinazione dell'impegno morale nella vita
attiva delinea una vocazione "civile" del letterato. Tale attributo,
prima ancora di intendersi come impegno nella vita politica del tempo,
dev'essere compreso nella sua declinazione prettamente sociale, quale impegno del
letterato nell'aiutare gli uomini contemporanei a migliorarsi costantemente
attraverso il dialogo e il senso di carità nei confronti del prossimo[137].
Oltre ai trattati morali, scritti per questo fine, si deve però anche
registrare che cosa significasse per Petrarca, nella sua stessa vita, l'impegno
civile. Il servizio presso i potenti di turno (i Colonna, i Da Correggio, i
Visconti e poi i Da Carrara) spinse gli amici di Petrarca ad avvertirlo della
minaccia che tali regnanti avrebbero potuto costituire per la sua indipendenza
intellettuale; egli, però, nella famosa Epistola posteritati (Epistola ai
posteri), ribadì la sua proclamata indipendenza dagli intrighi di corte:
Altichiero, Ritratto di Francesco Petrarca, dal ms. lat. 6069 f della
Bibliotèque Nationale de France (Parigi), contenente il De viris
illustribus[138]. «I più grandi monarchi dell'età mia m'ebbero in grazia, e
fecero a gara per trarmi a loro, né so perché. Questo so che alcuni di loro
parevan piuttosto essere favoriti della mia, che non favorirmi della loro
dimestichezza: sì che dall'alto loro grado io molti vantaggi, ma nessun
fastidio giammai ebbi ritratto. Tanto peraltro in me fu forte l'amore della mia
libertà, che da chiunque di loro avesse nome di avversarla mi tenni studiosamente
lontano.» (Ai posteri, traduzione di G. Fracassetti, 1, p. 203)
Nonostante l'intento autocelebrativo proprio dell'epistola, Petrarca rimarca il
fatto che i potenti vollero averlo di fianco a sé per questioni di prestigio,
facendo sì che il poeta finisse «per non identificarsi mai fino in fondo con le
loro prese di posizioni»[128]. Il legame con le corti signorili, scelte per
motivazioni economiche e di protezione, gettò pertanto le basi per la figura
dell'intellettuale cortigiano, modello per gli uomini di cultura nei secoli
successivi[128]. Se Dante, costretto a vagare per le corti dell'Italia
centro-settentrionale, soffrì sempre per la lontananza da Firenze[139],
Petrarca fondò, con la sua scelta di vita, il modello dell'intellettuale
cosmopolita, segnando così il tramonto dell'ideologia comunale che era stata
fondamento della sensibilità dantesca prima, e che in parte fu propria del
contemporaneo Boccaccio[140]. L'otium letterario Altra caratteristica
propria dell'intellettuale petrarchesco è l'otium, vale a dire il riposo.
Parola latina indicante, in generale, il riposo dei patrizi romani dalle
attività proprie del negotium[N 18], Petrarca la riprende rivestendola però di
un significato diverso: non più riposo assoluto, ma attività intellettuale nella
tranquillità di un rifugio appartato, solitario ove potersi concentrare e
portare, poi, agli uomini il messaggio morale nato da questo ritiro. Questo
ritiro, come è esposto nei trattati ascetici del De vita solitaria e del De
otio religioso, è vicino, per sensibilità del Petrarca, ai ritiri
ascetico-spirituali dei Padri della Chiesa, dimostrando quindi come l'attività
letteraria sia, nel contempo, fortemente intrisa di carica
religiosa[141].Petrarca, con l'eccezione di due sole opere poetiche, i Triumphi
e il Canzoniere, scrisse esclusivamente in latino, la lingua di quegli antichi
romani di cui voleva riproporre la virtus nel mondo a lui contemporaneo. Egli
credeva di raggiungere il successo con le opere in latino, ma di fatto la sua
fama è legata alle opere in volgare. Al contrario di Dante, che aveva voluto
affidare la sua memoria ai posteri con la Commedia, Petrarca decise di eternare
il suo nome riallacciandosi ai grandi dell'antichità: «Il Petrarca (a
parte una letterina in volgare) scrive sempre in latino quando deve comunicare,
anche privatamente, anche per le annotazioni ai margini dei libri. Questa
scelta del latino come lingua esclusiva della prosa e della normale
comunicazione scritta, inserendosi nel più ampio progetto culturale che ispira
il Petrarca, si carica di valori ideali.» (Guglielmino-Grosser, p. 182)
Petrarca preferì usare il volgare nei momenti di pausa dall'elaborazione delle
grandi opere latine. Difatti, come più volte definì le liriche che confluiranno
nel Canzoniere, esse valgono quali nugae[N 19], cioè quale «elegante
divertimento dello scrittore, a cui dedicò senza dubbio molte cure, ma a cui
non avrebbe mai pensato di affidare quasi per intero la propria immortalità
letteraria»[142]. Il volgare petrarchesco, al contrario di quello dantesco, è
caratterizzato però da un'accurata selezione di termini, cui il poeta continuò
a lavorare, limando le sue poesie (da qui la limatio petrarchesca) per la
definizione di una poesia «aristocratica»[143], elemento che spingerà il
critico letterario Gianfranco Contini a parlare di monolinguismo petrarchesco,
in contrapposizione al pluristilismo dantesco[144]. Dante e Petrarca
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Influenza culturale di Dante Alighieri §
Petrarca e Boccaccio. Dalle considerazioni fatte, emerge chiaramente la
profonda differenza esistente tra Petrarca e Dante: se il primo è un uomo che
supera il teocentrismo medievale incentrato sulla Scolastica in nome del
recupero agostiniano e dei classici "depurati" dall'interpretazione
allegorica cristiana indebitamente appostavi dai commentatori medievali, Dante
mostra invece di essere un uomo totalmente medievale. Oltre alle considerazioni
filosofiche, i due uomini sono antitetici anche per la scelta linguistica cui legare
la propria fama, per la concezione dell'amore, per l'attaccamento alla patria.
Illuminante sul sentimento che Petrarca nutrì per l'Alighieri è la Familiares,
XXI, 15, scritta in risposta all'amico Boccaccio, incredulo delle dicerie
secondo cui Petrarca odiasse Dante. In tale lettera, Petrarca afferma che non
può odiare qualcuno che egli conobbe appena e che affrontò con onore e
sopportazione l'esilio, ma prende le distanze dall'ideologia dantesca,
esprimendo il timore di essere "influenzato" da un così grande
esempio poetico se avesse deciso di scrivere liriche in volgare, liriche che
sono facilmente sottoposte allo storpiamento da parte del volgo[145].
Opere Opere latine in versi L'Africa Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio:
Africa (Petrarca). Altichiero, Ritratto di Francesco Petrarca (in primo
piano) e di Lombardo della Seta, particolare tratto dall'affresco
rappresentante l'episodio di San Giorgio battezza re Servio di Cirene, Oratorio
di San Giorgio, 1376, Padova[146]. Scritto fra il 1339 e il 1342 e in seguito
corretto e ritoccato, Africa è un poema epico che tratta della seconda guerra
punica e in particolare delle gesta di Scipione. Rimasto incompiuto, è formato
da nove libri, mentre avrebbe dovuto essere composto di 12 libri, secondo il
modello dell'Eneide virgiliana[147].Il Bucolicum carmen Magnifying glass icon
mgx2.svg Lo stesso argomento
in dettaglio: Bucolicum carmen. Composto fra il 1346 e il 1358 e costituito da
dodici egloghe, gli argomenti spaziano fra amore, politica e morale. Anche in
questo caso, l'ascendenza virgiliana è evidente dal titolo, che richiama
fortemente lo stile e gli argomenti delle Bucoliche. Attualmente, la lezione
del Bucolicum petrarchesco è riportata dal codice Vaticano lat. 3358[148].
Le Epistolae metricae Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in
dettaglio: Epistolae metricae. Scritte fra il 1333 e il 1361 e dedicate
all'amico Barbato da Sulmona, sono 66 lettere in esametri, di cui alcune
trattano d'amore, mentre per la maggior parte si occupano di politica, morale o
di materie letterarie[149]. I Psalmi penitentiales Scritti nel 1347,
Petrarca ne accenna nella Seniles, X, 1 a Sagremor de Pommiers. Sono una
raccolta di sette preghiere basate sul modello stilistico-linguistico dei salmi
davidici della Bibbia, in cui Petrarca chiede perdono per i suoi peccati e
aspira al perdono della Misericordia divina[150]. Opere latine in
prosa Petrarca, De viris illustribus, codice autografo custodito alla
Bibliothèque Nationale de France di Parigi, classificato come MS Lat. 5784,
fol. 4r. Il De viris illustribus Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: De viris
illustribus (Petrarca). Il De viris illustribus è una raccolta di 36 biografie
di uomini illustri in prosa latina, redatta a partire dal 1338 e dedicata a
Francesco I da Carrara signore di Padova nel 1358. Nell'intenzione originale
dell'autore l'opera doveva trattare la vita di personaggi della storia di Roma
da Romolo a Tito, ma arrivò solo fino a Nerone. In seguito Petrarca aggiunse
personaggi di tutti i tempi, cominciando da Adamo e arrivando a Ercole. L'opera
rimase incompiuta e fu continuata dall'amico e discepolo padovano di Petrarca,
Lombardo della Seta, fino alla vita di Traiano[151]. I Rerum memorandarum
libri Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Rerum memorandarum libri. I Rerum memorandarum
libri (Libri delle gesta memorabili) sono una raccolta di esempi storici e
aneddoti a scopo d'educazione morale in prosa latina, basati sui Factorum et
dictorum memorabilium libri dello scrittore latino Valerio Massimo[152].
Iniziati verso il 1343 in Provenza, furono continuati fino al 1345, allorché
Petrarca scoprì le orazioni ciceroniane a Verona, e ne fu indotto al progetto
delle Familiares. Difatti, furono lasciati incompiuti dall'autore, che ne
scrisse soltanto i primi 4 libri e alcuni frammenti del quinto
libro[153]. Il Secretum Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso
argomento in dettaglio: Secretum. Petrarca, Secretum, Grootseminaire
(Bruges), tratto dal MS 113/78 fol. Ir., realizzato nel 1470 per Jan Crabble.
Il Secretum o De secreto conflictu curarum mearum è una delle opere più celebri
di Petrarca e fu composta tra il 1347 e il 1353, anche se in seguito fu
riveduta. Articolato come un dialogo immaginario in tre libri tra il poeta
stesso (che si fa chiamare semplicemente Francesco) e sant'Agostino, alla
presenza di una donna muta che simboleggia la Verità, il Secretum consiste in
una sorta di esame di coscienza personale nel quale si affrontano temi intimi
del poeta, da cui il titolo dell'opera. Come emerge però nel corso della
trattazione, Francesco non si mostra mai del tutto contrito dei suoi peccati
(l'accidia e l'amore carnale per Laura): al termine dell'esame egli non risulterà
guarito o pentito, dando così forma a quell'irrequietezza d'animo che
contraddistinse la vita del Petrarca[154]. Il De vita solitaria
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: De vita solitaria. Il De vita Solitaria
("La vita solitaria") è un trattato di carattere religioso e morale.
Fu elaborato nel 1346, ma venne successivamente ampliato nel 1353 e nel 1366.
L'autore vi esalta la solitudine, tema caro anche all'ascetismo medioevale, ma
il punto di vista con cui la osserva non è strettamente religioso: al rigore
della vita monastica Petrarca contrappone l'isolamento operoso
dell'intellettuale, dedito alle letture e alla scrittura in luoghi appartati e
sereni, in compagnia di amici e di altri intellettuali. L'isolamento dello
studioso in una cornice naturale che favorisce la concentrazione è l'unica
forma di solitudine e di distacco dal mondo che Petrarca riuscì a conseguire,
non considerandola in contrasto con i valori spirituali cristiani, in quanto
riteneva che la saggezza contenuta nei libri, soprattutto nei testi classici,
fosse in perfetta sintonia con quelli. Da questa sua posizione è derivata
l'espressione di "umanesimo cristiano" di Petrarca[141]. Il De
otio religioso Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: De otio religioso. Redatto all'incirca tra il
1347 e il 1356/57, il De otio religioso è un'esaltazione della vita monastica,
dedicata al fratello Gherardo. Simile al De vita solitaria, esalta però
soprattutto la solitudine legata alle regole degli ordini religiosi, definita
come la migliore condizione di vita possibile[152].Il De remediis utriusque
fortunae Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: De remediis utriusque fortunae. Il De remediis è
una raccolta di brevi dialoghi scritti in prosa latina, redatta all'incirca tra
il 1356 e il 1366, anno in cui fu diffusa. Basata sul modello del De remediis
fortuitorum, trattato pseudo-senechiano composto nel Medioevo, l'opera è
composta da 254 scambi di battute tra entità allegoriche: prima il
"Gaudio" e la "Ragione", poi il "Dolore" e la
"Ragione". Simile ai precedenti Rerum memorandarum libri, questi
dialoghi hanno scopi educativi e moralistici, proponendosi di rafforzare
l'individuo contro i colpi della fortuna sia buona che avversa[155]. Il De
remediis riporta anche una delle più esplicite condanne della cultura
trecentensca da parte del Petrarca, vista come sciocca e superflua: (LA)
«Ut ad plenum auctorum constet integritas, quis scriptorum inscitie inertieque
medebitur corrumpenti omnia miscentique? Cuius metu multa iam, ut auguror, a
magnis operibus clara ingenia refrixerunt meritoque id patitur ignavissima etas
hec, culine sollicita, literarum negligens et coquos examinans, non
scriptores.» (IT) «Perché persista pienamente l'integrità degli scrittori
antichi, chi tra i copisti guarirà ogni cosa dall'ignoranza, dall'inerzia,
dalla rovina e dal caos? Per il timore di ciò si indebolirono, come prevedo,
molti celebri ingegni dalle grandi opere, e quest'epoca indolentissima permette
ciò, dedita alla culinaria, ignorante delle lettere e che valuta i cuochi, e
non i copisti.» (Petrarca, cap. 43) Invectivarum contra medicum quendam
libri IV Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Invectivarum contra medicum quendam libri IV.
L'occasione per la scrittura di questa serie di accuse nei confronti dei medici
fu la malattia che colpì papa Clemente VI nel 1352. Nella Familiares, V, 19,
Petrarca consigliava al pontefice di non fidarsi dei suoi archiatri, accusati
di essere dei ciarlatani dalle idee contrastanti fra di loro. Davanti alle
forti rimostranze dei medici pontifici nei confronti di Petrarca, questi
scrisse quattro libri di accuse, una copia dei quali fu inviata poi al
Boccaccio nel 1357[156]. De sui ipsius et multorum ignorantia Magnifying
glass icon mgx2.svg Lo stesso
argomento in dettaglio: De sui ipsius et multorum ignorantia. Scuola
fiorentina, Il Trionfo della Morte tratta da I Trionfi di Petrarca, XV secolo,
miniatura, ms. Palat.192, f.22r, Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze.
L'opera, come ricordato prima nella sezione biografica relativa al periodo
veneziano, fu scritta in seguito alle accuse di ignoranza che quattro giovani
aristotelici rivolsero a Petrarca, in quanto alieno dalla terminologia e dalle
questioni delle scienze naturali. In quest'apologia del pensiero umanistico,
Petrarca rispose come lui fosse interessato alle scienze che interessassero il
benessere dell'anima umana, e non alle discussioni tecniche e dogmatiche
proprie del nominalismo della tarda scolastica[88]. Invectiva contra
cuiusdam anonimi Galli calumnia Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso
argomento in dettaglio: Invectiva contra cuiusdam anonimi Galli calumnia. Opera
di carattere politico scritta nel 1373, l'invettiva era rivolta ad un monaco e
teologo francese, Jean de Hesdin, sostenitore della necessità che la sede del
Papato rimanesse ad Avignone. Per tutta risposta Petrarca sostenne la necessità
che il papa ritornasse a Roma, sua sede diocesana e simbolo dell'antica gloria
romana[64]. Epistolae Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio:
Epistole. Di grande importanza sono le epistole latine in prosa, in quanto
contribuiscono a costruire l'immagine autobiografica idealizzata che il poeta
stesso ha voluto offrire di sé e quindi la sua eternizzazione. Basate sul
modello ciceroniano-senecano, ricavato dalla scoperta delle Epistulae ad
Atticum compiuta da Petrarca a Verona del 1345[65], le lettere sono disposte in
ordine cronologico e raggruppate in quattro raccolte epistolari: le Familiares
(o Familiarum rerum libri o De rebus familiaribus libri), 350 epistole in 24
libri, dedicate a Ludwig van Kempen, sotto lo pseudonimo di Socrate; le
Seniles, 126 epistole in 17 libri, scritte a partire dal 1361[157] e dedicate a
Francesco Nelli, sotto lo pseudonimo di Simonide; le Sine nomine (cioè
"senza nome del destinatario"), 19 epistole politiche in un libro; e
le Variae, 76 epistole, queste ultime non raggruppate dall'autore, ma dopo la
sua morte dagli amici.[158] È rimasta intenzionalmente esclusa dalle raccolte
l'epistola Posteritati (Ai posteri). Le lettere spaziano dagli anni bolognesi
sino alla fine della vita del Petrarca[159] e sono indirizzate a vari
personaggi suoi contemporanei, ma, nel caso del XXIV libro delle Familiares,
sono rivolte fittiziamente a personaggi dell'antichità. Sempre delle Familiares
è celebre l'epistola IV, 1 incentrata sull'ascesa al Monte Ventoso.Opere in
volgare Francesco Petrarca, Rime, codice membranaceo ms. I 12, c. 1r. conservato
al Museo Petrarchesco Piccolomineo, Trieste, risalente ai secoli fine XV,
inizio XVI. Il particolare riporta il primo sonetto del Canzoniere. Il
Canzoniere Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Canzoniere (Petrarca). «Voi ch’ascoltate in rime
sparse il suono / di quei sospiri ond’io nudriva ’l core / in sul mio primo
giovenile errore / quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono...»
(Petrarca, Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono, prima quartina della lirica
d'apertura del Canzoniere) Il Canzoniere, il cui titolo originale è Francisci
Petrarchae laureati poetae Rerum vulgarium fragmenta, è la storia poetica della
vita interiore del Petrarca vicina, per introspezione e tematiche, al Secretum.
La raccolta comprende 366 componimenti (365 più uno introduttivo: "Voi
ch'ascoltate in rime sparse il suono"): 317 sonetti, 29 canzoni, 9
sestine, 7 ballate e 4 madrigali, divisi tra rime in vita e rime in morte di
Madonna Laura [N 20], celebrata quale donna superiore, senza però raggiungere
il livello della donna angelo della Beatrice dantesca. Difatti, Laura
invecchia, subisce il corso del tempo, e non è portatrice di alcun attributo
divino nel senso teologico stilnovista-dantesco[160]. Anzi, la storia del
Canzoniere, più che la celebrazione di un amore, è il percorso di una
progressiva conversione dell'anima: si passa, infatti, dal giovanil errore
(l'amore terreno per Laura) ricordato nel sonetto introduttivo Voi ch'ascoltate
in rime sparse, alla canzone Vergine bella, che di sol vestita in cui Petrarca
affida la sua anima alla protezione di Maria perché trovi finalmente pietà e
riposo[N 21]. L'opera, che richiese a Petrarca quasi quarant'anni di
continue rivisitazioni stilistiche (da qui la cosiddetta limatio petrarchesca[N
22]), prima di trovare la forma definitiva subì, secondo gli studi compiuti da
Wilkins, ben nove fasi di redazioni, di cui la prima risale al 1336-38, e
l'ultima al 1373-74, che è quella contenuta nel codice Vaticano Latino
3195[161]. I Trionfi Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso
argomento in dettaglio: I Trionfi. I "Trionfi" (la titolazione
originale è in latino, Triumphi) sono un poemetto allegorico in volgare
toscano, in terzine dantesche, incominciato da Petrarca nel 1351, durante il
periodo milanese, e mai portato a termine. Il poema è ambientato in una
dimensione onirica e irreale (strettissimo, per scelta metrica e tematica, è il
legame con la Comedia): Petrarca viene visitato da Amore, che gli mostra tutti
gli uomini illustri che hanno ceduto alle passioni del cuore (Triumphus
Cupidinis). Annoverato tra questi ultimi, Petrarca verrà poi liberato da Laura,
simboleggiante la Pudicizia (Triumphus Pudicitie), che cadrà poi per mano della
Morte (Triumphus Mortis). Petrarca scoprirà dalla stessa Laura, apparsagli in
sogno, che ella si trova nella beatitudine celeste, e che egli stesso potrà
contemplarla nella gloria divina soltanto dopo che la morte lo avrà liberato
dal corpo caduco in cui si ritrova. La Fama poi sconfigge la morte
(Triumphus Fame) e celebra il proprio trionfo, accompagnata da Laura e da tutti
i più celebri personaggi della storia antica e recente. Il moto rapido del sole
suggerisce al poeta alcune riflessioni sulla vanità della fama terrena, cui fa
seguito una vera e propria visione, nella quale al poeta appare il Tempo
trionfante (Triumphus Temporis). Infine il poeta, sbigottito per la precedente
visione, è confortato dal suo stesso cuore, che gli dice di confidare in Dio:
gli appare allora l'ultima visione, un «mondo novo, in etate immobile ed
eterna», un mondo al di fuori del tempo dove trionferanno i beati e dove un
giorno Laura gli riapparirà, questa volta per sempre (Triumphus
Eternitatis). Fortuna e critica letteraria Ritratto di Leonardo
Bruni. L'età dell'umanesimo Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in
dettaglio: Umanesimo. Già quand'era in vita Petrarca fu riconosciuto
immediatamente quale maestro e guida per tutti coloro che volevano
intraprendere lo studio delle discipline umanistiche. Grazie ai suoi numerosi
viaggi in tutta Italia, gettò il seme del suo messaggio presso i principali
centri della Penisola, in particolar modo a Firenze. Qui, oltre ad aver
conquistato alla causa dell'umanesimo Giovanni Boccaccio (autore, tra l'altro,
di un De vita et moribus domini Francisci Petracchi de Florentia[162]),
Petrarca trasmise la sua passione a Coluccio Salutati, dal 1375 cancelliere
della Repubblica di Firenze e vero trait d'union tra la generazione
petrarchesco-boccacciana e quella attiva nella prima metà del XV secolo[163].
Coluccio, infatti, fu il maestro di due dei principali umanisti del '400:
Poggio Bracciolini, il più grande scopritore di codici latini del secolo ed
esportatore dell'umanesimo a Roma; e Leonardo Bruni, il più notevole
rappresentante dell'umanesimo civile insieme al maestro Salutati. Fu il Bruni a
consolidare la fama di Petrarca, allorché nel 1436 redasse una Vita di
Petrarca[164], seguita da quelle di Filippo Villani, Giannozzo Manetti, Sicco
Polenton e Pier Paolo Vergerio[162]. Oltre a Firenze, i soggiorni del
poeta in Lombardia e a Venezia favorirono la nascita di movimenti culturali
locali destinati a declinare i princìpi umanistici a seconda delle esigenze
della classe politica locale: a Milano, dove operarono letterati del calibro di
Pier Candido Decembrio e di Francesco Filelfo, nacque un umanesimo cortigiano
destinato a diventare il prototipo per tutte le corti principesche
italiane[165]; a Venezia si diffuse, invece, un umanesimo educativo destinato a
formare la nuova classe dirigente della Serenissima, grazie all'attività di
Leonardo Giustinian e di Francesco Barbaro prima, e di Ermolao il Vecchio e
dell'omonimo detto il Giovane poi[165].Pietro Bembo e il petrarchismo
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Pietro Bembo e Petrarchismo. Se nel '400
Petrarca era visto soprattutto come capostipite della rinascita delle lettere
antiche, grazie al letterato e cardinale veneziano Pietro Bembo divenne anche
il modello del cosiddetto classicismo volgare, definendo una tendenza che si
stava progressivamente già delineando nella lirica italiana[N 23]. Difatti
Bembo, nel dialogo Prose della volgar lingua del 1525, sostenne la necessità di
prendere come modelli stilistici e linguistici Petrarca per la lirica,
Boccaccio invece per la prosa, scartando Dante per il suo plurilinguismo che lo
rendeva difficilmente accessibile: «Requisito necessario per la nobilitazione
del volgare era dunque un totale rifiuto della popolarità. Ecco perché Bembo
non accettava integralmente il modello della Commedia di Dante, di cui non
apprezzava le discese verso il basso nelle quali noi moderni riconosciamo un
accattivante mistilinguismo. Da questo punto di vista, il modello del
Canzoniere di Petrarca non presentava difetti, per la sua assoluta selezione
linguistico-lessicale.» (Marazzini, p. 265) Gianfranco Contini,
grande estimatore di Francesco Petrarca e suo commentatore nel XX secolo. La
proposta bembiana risultò, nelle diatribe relative alla questione della lingua,
quella vincente. Già negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione
delle Prose, si diffuse presso i circoli poetici italiani una passione per le
tematiche e lo stile della poesia petrarchesca (stimolata anche dal commento al
Canzoniere di Alessandro Vellutello del 1525[166]), chiamata poi petrarchismo,
favorita anche dalla diffusione dei petrarchini, cioè edizioni tascabili del
Canzoniere[167]. Dal Seicento ai giorni nostri A fianco del petrarchismo,
però, si sviluppò anche un movimento avverso alla canonizzazione poetica operata
dal Bembo: prima nel corso del Cinquecento, allorché letterati come Francesco
Berni e Pietro Aretino svilupparono polemicamente il fenomeno
dell'antipetrarchismo; poi, nel corso del Seicento, la temperie barocca, ostile
all'idea di classicismo in nome della libertà formale, declassò il valore
dell'opera petrarchesca. Riabilitato parzialmente nel corso del Settecento da
Ludovico Antonio Muratori, Petrarca ritornò pienamente in auge in seno alla
temperie romantica, quando Ugo Foscolo prima e Francesco De Sanctis poi, nelle
loro lezioni universitarie di letteratura tenute dal primo a Pavia, e dal
secondo a Napoli e a Zurigo, furono in grado di operare un'analisi complessiva
della produzione petrarchesca e ritrovarne l'originalità[168]. Dopo gli studi
compiuti da Giosuè Carducci e dagli altri membri della Scuola storica compiuti
tra fine '800 e inizi '900, il secolo scorso vide, per l'area italiana,
Gianfranco Contini e Giuseppe Billanovich tra i maggiori studiosi del
Petrarca. Petrarca e la scienza diplomatica Magnifying glass icon
mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Diplomatica. Benché la diplomatica, ovvero la
scienza che studia i documenti prodotti da una cancelleria o da un notaio e le
loro caratteristiche estrinseche ed intrinseche, sia nata consapevolmente con
Jean Mabillon nel 1681, nella storia di tale disciplina sono stati individuati
dei precursori che, inconsapevolmente, nella loro attività filologica, hanno
analizzato e dichiarato l'autenticità o meno anche di documenti oggetto di
studio da parte della diplomatica. Tra questi, infatti, vi furono molti
umanisti e anche il loro precursore e fondatore, Francesco Petrarca. Nel 1361,
infatti, l'imperatore Carlo IV chiese al celebre filologo di analizzare dei
documenti imperiali in possesso di suo genero, Rodolfo IV d'Asburgo, che
sarebbero stati stilati da Giulio Cesare e da Nerone a favore dell'Austria che
dichiaravano tali terre indipendenti dall'Impero[169]. Petrarca rispose con la
Seniles, XVI, 5[170] in cui, evidenziando lo stile, gli errori storici e
geografici e il tono (il tenore) della lettera (tra cui la mancanza della data
topica e della data cronologica propria dei diplomi), negò la validità di
questo diploma. Onorificenze Laurea poetica - nastrino per uniforme
ordinaria Laurea poetica —
Roma, 8 aprile 1341 A Petrarca è intitolato il cratere Petrarca su
Mercurio[171].Note Esplicative ^ L'epistola, scritta in risposta a una missiva
in cui l'amico Giovanni Boccaccio gli chiedeva se fosse vera l'invidia che
Petrarca nutriva per Dante, contiene l'accenno all'incontro, in età giovanile,
con il più maturo poeta: «E primieramente si noti com'io mai non ebbi ragione
alcuna d'odiare cotal uomo, che solo una volta negli anni della mia
fanciullezza mi venne veduto.» (Delle cose familiari, XXI, 15, traduzione
italiana di G. Fracassetti, 4, p. 392) La critica, se l'incontro sia da
attribuirsi a Pisa o ad altre località, è divisa: Ariani, p. 23 e Ferroni, p.
82, nota 6 propendono per la città toscana, mentre Rico-Marcozzi pensano a un
incontro avvenuto a Genova sul finire del 1311, quando la famiglia di ser
Petracco si stava dirigendo in Francia. Pacca, p. 4 opera un'interpretazione
intermedia tra le due città, benché ritenga che sia più probabile Pisa come
luogo effettivo dell'incontro. Dello stesso parere, infine, anche Dotti, 1987,
p. 9. ^ Si legga il brano dell'epistola, in cui Petrarca ricorda il loro primo
incontro e il piacevolissimo periodo trascorso nella località francese: «e noi
fanciulli ancora impuberi partimmo in un cogli altri, ma fummo con speciale
destinazione per imparare grammatica mandati a scuola a Carpentrasso, piccola
città, ma di piccola provincia città capitale. Ricordi tu que' quattro anni?
Quanta gioia, quanta sicurezza, qual pace in casa, qual libertà in pubblico,
quale quiete, qual silenzio ne' campi!» (Lettere Senili, X, 2, traduzione
di G. Fracassetti, 2, p. 87) ^ Petrarca mostrò, nei confronti di tale scienza,
sempre un'avversione innata, come è esposto nella Familiares, XX, 4, in cui il
futuro autore del Canzoniere scrive a Marco Genovese che a Montpellier prima e
a Bologna poi «ben altro in quegli anni fare io poteva o in se stesso più
nobile o alla natura mia meglio conveniente: né sempre nella elezione dello
stato quello ch'è più splendido, ma quello che a chi lo sceglie è più acconcio
preferire si deve.» (Delle cose familiari, XX, 4, traduzione di G.
Fracassetti, 4, p. 261) ^ Come però ricorda Wilkins, p. 16, la scelta di
Petrarca di entrare a far parte della Chiesa non fu soltanto dettata dalla
cinica necessità di ottenere i proventi necessari per vivere. Nonostante non
avesse mai avuto la vocazione per la cura delle anime, Petrarca ebbe sempre una
profonda fede religiosa. ^ A sviluppare la tesi dell'identificazione di Laura
con tale Laura de Sade è la stessa testimonianza di Petrarca nella Familiares,
II, 9 a Giacomo Colonna, il quale cominciò a mostrarsi dubbioso sull'esistenza
di questa donna (si veda Delle cose familiari, II, 9, traduzione di G.
Fracassetti, 1, pp. 369-385). Più precisamente, nella Nota a p. 379, Fracassetti
fa riemergere la vita della presunta amata del Petrarca: «Da Odiberto e da
Ermessenda di Noves nobile famiglia di Avignone nacque del 1307, o in su quel
torno, una fanciulla, cui fu dato il nome di Laura [...]. Ai 16 gennaio del
1325 fa fatta per man di notaio la scritta nuziale fra Laura ed Ugo De Sade
gentiluomo Avignonese. Due anni più tardi, a' 6 di aprile del 1327 nella chiesa
di S. Chiara di questa città, a quell'ora del giorno che chiamavano prima, il
Petrarca giovane allora di poco più che ventidue anni la vide [...].» ^
Si legga l'episodio di come fossero stati dati alle fiamme dei libri di
Virgilio e Cicerone, cosa che suscitò il pianto nel giovane Petrarca. Al che il
padre, vedendolo così affranto «d'una mano porgendo Virgilio, dall'altra i
rettorici di Cicerone: "tieni, sorridendo mi disse, abbiti questo per
ricrearti qualche rara volta la mente, e quest'altro a conforto e ad aiuto
nello studio delle leggi".» (Lettere Senili, XVI, 1, traduzione di
G. Fracassetti, 2, p. 458) ^ Il codice, dopo la morte di Petrarca (1374), passò
nelle mani di Francesco Novello da Carrara, nuovo signore di Padova. Quando
questa città verrà conquistata, agli inizi del '400, da Gian Galeazzo Visconti,
anche il patrimonio bibliotecario petrarchesco passò nelle mani dei duchi
milanesi, che lo conservarono nella loro biblioteca di Pavia. Fu poi sistemato
nella Pinacoteca Ambrosiana, grazie all'intervento del suo fondatore, il
cardinale Federigo Borromeo arcivescovo di Milano (1595-1631). Si veda:
Cappelli, pp. 42-43. ^ Da questo momento in avanti, Petrarca non esitò a
chiamare Avignone la novella Babilonia di apocalittica memoria, come
testimoniato dai celebri sonetti avignonesi facenti parte del Canzoniere. Oltre
a motivazioni di carattere morale, ci fu anche la profonda delusione che
suscitò la decisione di Benedetto XII di non recarsi a prendere possesso
ufficialmente della sua sede vescovile e ristabilire così pace in Italia
(Ariani, pp. 33-34). ^ Petrarca scrisse, riguardo alla morte del vecchio amico
e protettore, due lettere commoventi: la prima, al fratello di Giacomo, il
cardinale Giovanni (Delle cose familiari, IV, 12, traduzione di G. Fracassetti,
1, pp. 537-549); la seconda, all'amico Angelo Tosetti, soprannominato Lelius
(Delle cose familiari, IV, 13, traduzione di G. Fracassetti, 1, pp. 550-555).
Nella Nota alla prima a p. 548, Fracassetti ricorda come Petrarca, nella
Familiares, V, 7, avesse avuto, in sogno, il presagio della morte del Vescovo
di Lombez venticinque giorni prima della sua effettiva scomparsa. ^ Cappelli,
p. 55. Significativa la ricostruzione storico-letteraria compiuta da Amaturo,
pp. 58-59, ove si rievocano le figure di intellettuali che si legarono, tra
XIII e XIV secolo, alla biblioteca capitolare veronese (Giovanni De Matociis, Dante
e Pietro Alighieri, Benzo d'Alessandria, Vincenzo Bellovacense) e le rarità che
essa conteneva (codici contenenti le lettere di Plinio il Giovane; parte
dell'Ab Urbe condita liviana che Petrarca utilizzò per la ricostruzione
filologica del codice Harleiano; le orazioni ciceroniane citate; il Liber
catulliano). ^ Boccaccio esprimerà la sua indignatio nell'Epistola X Archiviato
l'11 giugno 2015 in Internet Archive., indirizzata a Francesco Petrarca, ove,
grazie alla tecnica retorica dello sdoppiamento e a topoi letterari, Boccaccio
si lamenta col magister di come Silvano (il nome letterario usato nella cerchia
petrarchesca per indicare il poeta laureato) avesse osato recarsi presso il
tiranno Giovanni Visconti (identificato in Egonis):«Audivi, dilecte michi, quod
in auribus meis mirabile est, solivagum Silvanum nostrum, transalpino Elicone
relicto, Egonis antra subisse, et muneribus sumptis ex pastore castalio
ligustinum devenisse subulcum, et secum pariter Danem peneiam et pierias
carcerasse sorores». Inoltre, bisogna ricordare che la scelta di risiedere a
Milano era anche uno schiaffo alla proposta delle autorità fiorentine di
occupare un posto come docente nello Studium, occupazione che gli avrebbe
concesso di rientrare in possesso dei beni paterni sequestrati nel 1301. ^
L'arcivescovo Giovanni II Visconti, difatti, proseguì la politica
espansionistica dei suoi predecessori a danno delle altre potenze dell'Italia
centro-settentrionale, tra le quali spiccava Firenze. Le ostilità tra Milano e
Firenze perdureranno fino a metà '400, quando salì al potere come duca dello
Stato lombardo Francesco Sforza, che intraprese una politica di alleanza con
Firenze grazie all'amicizia personale che lo legava a Cosimo de' Medici. ^
Durante l'epidemia di peste milanese, morì il figlio Giovanni (Pacca, p. 219),
nato nel 1337 da una relazione extraconiugale. I rapporti con il figlio, al
contrario di quanto avvenne con la secondogenita Francesca, furono assai
burrascosi a causa della condotta ribelle di Giovanni (Dotti, 1987, p. 319
accenna all'odio che Giovanni provava verso i libri, «quasi fossero serpenti»).
Come ricordato nella Familiares, XXII, 7 del 1359: «Nel 1357 si separò dal
figlio Giovanni, che tornò ad Avignone in seguito a non precisati dissapori
(Familiares, XXII, 7: 1359); tre anni dopo sarebbe tornato a Milano.»
(Rico-Marcozzi) ^ Il ravennate Giovanni Malpaghini fu presentato, nel 1364, da
Donato degli Albanzani a Petrarca che, rimasto colpito dalle sue qualità
letterarie e dalla sua pronta intelligenza, lo prese al suo servizio quale
copista. La collaborazione tra i due uomini, durata appunto dal 1364 al 1367,
si interruppe il 21 aprile di quell'anno, quando il Malpaghini decise di
lasciare l'incarico presso l'Aretino. Per maggiori informazioni biografiche, si
veda la biografia di Signorini. ^ Petrarca, nella Seniles, XV, 5, informa il
fratello Gherardo, tra le altre cose, anche della sua nuova dimora sui colli
Euganei, dandone un quadro piacevole e ameno: «E per non dilungarmi di troppo
della mia chiesa, qui fra i colli Euganei, non più lontano che dieci miglia da
Padova mi fabbricai una piccola ma graziosa casina, cinta da un oliveto e da
una vigna che dan quanto basta a una non numerosa e modesta famiglia. E
qui, sebbene infermo del corpo, io vivo dell'animo pienamente tranquillo lungi
dai tumulti, dai rumori, dalle cure, leggendo sempre e scrivendo [...].»
(Lettere Senili, XV, 5, traduzione di G. Fracassetti, 2, p. 413) ^ La lettera,
datata 26 aprile 1335, non può essere considerata "reale", ma piuttosto
una rielaborazione voluta dal Petrarca. Difatti, a quell'altezza, il giovane
Petrarca non era ancora entrato in contatto con il padre agostiniano, e la
scelta della data (corrispondente al Venerdì Santo) e del luogo (la salita al
monte rievoca l'immagine della Passione di Gesù sul Calvario) rendono ancora
più "mitica" l'ambientazione. Si veda, per quanto riguarda la
ricostruzione filologica e cronologica dell'epistola, il saggio di Giuseppe
Billanovich, Petrarca e il Ventoso, in Italia medioevale e umanistica, vol. 9,
Roma, Antenore, 1966, pp. 389-401, ISSN 1828-2431 (WC · ACNP). ^ Il
ventiquattresimo libro delle Familiares è composto da lettere indirizzate a
vari personaggi dell'antichità classica. Per Petrarca, infatti, gli antichi non
sono lontani e irraggiungibili: la costante lettura delle loro opere fa sì che
Cicerone, Orazio, Seneca, Virgilio vivano attraverso queste ultime, rendendo i
rapporti tra Petrarca e i suoi ammirati scrittori classici vicini per la
comunanza di sentimento. ^ L'Otium degli antichi romani non consisteva
unicamente nel riposo dagli impegni quotidiani, indicati sotto il sostantivo di
negotium. Per Cicerone, l'otium non era soltanto il riposo dalle attività
forensi e politiche, ma soprattutto il ritiro nella propria intimità domestica
col fine di dedicarsi alla letteratura (De officiis, III, 1). In questo caso,
il modello petrarchesco è affine a quello stoicheggiante dell'oratore romano.
Si veda il riassunto operato da Laidlaw, pp. 42-52 che ripercorre la concezione
all'interno della letteratura latina. Per Cicerone, nello specifico si vedano
le pagine Laidlaw, pp. 44-47. ^ Termine di origine catulliana, Petrarca lo
prende in prestito per descrivere le liriche come "diversivo,
passatempo". La questione delle nugae volgari e, più in generale, delle
opere latine, è esposta nella Familiares, I, 1 (Delle cose familiari, I, 1,
traduzione di G. Fracassetti, 1, pp. 239-253). ^ Guglielmino-Grosser, p. 184. I
testi sono raccolti nel codice Vaticano Latino 3195, come ricordato da
Santagata, pp. 120-121. Bisogna ricordare che Il Canzoniere non raccoglie tutti
i componimenti poetici del Petrarca, ma solo quelli che il poeta scelse con
grande cura: altre rime (dette extravagantes) andarono perdute o furono incluse
in altri manoscritti (cfr. Ferroni, p. 8). ^ L'inquietudine petrarchesca nasce,
quindi, dal contrasto tra l'attrazione verso i beni terreni (tra cui l'amore
per Laura) e l'aspirazione all'assoluto divino, propria della cultura medievale
e della religione cristiana, come ricordato da Guglielmino-Grosser, p. 186. ^
Petrarca mantenne, nell'ambito della lirica volgare, quell'aristocraticismo
stilistico-lessicale prima accennato, in cui si rifiutano molti usi lemmatici
presenti nella tradizione poetica italiana e che Petrarca rifiuterà,
accogliendone un preciso gruppo ristretto ed elitario. Come ricorda Marazzini,
pp. 220-221: «Si delinea una tendenza del linguaggio lirico al 'vago', inteso
nel senso di una genericità antirealistica (al contrario di quanto accade nel
corposo realismo della Commedia), testimoniato anche dalla polivalenza di certi
termini, i quali, come l'aggettivo dolce, entrano in un numero molto grande di
combinazioni diverse [...] Eppure la lingua di Petrarca, selezionata e ridotta
nelle scelte lessicali, accoglie un buon numero di varianti canonizzando un
polimorfismo...in cui si allineano la forma toscana, quella latineggiante,
quella siciliana o provenzale...» ^ Di Benedetto, p. 170. Si ricorda
anche che, seppur in forma minore, era presente nel mondo letterario italiano
del '400 anche un'ammirazione verso il Petrarca volgare, come testimoniato
dalle edizioni a stampa del Canzoniere e dei Trionfi uscite nel 1472 dalla
bottega dei padovani Bartolomeo Valdezocco e Martino "de Septem
Arboribus" (cfr. Ente Nazionale Francesco Petrarca, Culto petrarchesco a
Padova.).Riferimenti bibliografici ^ la notte tra il 18 e il 19 luglio ^ Casa
Petrarca Arezzo, Regione Toscana, 13 dicembre 2012. URL consultato il 12
febbraio 2016. ^ Wilkins, pp. 5-6. ^ Ariani, p. 21. Più specificamente
Bettarini: «Il 20 ottobre [1304], dopo essere stato accusato di aver
falsificato un istrumento notarile, fu così condannato al pagamento di 1000
lire e al taglio della mano destra». ^ Dotti, 1987, p. 9. ^ Bettarini e Pacca,
p. 4. ^ Per informazioni biografiche, si veda la voce a cura di Pasquini. ^ Il
ricordo di Petrarca al riguardo è riportato in Lettere Senili, XVI, 1,
traduzione di G. Fracassetti, 2, pp. 465-467. ^ Pasquini: «Quanto al Petrarca,
il magistero di C[onvenevole] si colloca indubbiamente fra il 1312 e il '16». ^
La Casa del Petrarca, su arquapetrarca.com. URL consultato il 19 febbraio 2016
(archiviato dall'url originale il 20 febbraio 2016). ^ Pacca, p. 7. ^ Si legga
il brano della Lettere Senili, X, 2 nella traduzione di G. Fracassetti, 2, p.
86. Il brano è ricordato anche da Wilkins, p. 11. Ariani, p. 25. ^
Wilkins, p. 11. ^ Rico-Marcozzi: «Nell'autunno 1320 si recò a studiare a
Bologna, seguito da un maestro privato...»; e Wilkins, p. 13, in cui si ritiene
che questo maestro avesse «l'incarico, almeno per Francesco e Gherardo, di
fungere in loco parentis». ^ Ariani, p. 26. ^ Ariani, pp. 27-28. Wilkins,
p. 12. ^ Dotti, 1987, p. 21. ^ Bettarini. ^ Cappelli, p. 32. ^ Pacca, p. 16. ^
Rico-Marcozzi; Ferroni, p. 4; Wilkins, p. 17. ^ Wilkins, pp. 16-17; Rico-Marcozzi:
«Nel marzo 1330, Giacomo Colonna reclutò Petrarca per la sua corte vescovile di
Lombez, in Guascogna: ne avrebbero fatto parte il cantore fiammingo Ludovico
Santo di Beringen e l'uomo d'armi romano Lello di Pietro Stefano dei Tosetti,
che Petrarca battezzò in seguito, rispettivamente, Socrate e Lelio.» ^
Ferroni, p. 4. ^ Pacca, p. 18. ^ ..: Alinari :.., su alinariarchives.it. URL
consultato il 18 febbraio 2016. ^ La distinzione tra le due scuole di pensiero
emerge in Ferroni, pp. 20-21. Ariani, p. 31 ricorda che il primo sostenitore
del filone allegorico-letterario fu il giovane Giovanni Boccaccio nel suo De
vita et moribus domini Francisci Petrarche. ^ Ariani, p. 28. Dotti, 1987, p. 21
specifica che questo san Paolo fu acquistato per procura a Roma e che il volume
proveniva da Napoli. ^ Ariani, p. 35. ^ Per maggiori approfondimenti
biografici, si veda la biografia di Moschella. ^ Moschella: «Suggello ideale
dell'amicizia tra i due fu il dono, da parte di D[ionigi], di una copia
delle Confessiones di s. Agostino...» ^ Billanovich, p. 166. ^ Billanovich, pp.
207-208, nota 2. ^ Wilkins, pp. 18-19 e Pacca, p. 142. ^ Wilkins, p. 20. ^
Wilkins, p. 21. ^ Rico-Marcozzi: «Nel frattempo aveva raggiunto Roma (nel
gennaio o febbraio 1337), accolto da fra Giovanni Colonna al termine di un
avventuroso viaggio, e dove nella sua prima lettera (II 14, 15 marzo),
contemplando dal Campidoglio le rovine dell’Urbe, manifestò la meraviglia per
la loro grandezza e maestosità, dando forma a quella riscoperta dell’antichità
classica e al rimpianto per la sua decadenza che divennero i cardini etici,
estetici e politici dell’Umanesimo.» ^ Pacca, p. 33. ^ Dotti, 1987, p.
50. ^ Dotti, 1987, p. 51. ^ Mauro Sarnelli, Petrarca e gli uomini illustri,
Treccani. URL consultato il 22 febbraio 2016 (archiviato dall'url originale il
12 marzo 2016). ^ (EN) Poet Laureate, The Royal Household. URL consultato il 22
febbraio 2016. ^ Ariani, pp. 39-40: «Certo il privilegio toccava, del tutto
straordinariamente, a un poeta che ancora non aveva pubblicato molto per
meritarselo: ma la protezione dei potenti Colonna e la rete di estimatori che
aveva saputo intessere per tempo sono evidentemente bastate a valorizzare al
massimo le epistole metriche, la fama dell'Africa...e del De viris, le rime
volgari già note...» Dello stesso avviso anche Pacca, p. 74 e Santagata,
p. 19. ^ Moschella: «Tra il 1337 e il 1338 D[ionigi] fece ritorno in Italia;
dopo un breve soggiorno a Firenze, giunse a Napoli (cfr. Petrarca, Familiares,
IV, 2), dove l'aveva voluto il re Roberto d'Angiò, che per l'agostiniano
nutriva una profonda stima, oltre a condividerne gli interessi per l'astrologia
giudiziaria e per i classici latini.» ^ Wilkins, p. 34: «La conoscenza
dell'antica tradizione e delle due o tre incoronazioni celebrate da singole
città in tempi moderni, insieme all'aspirazione a diventare famoso, accese
inevitabilmente in Petrarca il desiderio di ricevere a sua voglia quell'onore.
Egli confidò dapprima il suo pensiero a Dionigi da Borgo San Sepolcro e a
Giacomo Colonna, e ne venne a conoscenza anche qualche persona che aveva legami
con l'Università di Parigi.» ^ Si legga il brano della lettera dove
inizia la decantazione delle lodi nei confronti del re napoletano: «E chi dico
io, e lo dico con pieno convincimento, in Italia, anzi in Europa più grande di
re Roberto?» (Delle cose familiari, II, 4, traduzione di G. Fracassetti,
1, p. 494) ^ Wilkins, p. 35. ^ Rico-Marcozzi: «Sulla base dei contraddittori
racconti di Petrarca si dovrebbe dedurre che nello stesso giorno (il 1º
settembre 1340) questi avesse ricevuto l’invito a cingere la corona sia dal
Senato di Roma sia da Parigi e avesse chiesto consiglio al cardinal Colonna (IV
4), decidendo di scegliere Roma (IV 5, 6), per ricevere la laurea "sulle
ceneri degli alti poeti che ivi dimorano".» Difatti Petrarca
riteneva che l'ultima incoronazione a Roma fosse stata quella del poeta Stazio
(I secolo d.C) e che quindi, se vi fosse stato incoronato, sarebbe stato
direttamente un successore degli antichi poeti classici da lui tanto amati
(Pacca, p. 73). ^ Cfr., ad esempio, Rico-Marcozzi; Wilkins, pp. 37-38; Ariani,
p. 40 ^ Pacca, p. 74. ^ Rico-Marcozzi: «L'8 e il 13 aprile sono le date fornite
da Petrarca ([Familiares], IV 6, 8), e la più probabile sembra essere la
seconda; tuttavia Boccaccio situa l'evento il 17 e il documento ufficiale, il
Privilegium laureationis, almeno in parte redatto dallo stesso Petrarca, reca
la data del 9.» ^ Lacultur, biografia di Francesco Petrarca, su
lacultur.altervista.org. ^ Wilkins, pp. 90-91. ^ Dotti, 1987, p. 31: «In
Avignone egli vedeva simbolicamente la corruzione della Chiesa di Cristo e
l'intollerabile esilio di Pietro.» ^ Paravicini Bagliani. ^ Moschella. ^
Petrucci. ^ Wilkins, pp. 48-49. ^ Così Ariani, p. 41; Wilkins, p. 48
sostiene invece che Cola sia giunto ad Avignone agli inizi del 1343. ^ Wilkins,
p. 48: «Cola si intrattenne parecchi mesi e in quel periodo strinse amicizia
con Petrarca. Cola era ancor giovane e poco noto; ma i due uomini avevano in
comune un grande entusiasmo per la Roma antica e cristiana, una grande
preoccupazione per lo stato presente della città e una grande speranza per la
restaurazione dell'antica potenza e dell'antico splendore.» ^ Il Mondo di
Petrarca, su internetculturale.it. URL consultato il 14 dicembre 2016 (archiviato
dall'url originale l'11 novembre 2016). ^ Ariani, pp. 45-46, il quale ricorda,
a testimonianza della rottura coi Colonna, Bucolicum carmen, VIII, intitolato
Divortium (cfr. Bucolicum carmen, pp. 223-225). Santagata, p. 16 ricorda
inoltre come i legami tra Petrarca e il cardinale Giovanni non fossero mai
stati buoni come con il fratello di lui Giacomo: «a differenza di Giacomo...il
cardinale restò sempre il dominus.» Rico-Marcozzi. Pacca, p. 135 e
Cappelli, p. 50. ^ Dotti, 1987, pp. 134-135. ^ Wilkins, p. 93. ^ Ariani, p. 46.
^ Troncarelli. ^ Waley. ^ Pacca, p. 118. ^ Francesco Petrarca a Padova, su
padovanet.it. ^ Rico-Marcozzi: «Giacomo II da Carrara, signore di Padova, che a
inizio 1349 gli fece ottenere un ulteriore e ricco canonicato da 200 ducati
d'oro l'anno e una casa nei pressi della cattedrale». Ariani, p. 49. ^
Una prospettiva generale del rapporto tra Petrarca e Boccaccio è esposto in
Rico, pp. 224-228. ^ Branca, p. 87. ^ Rico-Marcozzi: «Solo in autunno si
trasferì ad Avignone, per scoprire (almeno secondo quanto affermato in
Familiares, XIII, 5) che gli si offriva la segreteria apostolica, già a suo
tempo rifiutata, e un vescovado». ^ Ariani, p. 50. Ferroni, p. 6. ^
Domenico Ferraro, Petrarca a Milano. Le ragioni di una scelta, Rinascimento :
LV, 2015, p. 225, Firenze : L.S. Olschki, 2015. ^ Viscónti, Galeazzo II, su
treccani.it. URL consultato il 24 febbraio 2016. ^ Pacca, p. 180; Amaturo, p.
87: «Ma è fuor di dubbio che tra il poeta e i suoi nuovi signori si istituiva
come un patto di mutuo interesse: da un lato egli si avvantaggiava della
posizione di prestigio che gli offriva l'amicizia dei Visconti; d'altro lato
acconsentiva tacitamente a essere adoperato in missioni diplomatiche, non
numerose invero, né discordanti con i suoi ideali civili.» Ariani,
p. 52. ^ Cappelli, p. 36: «La riflessione petrarchesca si indirizza sempre più
ad hominem e ad vitam, all'uomo concreto nella sua circostanza concreta, si
nutre di meditazione interiore, progetta un'opera capace di delineare una parabola
esemplare in cui lo scrittore propone se stesso e la cultura di cui è portatore
come modello capace di confrontarsi su tutti i terreni.» ^ Rico-Marcozzi:
«il Secretum...composto nel 1342-43 (o, secondo studî recenti, in tre fasi
successive tra il 1347 e il 1353)». ^ Ferroni, p. 11. ^ Ariani, pp.
52-53. Cappelli, p. 38. ^ Wilkins, p. 256. ^ Vicini, p. 59. ^ Retore
originario di Pratovecchio, Donato degli Albanzani fu intimo amico sia di
Petrarca che di Boccaccio. Per quanto riguarda i rapporti con il primo si
ricordano, oltre le missive indirizzategli dall'Aretino, anche alcune egloghe
del Bucolicum Carmen, in cui è chiamato con il senhal di Appenninigena. Si veda
la voce biografica a cura di Martellotti. ^ Ugo Dotti, Petrarca civile: alle
origini dell'intellettuale moderno, Donzelli Editore, 2001, p. 61, ISBN
978-88-7989-633-7. ^ Wilkins, pp. 220-223 espone dettagliatamente le
trattative tra Petrarca e la Serenissima, citando anche il verbale del Maggior
Consiglio con cui si procedette all'approvazione della proposta petrarchesca.
Per ulteriori informazioni, si veda Gargan, pp. 165-168. ^ Lettere Senili, IV,
4, traduzione di G. Fracassetti, 1, pp. 237-239. ^ Si ricordi la visita
dell'amico Boccaccio nell'estate del 1367, quando però Petrarca si era recato
momentaneamente a Pavia su richiesta di Galeazzo II. Nonostante l'assenza
dell'amico, Bocca ccio trovò una calorosa accoglienza da parte di
Francescuolo e di Francesca, trascorrendo giorni piacevoli nella città
lagunare (Cfr. Wilkins, pp. 250-252). ^ Rico-Marcozzi: «...all'inizio del
1366 fece ritorno a Venezia dove fu raggiunto dalla figlia Francesca maritata
nel 1361 al milanese Francescuolo da Brossano.» ^ Pacca, pp. 232-233:
«Ma...bisogna dire che il vero valore del De ignorantia consiste nella vigorosa
affermazione della filosofia morale sulla scienza naturale [...] Ed è questo il
motivo della sua inferiorità rispetto a scrittori come Platone, Cicerone e
Seneca; perché per Petrarca la cultura "è subordinata alla vita morale
dell'uomo...» ^ Casa del Petrarca, Arquà. ^ Wilkins, p. 264. ^ Ariani, p.
58. ^ Wilkins, p. 265. ^ Billanovich 1947, p. 67: «[Petrarca] aveva designato
con indicazioni esplicite anche per noi remoti quale loro custode un letterato
padovano, Lombardo della Seta, mediocre per ingegno e per dottrina, ma cliente
premuroso del maestro, di cui in una intima familiarità negli ultimi anni aveva
lentamente conosciuto le abitudini e filialmente soddisfatto i desideri.
Così...era promosso subito a buon segretario...» Ariani, p. 60. ^
Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria, Dal testo alla
storia, dalla storia al testo, Paravia, settembre 2001, p. 3, ISBN
88-395-3058-4. Wilkins, p. 297. ^ La tomba del Petrarca. ^ Canestrini, p.
5 e Dotti, 1987, p. 439. ^ Millocca, Francesco, Leoni, Pier Carlo, in
Dizionario biografico degli italiani, vol. 64, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 2005. ^ Si veda Analisi Genetica dei resti scheletrici attribuiti a
Petrarca (EN) . ^ Si veda inoltre Petrarca - il poeta che perse la testa (EN) in
The Guardian del 6 aprile 2004, sulla riesumazione dei resti di Petrarca. ^
Ricchissima la bibliografia al proposito: si ricordino i libri citati in
bibliografia, tra cui Cappelli, L'umanesimo italiano da Petrarca a Valla; i
saggi curati da Giuseppe Billanovich (tra cui l'opera sua più importante,
Billanovich, 1947, Petrarca letterato), uno dei maggiori studiosi del Petrarca;
i libri di Pacca, Ariani e Wilkins. ^ Pacca, p. 189 e Cappelli, p. 38 ^ Garin,
p. 21. ^ Si veda il lungo articolo di Lamendola al riguardo, in cui si espone
anche la chiave di lettura dei classici latini nel corso dell'età medioevale. ^
Dotti, 1987, p. 430. ^ Magdi A. M. Nassar, Numismatica e Petrarca: una nuova
idea di collezionismo, Il collezionismo numismatico italiano. Una storica e
illuminata tradizione. Un patrimonio culturale del nostro Paese., Milano,
Numismatici Italiani Professionisti, 2013, pp. 47-49. ^ Billanovich 1953, p.
313. ^ Per la datazione cronologica, cfr. Billanovich 1953, p. 325: «Il
Petrarca formò tra i venti e i venticinque anni il Livio Harleiano»; e Ivi, p.
330: «Le scoperte e i restauri degli Ab Urbe condita eseguiti dal Petrarca sul
palcoscenico europeo di Avignone press'a poco tra il 1325 e il 1330...»
Cappelli, p. 42. ^ Billanovich 1953, pp. 313-314. ^ Billanovich 1953, p. 325. ^
Un riassunto veloce è esposto anche da Ariani, p. 63. ^ Cappelli, p. 42 e
Ariani, p. 62. ^ Cappelli, pp. 42-43. ^ Albertini Ottolenghi, pp. 35-37. ^
Albertini Ottolenghi, p. 37. ^ Significativo il titolo del settimo capitolo di Ariani,
pp. 113-131, Lo scavo introspettivo. Ferroni, p. 10. ^ Ferroni, pp.
10-11. ^ Ferroni, p. 10 e Guglielmino-Grosser, p. 178. ^ Petrarca, Africa, pp.
246-247. ^ Cappelli, p. 45 e Guglielmino-Grosser, p. 177. ^ Dotti, 1987, p.
123: «I versi vennero infatti riconosciuti bellissimi, ma tali da non
convenirsi alla persona cui erano posti in bocca, in quanto degni piuttosto di
un personaggio cristiano che di uno pagano.» ^ Santagata, p. 27: «...il
gesto di fastidio con il quale si liberò quasi sùbito delle superfetazioni
scolastiche ha il suo esatto corrispettivo nel rifiuto dell'imponente edificio
logico e scientifico della filosofia Scolastica a favore di una ricerca morale
orientata, con la guida determinante dell'agostinismo, verso il soggetto e
l'interiorità della coscienza...» ^ Delle cose familiari, IV, 1,
traduzione di G. Fracassetti, 1, pp. 481-492. ^ Guglielmino-Grosser, p. 172,
confrontando Dante, il quale non ha trasmesso ai posteri dati biografici della
propria vita, e Petrarca, afferma che quest'ultimo «fornendoci una grande
quantità di informazioni dettagliate sulla sua vita quotidiana, vere o false
che siano, mira a trasmettere di sé un'immagine concreta». ^ Dotti, p. 532,
sulla base della Familiares, I, 9, delinea il senso del messaggio umanistico
lanciato da Petrarca: «...parlare con il proprio animo non serve: bisogna
affaticarsi ad ceterorum utilitatem quibuscum vivimus, per l'utilità di coloro
con i quali viviamo in questa terrena società, ed è certo che con le nostre
parole possiamo giovare: quorum animos nostris collucutionibus plurimum
adiuvari posse non ambigitur (Familiares, I, 9, 4). Il colloquio umano è dunque
lo strumento dell'autentico processo umanistico...Sua mercé si saldano e si
congiungono gli spazi più lontani...I comuni principi morali, dunque, e
l'indagine costante e irreversibile sono la molla di un processo che non può
aver fine se non con la morte dell'umanità medesima, e il discorso, il
colloquio e la cultura ne sono il filo conduttore.» ^ Viaggi nel Testo -
Autori della letteratura Italiana, su internetculturale.it. URL consultato il
27 febbraio 2016 (archiviato dall'url originale il 24 giugno 2013). ^ Si
ricordino i celebri versi di Pd XVII, 58-60, in cui l'avo Cacciaguida gli
profetizza la durezza dell'esilio: Tu proverai sì come sa di sale / lo pane
altrui, e come è duro calle / lo scendere e 'l salir per l'altrui scale ^
Guglielmino-Grosser, p. 175. Guglielmino-Grosser, p. 177. ^ Marazzini, p.
220. ^ Santagata, p. 34: «La riforma di Petrarca consiste nell'introdurre entro
l'universo senza regole della rimeria coeva la disciplina, l'ordine, la pulizia
formale, lo stesso aristocraticismo propri delle più compatte 'scuole'
duecentesche...» ^ Luperini, Il plurilinguismo di Dante e il
monolinguismo di Petrarca secondo Gianfranco Contini. ^ Delle cose familiari,
XXI, 15, traduzione di G. Fracassetti, 4, pp. 390-411; Pulsoni, pp. 155-208 ^
Giuseppe Pizzimenti - g.pizzimenti@glauco.it, FONDAZIONE ZERI | CATALOGO :
Opera : Altichiero , San Giorgio battezza Servio re di Cirene, su
catalogo.fondazionezeri.unibo.it. URL consultato il 29 febbraio 2016
(archiviato dall'url originale il 5 marzo 2016). ^ Si veda, per maggiori
informazioni, Pacca, pp. 45-54. ^ Per maggior informazioni, si veda il saggio
di Fenzi. ^ Si veda il saggio di Dotti sulle Epistolae metricae. ^ Pacca, pp.
131-132. ^ Pacca, pp. 36-45. Ferroni, p. 14. ^ Amaturo, pp. 117-119. ^
Cappelli, p. 49. ^ Ferroni, pp. 14-15. ^ Pacca, pp. 163-167. ^ Santagata, p.
45. ^ Amaturo, pp. 167-168. ^ Le epistolae retrodatate al 1345 furono, secondo
Santagata, p. 45, probabilmente scritte ex novo perché fossero aderenti al
progetto culturale-esistenziale idealizzato dal Petrarca. ^
Guglielmino-Grosser, p. 185. ^ Ferroni, p. 19. Ariani, p. 358. ^
Dionisotti: «[Salutati] fu per trent'anni, dopo la morte del Petrarca e del
Boccaccio, il più autorevole umanista italiano, unico erede di quei grandi.» ^
Dionisotti, 1970: «Dopo lungo intervallo, probabilmente nel 1436, il
B[occaccio] compose in volgare una succinta vita di D[ante], cui fece seguire
un'assai più succinta vita del Petrarca e un conclusivo paragone fra i due
poeti.» Cappelli, pp. 227-250. ^ Di Benedetto, p. 174. ^ Si veda la voce
enciclopedica curata da Praz e Di Benedetto, p. 177. ^ Ariani, pp. 362-364. ^
Pacca, Petrarca e Bresslau, pp. 22-23 ^ Lettere Senili, XVI, 5, traduzione di
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Petrarca, a cura di Luca Carlo Rossi e Remo Ceserani, Milano, Feltrinelli, 2012
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titolo (EN) Life of Petrarch, Chicago, University of Chicago Press, 1961, OCLC
343931. Donata Vicini (a cura di), Musei civici di Pavia, Milano, Skira, 1998,
ISBN 88-8118-353-6.Voci correlate Petrarchismo Preumanesimo Umanesimo
Canzoniere Petrarchino Biblioteca di Petrarca Incoronazione poetica Casa del
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ufficiale per gli studi petrarcheschi in Italia Giovanni Boccaccio, Epistole e
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medioevo, Centro Studi La Runa, 2 aprile 2010. URL consultato il 26 febbraio
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Francesco Petrarca, Catalogo dei Compositori e delle Opere Musicali sulle rime
di Francesco Petrarca, su Artemida. V · D · M Francesco Petrarca V · D · M FlorenceCoA.svg
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Petrone Igino Petrone Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Igino
Petrone (Limosano, 21 settembre 1870 – San Giorgio a Cremano, 26 luglio 1913) è
stato un filosofo e giurista italiano.
Indice 1 Biografia 2 Riconoscimenti
3 Opere
4 Note
5 Bibliografia
6 Altri
progetti 7 Collegamenti
esterni Biografia Veduta di Limosano
Nato nel 1870 a Limosano, piccolo centro dell'odierna provincia di Campobasso,
dopo aver insegnato dal 1897 filosofia del diritto all'Università di Modena,
nel 1900 Igino Petrone fu chiamato all'Ateneo napoletano ove rimase nella
cattedra di filosofia morale per oltre quarant'anni[1]. Nella sua attività di
studioso di filosofia morale cercò di conciliare l'oggettivismo aristotelico con
il soggettivismo kantiano[1]. Socio
corrispondente dell'Accademia Nazionale dei Lincei[2], Petrone collaborò con la
rivista Cultura Sociale politica letteraria, fondata da Romolo Murri,
influenzando con i suoi scritti il nascente movimento democratico cristiano[3],
e nella rivista Il Rinnovamento[4] si espresse criticamente sull'enciclica di
papa Pio X Pascendi Dominici gregis che, pubblicata nel 1907, aveva duramente
condannato il modernismo. I suoi scritti provocarono le critiche della rivista
dei gesuiti La Civiltà Cattolica[5].
Morì prematuramente a San Giorgio a Cremano nei pressi di Napoli, a
quarantadue anni, nel 1913.
Riconoscimenti Sono intitolati al suo nome: l'Istituto Comprensivo
"Igino Petrone" di Campobasso[6], una via di Roma nella zona XLV
Castel di Guido, (XII Municipio, ex XVI)[7]. Nella natia Limosano viene
ricordato da una via del centro storico e da un monumento in una piazza
cittadina. Opere La fase recentissima
della filosofia del diritto in Germania. Analisi critica poggiata sulla teoria
della conoscenza, Pisa, E. Spoerri, 1895. Il valore ed i limiti di una
psicogenesi della morale, Roma, Tip. di G. Balbi, 1896. I limiti del
determinismo scientifico. Saggio del dott. Igino Petrone, Modena, G. T.
Vincenzi e nipoti, 1900. Nuova ed. Urbino, Quattro venti, 2000. ISBN
88-392-0435-0. F. Nietzsche e L. Tolstoi: idee morali del tempo. Conferenze
lette alla Società "Pro Cultura", Napoli, L. Pierro, 1902. Lo stato
mercantile chiuso di G. Am. Fichte e la premessa teorica del comunismo
giuridico, Napoli, A. Tessitore & Figlio, 1904. Problemi del mondo morale
meditati da un idealista, Milano-Palermo-Napoli, Remo Sandron Editore, 1905. Il
diritto nel mondo dello spirito. Saggio filosofico, Milano, Libreria Editrice
Milanese, 1910. A proposito della guerra nostra, Napoli, R. Ricciardi, 1912.
Etica, a cura e con prefazione di Guido Mancini, Palermo, Remo Sandron Editore,
1918. Ascetica, a cura di Guido Mancini, Palermo, Remo Sandron editore, 1918.
Note Fonte: F. Battaglia, Enciclopedia
Italiana, riferimenti in Bibliografia. ^ Cfr. la voce «Petrone, Igino» in
Enciclopedie on line, sito "Treccani.it L'Enciclopedia Italiana". ^
Cfr. la nota "Petrone, Igino" in Romolo Murri, La vita nova
(1895-1896), a cura di Francesco Maria Cecchini, Roma, Edizioni di storia e
letteratura, 1971, p. 467. Parzialmente consultabile in Google Libri. ^ Al
Rinnovamento, periodico di studi religiosi di orientamento cattolico-liberale,
fondato a Milano nel 1907 e pubblicato sino al 1909, collaborarono alcune tra
le voci più importanti del modernismo italiano, quali i sacerdoti Ernesto
Buonaiuti e Romolo Murri, il filosofo e studioso di storia del cristianesimo
Adriano Tlgher, amico e collaboratore di Buonaiuti, il teologo irlandese George
Tyrrell. Cfr. la voce «Rinnovamento, Il» in Enciclopedie on line, sito
"Treccani.it L'Enciclopedia Italiana". ^ «Nota. Avevamo già corretto
le stampe di questo articolo, quando ci giunse l'ultimo numero del Rinnovamento
di Milano (settembre - ottobre) pieno di tutto fiele contro l'enciclica. Nella
sostanza si accorda pienamente col programma dei modernisti, ma nella violenza
della forma e nella irriverenza del linguaggio lo passa di molto; e trascende
con Igino Petrone (L'Enciclica di Pio X) a stravolgimenti indegni dello spirito
e del senso dell'enciclica» in La Civiltà Cattolica, 1907, n. 4, p. 404. Ed
ancora sullo stesso periodico: «Ma peggio ancora spropositò su questo punto
Igino Petrone nel Rinnovamento mostrando di aver ben poco compreso e del
modernismo e dell'enciclica che lo condanna.», Ibidem, p. 538, nota n. 2. Testo
Parzialmente consultabile in Google Libri ^ Scheda dell'Istituto Igino Petrone.
Anagrafe scuole statali. Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della
Ricerca Archiviato il 6 marzo 2016 in Internet Archive. ^ Delibera 170 del 6
febbraio 1981. Fonte: SITO - Sistema informativo toponomastica di Roma
Capitale. Bibliografia Felice Battaglia, PETRONE, Igino, in Enciclopedia
Italiana, vol. 27, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1935,
igino-petrone.Modifica su Wikidata AA. VV., PETRONE, Igino, in Dizionario di
filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Jonathan Salina,
PETRONE, Igino, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 82, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2015. URL consultato il 2 marzo 2016.
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Igino Petrone Collegamenti esterni Igino Petrone, su Treccani.it – Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Opere di
Igino Petrone, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata Igino
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dell'Associazione turistico culturale "Pro Limosano". URL acceduto il
21 gennaio 2014. Controllo di autorità VIAF
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Categorie: Filosofi italiani del XIX secoloFilosofi italiani del XX
secoloGiuristi italiani del XIX secoloGiuristi italiani del XX secoloNati nel
1870Morti nel 1913Nati il 21 settembreMorti il 26 luglioNati a LimosanoMorti a
San Giorgio a Cremano[altre]
Pezzarossa Giuseppe
Pezzarossa Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to
search Giuseppe Pezzarossa (o Pezza-Rossa) (Mantova, 1811 – Casalmoro, 1875) è
stato un presbitero e filosofo italiano, docente di Retorica ed Eloquenza del
Seminario vescovile mantovano, fu coinvolto nella repressione austriaca che
portò al martirio di Belfiore. Indice 1 Biografia 2 Opere
3 Note
4 Bibliografia
Biografia Nacque a Formigosa, frazione del comune di Mantova. Orfano di
entrambi i genitori, studiò presso il seminario dove, ordinato sacerdote nel
1834, sarà insegnante contemporaneamente a Don Enrico Tazzoli con il quale
condivideva idee tendenzialmente liberali e le preoccupazioni sulle condizioni
sociali disagiate create dalla sorgente rivoluzione industriale che pure ai
loro occhi rappresentava un'occasione di progresso. La pubblicazione dei Saggi di filosofia
cristiana gli procurò guai con la Congregazione dell'Indice, all'epoca guidata
dal cardinale Angelo Mai. Nel 1848 partecipò attivamente ai moti del 1848. L'autorità
austriaca lo condannò al carcere. Dopo la scarcerazione fu allontanato
dall'insegnamento e da allora non pubblicò più. Le strade di Pezzarossa e
Tazzoli si divisero dopo il 1848 quando Tazzoli fu tra i leader della
cospirazione anti-austriaca mentre Pezza-Rossa non vi aderì seppure partecipò
alla prima riunione costitutiva del comitato rivoluzionario.[1] Opere Critica della filosofia morale, Milano,
Stamperia Reale, 1840. Spirito della filosofia italiana. Ragionamento, Mantova,
Elmucci, 1842. Saggi di filosofia cristiana sulle tracce de' SS. padri e
dottori della Chiesa, Mantova, Tip. Caranenti, 1845. Note ^ Cipolla, cit., pag.
163, elenca in ordine alfabetico i venti partecipanti: Acerbi Giovanni,
Borchetta Giuseppe, Borelli Giuseppe, Castellazzo Luigi, Chiassi Giovanni,
Ferrari Aristide, Giacometti Vincenzo, Marchi Carlo, Mori Attilio, Pezzarossa
Giuseppe, Poma Carlo, Quintavalle Giuseppe, Rossetti Giovanni, Sacchi Achille,
Siliprandi Francesco, Suzzara Verdi Paride, Tassoni Dario, Tazzoli Enrico,
Vettori Alessandro, Zanucchi Omero. Bibliografia Costantino Cipolla, Belfiore -
I comitati insurrezionali del Lombardo-Veneto ed il loro processo a Mantova del
1852-1853, Milano, FrancoAngeli, 2006 Renato Pavesi, Il confronto fra don
Tazzoli e don Pezza-Rossa in una prospettiva filosofica, in Costantino Cipolla
e Stefano Siliberti (a cura di), Don Enrico Tazzoli e il cattolicesimo sociale
lombardo: Studi, Milano, FrancoAngeli, 2012. Biografie Portale Biografie:
accedi alle voci di Wikipedia che trattano di biografie Categorie: Presbiteri
italianiFilosofi italiani del XIX secoloNati nel 1811Morti nel 1875Nati a
Mantova[altre]
Pezzella Mario Pezzella
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di riferimento 1, 2. Mario Pezzella
Mario Pezzella (Napoli, 16 aprile 1951) è un filosofo, saggista e scrittore
italiano. Biografia Si laurea a Pisa nel
1973 con una tesi sul pensiero di Walter Benjamin. Presso la Scuola Normale
Superiore diviene ricercatore di ruolo, e lo rimane fino al 2014, anno in cui
dà le sue dimissioni anticipate. Nel 1979-1980 ha collaborato a un seminario di
Jacques Derrida presso l’Ecole Normale di Parigi. Ha conseguito con la tutela
di Louis Marin il Doctorat de Troisième Cycle en Philosophie nel 1984, preso
l’EHESS di Parigi e il DEA in Réalisation cinématographique seguendo i corsi
diretti dal documentarista Jean Rouch a Nanterre. Ha insegnato Estetica ed
Estetica del cinema, con affidamenti annuali provvisori, in diverse università
italiane. Ha tenuto, su invito, un seminario presso l’EHESS di Parigi, in
collaborazione con il Prof. Eric Michaud. È attualmente redattore della rivista
Altraparola e collabora col Centro per la riforma dello Stato nella sede di
Firenze. Il pensiero Il pensiero di
Walter Benjamin e quello di Guy Debord sono punti di riferimento costanti del
suo lavoro. Inizialmente ha studiato la persistenza delle forme del mito
all’interno della modernità (e in tal senso si è occupato di J. J. Bachofen,
traducendo e introducendo Il simbolismo funerario degli antichi, col sostegno
del Warburg Institut di Londra). L’intersezione tra mondo mitico e modernità
estrema lo porta a interessarsi della poesia e del pensiero di F. Hölderlin e
della Scuola di Francoforte. Vicino alla tradizione del pensiero dialettico,
apprezza soprattutto la versione esistenziale che ne viene data nella filosofia
francese degli anni Trenta e Quaranta, dopo i seminari di Kojève su Hegel; di
Benjamin considera soprattutto la polarità tra immagine di sogno e immagine
dialettica, che utilizza come strumento interpretativo di opere
cinematografiche e letterarie (cfr. i libri La memoria del possibile e
Insorgenze). Per Pezzella lo spettacolo –nella formulazione teorica che ne ha
dato Guy Debord- è la forma di vita dominante del capitalismo attuale, in
particolare della sua industria culturale e del cinema. Secondo la terminologia
usata nel libro estetica del cinema, egli distingue gli stereotipi spettacolari
dalle forme critiche-espressive. Più di recente si è interessato
all’intersezione fra tematiche politiche e psicoanalitiche: la dialettica del
riconoscimento, la formazione della soggettività nel capitalismo attuale,
l’incidenza dei traumi storici collettivi sulla psiche individuale (cfr. il libro
La voce minima). Ha tradotto e introdotto in Italia il pensiero politico di
Miguel Abensour, con cui condivide la rivalutazione del pensiero utopico e la
rivalutazione del socialismo come prospettiva politica alternativa al
populismo. Collabora alla redazione e all’edizione dei volumi di Altro
Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico, per conto della Fondazione
Micheletti di Brescia. Opere -L'immagine
dialettica, ETS, Pisa 1983. -La
concezione tragica di Hölderlin, Il Mulino, Bologna 1993. -Il narcisismo e la società dello spettacolo,
manifestolibri, Roma 1996. -Il volto di
Marilyn, manifestolibri, Roma 2000. -La
memoria del possibile, Jaca Book, Milano 2009.
-Estetica del cinema, nuova edizione accresciuta, Il Mulino, Bologna
2010. -Insorgenze, Jaca Book, Milano
2014. -Le nubi di Bor (poesie), Zona,
Arezzo 2016. -La voce minima. Trauma e
memoria storica, manifestolibri, Roma 2017.
- Altrenapoli, Rosemberg & Sellier (collana "La critica
sociale"), Torino 2019. Ha
curato: -I fantasmi del moderno. Temi e
figure del cinema noir, Cattedrale, Ancona 2010 (con Antonio Tricomi). -Il Volto dell’Altro. Gli intellettuali ebrei
e la cultura europea del 900, numero speciale, L’ospite ingrato, Quodlibet,
Macerata 2011. -I corpi del potere. Il
cinema di Aleksandr Sokurov, Jaca Book, Milano 2012 (con Antonio Tricomi) -La Repubblica dei beni comuni (Il Ponte,
2013) -Gli spettri del capitale (Il
Ponte, 2014). - Il tempo del possibile.
Attualità della Comune di Parigi, supplemento monografico al n. 3/2018 de Il
Ponte (con Francesco Biagi e Massimo Cappitti)
- Utopia e insorgenze. Per Miguel Abensour, volume monografico della
rivista Altraparola (n. 1/2018), Edizioni Fondazione Micheletti, Brescia, 2018
(con il gruppo di redazione di Altraparola)
- Alle frontiere del capitale. Comunismo eretico e pensiero critico,
Jaca Book, Milano 2018 (con Massimo Cappitti e Pier Paolo Poggio) Controllo di autorità VIAF (EN) 19758175 · ISNI (EN) 0000 0000
3053 141X · SBN IT\ICCU\CFIV\010001 · LCCN (EN) n93111500 · BNF (FR)
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Categorie: Filosofi italiani del XX secoloFilosofi italiani del XXI
secoloSaggisti italiani del XX secoloSaggisti italiani del XXI secoloScrittori
italiani del XX secoloScrittori italiani del XXI secoloNati nel 1951Nati il 16
aprileNati a NapoliStudenti dell'Università di Pisa[altre]
idem: Grice: “A very,
untranslatable Roman notion – no translation – but cf. ‘ipse,’ ‘same,’ self’,
and ‘sameself,’ and Peano’s = may do.” personal identity: explored by H. P.
Grice in “Personal Identity,” Mind – and H. P. Grice, “The logical construction
theory of personal identity,” and “David Hume on the vagaries of personal
identity.” -- the numerical identity over time of persons. The question of what
personal identity consists in is the question of what it is what the necessary
and sufficient conditions are for a person existing at one time and a person
existing at another time to be one and the same person. Here there is no
question of there being any entity that is the “identity” of a person; to say
that a person’s identity consists in such and such is just shorthand for saying
that facts about personal identity, i.e., facts to the effect that someone
existing at one time is the same as someone existing at another time, consist
in such and such. This should not be confused with the usage, common in
ordinary speech and in psychology, in which persons are said to have identities,
and, sometimes, to seek, lose, or regain their identities, where one’s
“identity” intimately involves a set of values and goals that structure one’s
life. The words ‘identical’ and ‘same’ mean nothing different in judgments
about persons than in judgments about other things. The problem of personal
identity is therefore not one of defining a special sense of ‘identical,’ and
it is at least misleading to characterize it as defining a particular kind of
identity. Applying Quine’s slogan “no entity without identity,” one might say
that characterizing any sort of entity involves indicating what the identity
conditions for entities of that sort are so, e.g., part of the explanation of
the concept of a set is that sets having the same members are identical, and
that asking what the identity of persons consists in is just a way of asking
what sorts of things persons are. But the main focus in traditional discussions
of the topic has been on one kind of identity judgment about persons, namely
those asserting “identity over time”; the question has been about what the
persistence of persons over time consists in. What has made the identity
persistence of persons of special philosophical interest is partly its
epistemology and partly its connections with moral and evaluative matters. The
crucial epistemological fact is that persons have, in memory, an access to
their own past histories that is unlike the access they have to the histories
of other things including other persons; when one remembers doing or experiencing
something, one normally has no need to employ any criterion of identity in
order to know that the subject of the remembered action or experience is i.e.,
is identical with oneself. The moral and evaluative matters include moral
responsibility someone can be held responsible for a past action only if he or
she is identical to the person who did it and our concern for our own survival
and future well-being since it seems, although this has been questioned, that
what one wants in wanting to survive is that there should exist in the future
someone who is identical to oneself. The modern history of the topic of
personal identity begins with Locke, who held that the identity of a person
consists neither in the identity of an immaterial substance as dualists might
be expected to hold nor in the identity of a material substance or “animal
body” as materialists might be expected to hold, and that it consists instead
in “same consciousness.” His view appears to have been that the persistence of
a person through time consists in the fact that certain actions, thoughts,
experiences, etc., occurring at different times, are somehow united in memory.
Modern theories descended from Locke’s take memory continuity to be a special
case of something more general, psychological continuity, and hold that
personal identity consists in this. This is sometimes put in terms of the
notion of a “person-stage,” i.e., a momentary “time slice” of the history of a
person. A series of person-stages will be psychologically continuous if the
psychological states including memories occurring in later members of the
series grow out of, in certain characteristic ways, those occurring in earlier
members of it; and according to the psychological continuity view of personal
identity, person-stages occurring at different times are stages of the same
person provided they belong to a single, non-branching, psychologically
continuous series of person-stages. Opponents of the Lockean and neo-Lockean
psychological continuity view tend to fall into two camps. Some, following
Butler and Reid, hold that personal identity is indefinable, and that nothing
informative can be said about what it consists in. Others hold that the
identity of a person consists in some sort of physical continuity perhaps the identity of a living human
organism, or the identity of a human brain. In the actual cases we know about
putting aside issues about non-bodily survival of death, psychological
continuity and physical continuity go together. Much of the debate between
psychological continuity theories and physical continuity theories has centered
on the interpretation of thought experiments involving brain transplants,
brain-state transfers, etc., in which these come apart. Such examples make
vivid the question of whether our fundamental criteria of personal identity are
psychological, physical, or both. Recently philosophical attention has shifted
somewhat from the question of what personal identity consists in to questions
about its importance. The consideration of hypothetical cases of “fission” in
which two persons at a later time are psychologically continuous with one
person at an earlier time has suggested to some that we can have survival or at any rate what matters in survival without personal identity, and that our self-interested
concern for the future is really a concern for whatever future persons are
psychologically continuous with us.
phantasia: Grice: “
“Phantasia,” as any Clifton schoolboy knows, is cognate with ‘phainomenon,’ as
Cant forgot!” -- Grecian, ‘appearance’, ‘imagination’, 1 the state we are in
when something appears to us to be the case; 2 the capacity in virtue of which
things appear to us. Although frequently used of conscious and imagistic
experiences, ‘phantasia’ is not limited to such states; in particular, it can
be applied to any propositional attitude where something is taken to be the
case. But just as the English ‘appears’ connotes that one has epistemic
reservations about what is actually the case, so ‘phantasia’ suggests the
possibility of being misled by appearances and is thus often a subject of
criticism. According to Plato, phantasia is a “mixture” of sensation and
belief; in Aristotle, it is a distinct faculty that makes truth and falsehood
possible. The Stoics take a phantasia to constitute one of the most basic
mental states, in terms of which other mental states are to be explained, and
in rational animals it bears the propositional content expressed in language.
This last use becomes prominent in ancient literary and rhetorical theory to
designate the ability of language to move us and convey subjects vividly as
well as to range beyond the bounds of our immediate experience. Here lie the
origins of the modern concept of imagination although not the Romantic
distinction between fancy and imagination. Later Neoplatonists, such as
Proclus, take phantasia to be necessary for abstract studies such as geometry,
by enabling us to envision spatial relations.
phenomenalism: one of the twelve
labours of H. P. Grice – very fashionable at Oxford – “until Austin demolished
it with his puritanical “Sense and sensibilia,” – Grice: “Strictly, it should
be ‘sense and sensibile,’ since ‘sensibilia’ is plural – which invokes Ryle’s
paradox of the speckled hen!” -- the view that propositions asserting the
existence of physical objects are equivalent in meaning to propositions
asserting that subjects would have certain sequences of sensations were they to
have certain others. The basic idea behind phenomenalism is compatible with a
number of different analyses of the self or conscious subject. A phenomenalist
might understand the self as a substance, a particular, or a construct out of
actual and possible experience. The view also is compatible with any number of
different analyses of the visual, tactile, auditory, olfactory, gustatory, and
kinesthetic sensations described in the antecedents and consequents of the
subjunctive conditionals that the phenomenalist uses to analyze physical object
propositions as illustrated in the last paragraph. Probably the most common
analysis of sensations adopted by traditional phenomenalists is a sense-datum
theory, with the sense-data construed as mind-dependent entities. But there is
nothing to prevent a phenomenalist from accepting an adverbial theory or theory
of appearing instead. The origins of phenomenalism are difficult to trace, in
part because early statements of the view were usually not careful. In his
Dialogues, Berkeley hinted at phenomenalism when he had Philonous explain how
he could reconcile an ontology containing only minds and ideas with the story
of a creation that took place before the existence of people. Philonous
imagines that if he had been present at the creation he should have seen
things, i.e., had sensations, in the order described in the Bible. It can also
be argued, however, that J. S. Mill in An Examination of Sir William Hamilton’s
Philosophy was the first to put forth a clearly phenomenalistic analysis when
he identified matter with the “permanent possibility of sensation.” When Mill
explained what these permanent possibilities are, he typically used
conditionals that describe the sensations one would have if one were placed in
certain conditions. The attraction of classical phenomenalism grew with the
rise of logical positivism and its acceptance of the verifiability criterion of
meaning. Phenomenalists were usually foundationalists who were convinced that
justified belief in the physical world rested ultimately on our
noninferentially justified beliefs about our sensations. Implicitly committed
to the view that only deductive and inductive inferences are legitimate, and
further assuming that to be justified in believing one proposition P on the
basis of another E, one must be justified in believing both E and that E makes
P probable, the phenomenalist saw an insuperable difficulty in justifying
belief in ordinary statements about the physical world given prevalent
conceptions of physical petitio principii phenomenalism 663 663 objects. If all we ultimately have as
our evidence for believing in physical objects is what we know about the
occurrence of sensation, how can we establish sensation as evidence for the
existence of physical objects? We obviously cannot deduce the existence of
physical objects from any finite sequence of sensations. The sensations could,
e.g., be hallucinatory. Nor, it seems, can we observe a correlation between
sensation and something else in order to generate the premises of an inductive
argument for the conclusion that sensations are reliable indicators of physical
objects. The key to solving this problem, the phenomenalist argues, is to
reduce assertions about the physical world to complicated assertions about the
sequences of sensations a subject would have were he to have certain others.
The truth of such conditionals, e.g., that if I have the clear visual
impression of a cat, then there is one before me, might be mind-independent in
the way in which one wants the truth of assertions about the physical world to
be mind-independent. And to the phenomenalist’s great relief, it would seem
that we could justify our belief in such conditional statements without having
to correlate anything but sensations. Many philosophers today reject some of
the epistemological, ontological, and metaphilosophical presuppositions with
which phenomenalists approached the problem of understanding our relation to
the physical world through sensation. But the argument that was historically
most decisive in convincing many philosophers to abandon phenomenalism was the
argument from perceptual relativity first advanced by Chisholm in “The Problem
of Perception.” Chisholm offers a strategy for attacking any phenomenalistic
analysis. The first move is to force the phenomenalist to state a conditional
describing only sensations that is an alleged consequence of a physical object
proposition. C. I. Lewis, e.g., in An Analysis of Knowledge and Valuation,
claims that the assertion P that there is a doorknob before me and to the left
entails C that if I were to seem to see a doorknob and seem to reach out and
touch it then I would seem to feel it. Chisholm argues that if P really did
entail C then there could be no assertion R that when conjoined with P did not
entail C. There is, however, such an assertion: I am unable to move my limbs
and my hands but am subject to delusions such that I think I am moving them; I
often seem to be initiating a grasping motion but with no feeling of contacting
anything. Chisholm argues, in effect, that what sensations one would have if
one were to have certain others always depends in part on the internal and
external physical conditions of perception and that this fact dooms any attempt
to find necessary and sufficient conditions for the truth of a physical object
proposition couched in terms that describe only connections between
sensations.
phenomenology – Grice:
“Strictly, my area – the science of appearances!” -- referred ironically by J.
L. Austin as “linguistic phenomenology,”—Austin only accepted public-school
(“i. e. private-school) educated males at his Saturday mornings – “They share
my dialect, unlike others.” -- in the
twentieth century, the philosophy developed by Husserl and some of his
followers. The term has been used since the mideighteenth century and received
a carefully defined technical meaning in the works of both Kant and Hegel, but
it is not now used to refer to a homogeneous and systematically developed
philosophical position. The question of what phenomenology is may suggest that
phenomenology is one among the many contemporary philosophical conceptions that
have a clearly delineated body of doctrines and whose essential characteristics
can be expressed by a set of wellchosen statements. This notion is not correct,
however. In contemporary philosophy there is no system or school called “phenomenology,”
characterized by a clearly defined body of teachings. Phenomenology is neither
a school nor a trend in contemporary philosophy. It is rather a movement whose
proponents, for various reasons, have propelled it in many distinct directions,
with the result that today it means different things to different people. While
within the phenomenological movement as a whole there are several related
currents, they, too, are by no means homogeneous. Though these currents have a
common point of departure, they do not project toward the same destination. The
thinking of most phenomenologists has changed so greatly that their respective
views can be presented adequately only by showing them in their gradual
development. This is true not only for Husserl, founder of the phenomenological
movement, but also for such later phenomenologists as Scheler, N. Hartmann,
Heidegger, Sartre, and Merleau-Ponty. To anyone who studies the
phenomenological movement without prejudice the differences among its many
currents are obvious. It has been phenomenal property phenomenology 664 664 said that phenomenology consists in an
analysis and description of consciousness; it has been claimed also that
phenomenology simply blends with existentialism. Phenomenology is indeed the
study of essences, but it also attempts to place essences back into existence.
It is a transcendental philosophy interested only in what is “left behind”
after the phenomenological reduction is performed, but it also considers the
world to be already there before reflection begins. For some philosophers
phenomenology is speculation on transcendental subjectivity, whereas for others
it is a method for approaching concrete existence. Some use phenomenology as a
search for a philosophy that accounts for space, time, and the world, just as
we experience and “live” them. Finally, it has been said that phenomenology is
an attempt to give a direct description of our experience as it is in itself
without taking into account its psychological origin and its causal explanation;
but Husserl speaks of a “genetic” as well as a “constitutive” phenomenology. To
some people, finding such an abundance of ideas about one and the same subject
constitutes a strange situation; for others it is annoying to contemplate the
“confusion”; and there will be those who conclude that a philosophy that cannot
define its own scope does not deserve the discussion that has been carried on
in its regard. In the opinion of many, not only is this latter attitude not
justified, but precisely the opposite view defended by Thevenaz should be
adopted. As the term ‘phenomenology’ signifies first and foremost a methodical
conception, Thevenaz argues that because this method, originally developed for
a very particular and limited end, has been able to branch out in so many
varying forms, it manifests a latent truth and power of renewal that implies an
exceptional fecundity. Speaking of the great variety of conceptions within the
phenomenological movement, Merleau-Ponty remarked that the responsible
philosopher must recognize that phenomenology may be practiced and identified
as a manner or a style of thinking, and that it existed as a movement before
arriving at a complete awareness of itself as a philosophy. Rather than force a
living movement into a system, then, it seems more in keeping with the ideal of
the historian as well as the philosopher to follow the movement in its
development, and attempt to describe and evaluate the many branches in and
through which it has unfolded itself. In reality the picture is not as dark as
it may seem at first sight. Notwithstanding the obvious differences, most
phenomenologists share certain insights that are very important for their
mutual philosophical conception as a whole. In this connection the following
must be mentioned: 1 Most phenomenologists admit a radical difference between
the “natural” and the “philosophical” attitude. This leads necessarily to an
equally radical difference between philosophy and science. In characterizing
this difference some phenomenologists, in agreement with Husserl, stress only
epistemological issues, whereas others, in agreement with Heidegger, focus
their attention exclusively on ontological topics. 2 Notwithstanding this
radical difference, there is a complicated set of relationships between
philosophy and science. Within the context of these relationships philosophy
has in some sense a foundational task with respect to the sciences, whereas
science offers to philosophy at least a substantial part of its philosophical
problematic. 3 To achieve its task philosophy must perform a certain reduction,
or epoche, a radical change of attitude by which the philosopher turns from
things to their meanings, from the ontic to the ontological, from the realm of
the objectified meaning as found in the sciences to the realm of meaning as
immediately experienced in the “life-world.” In other words, although it
remains true that the various phenomenologists differ in characterizing the
reduction, no one seriously doubts its necessity. 4 All phenomenologists subscribe
to the doctrine of intentionality, though most elaborate this doctrine in their
own way. For Husserl intentionality is a characteristic of conscious phenomena
or acts; in a deeper sense, it is the characteristic of a finite consciousness
that originally finds itself without a world. For Heidegger and most
existentialists it is the human reality itself that is intentional; as
Being-in-the-world its essence consists in its ek-sistence, i.e., in its
standing out toward the world. 5 All phenomenologists agree on the fundamental
idea that the basic concern of philosophy is to answer the question concerning
the “meaning and Being” of beings. All agree in addition that in trying to
materialize this goal the philosopher should be primarily interested not in the
ultimate cause of all finite beings, but in how the Being of beings and the
Being of the world are to be constituted. Finally, all agree that in answering
the question concerning the meaning of Being a privileged position is to be
attributed to subjectivity, i.e., to that being which questions the Being of
beings. Phenomenologists differ, however, the moment they have to specify what
is meant by subjectivity. As noted above, whereas Husserl conceives it as a
worldless monad, Heidegger and most later phenomenologists conceive it as
being-in-the-world. Referring to Heidegger’s reinterpretation of his
phenomenology, Husserl writes: one misinterprets my phenomenology backwards
from a level which it was its very purpose to overcome, in other words, one has
failed to understand the fundamental novelty of the phenomenological reduction
and hence the progress from mundane subjectivity i.e., man to transcendental
subjectivity; consequently one has remained stuck in an anthropology . . .
which according to my doctrine has not yet reached the genuine philosophical
level, and whose interpretation as philosophy means a lapse into
“transcendental anthropologism,” that is, “psychologism.” 6 All
phenomenologists defend a certain form of intuitionism and subscribe to what
Husserl calls the “principle of all principles”: “whatever presents itself in
‘intuition’ in primordial form as it were in its bodily reality, is simply to
be accepted as it gives itself out to be, though only within the limits in
which it then presents itself.” Here again, however, each phenomenologist
interprets this principle in keeping with his general conception of
phenomenology as a whole. Thus, while phenomenologists do share certain
insights, the development of the movement has nevertheless been such that it is
not possible to give a simple definition of what phenomenology is. The fact
remains that there are many phenomenologists and many phenomenologies.
Therefore, one can only faithfully report what one has experienced of
phenomenology by reading the phenomenologists. Refs.: H. P. Grice, “J. L.
Austin’s linguistic phenomenology – and conversational implicatura,”
“Conversational phenomenology.”
Philo Judaeus, philosopher who composed
the bulk of his work in the form of commentaries and discourses on Scripture.
He made the first known sustained attempt to synthesize its revealed teachings
with the doctrines of classical philosophy. Although he was not the first to
apply the methods of allegorical interpretation to Scripture, the number and
variety of his interpretations make Philo unique. With this interpretive tool,
he transformed biblical narratives into Platonic accounts of the soul’s quest
for God and its struggle against passion, and the Mosaic commandments into
specific manifestations of general laws of nature. Philo’s most influential
idea was his conception of God, which combines the personal, ethical deity of
the Bible with the abstract, transcendentalist theology of Platonism and
Pythagoreanism. The Philonic deity is both the loving, just God of the Hebrew
Patriarchs and the eternal One whose essence is absolutely unknowable and who
creates the material world by will from primordial matter which He creates ex
nihilo. Besides the intelligible realm of ideas, which Philo is the earliest
known philosopher to identify as God’s thoughts, he posited an intermediate
divine being which he called, adopting scriptural language, the logos. Although
the exact nature of the logos is hard to pin down Philo variously and, without any concern for
consistency, called it the “first-begotten Son of the uncreated Father,”
“Second God,” “idea of ideas,” “archetype of human reason,” and “pattern of
creation” its main functions are clear:
to bridge the huge gulf between the transcendent deity and the lower world and
to serve as the unifying law of the universe, the ground of its order and
rationality. A philosophical eclectic, Philo was unknown to medieval Jewish
philosophers but, beyond his anticipations of Neoplatonism, he had a lasting
impact on Christianity through Clement of Alexandria, Origen, and Ambrose.
Filolao, pre-Socratic Grecian philosopher
from Crotone in southern Italy, the first Pythagorean to write a book. The
surviving fragments of it are the earliest primary texts for Pythagoreanism,
but numerous spurious fragments have also been preserved. Philolaus’s book
begins with a cosmogony and includes astronomical, medical, and psychological
doctrines. His major innovation was to argue that the cosmos and everything in
it is a combination not just of unlimiteds what is structured and ordered, e.g.
material elements but also of limiters structural and ordering elements, e.g.
shapes. These elements are held together in a harmonia fitting together, which
comes to be in accord with perspicuous mathematical relationships, such as the
whole number ratios that correspond to the harmonic intervals e.g. octave %
phenotext Philolaus 1 : 2. He argued that secure knowledge is possible insofar
as we grasp the number in accordance with which things are put together. His
astronomical system is famous as the first to make the earth a planet. Along
with the sun, moon, fixed stars, five planets, and counter-earth thus making
the perfect number ten, the earth circles the central fire a combination of the
limiter “center” and the unlimited “fire”. Philolaus’s influence is seen in
Plato’s Philebus; he is the primary source for Aristotle’s account of
Pythagoreanism. H. P. Grice,
“Pythagoras: the written and the unwritten doctrines,” Luigi Speranza, “Grice a
Crotone, ovvero, Filolao,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
vita – vitalism philosophical biology: Grice,
“What is ‘life’?” “How come the Grecians had two expressions for this: ‘zoon’
and ‘bios’?” “Why could the Romans just do with ‘vivere’?’ -- Grice liked to
regard himself as a philosophical biologist, and indeed philosophical
physiologist. bioethics, the subfield of ethics that concerns the ethical
issues arising in medicine and from advances in biological science. One central
area of bioethics is the ethical issues that arise in relations between health
care professionals and patients. A second area focuses on broader issues of
social justice in health care. A third area concerns the ethical issues raised
by new biological knowledge or technology. In relations between health care
professionals and patients, a fundamental issue is the appropriate role of each
in decision making about patient care. More traditional views assigning
principal decision-making authority to physicians have largely been replaced
with ideals of shared decision making that assign a more active role to
patients. Shared decision making is thought to reflect better the importance of
patients’ self-determination in controlling their care. This increased role for
patients is reflected in the ethical and legal doctrine of informed consent,
which requires that health care not be rendered without the informed and
voluntary consent of a competent patient. The requirement that consent be
informed places a positive responsibility on health care professionals to
provide their patients with the information they need to make informed
decisions about care. The requirement that consent be voluntary requires that
treatment not be forced, nor that patients’ decisions be coerced or
manipulated. If patients lack the capacity to make competent health care
decisions, e.g. young children or cognitively impaired adults, a surrogate,
typically a parent in the case of children or a close family member in the case
of adults, must decide for them. Surrogates’ decisions should follow the
patient’s advance directive if one exists, be the decision the patient would
have made in the circumstances if competent, or follow the patient’s best
interests if the patient has never been competent or his or her wishes are not
known. A major focus in bioethics generally, and treatment decision making in
particular, is care at or near the end of life. It is now widely agreed that
patients are entitled to decide about and to refuse, according to their own
values, any lifesustaining treatment. They are also entitled to have desired
treatments that may shorten their lives, such as high doses of pain medications
necessary to relieve severe pain from cancer, although in practice pain
treatment remains inadequate for many patients. Much more controversial is
whether more active means to end life such as physician-assisted suicide and
voluntary euthanasia are morally permissible in indibhavanga bioethics 88 88 vidual cases or justified as public
policy; both remain illegal except in a very few jurisdictions. Several other
moral principles have been central to defining professionalpatient
relationships in health care. A principle of truth telling requires that
professionals not lie to patients. Whereas in the past it was common,
especially with patients with terminal cancers, not to inform patients fully
about their diagnosis and prognosis, studies have shown that practice has
changed substantially and that fully informing patients does not have the bad
effects for patients that had been feared in the past. Principles of privacy
and confidentiality require that information gathered in the
professionalpatient relationship not be disclosed to third parties without
patients’ consent. Especially with highly personal information in mental health
care, or information that may lead to discrimination, such as a diagnosis of
AIDS, assurance of confidentiality is fundamental to the trust necessary to a
wellfunctioning professionalpatient relationship. Nevertheless, exceptions to
confidentiality to prevent imminent and serious harm to others are well
recognized ethically and legally. More recently, work in bioethics has focused
on justice in the allocation of health care. Whereas nearly all developed
countries treat health care as a moral and legal right, and ensure it to all
their citizens through some form of national health care system, in the United
States about 15 percent of the population remains without any form of health
insurance. This has fed debates about whether health care is a right or
privilege, a public or individual responsibility. Most bioethicists have
supported a right to health care because of health care’s fundamental impact on
people’s well-being, opportunity, ability to plan their lives, and even lives
themselves. Even if there is a moral right to health care, however, few defend
an unlimited right to all beneficial health care, no matter how small the
benefit and how high the cost. Consequently, it is necessary to prioritize or
ration health care services to reflect limited budgets for health care, and
both the standards and procedures for doing so are ethically controversial.
Utilitarians and defenders of cost-effectiveness analysis in health policy
support using limited resources to maximize aggregate health benefits for the
population. Their critics argue that this ignores concerns about equity,
concerns about how health care resources and health are distributed. For
example, some have argued that equity requires giving priority to treating the
worst-off or sickest, even at a sacrifice in aggregate health benefits;
moreover, taking account in prioritization of differences in costs of different
treatments can lead to ethically problematic results, such as giving higher
priority to providing very small benefits to many persons than very large but
individually more expensive benefits, including life-saving interventions, to a
few persons, as the state of Oregon found in its initial widely publicized
prioritization program. In the face of controversy over standards for rationing
care, it is natural to rely on fair procedures to make rationing decisions.
Other bioethics issues arise from dramatic advances in biological knowledge and
technology. Perhaps the most prominent example is new knowledge of human genetics,
propelled in substantial part by the worldwide Human Genome Project, which
seeks to map the entire human genome. This project and related research will
enable the prevention of genetically transmitted diseases, but already raises
questions about which conditions to prevent in offspring and which should be
accepted and lived with, particularly when the means of preventing the
condition is by abortion of the fetus with the condition. Looking further into
the future, new genetic knowledge and technology will likely enable us to
enhance normal capacities, not just prevent or cure disease, and to manipulate
the genes of future children, raising profoundly difficult questions about what
kinds of persons to create and the degree to which deliberate human design
should replace “nature” in the creation of our offspring. A dramatic example of
new abilities to create offspring, though now limited to the animal realm, was
the cloning in Scotland in 7 of a sheep from a single cell of an adult sheep;
this event raised the very controversial future prospect of cloning human
beings. Finally, new reproductive technologies, such as oocyte egg donation,
and practices such as surrogate motherhood, raise deep issues about the meaning
and nature of parenthood and families. Philosophical
biology -- euthanasia, broadly, the beneficent timing or negotiation of the
death of a sick person; more narrowly, the killing of a human being on the
grounds that he is better off dead. In an extended sense, the word ‘euthanasia’
is used to refer to the painless killing of non-human animals, in our interests
at least as much as in theirs. Active euthanasia is the taking of steps to end
a person’s especially a patient’s life. Passive euthanasia is the omission or
termination of means of prolonging life, on the grounds that the person is
better off without them. The distinction between active and passive euthanasia
is a rough guide for applying the more fundamental distinction between
intending the patient’s death and pursuing other goals, such as the relief of
her pain, with the expectation that she will die sooner rather than later as a
result. Voluntary euthanasia is euthanasia with the patient’s consent, or at
his request. Involuntary euthanasia is euthanasia over the patient’s objections.
Non-voluntary euthanasia is the killing of a person deemed incompetent with the
consent of someone say a parent authorized to speak on his behalf. Since
candidates for euthanasia are frequently in no condition to make major
decisions, the question whether there is a difference between involuntary and
non-voluntary euthanasia is of great importance. Few moralists hold that life
must be prolonged whatever the cost. Traditional morality forbids directly
intended euthanasia: human life belongs to God and may be taken only by him.
The most important arguments for euthanasia are the pain and indignity suffered
by those with incurable diseases, the burden imposed by persons unable to take
part in normal human activities, and the supposed right of persons to dispose
of their lives however they please. Non-theological arguments against
euthanasia include the danger of expanding the principle of euthanasia to an
everwidening range of persons and the opacity of death and its consequent
incommensurability with life, so that we cannot safely judge that a person is
better off dead. H. P. Grice, “The roman problem: ‘vita’ for ‘bios’ and ‘zoe.’”
philosophism: birrellism – general refelction on life. Grice defines a
philosopher as someone ‘addicted to general reflections on life,’ like Birrell
did. f. paraphilosophy – philosophical hacks. “Austin’s expressed view -- the
formulation of which no doubt involves some irony -- is that we ‘philosophical
hacks’ spend the week making, for the benefit of our tutees, direct attacks on
this or that philosophical issue, and that we need to be refreshed, at the
week-end, by some suitably chosen ‘para-philosophy’ in which some non-philosophical conception is to be
examined with the full rigour of the Austinian Code, with a view to an ultimate
analogical pay-off (liable never to be reached) in philosophical currency.” His feeling of superiority as a
philosopher is obvious in various fields. He certaintly would not get involved
in any ‘empirical’ survey (“We can trust this, qua philosophers, as given.”) Grice
held a MA (Lit. Hum.) – Literae Humaniores (Philosophy). So he knew what he was
talking about. The curriculum was an easy one. He plays with the fact that
empiricists don’t regard philosophy as a sovereign monarch: philosophia regina
scientiarum, provided it’s queen consort. In “Conceptual analysis and the
province of philosophy,” he plays with the idea that Philosophy is the Supreme
Science. Grice was somewhat obsessed as to what ‘philosohical’ stood for, which
amused the members of his play group! His play group once spends five weeks in
an effort to explain why, sometimes, ‘very’ allows, with little or no change of
meaning, the substitution of ‘highly’ (as in ‘very unusual’) and sometimes does
not (as in ‘very depressed’ or ‘very wicked’); and we reached no conclusion. This
episode was ridiculed by some as an ultimate embodiment of fruitless frivolity.
But that response is as out of place as a similar response to the medieval
question, ‘How many angels can dance on a needle’s point?’” A needless point?For
much as this medieval question is raised in order to display, in a vivid way, a
difficulty in the conception of an immaterial substance, so The Play Group
discussion is directed, in response to a worry from me, towards an examination,
in the first instance, of a conceptual question which is generally agreed among
us to be a strong candidate for being a question which had no philosophical
importance, with a view to using the results of this examination in finding a
distinction between philosophically important and philosophically unimportant
enquiries. Grice is fortunate that the Lit. Hum. programme does not have much
philosophy! He feels free! In fact, the lack of a philosophical background is
felt as a badge of honour. It is ‘too clever’ and un-English to ‘know’ things.
A pint of philosophy is all Grice wanted. Figurative. This is Harvardite Gordon’s
attempt to formulate a philosophy of the minimum fundamental ideas that all
people on the earth should come to know. Reviewed by A. M. Honoré: Short
measure. Gordon, a Stanley Plummer scholar, e: Bowdoin and Harvard, in The
Eastern Gazette. Grice would exclaim: I always loved Alfred Brooks Gordon!
Grice was slightly disapppointed that Gordon had not included the fundamental
idea of implicaturum in his pint. Short measure, indeed. Grice gives seminars
on Ariskant (“the first part of this individual interested some of my tutees;
the second, others.” Ariskant philosophised in Grecian, but also in the pure
Teutonic, and Grice collaborated with Baker in this area. Curiously, Baker
majors in French and philosophy and does research at the Sorbonne. Grice would
sometimes define ‘philoosphy.’ Oddly, Grice gives a nice example of
‘philosopher’ meaning ‘addicted to general, usually stoic, reflections about life.’
In the context where it occurs, the implicaturum is Stevensonian. If Stevenson
says that an athlete is usually tall, a philosopher may occasionally be
inclined to reflect about life in general, as a birrelist would. Grice’s gives
an alternate meaning, intended to display circularity: ‘engaged in
philosophical studies.’ The idea of Grice of philosophy is the one the Lit.
Hum. instills. It is a unique
experience, unknown in the New World, our actually outside Oxford, or
post-Grice, where a classicist is not seen as a philosopher. Once a tutorial
fellow in philosophy (rather than classics) and later university lecturer in
philosophy (rather than classics) strengthens his attachment. Grice needs to
regarded by his tutee as a philosopher simpliciter, as oppoosed to a prof: the
Waynflete is a metaphysician; the White is a moralist, the Wykeham a logician,
and the Wilde a ‘mental’. For Grice’s “greatest living philosopher,” Heidegger,
‘philosophy’ is a misnomer. While philology merely discourses (logos) on love,
the philosopher claims to be a wizard (sophos) of love. Liddell and Scott have
“φιλοσοφία,” which they render as “love of knowledge, pursuit thereof,
speculation,” “ἡ φ. κτῆσις ἐπιστήμης.” Then there’s “ἡ πρώτη φ.,” with striking
originality, metaphysic, Arist. Metaph. 1026a24. Just one sense, but various
ambiguities remain in ‘philosopher,’ as per Grice’s two usages. As it happens, Grice is both addicted
to general, usually stoic, speculations about life, and he is a member of The
Oxford Philosophical Society.Refs.: The main sources in the Grice Papers are
under series III, of the doctrines. See also references under ‘lingusitic
botany,’ and Oxonianism. Grice liked to play with the adage of ‘philosophia’ as
‘regina scientiarum.’ A specific essay in his update of “post-war Oxford
philosophy,” in WoW on “Conceptual analysis and the province of philosophy,”
BANC, H. P. Grice, “My friend Birrell.”
philosophia
perennis:
a supposed body of truths that appear in the writings of the great
philosophers, or the truths common to opposed philosophical viewpoints. The
term is derived from the title of a book De perenni philosophia published by
Agostino Steuco of Gubbio in 1540. It suggests that the differences between
philosophers are inessential and superficial and that the common essential
truth emerges, however partially, in the major philosophical schools. Aldous
Huxley employed it as a title. L. Lavelle, N. Hartmann, and K. Jaspers also
employ the phrase. M. De Wulf and many others use the phrase to characterize
Neo-Thomism as the chosen vehicle of essential philosophical truths. Refs.: H.
P. Grice, “All that remains is mutability.”
philosophical
anthropology:
Grice hardly used ‘man,’ but preferred ‘human,’ and person. ‘Man’ is very
English, and that may be the reason why latinate Grice avoided it! “Human”
Grice thought cognate with “homo,” which rendered Grecian ‘anthropoos.’ “The
Grecians and the Roamns distinguished between a generic ‘anthropoos,’ and the
masculine ‘aner,’ Roman ‘vir.’ -- “What is man?” Grice: “I would distinguish
between what is human, and what is person.” -- philosophical inquiry concerning
human nature, often starting with the question of what generally characterizes
human beings in contrast to other kinds of creatures and things. Thus broadly
conceived, it is a kind of inquiry as old as philosophy itself, occupying
philosophers from Socrates to Sartre; and it embraces philosophical psychology,
the philosophy of mind, philosophy of action, and existentialism. Such inquiry
presupposes no immutable “essence of man,” but only the meaningfulness of
distinguishing between what is “human” and what is not, and the possibility
that philosophy as well as other disciplines may contribute to our
self-comprehension. It leaves open the question of whether other kinds of
naturally occurring or artificially produced entity may possess the hallmarks
of our humanity, and countenances the possibility of the biologically evolved,
historically developed, and socially and individually variable character of
everything about our attained humanity. More narrowly conceived, philosophical
anthropology is a specific movement in recent European philosophy associated
initially with Scheler and Helmuth Plessner, and subsequently with such figures
as Arnold Gehlen, Cassirer, and the later Sartre. It initially emerged in
Germany simultaneously with the existential philosophy of Heidegger and the
critical social theory of the Frankfurt School, with which it competed as G.
philosophers turned their attention to the comprehension of human life. This
movement was distinguished from the outset by its attempt to integrate the
insights of phenomenological analysis with the perspectives attainable through
attention to human and comparative biology, and subsequently to social inquiry
as well. This turn to a more naturalistic approach to the understanding of
ourselves, as a particular kind of living creature among others, is reflected
in the titles of the two works published in 8 that inaugurated the movement:
Scheler’s Man’s Place in Nature and Plessner’s The Levels of the Organic and
Man. For both Scheler and Plessner, however, as for those who followed them,
our nature must be understood by taking further account of the social,
cultural, and intellectual dimensions of human life. Even those like Gehlen,
whose Der Mensch 0 exhibits a strongly biological orientation, devoted much
attention to these dimensions, which our biological nature both constrains and
makes possible. For all of them, the relation between the biological and the
social and cultural dimensions of human life is a central concern and a key to
comprehending our human nature. One of the common themes of the later
philosophical-anthropological literature
e.g., Cassirer’s An Essay on Man 5 and Sartre’s Critique of Dialectical
Reason 0 as well as Plessner’s Contitio Humana 5 and Gehlen’s Early Man and
Late Culture 3 is the plasticity of
human nature, made possible by our biological constitution, and the resulting
great differences in the ways human beings live. Yet this is not taken to
preclude saying anything meaningful about human nature generally; rather, it
merely requires attention to the kinds of general features involved and
reflected in human diversity and variability. Critics of the very idea and
possibility of a philosophical anthropology e.g., Althusser and Foucault
typically either deny that there are any such general features or maintain that
there are none outside the province of the biological sciences to which
philosophy can contribute nothing substantive. Both claims, however, are open
to dispute; and the enterprise of a philosophical anthropology remains a viable
and potentially significant one. Refs.: H. P. Grice, “Gehlen and the idea that
man is sick – homo infirmus.”
vita – vitalism -- animatum – Grice: “The
Romans saw a living body as the ‘animatum,’ since it’s the soul that makes a
body a living thing --. So the idea of ‘vita’ is conceptually linked to that of
a ‘soul.’ Grice was logically more interested in the verb, ‘vivere.’ “Most of
Malcolm’s sophismata on ‘dreaming’ apply to ‘living,’ surely “I live”
implicates that I live. Grice was fascinated by the fact that English ‘quick’
was cognate with Roman ‘vivere.’ “as it should,” because if it’s quick, it’s
most certainly alive!” Old English cwic
"living, alive, animate," and figuratively, of mental qualities,
"rapid, ready," from Proto-Germanic *kwikwaz (source also of Old
Saxon and Old Frisian quik, Old Norse kvikr "living, alive," Dutch
kwik "lively, bright, sprightly," Old High German quec
"lively," German keck "bold"), from PIE root *gwei-
"to live." Sense of "lively, swift" developed by late 12c.,
on notion of "full of life." NE swift or the now more common fast may
apply to rapid motion of any duration, while in quick (in accordance with its
original sense of 'live, lively') there is a notion of 'sudden' or 'soon over.'
We speak of a fast horse or runner in a race, a quick starter but not a quick
horse. A somewhat similar feeling may distinguish NHG schnell and rasch or it
may be more a matter of local preference. [Carl Darling Buck, "A
Dictionary of Selected Synonyms in the Principal Indo-European Languages,"
1949] v. n. Sanscr. giv-, givami, live; Gr. βίος, life; Goth. quius, living; Germ. quicken; Engl.
quick, to live, be alive, have life (syn.
spiro).
philosophical biology: v. H. P. Grice, “The roman problem: doing with ‘vivere’
for ‘zoe’ and bios’” -- vide: H. P. Grice, “Philosophical biology and philosophical
psychology” -- the philosophy of science applied to biology. On a conservative
view of the philosophy of science, the same principles apply throughout
science. Biology supplies additional examples but does not provide any special
problems or require new principles. For example, the reduction of Mendelian
genetics to molecular biology exemplifies the same sort of relation as the
reduction of thermodynamics to statistical mechanics, and the same general
analysis of reduction applies equally to both. More radical philosophers argue
that the subject matter of biology has certain unique features; hence, the
philosophy of biology is itself unique. The three features of biology most
often cited by those who maintain that philosophy of biology is unique are
functional organization, embryological development, and the nature of
selection. Organisms are functionally organized. They are capable of
maintaining their overall organization in the face of fairly extensive
variation in their envisonments. Organisms also undergo ontogenetic development
resulting from extremely complex interactions between the genetic makeup of the
organism and its successive environments. At each step, the course that an
organism takes is determined by an interplay between its genetic makeup, its
current state of development, and the environment it happens to confront. The
complexity of these interactions produces the naturenurture problem. Except for
human artifacts, similar organization does not occur in the non-living world.
The species problem is another classic issue in the philosophy of biology.
Biological species have been a paradigm example of natural kinds since
Aristotle. According to nearly all pre-Darwinian philosophers, species are part
of the basic makeup of the universe, like gravity and gold. They were held to
be as eternal, immutable, and discrete as these other examples of natural
kinds. If Darwin was right, species are not eternal. They come and go, and once
gone can no more reemerge than Aristotle can once again walk the streets of
Athens. Nor are species immutable. A sample of lead can be transmuted into a
sample of gold, but these elements as elements remain immutable in the face of
such changes. However, Darwin insisted that species themselves, not merely
their instances, evolved. Finally, because Darwin thought that species evolved
gradually, the boundaries between species are not sharp, casting doubt on the
essentialist doctrines so common in his day. In short, if species evolve, they
have none of the traditional characteristics of species. Philosophers and
biologists to this day are working out the consequences of this radical change
in our worldview. The topic that has received the greatest attention by
philosophers of biology in the recent literature is the nature of evolutionary
theory, in particular selection, adaptation, fitness, and the population
structure of species. In order for selection to operate, variation is
necessary, successive generations must be organized genealogically, and
individuals must interact differentially with their environments. In the
simplest case, genes pass on their structure largely intact. In addition, they
provide the information necessary to produce organisms. Certain of these
organisms are better able to cope with their environments and reproduce than
are other organisms. As a result, genes are perpetuated differentially through
successive generations. Those characteristics that help an organism cope with
its environments are termed adaptations. In a more restricted sense, only those
characteristics that arose through past selective advantage count as
adaptations. Just as the notion of IQ was devised as a single measure for a
combination of the factors that influence our mental abilities, fitness is a
measure of relative reproductive success. Claims about the tautological
character of the principle philosophical behaviorism philosophy of biology of
the survival of the fittest stem from the blunt assertion that fitness just is
relative reproductive success, as if intelligence just is what IQ tests
measure. Philosophers of biology have collaborated with biologists to analyze
the notion of fitness. This literature has concentrated on the role that
causation plays in selection and, hence, must play in any adequate explication
of fitness. One important distinction that has emerged is between replication
and differential interaction with the environment. Selection is a function of
the interplay between these two processes. Because of the essential role of
variation in selection, all the organisms that belong to the same species
either at any one time or through time cannot possibly be essentially the same.
Nor can species be treated adequately in terms of the statistical covariance of
either characters or genes. The populational structure of species is crucial.
For example, species that form numerous, partially isolated demes are much more
likely to speciate than those that do not. One especially controversial
question is whether species themselves can function in the evolutionary process
rather than simply resulting from it. Although philosophers of biology have
played an increasingly important role in biology itself, they have also
addressed more traditional philosophical questions, especially in connection
with evolutionary epistemology and ethics. Advocates of evolutionary
epistemology argue that knowledge can be understood in terms of the adaptive
character of accurate knowledge. Those organisms that hold false beliefs about
their environment, including other organisms, are less likely to reproduce
themselves than those with more accurate beliefs. To the extent that this
argument has any force at all, it applies only to humansized entities and
events. One common response to evolutionary epistemology is that sometimes
people who hold manifestly false beliefs flourish at the expense of those who
hold more realistic views of the world in which we live. On another version of
evolutionary epistemology, knowledge acquisition is viewed as just one more
instance of a selection process. The issue is not to justify our beliefs but to
understand how they are generated and proliferated. Advocates of evolutionary
ethics attempt to justify certain ethical principles in terms of their survival
value. Any behavior that increases the likelihood of survival and reproduction
is “good,” and anything that detracts from these ends is “bad.” The main
objection to evolutionary ethics is that it violates the isought distinction.
According to most ethical systems, we are asked to sacrifice ourselves for the
good of others. If these others were limited to our biological relatives, then
the biological notion of inclusive fitness might be adequate to account for
such altruistic behavior, but the scope of ethical systems extends past one’s
biological relatives. Advocates of evolutionary ethics are hard pressed to
explain the full range of behavior that is traditionally considered as
virtuous. Either biological evolution cannot provide an adequate justification
for ethical behavior or else ethical systems must be drastically reduced in
their scope. Refs.: Grice, “Philosophical biology: are we all emergentists?”
philosophical oeconomica: Grice: “The
oikos is the house – and a house is not a home unless there’s a cat around.” --
the study of methodological issues facing positive economic theory and
normative problems on the intersection of welfare economics and political
philosophy. Methodological issues. Applying approaches and questions in the
philosophy of science specifically to economics, the philosophy of economics
explores epistemological and conceptual problems raised by the explanatory aims
and strategy of economic theory: Do its assumptions about individual choice
constitute laws, and do they explain its derived generalizations about markets
and economies? Are these generalizations laws, and if so, how are they tested
by observation of economic processes, and how are theories in the various
compartments of economics
microeconomics, macroeconomics
related to one another and to econometrics? How are the various schools neoclassical, institutional, Marxian,
etc. related to one another, and what
sorts of tests might enable us to choose between their theories? Historically,
the chief issue of interest in the development of the philosophy of economics
has been the empirical adequacy of the assumptions of rational “economic man”:
that all agents have complete and transitive cardinal or ordinal utility
rankings or preference orders and that they always choose that available option
which maximizes their utility or preferences. Since the actual behavior of
agents appears to disconfirm these assumptions, the claim that they constitute
causal laws governing economic behavior is difficult to sustain. On the other
hand, the assumption of preference-maximizing behavior is indispensable to
twentieth-century economics. These two considerations jointly undermine the
claim that economic theory honors criteria on explanatory power and evidential
probity drawn philosophy of economics philosophy of economics 669 669 from physical science. Much work by
economists and philosophers has been devoted therefore to disputing the claim
that the assumptions of rational choice theory are false or to disputing the
inference from this claim to the conclusion that the cognitive status of
economic theory as empirical science is thereby undermined. Most frequently it
has been held that the assumptions of rational choice are as harmless and as
indispensable as idealizations are elsewhere in science. This view must deal
with the allegation that unlike theories embodying idealization elsewhere in
science, economic theory gains little more in predictive power from these
assumptions about agents’ calculations than it would secure without any
assumptions about individual choice. Normative issues. Both economists and
political philosophers are concerned with identifying principles that will
ensure just, fair, or equitable distributions of scarce goods. For this reason
neoclassical economic theory shares a history with utilitarianism in moral
philosophy. Contemporary welfare economics continues to explore the limits of
utilitarian prescriptions that optimal economic and political arrangements
should maximize and/or equalize utility, welfare, or some surrogate. It also
examines the adequacy of alternatives to such utilitarian principles. Thus,
economics shares an agenda of interests with political and moral philosophy.
Utilitarianism in economics and philosophy has been constrained by an early
realization that utilities are neither cardinally measurable nor interpersonally
comparable. Therefore the prescription to maximize and/or equalize utility
cannot be determinatively obeyed. Welfare theorists have nevertheless attempted
to establish principles that will enable us to determine the equity, fairness,
or justice of various economic arrangements, and that do not rely on
interpersonal comparisons required to measure whether a distribution is maximal
or equal in the utility it accords all agents. Inspired by philosophers who
have surrendered utilitarianism for other principles of equality, fairness, or
justice in distribution, welfare economists have explored Kantian, social
contractarian, and communitarian alternatives in a research program that cuts
clearly across both disciplines. Political philosophy has also profited as much
from innovations in economic theory as welfare economics has benefited from
moral philosophy. Theorems from welfare economics that establish the efficiency
of markets in securing distributions that meet minimal conditions of optimality
and fairness have led moral philosophers to reexamine the moral status of
free-market exchange. Moreover, philosophers have come to appreciate that
coercive social institutions are sometimes best understood as devices for
securing public goods goods like police
protection that cannot be provided to those who pay for them without also
providing them to free riders who decline to do so. The recognition that
everyone would be worse off, including free riders, were the coercion required
to pay for these goods not imposed, is due to welfare economics and has led to
a significant revival of interest in the work of Hobbes, who appears to have
prefigured such arguments.
philosophy of education: Grice: “To teach
is not the opposite of learn, even if The Wind in The Willows thus suggests. –
“ “To teach is etymologically, to ‘show, -- the ensign – To educate is of
course to guide, to lead, to conduce. Grice: “I taught Peters all he needed to
know about this!” -- a branch of philosophy concerned with virtually every
aspect of the educational enterprise. It significantly overlaps other, more
mainstream branches especially epistemology and ethics, but even logic and
metaphysics. The field might almost be construed as a “series of footnotes” to
Plato’s Meno, wherein are raised such fundamental issues as whether virtue can
be taught; what virtue is; what knowledge is; what the relation between
knowledge of virtue and being virtuous is; what the relation between knowledge
and teaching is; and how and whether teaching is possible. While few people
would subscribe to Plato’s doctrine or convenient fiction, perhaps in Meno that
learning by being taught is a process of recollection, the paradox of inquiry
that prompts this doctrine is at once the root text of the perennial debate
between rationalism and empiricism and a profoundly unsettling indication that
teaching passeth understanding. Mainstream philosophical topics considered
within an educational context tend to take on a decidedly genetic cast. So,
e.g., epistemology, which analytic philosophy has tended to view as a
justificatory enterprise, becomes concerned if not with the historical origins
of knowledge claims then with their genesis within the mental economy of
persons generally in consequence of
their educations. And even when philosophers of education come to endorse
something akin to Plato’s classic account of knowledge as justified true
belief, they are inclined to suggest, then, that the conveyance of knowledge
via instruction must somehow provide the student with the justification along
with the true philosophy of education philosophy of education 670 670 belief
thereby reintroducing a genetic dimension to a topic long lacking one.
Perhaps, indeed, analytic philosophy’s general though not universal neglect of
philosophy of education is traceable in some measure to the latter’s almost
inevitably genetic perspective, which the former tended to decry as armchair
science and as a threat to the autonomy and integrity of proper philosophical
inquiry. If this has been a basis for neglect, then philosophy’s more recent,
postanalytic turn toward naturalized inquiries that reject any dichotomy
between empirical and philosophical investigations may make philosophy of
education a more inviting area. Alfred North Whitehead, himself a leading light
in the philosophy of education, once remarked that we are living in the period
of educational thought subject to the influence of Dewey, and there is still no
denying the observation. Dewey’s instrumentalism, his special brand of
pragmatism, informs his extraordinarily comprehensive progressive philosophy of
education; and he once went so far as to define all of philosophy as the
general theory of education. He identifies the educative process with the
growth of experience, with growing as developing where experience is to be understood more in
active terms, as involving doing things that change one’s objective environment
and internal conditions, than in the passive terms, say, of Locke’s
“impression” model of experience. Even traditionalistic philosophers of
education, most notably Maritain, have acknowledged the wisdom of Deweyan
educational means, and have, in the face of Dewey’s commanding philosophical
presence, reframed the debate with progressivists as one about appropriate
educational ends thereby insufficiently
acknowledging Dewey’s trenchant critique of the meansend distinction. And even
some recent analytic philosophers of education, such as R. S. Peters, can be
read as if translating Deweyan insights e.g., about the aim of education into
an analytic idiom. Analytic philosophy of education, as charted by Oxford
philosopher R. S. Peters, Israel Scheffler, and others in the Anglo-
philosophical tradition, has used the tools of linguistic analysis on a wide
variety of educational concepts learning, teaching, training, conditioning,
indoctrinating, etc. and investigated their interconnections: Does teaching
entail learning? Does teaching inevitably involve indoctrinating? etc. This
careful, subtle, and philosophically sophisticated work has made possible a
much-needed conceptual precision in educational debates, though the debaters
who most influence public opinion and policy have rarely availed themselves of
that precisification. Recent work in philosophy of education, however, has
taken up some major educational objectives
moral and other values, critical and creative thinking in a way that promises to have an impact on
the actual conduct of education. Philosophy of education, long isolated in
schools of education from the rest of the academic philosophical community, has
also been somewhat estranged from the professional educational mainstream.
Dewey would surely have approved of a change in this status quo. Refs.: H. P. Grice, “Peters and I.”
philosophical historian: philosophical historian
– Grice as – longitudinal unity -- Danto, A. C. philosopher of art and art
history who has also contributed to the philosophies of history, action,
knowledge, science, and metaphilosophy. Among his influential studies in the
history of philosophy are books on Nietzsche, Sartre, and thought. Danto arrives at his philosophy of
art through his “method of indiscernibles,” which has greatly influenced
contemporary philosophical aesthetics. According to his metaphilosophy, genuine
philosophical questions arise when there is a theoretical need to differentiate
two things that are perceptually indiscernible
such as prudential actions versus moral actions Kant, causal chains
versus constant conjunctions Hume, and perfect dreams versus reality Descartes.
Applying the method to the philosophy of art, Danto asks what distinguishes an
artwork, such as Warhol’s Brillo Box, from its perceptually indiscernible,
real-world counterparts, such as Brillo boxes by Proctor and Gamble. His answer his partial definition of art is that x is a work of art only if 1 x is
about something and 2 x embodies its meaning i.e., discovers a mode of
presentation intended to be appropriate to whatever subject x is about. These
two necessary conditions, Danto claims, enable us to distinguish between
artworks and real things between
Warhol’s Brillo Box and Proctor and Gamble’s. However, critics have pointed out
that these conditions fail, since real Brillo boxes are about something Brillo
about which they embody or convey meanings through their mode of presentation
viz., that Brillo is clean, fresh, and dynamic. Moreover, this is not an
isolated example. Danto’s theory of art confronts systematic difficulties in
differentiating real cultural artifacts, such as industrial packages, from artworks
proper. In addition to his philosophy of art, Danto proposes a philosophy of
art history. Like Hegel, Danto maintains that art history as a developmental, progressive process has ended. Danto believes that modern art has
been primarily reflexive i.e., about itself; it has attempted to use its own
forms and strategies to disclose the essential nature of art. Cubism and
abstract expressionism, for example, exhibit saliently the two-dimensional
nature of painting. With each experiment, modern art has gotten closer to
disclosing its own essence. But, Danto argues, with works such as Warhol’s
Brillo Box, artists have taken the philosophical project of self-definition as
far as they can, since once an artist like Warhol has shown that artworks can
be perceptually indiscernible from “real things” and, therefore, can look like
anything, there is nothing further that the artist qua artist can show through
the medium of appearances about the nature of art. The task of defining art
must be reassigned to philosophers to be treated discursively, and art
history as the developmental,
progressive narrative of self-definition
ends. Since that turn of events was putatively precipitated by Warhol in
the 0s, Danto calls the present period of art making “post-historical.” As an
art critic for The Nation, he has been chronicling its vicissitudes for a
decade and a half. Some dissenters, nevertheless, have been unhappy with
Danto’s claim that art history has ended because, they maintain, he has failed
to demonstrate that the only prospects for a developmental, progressive history
of art reside in the project of the self-definition of art. “There are two
concerns by the philosopher with history – the history of philosophy as a
philosophical discipline – and the philosophy of history per se. In the latter,
in what way can we say that decapitation willed the death of Charles II?” –
Refs.: H. P. Grice, “Philosophy’s Two Co-Ordinate Unities: Lat. and Long.,”
“Kantotle or Ariskant? The Co-Ordinate Unity of Philosophy.” Grice is more
interested in philosophical historiography than history itself! He makes some
hypotheses about the movement he belonged to, and he hoped that what he had to
say related to what he called Athenian dialectic! In stressing the
‘continuity,’ or unity, of philosophy both latitudinal and longidtudinal, Grice
is inviting historiography as more than ancilla philosophiae. This at a time
when analyticd philowophers, mainly in the New World, “where they really lack a
history,” were propagating the slogan that to philosophise is NOT do to history
of philosophy!” philosophy of history, the philosophical study of human history
and of attempts to record and interpret it. ‘History’ in English and its
equivalent in most modern European languages has two primary senses: 1 the
temporal progression of large-scale human events and actions, primarily but not
exclusively in the past; and 2 the discipline or inquiry in which knowledge of
the human past is acquired or sought. This has led to two senses of ‘philosophy
of history’, depending on which “history” has been the object of philosophers’
attentions. Philosophy of history in the first sense is often called
substantive or speculative, and placed under metaphysics. Philosophy of history
in the second sense is called critical or analytic and can be placed in
epistemology. Substantive philosophy of history. In the West, substantive
philosophy of history is thought to begin only in the Christian era. In the
City of God, Augustine wonders why Rome flourished while pagan, yet fell into
disgrace after its conversion to Christiantity. Divine reward and punishment
should apply to whole peoples, not just to individuals. The unfolding of events
in history should exhibit a plan that is intelligible rationally, morally, and
for Augustine theologically. As a believer Augustine is convinced that there is
such a plan, though it may not always be evident. In the modern period,
philosophers such as Vico and Herder also sought such intelligibility in
history. They also believed in a long-term direction or purpose of history that
is often opposed to and makes use of the purposes of individuals. The most
elaborate and best-known example of this approach is found in Hegel, who
thought that the gradual realization of human freedom could be discerned in
history even if much slavery, tyranny, and suffering are necessary in the
process. Marx, too, claimed to know the laws
in his case economic according to
which history unfolds. Similar searches for overall “meaning” in human history
have been undertaken in the twentieth century, notably by Arnold Toynbee 95,
author of the twelve-volume Study of History, and Oswald Spengler 06, author of
Decline of the West. But the whole enterprise was denounced by the positivists
and neo-Kantians of the late nineteenth century as irresponsible metaphysical
speculation. This attitude was shared by twentieth-century neopositivists and
some of their heirs in the analytic tradition. There is some irony in this,
since positivism, explicitly in thinkers like Comte and implicitly in others,
involves belief in progressively enlightened stages of human history crowned by
the modern age of science. Critical philosophy of history. The critical
philosophy of history, i.e., the epistemology of historical knowledge, can be
traced to the late nineteenth century and has been dominated by the paradigm of
the natural sciences. Those in the positivist, neopositivist, and
postpositivist tradition, in keeping with the idea of the unity of science,
believe that to know the historical past is to explain events causally, and all
causal explanation is ultimately of the same sort. To explain human events is
to derive them from laws, which may be social, psychological, and perhaps
ultimately biological and physical. Against this reductionism, the neo-Kantians
and Dilthey argued that history, like other humanistic disciplines
Geisteswissenschaften, follows irreducible rules of its own. It is concerned
with particular events or developments for their own sake, not as instances of
general laws, and its aim is to understand, rather than explain, human actions.
This debate was resurrected in the twentieth century in the English-speaking
world. Philosophers like Hempel and Morton White b.7 elaborated on the notion
of causal explanation in history, while Collingwood and William Dray b.1
described the “understanding” of historical agents as grasping the thought
behind an action or discovering its reasons rather than its causes. The
comparison with natural science, and the debate between reductionists and antireductionists,
dominated other questions as well: Can or should history be objective and
valuefree, as science purportedly is? What is the significance of the fact that
historians can never perceive the events that interest them, since they are in
the past? Are they not limited by their point of view, their place in history,
in a way scientists are not? Some positivists were inclined to exclude history
from science, rather than make it into one, relegating it to “literature”
because it could never meet the standards of objectivity and genuine
explanation; it was often the anti-positivists who defended the cognitive
legitimacy of our knowledge of the past. In the non-reductionist tradition,
philosophers have increasingly stressed the narrative character of history: to
understand human actions generally, and past actions in particular, is to tell
a coherent story about them. History, according to W. B. Gallie b.2, is a
species of the genus Story. History does not thereby become fiction: narrative
remains a “cognitive instrument” Louis Mink, 183 just as appropriate to its
domain as theory construction is to science. Nevertheless, concepts previously
associated with fictional narratives, such as plot structure and
beginning-middle-end, are seen as applying to historical narratives as well.
This tradition is carried further by Hayden White b.8, who analyzes classical
nineteenth-century histories and even substantive philosophies of history such
as Hegel’s as instances of romance, comedy, tragedy, and satire. In White’s
work this mode of analysis leads him to some skepticism about history’s
capacity to “represent” the reality of the past: narratives seem to be imposed
upon the data, often for ideological reasons, rather than drawn from them. To
some extent White’s view joins that of some positivists who believe that
history’s literary character excludes it from the realm of science. But for
White this is hardly a defect. Some philosophers have criticized the emphasis
on narrative in discussions of history, since it neglects search and discovery,
deciphering and evaluating sources, etc., which is more important to historians
than the way they “write up” their results. Furthermore, not all history is
presented in narrative form. The debate between pro- and anti-narrativists among
philosophers of history has its parallel in a similar debate among historians
themselves. Academic history in recent times has seen a strong turn away from
traditional political history toward social, cultural, and economic analyses of
the human past. Narrative is associated with the supposedly outmoded focus on
the doings of kings, popes, and generals. These are considered e.g. by the historian Fernand Braudel, 285 merely surface
ripples compared to the deeper-lying and slower-moving currents of social and
economic change. It is the methods and concepts of the social sciences, not the
art of the storyteller, on which the historian must draw. This debate has now
lost some of its steam and narrative history has made something of a comeback
among historians. Among philosophers Paul Ricoeur has tried to show that even
ostensibly non-narrative history retains narrative features. Historicity.
Historicity or historicality: Geschichtlichkeit is a term used in the
phenomenological and hermeneutic tradition from Dilthey and Husserl through
Heidegger and Gadamer to indicate an essential feature of human existence.
Persons are not merely in history; their past, including their social past,
figures in their conception of themselves and their future possibilities. Some
awareness of the past is thus constitutive of the self, prior to being formed
into a cognitive discipine. Modernism and the postmodern. It is possible to
view some of the debates over the modern and postmodern in recent Continental
philosophy as a new kind of philosophy of history. Philosophers like Lyotard
and Foucault see the modern as the period from the Enlightenment and
Romanticism to the present, characterized chiefly by belief in “grand
narratives” of historical progress, whether capitalist, Marxist, or positivist,
with “man” as the triumphant hero of the story. Such belief is now being or
should be abandoned, bringing modernism to an end. In one sense this is like
earlier attacks on the substantive philosophy of history, since it unmasks as
unjustified moralizing certain beliefs about large-scale patterns in history.
It goes even further than the earlier attack, since it finds these beliefs at
work even where they are not explicitly expressed. In another sense this is a
continuation of the substantive philosophy of history, since it makes its own
grand claims about largescale historical patterns. In this it joins hands with
other philosophers of our day in a general historicization of knowledge e.g.,
the philosophy of science merges with the history of science and even of
philosophy itself. Thus the later Heidegger
and more recently Richard Rorty
view philosophy itself as a large-scale episode in Western history that
is nearing or has reached its end. Philosophy thus merges with the history of
philosophy, but only thanks to a philosophical reflection on this history as
part of history as a whole.
jus: prudentia iuris,
iuris-prudentia, iurisprudentia -- Jurisprudence – Grice: “The root of ‘juris’
is an interesting one – before Hart and his legalese, it was all about ethics’!”
The Roman expression ‘jus,’ not to be confused with
‘jus,’ which meant ‘juice,’ as in ‘orange juice,’ is kindred with Sanscrit,
“yu,” to join; cf. ζεύγνυμι, and jungo, qs. the
binding, obliging; in this way, it compares with “lex,” which derives from
“ligo,” -- right, law, justice. The ‘jungo’ gives the family of
expressions like ‘con-junctum,’ joined. The idea is that if you are bound, you
are obliged. -- Hartian
jurisprudence – Grice on Hartian jurisprudence -- philosophy of law, also
called general jurisprudence, the study of conceptual and theoretical problems
concerning the nature of law as such, or common to any legal system. Problems
in the philosophy of law fall roughly into two groups. The first contains
problems internal to law and legal systems as such. These include a the nature
of legal rules; the conditions under which they can be said to exist and to
influence practice; their normative character, as mandatory or advisory; and
the indeterminacy of their language; b the structure and logical character of
legal norms; the analysis of legal principles as a class of legal norms; and
the relation between the normative force of law and coercion; c the identity
conditions for legal systems; when a legal system exists; and when one legal
system ends and another begins; d the nature of the reasoning used by courts in
adjudicating cases; e the justification of legal decisions; whether legal
justification is through a chain of inferences or by the coherence of norms and
decisions; and the relation between intralegal and extralegal justification; f
the nature of legal validity and of what makes a norm a valid law; the relation
between validity and efficacy, the fact that the norms of a legal system are
obeyed by the norm-subjects; g properties of legal systems, including
comprehensiveness the claim to regulate any behavior and completeness the
absence of gaps in the law; h legal rights; under what conditions citizens
possess them; and their analytical structure as protected normative positions;
i legal interpretation; whether it is a pervasive feature of law or is found
only in certain kinds of adjudication; its rationality or otherwise; and its
essentially ideological character or otherwise. The second group of problems
concerns the philosophy of law philosophy of law 676 676 relation between law as one particular
social institution in a society and the wider political and moral life of that
society: a the nature of legal obligation; whether there is an obligation,
prima facie or final, to obey the law as such; whether there is an obligation
to obey the law only when certain standards are met, and if so, what those
standards might be; b the authority of law; and the conditions under which a
legal system has political or moral authority or legitimacy; c the functions of
law; whether there are functions performed by a legal system in a society that
are internal to the design of law; and analyses from the perspective of
political morality of the functioning of legal systems; d the legal concept of
responsibility; its analysis and its relation to moral and political concepts
of responsibility; in particular, the place of mental elements and causal
elements in the assignment of responsibility, and the analysis of those
elements; e the analysis and justification of legal punishment; f legal
liberty, and the proper limits or otherwise of the intrusion of the legal system
into individual liberty; the plausibility of legal moralism; g the relation
between law and justice, and the role of a legal system in the maintenance of
social justice; h the relation between legal rights and political or moral
rights; i the status of legal reasoning as a species of practical reasoning;
and the relation between law and practical reason; j law and economics; whether
legal decision making in fact tracks, or otherwise ought to track, economic
efficiency; k legal systems as sources of and embodiments of political power;
and law as essentially gendered, or imbued with race or class biases, or
otherwise. Theoretical positions in the philosophy of law tend to group into
three large kinds legal positivism,
natural law, and legal realism. Legal positivism concentrates on the first set
of problems, and typically gives formal or content-independent solutions to
such problems. For example, legal positivism tends to regard legal validity as
a property of a legal rule that the rule derives merely from its formal
relation to other legal rules; a morally iniquitous law is still for legal
positivism a valid legal rule if it satisfies the required formal existence
conditions. Legal rights exist as normative consequences of valid legal rules;
no questions of the status of the right from the point of view of political
morality arise. Legal positivism does not deny the importance of the second set
of problems, but assigns the task of treating them to other disciplines political philosophy, moral philosophy, sociology,
psychology, and so forth. Questions of how society should design its legal
institutions, for legal positivism, are not technically speaking problems in
the philosophy of law, although many legal positivists have presented their
theories about such questions. Natural law theory and legal realism, by
contrast, regard the sharp distinction between the two kinds of problem as an
artifact of legal positivism itself. Their answers to the first set of problems
tend to be substantive or content-dependent. Natural law theory, for example,
would regard the question of whether a law was consonant with practical reason,
or whether a legal system was morally and politically legitimate, as in whole
or in part determinative of the issue of legal validity, or of whether a legal
norm granted a legal right. The theory would regard the relation between a
legal system and liberty or justice as in whole or in part determinative of the
normative force and the justification for that system and its laws. Legal
realism, especially in its contemporary politicized form, sees the claimed role
of the law in legitimizing certain gender, race, or class interests as the
prime salient property of law for theoretical analysis, and questions of the
determinacy of legal rules or of legal interpretation or legal right as of
value only in the service of the project of explaining the political power of
law and legal systems. Refs.: H. P. Grice, “Does Oxford need a chair of
jurisprudence” – symposium with H. L. A. Hart, conducted on the Saturday
morning following Hart’s appointment as chair of jurisprudence.”
Literae humaniores. Grice took
‘literature’ seriously. “After all, I am a Lit. Hum. master! And previously a
Lit. Hum. BACHELOR” – He made a strict distinction, seeing that at Oxford, a
master can do things a bachelor cannot – like marry! philosophy of literature:
Grice: “When I got my Masters in Literae Humaniores, the more human letters, my
mather said – which are the less human ones?” -- literary theory. However,
while the literary theorist, who is often a literary critic, is primarily
interested in the conceptual foundations of practical criticism, philosophy of
literature, usually done by philosophers, is more often concerned to place
literature in the context of a philosophical system. Plato’s dialogues have
much to say about poetry, mostly by way of aligning it with Plato’s
metaphysical, epistemological, and ethico-political views. Aristotle’s Poetics,
the earliest example of literary theory in the West, is also an attempt to accommodate
the practice of Grecian poets to Aristotle’s philosophical system as a whole.
Drawing on the thought of philosophers like Kant and Schelling, Samuel Taylor
Coleridge offers in his Biographia Literaria a philosophy of literature that is
to Romantic poetics what Aristotle’s treatise is to classical poetics: a
literary theory that is confirmed both by the poets whose work it legitimates
and by the metaphysics that recommends it. Many philosophers, among them Hume,
Schopenhauer, Heidegger, and Sartre, have tried to make room for literature in
their philosophical edifices. Some philosophers, e.g., the G. Romantics, have
made literature and the other arts the cornerstone of philosophy itself. See
Philippe Lacoue-Labarthe and Jean-Luc Nancy, The Literary Absolute, 8.
Sometimes ‘philosophy of literature’ is understood in a second sense:
philosophy and literature; i.e., philosophy and literature taken to be distinct
and essentially autonomous activities that may nonetheless sustain determinate
relations to each other. Philosophy of literature, understood in this way, is
the attempt to identify the differentiae that distinguish philosophy from
literature and to specify their relationships to each other. Sometimes the two
are distinguished by their subject matter e.g., philosophy deals with objective
structures, literature with subjectivity, sometimes by their methods philosophy
is an act of reason, literature the product of imagination, inspiration, or the
unconscious, sometimes by their effects philosophy produces knowledge,
literature produces emotional fulfillment or release, etc. Their relationships
then tend to occupy the areas in which they are not essentially distinct. If
their subject matters are distinct, their effects may be the same philosophy
and literature both produce understanding, the one of fact and the other of
feeling; if their methods are distinct, they may be approaching the same
subject matter in different ways; and so on. For Aquinas, e.g., philosophy and
poetry may deal with the same objects, the one communicating truth about the
object in syllogistic form, the other inspiring feelings about it through
figurative language. For Heidegger, the philosopher investigates the meaning of
being while the poet names the holy, but their preoccupations tend to converge
at the deepest levels of thinking. For Sartre, literature is philosophy engagé,
existential-political activity in the service of freedom. ’Philosophy of
literature’ may also be taken in a third sense: philosophy in literature, the
attempt to discover matters of philosophical interest and value in literary
texts. The philosopher may undertake to identify, examine, and evaluate the
philosophical content of literary texts that contain expressions of
philosophical ideas and discussions of philosophical problems e.g., the debates on free will and theodicy
in Fyodor Dostoevsky’s The Brothers Karamazov. Many if not most courses on philosophy of literature are
taught from this point of view. Much interesting and important work has been
done in this vein; e.g., Santayana’s Three Philosophical Poets 0, Cavell’s
essays on Emerson and Thoreau, and Nussbaum’s Love’s Knowledge 9. It should be
noted, however, that to approach the matter in this way presupposes that
literature and philosophy are simply different forms of the same content: what
philosophy expresses in the form of argument literature expresses in lyric,
dramatic, or narrative form. The philosopher’s treatment of literature implies
that he is uniquely positioned to explicate the subject matter treated in both
literary and philosophical texts, and that the language of philosophy gives
optimal expression to a content less adequately expressed in the language of
literature. The model for this approach may well be Hegel’s Phenomenology of
Spirit, which treats art along with religion as imperfect adumbrations of a
truth that is fully and properly articulated only in the conceptual mode of
philosophical dialectic. Dissatisfaction with this presupposition and its
implicit privileging of philosophy over literature has led to a different view
of the relation between philosophy and literature and so to a different program
for philosophy of literature. The self-consciously literary form of
Kierkegaard’s writing is an integral part of his polemic against the
philosophical imperialism of the Hegelians. In this century, the work of
philosophers like Derrida and the philosophers and critics who follow his lead
suggests that it is mistaken to regard philosophy and literature as alternative
expressions of an identical content, and seriously mistaken to think of
philosophy as the master discourse, the “proper” expression of a content
“improperly” expressed in literature. All texts, on this view, have a
“literary” form, the texts of philosophers as well as the texts of novelists
and poets, and their content is internally determined by their “means of
expression.” There is just as much “literature in philosophy” as there is
“philosophy in literature.” Consequently, the philosopher of literature may no
longer be able simply to extract philosophical matter from literary form.
Rather, the modes of literary expression confront the philosopher with problems
that bear on the presuppositions of his own enterprise. E.g., fictional mimesis
especially in the works of postmodern writers raises questions about the
possibility and the prephilosophy of literature philosophy of literature
678 678 philosophy of logic philosophy
of logic 679 sumed normativeness of factual representation, and in so doing
tends to undermine the traditional hierarchy that elevates “fact” over
“fiction.” Philosophers’ perplexity over the truth-value of fictional
statements is an example of the kind of problems the study of literature can
create for the practice of philosophy see Rorty, Consequences of Pragmatism, 2,
ch. 7. Or again, the self-reflexivity of contemporary literary texts can lead
philosophers to reflect critically on their own undertaking and may seriously
unsettle traditional notions of self-referentiality. When it is not regarded as
another, attractive but perhaps inferior source of philosophical ideas,
literature presents the philosopher with epistemological, metaphysical, and
methodological problems not encountered in the course of “normal”
philosophizing. Refs.: H. P. Grice, “Why a philosopher is a literary soul at
Oxford: the etymological meaning of ‘literae humaniores.’”
semantics – Grice, “Mathematics and the
synthetic a priorir,” Grice on Warnock’s Oxford readings in philosophy, ‘The
philosophy of mathematics,’ Austin on Frege’s arithmetic -- philosophical
geometer, philosophical mathematician –
H. P. Grice, “ΑΓΕΩΜΕΤΡΗΤΟΣ ΜΗΔΕΙΣ ΕΙΣΙΤΩ;
or, The school of Plato.” philosophy of
mathematics, the study of ontological and epistemological problems raised by
the content and practice of mathematics. The present agenda in this field
evolved from critical developments, notably the collapse of Pythagoreanism, the
development of modern calculus, and an early twentieth-century foundational
crisis, which forced mathematicians and philosophers to examine mathematical
methods and presuppositions. Grecian mathematics. The Pythagoreans, who
represented the height of early demonstrative Grecian mathematics, believed
that all scientific relations were measureable by natural numbers 1, 2, 3, etc.
or ratios of natural numbers, and thus they assumed discrete, atomic units for
the measurement of space, time, and motion. The discovery of irrational
magnitudes scotched the first of these beliefs. Zeno’s paradoxes showed that
the second was incompatible with the natural assumption that space and time are
infinitely divisible. The Grecian reaction, ultimately codified in Euclid’s
Elements, included Plato’s separation of mathematics from empirical science
and, within mathematics, distinguished number theory a study of discretely ordered entities from geometry, which concerns continua.
Following Aristotle and employing methods perfected by Eudoxus, Euclid’s proofs
used only “potentially infinite” geometric and arithmetic procedures. The
Elements’ axiomatic form and its constructive proofs set a standard for future
mathematics. Moreover, its dependence on visual intuition whose consequent
deductive gaps were already noted by Archimedes, together with the challenge of
Euclid’s infamous fifth postulate about parallel lines, and the famous unsolved
problems of compass and straightedge construction, established an agenda for
generations of mathematicians. The calculus. The two millennia following Euclid
saw new analytical tools e.g., Descartes’s geometry that wedded arithmetic and
geometric considerations and toyed with infinitesimally small quantities.
These, together with the demands of physical application, tempted
mathematicians to abandon the pristine Grecian dichotomies. Matters came to a
head with Newton’s and Leibniz’s almost simultaneous discovery of the powerful
computational techniques of the calculus. While these unified physical science
in an unprecedented way, their dependence on unclear notions of infinitesimal
spatial and temporal increments emphasized their shaky philosophical
foundation. Berkeley, for instance, condemned the calculus for its
unintuitability. However, this time the power of the new methods inspired a
decidedly conservative response. Kant, in particular, tried to anchor the new
mathematics in intuition. Mathematicians, he claimed, construct their objects
in the “pure intuitions” of space and time. And these mathematical objects are
the a priori forms of transcendentally ideal empirical objects. For Kant this
combination of epistemic empiricism and ontological idealism explained the
physical applicability of mathematics and thus granted “objective validity”
i.e., scientific legitimacy to mathematical procedures. Two nineteenth-century
developments undercut this Kantian constructivism in favor of a more abstract
conceptual picture of mathematics. First, Jànos Bolyai, Carl F. Gauss, Bernhard
Riemann, Nikolai Lobachevsky, and others produced consistent non-Euclidean
geometries, which undid the Kantian picture of a single a priori science of
space, and once again opened a rift between pure mathematics and its physical
applications. Second, Cantor and Dedekind defined the real numbers i.e., the
elements of the continuum as infinite sets of rational and ultimately natural
numbers. Thus they founded mathematics on the concepts of infinite set and
natural number. Cantor’s set theory made the first concept rigorously
mathematical; while Peano and Frege both of whom advocated securing rigor by
using formal languages did that for the second. Peano axiomatized number
theory, and Frege ontologically reduced the natural numbers to sets indeed sets
that are the extensions of purely logical concepts. Frege’s Platonistic
conception of numbers as unintuitable objects and his claim that mathematical
truths follow analytically from purely logical definitions the thesis of logicism are both highly anti-Kantian. Foundational
crisis and movements. But antiKantianism had its own problems. For one thing,
Leopold Kronecker, who following Peter Dirichlet wanted mathematics reduced to
arithmetic and no further, attacked Cantor’s abstract set theory on doctrinal
grounds. Worse yet, the discovery of internal antinomies challenged the very
consistency of abstract foundations. The most famous of these, Russell’s
paradox the set of all sets that are not members of themselves both is and
isn’t a member of itself, undermined Frege’s basic assumption that every
well-formed concept has an extension. This was a full-scale crisis. To be sure,
Russell himself together with Whitehead preserved the logicist foundational
approach by organizing the universe of sets into a hierarchy of levels so that
no set can be a member of itself. This is type theory. However, the crisis
encouraged two explicitly Kantian foundational projects. The first, Hilbert’s
Program, attempted to secure the “ideal” i.e., infinitary parts of mathematics
by formalizing them and then proving the resultant formal systems to be
conservative and hence consistent extensions of finitary theories. Since the
proof itself was to use no reasoning more complicated than simple numerical
calculations finitary reasoning the whole metamathematical project belonged
to the untainted “contentual” part of mathematics. Finitary reasoning was
supposed to update Kant’s intuition-based epistemology, and Hilbert’s
consistency proofs mimic Kant’s notion of objective validity. The second
project, Brouwer’s intuitionism, rejected formalization, and was not only
epistemologically Kantian resting mathematical reasoning on the a priori
intuition of time, but ontologically Kantian as well. For intuitionism
generated both the natural and the real numbers by temporally ordered conscious
acts. The reals, in particular, stem from choice sequences, which exploit
Brouwer’s epistemic assumptions about the open future. These foundational
movements ultimately failed. Type theory required ad hoc axioms to express the
real numbers; Hilbert’s Program foundered on Gödel’s theorems; and intuitionism
remained on the fringes because it rejected classical logic and standard mathematics.
Nevertheless the legacy of these movements
their formal methods, indeed their philosophical agenda still characterizes modern research on the
ontology and epistemology of mathematics. Set theory, e.g. despite recent
challenges from category theory, is the lingua franca of modern mathematics.
And formal languages with their precise semantics are ubiquitous in technical
and philosophical discussions. Indeed, even intuitionistic mathematics has been
formalized, and Michael Dummett has recast its ontological idealism as a
semantic antirealism that defines truth as warranted assertability. In a
similar semantic vein, Paul Benacerraf proposed that the philosophical problem
with Hilbert’s approach is inability to provide a uniform realistic i.e., referential,
non-epistemic semantics for the allegedly ideal and contentual parts of
mathematics; and the problem with Platonism is that its semantics makes its
objects unknowable. Ontological issues. From this modern perspective, the
simplest realism is the outright Platonism that attributes a standard model
consisting of “independent” objects to classical theories expressed in a
first-order language i.e., a language whose quantifiers range over objects but
not properties. But in fact realism admits variations on each aspect. For one
thing, the Löwenheim-Skolem theorem shows that formalized theories can have
non-standard models. There are expansive non-standard models: Abraham Robinson,
e.g., used infinitary non-standard models of Peano’s axioms to rigorously reintroduce
infinitesimals. Roughly, an infinitesimal is the reciprocal of an infinite
element in such a model. And there are also “constructive” models, whose
objects must be explicitly definable. Predicative theories inspired by Poincaré
and Hermann Weyl, whose stage-by-stage definitions refer only to previously
defined objects, produce one variety of such models. Gödel’s constructive
universe, which uses less restricted definitions to model apparently
non-constructive axioms like the axiom of choice, exemplifies another variety.
But there are also views various forms of structuralism which deny that formal
theories have unique standard models at all. These views inspired by the fact, already sensed by
Dedekind, that there are multiple equivalid realizations of formal
arithmetic allow a mathematical theory
to characterize only a broad family of models and deny unique reference to
mathematical terms. Finally, some realistic approaches advocate formalization
in secondorder languages, and some eschew ordinary semantics altogether in
favor of substitutional quantification. These latter are still realistic, for
they still distinguish truth from knowledge. Strict finitists inspired by Vitters’s more stringent
epistemic constraints reject even the
open-futured objects admitted by Brouwer, and countenance only finite or even
only “feasible” objects. In the other direction, A. A. Markov and his school in
Russia introduced a syntactic notion of algorithm from which they developed the
field of “constructive analysis.” And the
mathematician Errett Bishop, starting from a Brouwer-like disenchantment
with mathematical realism and with strictly formal approaches, recovered large
parts of classical analysis within a non-formal constructive framework. All of
these approaches assume abstract i.e., causally isolated mathematical objects,
and thus they have difficulty explaining the wide applicability of mathematics
constructive or otherwise within empirical science. One response, Quine’s
“indispensability” view, integrates mathematical theories into the general
network of empirical science. For Quine, mathematical objects just like ordinary physical objects exist simply in virtue of being referents for
terms in our best scientific theory. By contrast Hartry Field, who denies that
any abstract objects exist, also denies that any purely mathematical assertions
are literally true. Field attempts to recast physical science in a relational
language without mathematical terms and then use Hilbert-style conservative
extension results to explain the evident utility of abstract mathematics.
Hilary Putnam and Charles Parsons have each suggested views according to which
mathematics has no objects proper to itself, but rather concerns only the
possibilities of physical constructions. Recently, Geoffrey Hellman has
combined this modal approach with structuralism. Epistemological issues. The
equivalence proved in the 0s of several different representations of
computability to the reasoning representable in elementary formalized
arithmetic led Alonzo Church to suggest that the notion of finitary reasoning
had been precisely defined. Church’s thesis so named by Stephen Kleene inspired
Georg Kreisel’s investigations in the 0s and 70s of the general conditions for
rigorously analyzing other informal philosophical notions like semantic
consequence, Brouwerian choice sequences, and the very notion of a set. Solomon
Feferman has suggested more recently that this sort of piecemeal conceptual
analysis is already present in mathematics; and that this rather than any
global foundation is the true role of foundational research. In this spirit,
the relative consistency arguments of modern proof theory a continuation of
Hilbert’s Program provide information about the epistemic grounds of various
mathematical theories. Thus, on the one hand, proofs that a seemingly
problematic mathematical theory is a conservative extension of a more secure
theory provide some epistemic support for the former. In the other direction,
the fact that classical number theory is consistent relative to intuitionistic
number theory shows contra Hilbert that his view of constructive reasoning must
differ from that of the intuitionists. Gödel, who did not believe that
mathematics required any ties to empirical perception, suggested nevertheless
that we have a special nonsensory faculty of mathematical intuition that, when
properly cultivated, can help us decide among formally independent propositions
of set theory and other branches of mathematics. Charles Parsons, in contrast,
has examined the place of perception-like intuition in mathematical reasoning.
Parsons himself has investigated models of arithmetic and of set theory
composed of quasi-concrete objects e.g., numerals and other signs. Others
consistent with some of Parsons’s observations have given a Husserlstyle
phenomenological analysis of mathematical intuition. Frege’s influence
encouraged the logical positivists and other philosophers to view mathematical
knowledge as analytic or conventional. Poincaré responded that the principle of
mathematical induction could not be analytic, and Vitters also attacked this
conventionalism. In recent years, various formal independence results and
Quine’s attack on analyticity have encouraged philosophers and historians of
mathematics to focus on cases of mathematical knowledge that do not stem from
conceptual analysis or strict formal provability. Some writers notably Mark
Steiner and Philip Kitcher emphasize the analogies between empirical and
mathematical discovery. They stress such things as conceptual evolution in
mathematics and instances of mathematical generalizations supported by
individual cases. Kitcher, in particular, discusses the analogy between
axiomatization in mathematics and theoretical unification. Penelope Maddy has
investigated the intramathematical grounds underlying the acceptance of various
axioms of set theory. More generally, Imre Lakatos argued that most
mathematical progress stems from a concept-stretching process of conjecture,
refutation, and proof. This view has spawned a historical debate about whether
critical developments such as those mentioned above represent Kuhn-style
revolutions or even crises, or whether they are natural conceptual advances in
a uniformly growing science. Semantics
-- philosophical mathematics: Grice: “Not for nothing Plato’s academy motto
was, “Lascite ogni non-geometria voi ch’entrate!” ΑΓΕΩΜΕΤΡΗΤΟΣ
ΜΗΔΕΙΣ ΕΙΣΙΤΩ – “a-gemetretos medeis eiseto” Grice thought that “7 + 5 =
12” was either synthetic or analytic – “but hardly both”. Grice on real numbers
-- continuum problem, an open question that arose in Cantor’s theory of
infinite cardinal numbers. By definition, two sets have the same cardinal
number if there is a one-to-one correspondence between them. For example, the
function that sends 0 to 0, 1 to 2, 2 to 4, etc., shows that the set of even
natural numbers has the same cardinal number as the set of all natural numbers,
namely F0. That F0 is not the only infinite cardinal follows from Cantor’s
theorem: the power set of any set i.e., the set of all its subsets has a
greater cardinality than the set itself. So, e.g., the power set of the natural
numbers, i.e., the set of all sets of natural numbers, has a cardinal number
greater than F0. The first infinite number greater than F0 is F1; the next
after that is F2, and so on. When arithmetical operations are extended into the
infinite, the cardinal number of the power set of the natural numbers turns out
to be 2F0. By Cantor’s theorem, 2F0 must be greater than F0; the conjecture
that it is equal to F1 is Cantor’s continuum hypothesis in symbols, CH or 2F0 %
F1. Since 2F0 is also the cardinality of the set of points on a continuous
line, CH can also be stated in this form: any infinite set of points on a line
can be brought into one-to-one correspondence either with the set of natural
numbers or with the set of all points on the line. Cantor and others attempted
to prove CH, without success. It later became clear, due to the work of Gödel
and Cohen, that their failure was inevitable: the continuum hypothesis can
neither be proved nor disproved from the axioms of set theory ZFC. The question
of its truth or falsehood the continuum
problem remains open. Philosophical mathematics: Grice on “7 + 5 =
12” -- Dedekind, R. G. mathematician, one of the most important figures in the
mathematical analysis of foundational questions that took place in the late
nineteenth century. Philosophically, three things are interesting about
Dedekind’s work: 1 the insistence that the fundamental numerical systems of mathematics
must be developed independently of spatiotemporal or geometrical notions; 2 the
insistence that the numbers systems rely on certain mental capacities
fundamental to thought, in particular on the capacity of the mind to “create”;
and 3 the recognition that this “creation” is “creation” according to certain
key properties, properties that careful mathematical analysis reveals as
essential to the subject matter. 1 is a concern Dedekind shared with Bolzano,
Cantor, Frege, and Hilbert; 2 sets Dedekind apart from Frege; and 3 represents
a distinctive shift toward the later axiomatic position of Hilbert and somewhat
away from the concern with the individual nature of the central abstract
mathematical objects which is a central concern of Frege. Much of Dedekind’s
position is sketched in the Habilitationsrede of 1854, the procedure there
being applied in outline to the extension of the positive whole numbers to the
integers, and then to the rational field. However, the two works best known to
philosophers are the monographs on irrational numbers Stetigkeit und
irrationale Zahlen, 1872 and on natural numbers Was sind und was sollen die
Zahlen?, 8, both of which pursue the procedure advocated in 1854. In both we
find an “analysis” designed to uncover the essential properties involved,
followed by a “synthesis” designed to show that there can be such systems, this
then followed by a “creation” of objects possessing the properties and nothing
more. In the 1872 work, Dedekind suggests that the essence of continuity in the
reals is that whenever the line is divided into two halves by a cut, i.e., into
two subsets A1 and A2 such that if p 1 A1 and q 1 A2, then p ‹ q and, if p 1 A1
and q ‹ p, then q 1 A1, and if p 1 A2 and q
p, then q 1 A2 as well, then there is real number r which “produces”
this cut, i.e., such that A1 % {p; p ‹ r}, and A2 % {p: r m p}. The task is
then to characterize the real numbers so that this is indeed true of them.
Dedekind shows that, whereas the rationals themselves do not have this property,
the collection of all cuts in the rationals does. Dedekind then “defines” the
irrationals through this observation, not directly as the cuts in the rationals
themselves, as was done later, but rather through the “creation” of “new
irrational numbers” to correspond to those rational cuts not hitherto
“produced” by a number. The 8 work starts from the notion of a “mapping” of one
object onto another, which for Dedekind is necessary for all exact thought.
Dedekind then develops the notion of a one-toone into mapping, which is then
used to characterize infinity “Dedekind infinity”. Using the fundamental notion
of a chain, Dedekind characterizes the notion of a “simply infinite system,”
thus one that is isomorphic to the natural number sequence. Thus, he succeeds
in the goal set out in the 1854 lecture: isolating precisely the characteristic
properties of the natural number system. But do simply infinite systems, in
particular the natural number system, exist? Dedekind now argues: Any infinite
system must Dedekind, Richard Dedekind, Richard 210 210 contain a simply infinite system Theorem
72. Correspondingly, Dedekind sets out to prove that there are infinite systems
Theorem 66, for which he uses an infamous argument reminiscent of Bolzano’s
from thirty years earlier involving “my thought-world,” etc. It is generally
agreed that the argument does not work, although it is important to remember
Dedekind’s wish to demonstrate that since the numbers are to be free creations
of the human mind, his proofs should rely only on the properties of the mental.
The specific act of “creation,” however, comes in when Dedekind, starting from
any simply infinite system, abstracts from the “particular properties” of this,
claiming that what results is the simply infinite system of the natural
numbers. Philosophical mathematics --
mathematical analysis, also called standard analysis, the area of mathematics
pertaining to the so-called real number system, i.e. the area that can be based
on an axiom set whose intended interpretation (standard model) has the set of
real numbers as its domain (universe of discourse). Thus analysis includes,
among its many subbranches, elementary algebra, differential and integral
calculus, differential equations, the calculus of variations, and measure theory.
Analytic geometry involves the application of analysis to geometry. Analysis
contains a large part of the mathematics used in mathematical physics. The real
numbers, which are representable by the ending and unending decimals, are
usefully construed as (or as corresponding to) distances measured, relative to
an arbitrary unit length, positively to the right and negatively to the left of
an arbitrarily fixed zero point along a geometrical straight line. In
particular, the class of real numbers includes as increasingly comprehensive
proper subclasses the natural numbers, the integers (positive, negative, and
zero), the rational numbers (or fractions), and the algebraic numbers (such as
the square root of two). Especially important is the presence in the class of
real numbers of non-algebraic (or transcendental) irrational numbers such as
pi. The set of real numbers includes arbitrarily small and arbitrarily large,
finite quantities, while excluding infinitesimal and infinite quantities.
Analysis, often conceived as the mathematics of continuous magnitude, contrasts
with arithmetic (natural number theory), which is regarded as the mathematics
of discrete magnitude. Analysis is often construed as involving not just the
real numbers but also the imaginary (complex) numbers. Traditionally analysis
is expressed in a second-order or higher-order language wherein its axiom set
has categoricity; each of its models is isomorphic to (has the same structure
as) the standard model. When analysis is carried out in a first-order language,
as has been increasingly the case since the 1950s, categoricity is impossible
and it has nonstandard mass noun mathematical analysis models in addition to
its standard model. A nonstandard model of analysis is an interpretation not isomorphic
to the standard model but nevertheless satisfying the axiom set. Some of the
nonstandard models involve objects reminiscent of the much-despised
“infinitesimals” that were essential to the Leibniz approach to calculus and
that were subject to intense criticism by Berkeley and other philosophers and
philosophically sensitive mathematicians. These non-standard models give rise
to a new area of mathematics, non-standard analysis, within which the
fallacious arguments used by Leibniz and other early analysts form the
heuristic basis of new and entirely rigorous proofs. -- mathematical function,
an operation that, when applied to an entity (set of entities) called its
argument(s), yields an entity known as the value of the function for that
argument(s). This operation can be expressed by a functional equation of the
form y % f(x) such that a variable y is said to be a function of a variable x
if corresponding to each value of x there is one and only one value of y. The x
is called the independent variable (or argument of the function) and the y the
dependent variable (or value of the function). (Some definitions consider the
relation to be the function, not the dependent variable, and some definitions
permit more than one value of y to correspond to a given value of x, as in x2 !
y2 % 4.) More abstractly, a function can be considered to be simply a special
kind of relation (set of ordered pairs) that to any element in its domain
relates exactly one element in its range. Such a function is said to be a one-to-one
correspondence if and only if the set {x,y} elements of S and {z,y} elements of
S jointly imply x % z. Consider, e.g., the function {(1,1), (2,4), (3,9),
(4,16), (5,25), (6,36)}, each of whose members is of the form (x,x2) – the
squaring function. Or consider the function {(0,1), (1,0)} – which we can call
the negation function. In contrast, consider the function for exclusive
alternation (as in you may have a beer or glass of wine, but not both). It is
not a one-to-one correspondence. For, 0 is the value of (0,1) and of (1,0), and
1 is the value of (0,0) and of (1,1). If we think of a function as defined on
the natural numbers – functions from Nn to N for various n (most commonly n % 1
or 2) – a partial function is a function from Nn to N whose domain is not
necessarily the whole of Nn (e.g., not defined for all of the natural numbers).
A total function from Nn to N is a function whose domain is the whole of Nn
(e.g., all of the natural numbers). -- mathematical induction, a method of
definition and a method of proof. A collection of objects can be defined
inductively. All members of such a collection can be shown to have a property
by an inductive proof. The natural numbers and the set of well-formed formulas
of a formal language are familiar examples of sets given by inductive
definition. Thus, the set of natural numbers is inductively defined as the
smallest set, N, such that: (B) 0 is in N and (I) for any x in N the successor
of x is in N. (B) is the basic clause and (I) the inductive clause of this definition.
Or consider a propositional language built on negation and conjunction. We
start with a denumerable class of atomic sentence symbols ATOM = {A1, A2, . .
.}. Then we can define the set of well-formed formulas, WFF, as the smallest
set of expressions such that: (B) every member of ATOM is in WFF and (I) if x
is in WFF then (- x) is in WFF and if x and y are in WFF then (x & y) is in
WFF. We show that all members of an inductively defined set have a property by
showing that the members specified by the basis have that property and that the
property is preserved by the induction. For example, we show that all WFFs have
an even number of parentheses by showing (i) that all ATOMs have an even number
of parentheses and (ii) that if x and y have an even number of parentheses then
so do (- x) and (x & y). This shows that the set of WFFs with an even
number of parentheses satisfies (B) and (I). The set of WFFs with an even
number of parentheses must then be identical to WFF, since – by definition –
WFF is the smallest set that satisfies (B) and (I). Ordinary proof by
mathematical induction shows that all the natural numbers, or all members of
some set with the order type of the natural numbers, share a property. Proof by
transfinite induction, a more general form of proof by mathematical induction,
shows that all members of some well-ordered set have a certain property. A set
is well-ordered if and only if every non-empty subset of it has a least
element. The natural numbers are well-ordered. It is a consequence of the axiom
of choice that every set can be well-ordered. Suppose that a set, X, is
well-ordered and that P is the subset of X whose mathematical constructivism
mathematical induction 541 4065m-r.qxd 08/02/1999 7:42 AM Page 541 members have
the property of interest. Suppose that it can be shown for any element x of X,
if all members of X less that x are in P, then so is x. Then it follows by
transfinite induction that all members of X have the property, that X % P. For
if X did not coincide with P, then the set of elements of x not in P would be
non-empty. Since X is well-ordered, this set would have a least element, x*.
But then by definition, all members of X less than x* are in P, and by
hypothesis x* must be in P after all.. -- mathematical intuitionism, a
twentieth-century movement that reconstructs mathematics in accordance with an
epistemological idealism and a Kantian metaphysics. Specifically, Brouwer, its
founder, held that there are no unexperienced truths and that mathematical
objects stem from the a priori form of those conscious acts which generate
empirical objects. Unlike Kant, however, Brouwer rejected the apriority of
space and based mathematics solely on a refined conception of the intuition of
time. Intuitionistic mathematics. According to Brouwer, the simplest
mathematical act is to distinguish between two diverse elements in the flow of
consciousness. By repeating and concatenating such acts we generate each of the
natural numbers, the standard arithmetical operations, and thus the rational
numbers with their operations as well. Unfortunately, these simple, terminating
processes cannot produce the convergent infinite sequences of rational numbers
that are needed to generate the continuum (the nondenumerable set of real
numbers, or of points on the line). Some “proto-intuitionists” admitted
infinite sequences whose elements are determined by finitely describable rules.
However, the set of all such algorithmic sequences is denumerable and thus can
scarcely generate the continuum. Brouwer’s first attempt to circumvent this –
by postulating a single intuition of an ever growing continuum – mirrored
Aristotle’s picture of the continuum as a dynamic whole composed of inseparable
parts. But this approach was incompatible with the set-theoretic framework that
Brouwer accepted, and by 1918 he had replaced it with the concept of an
infinite choice sequence. A choice sequence of rational numbers is, to be sure,
generated by a “rule,” but the rule may leave room for some degree of freedom
in choosing the successive elements. It might, e.g., simply require that the n
! 1st choice be a rational number that lies within 1/n of the nth choice. The
set of real numbers generated by such semideterminate sequences is demonstrably
non-denumerable. Following his epistemological beliefs, Brouwer admitted only
those properties of a choice sequence which are determined by its rule and by a
finite number of actual choices. He incorporated this restriction into his
version of set theory and obtained a series of results that conflict with
standard (classical) mathematics. Most famously, he proved that every function
that is fully defined over an interval of real numbers is uniformly continuous.
(Pictorially, the graph of the function has no gaps or jumps.) Interestingly, one
corollary of this theorem is that the set of real numbers cannot be divided
into mutually exclusive subsets, a property that rigorously recovers the
Aristotelian picture of the continuum. The clash with classical mathematics.
Unlike his disciple Arend Heyting, who considered intuitionistic and classical
mathematics as separate and therefore compatible subjects, Brouwer viewed them
as incompatible treatments of a single subject matter. He even occasionally
accused classical mathematics of inconsistency at the places where it differed
from intuitionism. This clash concerns the basic concept of what counts as a
mathematical object. Intuitionism allows, and classical mathematics rejects,
objects that may be indeterminate with respect to some of their properties.
Logic and language. Because he believed that mathematical constructions occur
in prelinguistic consciousness, Brouwer refused to limit mathematics by the
expressive capacity of any language. Logic, he claimed, merely codifies already
completed stages of mathematical reasoning. For instance, the principle of the
excluded middle stems from an “observational period” during which mankind
catalogued finite phenomena (with decidable properties); and he derided
classical mathematics for inappropriately applying this principle to infinitary
aspects of mathematics. Formalization. Brouwer’s views notwithstanding, in 1930
Heyting produced formal systems for intuitionistic logic (IL) and number
theory. These inspired further formalizations (even of the theory of choice
sequences) and a series of proof-theoretic, semantic, and algebraic studies
that related intuitionistic and classical formal systems. Stephen Kleene, e.g.,
interpreted IL and other intuitionistic formal systems using the classical
theory of recursive functions. Gödel, who showed that IL cannot coincide with
any finite many-valued logic, demonstrated its relation to the modal logic, S4;
and Kripke provided a formal semantics for IL similar to the possible worlds
semantics for S4. For a while the study of intuitionistic formal systems used
strongly classical methods, but since the 1970s intuitionistic methods have
been employed as well. Meaning. Heyting’s formalization reflected a theory of
meaning implicit in Brouwer’s epistemology and metaphysics, a theory that
replaces the traditional correspondence notion of truth with the notion of
constructive proof. More recently Michael Dummett has extended this to a
warranted assertability theory of meaning for areas of discourse outside of
mathematics. He has shown how assertabilism provides a strategy for combating
realism about such things as physical objects, mental objects, and the past. --
mathematical structuralism, the view that the subject of any branch of
mathematics is a structure or structures. The slogan is that mathematics is the
science of structure. Define a “natural number system” to be a countably
infinite collection of objects with one designated initial object and a
successor relation that satisfies the principle of mathematical induction. Examples
of natural number systems are the Arabic numerals and an infinite sequence of
distinct moments of time. According to structuralism, arithmetic is about the
form or structure common to natural number systems. Accordingly, a natural
number is something like an office in an organization or a place in a pattern.
Similarly, real analysis is about the real number structure, the form common to
complete ordered fields. The philosophical issues concerning structuralism
concern the nature of structures and their places. Since a structure is a
one-over-many of sorts, it is something like a universal. Structuralists have
defended analogues of some of the traditional positions on universals, such as
realism and nominalism. Philosophical mathematics -- metamathematics, the study
and establishment, by restricted (and, in particular, finitary) means, of the
consistency or reliability of the various systems of classical mathematics. The
term was apparently introduced, with pejorative overtones relating it to
‘metaphysics’, in the 1870s in connection with the discussion of non-Euclidean
geometries. It was introduced in the sense given here, shorn of negative
connotations, by Hilbert (see his “Neubegründung der Mathematik. Erste
Mitteilung,” 1922), who also referred to it as Beweistheorie or proof theory. A
few years later (specifically, in the 1930 papers “Über einige fundamentale
Begriffe der Metamathematik” and “Fundamentale Begriffe der Methodologie der
deduktiven Wissenschaften. I”) Tarski fitted it with a somewhat broader, less
restricted sense: broader in that the scope of its concerns was increased to
include not only questions of consistency, but also a host of other questions
(e.g. questions of independence, completeness and axiomatizability) pertaining
to what Tarski referred to as the “methodology of the deductive sciences”
(which was his synonym for ‘metamathematics’); less restricted in that the
standards of proof were relaxed so as to permit other than finitary – indeed,
other than constructive – means. On this broader conception of Tarski’s,
formalized deductive disciplines form the field of research of metamathematics
roughly in the same sense in which spatial entities form the field of research
in geometry or animals that of zoology. Disciplines, he said, are to be
regarded as sets of sentences to be investigated from the point of view of
their consistency, axiomatizability (of various types), completeness, and
categoricity or degree of categoricity, etc. Eventually (see the 1935 and 1936
papers “Grundzüge des Systemenkalkül, Erster Teil” and “Grundzüge der
Systemenkalkül, Zweiter Teil”) Tarski went on to include all manner of
semantical questions among the concerns of metamathematics, thus diverging
rather sharply from Hilbert’s original syntactical focus. Today, the terms
‘metatheory’ and ‘metalogic’ are used to signify that broad set of interests,
embracing both syntactical and semantical studies of formal languages and
systems, which Tarski came to include under the general heading of
metamathematics. Those having to do specifically with semantics belong to that
more specialized branch of modern logic known as model theory, while those
dealing with purely syntactical questions belong to what has come to be known
as proof theory (where this latter is now, however, permitted to employ other
than finitary methods in the proofs of its theorems). Refs.: H. P. Grice,
“Philosophical geometry, Plato, and Walter Pater.” Refs.: H. P. Grice, “ΑΓΕΩΜΕΤΡΗΤΟΣ ΜΗΔΕΙΣ ΕΙΣΙΤΩ; or, the school of Plato.”
philosophical
theology:
Grice: “At Oxford, pretentious as they are, they like ‘divinity’ – there are
doctors in divinity!” -- philosophy of religion, the subfield of philosophy
devoted to the study of religious phenomena. Although religions are typically
complex systems of theory and practice, including both myths and rituals,
philosophers tend to concentrate on evaluating religious truth claims. In the
major theistic traditions, Judaism, Christianity, and Islam, the most important
of these claims concern the existence, nature, and activities of God. Such
traditions commonly understand God to be something like a person who is
disembodied, eternal, free, all-powerful, all-knowing, the creator and
sustainer of the universe, and the proper object of human obedience and
worship. One important question is whether this conception of the object of
human religious activity is coherent; another is whether such a being actually
exists. Philosophers of religion have sought rational answers to both
questions. The major theistic traditions draw a distinction between religious
truths that can be discovered and even known by unaided human reason and those
to which humans have access only through a special divine disclosure or
revelation. According to Aquinas, e.g., the existence of God and some things
about the divine nature can be proved by unaided human reason, but such
distinctively Christian doctrines as the Trinity and Incarnation cannot be thus
proved and are known to humans only because God has revealed them. Theists
disagree about how such divine disclosures occur; the main candidates for
vehicles of revelation include religious experience, the teachings of an
inspired religious leader, the sacred scriptures of a religious community, and
the traditions of a particular church. The religious doctrines Christian
traditions take to be the content of revelation are often described as matters
of faith. To be sure, such traditions typically affirm that faith goes beyond
mere doctrinal belief to include an attitude of profound trust in God. On most
accounts, however, faith involves doctrinal belief, and so there is a contrast
within the religious domain itself between faith and reason. One way to spell
out the contrast though not the only way is to imagine that the content of revelation
is divided into two parts. On the one hand, there are those doctrines, if any,
that can be known by human reason but are also part of revelation; the
existence of God is such a doctrine if it can be proved by human reason alone.
Such doctrines might be accepted by some people on the basis of rational
argument, while others, who lack rational proof, accept them on the authority
of revelation. On the other hand, there are those doctrines that cannot be
known by human reason and for which the authority of revelation is the sole
basis. They are objects of faith rather than reason and are often described as
mysteries of faith. Theists disagree about how such exclusive objects of faith
are related to reason. One prominent view is that, although they go beyond
reason, they are in harmony with it; another is that they are contrary to
reason. Those who urge that such doctrines should be accepted despite the fact
that, or even precisely because, they are contrary to reason are known as
fideists; the famous slogan credo quia absurdum ‘I believe because it is
absurd’ captures the flavor of extreme fideism. Many scholars regard
Kierkegaard as a fideist on account of his emphasis on the paradoxical nature
of the Christian doctrine that Jesus of Nazareth is God incarnate. Modern
philosophers of religion have, for the most part, confined their attention to
topics treatable without presupposing the truth of any particular tradition’s
claims about revelation and have left the exploration of mysteries of faith to
the theologians of various traditions. A great deal of philosophical work
clarifying the concept of God has been prompted by puzzles that suggest some
incoherence in the traditional concept. One kind of puzzle concerns the
coherence of individual claims about the nature of God. Consider the
traditional affirmation that God is allpowerful omnipotent. Reflection on this
doctrine raises a famous question: Can God make a stone so heavy that even God
cannot lift it? No matter how this is answered, it seems that there is at least
one thing that even God cannot do, i.e., make such a stone or lift such a
stone, and so it appears that even God cannot be all-powerful. Such puzzles
stimulate attempts by philosophers to analyze the concept of omnipotence in a
way that specifies more precisely the scope of the powers coherently
attributable to an omnipotent being. To the extent that such attempts succeed,
they foster a deeper understanding of the concept of God and, if God exists, of
the divine nature. Another sort of puzzle concerns the consistency of
attributing two or more properties to philosophy of religion philosophy of
religion 696 696 God. Consider the
claim that God is both immutable and omniscient. An immutable being is one that
cannot undergo internal change, and an omniscient being knows all truths, and
believes no falsehoods. If God is omniscient, it seems that God must first know
and hence believe that it is now Tuesday and not believe that it is now
Wednesday and later know and hence believe that it is now Wednesday and not
believe that it is now Tuesday. If so, God’s beliefs change, and since change
of belief is an internal change, God is not immutable. So it appears that God
is not immutable if God is omniscient. A resolution of this puzzle would
further contribute to enriching the philosophical understanding of the concept
of God. It is, of course, one thing to elaborate a coherent concept of God; it
is quite another to know, apart from revelation, that such a being actually
exists. A proof of the existence of God would yield such knowledge, and it is
the task of natural theology to evaluate arguments that purport to be such
proofs. As opposed to revealed theology, natural theology restricts the
assumptions fit to serve as premises in its arguments to things naturally
knowable by humans, i.e., knowable without special revelation from supernatural
sources. Many people have hoped that such natural religious knowledge could be
universally communicated and would justify a form of religious practice that
would appeal to all humankind because of its rationality. Such a religion would
be a natural religion. The history of natural theology has produced a
bewildering variety of arguments for the existence of God. The four main types
are these: ontological arguments, cosmological arguments, teleological
arguments, and moral arguments. The earliest and most famous version of the
ontological argument was set forth by Anselm of Canterbury in chapter 2 of his
Proslogion. It is a bold attempt to deduce the existence of God from the
concept of God: we understand God to be a perfect being, something than which
nothing greater can be conceived. Because we have this concept, God at least
exists in our minds as an object of the understanding. Either God exists in the
mind alone, or God exists both in the mind and as an extramental reality. But
if God existed in the mind alone, then we could conceive of a being greater
than that than which nothing greater can be conceived, namely, one that also
existed in extramental reality. Since the concept of a being greater than that
than which nothing greater can be conceived is incoherent, God cannot exist in
the mind alone. Hence God exists not only in the mind but also in extramental
reality. The most celebrated criticism of this form of the argument was Kant’s,
who claimed that existence is not a real predicate. For Kant, a real predicate
contributes to determining the content of a concept and so serves as a part of
its definition. But to say that something falling under a concept exists does
not add to the content of a concept; there is, Kant said, no difference in
conceptual content between a hundred real dollars and a hundred imaginary
dollars. Hence whether or not there exists something that corresponds to a
concept cannot be settled by definition. The existence of God cannot be deduced
from the concept of a perfect being because existence is not contained in the
concept or the definition of a perfect being. Contemporary philosophical
discussion has focused on a slightly different version of the ontological
argument. In chapter 3 of Proslogion Anselm suggested that something than which
nothing greater can be conceived cannot be conceived not to exist and so exists
necessarily. Following this lead, such philosophers as Charles Hartshorne,
Norman Malcolm, and Alvin Plantinga have contended that God cannot be a
contingent being who exists in some possible worlds but not in others. The
existence of a perfect being is either necessary, in which case God exists in
every possible world, or impossible, in which case God exists in no possible
worlds. On this view, if it is so much as possible that a perfect being exists,
God exists in every possible world and hence in the actual world. The crucial
premise in this form of the argument is the assumption that the existence of a
perfect being is possible; it is not obviously true and could be rejected
without irrationality. For this reason, Plantinga concedes that the argument
does not prove or establish its conclusion, but maintains that it does make it
rational to accept the existence of God. The key premises of various
cosmological arguments are statements of obvious facts of a general sort about
the world. Thus, the argument to a first cause begins with the observation that
there are now things undergoing change and things causing change. If something
is a cause of such change only if it is itself caused to change by something
else, then there is an infinitely long chain of causes of change. But, it is
alleged, there cannot be a causal chain of infinite length. Therefore there is
something that causes change, but is not caused to change by anything else,
i.e., a first cause. Many critics of this form of the argument deny its
assumption that there cannot be an infinite causal regress or chain of causes.
This argument also fails to show that there is only one first cause and does
not prove that a first cause must have such divine attributes as omniscience,
omnipotence, and perfect goodness. A version of the cosmological argument that
has attracted more attention from contemporary philosophers is the argument
from contingency to necessity. It starts with the observation that there are
contingent beings beings that could have
failed to exist. Since contingent beings do not exist of logical necessity, a
contingent being must be caused to exist by some other being, for otherwise
there would be no explanation of why it exists rather than not doing so. Either
the causal chain of contingent beings has a first member, a contingent being
not caused by another contingent being, or it is infinitely long. If, on the
one hand, the chain has a first member, then a necessary being exists and
causes it. After all, being contingent, the first member must have a cause, but
its cause cannot be another contingent being. Hence its cause has to be
non-contingent, i.e., a being that could not fail to exist and so is necessary.
If, on the other hand, the chain is infinitely long, then a necessary being
exists and causes the chain as a whole. This is because the chain as a whole,
being itself contingent, requires a cause that must be noncontingent since it
is not part of the chain. In either case, if there are contingent beings, a
necessary being exists. So, since contingent beings do exist, there is a
necessary being that causes their existence. Critics of this argument attack
its assumption that there must be an explanation for the existence of every
contingent being. Rejecting the principle that there is a sufficient reason for
the existence of each contingent thing, they argue that the existence of at
least some contingent beings is an inexplicable brute fact. And even if the
principle of sufficient reason is true, its truth is not obvious and so it
would not be irrational to deny it. Accordingly, William Rowe b.1 concludes
that this version of the cosmological argument does not prove the existence of
God, but he leaves open the question of whether it shows that theistic belief
is reasonable. The starting point of teleological arguments is the phenomenon
of goal-directedness in nature. Aquinas, e.g., begins with the claim that we
see that things which lack intelligence act for an end so as to achieve the
best result. Modern science has discredited this universal metaphysical
teleology, but many biological systems do seem to display remarkable
adaptations of means to ends. Thus, as William Paley 17431805 insisted, the eye
is adapted to seeing and its parts cooperate in complex ways to produce sight.
This suggests an analogy between such biological systems and human artifacts,
which are known to be products of intelligent design. Spelled out in mechanical
terms, the analogy grounds the claim that the world as a whole is like a vast
machine composed of many smaller machines. Machines are contrived by
intelligent human designers. Since like effects have like causes, the world as
a whole and many of its parts are therefore probably products of design by an
intelligence resembling the human but greater in proportion to the magnitude of
its effects. Because this form of the argument rests on an analogy, it is known
as the analogical argument for the existence of God; it is also known as the
design argument since it concludes the existence of an intelligent designer of
the world. Hume subjected the design argument to sustained criticism in his
Dialogues Concerning Natural Religion. If, as most scholars suppose, the
character Philo speaks for Hume, Hume does not actually reject the argument. He
does, however, think that it warrants only the very weak conclusion that the
cause or causes of order in the universe probably bear some remote analogy to
human intelligence. As this way of putting it indicates, the argument does not
rule out polytheism; perhaps different minor deities designed lions and tigers.
Moreover, the analogy with human artificers suggests that the designer or designers
of the universe did not create it from nothing but merely imposed order on
already existing matter. And on account of the mixture of good and evil in the
universe, the argument does not show that the designer or designers are morally
admirable enough to deserve obedience or worship. Since the time of Hume, the
design argument has been further undermined by the emergence of Darwinian
explanations of biological adaptations in terms of natural selection that give
explanations of such adaptations in terms of intelligent design stiff
competition. Some moral arguments for the existence of God conform to the
pattern of inference to the best explanation. It has been argued that the
hypothesis that morality depends upon the will of God provides the best explanation
of the objectivity of moral obligations. Kant’s moral argument, which is
probably the best-known specimen of this type, takes a different tack.
According to Kant, the complete good consists of perfect virtue rewarded with
perfect happiness, and virtue deserves to be rewarded with proportional
happiness because it makes one worthy to be happy. If morality is to command
the allegiance of reason, the complete good must be a real possibility, and so
practical reason is entitled to postulate that the conditions necessary to
guarantee its possibility obtain. As far as anyone can tell, nature and its
laws do not furnish such a guarantee; in this world, apparently, the virtuous
often suffer while the vicious flourish. And even if the operation of natural
laws were to produce happiness in proportion to virtue, this would be merely
coincidental, and hence finite moral agents would not have been made happy just
because they had by their virtue made themselves worthy of happiness. So
practical reason is justified in postulating a supernatural agent with
sufficient goodness, knowledge, and power to ensure that finite agents receive
the happiness they deserve as a reward for their virtue, though theoretical
reason can know nothing of such a being. Critics of this argument have denied
that we must postulate a systematic connection between virtue and happiness in
order to have good reasons to be moral. Indeed, making such an assumption might
actually tempt one to cultivate virtue for the sake of securing happiness
rather than for its own sake. It seems therefore that none of these arguments
by itself conclusively proves the existence of God. However, some of them might
contribute to a cumulative case for the existence of God. According to Richard
Swinburne, cosmological, teleological, and moral arguments individually
increase the probability of God’s existence even though none of them makes it
more probable than not. But when other evidence such as that deriving from
providential occurrences and religious experiences is added to the balance,
Swinburne concludes that theism becomes more probable than its negation.
Whether or not he is right, it does appear to be entirely correct to judge the
rationality of theistic belief in the light of our total evidence. But there is
a case to be made against theism too. Philosophers of religion are interested
in arguments against the existence of God, and fairness does seem to require
admitting that our total evidence contains much that bears negatively on the
rationality of belief in God. The problem of evil is generally regarded as the
strongest objection to theism. Two kinds of evil can be distinguished. Moral
evil inheres in the wicked actions of moral agents and the bad consequences
they produce. An example is torturing the innocent. When evil actions are
considered theologically as offenses against God, they are regarded as sins.
Natural evils are bad consequences that apparently derive entirely from the
operations of impersonal natural forces, e.g. the human and animal suffering
produced by natural catastrophes such as earthquakes and epidemics. Both kinds
of evil raise the question of what reasons an omniscient, omnipotent, and
perfectly good being could have for permitting or allowing their existence.
Theodicy is the enterprise of trying to answer this question and thereby to
justify the ways of God to humans. It is, of course, possible to deny the
presuppositions of the question. Some thinkers have held that evil is unreal;
others have maintained that the deity is limited and so lacks the power or
knowledge to prevent the evils that occur. If one accepts the presuppositions
of the question, the most promising strategy for theodicy seems to be to claim
that each evil God permits is necessary for some greater good or to avoid some
alternative to it that is at least as bad if not worse. The strongest form of
this doctrine is the claim made by Leibniz that this is the best of all
possible worlds. It is unlikely that humans, with their cognitive limitations,
could ever understand all the details of the greater goods for which evils are
necessary, assuming that such goods exist; however, we can understand how some
evils contribute to achieving goods. According to the soul-making theodicy of
John Hick b.2, which is rooted in a tradition going back to Irenaeus, admirable
human qualities such as compassion could not exist except as responses to
suffering, and so evil plays a necessary part in the formation of moral
character. But this line of thought does not seem to provide a complete
theodicy because much animal suffering occurs unnoticed by humans and child
abuse often destroys rather than strengthens the moral character of its
victims. Recent philosophical discussion has often focused on the claim that
the existence of an omniscient, omnipotent, and perfectly good being is
logically inconsistent with the existence of evil or of a certain quantity of
evil. This is the logical problem of evil, and the most successful response to
it has been the free will defense. Unlike a theodicy, this defense does not
speculate about God’s reasons for permitting evil but merely argues that God’s
existence is consistent with the existence of evil. Its key idea is that moral
good cannot exist apart from libertarian free actions that are not causally
determined. If God aims to produce moral good, God must create free creatures
upon whose cooperation he must depend, and so divine omnipotence is limited by
the freedom God confers on creatures. Since such creatures are also free to do
evil, it is possible that God could not have created a world containing moral
good but no moral evil. Plantinga extends the defense from moral to natural
evil by suggesting that it is also possible that all natural evil is due to the
free actions of non-human persons such as Satan and his cohorts. Plantinga and
Swinburne have also addressed the probabilistic problem of evil, which is the
claim that the existence of evil disconfirms or renders improbable the
hypothesis that God exists. Both of them argue for the conclusion that this is
not the case. Finally, it is worth mentioning three other topics on which
contemporary philosophers of religion have worked to good effect. Important
studies of the meaning and use of religious language were stimulated by the
challenge of logical positivism’s claim that theological language is
cognitively meaningless. Defenses of such Christian doctrines as the Trinity,
Incarnation, and Atonement against various philosophical objections have
recently been offered by people committed to elaborating an explicitly Christian
philosophy. And a growing appreciation of religious pluralism has both
sharpened interest in questions about the cultural relativity of religious
rationality and begun to encourage progress toward a comparative philosophy of
religions. Such work helps to make philosophy of religion a lively and diverse
field of inquiry. Grice: “It is extremely important that in a dictionary entry
we keep the ‘philosophical’ – surely we are not lower ourselves to the level of
a theologian – if I am a theologican, I am a philosophical theologian. -- theodicy from Grecian theos, ‘God’, and dike,
‘justice’, a defense of the justice or goodness of God in the face of doubts or
objections arising from the phenomena of evil in the world ‘evil’ refers here
to bad states of affairs of any sort. Many types of theodicy have been proposed
and vigorously debated; only a few can be sketched here. 1 It has been argued
that evils are logically necessary for greater goods e.g., hardships for the
full exemplification of certain virtues, so that even an omnipotent being
roughly, one whose power has no logically contingent limits would have a
morally sufficient reason to cause or permit the evils in order to obtain the
goods. Leibniz, in his Theodicy 1710, proposed a particularly comprehensive
theodicy of this type. On his view, God had adequate reason to bring into
existence the actual world, despite all its evils, because it is the best of
all possible worlds, and all actual evils are essential ingredients in it, so
that omitting any of them would spoil the design of the whole. Aside from
issues about whether actual evils are in fact necessary for greater goods, this
approach faces the question whether it assumes wrongly that the end justifies
the means. 2 An important type of theodicy traces some or all evils to sinful
free actions of humans or other beings such as angels created by God.
Proponents of this approach assume that free action in creatures is of great
value and is logically incompatible with divine causal control of the creatures’
actions. It follows that God’s not intervening to prevent sins is necessary,
though the sins themselves are not, to the good of created freedom. This is
proposed as a morally sufficient reason for God’s not preventing them. It is a
major task for this type of theodicy to explain why God would permit those
evils that are not themselves free choices of creatures but are at most
consequences of such choices. 3 Another type of theodicy, both ancient and
currently influential among theologians, though less congenial to orthodox
traditions in the major theistic religions, proposes to defend God’s goodness
by abandoning the doctrine that God is omnipotent. On this view, God is
causally, rather than logically, unable to prevent many evils while pursuing
sufficiently great goods. A principal sponsor of this approach at present is
the movement known as process theology, inspired by Whitehead; it depends on a
complex metaphysical theory about the nature of causal relationships. 4 Other
theodicies focus more on outcomes than on origins. Some religious beliefs
suggest that God will turn out to have been very good to created persons by
virtue of gifts especially religious gifts, such as communion with God as
supreme Good that may be bestowed in a life Tetractys theodicy 910 910 after death or in religious experience
in the present life. This approach may be combined with one of the other types
of theodicy, or adopted by people who think that God’s reasons for permitting
evils are beyond our finding out. Then
there’s heologia naturalis Latin, ‘natural theology’, theology that uses the
methods of investigation and standards of rationality of any other area of
philosophy. Traditionally, the central problems of natural theology are proofs
for the existence of God and the problem of evil. In contrast with natural
theology, supernatural theology uses methods that are supposedly revealed by
God and accepts as fact beliefs that are similarly outside the realm of
rational acceptability. Relying on a prophet or a pope to settle factual
questions would be acceptable to supernatural, but not to natural, theology.
Nothing prevents a natural theologian from analyzing concepts that can be used
sanguinely by supernatural theologians, e.g., revelation, miracles,
infallibility, and the doctrine of the Trinity. Theologians often work in both
areas, as did, e.g., Anselm and Aquinas. For his brilliant critiques of
traditional theology, Hume deserves the title of “natural
anti-theologian.” Grice was totally
against “the philosophy of X” – never the philosophy of god – but philosophical
theology -- theological naturalism, the attempt to develop a naturalistic
conception of God. As a philosophical position, naturalism holds 1 that the
only reliable methods of knowing what there is are methods continuous with
those of the developed sciences, and 2 that the application of those methods
supports the view that the constituents of reality are either physical or are
causally dependent on physical things and their modifications. Since
supernaturalism affirms that God is purely spiritual and causally independent
of physical things, naturalists hold that either belief in God must be
abandoned as rationally unsupported or the concept of God must be reconstituted
consistently with naturalism. Earlier attempts to do the latter include the
work of Feuerbach and Comte. In twentieth-century naturalism the most significant attempts to
develop a naturalistic conception of God are due to Dewey and Henry Nelson
Wieman 45. In A Common Faith Dewey proposed a view of God as the unity of ideal
ends resulting from human imagination, ends arousing us to desire and action.
Supernaturalism, he argued, was the product of a primitive need to convert the
objects of desire, the greatest ideals, into an already existing reality. In
contrast to Dewey, Wieman insisted on viewing God as a process in the natural
world that leads to the best that humans can achieve if they but submit to its
working in their lives. In his earlier work he viewed God as a cosmic process
that not only works for human good but is what actually produced human life.
Later he identified God with creative interchange, a process that occurs only
within already existing human communities. While Wieman’s God is not a human
creation, as are Dewey’s ideal ends, it is difficult to see how love and
devotion are appropriate to a natural process that works as it does without
thought or purpose. Thus, while Dewey’s God ideal ends lacks creative power but
may well qualify as an object of love and devotion, Wieman’s God a process in
nature is capable of creative power but, while worthy of our care and
attention, does not seem to qualify as an object of love and devotion. Neither
view, then, satisfies the two fundamental features associated with the
traditional idea of God: possessing creative power and being an appropriate
object of supreme love and devotion. H.
P. Grice, “Why I never pursued a doctorate in divinity!” --. philosophical
theology: Grice: “My mother was High Church, but my father was a
non-conformist, and the fact that my resident paternal aunt was a converted
Roman certainly did not help!” -- Philosophical theology -- deism, the view
that true religion is natural religion. Some self-styled Christian deists
accepted revelation although they argued that its content is essentially the
same as natural religion. Most deists dismissed revealed religion as a fiction.
God wants his creatures to be happy and has ordained virtue as the means to it.
Since God’s benevolence is disinterested, he will ensure that the knowledge
needed for happiness is universally accessible. Salvation cannot, then, depend
on special revelation. True religion is an expression of a universal human
nature whose essence is reason and is the same in all times and places.
Religious traditions such as Christianity and Islam originate in credulity,
political tyranny, and priestcraft, which corrupt reason and overlay natural
religion with impurities. Deism is largely a seventeenth- and
eighteenth-century phenomenon and was most prominent in England. Among the more
important English deists were John Toland 16701722, Anthony Collins 16761729,
Herbert of Cherbury 15831648, Matthew Tindal 16571733, and Thomas Chubb
16791747. Continental deists included Voltaire and Reimarus. Thomas Paine and
Elihu Palmer 17641806 were prominent
deists. Orthodox writers in this period use ‘deism’ as a vague term of
abuse. By the late eighteenth century, the term came to mean belief in an
“absentee God” who creates the world, ordains its laws, and then leaves it to
its own devices. Philosophical theology -- de Maistre, Joseph-Marie, political
theorist, diplomat, and Roman Catholic exponent of theocracy. He was educated
by the Jesuits in Turin. His counterrevolutionary political philosophy aimed at
restoring the foundations of morality, the family, society, and the state in
postrevolutionary Europe. Against Enlightenment ideals, he reclaimed Thomism,
defended the hereditary and absolute monarchy, and championed ultramontanism
The Pope, 1821. Considerations on France 1796 argues that the decline of moral
and religious values was responsible for the “satanic” 1789 revolution. Hence
Christianity and Enlightenment philosophy were engaged in a fight to the death
that he claimed the church would eventually win. Deeply pessimistic about human
nature, the Essay on the Generating Principle of Political Constitutions 1810
traces the origin of authority in the human craving for order and discipline.
Saint Petersburg Evenings 1821 urges philosophy to surrender to religion and
reason to faith. Philosophical theology -- divine attributes, properties of
God; especially, those properties that are essential and unique to God. Among
properties traditionally taken to be attributes of God, omnipotence,
omniscience, and omnibenevolence are naturally taken to mean having,
respectively, power, knowledge, and moral goodness to the maximum degree. Here
God is understood as an eternal or everlasting being of immense power,
knowledge, and goodness, who is the creator and sustainer of the universe and
is worthy of human worship. Omnipotence is maximal power. Some philosophers,
notably Descartes, have thought that omnipotence requires the ability to do
absolutely anything, including the logically impossible. Most classical
theists, however, understood omnipotence as involving vast powers, while
nevertheless being subject to a range of limitations of ability, including the
inability to do what is logically impossible, the inability to change the past
or to do things incompatible with what has happened, and the inability to do
things that cannot be done by a being who has other divine attributes, e.g., to
sin or to lie. Omniscience is unlimited knowledge. According to the most
straightforward account, omniscience is knowledge of all true propositions. But
there may be reasons for recognizing a limitation on the class of true
propositions that a being must know in order to be omniscient. For example, if
there are true propositions about the future, omniscience would then include
foreknowledge. But some philosophers have thought that foreknowledge of human
actions is incompatible with those actions being free. This has led some to
deny that there are truths about the future and others to deny that such truths
are knowable. In the latter case, omniscience might be taken to be knowledge of
all knowable truths. Or if God is eternal and if there are certain tensed or
temporally indexical propositions that can be known only by someone who is in
time, then omniscience presumably does not extend to such propositions. It is a
matter of controversy whether omniscience includes middle knowledge, i.e.,
knowledge of what an agent would do if other, counterfactual, conditions were
to obtain. Since recent critics of middle knowledge in contrast to Báñez and
other sixteenth-century Dominican opponents of Molina usually deny that the
relevant counterfactual conditionals alleged to be the object of such knowledge
are true, denying the possibility of middle knowledge need not restrict the
class of true propositions a being must know in order to be omniscient.
Finally, although the concept of omniscience might not itself constrain how an
omniscient being acquires its knowledge, it is usually held that God’s
knowledge is neither inferential i.e., derived from premises or evidence nor
dependent upon causal processes. Omnibenevolenceis, literally, complete desire
for good; less strictly, perfect moral goodness. Traditionally it has been
thought that God does not merely happen to be good but that he must be so and
that he is unable to do what is wrong. According to the former claim God is
essentially good; according to the latter he is impeccable. It is a matter of
controversy whether God is perfectly good in virtue of complying with an
external moral standard or whether he himself sets the standard for goodness.
Divine sovereignty is God’s rule over all of creation. According to this
doctrine God did not merely create the world and then let it run on its own; he
continues to govern it in complete detail according to his good plan.
Sovereignty is thus related to divine providence. A difficult question is how
to reconcile a robust view of God’s control of the world with libertarian free
will. Aseity or perseity is complete independence. In a straightforward sense,
God is not dependent on anyone or anything for his existence. According to
stronger interpretation of aseity, God is completely independent of everything
else, including his properties. This view supports a doctrine of divine
simplicity according to which God is not distinct from his properties.
Simplicity is the property of having no parts of any kind. According to the
doctrine of divine simplicity, God not only has no spatial or temporal parts,
but there is no distinction between God and his essence, between his various
attributes in him omniscience and omnipotence, e.g., are identical, and between
God and his attributes. Attributing simplicity to God was standard in medieval
theology, but the doctrine has seemed to many contemporary philosophers to be
baffling, if not incoherent. divine command
ethics, an ethical theory according to which part or all of morality divine
attributes divine command ethics 240
240 depends upon the will of God as promulgated by divine commands. This
theory has an important place in the history of Christian ethics. Divine
command theories are prominent in the Franciscan ethics developed by John Duns
Scotus and William Ockham; they are also endorsed by disciples of Ockham such
as d’Ailly, Gerson, and Gabriel Biel; both Luther and Calvin adopt divine
command ethics; and in modern British thought, important divine command
theorists include Locke, Berkeley, and Paley. Divine command theories are
typically offered as accounts of the deontological part of morality, which
consists of moral requirements obligation, permissions rightness, and
prohibitions wrongness. On a divine command conception, actions forbidden by
God are morally wrong because they are thus forbidden, actions not forbidden by
God are morally right because they are not thus forbidden, and actions commanded
by God are morally obligatory because they are thus commanded. Many Christians
find divine command ethics attractive because the ethics of love advocated in
the Gospels makes love the subject of a command. Matthew 22:3740 records Jesus
as saying that we are commanded to love God and the neighbor. According to
Kierkegaard, there are two reasons to suppose that Christian love of neighbor
must be an obligation imposed by divine command: first, only an obligatory love
can be sufficiently extensive to embrace everyone, even one’s enemies; second,
only an obligatory love can be invulnerable to changes in its objects, a love
that alters not when it alteration finds. The chief objection to the theory is
that dependence on divine commands would make morality unacceptably arbitrary.
According to divine command ethics, murder would not be wrong if God did not
exist or existed but failed to forbid it. Perhaps the strongest reply to this
objection appeals to the doctrines of God’s necessary existence and essential
goodness. God could not fail to exist and be good, and so God could not fail to
forbid murder. In short, divine commands are not arbitrary fiats. divine foreknowledge, God’s knowledge of the
future. It appears to be a straightforward consequence of God’s omniscience
that he has knowledge of the future, for presumably omniscience includes
knowledge of all truths and there are truths about the future. Moreover, divine
foreknowledge seems to be required by orthodox religious commitment to divine
prophecy and divine providence. In the former case, God could not reliably
reveal what will happen if he does know what will happen. And in the latter
case, it is difficult to see how God could have a plan for what happens without
knowing what that will be. A problem arises, however, in that it has seemed to
many that divine foreknowledge is incompatible with human free action. Some
philosophers notably Boethius have reasoned as follows: If God knows that a
person will do a certain action, then the person must perform that action, but
if a person must perform an action, the person does not perform the action
freely. So if God knows that a person will perform an action, the person does
not perform the action freely. This reason for thinking that divine
foreknowledge is incompatible with human free action commits a simple modal
fallacy. What must be the case is the conditional that if God knows that a
person will perform an action then the person will in fact perform the action.
But what is required to derive the conclusion is the implausible claim that
from the assumption that God knows that a person will perform an action it
follows not simply that the person will perform the action but that the person
must perform it. Perhaps other attempts to demonstrate the incompatibility, however,
are not as easily dismissed. One response to the apparent dilemma is to say
that there really are no such truths about the future, either none at all or
none about events, like future free actions, that are not causally necessitated
by present conditions. Another response is to concede that there are truths
about the future but to deny that truths about future free actions are
knowable. In this case omniscience may be understood as knowledge, not of all
truths, but of all knowable truths. A third, and historically important,
response is to hold that God is eternal and that from his perspective
everything is present and thus not future. These responses implicitly agree
that divine foreknowledge is incompatible with human freedom, but they provide
different accounts of omniscience according to which it does not include
foreknowledge, or, at any rate, not foreknowledge of future free actions. Philosophical theology -- double truth, the
theory that a thing can be true in philosophy or according to reason while its
opposite is true in theology or according to faith. It serves as a response to
conflicts between reason and faith. For example, on one interpretation of
Aristotle, there is only one rational human soul, whereas, according to
Christian theology, there are many rational human souls. The theory of double
truth was attributed to Averroes and to Latin Averroists such as Siger of
Brabant and Boethius of Dacia by their opponents, but it is doubtful that they
actually held it. Averroes seems to have held that a single truth is
scientifically formulated in philosophy and allegorically expressed in
theology. Latin Averroists apparently thought that philosophy concerns what
would have been true by natural necessity absent special divine intervention,
and theology deals with what is actually true by virtue of such intervention.
On this view, there would have been only one rational human soul if God had not
miraculously intervened to multiply what by nature could not be multiplied. No
one clearly endorsed the view that rational human souls are both only one and
also many in number. H. P. Grice, “Must
the Articles be 39 – and if we add one more, what might it say?.”
Implicatuum – implicatura, implicans,
implicatum, implicandum – implicans, what implies, implicatum, what is implied,
implicaturum, what is to imply, implicandum, what is to be implied, implicatura, the act of the implying.
Scientism: One of the twelve labours of H.
P. Grice --. Grice: “When Cicero coined ‘scientia’ out of scire he didn’t know
what he was doing!” -- philosophy of science, the branch of philosophy that is
centered on a critical examination of the sciences: their methods and their
results. One branch of the philosophy of science, methodology, is closely
related to the theory of knowledge. It explores the methods by which science
arrives at its posited truths concerning the world and critically explores
alleged rationales for these methods. Issues concerning the sense in which
theories are accepted in science, the nature of the confirmation relation
between evidence and hypothesis, the degree to which scientific claims can be
falsified by observational data, and the like, are the concern of methodology.
Other branches of the philosophy of science are concerned with the meaning and
content of the posited scientific results and are closely related to
metaphysics and the philosophy of language. Typical problems examined are the
nature of scientific laws, the cognitive content of scientific theories
referring to unobservables, and the structure of scientific explanations.
Finally, philosophy of science explores specific foundational questions arising
out of the specific results of the sciences. Typical questions explored might
be metaphysical presuppositions of space-time theories, the role of probability
in statistical physics, the interpretation of measurement in quantum theory,
the structure of explanations in evolutionary biology, and the like. Concepts
of the credibility of hypotheses. Some crucial concepts that arise when issues
of the credibility of scientific hypotheses are in question are the following:
Inductivism is the view that hypotheses can receive evidential support from
their predictive success with respect to particular cases falling under them.
If one takes the principle of inductive inference to be that the future will be
like the past, one is subject to the skeptical objection that this rule is
empty of content, and even self-contradictory, if any kind of “similarity” of
cases is permitted. To restore content and consistency to the rule, and for
other methodological purposes as well, it is frequently alleged that only
natural kinds, a delimited set of “genuine” properties, should be allowed in
the formulation of scientific hypotheses. The view that theories are first
arrived at as creative hypotheses of the scientist’s imagination and only then
confronted, for justificatory purposes, with the observational predictions
deduced from them, is called the hypotheticodeductive model of science. This
model is contrasted with the view that the very discovery of hypotheses is
somehow “generated” out of accumulated observational data. The view that
hypotheses are confirmed to the degree that they provide the “best explanatory
account” of the data is often called abduction and sometimes called inference
to the best explanation. The alleged relation that evidence bears to
hypothesis, warranting its truth but not, generally, guaranteeing that truth,
is called confirmation. Methodological accounts such as inductivism countenance
such evidential warrant, frequently speaking of evidence as making a hypothesis
probable but not establishing it with certainty. Probability in the
confirmational context is supposed to be a relationship holding between
propositions that is quantitative and is described by the formal theory of
probability. It is supposed to measure the “degree of support” that one
proposition gives to another, e.g. the degree of support evidential statements
give to a hypothesis allegedly supported by them. Scientific methodologists often
claim that science is characterized by convergence. This is the claim that
scientific theories in their historical order are converging to an ultimate,
final, and ideal theory. Sometimes this final theory is said to be true because
it corresponds to the “real world,” as in realist accounts of convergence. In
pragmatist versions this ultimate theory is the defining standard of truth. It
is sometimes alleged that one ground for choosing the most plausible theory,
over and above conformity of the theory with the observational data, is the
simplicity of the theory. Many versions of this thesis exist, some emphasizing
formal elements of the theory and others, e.g., emphasizing paucity of
ontological commitment by the theory as the measure of simplicity. It is
sometimes alleged that in choosing which theory to believe, the scientific
community opts for theories compatible with the data that make minimal changes
in scientific belief necessary from those demanded by previously held theory.
The believer in methodological conservatism may also try to defend such
epistemic conservatism as normatively rational. An experiment that can
decisively show a scientific hypothesis to be false is called a crucial
experiment for the hypothesis. It is a thesis of many philosophers that for
hypotheses that function in theories and can only confront observational data
when conjoined with other theoretical hypotheses, no absolutely decisive
crucial experiment can exist. Concepts of the structure of hypotheses. Here are
some of the essential concepts encountered when it is the structure of
scientific hypotheses that is being explored: In its explanatory account of the
world, science posits novel entities and properties. Frequently these are
alleged to be not accessible to direct observation. A theory is a set of
hypotheses positing such entities and properties. Some philosophers of science
divide the logical consequences of a theory into those referring only to
observable things and features and those referring to the unobservables as well.
Various reductionist, eliminationist, and instrumentalist approaches to theory
agree that the full cognitive content of a theory is exhausted by its
observational consequences reported by its observation sentences, a claim
denied by those who espouse realist accounts of theories. The view that the
parts of a theory that do not directly relate observational consequences ought
not to be taken as genuinely referential at all, but, rather, as a “mere
linguistic instrument” allowing one to derive observational results from
observationally specifiable posits, is called instrumentalism. From this point
of view terms putatively referring to unobservables fail to have genuine
reference and individual non-observational sentences containing such terms are
not individually genuinely true or false. Verificationism is the general name
for the doctrine that, in one way or another, the semantic content of an
assertion is exhausted by the conditions that count as warranting the
acceptance or rejection of the assertion. There are many versions of
verificationist doctrines that try to do justice both to the empiricist claim
that the content of an assertion is its totality of empirical consequences and
also to a wide variety of anti-reductionist intuitions about meaning. The
doctrine that theoretical sentences must be strictly translatable into
sentences expressed solely in observational terms in order that the theoretical
assertions have genuine cognitive content is sometimes called operationalism.
The “operation” by which a magnitude is determined to have a specified value,
characterized observationally, is taken to give the very meaning of attributing
that magnitude to an object. The doctrine that the meanings of terms in
theories are fixed by the role the terms play in the theory as a whole is often
called semantic holism. According to the semantic holist, definitions of
theoretical terms by appeal to observational terms cannot be given, but all of
the theoretical terms have their meaning given “as a group” by the structure of
the theory as a whole. A related doctrine in confirmation theory is that
confirmation accrues to whole theories, and not to their individual assertions
one at a time. This is confirmational holism. To see another conception of
cognitive content, conjoin all the sentences of a theory together. Then replace
each theoretical term in the sentence so obtained with a predicate variable and
existentially quantify over all the predicate variables so introduced. This is
the Ramsey sentence for a finitely axiomatized theory. This sentence has the
same logical consequences framable in the observational vocabulary alone as did
the original theory. It is often claimed that the Ramsey sentence for a theory
exhausts the cognitive content of the theory. The Ramsey sentence is supposed
to “define” the meaning of the theoretical terms of the original theory as well
as have empirical consequences; yet by asserting the existence of the
theoretical properties, it is sometimes alleged to remain a realist construal
of the theory. The latter claim is made doubtful, however, by the existence of
“merely representational” interpretations of the Ramsey sentence. Theories are
often said to be so related that one theory is reducible to another. The study
of the relation theories bear to one another in this context is said to be the
study of intertheoretic reduction. Such reductive claims can have philosophical
origins, as in the alleged reduction of material objects to sense-data or of
spatiotemporal relations to causal relations, or they can be scientific
discoveries, as in the reduction of the theory of light waves to the theory of
electromagnetic radiation. Numerous “models” of the reductive relation exist,
appropriate for distinct kinds and cases of reduction. The term scientific realism
has many and varied uses. Among other things that have been asserted by those
who describe themselves as scientific realists are the claims that “mature”
scientific theories typically refer to real features of the world, that the
history of past falsifications of accepted scientific theories does not provide
good reason for persistent skepticism as to the truth claims of contemporary
theories, and that the terms of theories that putatively refer to unobservables
ought to be taken at their referential face value and not reinterpreted in some
instrumentalistic manner. Internal realism denies irrealist claims founded on
the past falsification of accepted theories. Internal realists are, however,
skeptical of “metaphysical” claims of “correspondence of true theories to the
real world” or of any notion of truth that can be construed in radically
non-epistemic terms. While theories may converge to some ultimate “true”
theory, the notion of truth here must be understood in some version of a
Peircian idea of truth as “ultimate warranted assertability.” The claim that
any theory that makes reference to posited unobservable features of the world
in its explanatory apparatus will always encounter rival theories incompatible
with the original theory but equally compatible with all possible observational
data that might be taken as confirmatory of the original theory is the claim of
the underdetermination thesis. A generalization taken to have “lawlike force”
is called a law of nature. Some suggested criteria for generalizations having
lawlike force are the ability of the generalization to back up the truth of
claims expressed as counterfactual conditions; the ability of the
generalization to be confirmed inductively on the basis of evidence that is
only a proper subset of all the particular instances falling under the
generality; and the generalization having an appropriate place in the simple,
systematic hierarchy of generalizations important for fundamental scientific
theories of the world. The application of a scientific law to a given actual
situation is usually hedged with the proviso that for the law’s predictions to
hold, “all other, unspecified, features of the situation are normal.” Such a
qualifying clause is called a ceteris paribus clause. Such “everything else
being normal” claims cannot usually be “filled out,” revealing important
problems concerning the “open texture” of scientific claims. The claim that the
full specification of the state of the world at one time is sufficient, along
with the laws of nature, to fix the full state of the world at any other time,
is the claim of determinism. This is not to be confused with claims of total
predictability, since even if determinism were true the full state of the world
at a time might be, in principle, unavailable for knowledge. Concepts of the
foundations of physical theories. Here, finally, are a few concepts that are
crucial in discussing the foundations of physical theories, in particular
theories of space and time and quantum theory: The doctrine that space and time
must be thought of as a family of spatial and temporal relations holding among
the material constituents of the universe is called relationism. Relationists
deny that “space itself” should be considered an additional constituent of the
world over and above the world’s material contents. The doctrine that “space
itself” must be posited as an additional constituent of the world over and
above ordinary material things of the world is substantivalism. Mach’s
principle is the demand that all physical phenomena, including the existence of
inertial forces used by Newton to argue for a substantivalist position, be
explainable in purely relationist terms. Mach speculated that Newton’s
explanation for the forces in terms of acceleration with respect to “space
itself” could be replaced with an explanation resorting to the acceleration of
the test object with respect to the remaining matter of the universe the “fixed
stars”. In quantum theory the claim that certain “conjugate” quantities, such
as position and momentum, cannot be simultaneously “determined” to arbitrary
degrees of accuracy is the uncertainty principle. The issue of whether such a
lack of simultaneous exact “determination” is merely a limitation on our
knowledge of the system or is, instead, a limitation on the system’s having
simultaneous exact values of the conjugate quantities, is a fundamental one in
the interpretation of quantum mechanics. Bell’s theorem is a mathematical
result aimed at showing that the explanation of the statistical correlations
that hold between causally noninteractive systems cannot always rely on the
positing that when the systems did causally interact in the past independent
values were fixed for some feature of each of the two systems that determined
their future observational behavior. The existence of such “local hidden
variables” would contradict the correlational predictions of quantum mechanics.
The result shows that quantum mechanics has a profoundly “non-local” nature.
Can quantum probabilities and correlations be obtained as averages over
variables at some deeper level than those specifying the quantum state of a
system? If such quantities exist they are called hidden variables. Many
different types of hidden variables have been proposed: deterministic, stochastic,
local, non-local, etc. A number of proofs exist to the effect that positing
certain types of hidden variables would force probabilistic results at the
quantum level that contradict the predictions of quantum theory.
Complementarity was the term used by Niels Bohr to describe what he took to be
a fundamental structure of the world revealed by quantum theory. Sometimes it
is used to indicate the fact that magnitudes occur in conjugate pairs subject
to the uncertainty relations. Sometimes it is used more broadly to describe
such aspects as the ability to encompass some phenomena in a wave picture of
the world and other phenomena in a particle picture, but implying that no one
picture will do justice to all the experimental results. The orthodox
formalization of quantum theory posits two distinct ways in which the quantum
state can evolve. When the system is “unobserved,” the state evolves according
to the deterministic Schrödinger equation. When “measured,” however, the system
suffers a discontinuous “collapse of the wave packet” into a new quantum state
determined by the outcome of the measurement process. Understanding how to
reconcile the measurement process with the laws of dynamic evolution of the
system is the measurement problem. Conservation and symmetry. A number of
important physical principles stipulate that some physical quantity is
conserved, i.e. that the quantity of it remains invariant over time. Early
conservation principles were those of matter mass, of energy, and of momentum.
These became assimilated together in the relativistic principle of the
conservation of momentum-energy. Other conservation laws such as the
conservation of baryon number arose in the theory of elementary particles. A
symmetry in physical theory expressed the invariance of some structural feature
of the world under some transformation. Examples are translation and rotation
invariance in space and the invariance under transformation from one uniformly
moving reference frame to another. Such symmetries express the fact that systems
related by symmetry transformations behave alike in their physical evolution.
Some symmetries are connected with space-time, such as those noted above,
whereas others such as the symmetry of electromagnetism under socalled gauge
transformations are not. A very important result of the mathematician Emma
Noether shows that each conservation law is derivable from the existence of an
associated underlying symmetry. Chaos theory and chaotic systems. In the
history of the scientific study of deterministic systems, the paradigm of
explanation has been the prediction of the future states of a system from a
specification of its initial state. In order for such a prediction to be
useful, however, nearby initial states must lead to future states that are
close to one another. This is now known to hold only in exceptional cases. In
general deterministic systems are chaotic systems, i.e., even initial states
very close to one another will lead in short intervals of time to future states
that diverge quickly from one another. Chaos theory has been developed to
provide a wide range of concepts useful for describing the structure of the
dynamics of such chaotic systems. The theory studies the features of a system
that will determine if its evolution is chaotic or non-chaotic and provides the
necessary descriptive categories for characterizing types of chaotic motion.
Randomness. The intuitive distinction between a sequence that is random and one
that is orderly plays a role in the foundations of probability theory and in
the scientific study of dynamical systems. But what is a random sequence?
Subjectivist definitions of randomness focus on the inability of an agent to
determine, on the basis of his knowledge, the future occurrences in the
sequence. Objectivist definitions of randomness seek to characterize it without
reference to the knowledge of any agent. Some approaches to defining objective
randomness are those that require probability to be the same in the original
sequence and in subsequences “mechanically” selectable from it, and those that
define a sequence as random if it passes every “effectively constructible”
statistical test for randomness. Another important attempt to characterize
objective randomness compares the length of a sequence to the length of a computer
program used to generate the sequence. The basic idea is that a sequence is
random if the computer programs needed to generate the sequence are as long as
the sequence itself. H. P. Grice, “My
labour with Scientism.”
scire – scitum -- scientism: Grice: “Winch
is not only happy with natural science that he wants a social science –
linguistics included!” -- philosophy of the social sciences, the study of the
logic and methods of the social sciences. Central questions include: What are
the criteria of a good social explanation? How if at all are the social
sciences distinct from the natural sciences? Is there a distinctive method for
social research? Through what empirical procedures are social science
assertions to be evaluated? Are there irreducible social laws? Are there causal
relations among social phenomena? Do social facts and regularities require some
form of reduction to facts about individuals? What is the role of theory in
social explanation? The philosophy of social science aims to provide an interpretation
of the social sciences that answers these questions. The philosophy of social
science, like that of natural science, has both a descriptive and a
prescriptive side. On the one hand, the field is about the social sciences the explanations, methods, empirical
arguments, theories, hypotheses, etc., that actually occur in the social
science literature. This means that the philosopher needs extensive knowledge
of several areas of social science research in order to be able to formulate an
analysis of the social sciences that corresponds appropriately to scientists’
practice. On the other hand, the field is epistemic: it is concerned with the
idea that scientific theories and hypotheses are put forward as true or
probable, and are justified on rational grounds empirical and theoretical. The
philosopher aims to provide a critical evaluation of existing social science
methods and practices insofar as these methods are found to be less
truth-enhancing than they might be. These two aspects of the philosophical
enterprise suggest that philosophy of social science should be construed as a
rational reconstruction of existing social science practice a reconstruction guided by existing practice
but extending beyond that practice by identifying faulty assumptions, forms of
reasoning, and explanatory frameworks. Philosophers have disagreed over the
relation between the social and natural sciences. One position is naturalism,
according to which the methods of the social sciences should correspond closely
to those of the natural sciences. This position is closely related to
physicalism, the doctrine that all higher-level phenomena and regularities including social phenomena are ultimately reducible to physical entities
and the laws that govern them. On the other side is the view that the social
sciences are inherently distinct from the natural sciences. This perspective
holds that social phenomena are metaphysically distinguishable from natural
phenomena because they are intentional
they depend on the meaningful actions of individuals. On this view,
natural phenomena admit of causal explanation, whereas social phenomena require
intentional explanation. The anti-naturalist position also maintains that there
is a corresponding difference between the methods appropriate to natural and
social science. Advocates of the Verstehen method hold that there is a method
of intuitive interpretation of human action that is radically distinct from
methods of inquiry in the natural sciences. One important school within the
philosophy of social science takes its origin in this fact of the
meaningfulness of human action. Interpretive sociology maintains that the goal
of social inquiry is to provide interpretations of human conduct within the
context of culturally specific meaningful arrangements. This approach draws an
analogy between literary texts and social phenomena: both are complex systems
of meaningful elements, and the goal of the interpreter is to provide an
interpretation of the elements that makes sense of them. In this respect social
science involves a hermeneutic inquiry: it requires that the interpreter should
tease out the meanings underlying a particular complex of social behavior, much
as a literary critic pieces together an interpretation of the meaning of a
complex philosophy of the social sciences philosophy of the social sciences
704 704 literary text. An example of
this approach is Weber’s treatment of the relation between capitalism and the
Protestant ethic. Weber attempts to identify the elements of western European
culture that shaped human action in this environment in such a way as to
produce capitalism. On this account, both Calvinism and capitalism are
historically specific complexes of values and meanings, and we can better
understand the emergence of capitalism by seeing how it corresponds to the
meaningful structures of Calvinism. Interpretive sociologists often take the
meaningfulness of social phenomena to imply that social phenomena do not admit
of causal explanation. However, it is possible to accept the idea that social
phenomena derive from the purposive actions of individuals without
relinquishing the goal of providing causal explanations of social phenomena.
For it is necessary to distinguish between the general idea of a causal
relation between two events or conditions and the more specific idea of “causal
determination through strict laws of nature.” It is true that social phenomena
rarely derive from strict laws of nature; wars do not result from antecedent
political tensions in the way that earthquakes result from antecedent
conditions in plate tectonics. However, since non-deterministic causal
relations can derive from the choices of individual persons, it is evident that
social phenomena admit of causal explanation, and in fact much social explanation
depends on asserting causal relations between social events and processes e.g., the claim that the administrative
competence of the state is a crucial causal factor in determining the success
or failure of a revolutionary movement. A central goal of causal explanation is
to discover the conditions existing prior to the event that, given the
law-governed regularities among phenomena of this sort, were sufficient to
produce this event. To say that C is a cause of E is to assert that the
occurrence of C, in the context of a field of social processes and mechanisms
F, brought about E or increased the likelihood of the occurrence of E. Central
to causal arguments in the social sciences is the idea of a causal
mechanism a series of events or actions
leading from cause to effect. Suppose it is held that the extension of a
trolley line from the central city to the periphery caused the deterioration of
public schools in the central city. In order to make out such a claim it is
necessary to provide some account of the social and political mechanisms that
join the antecedent condition to the consequent. An important variety of causal
explanation in social science is materialist explanation. This type of
explanation attempts to explain a social feature in terms of features of the
material environment in the context of which the social phenomenon occurs.
Features of the environment that often appear in materialist explanations
include topography and climate; thus it is sometimes maintained that banditry
thrives in remote regions because the rugged terrain makes it more difficult
for the state to repress bandits. But materialist explanations may also refer
to the material needs of society e.g.,
the need to produce food and other consumption goods to support the population.
Thus Marx holds that it is the development of the “productive forces”
technology that drives the development of property relations and political
systems. In each case the materialist explanation must refer to the fact of
human agency the fact that human beings
are capable of making deliberative choices on the basis of their wants and
beliefs in order to carry out the
explanation; in the banditry example, the explanation depends on the fact that
bandits are prudent enough to realize that their prospects for survival are
better in the periphery than in the core. So materialist explanations too
accept the point that social phenomena depend on the purposive actions of
individuals. A central issue in the philosophy of social science involves the
relation between social regularities and facts about individuals.
Methodological individualism is the position that asserts the primacy of facts
about individuals over facts about social entities. This doctrine takes three
forms: a claim about social entities, a claim about social concepts, and a
claim about social regularities. The first version maintains that social
entities are reducible to ensembles of individuals as an insurance company might be reduced to
the ensemble of employees, supervisors, managers, and owners whose actions
constitute the company. Likewise, it is sometimes held that social concepts
must be reducible to concepts involving only individuals e.g., the concept of a social class might be
defined in terms of concepts pertaining only to individuals and their behavior.
Finally, it is sometimes held that social regularities must be derivable from
regularities of individual behavior. There are several positions opposed to
methodological individualism. At the extreme there is methodological holism the doctrine that social entities, facts, and
laws are autonomous and irreducible; for example, that social structures such
as the state have dynamic properties independent of the beliefs and purposes of
the particular persons who occupy positions within the structure. A third
position intermediate between these two holds that every social explanation
requires microfoundations an account of
the circumstances at the individual level that led individuals to behave in
such ways as to bring about the observed social regularities. If we observe
that an industrial strike is successful over an extended period of time, it is
not sufficient to explain this circumstance by referring to the common interest
that members of the union have in winning their demands. Rather, we need
information about the circumstances of the individual union member that induce
him or her to contribute to this public good. The microfoundations dictum does
not require, however, that social explanations be couched in non-social
concepts; instead, the circumstances of individual agents may be characterized
in social terms. Central to most theories of explanation is the idea that
explanation depends on general laws governing the phenomena in question. Thus
the discovery of the laws of electrodynamics permitted the explanation of a
variety of electromagnetic phenomena. But social phenomena derive from the
actions of purposive men and women; so what kinds of regularities are available
on the basis of which to provide social explanations? A fruitful research
framework in the social sciences is the idea that men and women are rational,
so it is possible to explain their behavior as the outcome of a deliberation
about means of achieving their individual ends. This fact in turn gives rise to
a set of regularities about individual behavior that may be used as a ground
for social explanation. We may explain some complex social phenomenon as the
aggregate result of the actions of a large number of individual agents with a
hypothesized set of goals within a structured environment of choice. Social
scientists have often been inclined to offer functional explanations of social
phenomena. A functional explanation of a social feature is one that explains
the presence and persistence of the feature in terms of the beneficial
consequences the feature has for the ongoing working of the social system as a
whole. It might be held, e.g., that sports clubs in working-class Britain exist
because they give working-class people a way of expending energy that would
otherwise go into struggles against an exploitative system, thus undermining
social stability. Sports clubs are explained, then, in terms of their
contribution to social stability. This type of explanation is based on an
analogy between biology and sociology. Biologists explain species traits in
terms of their contribution to reproductive fitness, and sociologists sometimes
explain social traits in terms of their contribution to “social” fitness.
However, the analogy is misleading, because there is a general mechanism
establishing functionality in the biological realm that is not present in the
social realm. This is the mechanism of natural selection, through which a
species arrives at a set of traits that are locally optimal. There is no
analogous process at work in the social realm, however; so it is groundless to
suppose that social traits exist because of their beneficial consequences for
the good of society as a whole or important subsystems within society. So
functional explanations of social phenomena must be buttressed by specific
accounts of the causal processes that underlie the postulated functional
relationships. Grice: “It’s a good thing I studied at Oxford: at other places
you HAVE to learn a non-Indo-Euroopean lingo!” –
.
physicalism: One of the twelve labours of
H. P. Grice. (“As different from Naturalism, you know.”) - Churchland, p. s.,
philosopher and advocate of neurophilosophy. She received her B.Phil. from
Oxford in 9 and held positions at the Unichün-tzu Churchland, Patricia Smith
140 140 versity of Manitoba and the
Institute for Advanced Studies at Princeton, settling at the
ofCalifornia,SanDiego, with appointments in philosophy and the Institute for
Neural Computation. Skeptical of philosophy’s a priori specification of mental
categories and dissatisfied with computational psychology’s purely top-down
approach to their function, Churchland began studying the brain at the of Manitoba medical school. The result was a
unique merger of science and philosophy, a “neurophilosophy” that challenged
the prevailing methodology of mind. Thus, in a series of articles that includes
“Fodor on Language Learning” 8 and “A Perspective on Mind-Brain Research” 0,
she outlines a new neurobiologically based paradigm. It subsumes simple
non-linguistic structures and organisms, since the brain is an evolved organ;
but it preserves functionalism, since a cognitive system’s mental states are
explained via high-level neurofunctional theories. It is a strategy of
cooperation between psychology and neuroscience, a “co-evolutionary” process
eloquently described in Neurophilosophy 6 with the prediction that genuine
cognitive phenomena will be reduced, some as conceptualized within the
commonsense framework, others as transformed through the sciences. The same
intellectual confluence is displayed through Churchland’s various
collaborations: with psychologist and computational neurobiologist Terrence
Sejnowski in The Computational Brain 2; with neuroscientist Rodolfo Llinas in
The Mind-Brain Continuum 6; and with philosopher and husband Paul Churchland in
On the Contrary 8 she and Paul Churchland are jointly appraised in R. McCauley,
The Churchlands and Their Critics, 6. From the viewpoint of neurophilosophy,
interdisciplinary cooperation is essential for advancing knowledge, for the
truth lies in the intertheoretic details. Churchland: Paul M. b.2, -born philosopher, leading proponent of eliminative
materialism. He received his Ph.D. from the
of Pittsburgh in 9 and held positions at the Universities of Toronto,
Manitoba, and the Institute for Advanced Studies at Princeton. He is professor
of philosophy and member of the Institute for Neural Computation at the of California, San Diego. Churchland’s
literary corpus constitutes a lucidly written, scientifically informed narrative
where his neurocomputational philosophy unfolds. Scientific Realism and the
Plasticity of Mind 9 maintains that, though science is best construed
realistically, perception is conceptually driven, with no observational given,
while language is holistic, with meaning fixed by networks of associated usage.
Moreover, regarding the structure of science, higher-level theories should be
reduced by, incorporated into, or eliminated in favor of more basic theories
from natural science, and, in the specific case, commonsense psychology is a
largely false empirical theory, to be replaced by a non-sentential,
neuroscientific framework. This skepticism regarding “sentential” approaches is
a common thread, present in earlier papers, and taken up again in “Eliminative
Material
ism and the Propositional Attitudes” 1.
When fully developed, the non-sentential, neuroscientific framework takes the
form of connectionist network or parallel distributed processing models. Thus,
with essays in A Neurocomputational Perspective 9, Churchland adds that genuine
psychological processes are sequences of activation patterns over neuronal
networks. Scientific theories, likewise, are learned vectors in the space of
possible activation patterns, with scientific explanation being prototypical
activation of a preferred vector. Classical epistemology, too, should be
neurocomputationally naturalized. Indeed, Churchland suggests a semantic view
whereby synonymy, or the sharing of concepts, is a similarity between patterns
in neuronal state-space. Even moral knowledge is analyzed as stored prototypes
of social reality that are elicited when an individual navigates through other
neurocomputational systems. The entire picture is expressed in The Engine of
Reason, the Seat of the Soul 6 and, with his wife Patricia Churchland, by the
essays in On the Contrary 8. What has emerged is a neurocomputational
embodiment of the naturalist program, a panphilosophy that promises to capture
science, epistemology, language, and morals in one broad sweep of its connectionist
net. Refs.: H. P. Grice, “Physicalism and naturalism.” physicalism: On second
thoughts, Grice saw that naturalism and physicalism were synonymous, but kept
both! One of the twelve labours of Grice. in the widest sense of the term,
materialism applied to the question of the nature of mind. So construed,
physicalism is the thesis call it
ontological physicalism that whatever
exists or occurs is ultimately constituted out of physical entities. But
sometimes ‘physicalism’ is used to refer to the thesis that whatever exists or
occurs can be completely described in the vocabulary of physics. Such a view
goes with either reductionism or eliminativism about the mental. Here
reductionism is the view that psychological explanations, including explanations
in terms of “folk-psychological” concepts such as those of belief and desire,
are reducible to explanations formulable in a physical vocabulary, which in
turn would imply that entities referred to in psychological explanations can be
fully described in physical terms; and elminativism is the view that nothing
corresponds to the terms in psychological explanations, and that the only
correct explanations are in physical terms. The term ‘physicalism’ appears to
have originated in the Vienna Circle, and the reductionist version initially
favored there was a version of behaviorism: psychological statements were held
to be translatable into behavioral statements, mainly hypothetical
conditionals, expressible in a physical vocabulary. The psychophysical identity
theory held by Herbert Feigl, Smart, and others, sometimes called type
physicalism, is reductionist in a somewhat different sense. This holds that
mental states and events are identical with neurophysiological states and
events. While it denies that there can be analytic, meaning-preserving
translations of mental statements into physicalistic ones, it holds that by
means of synthetic “bridge laws,” identifying mental types with physical ones,
mental statements can in principle be tr. into physicalistic ones with which
they are at least nomologically equivalent if the terms in the bridge laws are
rigid designators, the equivalence will be necessary. The possibility of such a
translation is typically denied by functionalist accounts of mind, on the
grounds that the same mental state may have indefinitely many different
physical realizations, and sometimes on the grounds that it is logically
possible, even if it never happens, that mental states should be realized
non-physically. In his classic paper “The ‘mental’ and the ‘physical’ “ 8,
Feigl distinguishes two senses of ‘physical’: ‘physical1’ and ‘physical2’.
‘Physical1’ is practically synonymous with ‘scientific’, applying to whatever
is “an essential part of the coherent and adequate descriptive and explanatory
account of the spatiotemporal world.” ‘Physical2’ refers to “the type of
concepts and laws which suffice in principle for the explanation and prediction
of inorganic processes.” It would seem that if Cartesian dualism were true,
supposing that possible, then once an integrated science of the interaction of
immaterial souls and material bodies had been developed, concepts for
describing the former would count as physical1. Construed as an ontological
doctrine, physicalism says that whatever exists or occurs is entirely
constituted out of those entities that constitute inorganic things and
processes. Construed as a reductionist or elminativist thesis about description
and explanation, it is the claim that a vocabulary adequate for describing and
explaining inorganic things and processes is adequate for describing and
explaining whatever exists. While the second of these theses seems to imply the
first, the first does not imply the second. It can be questioned whether the
notion of a “full” description of what exists makes sense. And many ontological
physicalists materialists hold that a reduction to explanations couched in the
terminology of physics is impossible, not only in the case of psychological
explanations but also in the case of explanations couched in the terminology of
such special sciences as biology. Their objection to such reduction is not
merely that a purely physical description of e.g. biological or psychological
phenomena would be unwieldy; it is that such descriptions necessarily miss important
laws and generalizations, ones that can only be formulated in terms of
biological, psychological, etc., concepts. If ontological physicalists
materialists are not committed to the reducibility of psychology to physics,
neither are they committed to any sort of identity theory claiming that
entities picked out by mental or psychological descriptions are identical to
entities fully characterizable by physical descriptions. As already noted,
materialists who are functionalists deny that there are typetype identities
between mental entities and physical ones. And some deny that materialists are
even committed to token-token identities, claiming that any psychological event
could have had a different physical composition and so is not identical to any
event individuated in terms of a purely physical taxonomy. Refs.: H. P. Grice, “From Physicalism to
Naturalism – and Back: fighting two at once!”
natura: the Grecian
equivalent is “physis,” – whereas the Roman idea has to do with ‘birth,’ cf.
‘renaissance,’ the Grecian idea has to do with ‘growth,’ Grecian term for nature, primarily used to
refer to the nature or essence of a living thing Aristotle, Metaphysics V.4.
Physis is defined by Aristotle in Physics II.1 as a source of movement and rest
that belongs to something in virtue of itself, and identified by him primarily
with the form, rather than the matter, of the thing. The term is also used to
refer to the natural world as a whole. Physis is often contrasted with techne,
art; in ethics it is also contrasted with nomos, convention, e.g. by Callicles
in Plato’s Gorgias 482e ff., who distinguishes natural from conventional
justice.
physiologicum: Oddly, among the twelve isms that attack Grice on his
ascent to the city of eternal truth, there is Naturalism and Physicalism – but
Roman natura is Grecian physis. In “Some remarks about the senses,” Grice
distinguishes a physicalist identification of the senses (in terms of the
different stimuli and the mechanisms that connects the organs to the brain)
versus other criteria, notably one involving introspection and the nature of
‘experience’ – “providing,” he adds, that ‘seeing’ is an experience! Grice
would use ‘natural,’ relying on the idea that it’s Grecian ‘physis.’ Liddell and Scott
have “φύσις,” from “φύω,” and which they render as “origin.” the natural form
or constitution of a person or thing as the result of growth, and hence nature,
constitution, and nature as an originating power, “φ. λέγεται . . ὅθεν ἡ
κίνησις ἡ πρώτη ἐν ἑκάστῳ τῶν φύσει ὄντων” Arist.Metaph.1014b16; concrete, the
creation, 'Nature.’ Grice is casual in his use of ‘natural’ versus
‘non-natural’ in 1948 for the Oxford Philosophical Society. In later works,
there’s a reference to naturalism, which is more serious. Refs.: The keyword
should be ‘naturalism,’ but also Grice’s diatribes against ‘physicalism,’ and
of course the ‘natural’ and ‘non-natural,’ BANC.
lapis
philosophorum: alchemy:
a quasi-scientific practice and mystical art, mainly ancient and medieval, that
had two broad aims: to change baser metals into gold and to develop the elixir
of life, the means to immortality. Classical Western alchemy probably
originated in Egypt in the first three centuries A.D. with earlier Chin. and
later Islamic and variants and was
practiced in earnest in Europe by such figures as Paracelsus and Newton until
the eighteenth century. Western alchemy addressed concerns of practical
metallurgy, but its philosophical significance derived from an early Grecian
theory of the relations among the basic elements and from a
religious-allegorical understanding of the alchemical transmutation of ores
into gold, an understanding that treats this process as a spiritual ascent from
human toward divine perfection. The purification of crude ores worldly matter
into gold material perfection was thought to require a transmuting agent, the
philosopher’s stone, a mystical substance that, when mixed with alcohol and
swallowed, was believed to produce immortality spiritual perfection. The
alchemical search for the philosopher’s stone, though abortive, resulted in the
development of ultimately useful experimental tools e.g., the steam pump and
methods e.g., distillation.
piaget: philosopher who profoundly
influenced questions, theories, and methods in the study of cognitive development.
The philosophical interpretation and implications of his work, however, remain
controversial. Piaget regarded himself as engaged in genetic epistemology, the
study of what knowledge is through an empirical investigation of how our
epistemic relations to objects are improved. Piaget hypothesized that our
epistemic relations are constructed through the progressive organization of
increasingly complex behavioral interactions with physical objects. The
cognitive system of the adult is neither learned, in the Skinnerian sense, nor
genetically preprogrammed. Rather, it results from the organization of specific
interactions whose character is shaped both by the features of the objects
interacted with a process called accommodation and by the current cognitive
system of the child a process called assimilation. The tendency toward
equilibrium results in a change in the nature of the interaction as well as in
the cognitive system. Of particular importance for the field of cognitive
development were Piaget’s detailed descriptions and categorizations of changes
in the organization of the cognitive system from birth through adolescence.
That work focused on changes in the child’s understanding of such things as
space, time, cause, number, length, weight, and morality. Among his major works
are The Child’s Conception of Number 1, Biology and Knowledge 7, Genetic
Epistemology 0, and Psychology and Epistemology 0.
Piana Giovanni
Piana Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to
search Giovanni Piana Giovanni Piana (Casale Monferrato, 5 aprile 1940 –
Praia a Mare,24 febbraio 2019) è stato un filosofo, accademico e saggista
italiano. Indice 1 Biografia
1.1 Citazioni
2 Note
3 Bibliografia
3.1 Libri
3.2 Archivi
Internet 3.3 Saggi
(selezione) 3.4 Traduzioni
4 Siti
che parlano del lavoro di Piana 5 Giornate
di studio e Call for papers 6 Voci
correlate Biografia Ha insegnato filosofia teoretica all'Università degli Studi
di Milano dal 1970 al 1999. Più tardi si è trasferito a Pietrabianca di
Sangineto in Calabria, dove ha continuato a scrivere e pubblicare. È
stato allievo di Enzo Paci, con il quale scrisse la sua dissertazione sulle
opere inedite di Husserl. La sua posizione filosofica è caratterizzata
dal concetto di fenomenologia, ("strutturalismo fenomenologico")
influenzato particolarmente da Husserl, Wittgenstein, e Bachelard. Alcune
indicazioni sullo strutturalismo fenomenologico sono contenute nell'articolo
online in italiano[1] e in tedesco[2] L'idea di uno strutturalismo
fenomenologico. Il suo pensiero è orientato verso la filosofia della
conoscenza, la filosofia della musica e i campi della percezione e
immaginazione. Allievi di Piana sono stati, in particolare, Paola Basso,
Alfredo Civita, Vincenzo Costa, Elio Franzini, Carlo Serra, Paolo Spinicci.
È stato definito da Remo Bodei "uno dei più acuti e originali filosofi
italiani" (in l'Unità, 10 agosto 1988) e da Sergio Moravia "uno dei
più interessanti interpreti e prosecutori, in Italia, dell'indirizzo
fenomenologico"(in Paese Sera, 11 agosto 1979). Secondo Stefano Cardini,
Giovanni Piana deve essere annoverato "tra i più lucidi, originali e
fecondi fenomenologi italiani" (in "L'idea di Europa e le
responsabilità della filosofia"[3]). Fulvio Papi ha scritto di lui: "Piana
ha vissuto, nel confine tra anni Cinquanta e anni Sessanta, l'esperienza della
fenomenologia di Husserl che costituì il centro d'interesse di un grande
Maestro come Enzo Paci. Non è il caso qui di tracciare mappe di quelle vicende,
credo però che non sarebbe sbagliato sostenere che Piana, in quel gioco delle
parti, che è sempre l'apertura di un'esperienza plurale sul suggerimento di un
filosofo autentico, si è preso quella del fenomenologo più prossimo ai temi
'duri' di Husserl, agli obbiettivi che stabiliscono la teoreticità della
ricerca fenomenologica come tratto distintivo ed essenziale rispetto ad altre
figure di pensiero" (in L'Unità, 14 ottobre 1991). Per Marcello La Matina,
Giovanni Piana va considerato come "il più illustre filosofo della musica
del nostro tempo" (in "Il significato della musica", relazione
al convegno 'Approcci semiotico-testologici ai testi multimediali', Università
di Macerata 16-18 ottobre 2000, p. 5). In un intervento letto durante un
convegno tenuto all'Università di Macerata il 12-13 novembre 2015 - Elio
Franzini ha dichiarato[4] "Piana è a mio parere uno dei pensatori maggiori
del dopoguerra italiano: mai prono alle mode, sempre originale e innovativo,
come dimostrano i suoi essenziali contributi alla filosofia della musica. In
sintesi un maestro in cui si ritrovano sempre momenti di autentico
pensiero". Nelle elogi seguiti alla sua morte, Roberta De
Monticelli[5] ha descritto Giovanni Piana come "fino a oggi il più grande
e vivo maestro della fenomenologia italiana" , mentre Stefano Cardini, nel
ripercorrere le tappe che hanno portato a Phenomenology Lab, [6] scrive:
"lo stile filosofico di Piana rappresentava il centro di gravità attorno
al quale tendevamo a condensare gran parte di quello che di eccellente la
fenomenologia italiana aveva fatto, convinti che i suoi meriti, in Italia e
all'estero, non fossero stati ancora adeguatamente
riconosciuti". Citazioni «La vera filosofia tende
all'elementare. E dunque non ha fretta di correre oltre, indugia in quei punti
rispetto ai quali si potrebbe benissimo soprassedere.In certo senso si fa
custode del ricordo di cose che si potrebbero facilmente dimenticare»
(Giovanni Piana, Numero e figura, CUEM, Milano 1997, p. 12) «La filosofia è
un’arte del ricordo. Ma vi è in ogni caso anche qualcosa di profondamente
giusto nell’idea, che si ripropone di continuo, di una scienza che deve in
qualche modo «liberarsi» dalla filosofia. È come liberarsi dai ricordi – e
questo è spesso necessario per procedere oltre.» (Numero e figura, CUEM,
Milano 1997, p. 62) Note ^ filosofia.unimi.it,
http://www.filosofia.unimi.it/piana/index.php/filosofiadellesperienza/99-lidea-di-uno-strutturalismo-fenomenologico.
^ web.archive.org,
https://web.archive.org/web/20070313143533/http://www.filosofia.unimi.it/~piana/struttur/hmstrukt.htm.
^ phenomenologylab.eu,
http://www.phenomenologylab.eu/index.php/2014/03/husserl-crisi-scienze-europee-giovanni-piana.
^ Intervento di Elio Franzini al Convegno di Macerata 2015, su
filosofia.unimi.it. ^ https://ilmanifesto.it/giovanni-piana-la-filosofia-tende-allelementare-e-non-ha-fretta/.
^ L’importanza filosofica di arrivare ultimi. Ripensando a Giovanni Piana |
Phenomenology Lab, su phenomenologylab.eu. Bibliografia Libri Esistenza e
storia negli inediti di Husserl, Lampugnani Nigri, Milano, 1965. English
translation by A. Roda, History and Existence in Husserl's Manuscripts, in
"Telos", n. 13, 1972. I problemi della fenomenologia, Mondadori,
Milano, 1966. Interpretazione del "Tractatus" di Wittgenstein, Il
Saggiatore, 1973. Ora disponibile in PDF. Elementi di una dottrina
dell'esperienza, Il Saggiatore, Milano, 1979. La notte dei lampi. Quattro saggi
sulla filosofia dell'immaginazione, Guerini e Associati, Milano, 1988.
Filosofia della musica, Guerini e Associati, Milano, 1991. Mondrian e la
musica, Milano, Guerini e Associati, 1995. Teoria del sogno e dramma musicale.
La metafisica della musica di Schopenhauer, Guerini e Associati, Milano, 1997.
Numero e figura. Idee per una epistemologia della ripetizione. Cuem, Milano,
1999. Album per la teoria greca della musica, 2010. Frammenti epistemologici,
Lulu.com, 2015. Le sue Opere complete, in ventinove volumi, sono racchiuse nei
seguenti volumi, disponibili via Amazon: Vol. I – Elementi di una dottrina
dell’esperienza Vol. II – Strutturalismo fenomenologico e psicologia della
forma. Vol. III – La notte dei lampi. Parte prima Vol. IV – La notte dei lampi.
Parte seconda Vol. V – Le regole dell’immaginazione Vol. VI – Filosofia della
musica Vol. VII – Intervallo e cromatismo nella teoria della musica Vol. VIII –
Alle origini della teoria della tonalità Vol. IX – Teoria del sogno e dramma
musicale. La metafisica della musica di Schopenhauer Vol. X – Mondrian e la
musica Vol. XI – Saggi di filosofia della musica Vol. XII – Problemi di teoria
e di estetica musicale Vol. XIII – Introduzione alla filosofia Vol. XIV –
Interpretazione del “Mondo come volontà e rappresentazione” di Schopenhauer
Vol. XV – Immagini per Schopenhauer Vol. XVI – Interpretazione del “Tractatus”
di Wittgenstein Vol. XVII – Commenti a Wittgenstein Vol. XVIII – Commenti a
Hume Vol. XIX – I problemi della fenomenologia Vol. XX – Fenomenologia,
esistenzialismo, marxismo Vol. XXI – Saggi su Husserl e sulla fenomenologia
Vol. XXII – Stralci di vita Vol. XXIII – Conversazioni sulla “Crisi delle scienze
europee” di Husserl Vol. XXIV – Fenomenologia delle sintesi passive Vol. XXV –
Numero e figura Vol. XXVI – Frammenti epistemologici Vol. XXVII – Barlumi per
una filosofia della musica Vol. XXVIII – Album per la teoria greca della
musica. Parte prima Vol. XXIX – Album per la teoria greca della musica. Parte
seconda Archivi Internet Archivio di Giovanni Piana, incluse le Opere complete
liberamente scaricabili, su filosofia.unimi.it. De Musica , rivista co-fondata
da Giovanni Piana nel 1997 e tuttora attiva., su riviste.unimi.it. Spazio
Filosofico , collana co-fondata da Giovanni Piana, Elio Franzini, Paolo
Spinicci, Carlo Serra., su spaziofilosofico.filosofia.unimi.it. Saggi
(selezione) "La fenomenologia come metodo filosofico", Introduzione
al volume P. Spinicci, La visione e il linguaggio, Guerini e Associati, Milano
1992. English version: Phenomenology as philosophical method, PDF disponibile
qui. "Immaginazione e poetica dello spazio", in: Metafora Mimesi
Morfogenesi Progetto, a cura di E. D'Alfonso e E. Franzini, Guerin e Associati,
Milano 1991, pp. 93–100. "Considerazioni inattuali su T. W. Adorno",
"Musica/Realtà", XIII, n. 39, (Dicembre 1992), pp. 27–53.
"Figurazione e movimento nella problematica musicale del continuo", in:
Autori Vari, La percezione musicale, Guerini e Associati, Milano, 1993, pp.
11–36. "Fenomenologia dei materiali e campo delle decisioni. Riflessioni
sull'arte del comporre", in: Il canto di Seikilos, Scritti per Dino
Formaggio nell'ottantesimo compleanno, Guerini e Associati, Milano 1995, pp.
45–55. I compiti di una filosofia della musica brevemente esposti, html, De
Musica, 1997. Elogio dell'immaginazione musicale, De Musica, 1997. La serie
delle seriedodecafoniche e il triangolo di Sarngadeva, De Musica 2000. Immagini
per Schopenhauer (2001) Il canto del merlo (1999) - Versione PDF completa dei
suoni. “Occorre riflettervi ancora”. Considerazioni in margine a Fantasia e
immagine di Edmund Husserl (2018). PDF Leggere i poeti. Note in margine a
Giovanni Pascoli (2018) - articolo per De Musica Traduzioni G. Lukács, Scritti
di sociologia della letteratura (Milano, 1964) H M. Enzensberger, Questioni di
dettaglio ( Milano, 1965) G. Lukács, Storia e coscienza di classe (Milano,
1967) E. Husserl, Ricerche logiche (Milano, 1968) E. Husserl, Storia critica
delle idee (Milano, 1989) Siti che parlano del lavoro di Piana Bibliografia
sull’estetica fenomenologica italiana 1900-1996 (PDF), su swif.uniba.it. URL
consultato il 4 ottobre 2007 (archiviato dall'url originale l'11 maggio 2006).
Fenomenologia, coscienza del tempo e analisi musicale (PDF) [collegamento
interrotto], su springerlink.com. Le variazioni antropologico-culturali dei
significati simbolici dei colori (PDF), su ledonline.it. Burnout e risorse in
Musicoterapia (PDF), su atelierdimusica.it. Nel suo Album per la teoria greca
della musica, Giovanni Piana va alle radici fenomenologiche del Cosmo antico di
Stefano Cardini, 7 giugno 2010. LA DISPUTA SUI COLORI di Valter Binaghi , su
valterbinaghi.wordpress.com (archiviato dall'url originale il 29 maggio 2009).
Aldo Scimone, Lezioni sui Fondamenti della Matematica (PDF), su math.unipa.it.
[1] Saggio di Stefano Cardini. Giornate di studio e Call for papers Università
degli studi di Milano, Sala Crociera alta di Giurisprudenza. Milano, 7 giugno 2019
La scienza della felicità Una giornata in ricordo di Giovanni Piana Paolo
Spinicci: La fenomenologia dell’esperienza in Giovanni Piana - Conferenza
concerto a Brescia (24 maggio 2019) Phenomenological Reviews: Call for Papers
(in inglese e altre lingue) per la Special issue in memory of Giovanni Piana
Voci correlate Scuola di Milano Controllo di autorità VIAF (EN) 19757090 · ISNI (EN) 0000 0000 8098 6818 · SBN
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XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX
secoloAccademici italiani del XXI secoloSaggisti italiani del XX secoloSaggisti
italiani del XXI secoloNati nel 1940Morti nel 2019Nati il 5 aprileMorti il 24
febbraioNati a Casale MonferratoProfessori dell'Università degli Studi di
MilanoStudenti dell'Università degli Studi di MilanoMusicologi italianiFenomenologi[altre]
Piccolomini Francesco Piccolomini
(filosofo) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to
search Francesco Piccolomini Francesco
Piccolomini (Siena, 25 gennaio 1523 – Siena, 22 aprile 1607) è stato un filosofo
e accademico italiano. Indice 1 Biografia 2 Opere
3 Note
4 Bibliografia
Biografia Nato nel 1523 dai senesi Niccolò, dottore in diritto civile e
canonico, ed Emilia Saracini, si laureò a Siena in arti e medicina il 12 luglio
1546, sviluppando un crescente interesse per la filosofia.[1] Intraprese la
carriera accademica insegnando per tre anni all'università di Siena, poi a
Macerata, e all'ateneo di Perugia dal 1550 al 1560.[1] Trasferitosi a Padova,
gli venne assegnata la prima cattedra straordinaria di filosofia naturale, poi
ordinaria nel 1565.[1] All'università di Padova entrò in concorrenza con il
collega Federico Pendasio, e i due si resero partecipi di un'aspra disputa
filosofica – circa l'interpretazione del terzo libro del De anima di Aristotele
– che terminò solamente nel 1571 con il trasferimento di Pendasio a
Bologna.[1] Fu professore stimato e
richiesto dagli studenti, che affollavano le sue lezioni: ebbe con essi sempre
ottimi rapporti, spesso aiutandoli nella stesura di scritti filosofici o
scrivendo di proprio pugno testi da pubblicare a loro nome (è il caso dei
Peripateticarum de anima disputationum libri septem di Pietro Duodo del 1575 e
degli Academicarum contemplationum libri decem di Stefano Tiepolo del 1576).[2]
Torquato Tasso, che fu suo studente, ricorda le appassionate lezioni nel
dialogo Il Costante overo de la clemenza del 1589.[1][3] Lo stipendio di
Piccolomini raggiunse nel 1589 i 1 400 fiorini annui, cifra di gran lunga
superiore ai propri colleghi.[1]
Abbandonata la professione universitaria nel 1598, rientrò a Siena e si
dedicò completamente alla stesura di testi filosofici, concentrando i propri
sforzi nella formulazione di una teoria sincretica tra aristotelismo e
platonismo, atta a tentare una conciliazione tra Aristotele e Platone in ambito
etico-politico.[1] Sposato dal 1572 con
la nobildonna senese Fulvia Placidi, ebbe quattro figli: Niccolò, Alessandro,
Caterina e Aurelia.[1] Il 26 gennaio del 1605 ricevette un premio
dall'Accademia dei Filomati, di cui era membro con il nome di Unico.[1] Morì
nel 1607 all'età di 84 anni, e fu sepolto nella chiesa di San
Francesco.[1] Opere Universa philosophia
de moribus, Venezia, tip. Francesco De Franceschi (1583) Comes politicus, pro
recta ordinis ratione propugnator, Venezia, tip. Francesco De Franceschi (1594)
Libri ad scientiam de natura attinentes, Venezia, tip. Francesco De Franceschi
(1596) Librorum Aristotelis de ortu et interitu lucidissima expositio, Venezia,
tip. Francesco De Franceschi (1602) In tres libros de anima lucidissima expositio,
Venezia, tip. Francesco De Franceschi (1602) Instituzione del principe
(1602)[4] Compendio della scienza civile (1603)[5] Octavi libri naturalium
auscultationum perspicua interpretatio, Venezia, tip. Francesco De Franceschi
(1606) In libros de coelo lucidissima expositio, Venezia, tip. Francesco De
Franceschi (1607) – postuma Note Laura
Carotti, «PICCOLOMINI, Francesco» in Dizionario Biografico degli Italiani,
Volume 13, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1971. ^ Eugenio Garin,
Storia della filosofia italiana, Torino, Einaudi, 1966, pp. 656–661. ^ Antonio
Malmignati, Il Tasso a Padova, Padova, 1889, pp. 84–88 ^ Redatto in forma
manoscritta nel 1602 (Firenze, Biblioteca Riccardiana, cod. 2589, cc. n.n.), è
stato stampato a Roma dai tipi di Sante Pieralisi nel 1858. ^ Redatto in forma
manoscritta nel 1603 (Firenze, Biblioteca nazionale centrale, Conv. Soppr. (S.
Maria degli Angeli), cod. E.5.867, cc. n.n.), è stato stampato a Roma dai tipi
di Sante Pieralisi nel 1858. Bibliografia Francesco Piccolomini, su Treccani.it
– Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su
Wikidata Laura Carotti, Francesco Piccolomini, in Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Opere di
Francesco Piccolomini, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su
Wikidata (EN) Opere di Francesco Piccolomini, su Open Library, Internet
Archive. Modifica su Wikidata Ferdinando Cavalli, La scienza politica in
Italia, vol. II, Venezia, 1873, pp. 40–48. Eugenio Garin, Storia della
filosofia italiana, Torino, Einaudi, 1966, pp. 656–661. Controllo di autorità VIAF (EN)
88396 · ISNI (EN) 0000 0000 7100 3541 · SBN IT\ICCU\BVEV\025428 · LCCN (EN)
n86815822 · GND (DE) 124457924 · BNF (FR) cb12364335n (data) · BNE (ES)
XX1744277 (data) · BAV (EN) 495/201352 · CERL cnp01880830 · WorldCat Identities
(EN) lccn-n86815822 Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia
Categorie: Filosofi italiani del XVI secoloFilosofi italiani del XVII
secoloAccademici italiani del XVI secoloAccademici italiani del XVII secoloNati
nel 1523Morti nel 1607Nati il 25 gennaioMorti il 22 aprileNati a SienaMorti a
SienaProfessori dell'Università degli Studi di Macerata[altre]
pico
della mirandola
-- philosopher who wrote a series of 900 theses which he hoped to dispute
publicly in Rome. Thirteen of these theses are criticized by a papal
commission. When Pico defends himself in his “Apologia,” the pope condemns all
900 theses. Pico flees to France, but is imprisoned. On his escape, he returns to
Florence and devotes himself to private study at the swimming-pool at his
villa. He hoped to write a Concord of Plato and Aristotle, but the only part he
was able to complete was “On Being and the One,” – “Blame it on the Toscana!”
-- in which he uses Aquinas and Christianity to reconcile Plato’s and
Aristotle’s views about God’s being and unity. Mirandola is often described as
a syncretist, but in fact he made it clear that the truth of Christianity has
priority over the prisca theologia or ancient wisdom found in the hermetic
corpus and the cabala. Though he was interested in magic and astrology,
Mirandola adopts a guarded attitude toward them in his “Heptaplus,” which
contains a mystical interpretation of Genesis; and in his Disputations Against
Astrology, he rejects them both. The treatise is largely technical, and the
question of human freedom is set aside as not directly relevant. This fact
casts some doubt on the popular thesis that Pico’s philosophy is a celebration
of man’s freedom and dignity. Great weight has been placed on Pico’s “On the
Dignity of Man.” This is a short oration intended as an introduction to the
disputation of his 900 theses – all condemned by the evil pope --, and the
title was suggested by his wife (“She actually suggested, “On the dignity of
woman,” but I found that otiose.””). Mirandola has been interpreted as saying
that man (or woman) is set apart from the rest of creation, and is completely
free to form his (or her) own nature. In fact, as The Heptaplus shows, Pico
sees man as a microcosm containing elements of the angelic, celestial, and
elemental worlds. Man (if not woman) is thus firmly within the hierarchy of
nature, and is a bond and link between the worlds. In the oration, the emphasis
on freedom is a moral one: man is free to choose between good and evil. Grice:
“This irritated Nietzsche so much that he wrote ‘beyond good and evil.’ Refs.:
H. P. Grice, “Goodwill and illwill – must we have both?” Giovanni Pico della Mirandola Da Wikipedia, l'enciclopedia
libera. Jump to navigationJump to search Heraldic Crown of Spanish Count.svg
Giovanni Pico della Mirandola Pico1.jpg Giovanni Pico della Mirandola, Galleria
degli Uffizi Conte di Mirandola e di Concordia Stemma NascitaMirandola, 1463
MorteFirenze, 1494 SepolturaConvento di San Marco, Firenze DinastiaPico
PadreGianFrancesco I, Signore di Mirandola e Conte della Concordia MadreGiulia
Boiardo, Contessa di Scandiano Religionecattolicesimo Giovanni Pico dei conti
della Mirandola e della Concordia, noto come Pico della Mirandola[1]
(Mirandola, 24 febbraio 1463 – Firenze, 17 novembre 1494), è stato un umanista
e filosofo italiano. È l'esponente più conosciuto della dinastia dei
Pico, signori di Mirandola. Indice 1Biografia 1.1Gli studi e
l'attività 1.2La morte 1.3Fama postuma 2Ascendenza 3Dottrina 3.1L'ideale di una
filosofia universale 3.2La dignità dell'uomo 3.3La sapienza della Cabala
3.3.1Critica dell'astrologia 4Opere 5Note 6Bibliografia 6.1Le fonti
cabalistiche di Pico 7Voci correlate 8Altri progetti 9Collegamenti esterni
Biografia L'infanzia di Pico della Mirandola, di Paul Delaroche, 1842,
Museo delle belle arti di Nantes (Francia) Giovanni nacque a Mirandola, presso
Modena, il figlio più giovane di Gianfrancesco I, signore di Mirandola e conte
della Concordia (1415-1467), e sua moglie Giulia, figlia di Feltrino Boiardo,
conte di Scandiano.[2] La famiglia aveva a lungo abitato il castello di
Mirandola, città che si era resa indipendente nel XIV secolo e aveva ricevuto
nel 1414 dall'imperatore Sigismondo il feudo di Concordia. Pur essendo
Mirandola uno stato molto piccolo, i Pico governarono come sovrani indipendenti
piuttosto che come nobili vassalli. I Pico della Mirandola erano strettamente
imparentati agli Sforza, ai Gonzaga e agli Este, e i fratelli di Giovanni
sposarono gli eredi al trono di Corsica, Ferrara, Bologna e Forlì.[2] Durante
la sua vita Giovanni soggiornò in molte dimore. Tra queste, quando visse a
Ferrara, quella che si trovava in via del Turco gli permetteva di essere vicino
agli Strozzi ed ai Boiardo. Epigrafe che ricorda Pico della
Mirandola in via del Turco a Ferrara Gli studi e l'attività Pico compì i suoi
studi fra Bologna, Pavia, Ferrara, Padova e Firenze; mostrò grandi doti nel
campo della matematica e imparò molte lingue, tra cui perfettamente il latino,
il greco, l'ebraico, l'aramaico, l'arabo e il francese. Ebbe anche modo di
stringere rapporti di amicizia con numerose personalità dell'epoca come
Girolamo Savonarola, Marsilio Ficino, Lorenzo il Magnifico, Angelo Poliziano,
Egidio da Viterbo, Girolamo Benivieni, Girolamo Balbi, Yohanan Alemanno, Elia
del Medigo. A Firenze in particolare entrò a far parte della nuova Accademia
Platonica. Nel 1484 si recò a Parigi, ospite della Sorbona, allora centro
internazionale di studi teologici, dove conobbe alcuni uomini di cultura come
Lefèvre d'Étaples, Robert Gaguin e Georges Hermonyme. Ben presto divenne
celebre in tutta Europa e si diceva che avesse una memoria talmente fuori dal
comune che conosceva l'intera Divina Commedia a memoria. Nel 1486 fu a
Roma dove preparò 900 tesi in vista di un congresso filosofico universale (per
la cui apertura compose il De hominis dignitate), che tuttavia non ebbe mai
luogo. Subì infatti alcune accuse di eresia,[3] in seguito alle quali fuggì in
Francia dove venne anche arrestato da Filippo II presso Grenoble e condotto a
Vincennes, per essere tuttavia subito scarcerato. Con l'assoluzione di papa
Alessandro VI, il quale vedeva di buon occhio la volontà di Pico di dimostrare
la divinità di Cristo attraverso la magia e la cabala, nonché godendo della
rete di protezioni dei Medici, dei Gonzaga e degli Sforza, si stabilì quindi
definitivamente a Firenze, continuando a frequentare l'Accademia di
Ficino. La morte Morì per avvelenamento[4] da arsenico[5] il 17 Novembre 1494,
all'età di trentun anni,[6] mentre Firenze veniva occupata dalle truppe
francesi di Carlo VIII[7][8] durante la Guerra d'Italia del 1494-1498. Fu
sepolto nel cimitero dei domenicani dentro il convento di San Marco. Le sue
ossa saranno rinvenute da padre Chiaroni nel 1933 accanto a quelle di Angelo
Poliziano e dell'amico Girolamo Benivieni. «Siamo vissuti celebri, o
Ermolao, e tali vivremo in futuro, non nelle scuole dei grammatici, non là dove
si insegna ai ragazzi, ma nelle accolte dei filosofi e nei circoli dei
sapienti, dove non si tratta né si discute sulla madre di Andromaca, sui figli
di Niobe e su fatuità del genere, ma sui principî delle cose umane e
divine.» (Pico della Mirandola) Nel novembre del 2018, più di 500 anni
dopo, uno studio coordinato del dipartimento di Biologia dell'Università di
Pisa, del Reparto Investigazioni Scientifiche dell'Arma dei Carabinieri di
Parma e di studiosi spagnoli, britannici e tedeschi, ha dimostrato che Pico
della Mirandola fu avvelenato con l'arsenico.[5][9] Fama postuma Il
volto di Giovanni Pico ricostruito con le moderne tecniche forensi Di Pico
della Mirandola è rimasta letteralmente proverbiale la prodigiosa memoria: si
dice conoscesse a mente numerose opere su cui si fondava la sua vasta cultura
enciclopedica, e che sapesse recitare la Divina Commedia al contrario, partendo
dall'ultimo verso, impresa che pare gli riuscisse con qualunque poema appena
terminato di leggere.[10] Tutt'oggi è ancora in uso attribuire
l'appellativo "Pico della Mirandola" a chiunque sia dotato di ottima
memoria.[11] Secondo una popolare diceria, Pico della Mirandola avrebbe
avuto una amante o una concubina segreta[12]; tuttavia, si è sostenuto che
potrebbe aver avuto un rapporto amoroso con l'umanista Girolamo Benivieni,
sulla base di alcuni scritti, tra cui sonetti, che quest'ultimo aveva dedicato
a Pico,[13] e di alcune allusioni poco chiare di Savonarola.[12] Pico era
comunque un seguace dell'ideale dell'amor socratico,[12] privo cioè di
contenuti erotici e passionali; anche la figura femminile ricorrente nei suoi
versi viene celebrata su un piano prevalentemente filosofico.[14]
Ascendenza GenitoriNonniBisnonni Giovanni I PicoFrancesco II PicoGianfrancesco
I Pico Caterina BevilacquaGuglielmo BevilacquaTaddea Tarlati Giovanni
PicoFeltrino Boiardo Matteo BoiardoBernardina Lambertini.Giulia
BoiardoGuiduccia da Correggio Gherardo VI da CorreggioDottrina Marsilio
Ficino, Giovanni Pico della Mirandola e Agnolo Poliziano, ritratti da Cosimo
Rosselli nella Cappella del Miracolo del Sacramento a Firenze Il pensiero
di Pico della Mirandola si riallaccia al pensiero neoplatonico di Marsilio
Ficino, senza però occuparsi della polemica anti-aristotelica. Al contrario,
egli cerca di riconciliare aristotelismo e platonismo in una sintesi superiore,
fondendovi anche altri elementi culturali e religiosi, come per esempio la
tradizione misterica di Ermete Trismegisto e della cabala.[15]
All'interno del testo delle Conclusiones Pico si scaglia duramente contro
Ficino, considerando inefficace la sua magia naturale perché carente di un
legame con le forze superiori nonché di un'adeguata conoscenza
cabalistica.[16] L'ideale di una filosofia universale Il proposito di
Pico, esplicitamente dichiarato ad esempio nel De ente et uno, consiste infatti
nel ricostruire i lineamenti di una filosofia universale, che nasca dalla
concordia fra tutte le diverse correnti di pensiero sorte sin dall'antichità,
accomunate dall'aspirazione al divino e alla sapienza, e culminanti nel
messaggio della Rivelazione cristiana. In questo suo ecumenismo filosofico,
oltre che religioso, vengono accolti non solo i teologi cristiani ed esoterici
insieme a Platone, Aristotele, i neoplatonici e tutto il sapere gnostico ed
ermetico proprio della filosofia greca, ma anche il pensiero islamico, quello
ebraico e appunto cabbalistico, nonché dei mistici di ogni tempo e
luogo.[17] Il congresso da lui organizzato a Roma in vista di una tale
"pace filosofica" avrebbe dovuto inserirsi proprio in questo progetto
culturale basato su una concezione della verità come princìpio eterno ed
universale, al quale ogni epoca della storia ha saputo attingere in misura in
più o meno diversa. In seguito tuttavia ai vari contrasti che gli si
presentarono, sorti a causa della difficoltà di una tale conciliazione, Pico si
accorse che il suo ideale era difficilmente perseguibile; ad esso, a poco a
poco, si sostituirà nella sua mente il proposito riformatore di Girolamo
Savonarola, rivolto al rinnovamento morale, più che culturale, della città di
Firenze. L'armonia universale da lui ricercata in ambito filosofico si
trasformerà così nell'aspirazione religiosa ad una santità e una moralità meno
generica e più attinente al suo particolare momento storico. A differenza di
Ficino, nel Pico emergono dunque nei suoi ultimi anni un maggiore senso di
irrequietezza e una visione più cupa ed esistenziale della vita.[17] La
dignità dell'uomo Ritratto di Pico della Mirandola eseguito da un anonimo
del XVII secolo: xilografia dal libro Della celestiale fisionomia, Padova 1616
Al centro del suo ideale di concordia universale risalta fortemente il tema
della dignità e della libertà umana. L'uomo infatti, dice Pico, è l'unica
creatura che non ha una natura predeterminata, poiché: «[...] Già il
Sommo Padre, Dio Creatore, aveva foggiato, [...] questa dimora del mondo quale
ci appare, [...]. Ma, ultimata l'opera, l'Artefice desiderava che ci fosse
qualcuno capace di afferrare la ragione di un'opera così grande, di amarne la
bellezza, di ammirarne la vastità. [...] Ma degli archetipi non ne restava
alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori [...] né dei posti di
tutto il mondo [...]. Tutti erano ormai pieni, tutti erano stati distribuiti
nei sommi, nei medi, negli infimi gradi. [...]» (Giovanni Pico della Mirandola,
Oratio de hominis dignitate,[18] 1486) Dunque, per Pico, l'uomo non ha affatto
una natura determinata in un qualche grado (alto o basso), bensì: «[...]
Stabilì finalmente l'Ottimo Artefice che a colui cui nulla poteva dare di
proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri.
Perciò accolse l'uomo come opera di natura indefinita e, postolo nel cuore del
mondo, così gli parlò: -non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un
aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché [...] tutto secondo il tuo
desiderio e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri
è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai senza essere
costretto da nessuna barriera, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti
consegnai. [...]» (Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de hominis
dignitate[18]) Pico della Mirandola afferma, in sostanza, che Dio ha posto
nell'uomo non una natura determinata, ma una indeterminatezza che è dunque la
sua propria natura, e che si regola in base alla volontà, cioè all'arbitrio
dell'uomo, che conduce tale indeterminatezza dove vuole. Pico aggiunge
poi: «[...] Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né
immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e
ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose
inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle
cose superiori che sono divine.- [...] Nell'uomo nascente il Padre ripose semi
d'ogni specie e germi d'ogni vita. E a seconda di come ciascuno li avrà
coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. [...] se
sensibili, sarà bruto, se razionali, diventerà anima celeste, se intellettuali,
sarà angelo, e si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto uno spirito
solo con Dio, [...].» (Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de hominis
dignitate[18]) Giovanni Pico, quindi, sostiene che è l'uomo a «forgiare il
proprio destino», secondo la propria volontà, e la sua libertà è massima, poiché
non è né animale né angelo, ma può essere l'uno o l'altro secondo la
«coltivazione» di alcuni tra i «semi d'ogni sorta» che vi sono in lui. Questa
visione verrà, seppur solo in parte, ripresa nel 1600 dallo scienziato e
filosofo Blaise Pascal, che afferma che l'uomo non è né «angelo né bestia», e
che la sua propria posizione nel mondo è un punto mediano tra questi due
estremi; tale punto mediano, però, per Pico non è una mediocrità (in parte
angelo e in parte bruto) ma è la volontà (o l'arbitrio) che ci consente di
scegliere la nostra posizione. Dunque l'uomo, per Pico, è la più dignitosa fra
tutte le creature, anche più degli angeli, poiché può scegliere che creatura
essere.[19] La sapienza della Cabala Raffigurazione della Cabala con
l'albero della vita Il secondo grande interesse di Pico è rivolto alla cabala,
che viene da lui spiegata come una fonte di sapienza a cui attingere per
decifrare il mistero del mondo, e nella quale Dio appare oscuro, in quanto
apparentemente irraggiungibile dalla ragione; ma l'uomo può ricavare la massima
luce da tale oscurità.[20] (LA) «Nulla est scientia quae nos magis
certificat de divinitate Christi, quam Magia et Cabala.» (IT) «Non esiste
alcuna scienza che possa attestare meglio la divinità di Cristo che la magia e
la cabala.» (Giovanni Pico della Mirandola, Novecento tesi[21]) Connessa
alla sapienza cabbalistica è la magia: infatti, il mago, per Pico, opererebbe
attraverso simboli e metafore di una realtà assoluta che è oltre il visibile, e
dunque, partendo dalla natura, può giungere a conoscere tale sfera invisibile
(ossia metafisica) attraverso la conoscenza della struttura matematica che è il
fondamento simbolico-metaforico della natura stessa.[22] Critica
dell'astrologia Se la magia è giudicata positivamente da Pico della Mirandola,
per quanto riguarda invece l'astrologia egli ebbe un atteggiamento diverso, che
lo portò a distinguere nettamente tra «astrologia matematica o speculativa»,
cioè l'astronomia, e l'«astrologia giudiziale o divinatrice»; mentre la prima
ci consente di conoscere la realtà armonica dell'universo, e dunque è giusta,
la seconda crede di poter sottomettere l'avvenire degli uomini alle congiunture
astrali.[23] Partendo dall'affermazione della piena dignità e libertà
dell'uomo, che può scegliere cosa essere, Pico muove una forte critica a questo
secondo tipo di credenze e di pratiche astrologiche, che costituirebbero una
negazione proprio della dignità e della libertà umane. Secondo Pico,
questa scienza astrologica attribuisce erroneamente ai corpi celesti il potere
di influire sulle vicende umane (fisiche e spirituali), sottraendo tale potere
alla Provvidenza divina e togliendo agli uomini la libertà di scegliere. Egli
non nega che un certo influsso vi possa essere, ma mette in guardia contro il
pericolo insito nell'astrologia di subordinare il superiore (cioè l'uomo)
all'inferiore (ossia la forza astrale). Le vicende dell'esistenza umana sono
tanto intrecciate e complesse che non se ne può spiegare la ragione se non
attraverso la piena libertà d'arbitrio dell'uomo. Opera quae
exstant omnia di Pico della Mirandola stampata nel 1601 Il suo Disputationes
adversus astrologiam divinatricem (tale è il titolo dell'opera a cui Pico si
dedicò nell'ultimo periodo della sua vita) rimase incompiuto e come tale fu
pubblicato postumo, nel 1494, con il commento di Giovanni Manardo; tuttavia,
alcuni concetti base furono ripresi e rielaborati da Girolamo Savonarola nel
suo Trattato contra li astrologi.[24] Opere Ad Hermolaum de genere
dicendi philosophorum, (Lettera a Ermolao Barbaro sul modo di parlare dei
filosofi), 1485. Commento sopra una canzone d'amore di Girolamo Benivieni,
1486. Oratio de hominis dignitate, (Discorso sulla dignità dell'uomo), 1486.
900 Tesis de omni re scibili o Conclusiones philosophicae, cabalisticae et
theologicae nongentae in omni genere scientiarum, (900 tesi su tutte le cose
conoscibili o Novecento conclusioni filosofiche, cabalistiche e teologiche in
ogni genere di scienze), 1486. Apologia, 1487. Heptaplus: de septiformi sex dierum
Geneseos enarratione, (Heptaplus: della settemplice interpretazione dei sei
giorni della Genesi), 1489. Expositiones in Psalmos, 1489. De ente et uno,
(L'essere e l'uno), 1491. Disputationes adversus astrologiam divinatricem,
(Dispute contro l'astrologia divinatrice), 1493. Altre opere Carmina, (Carmi).
Auree Epistole. Sonetti. Duodecim regulae, (Le dodici regole). Duodecim arma
spiritualis pugnae, (Le dodici armi della battaglia spirituale. Duodecim
conditiones amantis, (Le dodici condizioni di un amante). Deprecatoria ad Deum,
(Preghiera a Dio). De omnibus rebus et de quibusdam aliis, (Tutte le cose e
alcune altre). Secondo alcuni studi, a Pico della Mirandola sarebbe da
attribuire anche la paternità dell’Hypnerotomachia Poliphili (Amoroso combattimento
onirico di Polifilo).[25] Note ^ Sebbene egli preferisse farsi chiamare
Conte della Concordia Miroslav Marek, Genealogy.eu, su Pico family, 16
settembre 2002. URL consultato il 9 marzo 2008. ^ Fu in particolare il
cardinale spagnolo Pedro Grazias, dopo essere intervenuto presso i reali di
Spagna Isabella e Ferdinando, ad essere incaricato da papa Innocenzo VIII di
confutarne l'Apologia. ^ Pico della Mirandola "fu avvelenato", caso
risolto 500 anni dopo, in Gazzetta di Modena, 2017-09. G. Gallello et al.
"Poisoning histories in the Italian renaissance: The case of Pico Della
Mirandola and Angelo Poliziano", Journal of Forensic and Legal Medicine,
vol. 56, 2018, pp. 83-89. ^ Già all'epoca della morte si vociferò che Pico
fosse stato avvelenato (cfr. Simon Critchley, Il libro dei filosofi morti,
Garzanti, 2009, p. 143). ^ Recenti indagini condotte a Ravenna dall'équipe del
professor Giorgio Gruppioni dell'Università di Bologna avrebbero riscontrato
elevati livelli di arsenico nei campioni di tessuti e di ossa prelevati dalle
spoglie del filosofo, che avvalorerebbero la tesi dell'avvelenamento per la sua
morte (cfr. Delitti e misteri del passato, a cura di L. Garofano, S. Vinceti,
G. Gruppioni, Rizzoli, Milano 2008 ISBN 978-88-17-02191-3; e Malcolm Moore, Medici
philosopher's mysterious death is solved, The Daily Telegraph, Londra 2008). ^
Secondo lo storico dell'arte Silvano Vicenti, il presunto avvelenamento di Pico
della Mirandola, la cui morte finora si riteneva fosse stata causata dalla
sifilide, sarebbe avvenuto ad opera della stessa mano che due mesi prima
avrebbe ucciso Angelo Poliziano, legato a Pico da grande amicizia (Rainews:
Pico della Mirandola e Poliziano assassinati con l'arsenico) ^ Risolto il
giallo della morte di Pico della Mirandola, Università di Pisa, 15 novembre
2018. URL consultato il 15 novembre 2018. ^ La Memoria Straordinaria di Pico
della Mirandola, articolo su Notizie.it. ^ Enciclopedia Treccani.it alla voce
omonima. Robert Aldrich, Garry Wotherspoon, Who's who in Gay and Lesbian
History: From Antiquity to World War II, pp. 412-3, Routledge, 2005. ^ Girolamo
Benivieni fece porre anche una lapide sulle spoglie di Pico della Mirandola
tumulate nella chiesa di San Marco a Firenze. Sul fronte della tomba è tuttora
inciso: «Qui giace Giovanni Mirandola, il resto lo sanno anche il Tago e il
Gange e forse perfino gli Antipodi. Morì nel 1494 e visse 32 anni. Girolamo
Benivieni, affinché dopo la morte la separazione di luoghi non disgiunga le
ossa di coloro i cui animi in vita congiunse Amore, dispose d'essere sepolto
nella terra qui sotto. Morì nel 1542, visse 89 anni e 6 mesi.» Sul retro
invece, in posizione poco visibile, è riportato l'epitaffio: «Girolamo
Benivieni per Giovanni Pico della Mirandola e se stesso pose nell'anno 1532.
Io priego Dio Girolamo che 'n pace così in ciel sia il tuo Pico congiunto come
'n terra eri, et come 'l tuo defunto corpo hor con le sacr'ossa sue qui
iace» ^ Eugenio Garin, Giovanni Pico della Mirandola: vita e dottrina, Le
Monnier, 1937, p. 18. ^ Kurt Zeller, Pico della Mirandola e l'aristolelismo
rinascimentale, edizioni Luria, 1979. ^ Frances Yates Giordano Bruno e la
tradizione ermetica Laterza p.101 ISBN 978-88-420-9239-1 U. Perone, C.
Ciancio, Storia del pensiero filosofico, II, pagg. 31-32, SEI, Torino 1975.
Edizione a cura di Eugenio Garin, Vallecchi, 1942, pagg. 105-109. ^ Sul
richiamo di Pascal a Pico della Mirandola, cfr. B. Pascal, Colloquio con il
Signore di Saci su Epitteto e Montagne in B. Pascal, Pensieri, a cura di Paolo
Serini, Einaudi, Torino 1967, pagg. 423–439. ^ François Secret, I cabbalisti
cristiani del Rinascimento, trad. it., Arkeios, Roma 2002. ^ Conclusiones
nongentae. Le novecento tesi dell'anno 1486, a cura di Albano Biondi, Studi
pichiani, vol. 1, FIrenze Olschki 1995, "Conclusiones Magicae numero XXVI,
secundum opinione propria", numero 9. ^ Fra le tesi redatte in vista del
congresso filosofico di Roma, Pico ad esempio scriveva: «Non vi è scienza che
ci dia maggiori certezze sulla divinità del Cristo della magia e della cabala»
(cit. da F. Secret, ibidem, e in Zenit studi. Pico della Mirandola e la cabala
cristiana). ^ «Per Pico, la natura è una correlazione misteriosa di forze
occulte che l'uomo può conoscere tramite l'astrologia e controllare tramite la
magia. [...] Pico distingue due tipi di astrologia - matematica e divinatrice -
e naga il valore della seconda» (G. Granata, Filosofia, vol. II, pag. 13, Alpha
Test, Milano 2001). ^ Lo stesso Savonarola sostenne di aver scritto il suo
trattato «in corroborazione delle refutazione astrologice del Signor conte Joan
Pico della Mirandola» (cit. in Romeo De Maio, Riforme e miti nella Chiesa del
Cinquecento, pag. 40, Guida editori, Napoli 1992). ^ Indizi e prove: Giovanni
Pico della Mirandola e Alberto Pio da Carpi nella genesi dell’Hypnerotomachia
Poliphili. Bibliografia Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del
progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto
Museo di Storia della Scienza di Firenze (home page), pubblicata sotto licenza
Creative Commons CC-BY-3.0 Opere (LA) Giovanni Pico della Mirandola, Opere,
Lodovico Mazzali, 1506. URL consultato il 9 aprile 2015. (LA) Giovanni Pico
della Mirandola, Opere. 1, Basileae, per Sebastianum Henricpetri, 1601. (LA)
Giovanni Pico della Mirandola, Opere. 2, Basileae, per Sebastianum Henricpetri,
1601. Doctissimi Viri Ioannis Pici Mirandulae, Concordiae comitis, Exactissima
expositio in orationem dominicam, Officina S. Bernardini, 1537 Giovanni Pico
della Mirandola, Apologia. L'autodifesa di Pico di fronte al Tribunale
dell'Inquisizione, a cura di Paolo Edoardo Fornaciari, SISMEL (Società
internazionale per lo studio del Medioevo latino) Edizioni del Galluzzo,
Firenze 2010 Giuseppe Barone (a cura di), Antologia Giovanni Pico della
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ISBN 978-88-7495-319-6 Giulio Busi, Vera relazione sulla vita e i fatti di
Giovanni Pico, conte della Mirandola, Aragno, 2010 Ernst Cassirer, Individuo e
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Firenze 1974 (FR) Henri-Marie de Lubac, Pic de la Mirandole. Études et
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Kabbalistic Library of Giovanni Pico della Mirandola", 2, Nino Aragno
Editore, Torino 2005 Giulio Busi, "Chi non ammirerà il nostro
camaleonte?" La biblioteca cabbalistica di Giovanni Pico della Mirandola,
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2007, pp. 25–45 Saverio Campanini, Guglielmo Raimondo Moncada (alias Flavio
Mitridate) traduttore di opere cabbalistiche, in Mauro Perani (a cura di),
Guglielmo Raimondo Moncada alias Flavio Mitridate. Un ebreo converso siciliano,
Officina di Studi Medievali, Palermo 2008, pp. 49–88 (EN) The Gate of Heaven.
Flavius Mithridates' Latin Translation, the Hebrew Text, and an English
Version, a cura di Susanne Jurgan e Saverio Campanini, con un testo di Giulio
Busi, in "The Kabbalistic Library of Giovanni Pico della Mirandola",
5, Nino Aragno Editore, Torino 2012 ISBN 9788884195449 Saverio Campanini (ed.),
Four Short Kabbalistic Treatises, "The Kabbalistic Library of Giovanni
Pico della Mirandola" 6, Fondazione Palazzo Bondoni Pastorio, Castiglione
delle Stiviere 2019. Voci correlate Cabala cristiana Marsilio Ficino Filosofia
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Giovanni Pico della Mirandola, in Dizionario biografico degli italiani,
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della Mirandola, su ALCUIN, Università di Ratisbona. Modifica su Wikidata Opere
di Giovanni Pico della Mirandola / Giovanni Pico della Mirandola (altra
versione) / Giovanni Pico della Mirandola (altra versione), su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Giovanni Pico della
Mirandola, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata (FR)
Bibliografia su Giovanni Pico della Mirandola, su Les Archives de littérature
du Moyen Âge. Modifica su Wikidata (EN) Giovanni Pico della Mirandola, in
Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata (EN)
Spartiti o libretti di Giovanni Pico della Mirandola, su International Music
Score Library Project, Project Petrucci LLC. Modifica su Wikidata Il Centro
Internazionale di Cultura Giovanni Pico della Mirandola, su picodellamirandola.it.
Pico della Mirandola e l'Umanesimo, su web.tiscalinet.it. Pico della Mirandola
e la cabala cristiana, su vrijmetselaarsgilde.eu. Pico della Mirandola nel
progetto biblioteche dei filosofi, su picus.unica.it. The Pico Project, su
brown.edu. progetto dell'Università di Bologna e della Brown University per
rendere completo, accessibile e leggibile il Discorso sulla dignità dell'uomo
Pico della Mirandola, Orazione sulla dignità dell'essere umano (1486), prima
parte, su panarchy.org. (LA) I "Carmina" e l'"Oratio de hominis
dignitate", su thelatinlibrary.com. (EN) The Kabbalistic Library of
Giovanni Pico della Mirandola, su pico-kabbalah.eu. V · D · M Platonici
Controllo di autoritàVIAF (EN) 34491108 · ISNI (EN) 0000 0001 1024 5931 · SBN
IT\ICCU\CFIV\022983 · Europeana agent/base/206 · LCCN (EN) n50019730 · GND (DE)
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Biografie Filosofia Portale Filosofia Categorie: Umanisti italianiFilosofi
italiani del XV secoloNati nel 1463Morti nel 1494Nati il 24 febbraioMorti il 17
novembreNati a MirandolaMorti a FirenzeGiovanni Pico della MirandolaNobili
italiani del XV secoloPicoStudenti dell'Università di BolognaStudenti
dell'Università degli Studi di FerraraStudenti dell'Università degli Studi di
PadovaStudenti dell'Università degli Studi di PaviaAlchimisti italianiCabalisti
italianiEbraisti italianiFilosofi cristianiPersonaggi legati a
un'antonomasiaNeoplatoniciScrittori in lingua latinaMembri dell'Accademia
neoplatonicaMnemonistiUomini universaliMorti per avvelenamento[altre] Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Pico: the dignity
of man," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia.
pico della mirandola, Gianfranco: Important
if unjustly neglected, murdered, Italian philosopher. Giovanni Francesco Pico
della Mirandola (1470-1533) è stato un italiano nobile e il filosofo , il
nipote di Giovanni Pico della Mirandola . Il suo nome è in genere troncato come
Gianfrancesco Pico della Mirandola .
Contenuto 1 Biografia 2Opere
scelte 3Fonti 4Collegamenti esterni Biografia Gianfrancesco era figlio di Galeotto
I Pico , signore di Mirandola , e Bianca Maria d'Este , figlia di Niccolò III
d'Este . Come lo zio si dedica
principalmente alla filosofia, ma ha reso soggetto alla Bibbia, anche se nei
suoi trattati, De monolocale divinae et Humanæ Sapientiæ e in particolare nei
sei libri intitolati Examen doctrinæ Vanitatis gentium , si deprezza l'autorità
dei filosofi, al di sopra tutti Aristotele . Ha scritto una biografia
dettagliata di suo zio, pubblicato nel 1496, e un altro di Girolamo Savonarola
, di cui era un seguace. Avendo
osservato i pericoli a cui la società italiana è stata esposta, al momento, ha
lanciato un avvertimento in occasione del Concilio Lateranense : Joannis
Francisci Pici Oratio ad Leonem X et concilium Lateranense de reformandis
Ecclesiæ Moribus (Hagenau, 1512, dedicato a Willibald Pirckheimer ) . Morì a Mirandola nel 1533, assassinato dal
nipote Galeotto , insieme a suo figlio più giovane, Alessandro. L'altro figlio
Giantommaso è stato ambasciatore a Papa Clemente VII . Charles B. Schmitt ha
scritto: Mentre Giovanni Pico aveva
spesso sostenuto che tutte le filosofie e le religioni hanno raggiunto una
parte della verità, Gianfrancesco detto, in effetti, che tutte le religioni e
tutte le filosofie - salva la religione cristiana da soli - sono semplici
raccolte di falsità confusi e internamente incoerenti. In possesso di un tale
punto di vista, si schiera non solo con Savonarola, ma con alcuni dei padri e
con i riformatori pure. Su questo punto, era insistente. Il cristianesimo è una
realtà auto-sussistente e che ha poco o nulla da guadagnare dalla filosofia, le
scienze e le arti. Questa tesi centrale si diffonde attraverso quasi l'intera
produzione letteraria di Gianfrancesco. Egli scrive di non lodare o estendere
il regno della filosofia, ma di demolirlo.
Steepto Le opere selezionate De
studio di Divinae et humanae philosophiae (1496) Ioannis Pici Mirandulae Vita
(1496) De imaginatione (1501) De Providentia Dei (1508) De rerum praenotione
(1506-1507) Quaestio de falsitate Astrologiae (ca. 1510) Examen Vanitatis
gentium doctrinae, et veritatis Christianae disciplinae (1520) Libro Detto
strega o delle illusioni del demonio (1524) Opera Omnia (1573) fonti
Wikisource-logo.svg Herbermann, Charles, ed. (1913). " Giovanni Francesco
Pico della Mirandola ". Enciclopedia Cattolica . New York: Robert Appleton
Company. Burke, Peter. (1977). "Stregoneria e Magia in Italia del
Rinascimento: Gianfrancesco Pico e la sua Strix, " di Sydney Anglod, ed.
The Damned Art: Saggi in letteratura di Magia, pp 32-48.. Londra. Herzig, T.
(2003). "La reazione dei demoni alla sodomia: Magia e omosessualità in
Strix di Gianfrancesco Pico della Mirandola." Il Cinquecento Journal , 34,
1, 53. Kors, Alan Charles e Edward Peters. (2001) La stregoneria in Europa, 400-1700:
Una storia Documentario. Philadelphia: University of Pennsylvania Press
(Estratti dal Pico Strix ., Pp 239-44) Schmitt, CB (1967). Gianfrancesco Pico
della Mirandola (1469-1533) e la sua critica di Aristotele. The Hague: Martinus
Nijhoff. Pappalardo, L. (2015). "Gianfrancesco Pico della Mirandola: Fede,
Immaginazione e scetticismo" (Nutrix, 8), Turnhout: Brepols Publishers.
link esterno Opere di Giovanni Francesco Pico della Mirandola a Progetto
Gutenberg Opere di o su Giovanni Francesco Pico della Mirandola a Internet
Archive Giovan Francesco Pico: panoramica biografica presso il Centro
Internazionale di Cultura "Giovanni Pico della Mirandola"
Gianfrancesco Pico della Mirandola (1469-1533) e la sua critica di Aristotele |
Charles B. Schmitt | Springer . This page is based on the copyrighted Wikipedia
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Speranza, "Grice e Pico," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia -- Gianfranco Pico della
Mirandola.
Pieralisi Venceslao
Pieralisi Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search
Abbozzo Questa voce sull'argomento filosofi italiani è solo un abbozzo.
Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Venceslao
Pieralisi (... – Jesi, 19 ottobre 1884) è stato un filosofo e teologo
italiano. Fece parte dei Minori
Riformati di Jesi. Nei suoi scritti,
esaltò il valore della pace fra gli uomini e fra tutte le creature. Scrisse che l'anima è presente non solo negli
esseri umani, ma anche negli animali, ai quali appunto l'anima conferisce -
come agli uomini - un'esistenza eterna al di là della morte. Per tali motivi Padre Pieralisi sottolineava
la necessità etica di trattare gli animali con rispetto ed amore, vincendo la
mancanza di sensibilità e l'indifferenza che tradizionalmente la religione
cristiana mostra verso di essi.
Bibliografia De anima belluarum: sopravvivenza? Una domanda, S. Rocco,
Venezia 1971. Della filosofia razionale speculativa parte soggettiva ossia la
logica, Tipografia della Pace, Roma 1876. La filosofia razionale pratica ovvero
dei doveri naturali, Tipografia della Pace, Roma 1877. Sui vizi capitali
dell'insegnamento scientifico: riflessioni, Pesaro 1883. Controllo di autorità VIAF (EN)
89323882 · ISNI (EN) 0000 0000 6301 0127 · BAV (EN) 495/111213 · WorldCat
Identities (EN) viaf-89323882 Biografie Portale Biografie: accedi alle voci di
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secoloTeologi italianiMorti nel 1884Morti il 19 ottobreMorti a JesiTeorici dei
diritti animali[altre]
Pievani Telmo Pievani Da Wikipedia,
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dell'attività di "filosofo" Partecipa alla discussione e/o correggi
la voce. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Dietelmo "Telmo" Pievani Dietelmo
"Telmo" Pievani[1] (Gazzaniga, 6 ottobre 1970) è un filosofo,
accademico ed evoluzionista italiano.
Indice 1 Biografia
2 Comunicazione
della scienza 3 Opere
3.1 Libri
per ragazzi 4 Introduzioni
a opere di altri autori 5 Note
6 Voci
correlate 7 Altri
progetti 8 Collegamenti
esterni Biografia Dopo la laurea in Filosofia della scienza conseguita presso
l'Università degli Studi di Milano, si è specializzato negli Stati Uniti
d'America, dove ha condotto ricerche di dottorato e post-dottorato in Biologia
evolutiva e Filosofia della biologia, sotto la supervisione di Niles Eldredge e
di Ian Tattersall presso l'American Museum of Natural History di New York. Dal 2005 al 2012 è stato professore associato
di Filosofia della scienza presso la facoltà di Scienze dell'educazione e della
formazione dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca. Ha ricoperto gli
insegnamenti di Epistemologia e di Epistemologia evolutiva. Dal 2007 è stato
vicedirettore del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo
Massa” e vicepresidente del corso di laurea in Scienze dell'educazione. Dal 2012 è professore ordinario presso il
Dipartimento di Biologia dell'Università degli Studi di Padova[2], dove ricopre
la prima cattedra italiana di Filosofia delle scienze biologiche[3]. Presso lo
stesso Dipartimento è anche titolare degli insegnamenti di Bioetica e di
Divulgazione naturalistica. Dal 2016 è Delegato del Rettore per la
Comunicazione Istituzionale dell’Università degli Studi di Padova. Dal 2017 è
Presidente della SIBE - Società Italiana di Biologia Evoluzionistica. È socio
effettivo dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, per la classe di
Scienze, socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino per la
classe di Scienze, socio non residente dell’Accademia Olimpica di Vicenza, per
la classe di Scienza e Tecnica. È autore
di più di 230 pubblicazioni scientifiche nei campi della biologia
evoluzionistica, dell'evoluzione umana, della filosofia della biologia e della
filosofia della scienza generale.
Comunicazione della scienza Impegnato in diversi progetti internazionali
di comunicazione della scienza, dal 2013 fa parte del Comitato Scientifico di
BergamoScienza[4], è stato segretario del consiglio scientifico e coordinatore
del Festival della scienza di Genova, divenuta la più importante manifestazione
europea del settore. Insieme a Vittorio Bo, è stato direttore scientifico del
"Festival delle scienze di Roma" in Auditorium Parco della
Musica. Fa parte del comitato editoriale
di riviste scientifiche internazionali come Evolutionary Biology, Evolution:
Education and Outreach[5] e Rendiconti Lincei per le Scienze Fisiche e
Naturali. Insieme a Niles Eldredge, è direttore scientifico del progetto
enciclopedico “Il futuro del pianeta” di UTET Grandi Opere. Inoltre insieme
ancora a Niles Eldredge ed a Ian Tattersall, è stato il curatore scientifico
dell'edizione italiana della mostra internazionale "Darwin
1809-2009". Insieme a Luigi Luca
Cavalli-Sforza è stato curatore del progetto espositivo internazionale “Homo
sapiens": la grande storia della diversità umana”[6] (Roma, Palazzo delle
Esposizioni, 2011-2012; Trento, 2012-2013, Novara 2013). Telmo Pievani è direttore di Pikaia, il
portale italiano dell'evoluzione, ed è stato coordinatore scientifico del
Darwin Day di Milano. Fa parte del Comitato Etico e del Comitato Scientifico
della Fondazione Umberto Veronesi per il progresso delle scienze. Da settembre 2014 fa parte del Consiglio
Scientifico Internazionale del Museo delle Scienze (MUSE) di Trento. Nel 2014 Telmo Pievani è stato per
l’Università degli studi di Padova coordinatore scientifico dell’allestimento
museale del Giardino della Biodiversità presso l'Orto Botanico di Padova, oltre
che curatore della sezione “Le piante e l’uomo”. Dal 2017 collabora ai progetti scientifici e
di comunicazione del Parco Natura Viva di Bussolengo (VR). È stato il Curatore Scientifico, insieme ai
proff. B. Fantini, F. Rufo e S. Pimpinelli, della mostra internazionale
"DNA. Il grande libro della vita da Mendel alla genomica” (Palazzo delle
Esposizioni, Roma, Febbraio-Giugno 2017).
Dal punto di vista editoriale, Telmo Pievani è membro del comitato
editoriale de L'Indice dei libri. Da dicembre 2010 è componente del Comitato
Scientifico Internazionale della rivista Le Scienze, edizione italiana di
Scientific American, alla quale collabora.
Scrive regolarmente per la rivista Micromega. Dal 2010 è firma delle
pagine culturali del Corriere della Sera. Dal 2018 è direttore del web magazine
dell'Università degli Studi di Padova, Il Bo LIVE. Due volte finalista del Premio Galileo a
Padova, nel 2012 ha ricevuto la menzione speciale della giuria del Premio
Scienza e letteratura-Merck Serono, per il saggio La vita inaspettata. Il
fascino di un'evoluzione che non ci aveva previsto (Raffaello Cortina)[7].
Altri riconoscimenti: Premio Adriano Vitelli Laico dell’Anno, 2011, Torino;
Premio Internazionale di Ecologia Umana 2015 (Abbazia di Spineto, Sarteano);
Premio Capo d'Orlando 2018 per la comunicazione multimediale (Vico
Equense). Insieme a Federico Taddia e
alla Banda Osiris, è autore di progetti teatrali e musicali a tema scientifico,
come “Finalmente il Finimondo!” (2012) e “Il maschio inutile” (2015), ispirato
all’omonimo libro. Opere T.
Pievani-Giuseppe Varchetta, Il management dell'unicità, Guerini e associati,
Milano, 1989-1999. Homo sapiens e altre catastrofi, Meltemi, Roma, 2002;
riedizione completamente rivista e aggiornata, Meltemi, 2018. T.
Pievani-Federico Carmagnola, Pulp Times. Immagini del tempo nel cinema d'oggi,
Meltemi, Roma, 2003-2018. Sotto il velo della normalità, Meltemi, Roma, 2004;
con P. Barbetta, M. Capararo Richard Dawkins e Telmo Pievani, Il cappellano del
diavolo, Scienza e idee (n. 123), Milano, Cortina, 2004, ISBN 887078908X, OCLC
799146241. Ospitato su archive.is. Introduzione alla filosofia della biologia,
Laterza, Roma-Bari, 2005 La teoria dell'evoluzione. Attualità di una
rivoluzione scientifica, Il Mulino, Bologna, 2006 T. Pievani-E. Capanna-C.A.
Redi, Chi ha paura di Darwin?, IBIS Edizioni, Como-Pavia, 2006. Creazione senza
Dio, Einaudi, Torino, 2006 [Creación sin Dios, Ediciones Akal, Madrid, 2009] In
difesa di Darwin. Piccolo bestiario dell'antievoluzionismo all'italiana,
Milano, Bompiani, 2007 T. Pievani-Carla Castellucci, Perdere la libertà per
Sante ragioni. Dal nascere al morire: la mano della Chiesa sulla nostra vita,
Milano, Chiarelettere, 2007. T. Pievani-Vittorio Girotto-Giorgio Vallortigara,
Nati per Credere, Codice Edizioni, Torino, 2008-2016. La vita inaspettata. Il
fascino di un'evoluzione che non ci aveva previsto, Raffaello Cortina Editore,
Milano, 2011 Introduzione a Darwin, Roma-Bari, Laterza, 2012 La fine del mondo.
Guida per apocalittici perplessi, Bologna, Il Mulino, 2012 Homo sapiens. Il
cammino dell'umanità, Atlante dell'Istituto Geografico De Agostini, 2012
Anatomia di una rivoluzione. La logica della scoperta scientifica di Darwin,
Mimesis, 2013 Evoluti e abbandonati. Sesso, politica, morale: Darwin spiega
proprio tutto, Torino, Einaudi, 2014[8] T. Pievani-Federico Taddia, Il maschio
è inutile. Un saggio quasi filosofico, Milano, Rizzoli, 2014. Leggere l’Origine
delle specie di Darwin, IBIS Edizioni, Como-Pavia, 2015 Libertà di migrare.
Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così, con Valerio Calzolaio, Einaudi,
Torino, 2016 T. Pievani-Vittorio Marchis, Lectures 2014, Giappichelli, 2016,
ISBN 978-88-921-0215-6. Come saremo. Storie di umanità tecnologicamente
modificata, con L. De Biase, Codice, Edizioni, Torino, 2016, ISBN
978-88-757-8620-5. "Homo Sapiens - Le nuove storie dell'evoluzione
umana", Libreria Geografica, 2016 Homo sapiens. Le nuove storie
dell'evoluzione umana, Libreria Geografica, 2017, ISBN 978-88-698-5297-8.
Imperfezione. Una storia naturale, Milano, Raffaello Cortina, 2019, ISBN
978-88-328-5090-1. Libri per ragazzi Perché siamo parenti delle galline? E tante
altre domande sull’evoluzione, con F. Taddia, Editoriale Scienza, Trieste,
2010; Sulle tracce degli antenati. L’avventurosa storia dell’umanità,
Editoriale Scienza, Trieste, 2016. Introduzioni a opere di altri autori Telmo
Pievani ha curato l'edizione italiana di opere di Richard Dawkins, di Niles
Eldredge, di Stuart Kauffman, di Ian Tattersall, di Susan Oyama, di Kim
Sterelny, di Edward Osborne Wilson, di Sean B. Carroll, di Henri Gee e di altri
filosofi della biologia ed evoluzionisti. È inoltre il curatore dell'edizione
italiana del testamento scientifico di Stephen Jay Gould (La struttura della
teoria dell'evoluzione) e dell'ottavo volume (intitolato Storia della scienza e
della tecnologia) della Storia della Cultura Italiana diretta da Luigi Luca Cavalli-Sforza.
Ha curato l'edizione italiana di una parte dei Taccuini della Trasmutazione
darwiniani, pubblicati da Laterza nel 2008 con il titolo di: Charles Darwin.
Taccuino Rosso, Taccuino B, Taccuino E.
Note ^ Dietelmo PIEVANI, su accademiadellescienze.it. URL consultato il
24 luglio 2018. ^ PIEVANI DIETELMO, su didattica.unipd.it. URL consultato il 24
luglio 2018. ^ Filosofia si insegna a Biologia La prima cattedra a Pievani, Il
mattino di Padova, su mattinopadova.gelocal.it. ^ Bergamoscienza, su bergamoscienza.it
(archiviato dall'url originale il 6 ottobre 2014). ^ Evolution: Education and
Outreach Editorial board, su springer.com. ^ Homo Sapiens - La grande storia
della diversità umana La grande storia della diversità umana ^ I vincitori del
premio «Scienza e letteratura», Corriere della Sera, 11 giugno 2012 ^ Scheda
libraria di "Evoluti e abbandonati", su einaudi.it. URL consultato il
29 ottobre 2017. Voci correlate Evoluzione Charles Darwin Stephen Jay Gould
Darwin Day Università di Padova Orto Botanico di Padova Altri progetti
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su Telmo Pievani Collegamenti esterni Sito ufficiale, su telmopievani.com. Modifica
su Wikidata Opere di Telmo Pievani, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.
Modifica su Wikidata (FR) Pubblicazioni di Telmo Pievani, su Persée, Ministère
de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de l'Innovation. Modifica su
Wikidata Il web magazine cross-mediale dell'Università di Padova, su
ilbolive.unipd.it. Pikaia, il portale italiano dell'evoluzione, su pikaia.eu.
Il sito ufficiale della mostra DARWIN 1809-2009, su darwin2009.it. Controllo di
autorità VIAF
(EN) 49477997 · ISNI (EN) 0000 0000 6310 2443 · SBN IT\ICCU\VIAV\100573 · LCCN
(EN) n2004088507 · GND (DE) 1033432121 · BNF (FR) cb146199865 (data) · WorldCat
Identities (EN) lccn-n2004088507 Biografie Portale Biografie Biologia Portale
Biologia Filosofia Portale Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XXI
secoloAccademici italiani del XXI secoloNati nel 1970Nati il 6 ottobreNati a
GazzanigaEvoluzionistiFilosofi della scienzaProfessori dell'Università degli
Studi di Milano-BicoccaProfessori dell'Università degli Studi di PadovaStudenti
dell'Università degli Studi di Milano[altre]
Pigliaru Antonio Pigliaru Da Wikipedia,
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progetto di riferimento. Antonio
Pigliaru Antonio Pigliaru (pronuncia Pìgliaru, con l’accento sulla prima i[1];
Orune, 17 agosto 1922 – Sassari, 27 marzo 1969) è stato un giurista, filosofo e
educatore italiano[2]. Tra le molteplici tematiche del suo impegno
intellettuale una è di particolare interesse: la sua interpretazione dei
problemi socio-economici delle zone interne della Sardegna, che inquadrò e
tentò di spiegare nell'ambito della propria visione etico-politica Indice 1 Biografia
2 Attività
3 Opere
principali 4 Opere
postume 5 Note
6 Bibliografia
7 Collegamenti
esterni Biografia Nacque a Orune, in provincia di Nuoro, ultimo di cinque
figli; i genitori, Pietro e Maria Murgia, sono due maestri elementari,
accomunati dunque dalla stessa formazione culturale e dal lavoro, ma di
provenienza sociale diversa. La famiglia di Pietro è di origine contadina,
attività marginale rispetto alla pastorizia prevalentemente praticata in paese;
nonostante le scarse disponibilità economiche, dopo le elementari continua
negli studi. Maria, la cui madre è maestra, proviene da Sassari: ha vissuto in
una realtà più aperta e si reca ad Orune, dopo il diploma, per insegnarvi. Si
sposano nel 1909. Finite le elementari Antonio, che nel frattempo ha perso il
padre, lascia il paese, al quale rimase comunque sempre profondamente legato, e
si trasferisce a Sassari, presso i nonni materni, per completare gli studi
ginnasiali e liceali nel Convitto Canopoleno.
Nel 1940 aderì al Gruppo Universitario Fascista, dove fece le sue prime
esperienze culturali, collaborando al giornale dell'organizzazione, scrivendo
soprattutto di teatro. Coltiva le sue aspettative nella "rivoluzione
fascista", come tanti giovani della sua generazione, rifiutandone però le
degenerazioni che il regime sta subendo. Frequenta dal 1941 l'Università a
Cagliari nella Facoltà di lettere e filosofia. Nel marzo del 1944 viene arrestato,
accusato insieme ad altri, di gravi reati: spionaggio, guerra civile,
cospirazione politica. Condannato a 7 anni dal Tribunale militare di Oristano,
sconta 17 mesi di carcere, durante i quali contrae la malattia che lo porterà
prematuramente alla morte, per essere poi liberato nel maggio del 1946 in
seguito all'Amnistia Togliatti. Ripresi
gli studi, in pochi mesi supera tutti gli esami e si laurea a Cagliari con una
tesi sull'esistenzialismo in Giacomo Leopardi. Nell'aprile del 1949 è
assistente volontario alla cattedra di Filosofia del diritto dell'Università di
Sassari, diventando assistente ordinario un anno dopo; consegue la libera
docenza nella stessa disciplina e nel 1967, vinto il concorso, è professore
ordinario di Dottrina dello Stato. Nel 1949 nasce la rivista
"Ichnusa", di cui fu animatore ed ispiratore. La rivista uscì, con
diverse sospensioni, fino al 1964. A partire 1956 Pigliaru decide di darle un
nuovo ruolo, meno generalista ma più attento e teso a dar voce soprattutto alla
"questione sarda": gli editoriali, da lui redatti, vengono sempre più
spesso dedicati ai problemi della regione e la rivista si propone come
laboratorio di discussione, chiamando a raccolta un'intera generazione di
giovani intellettuali isolani impegnati per la rinascita dell'isola e per i
quali Pigliaru, in contatto con numerosi studiosi delle due università sarde di
Sassari e di Cagliari, diventa un vero e proprio maestro e ideologo. Muore a
Sassari il 27 marzo 1969 durante una seduta di emodialisi, terapia alla quale
si sottoponeva regolarmente per curare la grave insufficienza renale che lo
accompagnò per gran parte della sua vita.
Nel 2012 per i festeggiamenti dei 450 anni dell'Università di Sassari,
la sua immagine è stata apposta all'esterno del Dipartimento di Scienze
Politiche, Scienze della Comunicazione e Ingegneria dell'Informazione
dell'Ateneo. Era il padre dell'ex presidente della Regione Sardegna, Francesco
Pigliaru. Attività Fu autore di numerosi
saggi di grande spessore, considerati ancora oggi un punto di riferimento
imprescindibile per il dibattito sulla cultura sarda. Inediti continuano ad
apparire ancora adesso. Dopo un iniziale approdo alla filosofia di Giovanni
Gentile, soprattutto nelle prime, importanti opere, Considerazioni critiche su
alcuni aspetti del personalismo comunitario e Persona umana ed ordinamento
giuridico si avvicinò al personalismo storicista di Giuseppe Capograssi, di cui
accolse anche, con un'interpretazione originale, la teoria della pluralità
degli ordinamenti giuridici di Santi Romano, (specie nel suo capolavoro di
antropologia giuridica La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico)[3].
Successivamente sviluppò questioni del marxismo gramsciano[4], in particolare
in Struttura, soprastruttura e lotta per il diritto, Gramsci e la cultura sarda
e nell'incompiuto saggio su L'estinzione dello Stato. Tra i suoi numerosi
contributi sono anche da ricordare: Meditazioni sul regime penitenziario
italiano (1959); La piazza e lo Stato (1961); Promemoria sull'obiezione di
coscienza (1968). È considerato uno dei
più importanti antropologi giuridici italiani e uno dei maggiori studiosi della
Sardegna (Scuola antropologica di Cagliari). A l'attività scientifica
accompagnò un'intensa attività di "didattica popolare", organizzando
ad esempio numerosi corsi di educazione per adulti e lavoratori in vari luoghi
dell'isola. La sua vocazione pedagogica emerge anche in "Scuola",
periodico con molti collaboratori, che esce nel 1954 e si rivolge ai maestri
che si preparano al concorso magistrale. Venne eletto nel Comitato regionale
della Sezione sarda dell'Associazione Italiana Biblioteche per il triennio
1955-1958 e confermato nel 1958-1961.
Alla sua memoria sono intitolate la Biblioteca di scienze sociali
dell'Università di Sassari (già denominata Biblioteca interfacoltà per le
scienze giuridiche, politiche ed economiche) e le Biblioteche comunali di Orune
e di Porto Torres. Opere principali
Considerazioni critiche su alcuni aspetti del personalismo comunitario -
Sassari, 1950 Persona umana ed ordinamento giuridico - Milano, 1953 Meditazioni
sul regime penitenziario italiano - Sassari, 1959 (ora Nuoro, 2009 con
prefazione e postfazione di Salvatore Mannuzzu) La vendetta barbaricina come
ordinamento giuridico - Milano, 1959 (ora Nuoro, 2000) La piazza e lo Stato -
Sassari, 1961 Sardegna, una civiltà di pietra - Roma, 1961 (con Franco Pinna e
Giuseppe Dessì) Struttura, soprastruttura e lotta per il diritto - Padova, 1965
"Promemoria" sull'obiezione di coscienza - Sassari, 1968 (ora Nuoro,
2009 con prefazione di Virgilio Mura) Gramsci e la cultura sarda - Roma, 1969
(ora Nuoro, 2008 con prefazione di Paolo Carta) Opere postume Il banditismo in
Sardegna - Milano, 1970 e successive edizioni Antonio Pigliaru: politica e
cultura, antologia degli scritti pubblicati sulla rivista Ichnusa - Sassari,
1971 (a cura di Manlio Brigaglia, Salvatore Mannuzzu, Giuseppe Melis Bassu; con
scritti di: Gigi Ghirotti ... et al.) Il rispetto dell'uomo - Sassari, 1980
(con una nota di Antonio Delogu) Scritti sul fascismo - Sassari, 1983 La
lezione di Capograssi - Roma, 2000 (con introduzione di Antonio Delogu) Saggi
capograssiani - Roma, 2010 (con introduzione di Antonio Delogu) Per un primo
giorno di scuola: lettera a una professoressa - Sassari, 2002 Le parole e le
cose: alfabeto della democrazia - Sassari, 2005 Note ^ Bruno Migliorini et al.,
scheda sul lemma Pigliaru, in Dizionario italiano multimediale e multilingue
d'ortografia e di pronunzia, Rai Eri, 2007, ISBN 978-88-397-1478-7:
http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=27549&r=639329. Vedi anche
qui: Accento dei cognomi. ^ Giuseppe Capograssi, in Il contributo italiano alla
storia del Pensiero: Diritto, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2012. ^
Giulio Angioni, Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle culture, Il
Maestrale, 200-220 ^ Giorgio Baratta et al., Il soldino dell'anima. Antonio
Pigliaru interroga Antonio Gramsci, CUEC 2010 Bibliografia Francesco Casula,
Letteratura e civiltà della Sardegna, vol.I, Dolianova, Grafica del Parteolla
Editore, 2011, pp. 203–213. Collegamenti esterni Sito ufficiale dedicato ad
Antonio Pigliaru, su pigliaru.it. "Visti da fuori - Antonio
Pigliaru", Documentario RAI, su sardegnadigitallibrary.it. Biblioteca di
Scienze sociali "A. Pigliaru", Università di Sassari, su sba.uniss.it.
URL consultato il 1º luglio 2019 (archiviato dall'url originale il 21 agosto
2016). Biblioteca comunale - Porto Torres, su comune.porto-torres.ss.it.
Bibliografia di Antonio Pigliaru, 1941-1971 (PDF) [collegamento interrotto], su
pigliaru.it. Controllo di autorità VIAF
(EN) 44394375 · ISNI (EN) 0000 0000 7833 5100 · SBN IT\ICCU\CFIV\006154 · LCCN
(EN) nr96008567 · BNF (FR) cb124525559 (data) · WorldCat Identities (EN)
lccn-nr96008567 Biografie Portale Biografie Diritto Portale Diritto Filosofia
Portale Filosofia Categorie: Giuristi italiani del XX secoloFilosofi italiani
del XX secoloEducatori italianiNati nel 1922Morti nel 1969Nati il 17
agostoMorti il 27 marzoNati a OruneMorti a SassariSociologi del dirittoPersone
legate all'Università degli Studi di Sassari[altre]
pigliucci: important Italian philosopher. Massimo Pigliucci Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump
to navigationJump to search Massimo Pigliucci Massimo Pigliucci
(Monrovia, 16 gennaio 1964[1]) è un accademico, filosofo, blogger nonché
divulgatore scientifico italiano naturalizzato statunitense. Pigliucci è
professore di filosofia al CUNY-City College di New York[2], è stato
co-conduttore del podcast Rationally Speaking (Parlando razionalmente)[3] e
redattore capo della rivista online Scientia Salon.[4] Pigliucci è un deciso
critico della pseudoscienza[5][6] e del creazionismo[7] ed un sostenitore del
secolarismo[8] e della educazione scientifica.[9] Indice 1Biografia
2Pensiero critico e scetticismo scientifico 2.1Rationally Speaking 3Libri
3.1Articoli 4Note 5Voci correlate 6Altri progetti 7Collegamenti esterni
Biografia Pigliucci è nato a Monrovia, Liberia, ma è cresciuto a Roma.[1] Ha
conseguito il dottorato in genetica all'Università degli Studi di Ferrara,
Italia, un Ph. D. in biologia dell'Università del Connecticut e un Ph. D. in
filosofia della scienza dall'Università del Tennessee.[10]; è socio di American
Association for the Advancement of Science (Associazione americana per
l'avanzamento della scienza) e di Committee for Skeptical Inquiry.[1] Pigliucci
è stato professore di ecologia e evoluzione all'Università di Stony Brook
compiendo ricerche sulla plasticità fenotipica, le interazioni
genotipo-ambiente, la selezione naturale e i vincoli imposti sulla selezione
naturale da parte del corredo genetico e dello sviluppo degli organismi.[11]
Nel 1997, ha ricevuto il premio Theodosius Dobzhansky,[12] conferito
annualmente dalla Society for the Study of Evolution (Associazione per lo
studio dell'evoluzione)[1]. Come filosofo, si è interessato alla struttura e ai
fondamenti della teoria dell'evoluzione, alla relazione tra scienza e filosofia
e alla relazione tra la scienza e la religione[10] ed è un sostenitore della
sintesi evolutiva estesa.[13] Pigliucci scrive regolarmente sullo Skeptical
Inquirer sui temi di negazionismo o scetticismo del cambiamento climatico,
disegno intelligente, pseudoscienza e filosofia.[14] Ha scritto per Philosophy
Now e ha un blog intitolato "Rationally Speaking (Parlando
razionalmente)". Ha contrastato "i negazionisti dell'evoluzione"
(creazionismo della Terra Giovane e sostenitori del disegno intelligente), tra
cui i creazionisti della terra giovane Duane Gish e Kent Hovind, i sostenitori
del disegno intelligente William Dembski e Jonathan Wells, in molte occasioni.[15][16][17][18]
Pensiero critico e scetticismo scientifico Michael Shermer, Julia Galef e
Massimo Pigliucci durante una registrazione dal vivo a Northeast Conference on
Science and Skepticism (Conferenza del nord-est sulla scienza e sullo scetticismo),
2013 Pur essendo ateo,[19] Pigliucci non crede che la scienza richieda di
essere atei, se si ammettono due distinzioni: la distinzione tra naturalismo
metodologico e naturalismo filosofico e la distinzione tra giudizi di valore e
le questioni di fatto. Crede che molti scienziati ed insegnanti di scienze non
apprezzino tali differenze.[9] Pigliucci ha criticato gli scrittori Nuovi Atei
per aver sostenuto quello che lui considera scientismo (sebbene escluda il
filosofo Daniel Dennett da questa accusa).[20] In una discussione del suo libro
Answers for Aristotle: How science and philosophy can lead us to a more
meaningful life (Risposte per Aristotele: come la scienza e la filosofia
possono condurci ad una vita più ricca di significato), Pigliucci ha detto al
conduttore del podcast Skepticality, Derek Colanduno, “Aristotele era il primo
pensatore antico a prendere sul serio l'idea che hai bisogno di fatti empirici,
e che hai bisogno di un approccio basato sull'evidenza nel mondo, e che devi
essere in grado di riflettere sul significato di quei fatti....Se vuoi delle
risposte a delle domande morali, non chiedi al neurobiologo, non chiedi al
biologo dell'evoluzione, chiedi al filosofo.”[21] Pigliucci descrive la
missione degli scettici, facendo riferimento al libro di Carl Sagan Il mondo
infestato dai demoni: La scienza e il nuovo oscurantismo dicendo “Ciò che fanno
gli scettici è tenere accesa quella candela e cercare di diffonderla il più
possibile.”[22] Pigliucci fa parte del consiglio di NYC Skpetics e fa parte del
comitato consultivo di Secular Coalition for America (Coalizione secolare per
l'America).[8] Nel 2001, ha preso parte a un dibattito sull'esistenza di
Dio con William Lane Craig.[23] Massimo Pigliucci ha criticato l'articolo
di giornale di Papa Francesco intitolato Un dialogo aperto con i non-credenti
(An open dialogue with non-believers). Secondo Pigliucci l'articolo
assomigliava più ad un monologo che ad un dialogo, e ha indirizzato una
risposta personale a Papa Francesco nella quale ha scritto che il papa ha solo
offerto ai non-credenti "una riaffermazione di fantasie senza fondamento
riguardo a Dio e a suo Figlio...seguite da affermazioni confuse tra il concetto
d'amore e di verità, il tutto condito da una significativa dose di revisionismo
storico e negazione degli aspetti più brutti della tua Chiesa (noterai che non
ho nemmeno menzionato la pedofilia!).”[24] Rationally Speaking
Nell'agosto 2000 Pigliucci ha iniziato una rubrica su internet intitolata
Rationally Speaking (Parlando razionalmente). Nell'agosto 2005, la rubrica è
diventata un blog,[25] dove ha scritto fino a marzo 2014.[26] Dal 1º febbraio
2010 Pigliucci co-conduce il podcast bi-settimanale Rationally Speaking con
Juilia Galef, che ha conosciuto al Northeast Conference on Science and
Skepticism (Conferenza del nord-est sulla scienza e sullo scetticismo), tenuta
nel settembre 2009.[27] Il podcast è prodotto da New York City skeptics
(Scettici della città di New York). Il programma vede la partecipazione di
ricercatori, divulgatori scientifici ed insegnanti per presentare libri o
discutere di temi di attualità su temi di filosofia e scienza. In una puntata
del 2010, Neil deGrasse Tyson descrisse la necessità di finanziare con denaro
pubblico i programmi spaziali. La trascrizione della puntata venne poi
pubblicata nel libro Space Chronicles (Cronache Spaziali).[28] In un altro
episodio Tyson spiegò la propria opinione sul significato di essere ateo, poi
commentata in una trasmissione di NPR.[29] Pigliucci ha poi lasciato il podcast
per dedicarsi ad altri interessi.[30] Libri Copertina di Philosophy
of Pseudoscience (EN) Schlichting, Carl e Pigliucci, Massimo, Phenotypic
evolution : a reaction norm perspective, Sunderland, Mass., Sinauer, 1998. (EN)
Pigliucci, Massimo, Tales of the Rational : Skeptical Essays About Nature and
Science, Freethought Press, 2000, ISBN 978-1-887392-11-2. (EN) Pigliucci,
Massimo, Phenotypic Plasticity: Beyond Nature and Nurture , Johns Hopkins
University Press, 2001, ISBN 978-0-8018-6788-0. (EN) Pigliucci, Massimo,
Denying Evolution: Creationism, Scientism, and the Nature of Science, Sinauer,
2002, ISBN 0-87893-659-9. (EN) Pigliucci, Massimo e Preston, Katherine,
Phenotypic Integration: Studying the Ecology and Evolution of Complex
Phenotypes, Oxford University Press, 2004, ISBN 978-0-19-516043-7. (EN)
Pigliucci, Massimo e Kaplan, Jonathan, Making Sense of Evolution: The
Conceptual Foundations of Evolutionary Biology , University of Chicago Press,
2006, ISBN=978-0-226-66837-6). (EN) Pigliucci, Massimo e Muller, Gerd B.,
Evolution: The Extended Synthesis, MIT Press, 2010, ISBN 978-0-262-51367-8.
(EN) Pigliucci, Massimo, Nonsense on Stilts: How to Tell Science from Bunk,
University of Chicago Press, 2010, ISBN 978-0-226-66786-7. (EN) Pigliucci,
Massimo, Answers for Aristotle: How Science and Philosophy Can Lead Us to a
More Meaningful Life, Basic Books, 2012, ISBN 978-0-465-02138-3. (EN)
Pigliucci, Massimo e Boudry, Maarten, Philosophy of Pseudoscience:
Reconsidering the Demarcation Problem, University of Chicago Press, 2013, ISBN
978-0-226-05196-3. Articoli Di seguito sono pochi articoli di Pigliucci.
(EN) M. Pigliucci, Is evolutionary psychology a pseudoscience?, in Skeptical
Inquirer, vol. 30, n. 2, 2006, pp. 23–24. (EN) M. Pigliucci, Science and fundamentalism,
in EMBO reports, vol. 6, n. 12, 2005, pp. 1106–1109,
DOI:10.1038/sj.embor.7400589. (EN) M. Pigliucci, The power and perils of
metaphors in science, in Skeptical Inquirer, vol. 29, n. 5, 2005, pp. 20–21.
(EN) M. Pigliucci, What is philosophy of science good for?, in Philosophy Now,
vol. 44, gennaio-febbraio 2004, p. 45. (EN) Pigliucci M, Bossu C, Crouse P,
Dexter T, Hansknecht K e Muth N, The alleged fallacies of evolutionary theory,
in Philosophy Now, vol. 46, maggio-giugno 2004, pp. 36–39. Altri articoli si
possono trovare sui siti web personali (vedere "Collegamenti esterni"
sotto). Note Massimo Pigliucci — Curriculum Vitae (PDF), su
lehman.edu. URL consultato il 24 novembre 2015 (archiviato dall'url originale
il 17 aprile 2015). ^ (EN) www.ccny.cuny.edu,
https://www.ccny.cuny.edu/profiles/massimo-pigliucci. URL consultato il 24
novembre 2015. ^ (EN) Rationally Speaking Podcast, su
rationallyspeakingpodcast.org. ^ (EN) Scientia Salon, su
scientiasalon.wordpress.com. ^ (EN) Pigliucci, Massimo e Boudry, Maarten,
Philosophy of Pseudoscience: Reconsidering the Demarcation Problem, University
of Chicago Press, 2013, ISBN 978-0-226-05196-3. ^ (EN) Pigliucci, Massimo, The
Dangers of Pseudoscience, in The New York Times, 10 ottobre 2013. ^ (EN)
Pigliucci, Massimo, Denying evolution: Creationism, scientism, and the nature
of science, Sunderland, MA, Sinauer Associates, 2002. (EN) Secular
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il 28 novembre 2015 (archiviato dall'url originale il 22 novembre 2015).
(EN) M. Pigliucci, Science and fundamentalism, in EMBO reports, vol. 6, n. 12,
2005, pp. 1106–1109, DOI:10.1038/sj.embor.7400589. Massimo Pigliucci —
Short Bio (PDF), su lehman.edu. URL consultato il 28 novembre 2015 (archiviato
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Papers, su lehman.edu. URL consultato il 28 novembre 2015 (archiviato dall'url
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2015 (archiviato dall'url originale il 25 ottobre 2015). ^ (EN) Wade, Michael
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Concepts, in BioScience, n. 61, 2011, pp. 407-408. ^ (EN) Massimo Pigliucci,
Committee for Skeptical Inquiry. URL consultato il 28 novembre 2015 (archiviato
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evolution: creationism, scientism, and the nature of science, Sunderland, Mass.,
Sinauer Associates, 2002, ISBN 0-87893-659-9. ^ (EN) Evolution Debate —
Pigliucci vs Hovind, Richard Dawkins Foundation for Reason and Science, 31
gennaio 2007. URL consultato il 16 dicembre 2012 (archiviato dall'url originale
l'11 giugno 2013). ^ (EN) CV of William Dembski, su designinference.com. URL
consultato il 1° gennaio 2014 (archiviato dall'url originale il 26 gennaio
2015). ^ (EN) Evolution and Intelligent Design: Pigliucci vs Wells, Uncommon
Knowledge, 14 gennaio 2005. URL consultato il 17 luglio 2008 (archiviato
dall'url originale l'8 marzo 2008). ^ (EN) Massimo Pigliucci, Excommunicated by
the Atheists!, su rationallyspeaking.blogspot.com, 18 agosto 2008. ^ (EN)
Pigliucci, M., New Atheism and the Scientistic Turn in the Atheism Movement (PDF),
in Midwest Studies In Philosophy, vol. 37, n. 1, pp. 142–153. ^ (EN) Derek
Colanduno, Should You Answer Aristotle?, Skeptic Magazine, 13 febbraio 2013.
URL consultato il 14 maggio 2014. ^ (EN) Richard Saunders, The Skeptic Zone
#101, su http://skepticzone.tv/, 24 settembre 2010. URL consultato il 20 luglio
2014. ^ Moreland, J.P. (2013). Debating Christian Theism. USA: Oxford
University Press. ISBN 978-0199755431. ^ (EN) Massimo Pigliucci, Dear Pope, su
Rationally Speaking, 20 settembre 2013. ^ (EN) Massimo Pigliucci, Welcome,
everyone!, su rationallyspeaking.blogspot.nl, 1º agosto 2005. ^ (EN) Massimo
Pigliucci, So long, and thanks for all the fish, su
rationallyspeaking.blogspot.nl, 20 marzo 2014. ^ Todd Stiefel e Amanda K.
Metskas, Julia Galef, The Humanist, 22 maggio 2013. URL consultato il 3 marzo
2015. ^ (EN) Jennifer Culp, Neil DeGrasse Tyson, Great Science Writers Series,
The Rosen Publishing Group, 2014, p. 74, ISBN 978-1-4777-7692-6. ^ (EN) Tania
Lombrozo, What If Atheists Were Defined By Their Actions?, NPR, 8 dicembre
2014. URL consultato il 4 marzo 2015. ^ (EN) RS128 - 5th Anniversary Live Show,
su Rationally Speaking, New York City Skeptics, 27 febbraio 2015. URL
consultato il 20 ottobre 2015. Voci correlate Committee for Skeptical Inquiry
Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
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Footnote – Pagina web di Pigliucci Rationally Speaking – blog di Pigliucci
sullo scetticismo scientifico skepticism e sull'umanismo. Dr. Pigliucci's
Rationally Speaking Podcast Massimo Pigliucci su Secular Web Philosophy &
Theory in Biology(Filosofia e Teoria in Biologia), su
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tecnica Portale Scienza e tecnica Categorie: Accademici italiani del XX
secoloAccademici italiani del XXI secoloAccademici statunitensiFilosofi
italiani del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloFilosofi statunitensi del
XX secoloFilosofi statunitensi del XXI secoloBlogger italianiBlogger
statunitensiNati nel 1964Nati il 16 gennaioNati a MonroviaGenetisti
italianiStudenti dell'Università degli Studi di FerraraBiologi italianiUmanisti
italianiFilosofi ateiProfessori dell'Università di New York[altre]. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Pigliucci,"
per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia
pilgrimage: Grice’s
pilgrimage. In his pilgrimage towards what he calls the city of Eternal Truth
he finds twelve perils – which he lists. The first is Extensionalism (as
opposed to Intensionalism – vide intentum -- consequentes
rem intellectam: intendere est essentialiter ipsum esse intentio ...
quam a concepto sibi adequato: Odint 226; esse intentum est esse non reale: The
second is Nominalism (opposite Realism and Conceptualism – Universalism,
Abstractionism). It is funny that Grice was criticised for representing each of
the perils!The third is Positivism. Opposite to Negativism. Just kidding. Opposite to anything Sir Freddie Ayer was
opposite to!The fourth is Naturalism. Opposite Non-Naturalism. Just joking! But
that’s the hateful word brought by G. E. Moore, whom Grice liked (“Some like
Witters, but Moore’s MY man.”) The fifth is Mechanism. Opposite Libertarianism,
or Finalism, But I guess one likes Libertarianism.The sixth is Phenomenalism.
You cannot oppose it to Physicalism, beause that comes next. So this is G. A.
Paul (“Is there a problem about sense data?). And the opposite is anything this
Scots philosopher was against!The seventh is Reductionism. Opposite
Reductivism. Grice was proud to teach J. M. Rountree the distinction between a
benevolent reductionist and a malignant eliminationist reductionist. The eighth
is physicalism.Opposite metaphysicalism.
The ninth is materialism. Hyleism. Opposite Formalism. Or Immaterialism.
The tenth is Empiricism. Opposite Rationalism. The eleventh is
Scepticism.Opposite Dogmatism.and the twelfth is functionalism. Opposite Grice!
So now let’s order the twelve perils alphabetically. Empiricism.
Extensionalism. Functionalism. MaterialismMechanism. Naturalism. Nominalism.
Phenomenalism. Positivism. Physicalism. Reductionism. Scepticism. Now let us
see how they apply to the theory of the conversational implicaturum and
conversation as rational cooperation. Empiricism – Grice is an avowed
rationalist.Extensionalism – His main concern is that the predicate in the
proposition which is communicated is void, we yield the counterintuitive result
that an emissor who communicates that the S is V, where V is vacuous
communicates the same thing he would be communicating for any other vacuous
predicate V’Functionalism – There is a purely experiential qualia in some
emissor communicating that p that is not covered by the common-or-garden
variety of functionalism. E.g. “I love myself.” Materialism – rationalism means
dealing with a realm of noumena which goes beyond materialismMechanism –
rationalism entails end-setting unweighed finality and freedom. Naturalism –
communication involves optimality which is beyond naturalism Nominalism – a
predicate is an abstractum. Phenomenalism – there is realism which gives
priority to the material thing, not the sense datum. A sense datum of an apple
does not nourish us. Positivism – an emissor may communicate a value, which is
not positivistically reduced to something verifiable. Physicalism – there must
be multiple realization, and many things physicalists say sound ‘harsh’ to
Grice’s ears (“Smith’s brain being in state C doesn’t have adequate evidence”).
Reductionism – We are not eliminating anything. Scepticism – there are dogmas
which are derived from paradigm cases, even sophisticated ones.How to introduce
the twelve entriesEmpiricism – from Greek empereia – cf. etymology for English
‘experience.’Extensionalism -- extensumFunctionalism – functum.
Materialism -- Mechanism Naturalism
Nominalism Phenomenalism Positivism Physicalism Reductionism Scepticism. this section events are reviewed according to
principal scenes of action. Place names appear in the order in which major
incidents occur. City of Destruction. The
city stands as a symbol of the entire world as it is, with all of its sins,
corruptions, and sorrows. No one living there can have any hope of salvation.
Convinced that the city is about to be blasted by the wrath of God, Christian
flees and sets out alone on a pilgrimage which he hopes will lead him to Mount
Zion, to the Celestial City, where he can enjoy eternal life in the happy
company of God and the Heavenly Host. Slough
of Despond. A swamp, a bog, a quagmire, the first obstacle in
Christian's course. Pilgrims are apt to get mired down here by their doubts and
fears. After much difficulty and with some providential help, Christian finally
manages to flounder across the treacherous bog and is on his way again. Village of Morality. Near the village
Christian meets Mr. Worldly Wiseman, who, though not religiously inclined, is a
friendly and well-disposed person. He tells Christian that it would be foolish
of him to continue his pilgrimage, the end of which could only be hunger, pain,
and death. Christian should be a sensible fellow and settle down in the Village
of Morality. It would be a good place to raise a family, for living was cheap
there and they would have honest, well-behaved people as neighbors — people who
lived by the Ten Commandments. More than a little tempted by this, Christian
decides that he should at least have a look at Morality. But along the way he
is stopped by his friend Evangelist, who berates him sharply for having
listened to anything Mr. Worldly Wiseman might have to say. If Christian is
seriously interested in saving his soul, he would be well advised to get back
as quickly as possible on the path to the Wicket Gate which Evangelist had
pointed out to him before. Wicket Gate.
Arriving almost out of breath, Christian reads the sign on the gate:
"Knock and it shall be opened unto you." He knocks a number of times
before arousing the gatekeeper, a "grave person" named Good-will, who
comes out to ask what Christian wants. After the latter has explained his
mission, he is let through the gate, which opens on the Holy Way, a straight
and narrow path leading toward the Celestial City. Christian asks if he can now
be relieved of the heavy burden — a sack filled with his sins and woes — that
he has been carrying on his back for so long. Good-will replies that he cannot
help him, but that if all goes well, Christian will be freed of his burden in
due course. Interpreter's House. On
Good-will's advice, Christian makes his first stop at the large house of
Interpreter, a character symbolizing the Holy Spirit. Interpreter shows his
guest a number of "excellent things." These include a portrait of the
ideal pastor with the Bible in his hand and a crown of gold on his head; a dusty
parlor which is like the human heart before it is cleansed with the Gospel; a
sinner in an iron cage, an apostate doomed to suffer the torments of Hell
through all eternity; a wall with a fire burning against it. A figure (the
Devil himself) is busily throwing water on the fire to put it out. But he would
never succeed, Interpreter explains, because the fire represents the divine
spirit in the human heart and a figure on the far side of the wall keeps the
fire burning brightly by secretly pouring oil on it — "the oil of Christ's
Grace." The Cross. Beyond
Interpreter's House, Christian comes to the Cross, which stands on higher
ground beside the Holy Way. Below it, at the foot of the gentle slope, is an
open sepulcher. When Christian stops by the Cross, the burden on his back
suddenly slips from his shoulders, rolls down the slope, and falls into the
open sepulcher, to be seen no more. As Christian stands weeping with joy, three
Shining Ones (angels) appear. They tell him all his sins are now forgiven, give
him bright new raiment to replace his old ragged clothes, and hand him a
parchment, "a Roll with a seal upon it." For his edification and
instruction, Christian is to read the Roll as he goes along, and when he
reaches the Pearly Gates, he is to present it as his credentials a sort of
passport to Heaven, as it were. Difficulty
Hill. The Holy Way beyond the Cross is fenced in with a high wall on
either side. The walls have been erected to force all aspiring Pilgrims to
enter the Holy Way in the proper manner, through the Wicket Gate. As Christian
is passing along, two men — Formalist and Hypocrisy — climb over the wall and
drop down beside him. Christian finds fault with this and gives the
wall-jumpers a lecture on the dangers of trying shortcuts. They have been
successfully taking shortcuts all their lives, the intruders reply, and all
will go well this time. Not too pleased with his company, Christian proceeds
with Hypocrisy and Formalist to the foot of Difficulty Hill, where three paths
join and they must make a choice. One path goes straight ahead up the steep
slope of the hill; another goes around the base of the hill to the right; the
third, around the hill to the left. Christian argues that the right path is the
one leading straight ahead up Difficulty Hill. Not liking the prospect of much
exertion, Formalist and Hypocrisy decide to take the easier way on the level
paths going around the hill. Both get lost and perish. Halfway up Difficulty
Hill, so steep in places that he has to inch forward on hands and knees,
Christian comes to a pleasant arbor provided for the comfort of weary Pilgrims.
Sitting down to rest, Christian reaches into his blouse and takes out his
precious Roll. While reading it, he drops off to sleep, being awakened when he
hears a voice saying sternly: "Go to the ant, thou sluggard; consider her
ways, and be wise." Jumping up, Christian makes with all speed to the top
of the hill, where he meets two Pilgrims coming toward him — Timorous and
Mistrust. They have been up ahead, they say, and there are lions there. They
are giving up their pilgrimage and returning home, and unsuccessfully try to
persuade Christian to come with them. Their report about the lions disturbs
Christian, who reaches into his blouse to get his Roll so that he may read it
and be comforted. To his consternation, the Roll is not there. Carefully
searching along the way, Christian retraces his steps to the arbor, where, as
he recalls, he had been reading the Roll when he allowed himself to doze off in
"sinful sleep." Not finding his treasure immediately, he sits down
and weeps, considering himself utterly undone by his carelessness in losing
"his pass into the Celestial City." When in deepest despair, he
chances to see something lying half-covered in the grass. It is his precious
Roll, which he tucks away securely in his blouse. Having offered a prayer of
thanks "to God for directing his eye to the place where it lay,"
Christian wearily climbs back to the top of Difficulty Hill. From there he sees
a stately building and as it is getting on toward dark, hastens there. Palace Beautiful. A narrow path leads
off the Holy Way to the lodge in front of Palace Beautiful. Starting up the
path, Christian sees two lions, stops, and turns around as if to retreat. The
porter at the lodge, Watchful, who has been observing him, calls out that there
is nothing to be afraid of if one has faith. The lions are chained, one on
either side of the path, and anyone with faith can pass safely between them if
he keeps carefully to the middle of the path, which Christian does. Arriving at
the lodge, he asks if he can get lodging for the night. The porter, Watchful,
replies that he will find out from those in charge of Palace Beautiful. Soon,
four virgins come out to the lodge, all of them "grave and beautiful
damsels": Discretion, Prudence, Piety, and Charity. Satisfied with
Christian's answers to their questions, they invite him in, introduce him to
the rest of the family, serve him supper, and assign him to a beautiful bedroom
— Peace — for the night. Next morning, the virgins show him the
"rarities" of the place: First, the library, filled with ancient
documents dating back to the beginning of time; next, the armory, packed with
swords, shields, helmets, breastplates, and other things sufficient to equip
all servants of the Lord, even if they were as numerous as the stars in the
sky. Leading their guest to the roof of the palace, the virgins point to
mountains in the distance — the Delectable Mountains, which lie on the way to
the Celestial City. Before allowing Christian to depart, the virgins give him
arms and armor to protect himself during the next stretch of his journey, which
they warn will be dangerous. Valley of
Humiliation. Here Christian is attacked and almost overcome by a
"foul fiend" named Apollyon — a hideous monster with scales like a
fish, wings like a dragon, mouth like a lion, and feet like a bear; flames and
smoke belch out of a hole in his belly. Christian, after a painful struggle,
wounds the fiend with his sword and drives him off. Valley of the Shadow of Death. This is a wilderness, a land of
deserts and pits, inhabited only by yowling hobgoblins and other dreadful
creatures. The path here is very narrow, edged on one side by a deep,
water-filled ditch in which many have drowned; on the other side, by a
treacherous bog. Walking carefully, Christian goes on and soon finds himself
close to the open mouth of Hell, the Burning Pit, out of which comes a cloud of
noxious fumes, long fingers of fire, showers of sparks, and hideous noises. With
flames flickering all around and smoke almost choking him, Christian manages to
get through by use of "All-prayer." Nearing the end of the valley, he
hears a shout raised by someone up ahead: "Though I walk through the
Valley of the Shadow of Death, I will fear none ill, for Thou art with
me." As only a Pilgrim could have raised that cry, Christian hastens
forward to see who it might be. To his surprise and delight he finds that it is
an old friend, Faithful, one of his neighbors in the City of Destruction. Vanity Fair. Happily journeying
together, exchanging stories about their adventures and misadventures, the two
Pilgrims come to the town of Vanity Fair, through which they must pass.
Interested only in commerce and money-making, the town holds a year-round fair
at which all kinds of things are bought and sold — "houses, lands, trades,
titles, . . . lusts, pleasures, . . . bodies, souls, silver, gold, pearls,
precious stones, and what not." Christian and Faithful infuriate the
merchandisers by turning up their noses at the wares offered them, saying that
they would buy nothing but the Truth. Their presence and their attitude cause a
hubbub in the town, which leads the authorities to jail them for disturbing the
peace. The prisoners conduct themselves so well that they win the sympathy of
many townspeople, producing more strife and commotion in the streets, and the
prisoners are held responsible for this, too, though they have done nothing. It
is decided to indict them on the charge of disrupting trade, creating
dissension, and treating with contempt the customs and laws laid down for the
town by its prince, old Beelzebub himself. Brought to trial first, Faithful is
convicted and sentenced to be executed in the manner prescribed by the
presiding judge, Lord Hate-good. The hapless Faithful is scourged, brutally
beaten, lanced with knives, stoned, and then burned to ashes at the stake.
Thus, he becomes another of the Christian martyrs assured of enjoying eternal
bliss up on high. Doubting Castle and
Giant Despair. In a manner only vaguely explained, Christian gets free
and goes on his way — but not alone, for he has been joined by Hopeful, a
native of Vanity Fair who is fleeing in search of better things. After a few
minor adventures, the two reach a sparkling stream, the River of the Water of
Life, which meanders through beautiful meadows bright with flowers. For a time
the Holy Way follows the river bank but then veers off into rougher ground
which is hard on the sore tired feet of the travelers. Wishing there were an
easier way, they plod along until they come to another meadow behind a high
fence. Having climbed the fence to have a look, Christian persuades Hopeful
that they should move over into By-path Meadow, where there is a soft grassy
path paralleling theirs. Moving along, they catch up with Vain-confidence, who
says that he is bound for the Celestial City and knows the way perfectly. Night
comes on, but he continues to push ahead briskly, with Christian and Hopeful
following. Suddenly, the latter hear a frightened cry and a loud thud.
Vain-confidence has been dashed to pieces by falling into a deep pit dug by the
owner of the meadow. Christian and Hopeful retreat, but as they can see nothing
in the dark, they decide to lie down in the meadow to pass the night. Next
morning, they are surprised and seized by the prince of By-path Meadow, a giant
named Despair. Charging them with malicious trespassing, he hauls them to his
stronghold, Doubting Castle, and throws them into a deep dark dungeon, where
they lie for days without food or drink. At length, Giant Despair appears,
beats them almost senseless, and advises them to take their own lives so that
he will not have to come back to finish them off himself. When all seems
hopeless, Christian suddenly brightens up, "as one half amazed," and
exclaims: "What a fool am I, thus to lie in a stinking dungeon when I may
as well walk at liberty. I have a key in my bosom called Promise which will (I
am persuaded) open any lock in Doubting Castle." Finding that the magic
key works, the prisoners are soon out in the open and running as fast as they
can to get back onto the Holy Way, where they erect a sign warning other
Pilgrims against being tempted by the apparent ease of traveling by way of
By-path Meadow. Delectable Mountains. Christian
and Hopeful next come to the Delectable Mountains, where they find gardens,
orchards, vineyards, and fountains of water. Four shepherds — Experience,
Knowledge, Watchful, and Sincere — come to greet them, telling them that the
mountains are the Lord's, as are the flocks of sheep grazing there. Having been
escorted around the mountains and shown the sights there, the two Pilgrims on
the eve of their departure receive from the shepherds a paper instructing them
on what to do and what to avoid on the journey ahead. For one thing, they
should not lie down and sleep in the Enchanted Ground, for that would be fatal.
Country of Beulah. This is a
happy land where the sun shines day and night, flowers bloom continuously, and
the sweet and pleasant air is filled with bird-song. There is no lack of grain
and wine. Christian and Hopeful stop to rest and enjoy themselves here, pleased
that the Celestial City is now within sight, which leads them to assume that
the way there is now clear. Dark River.
Proceeding, they are amazed when they come to the Dark River, a wide,
swift-flowing stream. They look around for a bridge or boat on which to cross.
A Shining One appears and tells them that they must make their way across as
best they can, that fording the river is a test of faith, that those with faith
have nothing to fear. Wading into the river, Hopeful finds firm footing, but
Christian does not He is soon floundering in water over his head, fearing that
he will be drowned, that he will never see "the land that flows with milk
and honey." Hopeful helps Christian by holding his head above water, and
the two finally achieve the crossing. Celestial
City. On the far side of the river, two Shining Ones are waiting for the
Pilgrims and take them by the arm to assist them in climbing the steep slope to
the Celestial City, which stands on a "mighty hill . . . higher than the
clouds." Coming to the gate of the city, built all of precious stones,
Christian and Hopeful present their credentials, which are taken to the King (God).
He orders the gate to be opened, and the two weary but elated Pilgrims go in,
to find that the streets are paved with gold and that along them walk many men
with crowns on their heads and golden harps in their hands.
Piovani Pietro Piovani Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Pietro
Piovani (Napoli, 17 ottobre 1922 – Napoli, 13 agosto 1980) è stato un filosofo
italiano. Indice 1 Biografia 2 Pensiero
filosofico 3 Note
4 Opere
principali 5 Bibliografia
Critica 6 Collegamenti
esterni Biografia Pietro Piovani si laureò a Napoli dove conobbe il suo maestro
Giuseppe Capograssi. Tra il 1953 e il 1963 insegnò Filosofia del diritto in
varie in varie università d'Italia (Trieste, Firenze e Roma), e successivamente
occupò via via le cattedre di Storia delle dottrine politiche, Storia della
filosofia morale e di Filosofia morale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
dell'Università degli studi di Napoli Federico II, dove rimase fino alla
propria morte, avvenuta nel 1980. Insignito di numerosi riconoscimenti
accademici, fu socio Linceo dal 1972. Figlio di due maestri elementari, educato
al senso dell'appartenenza nazionale e cresciuto fino ai vent'anni sotto il
fascismo, Piovani si formò a Napoli, dove, nella prima giovinezza (come invero
molte altre future figure di spicco della vita culturale e civile italiana),
prese anche parte alle attività del GUF cittadino e scrisse su alcuni fogli del
regime[1]. La sua originale ricerca filosofica ebbe avvio all'indomani
immediato della tragica conclusione della seconda guerra mondiale e di ciò
portò i segni anche nell'elaborazione della propria caratterizzazione
etico-politica, presto approdata alle ragioni del liberalismo democratico[2].
Dinanzi alla drammatica conclusione dell'esito volontaristico dell'attualismo,
la necessità di ripensare il "modello" idealistico della "nuova
Italia" lo indusse ad un'intensa riflessione sul significato e sul valore
dell'individuo nel suo farsi persona, che lo impegnò per tutta la vita,
troncata dalla malattia a soli 58 anni. Autore di molti volumi (se ne
conteranno più di venti al termine della sua carriera di scrittore), che
spaziano dalla filosofia del diritto al pensiero filosofico italiano,
soprattutto a quello meridionale, ricoprì incarichi nelle più importanti
accademie italiane; fu direttore, insieme a Eustachio Paolo Lamanna, della
"Collana di Filosofia" delle Edizioni Morano di Napoli, e fondatore,
presso il Cnr, del Centro di Studi Vichiani. Al suo pensiero e alla sua
"scuola" sono dedicati numerosi scritti. La "Fondazione P.
Piovani per gli studi vichiani" ne custodisce la biblioteca e gli
archivi. Pensiero filosofico Il pensiero
di Pietro Piovani è stato definito da uno dei suoi più importanti allievi,
Fulvio Tessitore, «una fenomenologia dell'individuale». Per il pensatore
napoletano l'individuo non è concepito come un'entità chiusa ed egoistica
tendente all'assolutizzazione ma, al contrario, accettando egli la sua natura
di vivente limitato, afferma sé stesso nella responsabilità della propria
azione. Nella formazione del pensiero di Piovani concorrono elementi
esistenzialistici (con particolare simpatia per Jaspers), coniugati con motivi
rosminiani, a loro volta filtrati attraverso Capograssi, il quale pose Piovani
di fronte al grande tema dell’analisi dell’esperienza comune. Di ciò è
documento la prima monografia Normatività e società (1949), che utilizza anche
temi della prima Azione blondeliana. La necessità di fondare la persona grazie
a un criterio o norma, che è la ragione dell’agire e del pensare (la logica
della vita morale), fa scoprire il tema di fondo della più matura filosofia
morale piovaniana: il soggetto è un «volente non volutosi»[3], vale a dire che
il soggetto, per quanto approfondisca il proprio essere che è il suo esistere,
deve arrestarsi dinanzi alla constatazione di essere dato, di non essersi
voluto. L’«alternativa esistenziale»[4] dell’accettazione della vita ne
riscatta, con la volontà di essere a fronte della possibilità contraddittoria
del suicidio, l’originaria datità. Ma questa accettazione, che è la sola
possibile fondazione della vita morale, rifiuta ogni «ostinazione
singolaristica» e comporta che la vita è vita di relazione, dove questa non è
conquista ma condizione consustanziale del soggetto che si accetta e dunque
accetta l’altro, a iniziare dalla propria alterità rispetto a se stesso.
L’essenziale «instaurazione personalitaria»[5] consente la fondazione del
diritto e della morale: entrambe formazioni storiche, fondate dinamicamente in
quanto capaci di comprendere ogni forma in cui si sostanzi l’attivo desiderio
dell’uomo di soddisfare l’insaziabile bisogno di valori, anch'essi costruiti
dalla scelta esistenziale dei soggetti storici. In base a tale considerazione
Piovani sostiene che l'essere umano non possa fare affidamento su alcun tipo di
fondamento poiché, essendo un essere limitato e storico, è di fatto costretto a
fondare continuamente i suoi punti di riferimento. A questo proposito assumono
appunto un ruolo primario i valori, considerati non come assoluti ed eterni
bensì prodotto della specificità individuale. Del resto proprio i valori
esaltano la responsabilità dell'azione degli individui, che, altrimenti,
verrebbe mortificata nel riferimento obbligato a qualcosa di assoluto. Si può
dunque parlare, in Piovani, di un pluralismo etico che non significa
relativismo ma relatività e, dunque, rispetto. Una posizione quest'ultima che
sembra chiaramente riprendere il pensiero di Kant e, in particolare, il tema
dell'agonismo etico. Per il ricorrere di questi temi, l’originale filosofia di
Piovani può riassumersi nella formula tra «esistenzialismo ripensato e
storicismo rinnovato»[6]. Note ^ Tra
questi, un numero della rivista Gerarchia, su cui - diciannovenne - scriveva nel
settembre del 1942, riferendosi alla partecipazione emotiva degli italiani al
conflitto con la Grecia: "Questo modo di sentire e di interpretare gli
eventi deve essere posto in luce perché esso indica che un ventennio di regime
fascista è riuscito a dare agli Italiani almeno quel senso di preoccupazione
della tutela e della difesa dei propri interessi, che è il presupposto
indispensabile per la formazione di una autentica e completa coscienza
imperiale": P. Piovani, Roma e Tirana, in Gerarchia, XXI, n. 9, settembre
1942, p. 371-373. ^ P. Piovani, Evoluzione liberale, in Biblioteca della
libertà, n. 12, 1968, p. 49-59. ^ P. Piovani, Principi di una filosofia della
morale, cap. I. ^ P. Piovani, Principi di una filosofia della morale, cap. II.
^ P. Piovani, Principi di una filosofia della morale, cap. IV. ^ F. Tessitore,
PIOVANI, Pietro, in Enciclopedia filosofica di Gallarate, Bompiani, Milano,
2006, pp. 8645-8646. Opere principali Normatività e società, Napoli, Jovene,
1949. Il significato del principio di effettività, Milano, Giuffre, 1953. Morte
(e trasfigurazione?) dell'Università, Napoli, Guida, 1969 (II ed. Napoli,
Guida, 2000, ISBN 88-7188-390-X). La teodicea sociale di Rosmini, Padova,
Cedam, 1956; II ed. Brescia, Morcelliana, 1997, ISBN 88-372-1621-1. Linee di
una filosofia del diritto, Padova, CEDAM, 1958; II ed. riveduta 1964; III ed.
1968. Giusnaturalismo ed etica moderna, Bari, Laterza, 1961; II ed. Napoli,
Liguori, 2000, ISBN 88-207-3094-4. Filosofia e storia delle idee, Bari,
Laterza, 1965; ed. anastatica Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2010,
ISBN 9788863722796. Conoscenza storica e coscienza morale, Napoli, Morano,
1966; II ed. 1972. Principi di una filosofia della morale, Napoli, Morano,
1972; II ed. 1989. Oggettivazione etica e assenzialismo, a cura di F.
Tessitore, Napoli, Morano, 1981; II ed. Brescia, Morcelliana, 2010 , ISBN
88-372-2398-6. La filosofia nuova di Vico, a cura di F. Tessitore, Napoli,
Morano, 1990. Per una filosofia della morale, a cura di F. Tessitore, Milano,
Bompiani (Il pensiero Occidentale), 2010, ISBN 8845265935. Bibliografia Critica
Fulvio Tessitore, Tra esistenzialismo e storicismo: la filosofia morale di
Pietro Piovani, Napoli, Morano, 1974. Fulvio Tessitore, Pietro Piovani, Napoli,
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88-7284-533-5. Paolo Amodio (a cura di), Bibliografia degli scritti su Pietro
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Anti-ontologismo e fondazione etica in Pietro Piovani, Napoli, Giannini, 2001.
ISBN 978-88-7431-023-4. Anna Maria Nieddu, Normatività soggettività storicità:
saggio sulla filosofia della morale di Pietro Piovani, Napoli, Loffredo, 2001.
ISBN 88-8096-823-8. Anna Maria Nieddu (a cura di), Incontri blondellani.
Volontà, norma, azione in Maurice Blondel e in Pietro Piovani, Cagliari,
Editore AV, 2005. ISBN 88-8374-030-0. Adamo Perrucci, L'etica della
responsabilità. Saggio su Pietro Piovani, Napoli, Liguori, 2007. ISBN
88-207-4086-9. Giovanni Morrone, La scuola napoletana di Pietro Piovani:
lettura critica e informazione bibliografica, Roma : Edizioni di Storia e
Letteratura, 2015 (Sussidi eruditi 94) Collegamenti esterni Marco M. Olivetti,
«PIOVANI, Pietro» in Enciclopedia Italiana - IV Appendice, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1979. La voce «Etica» compilata da Pietro Piovani,
in Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1977.
Sito web del Centro di Studi Vichiani del Cnr di Napoli. La lezione etica più
che mai attuale di Pietro Piovani, di Fulvio Tessitore, Il Messaggero, 22
giugno 2000. Pietro Piovani, di Fulvio Tessitore, Napoli, 1982. Sito web della
Fondazione P. Piovani per gli studi vichiani. Ebook dello Invito a Vico di P.
Piovani, edizioni Ispf-Cnr, 2018, in accesso libero. Controllo di autorità VIAF (EN) 51701873
· ISNI (EN) 0000 0000 8129 7694 · LCCN (EN) n78096013 · GND (DE) 12074001X ·
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lccn-n78096013 Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia
Categorie: Filosofi italiani del XX secoloNati nel 1922Morti nel 1980Nati il 17
ottobreMorti il 13 agostoNati a NapoliMorti a NapoliEsistenzialistiFilosofi del
diritto[altre]
Pirandello:
Grice: “Pirandello would say he is no philosopher, but then I’m a cricketer!”
--. Luigi Pirandello Da
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disambigua.svg Disambiguazione – "Pirandello" rimanda qui. Se stai
cercando altri significati per Pirandello, vedi Pirandello (disambigua).
Luigi Pirandello Medaglia del Premio Nobel Premio Nobel per la letteratura 1934
Luigi Pirandello (Girgenti, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936) è stato un
drammaturgo, scrittore e poeta italiano, insignito del Premio Nobel per la
letteratura nel 1934. Per la sua produzione, le tematiche affrontate e l'innovazione
del racconto teatrale è considerato tra i più importanti drammaturghi del XX
secolo. Tra i suoi lavori spiccano diverse novelle e racconti brevi (in lingua
italiana e siciliana) e circa quaranta drammi, l'ultimo dei quali
incompleto. Firma di Luigi Pirandello MENU0:00 Voce di Pirandello
mentre legge un suo prologo a Sei personaggi in cerca d'autore (1926)
Indice 1 Biografia
1.1 La
famiglia 1.2 I
primi anni 1.3 Il
matrimonio 1.4 Il
crollo finanziario e la malattia della moglie 1.5 Il primo grande successo 1.6 Dalla
Grande Guerra al Nobel: il successo internazionale 1.7 Pirandello e la
politica: l'adesione al fascismo 1.8 Il
rifugio di Soriano nel Cimino 1.9 La
morte e il testamento 2 Il
pensiero 2.1 L'umorismo
2.2 La
crisi dell'io 2.2.1 La
"lanterninosofia" 2.3 Il
contrasto tra vita e forma 2.4 Il
relativismo psicologico o conoscitivo 2.5 L'incomunicabilità
2.6 La
reazione al relativismo 2.6.1 Reazione
passiva 2.6.2 Reazione
ironico - umoristica 2.6.3 Reazione
drammatica 3 Teatro
3.1 Prima
fase - Teatro Siciliano 3.2 Seconda
fase - Il teatro umoristico/grottesco 3.3 Terza
fase - Il teatro nel teatro 3.4 Quarta
fase - Il teatro dei miti 4 Romanzi
5 Novelle
5.1 Novelle
per un anno 6 Poesia
7 Pirandello
nel cinema 8 Pirandello
nell'opera lirica 9 Opere
10 Onorificenze
11 Intitolazioni
12 Note
13 Bibliografia
14 Voci
correlate 15 Altri
progetti 16 Collegamenti
esterniBiografia «Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta
realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un
intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di
Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco
"Kaos".» (Luigi Pirandello) Stefano Pirandello, padre di
Luigi, in divisa garibaldina La famiglia Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Biografia del figlio cambiato. Luigi Pirandello,
figlio di Stefano Pirandello e Caterina Ricci Gramitto, appartenenti a famiglie
di agiata condizione borghese, dalle tradizioni risorgimentali, nacque nel 1867
in contrada Càvusu a Girgenti, nome di origine araba con cui era nota, fino al
1927, la città siciliana di Agrigento [1]. Nell'imminenza del parto che
doveva avvenire a Porto Empedocle, per un'epidemia di colera che stava colpendo
la Sicilia, il padre Stefano aveva deciso di trasferire la famiglia in
un'isolata tenuta di campagna per evitare il contatto con la pestilenza. Porto
Empedocle, prima di chiamarsi così, era una borgata (Borgata Molo) di Girgenti
(l'odierna Agrigento). Quando nel 1853 si decise che la borgata divenisse
comune autonomo «La linea di confine fra i due comuni venne fissata all'altezza
della foce di un fiume essiccato che tagliava in due la contrada chiamata
"u Càvuso" o "u Càusu" (pantalone) [...] Questo Càvuso
apparteneva metà al nuovo comune di Porto Empedocle e l'altra metà al Comune di
Girgenti [...] A qualche impiegato dell'ufficio anagrafe parve che non era cosa
[che si scrivesse che qualcuno fosse nato in un paio di pantaloni] e cangiò
quel volgare "Càusu" in "Caos[2]» Il padre, Stefano
Pirandello, aveva partecipato tra il 1860 e il 1862 alle imprese garibaldine;
aveva sposato nel 1863 Caterina, sorella di un suo commilitone, Rocco Ricci
Gramitto. Il nonno materno di Luigi, Giovanni Battista Ricci Gramitto,
era stato tra gli esponenti di spicco della rivoluzione siciliana del 1848-49
e, escluso dall'amnistia al ritorno del Borbone, era fuggito in esilio a Malta
dove era morto un anno dopo, nel 1850, a soli 46 anni.[3] Il bisnonno
paterno, Andrea Pirandello[4], era stato un armatore e ricco uomo d'affari di
Pra', ora quartiere di Genova. La famiglia di Pirandello viveva in una
situazione economica agiata, grazie al commercio e all'estrazione dello
zolfo. I primi anni La casa natale di Pirandello, in località Caos
L'infanzia di Pirandello fu serena ma, come lui stesso avrebbe raccontato nel
1935, fu caratterizzata anche dalla difficoltà di comunicare con gli adulti e
in specie con i suoi genitori, in modo particolare con il padre. Questo lo
stimolò ad affinare le sue capacità espressive e a studiare il modo di
comportarsi degli altri per cercare di corrispondervi al meglio. Fin da
ragazzo soffriva d'insonnia e dormiva abitualmente solo tre ore per
notte.[5] Luigi adolescente (Agrigento, 1884) Il giovane Luigi era
molto devoto alla Chiesa cattolica grazie all'influenza che ebbe su lui una
domestica di famiglia, che lo avvicinò alle pratiche religiose, ma
inculcandogli anche credenze superstiziose fino a convincerlo della paurosa
presenza degli spiriti. La chiesa e i riti della confessione religiosa gli
permettevano diaccostarsi ad un'esperienza di misticismo, che cercherà di
raggiungere in tutta la sua esistenza.[6] Si allontanò dalle pratiche
religiose per un avvenimento apparentemente di poco conto: un prete aveva truccato
un'estrazione a sorte per far vincere un'immagine sacra al giovane Luigi;
questi rimase così deluso dal comportamento inaspettatamente scorretto del
sacerdote che non volle più avere a che fare con la Chiesa, praticando una
religiosità del tutto diversa da quella ortodossa.[7] Dopo l’istruzione
elementare impartitagli privatamente, nel 1878 fu iscritto dal padre alla regia
scuola tecnica di Girgenti, ma durante un’estate preparò, all’insaputa del
padre, il passaggio agli studi classici. In seguito a un dissesto economico, la
famiglia si trasferì a Palermo, dove il quattordicenne Luigi frequentò il regio
ginnasio Vittorio Emanuele II e dove rimase anche dopo il rientro dei suoi, nel
1885, a Porto Empedocle. Qui si appassionò subito alla letteratura. A soli
undici anni scrisse la sua prima opera, "Barbaro", andata perduta.
Per un breve periodo, nel 1886, aiutò il padre nel commercio dello zolfo, e
poté conoscere direttamente il mondo degli operai nelle miniere e quello dei
facchini delle banchine del porto mercantile. Iniziò i suoi studi
universitari a Palermo nel 1886, per recarsi in seguito a Roma, dove continuò i
suoi studi di filologia romanza che poi, anche a causa di un insanabile
conflitto con il rettore dell'ateneo capitolino[8], dovette completare, su
consiglio del suo maestro Ernesto Monaci, a Bonn[9] (1889). A Bonn,
importante centro culturale di quei tempi, Pirandello seguì i corsi di
filologia romanza ed ebbe l'opportunità di conoscere grandi maestri come Franz
Bücheler, Hermann Usener e Richard Förster. Si laureò nel 1891 con una tesi
sulla parlata agrigentina "Foni ed evoluzione fonetica del dialetto di
Girgenti" (Laute und Lautentwicklung der Mundart von Girgenti), in cui
descrisse il dialetto della sua città e quelli dell'intera provincia, che
suddivise in diverse aree linguistiche. Il tipo di studi gli fu probabilmente
di fondamentale aiuto nella stesura delle sue opere, dato il raro grado di
purezza della lingua italiana utilizzata. Nella città tedesca alla fine
di gennaio del 1890 conobbe a una festa in maschera la giovane Jenny
Schulz-Lander, della quale si innamorò e con cui andò ad abitare nella pensione
tenuta dalla madre della ragazza[10]. A lei dedicherà i versi di Pasqua di Gea
dove la descriveva come «lucifera fanciulla, tu che il mio tutto sei e pur,
forse, sei nulla» e la ricorderà anche nei versi di Fuori di chiave: «Fuori la
neve eterna fiocca; / piano l'uscio s'apre e, un dito in bocca, / entra scalza
Jenny...»[11] Quarant'anni dopo, Pirandello ormai famoso, durante un soggiorno
a New York ricevette un biglietto, a cui non rispose, da Jenny, che nel
frattempo era diventata scrittrice.[12] Il matrimonio Nel 1892 Pirandello
si trasferì a Roma, dove poté mantenersi grazie agli assegni mensili inviati
dal padre. Qui conobbe Luigi Capuana che lo aiutò molto a farsi strada nel
mondo letterario e che gli aprì le porte dei salotti intellettuali dove ebbe
modo di conoscere giornalisti, scrittori, artisti e critici. Nel 1894, a
Girgenti, Pirandello sposò Maria Antonietta Portulano (1871 - 1959), figlia di
un ricco socio del padre. Questo matrimonio concordato soddisfaceva anche gli
interessi economici della famiglia di Pirandello.[13] Nonostante ciò tra i due
coniugi nacque veramente l'amore e la passione. Grazie alla dote della moglie,
la coppia godeva di una situazione molto agiata, che permise ai due di
trasferirsi a Roma. Nel 1895, a completare l'amore tra gli sposi, nacque
il primo figlio: Stefano (1895–1972), a cui seguirono due anni dopo, Rosalia
Caterina (Lietta) (1897-1971) e nel 1899 Fausto Calogero (1899–1975).
Maria Antonietta Portulano Il crollo finanziario e la malattia della
moglie Nel 1903, un allagamento e una frana nella miniera di zolfo di Aragona
di proprietà del padre, nella quale era stata investita parte della dote di
Antonietta, e da cui anche Pirandello e la sua famiglia traevano un notevole
sostentamento, li ridusse sul lastrico[14]. Questo avvenimento accrebbe
il disagio mentale, già manifestatosi, della moglie di Pirandello, Antonietta.
Ella era sempre più spesso soggetta a crisi isteriche, causate anche dalla
gelosia, a causa delle quali o lei rientrava dai genitori in Sicilia, o
Pirandello era costretto a lasciare la casa. La malattia prese la forma di una
gelosia delirante e paranoica, che la portava a scagliarsi contro tutte le
donne che parlassero col marito, o che lei pensava che volessero avere un
qualche tipo di rapporto con lui; perfino la figlia Lietta susciterà la sua
gelosia[15], e a causa del comportamento della madre tenterà il suicidio e poi se
ne andrà di casa[16]. La chiamata alle armi di Stefano nella Grande Guerra
peggiorò ulteriormente la sua situazione mentale[17]. Solo diversi anni
dopo, nel 1919, egli, ormai disperato, acconsentì che Antonietta fosse
ricoverata in un ospedale psichiatrico[14][17]. Antonietta Portulano morirà in
una clinica per malattie mentali di Roma, sulla via Nomentana, nel 1959 a 88
anni di età[17]. La malattia della moglie portò lo scrittore ad approfondire,
portandolo ad avvicinarsi alle nuove teorie sulla psicoanalisi di Sigmund
Freud, lo studio dei meccanismi della mente e ad analizzare il comportamento
sociale nei confronti della malattia mentale[17]. Spinto dalle
ristrettezze economiche e dallo scarso successo delle sue prime opere
letterarie, e avendo come unico impiego fisso la cattedra di stilistica
all'Istituto superiore di magistero femminile (che tenne dal 1897 al 1922)[14],
lo scrittore dovette impartire lezioni private[14] di italiano e di tedesco,
dedicandosi anche intensamente al suo lavoro letterario. Dal 1909 iniziò anche
una collaborazione con il Corriere della Sera. Il primo grande
successo Luigi Pirandello (1920) Il suo primo grande successo fu merito
del romanzo Il fu Mattia Pascal, scritto nelle notti di veglia alla moglie
paralizzata alle gambe.[18] Il libro fu pubblicato nel 1904 e subito tradotto
in diverse lingue. La critica non diede subito al romanzo il successo che
invece ebbe tra il pubblico. Numerosi critici non seppero cogliere il carattere
di novità del romanzo, come d'altronde di altre opere di Pirandello.
Perché Pirandello arrivasse al successo si dovette aspettare il 1922, quando si
dedicò totalmente al teatro. Lo scrittore siciliano aveva rinunciato a scrivere
opere teatrali, quando l'amico Nino Martoglio gli chiese di mandare in scena
nel suo Teatro Minimo presso il Teatro Metastasio di Roma alcuni suoi lavori:
Lumie di Sicilia e l'Epilogo, un atto unico scritto nel 1892. Pirandello
acconsentì e la rappresentazione il 9 dicembre del 1910 dei due atti unici ebbe
un discreto successo. Tramite i buoni uffici del suo amico Martoglio anche
Angelo Musco volle cimentarsi con il teatro pirandelliano: Pirandello tradusse
per lui in siciliano Lumie di Sicilia, rappresentato con grande successo al
Teatro Pacini di Catania il 1º luglio 1915. Cominciò da questa data la
collaborazione con Musco che incominciò a guastarsi dopo qualche tempo per
la diversità di opinioni sulla messa in scena di Musco della commedia Liolà nel
novembre del 1916 al teatro Argentina diRoma[19]: «Gravi dissensi» di cui Pirandello
scriveva nel 1917 al figlio Stefano.[20] Dalla Grande Guerra al Nobel: il
successo internazionale Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Teatro
d'Arte di Roma. La guerra fu un'esperienza dura per Pirandello; il figlio Stefano
venne infatti imprigionato dagli austriaci, e, una volta rilasciato, ritornò in
Italia gravemente malato e con i postumi di una ferita. Durante la guerra,
inoltre, le condizioni psichiche della moglie si aggravarono al punto da
rendere inevitabile il ricovero in manicomio (1919) dove rimase, come detto,
fino alla morte.[17] Dopo la guerra, lo scrittore si immerse in un lavoro
frenetico, dedicandosi soprattutto al teatro. Nel 1925 fondò la Compagnia del
Teatro d'Arte di Roma con due grandissimi interpreti dell'arte pirandelliana:
Marta Abba e Ruggero Ruggeri. Con questa compagnia cominciò a viaggiare per il
mondo: le sue commedie vennero rappresentate anche nei teatri di
Broadway. Nel giro di un decennio arrivò ad essere il drammaturgo di maggior
fama nel mondo, come testimonia il premio Nobel per la letteratura ricevuto nel
1934,[17] "per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell'arte drammatica
e teatrale"[21]. Degno di nota fu lo stretto rapporto con la giovane Abba,
sua musa ispiratrice, della quale Pirandello, secondo molti biografi e
conoscenti, era innamorato forse solamente in maniera
platonica.[22][23][24] Molte delle opere pirandelliane cominciavano
intanto ad essere trasposte al cinema: Pirandello andava spesso ad assistere
alla lavorazione dei film; andò anche negli Stati Uniti d'America, dove famosi
attori e attrici di Hollywood, come Greta Garbo, interpretavano i suoi
soggetti. Nell'ultimo di questi viaggi (1935) andò a trovare, su invito, Albert
Einstein a Princeton. In una conferenza stampa Pirandello difese con veemenza
la politica estera del fascismo, con la guerra d'Etiopia, accusando i
giornalisti statunitensi di ipocrisia, citando il colonialismo contro i nativi
americani.[25] Pirandello e la politica: l'adesione al fascismo Pirandello
non aveva mai preso specifiche posizioni politiche, tranne l'ammirazione per il
patriottismo garibaldino di famiglia, unica certezza in un'epoca di crisi.
L'idea politica di fondo di Pirandello era legata principalmente a questo
patriottismo risorgimentale. Una sua lettera apparsa nel 1915 sul Giornale di
Sicilia testimonia gli ideali patriottici della famiglia, proprio nei primi
mesi dallo scoppio della Grande Guerra durante la quale il figlio Stefano fu
fatto prigioniero dagli austriaci e rinchiuso, per la maggior parte della
prigionia, nel campo di concentramento di Pian di Boemia, presso Mauthausen.
Pirandello non riuscì a far liberare il figlio malato neppure con l'intervento
del papa Benedetto XV.[26] Nella sua vita condivise alcune delle idee dei
giovani Fasci siciliani e del socialismo; ne I vecchi e i giovani si nota come
l'idea politica di Pirandello era stata oscurata dalla riflessione
"umoristica". Per Pirandello, i siciliani avevano subìto le peggiori
ingiustizie dai vari governi italiani: è questa l'unica idea forte che ci
presenta. Nella prima guerra mondiale, come detto, fu un interventista,
anche se avrebbe preferito che il figlio non partecipasse in prima linea alla
guerra, cosa che invece Stefano farà, arruolandosi volontario immediatamente e
rimanendo ferito e prigioniero degli austriaci, situazione che sarà
estremamente angosciosa per lo scrittore.[27] Nel primo dopoguerra non aderì
subito ai Fasci di combattimento, tuttavia pochi anni dopo espliciterà
l'adesione al fascismo, ormai istituzionalizzato. Il 28 ottobre 1923 fu
ricevuto da Mussolini a Palazzo Chigi. Il 17 settembre 1924 Pirandello chiese
l'iscrizione al PNF inviando un telegramma a Mussolini, pubblicato subito
dall'agenzia Stefani: «Eccellenza, sento che questo è per me il momento
più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se
l'E.V. mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregerò come
massimo onore tenermi il posto del più umile e obbediente gregario. Con
devozione intera.[28][29]» Il telegramma arrivava in un momento di grande
difficoltà per il presidente del Consiglio dopo il ritrovamento il 16 agosto
del corpo dell'on. Giacomo Matteotti.[28][30] Per la sua adesione al
fascismo, Pirandello fu duramente attaccato da alcuni intellettuali e politici
italiani fra cui il deputato liberale Giovanni Amendola che in un articolo
arrivò a dargli dell'"accattone" che voleva a tutti i costi divenir
senatore del Regno.[31] Pirandello, pur non ritrovandosi caratterialmente con
Mussolini e molti gerarchi, che riteneva persone troppo rozze e volgari[32],
oltre che poco interessati alla vera arte[33], non rinnegò mai la sua adesione
al fascismo, motivata tra le altre cose da una profonda sfiducia nei regimi
socialdemocratici (così come non si interessò mai del marxismo, solo ne I
vecchi e i giovani mostra un leggero interesse per il socialismo), regimi nei
quali sin da inizio Novecento si andavano trasformando le democrazie liberali,
che riteneva a loro volta corrotte, portando ad esempio gli scandali dell'età
giolittiana e il trasformismo; provava inoltre un deciso disprezzo per la
classe politica del tempo[31][34], che avrebbe voluto vedere,
nichilisticamente, cancellata dalla vita del Paese, e una forte sfiducia verso
la «massa» caotica del popolo, che andava, secondo lui, istruita e guidata da
una sorta di "monarca illuminato".[32] Pirandello al
«Théâtre Edouard VII» per i Sei personaggi in cerca d'autore (Parigi, 1925) Nel
1925 Pirandello fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti,
redatto da Giovanni Gentile. L'adesione di Pirandello al Fascismo fu per molti
imprevista e sorprese anche i suoi più stretti amici; sostanzialmente egli, per
un certo conservatorismo che comunque aveva, guardava al Duce come riorganizzatore
di una società in disfacimento e ormai completamente disordinata.[35]
Un'altra motivazione addotta per spiegare tale scelta politica è che il
fascismo lo riconduceva a quegli ideali patriottici e risorgimentali di cui
Pirandello era convinto sostenitore, anche per le radici garibaldine del padre.
Pirandello vedeva, secondo questa tesi, nel Fascismo la prima idea originale
post-risorgimentale, che doveva rappresentare la "forma" nuova
dell'Italia destinata a divenire modello per l'Europa.[36] Potrebbe apparire
un punto di contatto tra Pirandello e il fascismo[37] il sostenuto relativismo
filosofico di entrambi. In realtà ben diverso è il relativismo morale fascista
fondato sull'attivismo soreliano[38][39] e il relativismo esistenziale
pirandelliano che si richiama all'originario movimento scettico-razionale
europeo della fine del XIX secolo e l'inizio del XX.[40] Pirandello
nel 1932 «Pirandello si fa interprete di un relativismo pessimistico,
angosciato, negatore di ogni certezza, del tutto incompatibile con l'ansia
attivistica o relativistica - positiva - del nostro tempo[40]» Sempre nel
solco di Amendola e dei critici antifascisti vi è anche un commento più
pragmatico alla sua iscrizione al Partito fascista, la quale avrebbe avuto
origine nel suo ricercare finanziamenti per la creazione della sua nuova
compagnia teatrale, che avrebbe così avuto il sostegno del regime e le relative
sovvenzioni, anche se il governo, perfino dopo il Nobel, gli preferì sempre
Gabriele D'Annunzio e Grazia Deledda, anche lei vincitrice del premio, come
letterati ideali del regime, mentre Pirandello ebbe molta difficoltà a reperire
i fondi statali, che Mussolini spesso non voleva concedergli.[22][32][33]
In ogni caso, come detto, non furono infrequenti suoi scontri violenti con
autorità fasciste e dichiarazioni aperte di apoliticità: «Sono apolitico: mi
sento soltanto uomo sulla terra. E, come tale, molto semplice e parco; se vuole
potrei aggiungere casto...».[32] Clamoroso fu il gesto del 1927, narrato da
Corrado Alvaro[41], in cui Pirandello a Roma strappò la sua tessera del partito
davanti agli occhi esterrefatti del Segretario Nazionale.[42] Nonostante ciò,
una rottura aperta col fascismo non si onsumerà mai.[35] Nel 1928 si
concluse senza troppa fortuna l'esperienza del Teatro d'Arte cominciata quattro
anni prima; dopo lo scioglimento, in tacita polemica con il regime fascista che
a suo avviso era troppo parco di sostegno ai suoi progetti teatrali, Pirandello
si ritirò per qualche mese a Berlino insieme a Marta Abba, primadonna della
compagnia. Forse a parziale compensazione di questo mancato sostegno, nel 1929
Pirandello fu uno dei primi 30 accademici, nominati direttamente da Mussolini,
della neo costituita Reale Accademia d'Italia. Nel 1935, in nome dei suoi
ideali patriottici, partecipò alla raccolta dell'"oro per la patria"
donando la medaglia del premio Nobel ricevuto l'anno prima[43], cosa fatta, tra
gli altri, anche dall'antifascista Benedetto Croce, che donò la medaglia da
senatore. Questa scelta di adesione al regime è stata spesso sia
minimizzata sia accentuata dalla critica, poiché sostanzialmente l'ideologia
fascista non ebbe mai parte nella vita e nell'opera pirandelliana, abbastanza
avulse della realtà politica, così che egli non fu in grado di vedere e giudicare
le violenze fasciste; tuttavia il contenuto idealmente anarchico, corrosivo,
pessimista e quasi sempre anti-sistema delle sue opere era guardato con
sospetto da molti intellettuali e uomini politici del PNF, che non lo
consideravano una vera "arte fascista".[44] La critica fascista
difatti non sempre esaltava le opere di Pirandello, spesso considerandole non
conformi agli ideali fascisti: vi si vedeva una certa insistenza e
considerazione di quella borghesia altolocata (che pure Pirandello non amava
particolarmente) che il fascismo formalmente condannava come corrotta e
decadente. Gli arzigogoli filosofici dei personaggi dei drammi borghesi
pirandelliani erano considerati quanto di più lontano dall'attivismo
fascista.[45] Anche dopo l'attribuzione del Nobel parecchi lavori furono
accusati dalla stampa di regime di disfattismo tanto che anche Pirandello finì
tra i "controllati speciali" dell'OVRA.[46] Negli ultimi anni
viaggerà difatti molto, andrà in Francia e negli Stati Uniti, quasi in un volontario
esilio dal clima culturale italiano di quegli anni.[35] Nonostante i suoi elogi
al capo del governo, il Duce farà sequestrare l'opera La favola del figlio
cambiato, per alcune scene ritenute non consone, impedendone le repliche (a
Pirandello verrà imposta, per contrasto, la regia dell'opera dannunziana La
figlia di Jorio).[22] Le volontà testamentarie di Pirandello, infine, che
negavano ogni funerale e celebrazione dopo la morte dello scrittore, metteranno
in imbarazzo i fascisti e lo stesso Mussolini, che ordinò così alla stampa che
non ci fossero troppe celebrazioni postume sui quotidiani, ma che ne fosse data
solo la notizia, come di un semplice fatto di cronaca.[32] Il rifugio di
Soriano nel Cimino Luigi Pirandello amava trascorrere ampi periodi dell'anno
nella quiete di Soriano nel Cimino (VT) un'amena e bella cittadina ricca di
monumenti storici e immersa nei boschi del Monte Cimino. In particolare
Pirandello rimase affascinato dalla maestosità e dalla quiete di uno stupendo
castagneto situato nella località di "Pian della Britta", a cui volle
dedicare un'omonima poesia, che oggi è scolpita su una lapide di marmo posta
proprio in tale località. Pirandello ambientò a Soriano nel Cimino
(citando luoghi, località e personaggi realmente esistiti) anche due tra le sue
più celebri novelle Rondone e Rondinella e Tomassino ed il filo d'erba. A
Soriano nel Cimino, è rimasto vivo ancora oggi il ricordo di Pirandello a cui
sono dedicati monumenti, lapidi e strade. Luigi Pirandello frequentò
anche Arsoli per molti anni, soprattutto durante i periodi estivi, dove amava
dissetarsi con una gassosa nell'allora bar Altieri in piazza Valeria. Il suo
amore per il paese si ritrova nella definizione che egli stesso diede ad Arsoli
chiamandola "La piccola Parigi". La morte e il testamento
Appassionato di cinematografia, mentre assisteva a Cinecittà alle riprese di un
film tratto dal suo romanzo Il fu Mattia Pascal, nel novembre 1936 si ammalò di
polmonite.[47] Pirandello aveva 69 anni, e aveva già subito due attacchi di
cuore; il suo corpo, ormai segnato dal tempo e dagli avvenimenti della vita,
non sopportò oltre. Al medico che tentava di curarlo, disse: «Non abbia tanta
paura delle parole, professore, questo si chiama morire»; dopo 15 giorni, la
malattia si aggravò e il 10 dicembre 1936 Pirandello morì, lasciando incompiuto
l'ultimo lavoro teatrale, I giganti della montagna, opera a sfondo
mitologico.[17] Il terzo atto venne ideato e illustrato al figlio Stefano
nell'ultima notte di vita, che lo scrisse poi sotto forma narrativa, tentandone
anche una ricostruzione, onde integrare la sceneggiatura del dramma che
solitamente è però rappresentato nella forma incompiuta, in due atti.[48]
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Le ceneri di Pirandello. Per Pirandello il
regime fascista avrebbe voluto esequie di Stato. Vennero invece rispettate le
sue volontà espresse nel testamento: «Carro d'infima classe, quello dei poveri.
Nudo. E nessuno m'accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il
cocchiere e basta. Bruciatemi».[14] Per sua volontà il corpo, senza alcuna
cerimonia, fu cremato, per evitare postume consacrazioni cimiteriali e
monumentali. Le sue ceneri furono deposte in una preziosa anfora greca già di
sua proprietà e tumulate nel cimitero del Verano. Successivamente, nel 1947,
Andrea Camilleri e altri quattro studenti dettero il via a un lento e
travagliato adempimento delle sue ultime volontà (in caso non fosse stato
possibile lo spargimento): far seppellire le ceneri nel giardino della villa di
contrada "Caos", dove era nato. Il giurista e politico Gaspare
Ambrosini, dopo il rifiuto di un pilota statunitense di volare da Roma a
Palermo con a bordo le ceneri di un morto, trasportò l'anfora in treno, chiusa
in una cassetta di legno. A Palermo il corteo funebre venne però bloccato dal
vescovo di Agrigento Giovanni Battista Peruzzo, contrario a un corteo con un
defunto cremato. Camilleri si recò dal vescovo, che rimase inamovibile; il
futuro scrittore propose allora con successo l'idea di inserire l'anfora in una
bara, che venne appositamente affittata. Il corteo, per un breve tratto a piedi
e poi a bordo di una littorina, giunse ad Agrigento.[49] Dopo una cerimonia
religiosa, l'anfora con le ceneri venne estratta dalla bara e riposta nel Museo
Civico di Agrigento, in attesa della costruzione di un monumento nel giardino
della villa. Solo dopo parecchi anni dalla morte, nel 1962, realizzata una
scultura monolitica di Renato Marino Mazzacurati, artista vincitore del
concorso indetto, costituita principalmente da una grossa pietra non lavorata,
le ceneri vennero portate nel giardino e versate in un cilindro di rame
inserito nel terreno, che venne chiuso da una pietra sigillata con del
cemento. Una parte rimanente delle ceneri, trovata anni dopo attaccata ai
lati interni dell'anfora, non essendo più contenibile nel cilindro ricolmo e
riaperto per l'occasione, venne dispersa, rispettando il desiderio originario
di Pirandello stesso.[50] Il pensiero Pirandello nel 1924 «...
davanti agli occhi di una bestia crolla come un castello di carte qualunque
sistema filosofico.» (L. Pirandello, dai Foglietti[51]) Pirandello si
occupò di questioni teoriche fin da giovane nonostante fosse convinto che
qualunque filosofia sarebbe fallita di fronte all'insondabilità dell'uomo
quando in lui prevale la "bestia", l'aspetto animalesco e
irrazionale. Si avvicinò alle teorie dello psicologo Alfred Binet sulla
pluralità dell'io. Pubblicò nel 1908 i saggi Arte e Scienza e L'umorismo
caratterizzati da un'esposizione di stile colloquiale, molto lontana dal
consueto discorso filosofico. Le due opere sono espressione di un'unica
maturazione artistica ed esistenziale che ha coinvolto lo scrittore siciliano
all'inizio del Novecento e che vede come centrale proprio la poetica dell'umorismo.L'umorismo
L'Umorismo, la prima edizione del 1908 Nel 1908 Pirandello scrive L'umorismo,
un saggio dove confluiscono idee, brani di scritti e appunti precedenti: ad
esempio sue varie chiose e annotazioni a L'indole e il riso di Luigi Pulci di
Attilio Momigliano e parti dell'articolo Alberto Cantoni, che era apparso già
nella «Nuova Antologia» del 16 marzo 1905. Come ha osservato Daniela
Marcheschi, L'umorismo di Pirandello si inserisce «in un rigoglioso e più che
secolare campo di meditazione e ricerca sull'omonimo tema; e ai primi del
Novecento rappresenta, nel nostro paese, il momento riepilogativo probabilmente
più soddisfacente, per l'epoca, di una serie di acquisizioni teoriche che la
cultura internazionale aveva chiare e consolidate da tempo. Bisognerà infatti
aspettare l'importante studio di Alberto Piccoli Genovese, Il Comico, l’Umore e
la Fantasia o Teoria del Riso come Introduzione all’Estetica, pubblicato nel
1926 presso la casa editrice Fratelli Bocca, a Torino, per avere un saggio di ampia
informazione e documentazione, di solido spessore speculativo - pur
nell'ispirazione idealistica d'ascendenza crociana da cui prende le mosse:
tecnicamente persuasivo, insomma, e con ben altre fondamenta teoretiche.
Peraltro, in un panorama di non rara fossilizzazione culturale come quello
dell'Italia contemporanea, va detto che l'opera di Piccoli Genovese è stata
appaiata forse soltanto dal coraggioso volume, e di molti anni posteriore, Homo
ridens. Estetica, Filologia, Psicologia, Storia del Comico, che Paolo
Santarcangeli ha dato alle stampe nel 1989 a Firenze, con l'editore
Olsckhi»[52]. Nel succitato saggio Pirandello distingue il comico
dall'umoristico[53] Il primo, definito come "avvertimento del
contrario"[54], nasce dal contrasto tra l'apparenza e la realtà. Nel
saggio Pirandello ce ne fornisce un esempio: «Vedo una vecchia signora, coi
capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta
goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere.
"Avverto" che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una
rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e
superficialmente, arrestarmi a questa espressione comica. Il comico è appunto
un "avvertimento del contrario"» (L. Pirandello, L'umorismo,
Parte seconda[55]) L'umorismo, il "sentimento del contrario", invece
nasce da una considerazione meno superficiale della situazione: «Ma se
ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora
non prova forse piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne
soffre e lo fa soltanto perché pietosamente, s'inganna che, parata così,
nascondendo le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito
molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché
appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo
avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del
contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui
la differenza tra il comico e l'umoristico» (L. Pirandello, L'umorismo,
Parte seconda[55]) Quindi, mentre il comico genera quasi immediatamente la
risata perché mostra subito la situazione evidentemente contraria a quella che
dovrebbe normalmente essere, l'umorismo nasce da una più ponderata riflessione
che genera una sorta di compassione da cui si origina un sorriso di
comprensione. Nell'umorismo c'è il senso di un comune sentimento della
fragilità umana da cui nasce un compatimento per le debolezze altrui che sono
anche le proprie. L'umorismo è meno spietato del comico che giudica in maniera
immediata. «non ci fermiamo alle apparenze, ciò che inizialmente ci
faceva ridere adesso ci farà tutt'al più sorridere.» (Luigi Pirandello)
La poetica dell'Umorismo Pirandelliana, in realtà nasce già quando, nel 1904,
pubblica le due premesse de Il fu Mattia Pascal dove richiamandosi a Il
Copernico di Leopardi del 1827 nelle Operette morali riprende l'ironia
letteraria di Leopardi che attribuiva la scoperta copernicana dell'eliocentrismo
alla pigrizia del Sole stanco di girare attorno ai pianeti. Il richiamo a
Copernico si ritrova poi nel saggio su L'umorismo (cap. 5 della seconda parte),
dove Pirandello vede una notazione umoristica nella contrapposizione di due
sentimenti opposti per i quali dopo la scoperta copernicana l'uomo scopre di
essere una parte infinitesimale dell'universo e nello stesso tempo la sua
capacità di compenetrarsene. La crisi dell'io L'analisi dell'identità
condotta da Pirandello lo portò a formulare la teoria della crisi dell'io. In
un articolo del 1900 scrisse: «Il nostro spirito consiste di frammenti, o
meglio, di elementi distinti, più o meno in rapporto tra loro, i quali si
possono disgregare e ricomporre in un nuovo aggregamento, così che ne risulti
una nuova personalità, che pur fuori dalla coscienza dell'io normale, ha una
propria coscienza a parte, indipendente, la quale si manifesta viva e in atto,
oscurandosi la coscienza normale, o anche coesistendo con questa, nei casi di
vero e proprio sdoppiamento dell'io. [...] Talché veramente può dirsi che due
persone vivono, agiscono a un tempo, ciascuna per proprio conto, nel medesimo
individuo. Con gli elementi del nostro io noi possiamo perciò comporre,
costruire in noi stessi altri individui, altri esseri con propria coscienza,
con propria intelligenza, vivi e in atto.» Paradossalmente, il solo modo
per recuperare la propria identità è la follia, tema centrale in molte opere,
come l'Enrico IV o come Il berretto a sonagli, nel quale Pirandello inserisce
addirittura una ricetta per la pazzia: dire sempre la verità, la nuda,
cruda e tagliente verità, infischiandosene dei riguardi, delle maniere, delle
ipocrisie e delle convenzioni sociali. Questo comportamento porterà presto
all'isolamento da parte della società e, agli occhi degli altri, alla
pazzia. Abbandonando le convenzioni sociali e morali l'uomo può ascoltare
la propria interiorità e vivere nel mondo secondo le proprie leggi, cala la
maschera e percepisce se stesso e gli altri senza dover creare un personaggio,
è semplicemente persona. Esemplare di tale concezione è l'evoluzione di
Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila. La
"lanterninosofia" Ancora sulla crisi dell'identità del singolo
impotente con la sua razionalità di fronte al mistero universale che lo
circonda, Pirandello, all'inizio del XIII capitolo del romanzo Il fu Mattia
Pascal, espone metaforicamente la sua filosofia del "lanternino",
tramite il monologo che il personaggio di Anselmo Paleari rivolge al
protagonista Mattia Pascal, in cui la piccola lampada rappresenta il sentimento
umano, che non riesce ad alimentarsi se non tramite le illusioni di fede e
ideologie varie ("i lanternoni"), ma che altrimenti provoca
l'angoscia del buio che lo circonda all'uomo, l'animale che ha il triste
privilegio di "sentirsi vivere".[56] «[Il lanternino] che
proietta tutto intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal
quale è l'ombra nera, l'ombra paurosa che non esisterebbe se il lanternino non
fosse acceso in noi, ma che noi purtroppo dobbiamo credere vera, fintanto
ch'esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine da un soffio, ci accoglierà
la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo
noi piuttosto alla mercé dell'Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme
della nostra ragione?» (Il fu Mattia Pascal, capitolo XIII, Il
lanternino) La sua sfiducia verso la fede religiosa tradizionale lo porta ad
accentuare così il proprio vuoto spirituale, che cercò di riempire, come il citato
personaggio del Paleari, con l'interesse personale verso l'occultismo, la
teosofia e lo spiritismo, che tuttavia non gli daranno la serenità
esistenziale.[57] Il contrasto tra vita e forma Luigi Pirandello svolge
una ricerca inesausta sull'identità della persona nei suoi aspetti più
profondi, dai quali dipendono sia la concezione che ogni persona ha di sé, sia
le relazioni che intrattiene con gli altri. Influenzato dalla filosofia
irrazionalistica di fine secolo, in particolare di Bergson, Pirandello ritiene
che l'universo sia in continuo divenire e che la vita sia dominata da una
mobilità inesauribile e infinita. L'uomo è in balia di questo flusso dominato
dal caso, ma a differenza degli altri esseri viventi tenta, inutilmente, di
opporsi costruendo forme fisse, nelle quali potersi riconoscere, ma che
finiscono con il legarlo a maschere in cui non può mai riconoscersi o alle
quali è costretto a identificarsi per dare comunque un senso alla propria
esistenza.[58] Se l'essenza della vita è il flusso continuo, il perenne
divenire, quindi fissare il flusso equivale a non vivere, poiché è impossibile
fissare la vita in un unico punto. Questa dicotomia tra vita e forma,
accompagnerà l'autore in tutta la sua produzione evidenziando la sconfitta
dell'uomo di fronte alla società, dovuta all'impossibilità di fuggire alle
convenzioni di quest'ultima se non con la follia. Solo il "folle",
che pure è una figura sofferente ed emarginata, riesce talvolta a liberarsi
dalla maschera, e in questo caso può avere un'esistenza autentica e vera, che
resta impossibile agli altri in quanto non è fattibile denudare la maschera o
le maschere, la propria identità (Maschere nude è infatti il titolo della
raccolta delle sue opere teatrali).[58] Questa riflessione, che si
rispecchia nelle varie opere con accenti ora lievi ora gravi e tragici, è
stata, ad opera soprattutto dello studioso Adriano Tilgher, interpretata come
un sistema filosofico basato sul contrasto tra la Vita e la Forma, che talvolta
ha fatto esprimere alla critica un giudizio negativo delle ultime opere
precedenti al "teatro dei miti", accusate a volte di
"pirandellismo", cioè di riproporre sempre lo stesso schema di
lettura.[58] Luigi Pirandello (1930) Il relativismo psicologico o
conoscitivo «La verità? è solo questa: che io sono, sì, la figlia della signora
Frola - Ah! - E la seconda moglie del signor Ponza - Oh! E come? - Sì; e per me
nessuna! nessuna! - Ah, no, per sé, lei, signora: sarà l'una o l'altra! -
Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede. (...) Ed ecco, o signori,
come parla la verità.» (Dialogo finale di Così è (se vi pare)) Dal
contrasto tra la vita e la forma nasce il relativismo psicologico che si
esprime in due sensi: orizzontale, ovvero nel rapporto interpersonale, e
verticale, ovvero nel rapporto che una persona ha con se stessa. Gli
uomini nascono liberi ma il Caso interviene nella loro vita precludendo ogni
loro scelta: l'uomo nasce in una società precostituita dove ad ognuno viene
assegnata una parte secondo la quale deve comportarsi. Ciascuno è
obbligato a seguire il ruolo e le regole che la società impone, anche se l'io
vorrebbe manifestarsi in modo diverso: solo per l'intervento del caso può
accadere di liberarsi di una forma per assumerne un'altra, dalla quale non sarà
più possibile liberarsi per tornare indietro, come accade al protagonista de Il
fu Mattia Pascal. L'uomo dunque non può capire né gli altri né tanto meno
se stesso, poiché ognuno vive portando - consapevolmente o, più spesso,
inconsapevolmente - una maschera dietro la quale si agita una moltitudine di
personalità diverse e inconoscibili. Queste riflessioni trovano la più
esplicita manifestazione narrativa nel romanzo Uno, nessuno e centomila:
Uno perché ogni persona crede di essere un individuo unico con caratteristiche particolari;
Centomila perché l'uomo ha, dietro la maschera, tante personalità quante sono
le persone che ci giudicano; Nessuno perché, paradossalmente, se l'uomo ha
centomila personalità diverse, invero, è come se non ne possedesse nessuna, nel
continuo cambiare non è capace di fermarsi nel suo vero
"io".[59] L'incomunicabilità Il relativismo conoscitivo e psicologico
su cui si basa il pensiero di Pirandello si scontra con il conseguente problema
dell'incomunicabilità tra gli uomini: poiché ogni persona ha un proprio modo di
vedere la realtà, non esiste un'unica realtà oggettiva, ma tante realtà quante
sono le persone che credono di possederla e dunque ognuno ha una propria
"verità". L'incomunicabilità produce quindi un sentimento di
solitudine ed esclusione dalla società e persino da se stessi, poiché proprio
la crisi e frammentazione dell'io interiore crea diversi io discordanti. Il
nostro spirito consiste di frammenti che ci fanno scoprire di essere "uno,
nessuno, centomila". I personaggi dei drammi pirandelliani, come il
Vitangelo Moscarda del romanzo Uno, nessuno e centomila e i protagonisti della
commedia Sei personaggi in cerca di autore, di conseguenza avvertono un
sentimento di estraneità dalla vita che li fanno sentire «forestieri della
vita»[60], nonostante la continua ricerca di un senso dell'esistenza e di
un'identificazione di un proprio ruolo, che vada oltre la maschera, o le
diverse e innumerevoli maschere, con cui si presentano al cospetto della
società o delle persone più vicine. La reazione al relativismo Reazione
passiva L'uomo accetta la maschera, che lui stesso ha messo o con cui gli altri
tendono a identificarlo. Ha provato sommessamente a mostrarsi per quello che
lui crede di essere ma, incapace di ribellarsi o deluso dopo l'esperienza di
vedersi attribuita una nuova maschera, si rassegna. Vive nell'infelicità, con
la coscienza della frattura tra la vita che vorrebbe vivere e quella che gli
altri gli fanno vivere per come essi lo vedono. Accetta alla fine passivamente
il ruolo da recitare che gli si attribuisce sulla scena dell'esistenza. Questa
è la reazione tipica delle persone più deboli come si può vedere nel romanzo Il
fu Mattia Pascal. Reazione ironico - umoristica Primo piano di
Luigi Pirandello Il soggetto non si rassegna alla sua maschera però accetta il
suo ruolo con un atteggiamento ironico, aggressivo o umoristico. Ne fanno
esempio varie opere di Pirandello come: Pensaci Giacomino, Il giuoco delle
parti e La patente. Il personaggio principale di quest'ultima opera, Rosario Chiàrchiaro,
è un uomo cupo, vestito sempre in nero che si è fatto involontariamente la
nomea di iettatore e per questo è sfuggito da tutti ed è rimasto senza lavoro.
Il presunto iettatore non accetta l'identità che gli altri gli hanno attribuito
ma comunque se ne serve. Va dal giudice e, poiché tutti sono convinti che sia
un menagramo, pretende la patente di iettatore autorizzato. In questo modo avrà
un nuovo lavoro: chi vuole evitare le disgrazie che promanano da lui dovrà
pagare per allontanarlo. La maschera rimane ma almeno se ne ricava un
vantaggio. Reazione drammatica L'uomo, accortosi del relativismo, si
renderà conto che l'immagine che aveva sempre avuto di sé non corrisponde in
realtà a quella che gli altri avevano di lui e cercherà in ogni modo di carpire
questo lato inaccessibile del suo io. Vuole togliersi la maschera che gli
è stata imposta e reagisce con disperazione. Non riesce a strapparsela e allora
se è così che lo vuole il mondo, egli sarà quello che gli altri credono di
vedere in lui e non si fermerà nel mantenere questo suo atteggiamento sino alle
ultime e drammatiche conseguenze. Si chiuderà in una solitudine disperata che
lo porta al dramma, alla pazzia o al suicidio. Da tale sforzo verso un
obiettivo irraggiungibile nascerà la voluta follia. La follia è infatti in
Pirandello lo strumento di contestazione per eccellenza delle forme fasulle
della vita sociale, l'arma che fa esplodere convenzioni e rituali, riducendoli
all'assurdo e rivelandone l'inconsistenza. Solo e unico modo per vivere,
per trovare il proprio io, è quello di accettare il fatto di non avere
un'identità, ma solo centomila frammenti (e quindi di non essere
"uno" ma "nessuno"), accettare l'alienazione completa da se
stessi. Tuttavia la società non accetta il relativismo, e chi lo fa viene
ritenuto pazzo. Esemplari sono i personaggi dei drammi Enrico IV, dei Sei
personaggi in cerca d'autore, o di Uno, nessuno e centomila. Teatro
Busto di Pirandello in un parco di Palermo, il "Giardino Inglese". Il
busto si trova vicino all'ingresso di via Libertà. Pirandello divenne famoso
proprio grazie al teatro che chiama teatro dello specchio, perché in esso viene
raffigurata la vita vera, quella nuda, amara, senza la maschera dell'ipocrisia
e delle convenienze sociali, di modo che lo spettatore si guardi come in uno
specchio così come realmente è, e diventi migliore. Dalla critica viene
definito come uno dei grandi drammaturghi del XX secolo. Scriverà moltissime
opere[61], alcune delle quali rielaborazioni delle sue stesse novelle, che
vengono divise in base alla fase di maturazione dell'autore: Prima fase -
Il teatro siciliano Seconda fase - Il teatro umoristico/grottesco Terza fase -
Il teatro nel teatro (metateatro) Quarta fase - Il teatro dei miti Generalmente
si attribuisce l'interesse di Pirandello per il teatro agli anni della
maturità, ma alcuni precedenti mostrano come tale convinzione necessiti di una
rivalutazione: in gioventù, infatti, Pirandello compose alcuni lavori teatrali,
andati perduti poiché da lui stesso bruciati (tra gli altri, il copione de Gli
uccelli dell'alto). In una lettera del 4 dicembre 1887, indirizzata alla
famiglia, si legge: «Oh, il teatro drammatico! Io lo conquisterò. Io non
posso penetrarvi senza provare una viva emozione, senza provare una sensazione
strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene. Quell'aria pesante chi vi
si respira, m'ubriaca: e sempre a metà della rappresentazione io mi sento preso
dalla febbre, e brucio. È la vecchia passione chi mi vi trascina, e non vi
entro mai solo, ma sempre accompagnato dai fantasmi della mia mente, persone
che si agitano in un centro d'azione, non ancora fermato, uomini e donne da
dramma e da commedia, viventi nel mio cervello, e che vorrebbero d'un subito
saltare sul palcoscenico. Spesso mi accade di non vedere e di non ascoltare
quello che veramente si rappresenta, ma di vedere e ascoltare le scene che sono
nella mia mente: è una strana allucinazione che svanisce ad ogni scoppio di
applausi, e che potrebbe farmi ammattire dietro uno scoppio di fischi!»
(Luigi Pirandello, da una lettera ai familiari del 4 dicembre 1887[62]) È in
questa dimensione che si parla di "teatro mentale"[63]: lo spettacolo
non è subito passivamente ma serve come pretesto per dar voce ai
"fantasmi" che popolano la mente dell'autore (nella prefazione ai Sei
personaggi in cerca d'autore Pirandello chiarirà di come la Fantasia prenda
possesso della sua mente per presentargli personaggi che vogliono vivere, senza
che lui li cerchi). In un'altra missiva, spedita da Roma e datata 7 gennaio
1888, Pirandello sostiene che la scena italiana gli appare decaduta:
«Vado spesso in teatro, e mi diverto e me la rido in veder la scena italiana
caduta tanto in basso, e fatta sgualdrinella isterica e noiosa» (Luigi
Pirandello, da una lettera ai familiari del 7 gennaio 1888[64]) La delusione
per non essere riuscito a far rappresentare i primi lavori lo distoglie
inizialmente dal teatro, facendolo concentrare sulla produzione novellistica e
romanziera. Nel 1907 pubblica l'importante saggio Illustratori, attori,
traduttori dove esprime le sue idee, ancora negative, sull'esecuzione del
lavoro dell'attore nel lavoro teatrale: questi è infatti visto come un mero
traduttore dell'idea drammaturgica dell'autore, il quale trova dunque un filtro
al messaggio che intende comunicare al pubblico. Il teatro viene poi definito
da Pirandello come un'arte "impossibile", perché "patisce le
condizioni del suo specifico anfibio"[65]: un tradimento della scrittura
teatrale, che ha di contro "il cattivo regime dei mezzi rappresentativi,
appartenenti alla dimensione adultera dell'eco"[65]. È in questo
momento che Pirandello si distacca dalla lezione positivista e, presa
diretta coscienza dell'impossibilità della rappresentazione scenica del
"vero" oggettivo, ricerca nella produzione drammaturgica di scavare
l'essenza delle cose per scoprire una verità altra (come è spiegato nel saggio
L'Umorismo con il sentimento del contrario). Il 6 ottobre 1924 fondò la
compagnia del Teatro d'Arte di Roma con sede al Teatro Odescalchi con la
collaborazione di altri artisti: il figlio Stefano Pirandello, Orio Vergani,
Claudio Argentieri, Antonio Beltramelli, Giovani Cavicchioli, Maria Letizia
Celli, Pasquale Cantarella, Lamberto Picasso, Renzo Rendi, Massimo Bontempelli
e Giuseppe Prezzolini[66]: tra gli attori più importanti della compagnia
figurano Marta Abba, Lamberto Picasso, Maria Letizia Celli, Ruggero Ruggeri. La
compagnia, il cui primo allestimento risale al 2 aprile 1925 con Sagra del
signore della nave dello stesso Pirandello e Gli dei della montagna di Lord
Dunsany, ebbe però vita breve: i gravosi costi degli allestimenti, che non
riuscivano ad essere coperti dagli introiti del teatro semivuoto[67]
costrinsero il gruppo, dopo solo due mesi dalla nascita, a rinunciare alla sede
del Teatro Odescalchi. Per risparmiare sugli allestimenti la compagnia si
produsse prima in numerose tournée estere, poi fu costretta allo scioglimento
definitivo, avvenuto a Viareggio nell'agosto del 1928. Prima fase - Teatro
Siciliano Nella fase del Teatro Siciliano Pirandello è alle prime armi e ha
ancora molto da imparare. Anch'essa come le altre presenta varie
caratteristiche di rilievo; alcuni testi sono stati scritti interamente in
lingua siciliana perché considerata dall'autore più viva dell'italiano e capace
di esprimere maggiore aderenza alla realtà. La morsa e Lumìe di Sicilia
Roma, Teatro Metastasio, 9 dicembre 1910; [68] Il dovere del medico, Roma, Sala
Umberto, 20 giugno 1913; La ragione degli altri, Milano, Teatro Manzoni, 19
aprile 1915; Cecè, Roma, Teatro Orfeo, 14 dicembre 1915; Pensaci, Giacomino,
Roma, Teatro Nazionale, 10 luglio 1916; Liolà, Roma, Teatro Argentina, 4
novembre 1916; Seconda fase - Il teatro umoristico/grottesco Pirandello e
Marta Abba Mano a mano che l'autore si distacca da verismo e naturalismo,
avvicinandosi al decadentismo si ha l'inizio della seconda fase con il teatro
umoristico. Pirandello presenta personaggi che incrinano le certezze del mondo
borghese: introducendo la versione relativistica della realtà, rovesciando i
modelli consueti di comportamento, intende esprimere la dimensione autentica
della vita al di là della maschera. Così è (se vi pare), Milano, Teatro
Olimpia, 18 giugno 1917; Il berretto a sonagli, Roma, Teatro Nazionale, 27
giugno 1917; La giara, Roma, Teatro Nazionale, 9 luglio 1917; Il piacere
dell'onestà, Torino, Teatro Carignano, 27 novembre 1917; La patente, Torino,
Teatro Alfieri, 23 marzo 1918 Ma non è una cosa seria, Livorno, Teatro Rossini,
22 novembre 1918; Il giuoco delle parti, Roma, Teatro Quirino, 6 dicembre 1918;
L'innesto, Milano, Teatro Manzoni, 29 gennaio 1919; L'uomo, la bestia e la
virtù, Milano, Teatro Olimpia, 2 maggio 1919; Tutto per bene, Roma, Teatro
Quirino, 2 marzo 1920; Come prima, meglio di prima, Venezia, Teatro Goldoni, 24
marzo 1920; La signora Morli, una e due, Roma, Teatro Argentina, 12 novembre
1920; Terza fase - Il teatro nel teatro Nella fase del teatro nel teatro le
cose cambiano radicalmente, per Pirandello il teatro deve parlare anche agli
occhi non solo alle orecchie, a tal scopo ripristinerà una tecnica teatrale di
Shakespeare, il palcoscenico multiplo, in cui vi può per esempio essere una
casa divisa in cui si vedono varie scene fatte in varie stanze
contemporaneamente; inoltre il teatro nel teatro fa sì che si assista al mondo
che si trasforma sul palcoscenico. Pirandello abolisce anche il concetto
della quarta parete, cioè la parete trasparente che sta tra attori e pubblico:
in questa fase, infatti, Pirandello tende a coinvolgere il pubblico che non è
più passivo ma che rispecchia la propria vita in quella agita dagli attori
sulla scena. In questo periodo Pirandello ebbe un decisivo incontro con
un grande autore teatrale italiano del XX secolo: Eduardo De Filippo.
Conseguenza, oltre alla nascita di un'amicizia che durò tre anni, fu che
l'autore napoletano sentì, come accadde in passato per quello siciliano, il
bisogno di allontanarsi dal "regionalismo" dell'arte verista pur
conservandone però le tradizioni e le influenze. Pirandello incontra
Eduardo, Peppino e Titina De Filippo (1933) Sei personaggi in cerca d'autore,
Roma, Teatro Valle, 10 maggio 1921; Enrico IV, Milano, Teatro Manzoni, 24
febbraio 1922; All'uscita, Roma, Teatro Argentina, 29 settembre 1922;
L'imbecille, Roma, Teatro Quirino, 10 ottobre 1922; Vestire gli ignudi, Roma,
Teatro Quirino, 14 novembre 1922; L'uomo dal fiore in bocca, Roma, Teatro degli
Indipendenti, 21 febbraio 1923; La vita che ti diedi, Roma, Teatro Quirino, 12
ottobre 1923; L'altro figlio, Roma, Teatro Nazionale, 23 novembre 1923; Ciascuno
a suo modo, Milano, Teatro dei Filodrammatici, 22 maggio 1924; Sagra del
signore della nave, Roma, Teatro Odescalchi, 4 aprile 1925; Diana e la Tuda,
Milano, Teatro Eden, 14 gennaio 1927; L'amica delle mogli, Roma, Teatro
Argentina, 28 aprile 1927; Bellavita, Milano, Teatro Eden, 27 maggio 1927; O di
uno o di nessuno, Torino, Teatro di Torino, 4 novembre 1929; Come tu mi vuoi,
Milano, Teatro dei Filodrammatici; 18 febbraio 1930; Questa sera si recita a
soggetto, Torino, Teatro di Torino, 14 aprile 1930; Trovarsi, Napoli, Teatro
dei Fiorentini, 4 novembre 1932; Quando si è qualcuno, Buenos Aires, Teatro
Odeón, 20 settembre 1933 (in spagnolo); La favola del figlio cambiato, Roma,
Teatro Reale dell'Opera, 24 marzo 1934; Non si sa come, Roma, Teatro Argentina,
13 dicembre 1935; Sogno, ma forse no, Lisbona, Teatro Nacional, 22 settembre
1931. Quarta fase - Il teatro dei miti A questa fase si assegnano solo tre
opere della produzione pirandelliana. La nuova colonia Lazzaro I giganti
della montagna Romanzi Copertina de Il turno, Edizioni Madella Pirandello
scrisse sette romanzi: 1901 - L'esclusa, pubblicato a puntate su La
Tribuna; in volume: Milano, Fratelli Treves, 1908. 1902 - Il turno, Catania,
Niccolò Giannotta, Editore. 1904 - Il fu Mattia Pascal, Roma, Nuova antologia.
1911 - Suo marito, Firenze, Edizioni Quattrini. (poi Giustino Roncella nato
Boggiolo, in Tutti i romanzi, Milano, Mondadori, (1941) 1913 - I vecchi e i
giovani, 2 volumi, Milano, Fratelli Treves. 1925 - Quaderni di Serafino Gubbio
operatore, Firenze, R. Bemporad & figlio. 1926 - Uno, nessuno e centomila,
Firenze, R. Bemporad & figlio. Novelle Le novelle erano considerate le
opere più durature, ma i critici moderni hanno cambiato tale opinione ritenendo
le opere teatrali più degne di essere ricordate. Fare distinzione tra i
contenuti delle novelle (o i romanzi) e le opere teatrali è difficile, in
quanto molte novelle sono state messe in opera a teatro ad esempio: Ciascuno a
suo modo deriva dalla novella Si gira...; Liolà ha il tema preso da un capitolo
de Il fu Mattia Pascal; La nuova colonia viene già presentata in Suo
marito. Analizzando le novelle possiamo renderci conto che ciò che manca
veramente è una delineazione tematica, una cornice, infatti sono presenti un
crogiolo di personaggi ed eventi. Il tempo in cui le novelle sono
ambientate non è definito, infatti alcune si svolgono nell'epoca umbertina, poi
giolittiana e del dopo-giolitti; diversamente accade nelle novelle cosiddette
siciliane, nelle quali il tempo non è fissato, ma è un tempo antico, di una
società che non vuole cambiare e che è rimasta ferma. I paesaggi delle
novelle sono vari; per quelle dette siciliane si ha spesso il tipico paesaggio
rurale[69], anche se in alcune troviamo il tema sociale del contrasto tra le
generazioni dovuto all'unità d'Italia. Altro ambiente delle novelle
pirandelliane è la Roma umbertina o giolittiana. I protagonisti sono
sempre alla presa con il male di vivere, con il caso e con la morte[70]. Non
troviamo mai rappresentanti dell'alta borghesia, ma quelli che potrebbero
essere i vicini della porta accanto: sarte, balie, professori, piccoli
proprietari di negozi che hanno una vita sconvolta dalla sorte e da drammi
familiari. I personaggi ci vengono presentati così come appaiono, è difficile trovare
un'approfondita analisi psicologica. Le fisionomie sono spesso eccentriche, per
il sentimento del contrario, hanno un carattere opposto a come si presentano. I
personaggi parlano e ragionano nel presentarsi per come essi sentono di essere,
ma alla fine saranno sempre preda del caso, che li farà apparire diversi e
cambiati. Novelle per un anno Pirandello è uno dei più grandi scrittori
di novelle, raccolte dapprima nell'opera Amori senza amore. In seguito l'autore
si dedicò maggiormente per tutta la sua vita, cercando di completarla, alla
raccolta Novelle per un anno, così intitolata perché il suo intento era quello
di scrivere 365 novelle, una per ogni giorno dell'anno. Arriverà a 241 nel
1922, solo postume ne usciranno ancora 15. Novelle per un anno, 15 voll.,
Firenze, Bemporad, 1922-1928; Milano, Mondadori, 1934-1937. I, Scialle nero,
Firenze, Bemporad, 1922. II, La vita nuda, Firenze, Bemporad, 1922. III, La
rallegrata, Firenze, Bemporad, 1922. IV, L'uomo solo, Firenze, Bemporad, 1922.
V, La mosca, Firenze, Bemporad, 1923. VI, In silenzio, Firenze, Bemporad, 1923.
VII, Tutt'e tre, Firenze, Bemporad, 1924. VIII, Dal naso al cielo, Firenze,
Bemporad, 1925. IX, Donna Mimma, Firenze, Bemporad, 1925. X, Il vecchio Dio,
Firenze, Bemporad, 1926. XI, La giara, Firenze, Bemporad, 1927. XII, Il
viaggio, Firenze, Bemporad, 1928. XIII, Candelora, Firenze, Bemporad, 1928.
XIV, Berecche e la guerra, Milano, Mondadori, 1934. XV, Una giornata, Milano,
Mondadori, 1937. Poesia Dal 1883 al 1912 si svolge la produzione letteraria di
Pirandello meno conosciuta dal grande pubblico, quella delle poesie che,
contrariamente alla composizione teatrale, non esprimono alcun tentativo di
rinnovamento sperimentale estetico, e seguono piuttosto le forme e i metri
tradizionali della lirica classica, pur non rimandando a nessuna delle correnti
letterarie presenti al tempo dello scrittore. Nell'antologia poetica Mal
giocondo, pubblicata a Palermo nel 1889, ma la cui prima lirica risale al 1880,
quando Pirandello aveva appena tredici anni, emerge uno dei temi dell'ultima
estetica pirandelliana del contrasto tra la serena classicità del mito e
l'ipocrisia e la immoralità sociale della contemporaneità. Sono presenti, come
nota lo stesso Pirandello, anche toni umoristici, specie quelli derivati dal
suo soggiorno a Roma[71]. Le raccolte di poesie sono: Mal giocondo,
Palermo, Libreria Internazionale Pedone Lauriel, 1889. Pasqua di Gea, Milano,
Libreria editrice Galli, 1891 (dedicata a Jenny Schulz-Lander, di cui si
innamorò a Bonn, con una chiara influenza della poesia di Carducci). Pier
Gudrò, 1809-1892, Roma, Voghera, 1894. Elegie renane, 1889-90, Roma, Unione
Cooperativa Editrice, 1895 (il cui modello sono le Elegie romane di Goethe);
Elegie romane, traduzione di Johann Wolfgang von Goethe, Livorno, Giusti, 1896.
Zampogna, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, 1901. Scamandro, Roma,
Tipografia Roma, 1909. Fuori di chiave, Genova, Formiggini, 1912.Pirandello nel
cinema Inizialmente Pirandello non amava molto il cinema, considerato inferiore
al teatro, e questo interesse maturò lentamente, negli anni: «Il rapporto tra
Pirandello e il cinema fu complesso, ambiguo, conflittuale, a volte di totale
rifiuto, altre volte di grande curiosità. E fu certamente la curiosità per
questa nuova modalità di narrazione per immagini, che si era già strutturata
come industria cinematografica, che lo spinse a scrivere il romanzo Si gira,
pubblicato una prima volta nel 1916 e poi ripubblicato nel 1925 con il titolo
Quaderni di Serafino Gubbio operatore. In questo romanzo il suo giudizio sul
cinematografo è spietato sia quando teme che il pubblico abbandoni i teatri per
correre a vedere su uno schermo "larve evanescenti" prodotte in
maniera meccanica e fredda, sia quando descrive il mondo della produzione
cinematografica popolato di personaggi volgari impegnati a confezionare
prodotti commerciali per soddisfare il palato delle masse e gli interessi degli
uomini d'affari. Nello stesso tempo la struttura stessa del racconto letterario
e l'ipotesi, da Pirandello stesso formulata, di trarne un film prefigurano
un'idea di linguaggio cinematografico di grande modernità: il film nel film.
Momento cruciale per la storia del cinema, nei primi decenni del suo sviluppo,
fu l'avvento del sonoro. Anche in questo caso ad un iniziale rifiuto seguì una
svolta significativa. In una lettera a Marta Abba del 27 maggio 1930,
Pirandello scrisse: "L'avvenire dell'arte drammatica e anche degli
scrittori di teatro è adesso là. Bisogna orientarsi verso una nuova espressione
d'arte: il film parlato. Ero contrario, mi sono ricreduto" [72].»
Pirandello sul set de Il fu Mattia Pascal con Pierre Blanchar e Isa
Miranda Il lume dell'altra casa di Ugo Gracci (1918) Il crollo di Mario
Gargiulo (1919) Lo scaldino di Augusto Genina (1920) Ma non è una cosa seria di
Augusto Camerini (1920) La rosa di Arnaldo Frateili (1921) Il viaggio di
Gennaro Righelli (1921) Il fu Mattia Pascal di Marcel L'Herbier (1924) La
canzone dell'amore 1930 di Gennaro Righelli, primo film sonoro italiano è
tratto dalla novella In silenzio. Come tu mi vuoi (As You Desire Me) (1932) di
George Fitzmaurice con Greta Garbo Acciaio (1933) di Walter Ruttmann, soggetto
originale di Luigi Pirandello Il fu Mattia Pascal di Pierre Chenal (1937)
Questa è la vita (1954) di Giorgio Pàstina, Aldo Fabrizi - film a quattro
episodi, tutti tratti da una novella: La giara, Il ventaglino, La patente e
Marsina stretta. Come prima, meglio di prima (1956) (Never say goodbye) di
Jerry Hopper Liolà (1963) di Alessandro Blasetti Il viaggio (1974) di Vittorio
De Sica Enrico IV (1984) di Marco Bellocchio Kaos (1984) di Paolo e Vittorio
Taviani (adattamento da Novelle per un anno) Le due vite di Mattia Pascal
(1985) di Monicelli Tu ridi (1998) di Paolo e Vittorio Taviani (adattamento da
Novelle per un anno) La balia (1999) di Bellocchio (adattamento da Novelle per
un anno) Pirandello nell'opera lirica La favola del figlio cambiato di Gian
Francesco Malipiero, 1934 Liolà di Giuseppe Mulè, 1935 Six Characters in Search
of an Author di Hugo Weisgall, 1959 Sagra del Signore della Nave di Michele
Lizzi, 12 marzo 1971 Sogno (ma forse no) di Luciano Chailly, 1975 Opere Mal
giocondo, Palermo, Libreria Internazionale Pedone Lauriel, 1889. A la sorella
Anna per le sue nozze, Roma, Tipo-Litografia Miliani e Filosini, 1890. Pasqua
di Gea, Milano, Libreria editrice Galli, 1891. Amori senza amore, Roma,
Bontempelli, 1894. Pier Gudrò, 1809-1892, Roma, Voghera, 1894. Elegie renane,
1889-90, Roma, Unione Cooperativa Editrice, 1895. Traduzione di Johann Wolfgang
von Goethe, Elegie romane, Livorno, Giusti, 1896. Zampogna, Roma, Società
Editrice Dante Alighieri, 1901. Beffe della morte e della vita, Firenze,
Lumachi, 1902. Lontano. Novella, in "Nuova Antologia", 1-16 gennaio
1902. Quand'ero matto.... Novelle, Torino, Streglio, 1902. Il turno, Catania,
Giannotta, 1902. Beffe della morte e della vita. Seconda serie, Firenze,
Lumachi, 1903. Notizia letteraria, in "Nuova Antologia", 16 gennaio
1904. Dante. Poema lirico di G. A. Costanzo, in "Nuova Antologia",
1904. Bianche e nere. Novelle, Torino, Streglio, 1904. Il fu Mattia Pascal,
Roma, Nuova Antologia, 1904. Erma bifronte. Novelle, Milano, Treves, 1906.
Prefazione a Giovanni Alfredo Cesareo, Francesca da Rimini. Tragedia, Milano,
Sandron, 1906. Studio preliminare a Alberto Cantoni, L'illustrissimo. Romanzo,
Roma, Nuova Antologia, 1906. Arte e scienza. Saggi, Roma, Modes, 1908.
L'esclusa, Milano, Treves, 1908. Umorismo, Lanciano, Carabba, 1908. Scamandro,
Roma, Tipografia Roma, 1909. La vita nuda. Novelle, Milano, Treves, 1910. Suo
marito, Firenze, Quattrini, 1911. Fuori di chiave, Genova, Formiggini, 1912.
Terzetti, Milano, Treves, 1912. I vecchi e i giovani, 2 volumi, Milano, Treves,
1913. Cecè. Commedia in un atto, in "La lettura", n. 10, 1913. Le due
maschere, Firenze, Quattrini, 1914. Erba del nostro orto, Milano, Studio
editoriale Lombardo, 1915. La trappola. Novelle, Milano, Treves, 1915. Se non
così.... Commedia in tre atti, in "Nuova Antologia", 1º gennaio 1916.
Si gira.... Romanzo, Milano, Treves, 1916. E domani, lunedì.... Novelle,
Milano, Treves, 1917. Liolà. Commedia campestre in tre atti, Roma, Formiggini,
1917. Se non così. Commedia in tre atti. Con una lettera alla protagonista,
Milano, Treves, 1917. Un cavallo nella luna. Novelle, Milano, Treves, 1918.
Maschere nude, 4 voll., Milano, Treves, 1918-1921. I, Pensaci, Giacomino, Così
è (se vi pare), Il piacere dell'onestà, Milano, Treves, 1918. II, Il giuoco
delle parti. In tre atti, Ma non è una cosa seria. Commedia in tre atti,
Milano, Treves, 1919. III, Lumie di Sicilia. Commedia in un atto, Il berretto a
sonagli. Commedia in due atti, La patente. Commedia in un atto, Milano, Treves,
1920. IV, L'innesto. Commedia in tre atti, La ragione degli altri (ex Se non
così). Commedia in tre atti, Milano, Treves, 1921. Berecche e la guerra,
Milano, Facchi, 1919. Il carnevale dei morti. Novelle, Firenze, Battistelli,
1919. Tu ridi. Novelle, Milano, Treves, 1920. Pena di vivere così, Roma, Nuova
libreria nazionale, 1920. Maschere nude, 31 voll., Firenze, Bemporad,
1920-1929; Milano, Mondadori, 1930-1935. I, Tutto per bene. Commedia in tre
atti, Firenze, Bemporad, 1920. II, Come prima meglio di prima. Commedia in tre
atti, Firenze, Bemporad, 1921. III, Sei personaggi in cerca d'autore. Ccommedia
da fare, Firenze, Bemporad, 1921. IV, Enrico IV. Tragedia in tre atti, Firenze,
Bemporad, 1922. V, L'uomo, la bestia e la virtù. Apologo in tre atti, Firenze,
Bemporad, 1922. VI, La signora Morli, una e due. Commedia in tre atti, Firenze,
Bemporad, 1922. VII, Vestire gli ignudi. Commedia in tre atti, Firenze,
Bemporad, 1923. VIII, La vita che ti diedi. Tragedia in tre atti , Firenze,
Bemporad, 1924. IX, Ciascuno a suo modo. Commedia in due o tre atti con
intermezzi corali, Firenze, Bemporad, 1924. X, Pensaci, Giacomino! Commedia in
tre atti, Firenze, Bemporad, 1925. XI, Così è (se vi pare). Parabola in tre
atti, Firenze, Bemporad, 1925. XII, Sagra del signore della nave, L'altro
figlio, La giara. Commedie in un atto, Firenze, Bemporad, 1925. XIII, Il
piacere dell'onestà. Commedia in tre atti, Firenze, Bemporad, 1925. XIV, Il
berretto a sonagli. commedia in due atti, Firenze, Bemporad, 1925. XV, Il
giuoco delle parti. in tre atti, Firenze, Bemporad, 1925. XVI, Ma non è una
cosa seria. commedia in tre atti, Firenze, Bemporad, 1925. XVII, L'innesto.
commedia in tre atti, Firenze, Bemporad, 1925. XVIII, La ragione degli altri.
commedia in tre atti, Firenze, Bemporad, 1925. XIX, L'imbecille, Lumie di
Sicilia, Cecè, La patente. commedie in un atto, Firenze, Bemporad, 1926. XX,
All'uscita. Mistero profano, Il dovere del medico. Un atto, La morsa. Epilogo
in un atto, L'uomo dal fiore in bocca. Dialogo, Firenze, Bemporad, 1926. XXI,
Diana e la Tuda. Tragedia in tre atti, Firenze, Bemporad, 1927. XXII, L'amica
delle mogli. Commedia in tre atti, Firenze, Bemporad, 1927. XXIII, La nuova
colonia. Mito. Prologo e tre atti, Firenze, Bemporad, 1928. XXIV, Liolà.
Commedia campestre in tre atti, Firenze, Bemporad, 1928. XXV, O di uno o di
nessuno. Commedia in tre atti, Firenze, Bemporad, 1929. XXVI, Lazzaro. Mito in
tre atti, Milano-Roma, Mondadori, 1930. XXVII, Questa sera si recita a
soggetto, Milano-Roma, Mondadori, 1930. XXVIII, Come tu mi vuoi. Tre atti,
Milano-Roma, Mondadori, 1930. XXIX, Trovarsi. Tre atti, Milano-Roma, Mondadori,
1932. XXX, Quando si è qualcuno. Rappresentazione in tre atti, Milano,
Mondadori, 1933. XXXI, Non si sa come. Dramma in tre atti, Milano, Mondadori,
1935. Novelle per un anno, 15 voll., Firenze, Bemporad, 1922-1928; Milano,
Mondadori, 1934-1937. I, Scialle nero, Firenze, Bemporad, 1922. II, La vita
nuda, Firenze, Bemporad, 1922. III, La rallegrata, Firenze, Bemporad, 1922. IV,
L'uomo solo, Firenze, Bemporad, 1922. V, La mosca, Firenze, Bemporad, 1923. VI,
In silenzio, Firenze, Bemporad, 1923. VII, Tutt'e tre, Firenze, Bemporad, 1924.
VIII, Dal naso al cielo, Firenze, Bemporad, 1925. IX, Donna Mimma, Firenze,
Bemporad, 1925. X, Il vecchio Dio, Firenze, Bemporad, 1926. XI, La giara,
Firenze, Bemporad, 1927. XII, Il viaggio, Firenze, Bemporad, 1928. XIII,
Candelora, Firenze, Bemporad, 1928. XIV, Berecche e la guerra, Milano,
Mondadori, 1934. XV, Una giornata, Milano, Mondadori, 1937. Teatro dialettale
siciliano, VII, 'A vilanza, Cappiddazzu paga tuttu, con Nino Martoglio,
Catania, Giannotta, 1922. Prefazione a Nino Martoglio, Centona. Raccolta completa
di poesie siciliane con l'aggiunta di alcuni componimenti inediti, Catania,
Giannotta, 1924. Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Firenze, Bemporad,
1925. Uno, nessuno e centomila, Firenze, Bemporad, 1926. Prefazione a Ezio
Levi, Lope de Vega e l'Italia, Florencia, Sansoni, 1935. Introduzione a Silvio
D'Amico (a cura di), Storia del teatro italiano, Milano, Bompiani, 1936. In un
momento come questo, in "Nuova Antologia", 1º gennaio 1936. Giustino
Roncella nato Boggiolo, in Tutti i romanzi, Milano, Mondadori, 1941. Tutti i
romanzi, 2 voll., Milano, A. Mondadori, 1973. Novelle per un anno, 3 voll., 6
tomi, Milano, A. Mondadori, 1985. Maschere nude, 4 voll., Milano, A. Mondadori,
1986. Lettere a Marta Abba, Milano, A. Mondadori, 1995. ISBN 88-04-39379-3.
Saggi e interventi, Milano, A. Mondadori, 2006. ISBN 88-04-54480-5.
Onorificenze Oltre al Nobel ricevette diverse onorificenze: Cavaliere di
Collare dell'Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme - nastrino per
uniforme ordinaria Cavaliere
di Collare dell'Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme Arcade Minore
della Secolare Accademia del Parnaso Canicattinese - nastrino per uniforme
ordinaria Arcade
Minore della Secolare Accademia del Parnaso Canicattinese — Canicattì
Intitolazioni A Luigi Pirandello è stato dedicato l'asteroide 12369
Pirandello[73].Note ^ Enciclopedia Italiana Treccani alla voce
"Girgenti" ^ In Andrea Camilleri. Biografia del figlio cambiato,
Milano 2000 pagg.15, 16 ^ Luigi Pirandello, Lettere giovanili da Palermo e da
Roma 1886-1889, Bulzoni, Roma, 1993, nell'introduzione Il risorgimento
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http://www.intrasformazione.com/index.php/intrasformazione/article/download/21/pdf.
^ In siti web Medicina e Insonnia Archiviato il 4 maggio 2009 in Internet
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Pirandello si trovano in numerose sue opere: Il turno, L'amica delle mogli, Il
fu Mattia Pascal, L'uomo solo, La trappola, La giara ^ G. Bonghi, Biografia di Luigi
Pirandello, Edizione dei classici italiani ^ A. Camilleri, op.cit. ^ In
effetti, Luigi Pirandello affermava in un lettera ai familiari da Roma del 27
novembre 1887: «I professori di questa università, nella facoltà mia, sono
d’una ignoranza nauseante» (in Lettere giovanili da Palermo e da Roma
1886-1889, Bulzoni, Roma, 1993, p. 231). ^ Pirandello difese pubblicamente
durante una lezione un suo compagno rimproverato ingiustamente dal rettore. ^
Marco Manotta, Luigi Pirandello, Pearson Italia S.p.a., 1998 p. 4 ^ Da Album
Pirandello, I Meridiani Mondadori, Milano 1992, p.44) ^ A. Camilleri, Biografia
del figlio cambiato, BUR, 2000 ^ «La storia di Luigi e Antonietta ... è infatti
quella di un matrimonio di una Sicilia di fine '800, combinato per interesse, da
parte di due soci nel commercio dello zolfo. Antonietta porta la dote che
assicura ai giovani sposi sbarcati da Girgenti in continente e approdati a
Roma, una vita tranquilla e permette a Luigi di affermarsi come scrittore. Il
matrimonio d'interesse è sublimato grazie alla letteratura e diventa "un
matrimonio d'amore con la moglie ideale".» (in Anna Maria Sciascia, Il
gioco dei padri. Pirandello e Sciascia, Avagliano Editore, 2009 Salvatore
Guglielmino, Hermann Grosser, Il sistema letterario 2000, Milano, Principato,
2002, pp. 273-274, Vol. Storia 3. ^ Giancarlo Mazzacurati (a cura di),
Introduzione e biografia di Pirandello, dalla Prefazione a Il fu Mattia Pascal,
Einaudi tascabili ^ Vita di Luigi Pirandello Pirandello e la moglie
Antonietta ^ Gaspare Giudice, Luigi Pirandello,Unione Tipografico-Editrice
Torinese, 1963, pag.178 ^ Marco Manotta, Luigi Pirandello, Ed. Pearson Paravia
Bruno Mondadori, 1998 p.163 ^ Luigi Pirandello, Stefano Pirandello, Andrea
Pirandello, Il figlio prigioniero: carteggio tra Luigi e Stefano Pirandello
durante la guerra 1915-1918, Mondadori, 2005, p.179 ^ Motivazione del Premio
Nobel per la Letteratura 1934 Tutti i no di Mussolini a Pirandello.
L'arcifascista non piaceva al Duce[collegamento interrotto] ^ Gaetano Afeltra,
"Mia cara Marta". L'amore platonico di Pirandello ^ Tra Pirandello e
Marta Abba ottocento lettere di emozioni ^ Einstein e l'invito a Pirandello. Lo
scontro che nessuno vide ^ Luciano Lucignani, Pirandello, la vita nuda, Giunti,
1999 pagg.95 e 109 ^ Pirandello e la prima guerra mondiale Archiviato il 24
marzo 2014 in Internet Archive. Pirandello chiede di entrare nei Fasci,
in "La Stampa", 18/9/1924, p. 6. ^ Francesco Sinigaglia, I volti
della violenza a teatro, Lucca, Argot edizioni, p. 67 ^ In realtà Pirandello
non fu l'unico importante intellettuale italiano che si iscrisse al Partito
Nazionale Fascista nel pieno della vicenda Matteotti. Giuseppe Ungaretti, ad
esempio, si iscrisse al PNF il 30 agosto 1924, appena nove giorni dopo il
funerale di Matteotti (Stato matricolare di Ungaretti, Università "La
Sapienza" di Roma, Ufficio storico, fasc. AS 2770, Ungaretti
Giuseppe). Documenti:Pirandello e l'adesione al fascismo Gaspare
Giudice, Luigi Pirandello, UTET Torino 1963 Pirandello e la politica, su
atuttascuola.it. URL consultato il 24 marzo 2014 (archiviato dall'url originale
il 24 marzo 2014). ^ Gina Lagorio «Troppi idioti» E Pirandello partì
Pirandello, nudità e fascismo ^ Pirandello. Gli anni del fascismo Archiviato il
24 marzo 2014 in Internet Archive. ^ Benito Mussolini, Nel solco delle grandi
filosofie. Relativismo e fascismo, in Il popolo d'Italia, 22 novembre 1933 ^
«Le idee di Mazzini e di Sorel influenzarono profondamente il fascismo di
Mussolini e Gentile...» (Simonetta Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo,
Rubbettino Editore, 2003 p.58) ^ «...Sorel è veramente il notre maître»
(B.Mussolini, Il Popolo, 27 maggio 1909 e in Opera Omnia II p.126) Luigi
Pirandello, Interviste a Pirandello: parole da dire, uomo, agli altri uomini,
Rubbettino Editore, 2002 - nota 3, p. 316 ^ riportato da G. Giudice nel suo
saggio ^ Prefazione alle Novelle per un anno, Milano 1956 ^ Storie dalla storia
/ L'oro alla Patria - Il Sole 24 ORE ^ Marta Sambugar, Letteratura italiana per
moduli, vol.2 Incontro con l'autore: Luigi Pirandello ^ Robert S. Dombroski,
L'esistenza ubbidiente. Letterati italiani sotto il fascismo, Guida Editori,
1984 ^ L'Ovra a Cinecittà di Natalia ed Emanuele V. Marino, Bollati
Boringhieri, 2005 Archiviato il 10 febbraio 2009 in Internet Archive. ^ Il
Post.it, 8 novembre 2014 ^ I giganti della montagna, taote.it. URL consultato
l'8 novembre 2010. ^ «Così, in una bara in affitto, riportammo ad Agrigento le
sue ceneri. Malgrado i divieti prima del gerarca, poi del prefetto, e infine
del vescovo.» In Camilleri e lo strano caso delle ceneri di Pirandello, su
PirandelloWeb, 1º ottobre 2018. URL consultato il 2 gennaio 2019. ^ Nino
Borsellino, Il dio di Pirandello: creazione e sperimentazione, Sellerio, 2004,
pp. 159 e sgg. e Roberto Alajmo, Le ceneri di Pirandello, ed. Drago, 2008 ^ in
Saggi poesie, scritti varii Mondadori, Milano 1960, p.1270: "I filosofi
hanno il torto di non pensare alle bestie e davanti agli occhi di una bestia
crolla come un castello di carte qualunque sistema filosofico". ^ Daniela
Marcheschi, Introduzione a Luigi Pirandello, "L'umorismo", Milano,
Oscar Mondadori, 2010, p. X. ^ Nel marzo del 2009, la professoressa e critico
letterario Daniela Marcheschi ha rivelato che Pirandello aveva copiato intere
pagine del saggio da opere precedenti di Léon Dumont, poi di Alfred Binet,
Gabriel Séailles, Gaetano Negri, Giovanni Marchesini, nonché dalla Storia e
fisiologia dell'arte di Ridere di Tullo Massarani. Vedi articolo de Il Giornale
del 31 marzo 2009 in Caro Pirandello, ti ho beccato a copiare. ^ Luigi
Pirandello, L'umorismo e altri saggi, Giunti Editore, 1994, p.116
Salvatore Guglielmino, Hermann Grosser, Il sistema letterario 2000, Milano,
Principato, 2002, p.199-200, Vol. Testi 8. ^ Claudia Sebastiana Nobili,
Pirandello: guida al Fu Mattia Pascal, Carocci, 2004 ^ Scrittori sull'orlo di
una scelta spiritista Sambugar, op. cit. ^ Il pensiero pirandelliano
s'inserisce in un contesto culturale in cui è presente il concetto di
"relativismo": la teoria della relatività di Einstein, il Principio
di indeterminazione di Heisenberg, la teoria quantistica di Max Planck, la
filosofia del sociologo Georg Simmel che fonda il suo relativismo sulla
convinzione che non esistono leggi storiche obiettivamente valide
(http://www.treccani.it/enciclopedia/georg-simmel_(Dizionario-di-filosofia). E
nelle arti figurative il relativismo è ripreso dal cubismo caratterizzato da
una rappresentazione dell'oggetto considerato simultaneamente da diversi punti
di vista. ^ Salvatore Guglielmino, Hermann Grosser, Il sistema letterario 2000,
Milano, Principato, 2002, p.279. ^ Luigi Pirandello, Maschere nude, a cura di
Italo Zorzi e Maria Argenziano, Newton Compton Editori, 2007 ^ Elio Providenti
(a cura di), Luigi Pirandello. Epistolario familiare giovanile (1886 - 1898), Quaderni
della Nuova Antologia XXIV, Le Monnier, Firenze, 1985 pag. 25. ^ Roberto
Alonge, Pirandello, Laterza, Bari, 1997, pag. 7. ^ Elio Providenti (a cura di),
Luigi Pirandello. Epistolario familiare giovanile (1886 - 1898), Quaderni della
Nuova Antologia XXIV, Le Monnier, Firenze, 1985, pag. 26. Umberto
Artioli, L'officina segreta di Pirandello, Laterza, Roma - Bari, 1989, pag.
126. ^ Luigi Pirandello, una vita da autore, repubblicaletteraria.it. URL
consultato l'8 novembre 2014. ^ Claudio Vicentini, Pirandello il disagio del
teatro, Saggi Marsilio, Venezia 1993, pagg. 9-10 e 119 e segg. ^ La prima
rappresentazione della commedia La morsa si ebbe a Roma, al Teatro Metastasio,
il 9 dicembre 1910, ad opera della Compagnia del "Teatro minimo" diretta
da Nino Martoglio che la mise in scena assieme all'atto unico Lumie di Sicilia.
Pirandello cedendo alle insistenze di Martoglio acconsentì a che La morsa e
Lumie di Sicilia fossero rappresentate nella stessa serata. I due atti unici
ebbero diverso esito presso il pubblico, che accolse con favore La morsa,
mentre non gradì Lumie di Sicilia (in Interviste a Pirandello: "parole da
dire, uomo, agli altri uomini" di Ivan Pupo, editore Rubettino, 2002 ISBN
884980220X) ^ Legato a ricordi della fanciullezza di Pirandello. ^ Davide
Savio, Il carnevale dei morti. Sconciature e danze macabre nella narrativa di
Luigi Pirandello, Novara, Interlinea, 2013. ^ «Il mio primo libro fu una
raccolta di versi, Mal giocondo, pubblicata prima della mia partenza per la
Germania. Lo noto, perché han voluto dire che il mio umorismo è provenuto dal
mio soggiorno in Germania; e non è vero; in quella prima raccolta di versi più
della metà sono del più schietto umorismo, e allora io non sapevo neppure che
cosa fosse l'umorismo». (Da una sintetica autobiografia, scritta da Pirandello
probabilmente fra il 1912 e il 1913, per il periodico romano "Le
lettere", del 15 ottobre 1924) ^ Pirandello e il cinema di Amedeo Fago ^
(EN) 12369 Pirandello (1994 CJ16), NASA. URL consultato il 2 settembre 2011.Bibliografia
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Miti e coscienza del decadentismo italiano. D'Annunzio, Pascoli, Fogazzaro,
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Claudio Vicentini, Pirandello. Il disagio del teatro, Venezia, Marsilio, 1993.
ISBN 88-317-5752-0. Rossano Vittori, Il trattamento cinematografico dei 'Sei
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Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla (a cura di), Pirandello e il teatro
siciliano, Catania, Maimone, 1986. ISBN 88-7751-001-3. Sarah Zappulla Muscarà
(a cura di), Narratori siciliani del secondo dopoguerra, Catania, Maimone,
1988.
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Wittgenstein. URL consultato il 7 febbraio 2012 (archiviato dall'url originale
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per la letteratura V · D · M Opere di Luigi Pirandello Controllo di autorità VIAF (EN) 64010465 · ISNI (EN)
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Sapienza - Università di Roma[altre]
Pirro
Vincenzo Pirro Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to
navigationJump to search Vincenzo Pirro Vincenzo Pirro (San Severo, 13
novembre 1938 – Terni, 25 maggio 2009) è stato un docente, filosofo e storico
italiano. Indice 1 Biografia
2 Opere
2.1 Opere
(elenco parziale) 2.2 Cura
di atti di convegno (parziale) 3 Bibliografia
4 Note
5 Collegamenti
esterni Biografia Vincenzo Pirro docente presso l'istituto Roosevelt di
Palermo nel 1960 Vincenzo Pirro con alcuni studenti negli anni settanta
Ancora studente universitario, inizia ad insegnare presso l'Istituto Roosevelt
di Palermo, che vide tra l'altro nello stesso periodo la presenza di Don Pino
Puglisi. Allievo di Ugo Spirito alla "Sapienza" di Roma, si laureò in
Filosofia nel 1964 con una tesi sul pensiero estetico di Vito Fazio Allmayer,
di cui fu relatore Armando Plebe. Professore, ha insegnato all'Università di Perugia
negli anni settanta accanto ad Antimo Negri. Successivamente ha insegnato
storia e filosofia nei licei, accompagnando all'insegnamento sempre una intensa
attività di ricerca. Fu studioso di Giovanni Gentile, e pubblicò il suo primo
volume, L'attualismo di G. Gentile e la religione presso l'editore Sansoni nel
1967; fra i suoi lavori si ricordano anche Filosofia e politica in Benedetto
Croce, pubblicato presso l'editore Bulzoni nel 1976. Si interessò
successivamente anche alla ricerca storiografica e svolse numerosi studi di
storia locale sulla città di Terni. Esponente di spicco della vita culturale
della città umbra, ne ha studiato gli aspetti poco indagati di quella che fino
ad allora era una città ancorata ad una dimensione prettamente industriale. Nel
1996, sotto la Giunta di Gianfranco Ciaurro, coordina il progetto per la
realizzazione del nuovo museo archeologico della città di Terni da realizzarsi
nel convento di San Pietro, il progetto ebbe la supervisione dell'archeologo
Renato Peroni. Vincenzo Pirro nei suoi studi di storia contemporanea ha
ricostruito, prima della pubblicazione de Il sangue dei vinti di Giampaolo
Pansa, episodi della guerra civile nell'Umbria meridionale, tra cui
l'assassinio del sindacalista Maceo Carloni[1] e del dirigente d'azienda
Alessandro Corradi.[2] Nel 1989 fonda con altri studiosi locali il
"Centro Studi Storici", un'associazione culturale di ricerca storica
a cui nel 1991 viene collegata la rivista scientifica Memoria Storica.
L'obiettivo della rivista, uscita con il primo numero nel marzo del 1991, a
detta di Pirro è quello di porre fine "all'amnesia organizzata",
facendo conoscere a tutti le vicende di una città figlia non solo
dell'industrializzazione di fine '800. Accanto ad un nuovo sguardo per le
vicende passate la rivista inaugura una stagione di storiografia libera da
condizionamenti ideologici e basata sull'assoluta scientificità nell'utilizzo
delle fonti.[3] Ha suscitato critiche per la ricostruzione di alcuni
episodi di violenza avvenuti durante la resistenza antifascista nel centro
Italia nel periodo 1943-44, critiche che si sono particolarmente concentrate
all'indomani della sua scomparsa[4] (2009) ad opera di storici locali, che lo
hanno accusato di "revisionismo"[5]. In realtà il lavoro effettuato da
Pirro, come anche affermato dal prof.Giuseppe Parlato nella prefazione di
Regnum hominis[6], è sempre stato suffragato dalla presenza della fonte
documentale. Inoltre le vicende ricostruite, come ad esempio quella
dell'uccisione di Alessandro Corradi o di Alverino Urbani, ad opera dei
partigiani, nel 1944, non erano mai state trattate dalla storiografia
cosiddetta "ufficiale". È stato consigliere dell'ISUC (Istituto
per la Storia dell'Umbria Contemporanea) e dell'ICSIM (Istituto di Cultura
della Storia dell'Impresa "Franco Momigliano"), e presidente della
sezione di Terni dell'Istituto per la Storia del Risorgimento italiano. È morto
all'improvviso, a causa di un infarto, nella sua casa di Terni il 25 maggio
2009, completando il suo ultimo studio dedicato alla storia della Facoltà di
Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Perugia[7]. Nell'aprile
2012 è uscita l'opera postuma di Vincenzo Pirro, intitolata Regnum hominis,
l'umanesimo di Giovanni Gentile. L'operafa parte della collana scientifica
della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice di Roma. Nel 2013 è stato
ritrovato un suo ulteriore scritto postumo dedicato al Risorgimento pubblicato
con la casa editrice Morphema intitolato Scritti sul Risorgimento. A
novembre del 2014 è uscito, curato da Hervé Cavallera, un volume postumo
dedicato alla pedagogia di Giovanni Gentile intitolato "Dopo Gentile dove
va la scuola italiana". Vincenzo Pirro e Hervè Cavallera al
convegno sul pensiero di Giovanni Gentile presso l'Istituto dell'Enciclopedia
Italiana a Roma (1977) Il 6 luglio del 2015 il Consiglio Comunale di Terni
delibera di dedicare la "Sala Tacito" di Palazzo Carrara in Terni
alla memoria di Pirro[8]. L'inaugurazione della sala "Vincenzo Pirro"
si è svolta il 12 marzo 2016 e con l'occasione è stato presentato il volume
contenente il carteggio epistolare del professore intitolato "La vita come
Ricerca, la vita come Arte, la vita come Amore" , titolo riferito alle
omonime opere di Ugo Spirito. Il 28 Ottobre 2016 in occasione delle
celebrazioni per gli ottanta anni della fondazione del Liceo "Tacito"
di Terni, viene inaugurata, nell'atrio della scuola, una targa dedicata al
prof. Vincenzo Pirro con una dicitura tratta da una poesia di Kahil
Gibran. Altre opere postume vengono prodotte nel luglio 2016, esce "Italia
e Germania nel Novecento", raccolta di scritti di Pirro tratti da
"Nuovi Studi Politici", rivista fondata da Salvatore Valitutti. Nel
marzo 2017 esce una raccolta di memorie di scritti di garibaldini intitolata
"Correva l'anno 1867 - Terni e l'affrancamento di Roma nelle memorie dei
garibaldini. Nel luglio del 2017 è uscita una nuova opera di carattere
filosofico intitolata "Filosofia e Politica e Giovanni Gentile"
curata dal prof. H. A. Cavallera ed edita dalla casa editrice Aracne. L'8
Febbraio 2018 la Giunta del Comune di Terni ha deliberato la posa di una targa
in memoria presso la dimora del prof. Vincenzo Pirro. Il 23 Febbraio
2018, la Soprintendenza Archivistica dell'Umbria e delle Marche, dichiara
l'archivio di Vincenzo Pirro "di notevole interesse culturale" ai
sensi del T.U. dei Beni Culturali del 2004. Il 18 Maggio 2019 in
occasione del decennale dalla scomparsa viene scoperta,sulla casa dove ha
vissuto il professore, una targa commemorativa[9]. Nel Ottobre 2019, in
occasione del decennale della scomparsa viene pubblicato dalla casa editrice
Intermedia il volume collettaneo a cura di Hervè A. Cavallera "L'unica via
è il Pensiero - scritti in memoria di Vincenzo Pirro". [10]
Targa commemorativa di Vincenzo Pirro posta sulla casa a Piazza Clai a
Terni Opere Opere (elenco parziale) Una missiva fra Ugo Spirito e
Vincenzo Pirro data 4-4-1971 L'attualismo di G. Gentile e la religione,
Firenze, Sansoni, 1967 Filosofia e politica in Benedetto Croce, Roma, Bulzoni,
1970 Filosofia e politica in Giovanni Gentile, Firenze, Sansoni, 1970 La
riforma Gentile e il Fascismo, in Giornale critico della filosofia italiana,
Firenze, Sansoni, Luglio-Settembre 1973 Il pensiero politico nell'idealismo
italiano, Firenze, Sansoni, 1974 La prassi come educazione nella gentiliana
interpretazione di Marx, Firenze, Sansoni, 1974 Cultura e politica in B. Croce,
Firenze, Sansoni, 1976 Filosofia e politica nel problematicismo di Ugo
Spirito, Roma, Bulzoni, 1976 Per una storia dell'Umbria durante la
repubblica fascista 1943-44, Perugia, IRRSAE, 1986 Terni nell'età
rivoluzionaria e napoleonica, 1789-1815, Arrone, Thyrus, 1989 Terni e la sua
Provincia durante la Repubblica Sociale, 1943-44, Arrone, Thyrus, 1990 Romano
Ugolini e Vincenzo Pirro, Giuseppe Petroni, dallo Stato Pontificio all'Italia
unita, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1990. (a cura di V.P.) Interamna
Narthium - materiali per il museo archeologico di Terni, Arrone, Thyrus 1997 Le
acque pubbliche gli acquedotti di derivazione e le utilizzazioni idrauliche del
territorio di Terni nei sommari riguardi: tecnico, legislativo e storico,
Terni-Giada, ICSIM, 2001 Una scuola una città: il Liceo ginnasio di Terni
(1402-2002), Arrone, Thyrus, 2002 Terni nell'età del Risorgimento, 1814-1870,
Arrone, Thyrus, 2005 Sull'avvenire industriale di Terni / scritti di Luigi
Campofregoso; a cura di Vincenzo Pirro Perugia: CRACE/ICSIM, 2005 Garibaldi
visto da Giovanni Gentile, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento
Italiano, 2007 "Per Garibaldi" (a cura di V. Pirro), Arrone, Thyrus
2009 I Giustizieri, La Brigata Gramsci tra Umbria e Lazio, di Marcello
Marcellini, uscito nel maggio 2009 per edizioni Mursia, Vincenzo Pirro ne
scrive la prefazione. Regnum hominis, L'Umanesimo di Giovanni Gentile, Collana
Scientifica Fondazione Ugo Spirito e Renzo de Felice, Roma, Ed, Nuova Cultura,
2012 (pref.del Prof. Giuseppe Parlato) Scritti sul Risorgimento (a cura di G.B.
Furiozzi), Terni, Morphema 2013 Dopo Gentile dove va la scuola italiana (a cura
di Hervé Cavallera), Firenze, Le Lettere 2014[11] La vita come ricerca - la
vita come arte - la vita come amore (a cura di Hervé Cavallera), Terni,
Morphema 2016 Italia - Germania - Saggi di Filosofia Politica, Amazon ed.,
luglio 2016 Filosofia e Politica in Giovanni Gentile (a cura di Hervé Cavallera),
Aracne, Roma 2017 Maceo Carloni: Storia e Politica (a cura di Danilo Sergio
Pirro), Intermedia Edizioni, Orvieto, 2018 Cura di atti di convegno
(parziale) Manifesto del convegno su Giuseppe Petroni (1989) Vincenzo
Pirro - Giuseppe Garibaldi nel centenario della morte, Terni 1982, Mostra
documentaria e pubblicazione - Istituto della Storia del Risorgimento Giuseppe
Petroni Dallo Stato Pontificio all'Italia unita. Convegno di Studio Terni 10-11
febbraio 1989 con relatori i proff. Romano Ugolini, Franco Della Peruta e Anna
Maria Isastia Bicentenario della Rivoluzione Francese (1789-1989) – Terni
Vincenzo Pirro (a cura di), Gli arabi e noi: atti del convegno di studi su Il
nazionalismo arabo, Terni, maggio 1991, Arrone: Thyrus, 1995 (con Domenico Cialfi),
La nascita della Repubblica e gli anni della ricostruzione: mostra
storico-documentaria '43-'48 : Bibliomediateca, Terni, 7 marzo-5 aprile
1998 / ricerca storico documentaria Domenico Cialfi e Vincenzo Pirro; sezione
locale della mostra in collaborazione con Archivio di Stato di Terni e
Biblioteca comunale di Terni; in collaborazione con Centro per la promozione
del libro, ISUC, Istituto per la storia dell'Umbria contemporanea, Arrone,
Thyrus, 1998 Vincenzo Pirro (a cura di), Intorno alle miniere di ferro e alle
ferriere dell'Umbria meridionale, scritti di Auguste De Vaux et al.; a cura di
Vincenzo Pirro, Terni: CRACE/ICSIM, 2003 Vincenzo Pirro (a cura di), Elia Rossi
Passavanti nell'Italia del Novecento, Atti del Convegno di studi (Terni 22-23
marzo 2002), Arrone: Edizioni Thyrus, 2004 Vincenzo Pirro (a cura di), Convegno
di studi nel 4. centenario della fondazione dell'Accademia dei Lincei (2003;
Terni), Federico Cesi e i primi Lincei in Umbria, atti del Convegno di studi
nel IV centenario della fondazione dell'Accademia dei Lincei: Terni, 24-25
ottobre 2003, Arrone: Edizioni Thyrus, 2005 - Accademia Nazionale dei Lincei
Vincenzo Pirro (a cura di), Mazzini nella cultura italiana: atti del Convegno
di studi, Terni, 27-28 ottobre 2005, Arrone: Thyrus, 2008 Andrea Giardi e
Vincenzo Pirro (a cura di), Pietro Antonio Magalotti (1757-1829): erudito,
giureconsulto, docente di Diritto, Arrone: Thyrus, 2008 Stefania Magliani e
Vincenzo Pirro (a cura di), Per Garibaldi, Arrone: Thyrus, 2009 Vincenzo Pirro
(a cura di), San Valentino patrono di Terni, atti del Convegno di studi: Terni,
27-28 febbraio 2004, Arrone: Thyrus, 2009 Bibliografia di Ugo Spirito La
vita come arte, Sansoni, Firenze 1941 La vita come amore, Sansoni Firenze 1953
La riforma della scuola, Sansoni, Firenze 1956 Il problema dell'unificazione
del sapere, in Dal mito alla scienza, Sansoni, Firenze 1966 Storia della mia
ricerca, Sansoni, Firenze 1971 Dall'attualismo al problematicismo, Sansoni,
Firenze 1976 di Giovanni Gentile La sala "Vincenzo Pirro"
in Palazzo Carrara a Terni Il concetto scientifico della pedagogia, in Scuola e
Filosofia, Sandron Palermo 1908 Proemio al “Giornale critico della filosofia
italiana, a. I, n. 1,Sansoni, Firenze 1920 Educazione e scuola laica,
Vallecchi. Firenze 1921 Sistema di logica, vol. II, Laterza, Bari 1923 La nuova
scuola media, Vallecchi, Firenze 1925 Che cos'è il fascismo. Discorsi e
polemiche, Vallecchi Firenze 1925. Saggi critici, Vallecchi, Firenze 1927
Scritti pedagogici, vol. III, Treves ,Milano-Roma 1932 Origini e dottrina del
fascismo, III ed. riv. e accr., Istituto Nazionale Fascista, Roma 1934 di
Benedetto Croce Contributo alla critica di me stesso. Napoli, [s.n.],
1918 Conversazioni critiche, (4ª ed.), Laterza, Bari 1951 La letteratura della
nuova Italia, vol. IV, ed., Laterza, Bari 1954 Cultura e vita morale, Laterza,
Bari 1955 Etica e politica, IV ed., Laterza, Bari, 1956 Pagine sparse, vol. I,
Laterza, Bari 1960 Note ^ Vincenzo Pirro - Una vittima della guerra civile:
Maceo Carloni", in Memoria Storica n. 14/15 -Ed. Thyrus, Arrone - Anno
1999 ^ Memoria Storica, n. 34/35, Ed. Thyrus, Arrone, 2009 e Memoria Storica n.
14/15, Ed. Thyrus, Arrone, 1999 ^ Memoria Storica, n.34/35, Thyrus, Arrone,
2009 ^ Vd. Bitti. A., Venanzi M. Covino R., La storia rovesciata, Crace Ed.
Narni 2010 ^ A tal proposito si legga l'articolo uscito sul Corriere
dell'Umbria del 24 maggio 2011 intitolato La difesa di mio padre. Lettera a F.
Giustinelli presidente ICSIM ^ Regnum hominis. L'umanesimo di Giovanni Gentile,
Ed. Nuova Cultura, Roma, 2012, p.13 ^ Contenuto nel volume L'uomo e la Storia.
Scritti in onore di T. Nanni, Ed. Thyrus, Arrone, 2010 ^ Comunicato stampa del
Comune, su comune.terni.it. URL consultato il 9 luglio 2015 (archiviato
dall'url originale il 10 luglio 2015). ^ Terni, una targa per Vincenzo Pirro,
su umbriaON, 18 maggio 2019. URL consultato il 20 maggio 2019. ^ L'Unica via è
il pensiero - scritti in memoria di Vincenzo Pirro, su fondazionespirito.it. ^
Dopo Gentile dove va la scuola italiana (a cura di Hervé Cavallera), su
lelettere.it. Collegamenti esterni Vincenzo Pirro, su
siusa.archivi.beniculturali.it, Sistema Informativo Unificato per le
Soprintendenze Archivistiche. Modifica su Wikidata DANILO PIRRO, BIBLIOGRAFIA
COMPLETA AGG. 21.04.2016, su drive.google.com. Il lungo percorso storico del
prof. Pirro - Ternimagazine del 19.05.2011, su ternimagazine.it. URL consultato
l'11 marzo 2013 (archiviato dall'url originale il 17 marzo 2014). Sito della
Fondazione Ugo Spirito, su fondazionespirito.it. Comunicato stampa del sindaco
di Terni in occasione della scomparsa del prof. Pirro, su comune.terni.it. URL
consultato il 26 luglio 2011 (archiviato dall'url originale il 17 marzo
2014). Comunicato di Terninrete in occasione della scomparsa di Pirro, su
archive.fo. Link sull'ultima pubblicazione "Regnum hominis"
[collegamento interrotto], su nuovacultura.it. La recensione di "Regnum
hominis" del Prof. Rodolfo Sideri della Fondazione Ugo Spirito di Roma
(PDF), su certificazionenergetica.com. Recensione di "Regnum hominis"
su Archiviostorico.info, su archiviostorico.info. Presentazione di "Regnum
hominis" presso la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, su
igiovedi.fondazionespirito.it. URL consultato il 7 aprile 2014 (archiviato
dall'url originale l'8 aprile 2014). "Come si falsifica la storia, il caso
di Alverino Urbani" di V. Pirro L'ospite di passaggio , la difesa di mio
padre, di Danilo Sergio Pirro, testo dell'articolo del Corriere dell'Umbria del
24 maggio 2011 L'ultimo discorso (VIDEO), su youtube.com. V. Pirro -
Sull'avvenire industriale di Terni, scritti di Luigi Campofregoso, introduzione
(PDF), su icsim.it. URL consultato il 5 giugno 2014 (archiviato dall'url
originale il 7 giugno 2014). V. Pirro,Rassegna storica del Risorgimento HEGEL
GEORG WILHELM FRIEDRICH; MOTI DEL 1820-1821, su risorgimento.it. Sito web
dedicato a Maceo Carloni, su maceocarloni.it. Articolo del giornale online
UmbriaOn dedicato all'inaugurazione della sala "Vincenzo Pirro" il 12
marzo 2016 La vita come Ricerca, la vita come Arte, la Vita come Amore,
articolo di Danilo Sergio Pirro contenuto nell'omonimo volume commemorativo.
L'Archivio di Vincenzo Pirro un bene culturale della città Controllo di
autorità VIAF
(EN) 68975587 · ISNI (EN) 0000 0000 2971 0752 · SBN IT\ICCU\RMLV\062625 · LCCN
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Identities (EN) lccn-n91031898 Biografie Portale Biografie Filosofia Portale
Filosofia Letteratura Portale Letteratura Storia Portale Storia Categorie:
Insegnanti italiani del XX secoloFilosofi italiani del XX secoloStorici
italiani del XX secoloNati nel 1938Morti nel 2009Nati il 13 novembreMorti il 25
maggioNati a San SeveroMorti a Terni[altre]
Pitagora Pitagora – or as Strawson would prefer, “Pythagoras.”La
scuola pitagorica a Crotone -- Pythagoras, the most famous of the pre-Socratic
Grecian philosophers. He emigrated from the island of Samos off Asia Minor to
Crotone, in southern Italy in 530. There he founded societies based on a strict
way of life. They had great political impact in southern Italy and aroused
opposition that resulted in the burning of their meeting houses and,
ultimately, in the societies’ disappearance in the fourth century B.C.
Pythagoras’s fame grew exponentially with the pasage of time. Plato’s immediate
successors in the Academy saw true philosophy as an unfolding of the original
insight of Pythagoras. By the time of Iamblichus late third century A.D.,
Pythagoreanism and Platonism had become virtually identified. Spurious writings
ascribed both to Pythagoras and to other Pythagoreans arose beginning in the
third century B.C. Eventually any thinker who saw the natural world as ordered
according to pleasing mathematical relations e.g., Kepler came to be called a
Pythagorean. Modern scholarship has shown that Pythagoras was not a scientist,
mathematician, or systematic philosopher. He apparently wrote nothing. The
early evidence shows that he was famous for introducing the doctrine of
metempsychosis, according to which the soul is immortal and is reborn in both human
and animal incarnations. Rules were established to purify the soul including
the prohibition against eating beans and the emphasis on training of the
memory. General reflections on the natural world such as “number is the wisest
thing” and “the most beautiful, harmony” were preserved orally. A belief in the
mystical power of number is also visible in the veneration for the tetractys
tetrad: the numbers 14, which add up to the sacred number 10. The doctrine of
the harmony of the spheres that the
heavens move in accord with number and produce music may go back to Pythagoras. It is often
assumed that there must be more to Pythagoras’s thought than this, given his
fame in the later tradition. However, Plato refers to him only as the founder
of a way of life Republic 600a9. In his account of pre-Socratic philosophy,
Aristotle refers not to Pythagoras himself, but to the “so-called Pythagoreans”
whom he dates in the fifth century.
Pizzi
Claudio E. A. Pizzi Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump
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suggerimenti del progetto di riferimento. Claudio Pizzi a Rio de Janeiro
nel 2017. Claudio E. A. Pizzi (Milano, 20 settembre 1944) è un logico e
filosofo italiano. Indice 1 Biografia
2 Attività
di ricerca 3 Note
4 Voci
correlate 5 Collegamenti
esterni Biografia Laureato in Filosofia all'Universita' degli Studi di Milano
nel 1969 con una tesi sui condizionali controfattuali, è diventato ricercatore
nel 1975 e poi incaricato di Logica presso l'Universita' della Calabria dal
1976 al 1979. Dal 1980 al 2014 (anno del pensionamento) ha lavorato per
l'Universita' degli Studi di Siena, diventando professore ordinario nel 1997. A
partire dal 1992 ha tenuto annualmente corsi e conferenze presso varie
universita' brasiliane e principalmente presso l'Universita' di Campinas (Sao
Paulo). Dal 2008 al 2012 è stato titolare di un insegnamento di Logica della
Prova presso la Facolta' di Giurisprudenza dell'Universita' di Milano
Bicocca. Attività di ricerca Ha iniziato la sua attivita' di ricerca
curando la traduzione italiana di "An Introduction to Modal Logic" di
G.E.Hughes e M. J. Cresswell[1], che offriva per la prima volta al pubblico
italiano una panoramica completa e aggiornata della logica intensionale.
Ampliando questa linea di ricerca, ha pubblicato due antologie con lunghe
introduzioni, una dedicata alla logica del tempo[2] e una dedicata alla logica
condizionale[3]. A partire dalla fine degli anni '70 ha pubblicato una serie di
articoli su riviste internazionali in cui viene introdotta una logica detta
dell'implicazione consequenziale, il cui scopo e' riformulare le basi della
logica detta connessiva[4] nel quadro della logica modale standard. Questa
traduzione linguistica consente di assiomatizzare un certo numero di sistemi
che risultano completi e decidibili mediante tableaux. Uno sviluppo verso una
generalizzazione di questi risultati è stato conseguito in due articoli scritti
in collaborazione con Timothy Williamson[5]. Altri temi di ricerca approfonditi
nel campo della logica sono stati il problema della definizione della
necessita' in termini di contingenza[6], l'applicazione di quadrati e cubi
aristotelici alle nozioni modali[7], l'approccio alla modalita' in termini di
multimodalita', cioè mediante l'impiego di un linguaggio base avente come
primitivi un numero arbitrariamente grande di operatori modali[8]. Nel campo
della filosofia della scienza il tema su cui ha lavorato in modo preminente è
stato quello della teoria controfattuale della causa, a cui ha dedicato
articoli e libri destinati a un pubblico interessato all'epistemologia
giudiziaria[9] Sempre in questo settore ha pubblicato un libro centrato sul
problema della logica dell'abduzione[10], un capitolo del quale è dedicato
all'analisi di un caso giudiziario controverso, il disastro di Ustica. Sul tema
di Ustica ha poi pubblicato un volume che contiene una discussione metodologica
delle indagini ancora aperte sul caso[11], in merito alle quali cura
attualmente un blog. Note ^ Introduzione alla logica modale, Il
Saggiatore, Milano,1973 ^ La Logica del tempo, Boringhieri, Torino, 1974 ^
Leggi di Natura, Modalita', Ipotesi. Feltrinelli, Milano, 1979 ^ V. Wansing H.,
Connexive Logic in Zalta Edward N. (ed.) Stanford Encyclopedia of Philosophy ^
Vedi in particolare Strong Boethius'Thesis and Consequential Implication,
Journal of Philosophical Logic, 26 (1997), 569-588 ^ V. Necessity and Relative
Contingency, Studia Logica, 85 (2007), 395 - 410 ^ V. Generalization and
Composition of Modal Squares of Oppositions, Logica Universalis, 26 (2016),1-13
^ v. Modalities and Multimodalities, N.Y., Springer, 2008 (with W.Carnielli) ^
V. in particolare Eventi e Cause. Una prospettiva condizionalista, Giuffre',
Milano, 1997. ^ V. Diritto, Abduzione e Prova, Giuffre', Milano, 2009 ^
Ripensare Ustica, Createspace (Amazon), 2017 Voci correlate Implicazione logica
Causalità (filosofia) Abduzione Strage di Ustica Collegamenti esterni Blog
ufficiale, su claudiopizziit.wordpress.com. Controllo di autorità VIAF (EN) 35749686
· ISNI (EN) 0000 0001 1054 1183 · SBN IT\ICCU\CFIV\073735 · LCCN (EN) n80042432
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lccn-n80042432 Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia Scienza
e tecnica Portale Scienza e tecnica Categorie: Logici italianiFilosofi italiani
del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloNati nel 1944Nati il 20
settembreNati a MilanoFilosofi della scienzaStudenti dell'Università degli
Studi di MilanoProfessori dell'Università della CalabriaProfessori
dell'Università degli Studi di SienaProfessori dell'Università degli Studi di
Milano-Bicocca[altre]
Pizzorno Alessandro Pizzorno Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Niente fonti! Questa
voce o sezione sull'argomento sociologi non cita le fonti necessarie o quelle
presenti sono insufficienti. Commento: Mancano totalmente le fonti. Puoi
migliorare questa voce aggiungendo citazioni da fonti attendibili secondo le
linee guida sull'uso delle fonti. Alessandro Pizzorno (Trieste, 1º gennaio 1924
– Firenze, 4 aprile 2019) è stato un sociologo e filosofo italiano. Biografia Triestino di nascita, fu un
apprezzato politologo di fama internazionale.
Compì studi di filosofia presso l'Università di Torino e di Scienze
sociali a Vienna e a Parigi. Nel 1953,
non ancora trentenne, assunse la direzione del Centro di relazioni industriali
della Olivetti di Ivrea. Insegnò presso
importanti università italiane ed estere: Università di Urbino, Università
Statale di Milano, Università di Oxford (Nuffield College), Università di
Harvard, Università di Teheran, Istituto Universitario Europeo (I.U.E.) di
Fiesole. Oltre agli importanti studi
sulla materia sociologica condusse ricerche di sociologia economica e politica,
in special modo sulle organizzazioni sindacali e sui conflitti di classe, sulla
politica italiana e i suoi aspetti, sui rapporti tra sistemi politici ed
economici nelle società industriali. Fu
insignito di alcuni premi, tra cui la Medaglia del Presidente della Repubblica
al Premio Nazionale Letterario Pisa.
Opere Le classi sociali (Il Mulino, 1959) Comunità e razionalizzazione
(Einaudi, 1960) Lotte operaie e sindacato in Italia 1968-1972 (1974-1978) Le
regole del pluralismo (1980) I soggetti del pluralismo. Classi, partiti,
sindacati (Bologna, 1980) Le radici della politica assoluta (Feltrinelli, 1993)
Il potere dei giudici ("Il nocciolo", Laterza, 1998) Il velo della
diversità. Studi su razionalità e riconoscimento (Feltrinelli, 2007) Sulla
maschera (Il Mulino, 2008) Collegamenti esterni Alessandro Pizzorno, su
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Modifica su Wikidata Opere di Alessandro Pizzorno, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Alessandro Pizzorno, su Open
Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata (FR) Pubblicazioni di
Alessandro Pizzorno, su Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la
Recherche et de l'Innovation. Modifica su Wikidata Registrazioni di Alessandro
Pizzorno, su RadioRadicale.it, Radio Radicale. Modifica su Wikidata Controllo
di autorità VIAF (EN)
41879835 · ISNI (EN) 0000 0000 6645 0507 · LCCN (EN) n79084212 · BNF (FR)
cb121632918 (data) · WorldCat Identities (EN) lccn-n79084212 Biografie Portale
Biografie Letteratura Portale Letteratura Categorie: Sociologi italianiFilosofi
italiani del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloNati nel 1924Morti nel
2019Nati il 1º gennaioMorti il 4 aprileNati a TriesteMorti a FirenzeProfessori
dell'Università degli Studi di UrbinoProfessori dell'Università di
TeheranProfessori dell'Università degli Studi di MilanoProfessori dell'Università
di OxfordProfessori dell'Università di HarvardProfessori dell'Istituto
universitario europeo[altre]
Placitvm
-- hedonism,
the view that pleasure including the absence of pain is the sole intrinsic good
in life. The hedonist may hold that, questions of morality aside, persons
inevitably do seek pleasure psychological hedonism; that, questions of
psychology aside, morally we should seek pleasure ethical hedonism; or that we
inevitably do, and ought to, seek pleasure ethical and psychological hedonism combined.
Psychological hedonism itself admits of a variety of possible forms. One may
hold, e.g., that all motivation is based on the prospect of present or future
pleasure. More plausibly, some philosophers have held that all choices of
future actions are based on one’s presently taking greater pleasure in the
thought of doing one act rather than another. Still a third type of
hedonism with roots in empirical
psychology is that the attainment of
pleasure is the primary drive of a wide range of organisms including human
beings and is responsible, through some form of conditioning, for all acquired
motivations. Ethical hedonists may, but need not, appeal to some form of
psychological hedonism to buttress their case. For, at worst, the truth of some
form of psychological hedonism makes ethical hedonism empty or inescapable but not false. As a value theory a theory of
what is ultimately good, ethical hedonism has typically led to one or the other
of two conceptions of morally correct action. Both of these are expressions of
moral consequentialism in that they judge actions strictly by their
consequences. On standard formulations of utilitarianism, actions are judged by
the amount of pleasure they produce for all sentient beings; on some
formulations of egoist views, actions are judged by their consequences for
one’s own pleasure. Neither egoism nor utilitarianism, however, must be wedded
to a hedonistic value theory. A hedonistic value theory admits of a variety of
claims about the characteristic sources and types of pleasure. One contentious
issue has been what activities yield the greatest quantity of pleasure with prominent candidates including
philosophical and other forms of intellectual discourse, the contemplation of
beauty, and activities productive of “the pleasures of the senses.” Most
philosophical hedonists, despite the popular associations of the word, have not
espoused sensual pleasure. Another issue, famously raised by J. S. Mill, is
whether such different varieties of pleasure admit of differences of quality as
well as quantity. Even supposing them to be equal in quantity, can we say,
e.g., that the pleasures of intellectual activity are superior in quality to
those of watching sports on television? And if we do say such things, are we
departing from strict hedonism by introducing a value distinction not really
based on pleasure at all? Most philosophers have found hedonism both psychological and ethical exaggerated in its claims. One difficulty for
both sorts of hedonism is the hedonistic paradox, which may be put as follows.
Many of the deepest and best pleasures of life of love, of child rearing, of
work seem to come most often to those who are engaging in an activity for
reasons other than pleasure seeking. Hence, not only is it dubious that we always
in fact seek or value only pleasure, but also dubious that the best way to
achieve pleasure is to seek it. Another area of difficulty concerns
happiness and its relation to pleasure.
In the tradition of Aristotle, happiness is broadly understood as something
like well-being and has been viewed, not implausibly, as a kind of natural end
of all human activities. But ‘happiness’ in this sense is broader than
‘pleasure’, insofar as the latter designates a particular kind of feeling,
whereas ‘well-being’ does not. Attributions of happiness, moreover, appear to
be normative in a way in which attributions of pleasure are not. It is thought
that a truly happy person has achieved, is achieving, or stands to achieve,
certain things respecting the “truly important” concerns of human life. Of
course, such achievements will characteristically produce pleasant feelings;
but, just as characteristically, they will involve states of active enjoyment
of activities where, as Aristotle first
pointed out, there are no distinctive feelings of pleasure apart from the doing
of the activity itself. In short, the Aristotelian thesis that happiness is the
natural end of all human activities, even if it is true, does not seem to lend
much support to hedonism psychological
or ethical.
plathegel
and ariskant
– Hegel, “one of the most influential and systematic of the idealists” (Grice),
also well known for his philosophy of history and philosophy of religion. Life
and works. Hegel, the eldest of three children, was born in Stuttgart, the son
of a minor financial official in the court of the Duchy of Württemberg. His
mother died when he was eleven. At eighteen, he began attending the theology
seminary or Stift attached to the at
Tübingen; he studied theology and classical languages and literature and became
friendly with his future colleague and adversary, Schelling, as well as the
great genius of G. Romantic poetry, Hölderlin. In 1793, upon graduation, he
accepted a job as a tutor for a family in Bern, and moved to Frankfurt in 1797
for a similar post. In 1799 his father bequeathed him a modest income and the
freedom to resign his tutoring job, pursue his own work, and attempt to
establish himself in a position. In
1801, with the help of Schelling, he moved to the town of Jena, already widely known as the
home of Schiller, Fichte, and the Schlegel brothers. After lecturing for a few
years, he became a professor in 1805. Prior to the move to Jena, Hegel’s essays
had been chiefly concerned with problems in morality, the theory of culture,
and the philosophy of religion. Hegel shared with Rousseau and the G. Romantics
many doubts about the political and moral implications of the European
Enlightenment and modern philosophy in general, even while he still
enthusiastically championed what he termed the principle of modernity,
“absolute freedom.” Like many, he feared that the modern attack on feudal
political and religious authority would merely issue in the reformulation of
new internalized and still repressive forms of authority. And he was among that
legion of G. intellectuals infatuated with ancient Greece and the superiority
of their supposedly harmonious social life, compared with the authoritarian and
legalistic character of the Jewish and later Christian religions. At Jena,
however, he coedited a journal with Schelling, The Critical Journal of
Philosophy, and came to work much more on the philosophic issues created by the
critical philosophy or “transcendental idealism” of Kant, and its legacy in the
work of Rheinhold, Fichte, and Schelling. His written work became much more
influenced by these theoretical projects and their attempt to extend Kant’s
search for the basic categories necessary for experience to be discriminated
and evaluated, and for a theory of the subject that, in some non-empirical way,
was responsible for such categories. Problems concerning the completeness,
interrelation, and ontological status of such a categorial structure were quite
prominent, along with a continuing interest in the relation between a free, self-determining
agent and the supposed constraints of moral principles and other agents. In his
early years at Jena especially before Schelling left in 1803, he was
particularly preoccupied with this problem of a systematic philosophy, a way of
accounting for the basic categories of the natural world and for human
practical activity that would ground all such categories on commonly
presupposed and logically interrelated, even interdeducible, principles. In
Hegel’s terms, this was the problem of the relation between a “Logic” and a
“Philosophy of Nature” and “Philosophy of Spirit.” After 1803, however, while
he was preparing his own systematic philosophy for publication, what had been
planned as a short introduction to this system took on a life of its own and grew
into one of Hegel’s most provocative and influential books. Working at a
furious pace, he finished hedonistic paradox Hegel, Georg Wilhelm Friedrich
365 AM
365 what would be eventually called The Phenomenology of Spirit in a
period of great personal and political turmoil. During the final writing of the
book, he had learned that Christina Burkhard would give birth to his
illegitimate son. Ludwig was born in February 1807. And he is supposed to have
completed the text on October 13, 1807, the day Napoleon’s armies captured
Jena. It was certainly an unprecedented work. In conception, it is about the
human race itself as a developing, progressively more self-conscious subject,
but its content seems to take in a vast, heterogeneous range of topics, from technical
issues in empiricist epistemology to the significance of burial rituals. Its
range is so heterogeneous that there is controversy to this day about whether
it has any overall unity, or whether it was pieced together at the last minute.
Adding to the interpretive problem, Hegel often invented his own striking
language of “inverted worlds,” “struggles to the death for recognition,”
“unhappy consciousness,” “spiritual animal kingdoms,” and “beautiful souls.”
Continuing his career at Jena in those
times looked out of the question, so Hegel accepted a job at Bamberg editing a
newspaper, and in the following year began an eight-year stint 180816 as
headmaster and philosophy teacher at a Gymnasium or secondary school at
Nürnberg. During this period, at forty-one, he married the twenty-year-old
Marie von Tucher. He also wrote what is easily his most difficult work, and the
one he often referred to as his most important, a magisterial two-volume
Science of Logic, which attempts to be a philosophical account of the concepts
necessary in all possible kinds of account-givings. Finally, in 1816, Hegel was
offered a chair in philosophy at the of
Heidelberg, where he published the first of several versions of his Encyclopedia
of the Philosophical Sciences, his own systematic account of the relation
between the “logic” of human thought and the “real” expression of such
interrelated categories in our understanding of the natural world and in our
understanding and evaluation of our own activities. In 1818, he accepted the
much more prestigious post in philosophy at Berlin, where he remained until his
death in 1831. Soon after his arrival in Berlin, he began to exert a powerful
influence over G. letters and intellectual life. In 1821, in the midst of a
growing political and nationalist crisis in Prussia, he published his
controversial book on political philosophy, The Philosophy of Right. His
lectures at the were later published as
his philosophy of history, of aesthetics, and of religion, and as his history
of philosophy. Philosophy. Hegel’s most important ideas were formed gradually,
in response to a number of issues in philosophy and often in response to
historical events. Moreover, his language and approach were so heterodox that
he has inspired as much controversy about the meaning of his position as about
its adequacy. Hence any summary will be as much a summary of the controversies
as of the basic position. His dissatisfactions with the absence of a public
realm, or any forms of genuine social solidarity in the G. states and in
modernity generally, and his distaste with what he called the “positivity” of
the orthodox religions of the day their reliance on law, scripture, and
abstract claims to authority, led him to various attempts to make use of the
Grecian polis and classical art, as well as the early Christian understanding
of love and a renewed “folk religion,” as critical foils to such tendencies.
For some time, he also regarded much traditional and modern philosophy as
itself a kind of lifeless classifying that only contributed to contemporary
fragmentation, myopia, and confusion. These concerns remained with him
throughout his life, and he is thus rightly known as one of the first modern
thinkers to argue that what had come to be accepted as the central problem of
modern social and political life, the legitimacy of state power, had been too
narrowly conceived. There are now all sorts of circumstances, he argued, in
which people might satisfy the modern criterion of legitimacy and “consent” to
the use of some power, but not fully understand the terms within which such
issues are posed, or assent in an attenuated, resentful, manipulated, or
confused way. In such cases they would experience no connection between their
individual will and the actual content of the institutions they are supposed to
have sanctioned. The modern problem is as much alienation Entfremdung as
sovereignty, an exercise of will in which the product of one’s will appears
“strange” or “alien,” “other,” and which results in much of modern life, however
chosen or willed, being fundamentally unsatisfying. However, during the Jena
years, his views on this issue changed. Most importantly, philosophical issues
moved closer to center stage in the Hegelian drama. He no longer regarded
philosophy as some sort of self-undermining activity that merely prepared one
for some leap into genuine “speculation” roughly Schelling’s position and began
to champion a unique kind of comprehensive, very determinate reflection on the
interrelations among all the various classical alternatives in philosophy. Much
more controversially, he also attempted to understand the way in which such
relations and transitions were also reflected in the history of the art,
politics, and religions of various historical communities. He thus came to
think that philosophy should be some sort of recollection of its past history,
a realization of the mere partiality, rather than falsity, of its past attempts
at a comprehensive teaching, and an account of the centrality of these
continuously developing attempts in the development of other human
practices.Through understanding the “logic” of such a development, a
reconciliation of sorts with the implications of such a rational process in
contemporary life, or at least with the potentialities inherent in contemporary
life, would be possible. In all such influences and developments, one
revolutionary aspect of Hegel’s position became clearer. For while Hegel still
frequently argued that the subject matter of philosophy was “reason,” or “the
Absolute,” the unconditioned presupposition of all human account-giving and
evaluation, and thereby an understanding of the “whole” within which the
natural world and human deeds were “parts,” he also always construed this claim
to mean that the subject matter of philosophy was the history of human
experience itself. Philosophy was about the real world of human change and
development, understood by Hegel to be the collective self-education of the
human species about itself. It could be this, and satisfy the more traditional
ideals because, in one of his most famous phrases, “what is actual is
rational,” or because some full account could be given of the logic or
teleological order, even the necessity, for the great conceptual and political
changes in human history. We could thereby finally reassure ourselves that the
way our species had come to conceptualize and evaluate is not finite or
contingent, but is “identical” with “what there is, in truth.” This identity
theory or Absolute Knowledgemeans that we will then be able to be “at home” in
the world and so will have understood what philosophers have always tried to
understand, “how things in the broadest possible sense of the term hang
together in the broadest possible sense of the term.” The way it all hangs
together is, finally, “due to us,” in some collective and historical and
“logical” sense. In a much disputed passage in his Philosophy of Religion
lectures, Hegel even suggested that with such an understanding, history itself
would be over. Several elements in this general position have inspired a good
deal of excitement and controversy. To advance claims such as these Hegel had
to argue against a powerful, deeply influential assumption in modern thought:
the priority of the individual, self-conscious subject. Such an assumption
means, for example, that almost all social relations, almost all our bonds to
other human beings, exist because and only because they are made, willed into
existence by individuals otherwise naturally unattached to each other. With
respect to knowledge claims, while there may be many beliefs in a common
tradition that we unreflectively share with others, such shared beliefs are
also taken primarily to be the result of individuals continuously affirming
such beliefs, however implicitly or unreflectively. Their being shared is
simply a consequence of their being simultaneously affirmed or assented to by
individuals. Hegel’s account requires a different picture, an insistence on the
priority of some kind of collective subject, which he called human “spirit” or
Geist. His general theory of conceptual and historical change requires the
assumption of such a collective subject, one that even can be said to be
“coming to self-consciousness” about itself, and this required that he argue
against the view that so much could be understood as the result of individual
will and reflection. Rather, he tried in many different ways to show that the
formation of what might appear to an individual to be his or her own particular
intention or desire or belief already reflected a complex social inheritance
that could itself be said to be evolving, even evolving progressively, with a
“logic” of its own. The completion of such collective attempts at
self-knowledge resulted in what Hegel called the realization of Absolute
Spirit, by which he either meant the absolute completion of the human attempt
to know itself, or the realization in human affairs of some sort of extrahuman
transcendence, or full expression of an infinite God. Hegel tried to advance
all such claims about social subjectivity without in some way hypostatizing or
reifying such a subject, as if it existed independently of the actions and
thoughts of individuals. This claim about the deep dependence of individuals on
one another even for their very identity, even while they maintain their
independence, is one of the best-known examples of Hegel’s attempt at a
dialectical resolution of many of the traditional oppositions and antinomies of
past thought. Hegel often argued that what appeared to be contraries in philosophy,
such as mind/body, freedom/determinism, idealism/materialism,
universal/particular, the state/the individual, or even God/man, appeared such
incompatible alternatives only because of the undeveloped and so incomplete
perspective within which the oppositions were formulated. So, in one of his
more famous attacks on such dualisms, human freedom according to Hegel could
not be understood coherently as some purely rational self-determination,
independent of heteronomous impulses, nor the human being as a perpetual
opposition between reason and sensibility. In his moral theory, Kant had argued
for the latter view and Hegel regularly returned to such Kantian claims about
the opposition of duty and inclination as deeply typical of modern dualism.
Hegel claimed that Kant’s version of a rational principle, the “categorical
imperative,” was so formal and devoid of content as not to be action-guiding it
could not coherently rule in or rule out the appropriate actions, and that the
“moral point of view” rigoristically demanded a pure or dutiful motivation to
which no human agent could conform. By contrast, Hegel claimed that the
dualisms of morality could be overcome in ethical life Sittlichkeit, those
modern social institutions which, it was claimed, provided the content or true
“objects” of a rational will. These institutions, the family, civil society,
and the state, did not require duties in potential conflict with our own
substantive ends, but were rather experienced as the “realization” of our
individual free will. It has remained controversial what for Hegel a truly
free, rational self-determination, continuous with, rather than constraining,
our desire for happiness and self-actualization, amounted to. Many commentators
have noted that, among modern philosophers, only Spinoza, whom Hegel greatly
admired, was as insistent on such a thoroughgoing compatibilism, and on a
refusal to adopt the Christian view of human beings as permanently divided
against themselves. In his most ambitious analysis of such oppositions Hegel
went so far as to claim that, not only could alternatives be shown to be
ultimately compatible when thought together within some higher-order “Notion”
Begriff that resolved or “sublated” the opposition, but that one term in such
opposition could actually be said to imply or require its contrary, that a
“positing” of such a notion would, to maintain consistency, require its own
“negating,” and that it was this sort of dialectical opposition that could be
shown to require a sublation, or Aufhebung a term of art in Hegel that
simultaneously means in G. ‘to cancel’, ‘to preserve’, and ‘to raise up’. This
claim for a dialectical development of our fundamental notions has been the
most severely criticized in Hegel’s philosophy. Many critics have doubted that
so much basic conceptual change can be accounted for by an internal critique,
one that merely develops the presuppositions inherent in the affirmation of
some notion or position or related practice. This issue has especially
attracted critics of Hegel’s Science of Logic, where he tries first to show
that the attempt to categorize anything that is, simply and immediately, as
“Being,” is an attempt that both “negates itself,” or ends up categorizing
everything as “Nothing,” and then that this self-negation requires a resolution
in the higher-order category of “Becoming.” This analysis continues into an
extended argument that purports to show that any attempt to categorize anything
at all must ultimately make use of the distinctions of “essence” and “appearance,”
and elements of syllogistic and finally Hegel’s own dialectical logic, and both
the details and the grand design of that project have been the subject of a
good deal of controversy. Unfortunately, much of this controversy has been
greatly confused by the popular association of the terms “thesis,”
“antithesis,” and “synthesis” with Hegel’s theory of dialectic. These crude,
mechanical notions were invented in 1837 by a less-than-sensitive Hegel
expositor, Heinrich Moritz Chalybäus, and were never used as terms of art by
Hegel. Others have argued that the tensions Hegel does identify in various
positions and practices require a much broader analysis of the historical,
especially economic, context within which positions are formulated and become
important, or some more detailed attention to the empirical discoveries or
paradoxes that, at the very least, contribute to basic conceptual change. Those
worried about the latter problem have also raised questions about the logical
relation between universal and particular implied in Hegel’s account. Hegel,
following Fichte, radicalizes a Kantian claim about the inaccessibility of pure
particularity in sensations Kant had written that “intuitions without concepts
are blind”. Hegel charges that Kant did not draw sufficiently radical
conclusions from such an antiempiricist claim, that he should have completely
rethought the traditional distinction between “what was given to the mind” and
“what the mind did with the given.” By contrast Hegel is confident that he has a
theory of a “concrete universal,” concepts that cannot be understood as pale
generalizations or abstract representations of given particulars, because they
are required for particulars to Hegel, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Georg
Wilhelm Friedrich 368 AM 368 be apprehended in the first place. They
are not originally dependent on an immediate acquaintance with particulars;
there is no such acquaintance. Critics wonder if Hegel has much of a theory of
particularity left, if he does not claim rather that particulars, or whatever
now corresponds to them, are only interrelations of concepts, and in which the
actual details of the organization of the natural world and human history are
deduced as conceptual necessities in Hegel’s Encyclopedia. This interpretation
of Hegel, that he believes all entities are really the thoughts, expressions,
or modes of a single underlying mental substance, and that this mind develops
and posits itself with some sort of conceptual necessity, has been termed a
panlogicism, a term of art coined by Hermann Glockner, a Hegel commentator in
the first half of the twentieth century. It is a much-disputed reading. Such
critics are especially concerned with the implications of this issue in Hegel’s
political theory, where the great modern opposition between the state and the
individual seems subjected to this same logic, and the individual’s true
individuality is said to reside in and only in the political universal, the
State. Thus, on the one hand, Hegel’s political philosophy is often praised for
its early identification and analysis of a fundamental, new aspect of
contemporary life the categorically
distinct realm of political life in modernity, or the independence of the
“State” from the social world of private individuals engaged in competition and
private association “civil society”. But, on the other hand, his attempt to
argue for a completion of these domains in the State, or that individuals could
only be said to be free in allegiance to a State, has been, at least since Marx,
one of the most criticized aspects of his philosophy. Finally, criticisms also
frequently target the underlying intention behind such claims: Hegel’s
career-long insistence on finding some basic unity among the many fragmented
spheres of modern thought and existence, and his demand that this unity be
articulated in a discursive account, that it not be merely felt, or gestured
at, or celebrated in edifying speculation. PostHegelian thinkers have tended to
be suspicious of any such intimations of a whole for modern experience, and
have argued that, with the destruction of the premodern world, we simply have
to content ourselves with the disconnected, autonomous spheres of modern
interests. In his lecture courses these basic themes are treated in
wide-ranging accounts of the basic institutions of cultural history. History
itself is treated as fundamentally political history, and, in typically
Hegelian fashion, the major epochs of political history are claimed to be as
they were because of the internal inadequacies of past epochs, all until some
final political semiconsciousness is achieved and realized. Art is treated
equally developmentally, evolving from symbolic, through “classical,” to the
most intensely self-conscious form of aesthetic subjectivity, romantic art. The
Lectures on the Philosophy of Religion embody these themes in some of the most
controversial ways, since Hegel often treats religion and its development as a
kind of picture or accessible “representation” of his own views about the
relation of thought to being, the proper understanding of human finitude and
“infinity,” and the essentially social or communal nature of religious life.
This has inspired a characteristic debate among Hegel scholars, with some
arguing that Hegel’s appropriation of religion shows that his own themes are
essentially religious if an odd, pantheistic version of Christianity, while
others argue that he has so Hegelianized religious issues that there is little
distinctively religious left. Influence. This last debate is typical of that
prominent in the post-Hegelian tradition. Although, in the decades following
his death, there was a great deal of work by self-described Hegelians on the
history of law, on political philosophy, and on aesthetics, most of the
prominent academic defenders of Hegel were interested in theology, and many of
these were interested in defending an interpretation of Hegel consistent with
traditional Christian views of a personal God and personal immortality. This
began to change with the work of “young Hegelians” such as D. F. Strauss
180874, Feuerbach 180472, Bruno Bauer 180982, and Arnold Ruge 180380, who
emphasized the humanistic and historical dimensions of Hegel’s account of
religion, rejected the Old Hegelian tendencies toward a reconciliation with contemporary
political life, and began to reinterpret and expand Hegel’s account of the
productive activity of human spirit eventually focusing on labor rather than
intellectual and cultural life. Strauss himself characterized the fight as
between “left,” “center,” and “right” Hegelians, depending on whether one was
critical or conservative politically, or had a theistic or a humanistic view of
Hegelian Geist. The most famous young or left Hegelian was Marx, especially
during his days in Paris as coeditor, with Ruge, of the Deutsch-französischen
Jahrbücher 1844. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Georg Wilhelm Friedrich
369 AM
369 In Great Britain, with its long skeptical, empiricist, and
utilitarian tradition, Hegel’s work had little influence until the latter part
of the nineteenth century, when philosophers such as Green and Caird took up
some of the holistic themes in Hegel and developed a neo-Hegelian reading of
issues in politics and religion that began to have influence in the academy.
The most prominent of the British neo-Hegelians of the next generation were
Bosanquet, McTaggart, and especially Bradley, all of whom were interested in
many of the metaphysical implications of Hegel’s idealism, what they took to be
a Hegelian claim for the “internally related” interconnection of all
particulars within one single, ideal or mental, substance. Moore and Russell
waged a hugely successful counterattack in the name of traditional empiricism
and what would be called “analytic philosophy” against such an enterprise and
in this tradition largely finished off the influence of Hegel or what was left
of the historical Hegel in these neo-Hegelian versions. In G.y, Hegel has
continued to influence a number of different schools of neo-Marxism, sometimes
itself simply called “Hegelian Marxism,” especially the Frankfurt School, or
“critical theory” group especially Adorno, Horkheimer, and Marcuse. And he has
been extremely influential in France, particularly thanks to the lectures of a
brilliant if idiosyncratic Russian émigré, Alexander Kojève, who taught Hegel
in the 0s at the École Pratique des Hautes Études to the likes of Merleau-Ponty
and Lacan. Kojève was as much influenced by Marx and Heidegger as Hegel, but
his lectures inspired many thinkers to turn again to Hegel’s account of human
selfdefinition in time and to the historicity of all institutions and practices
and so forged an unusual link between Hegel and postwar existentialism.
Hegelian themes continue to resurface in contemporary hermeneutics, in “communitarianism”
in ethics, and in the increasing attention given to conceptual change and
history in the philosophy of science. This has meant for many that Hegel should
now be regarded not only as the origin of a distinctive tradition in European
philosophy that emphasizes the historical and social nature of human existence,
but as a potential contributor to many new and often interdisciplinary
approaches to philosophy.
platonic --: Grice: “At Oxford you HAVE to
be platonic! Aristotelian is jaded!” -- H. P. Grice as a Platonian commentator
– vide his “Metaphysics, Philosophical Eschatology, and Plato’s Republic” --
commentaries on Plato, a term designating the works in the tradition of
commentary hypomnema on Plato that may go back to the Old Academy Crantor is
attested by Proclus to have been the first to have “commented” on the Timaeus.
More probably, the tradition arises in the first century B.C. in Alexandria,
where we find Eudorus commenting, again, on the Timaeus, but possibly also if
the scholars who attribute to him the Anonymous Theaetetus Commentary are
correct on the Theaetetus. It seems also as if the Stoic Posidonius composed a
commentary of some sort on the Timaeus. The commentary form such as we can
observe in the biblical commentaries of Philo of Alexandria owes much to the
Stoic tradition of commentary on Homer, as practiced by the second-century B.C.
School of Pergamum. It was normal to select usually consecutive portions of
text lemmata for general, and then detailed, comment, raising and answering
“problems” aporiai, refuting one’s predecessors, and dealing with points of
both doctrine and philology. By the second century A.D. the tradition of
Platonic commentary was firmly established. We have evidence of commentaries by
the Middle Platonists Gaius, Albinus, Atticus, Numenius, and Cronius, mainly on
the Timaeus, but also on at least parts of the Republic, as well as a work by
Atticus’s pupil Herpocration of Argos, in twentyfour books, on Plato’s work as
a whole. These works are all lost, but in the surviving works of Plutarch we
find exegesis of parts of Plato’s works, such as the creation of the soul in
the Timaeus 35a36d. The Latin commentary of Calcidius fourth century A.D. is
also basically Middle Platonic. In the Neoplatonic period after Plotinus, who
did not indulge in formal commentary, though many of his essays are in fact
informal commentaries, we have evidence of much more comprehensive exegetic
activity. Porphyry initiated the tradition with commentaries on the Phaedo,
commentaries on Plato commentaries on Plato 160 160 Cratylus, Sophist, Philebus, Parmenides
of which the surviving anonymous fragment of commentary is probably a part, and
the Timaeus. He also commented on the myth of Er in the Republic. It seems to
have been Porphyry who is responsible for introducing the allegorical
interpretation of the introductory portions of the dialogues, though it was
only his follower Iamblichus who also commented on all the above dialogues, as
well as the Alcibiades and the Phaedrus who introduced the principle that each
dialogue should have only one central theme, or skopos. The tradition was
carried on in the Athenian School by Syrianus and his pupils Hermeias on the
Phaedrus surviving and Proclus Alcibiades,
Cratylus, Timaeus, Parmenides all
surviving, at least in part, and continued in later times by Damascius Phaedo,
Philebus, Parmenides and Olympiodorus Alcibiades, Phaedo, Gorgias also surviving, though sometimes only in the
form of pupils’ notes. These commentaries are not now to be valued primarily as
expositions of Plato’s thought though they do contain useful insights, and much
valuable information; they are best regarded as original philosophical
treatises presented in the mode of commentary, as is so much of later Grecian
philosophy, where it is not originality but rather faithfulness to an inspired
master and a great tradition that is being striven for. Platonism Platonism -- Damascius c.462c.550,
Grecian Neoplatonist philosopher, last head of the Athenian Academy before its
closure by Justinian in A.D. 529. Born probably in Damascus, he studied first
in Alexandria, and then moved to Athens shortly before Proclus’s death in 485.
He returned to Alexandria, where he attended the lectures of Ammonius, but came
back again to Athens in around 515, to assume the headship of the Academy.
After the closure, he retired briefly with some other philosophers, including
Simplicius, to Persia, but left after about a year, probably for Syria, where
he died. He composed many works, including a life of his master Isidorus, which
survives in truncated form; commentaries on Aristotle’s Categories, On the
Heavens, and Meteorologics I all lost; commentaries on Plato’s Alcibiades,
Phaedo, Philebus, and Parmenides, which survive; and a surviving treatise On
First Principles. His philosophical system is a further elaboration of the
scholastic Neoplatonism of Proclus, exhibiting a great proliferation of
metaphysical entities. Platonism --
Eudoxus, Grecian astronomer and mathematician, a student of Plato. He created a
test of the equality of two ratios, invented the method of exhaustion for
calculating areas and volumes within curved boundaries, and introduced an
astronomical system consisting of homocentric celestial spheres. This system
views the visible universe as a set of twenty-seven spheres contained one
inside the other and each concentric to the earth. Every celestial body is
located on the equator of an ideal eudaimonia Eudoxus of Cnidus 291 291 sphere that revolves with uniform speed
on its axis. The poles are embedded in the surface of another sphere, which
also revolves uniformly around an axis inclined at a constant angle to that of
the first sphere. In this way enough spheres are introduced to capture the
apparent motions of all heavenly bodies. Aristotle adopted the system of
homocentric spheres and provided a physical interpretation for it in his
cosmology. R.E.B. Euler diagram, a logic diagram invented by the mathematician
Euler that represents standard form statements in syllogistic logic by two
circles and a syllogism by three circles. In modern adaptations of Euler
diagrams, distributed terms are represented by complete circles and
undistributed terms by partial circles circle segments or circles made with
dotted lines: Euler diagrams are more perspicuous ways of showing validity and
invalidity of syllogisms than Venn diagrams, but less useful as a mechanical
test of validity since there may be several choices of ways to represent a
syllogism in Euler diagrams, only one of which will show that the syllogism is
invalid. Plato: preeminent Grecian
philosopher whose chief contribution consists in his conception of the
observable world as an imperfect image of a realm of unobservable and
unchanging “Forms,” and his conception of the best life as one centered on the
love of these divine objects. Life and influences. Born in Athens to a
politically powerful and aristocratic family, Plato came under the influence of
Socrates during his youth and set aside his ambitions for a political career
after Socrates was executed for impiety. His travels in southern Italy and
Sicily brought him into closer contact with the followers of Pythagoras, whose
research in mathematics played an important role in his intellectual
development. He was also acquainted with Cratylus, a follower of Heraclitus,
and was influenced by their doctrine that the world is in constant flux. He
wrote in opposition to the relativism of Protagoras and the purely
materialistic mode of explanation adopted by Democritus. At the urging of a devoted
follower, Dion, he became involved in the politics of Syracuse, the wealthiest
city of the Grecian world, but his efforts to mold the ideas of its tyrant,
Dionysius II, were unmitigated failures. These painful events are described in
Plato’s Letters Epistles, the longest and most important of which is the
Seventh Letter, and although the authenticity of the Letters is a matter of
controversy, there is little doubt that the author was well acquainted with
Plato’s life. After returning from his first visit to Sicily in 387, Plato
established the Academy, a fraternal association devoted to research and
teaching, and named after the sacred site on the outskirts of Athens where it
was located. As a center for political training, it rivaled the school of Isocrates,
which concentrated entirely on rhetoric. The bestknown student of the Academy
was Aristotle, who joined at the age of seventeen when Plato was sixty and
remained for twenty years. Chronology of the works. Plato’s works, many of
which take the form of dialogues between Socrates and several other speakers,
were composed over a period of about fifty years, and this has led scholars to
seek some pattern of philosophical development in them. Increasingly
sophisticated stylometric tests have been devised to calculate the linguistic
similarities among the dialogues. Ancient sources indicate that the Laws was
Plato’s last work, and there is now consensus that many affinities exist
between the style of this work and several others, which can therefore also be
safely regarded as late works; these include the Sophist, Statesman, and
Philebus perhaps written in that order. Stylometric tests also support a rough
division of Plato’s other works into early and middle periods. For example, the
Apology, Charmides, Crito, Euthyphro, Hippias Minor, Ion, Laches, and
Protagoras listed alphabetically are widely thought to be early; while the
Phaedo, Symposium, Republic, and Phaedrus perhaps written in that order are
agreed to belong to his middle period. But in some cases it is difficult or
impossible to tell which of two works belonging to the same general period
preceded the other; this is especially true of the early dialogues. The most
controversial chronological question concerns the Timaeus: stylometric tests
often place it with the later dialogues, though some scholars think that its
philosophical doctrines are discarded in the later dialogues, and they
therefore assign it to Plato’s middle period. The underlying issue is whether
he abandoned some of the main doctrines of this middle period. Early and middle
dialogues. The early dialogues typically portray an encounter between Socrates
and an interlocutor who complacently assumes that he understands a common
evaluative concept like courage, piety, or beauty. For example, Euthyphro, in
the dialogue that bears his name, denies that there is any impiety in
prosecuting his father, but repeated questioning by Socrates shows that he
cannot say what single thing all pious acts have in common by virtue of which
they are rightly called pious. Socrates professes to have no answer to these
“What is X?” questions, and this fits well with the claim he makes in the
Apology that his peculiarly human form of wisdom consists in realizing how
little he knows. In these early dialogues, Socrates seeks but fails to find a
philosophically defensible theory that would ground our use of normative terms.
The Meno is similar to these early dialogues
it asks what virtue is, and fails to find an answer but it goes beyond them and marks a
transition in Plato’s thinking. It raises for the first time a question about
methodology: if one does not have knowledge, how is it possible to acquire it
simply by raising the questions Socrates poses in the early dialogues? To show
that it is possible, Plato demonstrates that even a slave ignorant of geometry
can begin to learn the subject through questioning. The dialogue then proposes
an explanation of our ability to learn in this way: the soul acquired knowledge
before it entered the body, and when we learn we are really recollecting what
we once knew and forgot. This bold speculation about the soul and our ability
to learn contrasts with the noncommittal position Socrates takes in the
Apology, where he is undecided whether the dead lose all consciousness or continue
their activities in Hades. The confidence in immortality evident in the Meno is
bolstered by arguments given in the Phaedo, Republic, and Phaedrus. In these
dialogues, Plato uses metaphysical considerations about the nature of the soul
and its ability to learn to support a conception of what the good human life
is. Whereas the Socrates of the early dialogues focuses almost exclusively on
ethical questions and is pessimistic about the extent to which we can answer
them, Plato, beginning with the Meno and continuing throughout the rest of his
career, confidently asserts that we can answer Socratic questions if we pursue
ethical and metaphysical inquiries together. The Forms. The Phaedo is the first
dialogue in which Plato decisively posits the existence of the abstract objects
that he often called “Forms” or “Ideas.” The latter term should be used with
caution, since these objects are not creations of a mind, but exist
independently of thought; the singular Grecian terms Plato often uses to name
these abstract objects are eidos and idea. These Forms are eternal, changeless,
and incorporeal; since they are imperceptible, we can come to have knowledge of
them only through thought. Plato insists that it would be an error to identify
two equal sticks with what Equality itself is, or beautiful bodies with what
Beauty itself is; after all, he says, we might mistakenly take two equal sticks
to be unequal, but we would never suffer from the delusion that Equality itself
is unequal. The unchanging and incorporeal Form is the sort of object that is
presupposed by Socratic inquiry; what every pious act has in common with every
other is that it bears a certain relationship
called “participation” to one and
the same thing, the Form of Piety. In this sense, what makes a pious act pious
and a pair of equal sticks equal are the Forms Piety and Equality. When we call
sticks equal or acts pious, we are implicitly appealing to a standard of
equality or piety, just as someone appeals to a standard when she says that a
painted portrait of someone is a man. Of course, the pigment on the canvas is
not a man; rather, it is properly called a man because it bears a certain
relationship to a very different sort of object. In precisely this way, Plato
claims that the Forms are what many of our words refer to, even though they are
radically different sorts of objects from the ones revealed to the senses. For
Plato the Forms are not merely an unusual item to be added to our list of
existing objects. Rather, they are a source of moral and religious inspiration,
and their discovery is therefore a decisive turning point in one’s life. This
process is described by a fictional priestess named Diotima in the Symposium, a
dialogue containing a series of speeches in praise of love and concluding with
a remarkable description of the passionate response Socrates inspired in
Alcibiades, his most notorious admirer. According to Diotima’s account, those
who are in love are searching for something they do not yet understand; whether
they realize it or not, they seek the eternal possession of the good, and they
can obtain it only through productive activity of some sort. Physical love
perpetuates the species and achieves a lower form of immortality, but a more
beautiful kind of offspring is produced by those who govern cities and shape
the moral characteristics of future generations. Best of all is the kind of
love that eventually attaches itself to the Form of Beauty, since this is the
most beautiful of all objects and provides the greatest happiness to the lover.
One develops a love for this Form by ascending through various stages of
emotional attachment and understanding. Beginning with an attraction to the
beauty of one person’s body, one gradually develops an appreciation for the
beauty present in all other beautiful bodies; then one’s recognition of the
beauty in people’s souls takes on increasing strength, and leads to a deeper
attachment to the beauty of customs, laws, and systems of knowledge; and this
process of emotional growth and deepening insight eventually culminates in the
discovery of the eternal and changeless beauty of Beauty itself. Plato’s theory
of erotic passion does not endorse “Platonic love,” if that phrase designates a
purely spiritual relationship completely devoid of physical attraction or
expression. What he insists on is that desires for physical contact be
restrained so that they do not subvert the greater good that can be
accomplished in human relationships. His sexual orientation like that of many
of his Athenian contemporaries is clearly homosexual, and he values the moral
growth that can occur when one man is physically attracted to another, but in
Book I of the Laws he condemns genital activity when it is homosexual, on the
ground that such activity should serve a purely procreative purpose. Plato’s
thoughts about love are further developed in the Phaedrus. The lover’s longing
for and physical attraction to another make him disregard the norms of
commonplace and dispassionate human relationships: love of the right sort is therefore
one of four kinds of divine madness. This fourfold classificatory scheme is
then used as a model of proper methodology. Starting with the Phaedrus,
classification what Plato calls the
“collection and division of kinds”
becomes the principal method to be used by philosophers, and this
approach is most fully employed in such late works as the Sophist, Statesman,
and Philebus. Presumably it contributed to Aristotle’s interest in categories
and biological classification. The Republic. The moral and metaphysical theory
centered on the Forms is most fully developed in the Republic, a dialogue that
tries to determine whether it is in one’s own best interests to be a just
person. It is commonly assumed that injustice pays if one can get away with it,
and that just behavior merely serves the interests of others. Plato attempts to
show that on the contrary justice, properly understood, is so great a good that
it is worth any sacrifice. To support this astonishing thesis, he portrays an
ideal political community: there we will see justice writ large, and so we will
be better able to find justice in the individual soul. An ideal city, he
argues, must make radical innovations. It should be ruled by specially trained
philosophers, since their understanding of the Form of the Good will give them
greater insight into everyday affairs. Their education is compared to that of a
prisoner who, having once gazed upon nothing but shadows in the artificial
light of a cave, is released from bondage, leaves the cave, eventually learns
to see the sun, and is thereby equipped to return to the cave and see the
images there for what they are. Everything in the rulers’ lives is designed to
promote their allegiance to the community: they are forbidden private
possessions, their sexual lives are regulated by eugenic considerations, and
they are not to know who their children are. Positions of political power are
open to women, since the physical differences between them and men do not in
all cases deprive them of the intellectual or moral capacities needed for
political office. The works of poets are to be carefully regulated, for the
false moral notions of the traditional poets have had a powerful and
deleterious impact on the general public. Philosophical reflection is to
replace popular poetry as the force that guides moral education. What makes
this city ideally just, according to Plato, is the dedication of each of its
components to one task for which it is naturally suited and specially trained.
The rulers are ideally equipped to rule; the soldiers are best able to enforce
their commands; and the economic class, composed of farmers, craftsmen,
builders, and so on, are content to do their work and to leave the tasks of
making and enforcing the laws to others. Accordingly what makes the soul of a
human being just is the same principle: each of its components must properly
perform its own task. The part of us that is capable of understanding and
reasoning is the part that must rule; the assertive part that makes us capable
of anger and competitive spirit must give our understanding the force it needs;
and our appetites for food and sex must be trained so that they seek only those
objects that reason approves. It is not enough to educate someone’s reason, for
unless the emotions and appetites are properly trained they will overpower it.
Just individuals are those who have fully integrated these elements of the
soul. They do not unthinkingly follow a list of rules; rather, their just
treatment of others flows from their own balanced psychological condition. And
the paradigm of a just person is a philosopher, for reason rules when it
becomes passionately attached to the most intelligible objects there are: the
Forms. It emerges that justice pays because attachment to these supremely
valuable objects is part of what true justice of the soul is. The worth of our
lives depends on the worth of the objects to which we devote ourselves. Those
who think that injustice pays assume that wealth, domination, or the pleasures
of physical appetite are supremely valuable; their mistake lies in their
limited conception of what sorts of objects are worth loving. Late dialogues.
The Republic does not contain Plato’s last thoughts on moral or metaphysical
matters. For example, although he continues to hold in his final work, the
Laws, that the family and private wealth should ideally be abolished, he
describes in great detail a second-best community that retains these and many
other institutions of ordinary political life. The sovereignty of law in such a
state is stressed continually; political offices are to be filled by elections
and lots, and magistrates are subject to careful scrutiny and prosecution.
Power is divided among several councils and offices, and philosophical training
is not a prerequisite for political participation. This second-best state is
still worlds apart from a modern liberal democracy poetic works and many features of private
life are carefully regulated, and atheism is punished with death but it is remarkable that Plato, after having
made no concessions to popular participation in the Republic, devoted so much
energy to finding a proper place for it in his final work. Plato’s thoughts
about metaphysics also continued to evolve, and perhaps the most serious
problem in interpreting his work as a whole is the problem of grasping the
direction of these further developments. One notorious obstacle to
understanding his later metaphysics is presented by the Parmenides, for here we
find an unanswered series of criticisms of the theory of Forms. For example, it
is said that if there is reason to posit one Form of Largeness to select an
arbitrary example then there is an equally good reason to posit an unlimited
number of Forms of this type. The “first” Form of Largeness must exist because
according to Plato whenever a number of things are large, there is a Form of
Largeness that makes them large; but now, the argument continues, if we
consider this Form together with the other large things, we should recognize
still another Form, which makes the large things and Largeness itself large.
The argument can be pursued indefinitely, but it seems absurd that there should
be an unlimited number of Forms of this one type. In antiquity the argument was
named the Third Man, because it claims that in addition to a second type of
object called “man” the Form of Man there is even a third. What is Plato’s
response to this and other objections to his theory? He says in the Parmenides
that we must continue to affirm the existence of such objects, for language and
thought require them; but instead of responding directly to the criticisms, he
embarks on a prolonged examination of the concept of unity, reaching apparently
conflicting conclusions about it. Whether these contradictions are merely
apparent and whether this treatment of unity contains a response to the earlier
critique of the Forms are difficult matters of interpretation. But in any case
it is clear that Plato continues to uphold the existence of unchanging
realities; the real difficulty is whether and how he modifies his earlier views
about them. In the Timaeus, there seem to be no modifications at all a fact that has led some scholars to believe,
in spite of some stylometric evidence to the contrary, that this work was
written before Plato composed the critique of the Forms in the Parmenides. This
dialogue presents an account of how a divine but not omnipotent craftsman
transformed the disorderly materials of the universe into a harmonious cosmos
by looking to the unchanging Forms as paradigms and creating, to the best of
his limited abilities, constantly fluctuating images of those paradigms. The
created cosmos is viewed as a single living organism governed by its own
divinely intelligent soul; time itself came into existence with the cosmos,
being an image of the timeless nature of the Forms; space, however, is not
created by the divine craftsman but is the characterless receptacle in which
all change takes place. The basic ingredients of the universe are not earth,
air, fire, and water, as some thinkers held; rather, these elements are
composed of planes, which are in turn made out of elementary triangular shapes.
The Timaeus is an attempt to show that although many other types of objects
besides the Forms must be invoked in order to understand the orderly nature of
the changing universe souls, triangles,
space the best scientific explanations
will portray the physical world as a purposeful and very good approximation to
a perfect pattern inherent in these unchanging and eternal objects. But Forms
do not play as important a role in the Philebus, a late dialogue that contains
Plato’s fullest answer to the question, What is the good? He argues that
neither pleasure not intelligence can by itself be identified with the good,
since no one would be satisfied with a life that contained just one of these
but totally lacked the other. Instead, goodness is identified with proportion,
beauty, and truth; and intelligence is ranked a superior good to pleasure
because of its greater kinship to these three. Here, as in the middle
dialogues, Plato insists that a proper understanding of goodness requires a
metaphysical grounding. To evaluate the role of pleasure in human life, we need
a methodology that applies to all other areas of understanding. More
specifically, we must recognize that everything can be placed in one of four
categories: the limited, the unlimited, the mixture of these two, and the
intelligent creation of this mixture. Where Forms are to be located in this
scheme is unclear. Although metaphysics is invoked to answer practical
questions, as in the Republic, it is not precisely the same metaphysics as
before. Though we naturally think of Plato primarily as a writer of
philosophical works, he regards the written word as inferior to spoken
interchange as an instrument for learning and teaching. The drawbacks inherent
in written composition are most fully set forth in the Phaedrus. There is no
doubt that in the Academy he participated fully in philosophical debate, and on
at least one occasion he lectured to a general audience. We are told by
Aristoxenus, a pupil of Aristotle, that many in Plato’s audience were baffled
and disappointed by a lecture in which he maintained that Good is one. We can
safely assume that in conversation Plato put forward important philosophical
ideas that nonetheless did not find their way into his writings. Aristotle
refers in Physics IV.2 to one of Plato’s doctrines as unwritten, and the
enigmatic positions he ascribes to Plato in Metaphysics I.6 that the Forms are to be explained in terms
of number, which are in turn generated from the One and the dyad of great and
small seem to have been expounded solely
in discussion. Some scholars have put great weight on the statement in the
Seventh Letter that the most fundamental philosophical matters must remain
unwritten, and, using later testimony about Plato’s unwritten doctrines, they
read the dialogues as signs of a more profound but hidden truth. The
authenticity of the Seventh Letter is a disputed question, however. In any
case, since Aristotle himself treats the middle and late dialogues as
undissembling accounts of Plato’s philosophy, we are on firm ground in adopting
the same approach. Cf. Plato and Platonism by Pater, an early philosophical
reading by Grice. Refs.: H. P. Grice, “Commentary on Plato’s Republic,” H. P.
Grice, “Semantics as footnotes to Cratylus.” H. P. Grice, “Plato and Cassirer,
Aristotle and I.” Luigi Speranza, “The Aristotle-Plato polemic at Oxford and
how Grice suffered iit.”
playgroup: Grice: “Strictly,
a playgroup is institutional – I wouldn’t say that Tom and Jerry form a
playgroup if they played chess together only once!” -- The motivation for the
three playgroups were different. Austin’s first playgroup was for fun. Grice
never attended. Austin’s new playgroup, or ‘second’ playgroup, if you must, was
a sobriquet Grice gave because it was ANYTHING BUT. Grice’s playgroup upon
Austin’s death was for fun, like the ‘first’ playgroup. Since Grice
participated in the second and third, he expanded. The second playgroup was for
‘philosophical hacks’ who needed ‘para-philosophy.’ The third playgroup was for
fun fun. While Austin belonged to the first and the second playgroups, there
were notorious differences. In the first playgroup, he was not the master, and
his resentment towards Ayer can be seen in “Sense and Sensibilia.” The second
playgroup had Austin as the master. It is said that the playgroup survived
Austin’s demise with Grice’s leadership – But Grice’s playgroup was still a
different thing – some complained about the disorderly and rambling nature –
Austin had kept a very tidy organisation and power structure. Since Grice does
NOT mention his own playgroup, it is best to restrict playgroup as an ironic
sobriquet by Grice to anything but a playgroup, conducted after the war by
Austin, by invitation only, to full-time university lecturers in philosophy.
Austin would hold a central position, and Austin’s motivation was to ‘reach’
agreement. Usually, when agreement was not reached, Austin could be pretty
impolite. Grice found himself IN THE PLAYGROUP. He obviously preferred a
friendlier atmosphere, as his own group later testified. But he was also
involved in philosophical activity OTHER than the play group. Notably his joint
endeavours with Strawson, Warnock, Pears, and Thomson. For some reason he chose
each for a specific area: Warnock for the philosophy of perception (Grice’s implicaturum
is that he would not explore meta-ethics with Warnock – he wouldn’t feel like,
nor Warnock would). Philosophy of action of all things, with J. F. Thomson.
Philosophical psychology with D. F. Pears – so this brings Pears’s observations
on intending, deciding, predicting, to the fore. And ontology with P. F.
Strawson. Certainlty he would not involve with Strawson on endless
disagreements about the alleged divergence or lack thereof between
truth-functional devices and their vernacular counterparts! Grice also mentions
collaboration with Austin in teaching – “an altogether flintier experience,” as
Warnock knows and “Grice can testify.” – There was joint seminars with A. M.
Quinton, and a few others. One may add the tutorials. Some of his tutees left
Griceian traces: A. G. N. Flew, David Bostock, J. L. Ackrill, T. C. Potts. The term was meant ironically. The playgroup
activities smack of military or civil service! while this can be safely called Grice’s
playgroup, it was founded by Austin at All Souls, where it had only seven
members. After the war, Grice joined in. The full list is found elsewhere. With
Austin’s death, Grice felt the responsibility to continue with it, and plus, he
enjoyed it! In alphabetical order. It is this group that made history. J. L. Austin, A. G. N. Flew, P. L. Gardiner,
H. P. Grice, S. N. Hampshire, R. M. Hare, H. L. A. Hart, P. H. Nowell-Smith, G. A. Paul, D. F. Pears,
P. F. Strawson, J. F. Thomson, J. O. Urmson, G. J. Warnock, A. D. Woozley.
Grice distinguishes it very well from Ryle’s group, and the group of
neo-Wittgensteinians. And those three groups were those only involved with
‘ordinary language.’
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