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Is Grice the greatest philosopher that ever lived?

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Wednesday, October 20, 2021

GRICE ITALICVS I/X

 

IN PLICATVRVM -- impiegato -- H. P. Grice, St. John’s Oxford -- Compiled by Grice’s Playgroup, The Bodleian -- For The Anglo-Italian Society, Bologna -- Dedicated to A. M. G. – Luigi Speranza, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. -- NAMES

 

ABANO. (Abano). Grice: “I like Abano; he is from my wife’s favourite part of Italy – Veneto – actually provincial di Padova – which has a little bit on the water – Strawson says he is more of a physician than a philosopher – but I say, “Both start with aspirated p!” – Grice: “My favourite Abano is the logician or philosopher of the lingo -- Abano  Pietro d'Abano Da Wikipedia. Se stai cercando l'opera lirica, vedi Pietro d'Abano (opera).  Pietro d'Abano Pietro d'Abano, latinizzato in Petrus de Abano o Petrus Patavinus è stato un filosofo, medico e astrologo italiano, insegnante di medicina, filosofia e astrologia all'Università di Parigi e dal 1306 all'Università di Padova; inoltre è considerato il primo rappresentante dell'aristotelismo padovano. Amico di Marco Polo, visse a lungo a Costantinopoli per imparare il greco e l'arabo, studiando in originale i testi di Galeno, Avicenna e Averroè. Fu autore anche di varie traduzioni di testi scientifici greci e arabi in latino: i Problemata di Aristotele (ai quali aggiunse un commentario, l'Expositio Problematum Aristotelis), i Problemata di Alessandro di Afrodisia[3], vari scritti di Galeno e Dioscoride. Rivide inoltre la traduzione delle opere di Abraham ibn ‛Ezra. Si guadagnò una grande fama come autore Conciliator Differentiarum, quæ inter Philosophos et Medicos Versantur.  Probabilmente Pietro d'Abano ispirò a Giotto il complesso – e per molti versi misterioso – ciclo pittorico che ornava il Palazzo della Ragione di Padova, andato perso in un incendio e rifatto da alcuni pittori minori seguendo lo stesso schema iconografico. Il ciclo di affreschi è suddiviso in 333 riquadri, si svolge su tre fasce sovrapposte, ed è uno dei rarissimi cicli astrologici medievali giunti fino ai nostri giorni. D'Abano è considerato uno dei più colti ingegni del suo tempo, la sua dottrina lo fece passare per un negromante.  Accusato tre volte dal Tribunale dell'Inquisizione di magia, eresia e ateismo fu prosciolto le prime due volte. L'ultima volta morì in prigione a causa delle torture subite, un anno prima della fine del processo. A seguito della condanna il suo cadavere fu dissotterrato per essere arso sul rogo.  A Pietro d'Abano esplicitamente si rifarà, per alcuni argomenti, come l'embriologia, il celebre medico Iacopo da Forlì. Citazioni famose Nel Conciliator Differentiarum, quæ inter Philosophos et Medicos Versantur D'Abano riferisce di avere parlato con Marco Polo di quello che aveva osservato nella volta celeste durante i suoi viaggi. Marco raccontò che durante il suo viaggio di ritorno nel Mar Cinese Meridionale, aveva avvistato quella che descrive in un disegno come una stella "a forma di sacco" (ut sacco) con una grande coda (magna habet caudam). Pietro d'Abano interpretò questa informazione come una conferma della sua teoria secondo cui nell'emisfero sud si potesse osservare una stella analoga alla stella polare, ma si trattava con ogni probabilità di una cometa. Gli astronomi sono concordi nell'affermare che non ci furono comete avvistate in Europa alla fine del 1200, ma ci sono testimonianze che una cometa venne avvistata in Cina e in Indonesia nel 1293.[6] Questa circostanza non compare nel Milione. Abano conservò il disegno nel suo volume Conciliator Differentiarum, quæ inter Philosophos et Medicos Versantur. Sempre nello stesso documento, si riporta la descrizione di un animale di grossa stazza con un corno sul muso, identificato oggi con il rinoceronte di Sumatra; Pietro d'Albano non riferisce un nome particolare assegnato da Marco a questo animale; si pensa invece che fu Rustichello a identificarlo con l'unicorno nel Milione. Questa testimonianza è stata ripresa da Jensen, quando venne messa pesantemente in dubbio la veridicità del Milione di Marco Polo.  Sempre nel Conciliator Differentiarum (Diss. 67), Abano menziona la spedizione di Ugolino e Vadino Vivaldi genovesi verso le Indie Orientali per via mare.  "Parum ante ista tempora Januenses duas paravere omnibus necessariis munitas galeas, qui per Gades Herculis in fine Hispamia situatas transiere. Quid autem illis contigerit, jam spatio fère trigesimo ignoratur anno. Transitus tamen nunc patens est per magnos Tartaros eundo versus aquilonem, deinde se in orientem et meridiem congirando". Riconoscimenti Il Teatro Congressi di Abano Terme (già "Cinema Teatro delle Terme") è a lui dedicato, come pure l'IPSSAR "Pietro d'Abano (Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione) poco distante, e altrettanto il Centro Studi Termali Pietro d'Abano, ente di ricerca del territorio Euganeo.  È rappresentato a Padova in una delle 78 statue di Prato della Valle e nell'altorilievo al di sopra di una delle quattro porte d'entrata di Palazzo della Ragione.  Ad Abano Terme a lui sono dedicati una statua nell'omonima piazza e il bassorilievo sul lato Est dello gnomone della meridiana monumentale in piazza del Sole e della Pace.  Note  Dizionario di filosofia, Riferimenti in Collegamenti esterni.  Michelangelo Guidi, Caratteri e modi della cultura araba, Real Accademia d'Italia,  «A Padova, specialmente, ferve lo studio degli Arabi, poiché Pietro d'Abano – il quale si era servito non solo del greco, ma anche dell'arabo che era andato a studiare a Costantinopoli per poter rettificare gli inevitabili errori delle versioni del tempo – aveva fatto della sua scuola di medicina il centro di quello che fu poi detto l'«Arabismo medico».». Iolanda Ventura, Translating, commenting, re-translating: some considerations on the Latin translations of the Pseudo-Aristotelian Problemata and their readers, in Michèle Goyens, Pieter de Leemans e An Smets (a cura di), Science Translated: Latin and Vernacular Translations of Scientific Treatises in Medieval Europe, Leuven University Press, Pietro d'Abano, su galenolatino.com.  R. Martorelli Vico, Per una storia dell'embriologia, Guerini e Associati, Napoli, J. Jensen, The World's most diligent observer, in Asiatische Studien, Francesco Bottin, Pietro d'Abano, Marco Polo e Giovanni da Montecorvino, in Medicina nei Secoli, Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana:  fino all'anno MCCC, Firenze, presso Molini, Landi e C. Bibliografia  Conciliator differentiarum philosophorum et precipue medicorum Adalberto Pazzini, Pietro d'Abano, in Dizionario Letterario Bompiani. Autori, III, Milano, Bompiani, Joan Cadden, "Sciences/silences: the nature and languages of "sodomy" in Peter of Abano's Problemata Commentary". In: Karma Lochrie & Peggy McCracken & James Schultz, Constructing medieval sexualities, University of Minnesota press, Minneapolis & London, Médicine, astrologie et magie entre Moyen Âge et Renaissance: autour de Pietro d'Abano. Textes réunis par Jean-Patrice Boudet, Franck Collard et Nicolas Weill-Parot, Firenze, Sismel - Edizioni del Galluzzo, (Società internazionale per lo studio del Medioevo latino) Pietro de Sclavione d'Abano, Trattati di Astronomia, Lucidator dubitabilium astronomiae, De motu octavae sphaerae e altre opere a cura di Graziella Federici Vescovini, Padova: Editoriale Programma, Loris Premuda, «Pietro d'Abano». In:  Dizionario critico della letteratura italiana, Torino: UTET L. Norpoth, «Zur Bio-Bibliographie und Wissenschaftslehre des Pietro d'Abano, Mediziners, Philosophen und Astronomen in Padua», Kyklos, Lynn Thorndike, A history of magic and experimental science, Vol. II: During the first thirteen centuries of our era. New York: Columbia university press, Sante Ferrari, I tempi, la vita, le dottrine di Pietro D'Abano: saggio storico-filosofico, Genova: Tipografia R. Istituto Sordomuti, Pietro d'Abano, Conciliator differentiarum philosophorum et precipue medicorum, Gregorio Piaia, Pietro d'Abano. Filosofo medico e astrologo europeo, Milano, FrancoAngeli, Francesco Aldo Barcaro, L'eretico Pietro d'Abano (medico o mago?), Nuova Grafica, Vigorovea (Sant'Angelo di Piove di Sacco, PD), Voci correlate Storia della scienza Aristotelismo Taddeo Alderotti Mondino dei Liuzzi Sefer Raziel HaMalakh. Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Guido Calogero, Pietro d'Abano, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Pietro d'Abano, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.Iolanda Ventura, Pietro d'Abano, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Opere di Pietro d'Abano, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.(FR) Bibliografia su Pietro d'Abano, su Les Archives de littérature du Moyen Âge.Marta Cristiani, Pietro d'Abano, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Pietro d'Abano, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. He is possibly the first alphabetical philosopher. But there are more! Important Italian philosopher. From Abano-Terme. “If Occam is called Occam, I should be called Harborne.”Grice. “He was an exacting editor, if ever there was onebut he failed at one thing, “Problemata physica” was never written by Aristotle!”Grice. Pietro d'Abano-Terme, conosciuto anche come Petrus de Apono, Petrus Aponensis o Pietro d'Abano italiano a Padova. -- Abano era nato nella città italiana da cui prende il nome, ora Abano Terme. Abano-Terme guadagnato la fama scrivendo "Conciliatore Differentiarum, quae tra Philosophos et Medicos Versantur." Finalmente Abano-Terme è stato accusato di eresia e l'ateismo, ed è venuto prima della Inquisizione. Abano e morto in carcere prima della fine del suo processo.  Abano-Terme Ha vissuto in Grecia per un periodo di tempo prima che si è trasferito e ha iniziato i suoi studi a lungo a Costantinopoli. Si trasferisce a Parigi, dove è stato promosso ai gradi di dottore in filosofia e medicina, nella pratica di cui era un grande successo, ma i suoi costi erano notevolmente alta. A Parigi divenne noto come "il Grande lombarda". Abano-Terme si stabilì a Padova. Abano-Terme è stato accusato di praticare la magia: le accuse specifiche è che è tornato, con l'aiuto del diavolo , tutti i soldi che ha pagato di distanza, e che possedeva la pietra filosofale. Gabriel Naudé, nel suo "antiquitate scholae Medicae Parisiensis," dà il seguente resoconto di lui. "Cerchiamo di prossima produciamo Peter de Apona, o Pietro da Abano, chiamato il riconciliatore, a causa del famoso libro che ha pubblicato durante il suo soggiorno nella vostra università. E 'certo che fisica laici sepolto in Italia, scarsa noto a nessuno, incolto e disadorno, fino alla sua genio tutelare, un abitante del villaggio di Apona-Terme, destinata a liberare l'Italia dalla sua barbarie e l'ignoranza, come Camillo volta liberato Roma dall'assedio del Galli, ha fatto un'indagine diligente in quale parte del mondo della letteratura cortese è stato felicemente coltivata, la filosofia più astuzia gestito, e fisico ha insegnato con la massima solidità e la purezza; e di essere certi che sola Parigi rivendicò questo onore, là vola attualmente; dando se stesso interamente alla sua tutela, si applicò con diligenza per i misteri della filosofia e della medicina; ottenuto un grado e l'alloro in entrambi; e poi entrambi insegnato con grande applauso: e dopo un soggiorno di molti anni, loaden con la ricchezza acquisita in mezzo a voi, e, dopo essere stato il più famoso filosofo del suo tempo, torna al suo paese , dove, a giudizio del giudizioso Scardeon , è stato il primo restauratore della vera filosofia. Gratitudine, quindi, invita a riconoscere i vostri obblighi a causa di Michael Angelus Blondus,  di Roma, che nell'ultimo impegno secolo di pubblicare il Conciliationes Physiognomicæ del proprio Aponensian, e trovando erano state composte a Parigi, e nella vostra università, ha scelto di pubblicarli nel nome, e con il patrocinio, della vostra società.  Portava le sue indagini finora nelle scienze occulte della natura astruso e nascosta, che, dopo aver dato più ampie prove, dai suoi scritti in materia di fisionomia , geomanzia, e chiromanzia , si è trasferito sulla allo studio della filosofia; che studi hanno dimostrato in modo vantaggioso per lui, che, per non parlare dei due prima, che lo presentò a tutti i papi del suo tempo, e lo ha acquisito una reputazione tra i dotti, è certo che era un grande maestro in quest'ultimo , che appare non solo dalle cifre astronomiche che aveva dipinto nella grande sala del palazzo di Padova, e le traduzioni fece dei libri del rabbino dottissimo Abraham Aben Ezra, aggiunto a quelli che si ricompose nei giorni critici, e il miglioramento di astronomia, ma dalla testimonianza del celebre matematico Regiomontano, che ha fatto un bel panegirico su di lui, in qualità di un astrologo, nell'orazione ha pronunciato pubblicamente a Padova quando ha spiegato c'è il libro di Alfragano .  Steepto  scritti  Conciliatore differentiarum philosophorum et precipue medicorum Nei suoi scritti egli espone e difende i sistemi medici e filosofici di Averroè, Avicenna , ed altri scrittori. Le sue opere più note sono il Conciliatore differentiarum quae tra philosophos et medicos versantur e De venenis eorumque remediis , entrambi i quali sono ancora esistente in decine di manoscritti e varie edizioni a stampa dalla fine del Quattrocento attraverso Cinquecento. Il primo tentativo di riconciliare apparenti contraddizioni tra teoria medica e la filosofia naturale aristotelica, ed è stato considerato autorevole in ritardo quanto XVI secolo.  E 'stato affermato che Abano-Terme ha anche scritto un libro di magia chiamato "Heptameron," un libro conciso di riti magici rituali che si occupano di evocare gli angeli specifici per i sette giorni della settimana (da qui il titolo). Egli è anche accreditato con la scrittura De venenis eorumque remediis , che ha esposto sulle teorie arabi in materia di superstizioni, veleni e contagi.  l'Inquisizione  Generico ritratto di Petr [noi] da Abano conciliatore , <la rovesciata 'c' è un'abbreviazione corrente latina per il prefisso 'con -'> xilografia dalla Cronaca di Norimberga , 1493 E 'stato due volte portato in giudizio da parte dell'Inquisizione; per la prima volta è stato assolto, e morì prima che il secondo processo è stato completato. E 'stato trovato colpevole, però, e il suo corpo è stato ordinato di essere riesumato e bruciato; ma un amico aveva segretamente rimosso, e l'Inquisizione doveva quindi accontentarsi con la proclamazione pubblica della sua frase e la combustione di Abano in effigie .  Secondo Naude:  L'opinione generale di quasi tutti gli autori è, che era il più grande mago del suo tempo; che per mezzo di sette spiriti, familiari, che teneva chiuso dell'articolo in chrystal, aveva acquisito la conoscenza delle sette arti liberali, e che aveva l'arte di causare il denaro che aveva fatto uso di tornare ancora in tasca. È stato accusato di magia nel ottantesimo anno della sua età, e che morire prima che il suo processo era finito, è stato condannato (come riporta Castellan) al fuoco; e che un fascio di paglia o vimini, che rappresenta la sua persona, è stata pubblicamente bruciato a Padova; che così rigoroso un esempio, e dalla paura di incorrere in una sanzione, come, potrebbero sopprimere la lettura dei tre libri che aveva composto su questo argomento: il primo dei quali è la nota Heptameron, o elementi magici di Peter de Abano, filosofo, ora esistente, e stampato alla fine di Agrippa opere s'; il secondo, quello che Trithemius chiama Elucidarium Necromanticum Petri da Abano; e un terzo, chiamato dallo stesso autore Liber experimentorum mirabilium de Annulis secundem, 28 Mansiom Lunae .   Abside con il suo sarcofago. Barrett (p. 157) si riferisce al parere che non era sul punteggio di magia che l'Inquisizione ha condannato Pietro d'Abano-Terme a morte, ma perché ha cercato di spiegare i meravigliosi effetti nella natura dalle influenze dei corpi celesti, non attribuendole agli angeli o demoni; in modo che l'eresia , piuttosto che la magia, sotto forma di opposizione alla dottrina degli esseri spirituali, sembra aver portato alla sua persecuzione. Per citare Barrett: Il suo corpo, prese privatamente dalla sua tomba dai suoi amici, sfuggito alla vigilanza degli inquisitori, che avrebbero condannato a essere bruciato. E 'stato rimosso da un luogo all'altro, e finalmente depositato nella Chiesa di St. Augustin, senza epitaffio, o qualsiasi altro segno di onore. I suoi accusatori attribuiti opinioni incoerenti a lui; lo accusato di essere un mago, e tuttavia con negare l'esistenza degli spiriti. Aveva una tale antipatia per il latte, che vedendo chiunque prendere lo faceva vomitare.Altro lettura Francis Barrett, The Magus, J. Cadden, "Scienze / silenzi: la natura e le lingue di" sodomia "in Pietro d'Abano Problemata Commento". In: K. Lochrie &McCracken & J. Schultz (. Edd), Costruire sessualità medievali , University of Minnesota Press, Minneapolis & London 1997, pp 40-57.. Premuda, Loris. "Abano, Pietro D'." nel dizionario della biografia scientifica . (1970). New York: Charles Scribner Sons.  1:  4-5. link esterno il Heptameron. Refs.: Luigi Speranza, “The reception of pseudo-Aristotle via Abano’s edition,” Luigi Speranza, "Grice ed Abano," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Abbà (Farigliano). Filosofo. Grice: “Abbà is a genius – an Italian Lockino, as he calls himself in “Elementae logicae” – But he is actually better than Locke – England’s and Oxford’s greatest philosopher – for a couple of reasons: Locke uses barbarisms – anglo-saxonisms, Abba, who could be philosophising in his Cuneo vernacular, uses Cicero’s tongue! And the good thing is that he is fluent at it and his prose is flowing – It is difficult for a Locke to write in Latin – witness the roughness of Occam’s prose in Latin – but for Abba, he is obviousl THINKING in Italian and expressing his thoughts in ‘palaeo-Italian,’ as he calls ‘Latin.’ “Thinking in Italian may be preoponderant, but it need not be true!” Grice” “Of course I enjoyed most his philosophising on the ‘signum naturale’ – on which I drew for my Oxford seminars!” -- He is a great interpreter of Locke; in a country that needs that!” - Filosofo allievo di Benone, gli succedette nella cattedra di  metafisica a Torino.  Partendo dalla filosofia di Locke, ritiene che i dati empirici forniti dall'esperienza siano alla base della conoscenza umana, ma che le idee si formino attraverso un'elaborazione di questi elementi empirici da parte dell'anima umana, che utilizza categorie logiche indipendenti dall'esperienza. Abbà entrò in polemica con Rosmini a proposito del suo “Saggio sull'origine delle idee” mettendo in dubbio la veridicità del suo sistema. Rosmini controbatté alle critiche nel Diario filosofico di Adolfo, VII, G.A.A.(pubblicato in Riv. rosminiana, III [1908],  1-8).   Elementa logices et metaphysices, Taurini, Stamperia reale, Delle cognizioni umane: trattato del teol.o coll.o Abbà, Torino, Canfari. Lettere a Filomato sulle credenze primitive e sulla filosofia sino a Socrate scritte dal teologo coll.o Abbà, Torino, Canfari. G. Capone Braga, La filosofia fitaliana del Settecento, Padova,Francesco Corvino, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Filosofia. De idearum signis 38. Sunt autem signa vel naturalia , quibus sen sus nostros significamus ex effectibus;vel artificialia, (1).   (1) Maistrii sententia est , nihil arbitrarii esse in sermone , (2) Sicuti per vocabula ideas;ita per scripturam vocabula quo dam modo pingimus ad ideas abscntibus permanenter manifestan das.Quibusdampermanentibussignisideas,cogitationesque suas communi consensu exprimere vel homines in barbarie positi con sueverunt.Cultiores populi remotis temporibus scripturâ,usi sunt, cuiusauctor,tempus,originislocus,omnia incerta.Quidam Cadmo, aliiPhoeniciis,aliiÆgyptiis eam acceptam referunt.Putarem ego Divinae originis.Ab Asia in Europam immigravit.Quidam putant spiritum in hac re progressum fuisse a scriptura Ideographica, seu figurativa , ad Hyerogliphicam seu symbolicam , a qua ad syllabi-. cam , inde ad alphabeticam. V. Degerando de l'éducation des sourds-muets , pag. 380. tom. 2. 29  quae cum re significata consociationem habent ex h o minum arbitrio (1),et institutione.Hisce signis con stat idioma.Dicitur autem idioma signorum com plexio , quibus ideae significantur. Est idioma tran siens, et permanens.Illud actionis, et pronunciationis, hoc scriptionis appellatur.Omisso scriptionis (2) idio mate , de duobus reliquis dicemus. 39. Idioma actionis coalescit ex gestibus repetitis ad sensus animi aperiendos. Hisce gestibus consulto adhibitis , et observatis ad quaedam sensa manife standa , orta est huius idiomatis ars. Formae rerum externarum gestibus pictae mirum in modum istud idiomatis amplificarunt. Hoc praesertim constať ani versalis quaedam hominum lingua , et sermo panto mimicus . sed omnem linguam enasci , et enutriri ex ruinis aliarum ; hasce vero ruinas esse formidanda divinae iustitiaemonumenta.Itaque inimi cus et omnis Neologismi. Bonald super linguarum originem suum systema Phylosophicum struxit.   41. Pronuncialus autem hic sermo constat ex voci bus articulatis. Voces sunt soni ex ore animantis emissi : Articulatio est vocalis , et consonantis per vocis emissionem coniunctio.Ex hac coniunctione or tae sunt syllabae , ex his vocabula , quae sunt sonį articulata voce prolati, quibus ideas mente conceptas significanus.Quum autem omnis idea in mente existens determinata sit, quodlibet vocabulum ideam quamdam determinatam denotat , ac veluti determinat. Unde vocabula termini etiam dicti sunt:quum etiam ideae res repraesentent; termini,quoque res ipsas median tibus ideis denotant. 42. Ex vocabulis,seu terminis ortus sermo.Quae di sciplinà generales sermonis regulas tradit, grammatica generalis, seu philosophica dicitur ; quia hae regulae in natura cogitationis fundantur, suntque in omni lingua servandae.Quae regulas docent singulis nationum lin guis proprias grammaticae particulares appellantur (1). (1) Singulae linguae sua syntaxi , et inflexionibus moderantur ,  30 40. Licet possint homines actionis idiomate sua sensa manifestare ; aliquando tamen id magna cum difficultate fit; aliquando etiam id fieri omnino nequit, ut in magnis distantiis , et interpositis obstaculis. Ut id incommodi averteret Deus , qui hominem ad societatem condidit,non solum eum facultate loquendi, organisque ad sermonem aptissimis donavit ; rerum etiam ad serinonem ipsum pronunciatum instituit, ut ex sacris litteris edocemur,qui postmodum hominum arte , urgentibus necessitatibus auctus quoque fuit.   coloribusque donantur , qui nationis indolem , culturam , et in genium exprimerent , ac fata : suis singulae divitiis florentes sunt pro varia coeli temperie , naturae facie , aspectibus , forma regi minis , opinionum , religionis , educationis , morum , studiorumquc diversitate. Hinc variae apud varios populos idearum complexiones, ex quibus est interpretationis difficultas. Hinc etiam linguae histo ria una refert gentis suae historiam philosophicam,et civilizzationem . (2) Huiusce picturae exemplaria sunt ideae,quas proinde pictura isthaecimitaridebet.Ideaveroestvivax,rapida,clara.Ad hanc imitationem perficiendam spectarc Grammatica debet.Cum etiam omnes idcae exhibeant obiecta,et relationes;hinc duo verborum species existere debent , quarum aliae pingant obiecta , aliae rela tiones eorum . Quare Plato , Apollonius , aliique ex veteribus duo tantum sermonis elementa admittebant , nomen , et verbum . Nos putamus , lot esse debere elementa , quot colores sunt necessarii ad cogitationis tabulam exhibendam , huiusmodi sunt nomen , quasi notamen exhibens obiecta ; hoc porro proprium , vel commune substantiarum , modorum : articulus obiecta determinans : prono men ad vitandam satictatern : verbum relationem exhibens inter obiecta , et istud substantivum , quod semper inest ceteris , quae adiectiva dicuntur.Eidem convenit notio temporis, et variis modis inflectitur. Verbum est aliquando iterum modificandum , idque fit per adverbium , quasi comes verbi ; in qua modificatione sunt gradus positivus, comparativus , superlativus: sunt quaedam ideae temporis, passionis, actionis, quae mistae veluti sunt ex nomine, et verbo, hae particivis exhibentur: sunt innumerae aliae relatìoncs obiectorumrepraesentandae,puta loci,proclivitatis,directionis aliaque id genus , quae praepositionibus significantur. In tabula  43. Grammatica dici potest ars ideas pingendi per verba ,est enim a Graeco vocabulo Gramma pi ctura , seu a verbo graphein describere , et pingere ; vocabulis namque cogitationis nostrae veluti tabulam pingimus.Hinc tot sunt vocabulorum,et terminorum species , quot idearum (1). 31   44. Sunt praeterea termini positivi , qui aliquam reipsa ideam denotant , ut homo , arbor , etc. nega tivi qui absentiam alicuius ideae significant, ut nihil, ignorantia,tenebrae.Terminus positivus,qui eam dem ideam constanter denotat,fixus dicitur, qui vel proprius est,si uni,eidemque rei significandae sem per inservit , ut Plato , Aristoteles ; vel univocus si pluribus rebus sub eadem significatione tribuatur , ut sunt omnia vocabula generum , et specierum. Qui modo hanc , modo illam ideam exhibet dicitur v a gus, vel aequivocus. Potest autem aequivocus esse vel casu , nempe hominum arbitrio ; vel consilio , quum res diversae , quae eodem termino significantur , ali quam habent similitudinem , et analogiam , unde ter minus analogus , seu metaphoricus dicitur , ut termi nus leo , quo etiam homo fortis significari consuevit ob analogiam fortitudinis, qua homo cum leone con venit. Tandem termini dicuntur etiam synonimi (1), cum variis vocabulis eamdem ideam significamus. denique cogitationis , omnia sunt coniungenda , quod coniunctio . nes efficiunt.Haec duo postrema,una cum adverbiis elyptica di cuntur , quia brevitati inserviunt. Non solum idearum , sed affe ctuum etiam , et sensationum pictura quaedam esse debet , huic officio addictas interiectiones , quarum imitationes sunt a c centus , quidam veluti cantus , qui vocabula vivificant , animâque donant , unde spiritus à Graecis , sapores ab Hebraeis dicti sunt. Putat Tracyus ( qui sermonis analysim in sua grammatica philoso phica , et universali dedit ) interiectionem alias sermonis partes ordine praecessisse quemadmodum sensationes praecedunt ideas ipsamque esse quoddam propositionis genus. (1) Vocabula vere synonima , si existerent, linguae perfectioni  14 32 en 7   45. Quum vocabulis ideas mente conceptas signia ficemus , iam sequitur, ipsa non esse signa idearum , quae in audientium animis sunt', sed earum solum , quas loquens in mente habet.Hinc quum pro varia h o minum cognitione, variae in diversis hominibus de ea d e m re ideae esse possint, necesse est, ut idem v o cabulum a diversis pronunciatum ,diversnm etiam sen sum continere possit.Unde si verum vocabuli sensum determinare velis , ut aliorum sensa assequaris , non ex propriis ideis tuis , sed e scribentis , vel loquen tis mente ipsum interpreteris oportet. Quare d u m alio rum scripta legis, vel sermones audis , cave ne tuae ideae , quae latenter subrepunt, efficiant, ut aliorum sensa in tuam sententiam quandoque iniquissime d e torqueas , et eas vocabulis ideas subiicias 46. Ex eo quod vocabula sint idearum nostrarum signa , patet ideas et vocabula ita esse eadem esse debeat utrarumque oeconomia ,'et quae de illis praedicantur , de istis aeque possint usurpari. Hinc maxima est vocabulorum vis in scientiis , quae quantum iis perficiantur intelliges , si teneas eiusdem esse vis in scientiis vocabula , ac in Arithmetica n u meri , in Algebra litterae , in Geometria figurae. 47. In ideas vero ipsas, et operationes mentis n o  quas auctorem ipsum in mente habuisse , expensis omni bus , verisimillimum non est. connexa ut 33 oílicere viderentur.Sunt autem quaedam impropriesynonima,quae nempe repraesentant quidem eamdem ideam principalem sed non casdem accessorias, ut verba amo , et diligo.   strae tantus est vocabulorum influxus , ut sine illis ne tacita quidem mentis cogitatione vix aliquid mente revolvere posse videamur. Iisdem ideae complexae usque , et usque resolvuntur ; resolutae autem uno vocabulo iterum comprehenduntur , unde attentio , et memoria mirum in modum iuvatur;sicut eorum sono, accentu , melodia , imaginationi succurrimus. C o m parate ad alios communicationi inserviunt, et in ser mone civili, aesthetico , et philosophico,qui caeteris accuratior esse debet , culturam , humanitatemque augent (1). 48. Sed quantum mentem , scientiasque perficit rectus vocabulorum usus ; tantum obest eorumdem abusus. Errat enim semper qui bene non utitur lin gua. Hi autem abusus ortum habent 1. ex naturali vocabulorum imperfectione ; cum enim comparate ad ideas exiguus admodum sit vocabulorum numerus , fit saepe ut uno vocabulo plures quandoque etiam discrepantes ideas,aut admodum complexas exprimere cogamur. (1) Nihil magis ostendit huiusce sermonis utilitatem , quam surdi-muti nondum instructi,pueri,etsylvestres.Quoad surdos mutos praesertim ,'censet Bonald , ipsos nihil cogitare. Quanta igitur gratia est habenda D.D. Ponce , Andres , De-l'Epée , Si card , Assaroti , aliisque !  34 49. 2. Ex hominum vel socordia,vel malitia.Abu limur nimirum vocabulis 1. cum iis vel obscuram , vel confusam , vel nullam ideam afligimus ; quod vi tium ex eo est , quod a pueris prius vocabulum ,   50. Hos autem abusus praecavebimus 1. Si vite mus voces ambiguas,obscuras,aequivocas,sine sensu, antiquatas, barbaras, nimium translatas, nimium e m phaticas. 2. Si prius ideam in mente concipiamus , tum de signo,quo eadem exprimatur solliciti simus; ab ideis enim ad vocabula progredi nos oportet,non vicissim. 3. Si vocabulorum sensus in eodem sermo nis filo constanter idem relineatur ; vel si necessitas contrarium expostulet , auditor , aut lector praemo neatur , nisi ex adiunctis id manifeste colligi possit. 4. Si utamur vocabulis usitatis , quae ab iis desu menda sunt auctoribus , qui studio , et labore per rum sermonibus , aut scriptis accuratior vocabulorum usus communi doetorum suffragio elucet. Licebit ta men aliquando nova condere vocabula pro novis ideis exprimendis , d u m m o d o id prudenter fiat. 5. Si fixum  35 quam ideas mente informare consueverimus ; vel ex eo quod velimus aliquando pertinaciter desperatam sententiam nostram defendere. 2. Abulimur quum in sermonis decursu eamdem vocem in diversa signific. catione usurpamus quin auditorem , aut lectorem m o neamus. 3 Quum obscuritatem sublimioris cuiusdam doctrinae famam captemus.Hinc vocabula barbara peregrina obsoleta usurpamus , vel usitatis novam significationem ad privatum arbitrium confictam affigimus. 4. Q u u m vocabula pro rebus ipsis accipimus , ac per eadem reales rerum essentias ex primi arbitramur , quo vitio praesertim laborant ter mini abstracti. affectamus ut inde pararunt,et in quo   sit menti tantum per vocabula de rebus ipsis signi ficari, quantum loquens de iis cognoscit.6. Si vo cabula obscura , vel dubia , vel aequivoca , accuratâ definitione declaremus; quae autem confusa sunt rite factâ divisione distinguamus. Andrea Abba. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Abba,” The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Abbagnano (Salerno). Filosofo. Grice: “There are TWO Abbagnani: the Paris Abbagnano, who to be different, dubbed his ‘existenzialismo’ ‘esistenizalismo positivo’ (later illuminismo), and MY Abbagnano, the one who explored that infamous Greek embassy that arrived in Rome in 189 a. u. c., bringing the sophistries for the fascination of the Scipioni of Rome!” -- Salerno, filosofo. Essential, idealist Italian philosopher, famouos for his “Dizionario di filosofia,”“which alas, has no entry fro ‘implicatura.’”Grice. Abbagnano also wrote an interesting history of philosophy, and is regarded as an idealist, alla Oxonian-favoured Croce.  Nicola Abbagnano (n. Salerno), filosofo. Laureatosi in filosofia a Napoli con Antonio Aliotta, insegna dapprima al Liceo Umberto I ed all'Istituto Superiore di Magistero "Suor Orsola Benincasa" del capoluogo campano, per poi trasferirsi all'Torino dove è Professore di Storia della filosofia prima presso la Facoltà di Magistero, poi presso quella di Lettere e Filosofia; è condirettore, a fianco di Norberto Bobbio, della Rivista di filosofia; è stato ispiratore del gruppo di intellettuali e filosofi, comprendente, tra gli altri, lo stesso Bobbio e Ludovico Geymonat, che prende il nome di "neoilluminismo italiano", organizzando una serie di convegni rivolti alla costruzione di una filosofia "laica", aperta ai principali orientamenti del pensiero filosofico internazionale. Collabora con il quotidiano La Stampa; si trasferisce poi a Milano dove collabora con Il Giornale di Indro Montanelli e dove viene eletto consigliere comunale nelle liste del Partito Liberale Italiano e assume per circa un anno la carica di assessore comunale alla Cultura.  Divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino. È stato uno dei promotori del Centro di studi metodologici di Torino. Come studioso di filosofia, è tra i primi a diffondere in Italia, negli anni trenta e quaranta, la conoscenza delle correnti esistenzialistiche francesi e tedesche, in particolare Heidegger, Jaspers e Sartre. Nell'opera "Le sorgenti irrazionali del pensiero," Abbagnano esalta l'azione creativa, la volontà e l'esperienza, attribuendo ad esse il compito di condurre alla verità. Erano elementi che egli ritrova soprattutto nella filosofia di Giovanni Gentile.  Fondamentale nell'evoluzione del suo pensiero è l'opera "La struttura dell'esistenza," pubblicata a Torino, nella quale Abbagnano propose una terza alternativa alle due correnti appartenenti all'esistenzialismo, quella di Heidegger e quella di Jaspers.  Abbagnano definisce la propria visione filosofica come "esistenzialismo positivo"; esso, pur non esplicitamente formulato in veste sistematica, individua la centralità dell'esistenza come momento ontologicamente fondativo, considerando la razionalità dell'uomo come lo strumento principe in grado di garantire a questo fondamento un valore positivo contro ogni possibile nichilismo.  Diversamente rispetto all'impostazione di Heidegger e di Jaspers, Abbagnano evidenzia l'importanza della libertà e della indeterminazione e quindi l'ineluttabilità del loro perseguimento.  Oltre a porre la ragione come unico mezzo per creare un legame tra l'uomo e il mondo che lo circonda il pensiero di Abbagnano insiste molto su un chiarimento dell'orizzonte categoriale della possibilità, in contrasto con quello della necessità, tipico proprio dell'idealismo romantico e dell'esistenzialismo, fatto che spiega la sua forte critica nei confronti queste due scuole filosofiche. Nello scritto "Possibilità e libertà," l'autore chiarì il senso della sua filosofia, non incline né alla visione pessimistica dell'uomo imbrigliato e impedito in ogni suo progetto vitale, ma neppure ottimista al punto da concedere all'essere una realizzazione certa. In quegli stessi anni prende vita il movimento filosofico da lui nominato "neoilluminismo", nel quale precisa il senso dell'esistenzialismo positivo in termini di empirismo radicale e di filosofia applicata alla realtà del mondo sociale. Il movimento, che ha avuto sin dal principio una configurazione culturalmente e politicamente molto composita, avrebbe dovuto favorire l'elaborazione di una visione e di un uso della ragione filosofica alternativi tanto al marxismo che al pensiero cattolico. Abbagnano aveva del resto ripetutamente criticato all'idealismo e al neoidealismo la tendenza a sottostimare il valore della scienza, da lui invece considerata una disciplina indispensabile per la ricerca della conoscenza, oltreché per l'utilizzo delle sue applicazioni. Quindi una disciplina alternativa alla filosofia, ma di pari valore e ad essa complementare.  Abbagnano insistette nei suoi lavori sui concetti di libertà e di ragione; la prima intesa come la possibilità di scegliere, la seconda come facoltà necessaria per regolare le azioni dell'uomo.  Anche il positivismo di stampo ottocentesco fu oggetto di critica tramite la contrapposizione con le filosofie di Immanuel Kant e Søren Kierkegaard.  Nel suo "esistenzialismo positivo," Abbagnano insiste molto sulla finitudine dell'uomo e sulla problematicità dell'esistenza, destinata per sua costituzione a operare nell'orizzonte del possibile. Egli vede kantianamente nel limite una caratteristica di fondo del nostro esistere e del nostro sapere. Negli ultimi anni questo lucido senso del limite e della problematicità esistenziale si è accompagnato a un lucido senso del mistero ultimo delle cose, inteso come un aspetto insopprimibile della nostra esperienza del reale. «Ed è proprio questo senso del limite e del mistero, insieme alla rinuncia ad ogni (illusoria) infinitizzazione o divinizzazione dell'umano, a fondaresecondo l'ultimo Abbagnanola possibilità di un incontro genuino fra credenti e non credenti. E ciò all'insegna di quella ”umiltà del pensiero” (come la chiamava il filosofo) che rappresenta la condizione indispensabile di ogni etica del dialogo e del reciproco rispetto». Oltre che autore di saggi su singoli filosofi (Aristotele, Ockham, Meyerson, ecc.), Abbagnano è stato anche l'autore di una celebre Storia della filosofia su cui si sono formate intere generazioni di studenti e di docenti. Egli ha realizzato anche un "Dizionario di filosofia," considerato tra i migliori a livello internazionale. La Storia della filosofia (sia nella versione scolastica pubblicata dall'editore Paravia, sia nella versione universitaria pubblicata dalla Utet) è stata poi aggiornata dal suo allievo Giovanni Fornero, in collaborazione con Dario Antiseri e Franco Restaino, in due volumi sulla filosofia contemporanea. Lo stesso Fornero, insieme a un'équipe di noti studiosi, ha curato anche l'aggiornamento e l'ampliamento del "Dizionario di filosofia." Opere: Le sorgenti irrazionali del pensiero, Genova-Napoli, Perrella. Il problema dell'arte, Genova-Napoli, Perrella. Il nuovo idealismo, Genova-Napoli, Perrella. La filosofia di E. Meyerson e la logica dell'identità, Napoli-Città di Castello; La vita di Ockham, Gubbio, Oderisi. Guglielmo di Ockham, Lanciano. La nozione del tempo secondo Aristotele, Lanciano, Carabba. La fisica nuova. Fondamenti di una teoria della scienza, Napoli. Il principio della metafisica, Napoli. La struttura dell'esistenza, Torino, Paravia. Introduzione all'esistenzialismo, Milano, Bompiani, 1Storia della filosofia I, Filosofia antica. Filosofia patristica. Filosofia scolastica, Torino, UTET, II.1, Filosofia moderna sino alla fine del secolo XVIII, Torino, UTET, 1II.2, Filosofia del romanticismo. Filosofia contemporanea, Torino, UTET,  II, Filosofia del Rinascimento, la filosofia moderna dei secoli XVII e XVIII, Torino, UTET, La filosofia del Romanticismo. La filosofia tra il secolo XIX e XX, Torino, UTET,  4ª ed. aggiorn. e riv. voll. I, II, III, con aggiunta del  IV (La filosofia contemporanea): tomo 1 di G. Fornero, L. Lentini, F. Restaino; tomo 2 di G. Fornero, D. Antiseri, F. Restaino. UTET, Torino,  Filosofia religione scienza, Torino, L'esistenzialismo positivo, Torino, Possibilità e libertà, Torino, Dizionario di filosofia, Torino, UTET, (aggiornato e ampliato da Giovanni Fornero). Per o contro l'uomo, Milano, 1Fra il tutto e il nulla, Milano,  (con Aldo Visalberghi), Linee di storia della pedagogia, 3Torino: Paravia, Questa pazza filosofia ovvero l'Io prigioniero, Milano, La saggezza della vita, Milano, La saggezza della filosofia. I problemi della nostra vita, Milano, Scritti esistenzialisti, B. Maiorca, Torino, Ricordi di un filosofo, Marcello Staglieno, Milano,  Protagonisti e testi della filosofia, Milano, L'esercizio della libertà. Scritti scelti , B. Maiorca, ed. riv. agg. e integrata, Boni, Bologna, 1Esistenza e metafisica, B. Maiorca, Milella, Lecce, Scritti neoilluministici, B. Maiorca, introduzione diRossi e C. A. Viano, UTET, Torino. Note  Montano.  Nicola ABBAGNANO, su accademia delle scienze. La frase è tratta da G. Fornero, Abbagnano tra limite e mistero, «Avvenire», 28 settembre .  La prima edizione della storia della filosofia di Abbagnano, che  aveva già pubblicato un Sommario di filosofia per i licei risale agli anni 1945-1947 (per il manuale scolastico) (per il manuale universitario). Attraverso successive edizioni e aggiornamenti (per opera di Giovanni Fornero) tale storia continua a essere la più diffusa nelle nostre scuole.  N. Bobbio, Discorso su Nicola Abbagnano, in: N. Abbagnano, Scritti scelti, Taylor, Torino, Norberto Bobbio, La filosofia dell'esistenza in Italia, in "Rivista di Filosofia", Luigi Pareyson, Il pensiero di Nicola Abbagnano e i suoi sviluppi recenti in Id., Esistenza e persona, Taylor, Torino, Antonio Aliotta, L'esistenzialismo positivo di N. Abbagnano, in Id., Critica dell'esistenzialismo, Perrella, Roma, 1951. Giorgio Giannini, L'esistenzialismo positivo di Nicola Abbagnano, Morcelliana, Brescia, Pietro Chiodi, L'esistenzialismo, Loescher, Torino, 1957. Franco Lombardi, L'esistenzialismo in Italia, in Id., La filosofia italiana negli ultimi cento anni, Arethusa, Asti, 1958. Antonio Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, Il Mulino, Norberto Bobbio, Discorso su Nicola Abbagnano, in N. Abbagnano, Scritti scelti (Giovanni De Crescenzo e Pietro Laveglia), Taylor, Torino, 1967. Giuseppe Semerari, Il neoilluminismo filosofico italiano, in Id., Esperienze del pensiero moderno, Argalia, Urbino, La cultura filosofica italiana nelle sue relazioni con altri campi del sapere, Atti del Convegno di Anacaprigiugno 1981, Guida, Napoli, 1988. Giuseppe Semerari, Genesi e formazione dell'esistenzialismo positivo, in Id., Novecento filosofico italiano, Guida, Napoli. Mirella Pasini, Daniele Rolando , Il neoilluminismo italiano. Cronache di filosofia, Il Saggiatore, Milano, Nino Langiulli, Possibility, Necessity, and Existence. Abbagnano and His Predecessors, Temple University Press, Philadelphia. Giuseppe Cacciatore, Giuseppe Cantillo , Una filosofia dell'uomo, Atti del Convegno in memoria di N. Abbagnano (Salerno), Comune di Salerno. Marco Delpino, Paolo Riceputi , Nicola Abbagnano. L'uomo e il filosofo, Atti del Convegno di studi (S. Margherita Ligure), coordinamento di G. Fornero, Edizioni Tigullio-Bacherontius, S. Margherita Ligure. Silvio Paolini Merlo, Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino (1940-1979), Pantograf (Cnr), Genova, 1998 Bruno Maiorca, Nicola Abbagnano, Seam, Roma, Bruno Miglio , Nicola Abbagnano. Un itinerario filosofico, Atti del Convegno per il centenario della nascita (Torino,), Il Mulino, Bologna, 2002. Aniello Montano, Il prisma a specchio. Percorsi di filosofia italiana tra Ottocento e Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, Bruno Maiorca, Nicola Abbagnano. Esistenza, ricerca, saggezza, Ferv, Roma, 2003. Rosanna Panelli Marvulli, 'Tributo ad Abbagnano', in abbagnanofilosofo., . Rosanna Panelli Marvulli, Abbagnano. Una vita per la filosofia, con un saggio di Giovanni Fornero, UTET, Torino, . Silvio Paolini Merlo, Abbagnano a Napoli. Gli anni della formazione e le radici dell'esistenzialismo positivo, Guida, Napoli, 2003,  88-7188-694-1. Carlo Augusto Viano, Stagioni filosofiche. La filosofia del Novecento fra Torino e l'Italia, Il Mulino, Bologna, Pietro Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul pensiero italiano del Novecento, Il Mulino, Bologna, Giorgio Primerano, La prospettiva pedagogica di Nicola Abbagnano, Aracne Editrice, Roma, Silvio Paolini Merlo, L'esistenza come struttura. Il pensiero di Nicola Abbagnano e l'esistenzialismo, Editoriale Scientifica, Napoli, Silvio Paolini Merlo, Mito e ragione mitica. Corollari sull'estetica di Nicola Abbagnano, in Id., Estetica esistenziale, Mimesis, Milano, . Franco Ferrarotti, Un greco in via Po. Passeggiate silenziose con Nicola Abbagnano, Edb, Bologna. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di Nicola Abbagnano, Sito dedicato, su abbagnanofilosofo. Filosofia Filosofo del XX secoloStorici della filosofia italianiAccademici italiani Professore Salerno MilanoEsistenzialistiStudenti dell'Università degli Studi di Napoli Federico IIProfessori dell'Università degli Studi Suor Orsola Benincasa Professori dell'Università degli Studi di Torino Membri dell'Accademia delle Scienze di ToriRefs.: Grice, “Implicature in Philosophical Dictionaries. I don’t give a hoot care what the dictionary saysAnd that’s where you make your big mistake. – Abbagnano. Keywords: filosofia latina, filosofia romana, filosofia italiana. Luigi Speranza, "Grice ed Abbagnano," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Abbri (Agliana). Filosofo. Grice: “I like Abbri; he is the equivalent of what *I* would be if I present myself as “The Philosopher of Staffordshire” – for Abbri is obsessed with Toscana – “Toscana e la scienza nuova,” “Filosofia e scienza nella Toscana del Seicento,” – he has also studied the philosophies (particelle) of Santi and Volta -- Filosofo. Sii è laureato in filosofia con Rossi a Firenze con una tesi su Filosofia, chimica e linguaggio; è stato borsista della Domus Galilaeana di Pisa e successivamente ricercatore confermato presso il Dipartimento di filosofia dell'Firenze. Dal 1976 collabora con l'Istituto e Museo di storia della scienza di Firenze, oggi Museo Galileo, come membro del Comitato scientifico dell'Istituto e, dal 1986, anche come membro dell'editorial board della rivista Nuncius. Inoltre, negli stessi anni, è entrato a far parte del comitato editoriale delle riviste Prospettiva EP e Arkete; è nominato professore straordinario di storia della filosofia moderna e contemporanea presso la Facoltà di lettere e filosofia dell'Università della Calabria, Cosenza, dove ha anche insegnato storia della filosofia medievale. Dal 1990 ha diretto, con Franco Crispini, la collana Storia delle idee della casa editrice Rubbettino. Professore di storia della filosofia e professore supplente di storia della musica moderna e contemporanea presso la Facoltà di lettere e filosofia di Arezzo, Siena; della Facoltà aretina è stato inoltre preside, nnonché direttore del Dipartimento di studi storico-sociali e filosofici. Ha ricoperto la carica di segretario della Società Italiana di storia della scienza. È stato in più occasioni visiting scholar all'Uppsala e al Centro di storia della scienza dell'Accademia reale svedese delle scienze di Stoccolma e membro dello steering committee di un progetto europeo sulla storia della chimica moderna e contemporanea finanziato dalla Fondazione europea per la scienza di Strasburgo.  Attualmente insegna storia della filosofia ad Arezzo nel Dipartimento di scienze della formazione, scienze umane e della comunicazione interculturale, e storia della filosofia e filosofia morale nel Dipartimento di scienze storiche e dei beni culturali a Siena. È Presidente del Comitato della didattica della LM interclasse di storia e filosofia di Siena-Arezzo.  I suoi studi riguardano la storia delle idee filosofiche e scientifiche, con una particolare attenzione per la storia dell'alchimia dal Medioevo al Seicento, della prima chimica, da Paracelso a Lavoisier, della magia e della cultura filosofico-scientifica europea, dal Rinascimento all'Età dei Lumi, dei rapporti tra religione e scienza e tra musica e filosofia nell'Età moderna. Si interessa inoltre della filosofia e della cultura britannica del Novecento, di storia della storiografia filosofica e scientifica, del rapporto tra femminismo e scienza e tra storia antica e narrazione cinematografica.  I suoi numerosi studi hanno portato alla pubblicazione di varie opere uscite in Italia e all'estero; i suoi saggi sono apparsi in riviste italiane e straniere e in volumi editi in Francia, Paesi Bassi, Svezia, Germania e USA.  Si è interessato alla cultura scandinava e in particolare alle relazioni tra Italia e Svezia nel secolo XVIII e ha curato la pubblicazione di carteggi inediti di scienziati toscani con scienziati svedesi e russi.  Vari lavori riguardano la letteratura, la filosofia e la musica nell'Inghilterra del Novecento, con particolare riferimento a McTaggart, Moore, Bloomsbury Group; il suo libro più recente riguarda la filosofia della musica nell'800 britannico. Alcuni lavori riguardano la metafisica e la filosofia della religione di Linneo, Priestley e la tradizione sociniana e unitariana. In previsione di un lavoro monografico su Priestley e l'apologetica del cristianesimo, le sue indagini considerano le radici teologiche e filosofiche dell'unitarismo del chimico e filosofo inglese, soprattutto la sua lettura delle opere di Fausto Sozzini e della Catechesis Racoviensis.  In altri scritti analizza le vicende delle tradizioni storiografiche, filosofiche e scientifiche in Italia, con particolare attenzione all'opera di Aldo Mieli che fu uno dei promotori della moderna storia della scienza nel contesto internazionale.  I suoi lavori più recenti vertono sui dibattiti contemporanei, nell'ambito delle varie tradizioni cristiane, relativi ai problemi connessi al gender e gli sviluppi della tradizione sociniana nell'Età dei Lumi. OPAC del Museo Galileo, su opac.museogalileo.  Bernardette Bensaude-Vincent, Ferdinando Abbri , Lavoisier in European context: negotiating a new language for chemistry, Canton, Science history publications, Ferdinando Abbri, Un dialogo dimenticato: mondo nordico e cultura toscana nel Settecento, Milano, Franco Angeli, Un altro paesaggio: studi sulla musica britannica del Novecento, Firenze, Edifir, Miti, sogni e storie: filosofia e musica nel Novecento britannico, Milano, Franco Angeli, ,.  Ferdinando Abbri, Un paese musicale : filosofie della musica nell'Ottocento britannico, Milano, Prometheus, , Ferdinando Abbri, Professore, Siena, su segreteriaonline.unisi.  Dipartimento di scienze della formazione, scienze umane e della comunicazione interculturale, Università degli studi di Siena, su dsfuci.unisi.  Museo Galileo, su museogalileo.  Nuncius: Journal of the material and visual history of science, su museogalileo.  Filosofi italiani del XXI secoloStorici della scienza italiani 1951 12 lugliod Agliana. socinianesimo Dottrina teologico-morale elaborata e sistematizzata da Lelio e Fausto Socini. Del s. (i seguaci di questa dottrina si davano il nome di unitarii, che appare verso il 1570, o di Fratres Poloni, perdurante fino alla metà del Seicento; mentre la qualifica di sociniani appare solo sul finire del 17° sec., durante l’esilio olandese) sono più comunemente noti il razionalismo religioso (nella Scrittura non ci può essere nulla contro la ragione, anche se ci può essere molto sopra la ragione; nella deduzione della dottrina cristiana dalla Scrittura si deve procedere solo secondo ragione, poiché ciò che nella Scrittura è detto sopra la ragione non può esser commentato; dal che deriva che nessun dogma tradizionale, e tanto meno quello trinitario, e nessuna istituzione, come i sacramenti, possono essere accettati, in quanto appaiono irrazionali e non esplicitamente ed evidentemente dichiarati nella Scrittura), il principio della tolleranza religiosa (purché la vita da loro praticata corrisponda in pieno ai precetti evangelici, fra i quali anche la non-violenza, tutte le Chiese o tutti i gruppi che riconoscono come norma di vita i precetti di Cristo vanno riconosciuti come cristiani, quindi non vanno perseguitati). Questi motivi sono fondati sulla concezione della religione cristiana come metodo (via) per raggiungere la salvezza, rivelatoci con i suoi precetti dall’uomo divino, ma mero uomo, Gesù Cristo, per volere di Dio che l’aveva ispirato, e quindi sulla riduzione della religione a eticità fondata sul complesso di norme del Vangelo. Concepita la religione in funzione esclusivamente etica, essa non poteva essere interpretata che razionalmente e le divergenze teologiche, dogmatiche, non potevano, di fronte alla preminenza delle norme etiche, non apparire fantasie speculative. Tali principi furono elaborati e argomentati con una esegesi sottilissima da F. Socini, che aveva cominciato con il dimostrare razionalmente, con uno dei primi esempi di critica filologica in grande stile applicata ai problemi religiosi, l’autenticità della Sacra Scrittura e la preminenza della religione cristiana; ma raccolgono nella formulazione estrema motivi diffusi già nel Rinascimento italiano e negli ambienti ereticali del Cinquecento. I motivi schiettamente religiosi furono il rinnovamento della pietà proposto da G. Contarini e da I. Sadoleto, l’ideale della imitatio Christi raccolto in ambiente italiano da C.S. Curione e S. Castellione; altri motivi, connessi e derivati dai primi, furono l’indifferenza valdesiana per le questioni dogmatiche e la semplificazione dei dogmi condotta all’estremo da Aconcio sulle orme di Erasmo. Agirono inoltre anche elementi di origine filosofica, come la coscienza universalistica e irenica tratta dal neoplatonismo toscano, l’estensione della critica filologica di Valla, l’uso di argomentazioni familiari all’aristotelismo padovano. In Polonia il movimento sociniano ebbe la sua capitale nel centro culturale di Raków; il periodo più fiorente fu quello degli ultimi decenni del 16° sec. e dei primi del 17°. Dal 1627 al 1662 durò la persecuzione in Polonia, culminata con l’espulsione. Gli esuli andarono parte presso gli unitari transilvani, dei quali condivisero la sorte di Chiesa a mala pena tollerata sotto la preponderanza calvinista fino al 1690 e poi perseguitata dagli Asburgo cattolici; in parte, attraverso Holstein, in Olanda, dove già erano conosciuti fin dagli ultimi anni del 16° sec. e condannati; ma furono accolti nelle riconosciute comunità dei rimostranti, e poi dei collegianti, e poterono esercitare una vasta attività culturale: i loro principi furono discussi da Spinoza e da Leibniz, e permearono la cultura religiosa olandese. Dall’Olanda il s. si diffuse, per mezzo della stampa, in Inghilterra, dove il terreno era stato preparato da Aconcio e dove, se da un lato unì in gran parte la sua storia a quella della Chiesa unitaria, dall’altro penetrò anche, attraverso le università, tra il clero anglicano e nella società colta inglese: sociniani, benché non unitari, furono W. Chillingworth, R. Baxter, J. Milton, Newton, W. Penn. La ‘controversia antitrinitaria’ del 1687 costituì lo sfondo storico della Lettera sulla tolleranza (1689) di Locke. Così il s. cooperò alla preparazione del deismo e della libertà religiosa, e assieme a essi fu combattuto dal metodismo. In America, dove il s. assunse definitivamente il nome di unitarianismo, il razionalismo etico di questa corrente religiosa alimentò figure come T. Parker. Ferdinando Abbri. Abbri. Keywords: socianesimo, Socini, Sozzini, Fausto Sozzini, catechesis racoviensis. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Abri” – The Swimming-Pool Library.

 

Accetto (Trani). Filosofo. Grice: “I learned so much about Accetto, and I hope it showed in my talk at Brighton on ‘meaning, revisited.’ For Accetto, unlike Strawson, there is ‘disimulazione onesta’ and ‘simulazione disonesta.’ Accetto notes that there is an implicature to the effect that ‘disimulazione’ is disonesta per se and hence he tried to provoke the duchess of Malfi by his little treatise on ‘Della simulazione onesta’ – “An oxymoron, if ever there was one --,’ the duchess told the duke --.” Filosofo. Nativo di Trani, visse ad Andria e fu in relazione con la cerchia del marchese Giovanni Battista Manso, il mecenate napoletano che fu biografo di Torquato Tasso nonché fondatore dell'Accademia degli Oziosi.  Scrisse varie rime, nelle quali evidenziò la sua delicata coscienza morale e il breve trattato Della dissimulazione onesta: nato nel contesto della dominazione spagnola in Italia, fu pubblicato a Napoli e rapidamente dimenticato. Il libello fu poi riscoperto da Benedetto Croce all'inizio Professoree ripubblicato da Salvatore S. Nigro. La "dissimulazione", tematica al centro dei dibattiti all'epoca, non è, per Accetto, sinonimo di menzogna, ma invito al raccoglimento e alla cautela. L'analisi di Accetto pone la questione, da un piano di politica spicciola, su un piano di accurata indagine morale: l'autore, alquanto speciosamente, differenzia la simulazione, moralmente riprovevole perché viziata da intenzioni cattive, dalla dissimulazione, che invece pareva all'Accetto l'unico rimedio per difendersi da una società pullulante di simulatori e per trionfare delle proprie passioni. La ricetta però per risultare vincente richiede una onestà di animo e un buon equilibrio.  Opere Edizioni originali:  Rime di Torquato Accetto, Napoli: nella stampa degli heredi di Tarquinio Longo, Rime del signor Accetto, divise in amorose, lugubri, morali, sacre, et varie, Napoli: nella stampa di Giacomo Gaffaro, Della dissimulazione onesta, Napoli, Edizioni moderne:  Rime amorose, edizione critica Salvatore S. Nigro, Torino: Einaudi, Della dissimulazione onesta, edizione critica Salvatore S. Nigro; presentazione di Giorgio Manganelli, Genova: Costa & Nolan, nuova edizione Torino: Einaudi, Della dissimulazione onesta Rime, E. Ripari, Milano: BURRizzoli, . Note  "Le Muse", De Agostini, Novara, B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari, Eugenio Garin, Storia della filosofia italiana, Torino, 1966 Rosario Villari, Breve riflessione sulla Dissimulazione onesta di Torquato Accetto, R. Villari, Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, RomaBari, Laterza, sapere, De Agostini.  Torquato Accetto, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Torquato Accetto, su Liber Liber.  Opere di Torquato Accetto, su openMLOL, Horizons U. La simulazione non facilmente riceve quel senso onesto che si accompagna con la dissimulazione Io tratterei pur della simulazione, e spiegherei appie- no l'arte del fingere in cose che per necessità par che la ricerchino; ma tanto è di mal nome, che stimo maggior necessità il farne di meno; e benché molti dicano: “Qui nescit fingere nescit vivere”, anche da molti altri si af- ferma che sia meglio morire, che viver con questa con- dizione. In breve corso di giorni o d'ore o di momenti, com'è la vita mortale, non so perché la medesima vita si abbia da occupar a piú distrugger se stessa, aggiungendo il falso delle operationi dove l'esser quasi non è; poiché la vera essenzia, come disse Platone, è delle cose che non han corpo, chiamando imaginaria l'essenzia di ciò ch'è corporeo. Basterà dunque il discorrer della dissimu- lazione, in modo che sia appresa nel suo sincero signifi- cato, non essendo altro il dissimulare, che un velo com- posto di tenebre oneste e di rispetti violenti: da che non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al vero, per di- mostrarlo a tempo; e come la natura ha voluto che nel- l'ordine dell'universo sia il giorno e la notte, cosí con- vien che nel giro delle opere umane sia la luce 16  e l'ombra, dico il proceder manifesto e nascosto, con- forme al corso della ra- gione, ch'è regola della vita e degli accidenti che in quella oc- corrono. 17  V. Alcuna volta è necessaria la dissimulazione, e fin a che termine La frode è proprio mal dell'uomo, essendo la ragione il suo bene, di che quella è abuso; onde nasce ch'è im- possibile di trovar arte alcuna, che la riduca a segno di poter meritar lode: pur si concede talor il mutar manto, per vestir conforme alla stagion della fortuna, non con intenzion di fare, ma di non patir danno, ch'è quel solo interesse col quale si può tollerar chi si suol valere della dissimulazione, che però non è frode; ed anche in senso tanto moderato, non vi si dee poner mano se non per grave rispetto, in modo che si elegga per minor male, anzi con oggetto di bene. Sono alcuni che si trasforma- no, con mala piega di non lasciarsi mai intendere; e spendendo questa moneta con prodiga mano in ogni pic- ciola occorrenza, se ne trovano scarsi dove piú bisogna, perché scoperti ed additati per fallaci, non è chi loro cre- da. Questo è per avventura il piú difficile in tal indu- stria; perché, se in ogni altra cosa giova l'uso continuo, nella dissimulazione si esperimenta il contrario, poiché il dissimular sempre mi par che non si possa metter in pratica di buona riuscita. È dunque dura impresa il far con arte perfetta quello che non si può essercitar in ogni occasione, e però non è da dir che Tiberio fosse molto accorto in questo mestiero, ancorché da molti si affermi; 18  e ciò considero perché, dicendo Cornelio Tacito: “Tibe- rioque etiam in rebus quas non occuleret, seu natura seu adsuetudine, suspensa semper et obscura verba”; non solo disse prima: “plus in oratione tali dignitatis quam fidei erat”, ma conchiude: “At patres, quibus unus me- tus, si intelligere viderentur”, ecc.; ecco che si accorgea- no chiaramente della sua intenzion in quelli continui ar- tifici. In sostanza il dissimular è una professione della qual non si può far professione, se non nella scola del proprio pensiero. Se alcuno portasse la ma- schera ogni giorno, sarebbe piú noto di ogni altro, per la curiosità di tutti; ma degli eccellenti dissimulatori, che sono stati e so- no, non si ha notizia al- cuna. 19  VI. Della disposizione naturale a poter dissimulare Quelli in chi prevale il sangue o la malinconia o la flemma o l'umor collerico, è molto indisposto a dissimu- lare. Dove abbonda il sangue, concorre l'allegrezza, la qual non sa facilmente celare, essendo troppo aperta per sua propria qualità. L'umor malinconico, quando è fuor di modo, si fa tante impressioni, che difficilmente le na- sconde. Il soverchio flemmatico, perché non fa gran conto de' dispiaceri, è pronto ad una manifesta tolleran- zia; e la collera, che è fuor di misura, è troppo chiara fiamma, da dimostrar i proprii sensi. Il temperato dun- que è molto abile a questo effetto di prudenza, perché ha da esser, nelle tempeste del cuore, tutta serena la faccia; o, quando è tranquillo l'animo, parer turbato il viso, come anderà richiedendo l'occasione; e ciò non è facile, se non al temperamento che dico. Non voglio contradir all'opinione di que' che sogliono attribuir a certi popoli la disposizione del dissimulare e, ad altri, stimarla quasi impossibile; ma ben posso dire che, in ogni paese, son di quelli che l'hanno e di que' che non vi si sanno ac- commodare; ma piú è certo che gli uomini non nascono con gli animi legati a necessità alcuna, onde libera la volontà si gira all'elezzione; e ciò leggiadramente fu espresso da Dante in que' versi: 20  Voi che vivete ogni cagion recate pur suso al cielo, sí come se tutto movesse seco di necessitate. Se cosí fosse, in voi fora distrutto libero arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per mal aver lutto. Il cielo i vostri movimenti inizia; non dico tutti, ma, posto che 'l dica, lume v'è dato a bene e a malizia, e libero voler; che, se fatica ne le prime battaglie del ciel dura, poi vince tutto, se ben si nutrica. A maggior forza e a miglior natura liberi soggiacete; <e> quella cria la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura. 21  VII. Dell'esercizio che rende pronto il dissimulare Da chi ha per non plus ultra le porte delle natie con- trade, o che da' libri non apprende il lungo e 'l lato del mondo, e' suoi vari costumi, con difficultà si viene al consiglio della dissimulazione; perché in persona cosí molle e poco intendente, riesce molto dura questa prati- ca, la qual contiene l'esser d'assai e talora parer da poco: è dunque conforme a questo abito chi non s'è tanto ri- stretto, poiché dal conoscer gli altri nasce quella piena autorità che l'uomo ha sopra se stesso quando tace a tempo, e riserba pur a tempo, quelle deliberazioni che domane per avventura saranno buone, ed oggi sono per- niziose. Chiaro è che 'l viaggio per diversi paesi, come Omero cantò di Ulisse, “qui mores hominum multorum vidit et urbes”, o l'aver letto ed osservati molti accidenti, è cagion potente a produrre una gentil disposizione di metter freno agli affetti, acciò che non come tiranni, ma come soggetti alla ragione, ed a guisa di ubbidienti citta- dini, si contentino ad accommodarsi alla necessità, della quale disse Orazio: Durum, sed levius fit patientia quicquid corrigere est nefas. 22  Sí che tant'altezza di spirito si accresce per mezzo della vita occupata negli affari del mondo, e nella consi- derazione del tempo passato, per non contradir al pre- sente e poter far giudicio dell'avvenire. Stando la mente cosí sodisfatta, non le parrà nuova qual si sia mutazio- ne che le si vada rappresen- tando, ed in conseguenza dipenderà da lei, e non dal precipizio del senso, l'espres- sion di quan- to le suc- cede. 23  VIII. Che cosa è la dissimulazione Da poi che ho conchiuso quanto conviene il dissimu- lare, dirò piú distinto il suo significato. La dissimulazio- ne è una industria di non far veder le cose come sono. Si simula quello che non è, si dissimula quello ch'è. Disse Virgilio di Enea: Spem vultu simulat, premit altum corde dolorem. Questo verso contiene la simulazion de la speranza e la dissimulazione del dolore. Quella non era in Enea, e di questo avea pieno il petto; ma non volea palesar il senso de' suoi affanni: ricordava però a' compagni l'aver sofferti piú gravi mali, e nominando la rabbia di Scilla e lo strepito degli scogli ed i sassi de' Ciclopi, se ne valse come per sepellir tra que' mostri, e tra quelle passate rui- ne, tutte le rie venture che lor già davan noia; e col dol- cissimo “meminisse iuvabit”, conchiude: Per varios casus, per tot discrimina rerum tendimus in Latium, sedes ubi fata quietas ostendunt; illic fas regna resurgere Troiae. Durate, et vosmet rebus servate secundis. 24  Ma in ogni modo l'animo era ferito, e troppo dolente, perché “Talia voce refert curisque ingentibus aeger.” Si vede in questi versi l'arte di nasconder l'acerbità della fortuna, e prima fu espresso da Omero come da Ulisse si dissimulava il dolore, quando in altra figura dava di se stesso nuova alla sua Penelope; della qual disse: Hac autem <iam> audiente fluebant lacrymae, liquefiebat autem corpus sicut autem nix liquefit in altis montibus, quam Eurus liquefecit, postquam Zephyrus defusus est liquefacta autem igitur hac, fluvii implentur fluentes: sic huius liquefiebant pulchrae genae lachrymantis flentis suum virum assidentem. At Ulysses animo quidem lugentem suam miserabatur uxorem. Oculi autem tanquam cornua stabant vel ferrum. Tacite in palpebris dolo autem hic lachrymas occultabat. Ecco la prudenza con che Ulisse mettea freno alle la- grime, quando era tempo di nasconderle; e la compara- zion di liquefarsi Penelope, come la neve, mi dà occa- sione di soggiunger quello che sia l'umido e 'l secco, di- cendo Aristotile: “humidum est quod suo ipsius termino contineri non potest; facile autem termino continetur alieno. Siccum est quod facile suo, difficulter autem ter- mino terminatur alieno”. Da che si può apprender che il dissimular ha del secco, perché si ritien nel proprio ter- mine; e questi son gli occhi di Ulisse rassomiliati, in tempo di dolore, alla fermezza del corno e del ferro, quando que' di Penelope eran molli e non avean termine 25  prescritto, conforme a quelle ch'eran versate nell'animo di Ulisse, tenendo il ciglio asciutto, ed a questo par che corrisponda quella sentenza di Eraclito: “Lux sicca, anima sapientissi- ma”. 26  IX. Del bene che si produce dalla dissimulazione Presupposto che nella condizion della vita mortale possano succeder molti difetti, segue che gravi disordini siano al mondo quando, non riuscendo di emendarli, non si ricorre allo spediente di nasconder le cose che non han merito di lasciarsi vedere, o perché son brutte o perché portan pericolo di produrre brutti accidenti. Ed oltre a quanto avviene agli uomini, se pur si considera la natura per tante altre opere di qua giú, si conosce che tutto il bello non è altro che una gentil dissimulazione. Dico il bello de' corpi che stanno soggetti alla mutazio- ne, e veggansi tra questi i fiori, e tra' fiori la lor reina; e si troverà che la rosa par bella, perché a prima vista dis- simula di esser cosa tanto caduca, e quasi con una sem- plice superficie di vermiglio, fa restar gli occhi in un certo modo persuasi ch'ella sia porpora immortale; ma in breve, come disse Torquato Tasso: quella non par che disiata avanti fu da mille donzelle e mille amanti; perché la dissimulazione in lei non può durare. E tanto si può dir di un volto di rose, anzi di quanto per la terra riluce tra le piú belle schiere d'Amore; e benché della bellezza mortale sia solito dirsi di non parer cosa terre- 27  na, quando poi si considera il vero, già non è altro che un cadavero dissimulato dal favor dell'età, che ancor si sostiene nel riscontro di quelle parti e di que' colori che han da dividersi e cedere alla forza del tempo e della morte. Giova dunque una certa dissimulazion della natu- ra, per quanto si contiene tra lo spazio degli elementi, dov'è molto vera quella proposizione che afferma di non esser tutt'oro quello che luce; ma ciò che luce nel Cielo ben corrisponde sempre, perché ivi tutte le cose son bel- le dentro e fuori. Or, passando all'utile che nasce dalla dissimulazione ne' termini morali, comincio dalle cose che piú bisognano, dico dall'arte della buona creanza, la qual si riduce nella destrezza di questa medesima dili- genza. E leggendosi quanto ne scrisse monsignor della Casa, si vede che tutta quella nobilissima dottrina inse- gna cosí di ristringer i soverchi di- siderii, che son cagion di atti noiosi, come il mo- strar di non veder gli errori altrui, ac- ciò che la con- versazione riesca di buon gusto. 28  X. Il diletto ch'è nel dissimulare Onesta ed util è la dissimulazione, e di piú, ripiena di piacere; perché se la vittoria è sempre soave, e come disse Ludovico Ariosto, Fu il vincer sempre mai lodabil cosa, vincasi per fortuna o per ingegno, è chiaro che 'l vincer per sola forza d'ingegno succede con maggior allegrezza, e molto piú nel vincer se stesso, ch'è la piú gloriosa vittoria che possa riportarsi. Que- st'avviene nel dissimulare, con che, dalla ragione supe- rato il senso, si riceve intiera quiete; ed ancorché si sen- ta non poco dolor quando si tace quello che si vorrebbe dire, o si lascia di far quanto vien rappresentato dall'af- fetto, nondimeno piace poi grandemente d'aver usata so- brietà di parole e di fatti. A questa conseguenza di sodi- sfazzione, ha da rivolger il pensiero chi disidera di viver con riposo; e ciascun, che vuol ben accorgersene per gl'interessi suoi, vegga sopra di ciò gli altrui falli, e cosí ben conosca che tanto è nostro quanto è in noi medesi- mi. Non dico che non si han da fidar nel seno dell'amico i segreti, ma che sia veramente amico; ed è degno di gran considerazione, in quell'epigramma di Marziale, dove parla a se stesso della vita beata, che nominando a questo fine dicisette cose, fa che stia nel mezzo “pru- 29  dens simplicitas”, dicendo: Vitam quae faciunt beatiorem, iucundissime Martialis, haec sunt: res non parta labore, sed relicta; non ingratus ager, focus perennis; lis nunquam, toga rara, mens quieta; vires ingenuae, salubre corpus, prudens simplicitas, pares amici, convictus facilis, sine arte mensa; nox non ebria, sed soluta curis; non tristis torus, attamen pudicus; somnus qui faciat breves tenebras; quod sis esse velis nihilque malis, summum nec metuas diem nec optes. Il prudente candor dell'animo è dunque il centro della tranquillità. “Hoc opus, hic labor”. 30  XI. Del dissimulare con li simulatori Quelli che si applicano al piacer della parte ch'è in noi soggett'alla morte, sprezzando l'uso della ragione, si mutano in abito di fiere; perché tali son da riputarsi, come fu espresso da Epicteto stoico, dicendo: “Certe misellus homuncio, et caro infoelix, et revera misera. At melius <etiam> quiddam habes carne; quare, misso illo et neglecto, carni duntaxat es deditus? Ob huius societa- tem declinantes a meliore natura quidam, lupis similes efficimur, dum sumus perfidi et insidiosi et ad nocen- dum parati: alii leonibus, quia feri, immanes ac trucu- lenti: maxima vero pars vulpeculae sumus”. Da che si può considerar un de' duri impedimenti nel dissimulare; poiché il guardarsi da lupi e da leoni è cosa piú pronta per la notizia che si ha della lor violenza, e perché poche volte si riscontrano; ma le volpi son tra noi molte e non sempre conosciute, e quando si cono- scono, è pur malagevole usar l'arte contra l'arte, ed in tal caso riuscirà piú accorto chi piú saprà tener apparenza di sciocco, perché, mostrando di creder a chi vuol in- gannarci, può esser cagion ch'egli creda a nostro modo; ed è parte di grand'intelligenza che si dia 31  a veder di non vedere, quando piú si vede, già che cosí 'l giuoco è con occhi che pa- ion chiusi e stan- no in se stessi aperti. 32  XII. Del dissimulare con se stesso Mi par che l'ordine di questo artificio metta prima la mano nella persona propria; ma si richiede prudenzia in estremo, quando l'uomo ha da celarsi a se medesimo, e questo non piú che per qualche picciolo intervallo e con licenza del “nosce te ipsum”, per pigliar una certa ri- creazione passeggiando quasi fuor di se stesso. Prima dunque ciascun dee procurar non solo di aver nuova di sé e delle cose sue, ma piena notizia, ed abitar non nella superficie dell'opinione, che spesse volte è fallace, ma nel profondo de' suoi pensieri, ed aver la misura del suo talento e la vera diffinizione di ciò ch'egli vale, essendo di maraviglia che ogni uno attend'a saper il prezzo della roba sua e che pochi abbian cura o curiosità d'intender il vero valor dell'esser loro. Or, presupposto che si sia fat- to il possibile di saperne il vero, conviene che in qual- che giorno colui ch'è misero si scordi della sua disav- ventura, e cerchi di viver con qualche imagine almeno di sodisfazzione, sí che sempre non abbia presente l'og- getto delle sue miserie. Quando ciò sia ben usato, è un inganno c'ha dell'onesto; poiché è una moderata oblivio- ne, che serve di riposo agl'infelici: e benché sia scarsa e pericolosa consolazione, pur non se ne può far di meno, per respirar in questo modo; e sarà come un sonno de' 33  pensieri stanchi, tenendo un poco chiusi gli occhi della cognizion della propria fortuna, per meglio a- prirli dopo cosí breve risto- ro: dico breve, perché fa- cilmente si muterebbe in letargo, se troppo si praticasse que- sta negligenza. 34  XIII. Della dissimulazione che appartiene alla pietà Quando considero che il vino fu trovato dopo il dilu- vio, conosco che non bisognava minor quantità d'acqua per temperarlo; e qui son da veder due cose: una di Noè, che ne restò ignudo, e ciò ne dimostra che 'l vino è mol- to contrario alla dissimulazione, e quanto questa s'im- piega a coprire, tanto quello attende a scoprire; l'altra della pietà delli due figli, che con la faccia indietro rico- prirono il padre, dissimulando di vederlo a tal termine, quando dal lor fratello, già alienato da ogni legge di umanità, era schernito ignudo colui che l'avea vestito delle proprie carni. Oh quanti son al mondo che imitano questa mostruosa ingratitudine, facendo materia da ride- re chi loro doverebber'esser oggetto d'amore e di reve- renza! Pochi son gl'imitatori di que' due che seppero tro- var il modo di volger le spalle, per pietà, al padre, non come molti fanno, che si lascian la paterna necessità dietro le spalle. Non solo que' pietosi figli si occuparono a ricoprir il padre, ma vollero mostrar di non averlo ve- duto in tal condizione. Cosí ciascuno dee corrisponder a scusar i disordini, ed in particolare que' de' superiori, ogni volta che alcuno di loro v'incorre. Altri pietosi uffi- ci mi si rappresentano nell'istoria di Giuseppe che, ven- duto da' fratelli, mostrò poi di non conoscerli, a fine di 35  piú riconoscerli per mezzo de' benefici; e, con esempio di rada mansuetudine, dissimulava il dono di quegli ele- menti che lor in apparenza vendeva, perché i medesimi sacchi ne riportavano i danari a casa; finché, fatto venir anche l'ultimo de' fratelli, e usati tutt'i modi di manife- star a tempo la sua benignità, “non se poterat ultra cohi- bere Joseph multis coram adstantibus”. In questo ebbe fine quella sincera ed innocente dissimulazione; e segue nel Genesi a narrarsi la sua pietà: “unde praecepit ut egrederentur cuncti foras, et nullus interesset alienus agnitioni mutuae. Elevavitque vocem cum fletu, quam audierunt Aegyptii, omnisque domus Pharaonis, et dixit fratribus suis: - Ego sum Joseph -”. Era egli nell'Egitto con suprema gloria, e già chiamato salvator del mondo; con tutto ciò, non tenendo conto dell'offese, dissimulò d'esser fratello, per dimostrarsi piú che fratello. Io non so chi possa ritener le lagrime, leggendo quella pietosa istoria, dalla qual si può apprender la dolcezza del per- dono e del dissimular l'ingiurie, e massimamente quan- do vengon da persone tanto care quanto son i fratelli. 36  XIV. Come quest'arte può star tra gli amanti Amor, che non vede, si fa troppo vedere. Egli è pic- ciolo, e come disse Torquato Tasso: Picciola è l'ape, e fa col picciol morso pur gravi e pur moleste le ferite; ma qual cosa è piú picciola d'Amore, se in ogni breve spazio entra, e s'asconde?. Nondimeno è pur tanto grande, che non ha luogo da potersi in tutto nasconder, è quando è giunto al suo cen- tro, ch'è il cuore, se non si mostra per altra via, accende quella febre amorosa della qual era infermo Antioco e di che il Petrarca fe' che dicesse Seleuco: E se non fosse la discreta aita del fisico gentil, che ben s'accorse, l'età sua in sul fiorir era fornita. Tacendo, amando, quasi a morte corse; e l'amar forza, e 'l tacer fu virtute; la mia, vera pietà, ch'a lui soccorse. Quindi si può considerar come, mettendosi fuoco a tutta la casa, le faville, anzi le fiamme, ne fan publica pompa per le finestre e dal tetto. Tanto avviene, e peg- 37  gio, quando amor prende stanza ne' petti umani, accen- dendogli da dovero, perché i sospiri, le lagrime, la palli- dezza, gli sguardi, le parole, e quanto si pensa e si fa, tutto va vestito con abito d'amore. Cosí dunque di Antio- co, nell'amor verso Stratonica sua matrigna, ancorch'egli tacesse, si palesò l'incendio nelle vene e ne' polsi. Non avea consentito di chiamarsi amante Didone, mentre Amor in figura di Ascanio trattava con lei; ma niuna cosa mancava, perché già si vedesse accesa, come Virgi- lio va significando: Praecipue infelix pesti devota futurae expleri mentem nequit, ardescitque tuendo Phenissa et puero pariter donisque movetur. Ed ancorché andasse velando gli stimoli della piaga interna, nel progresso del suo affetto, At regina gravi iamdudum saucia cura vulnus alit venis at caeco carpitur igni, pur, quello che la lingua non avea publicato, fu espresso nelle strida della piaga ch'ella stessa disperata si fe', conchiudendo Virgilio: Illa, graves oculos conata attollere, rursus deficit: infixum stridet sub pectore vulnus. Di Erminia si ha, da Torquato Tasso, che avea dissi- mulato il suo pensiero, e ch'ella poi disse a Vafrino: 38  Male amor si nasconde. A te sovente desiosa i' chiedea del mio signore. Vedendo i segni tu d'inferma mente: - Erminia - mi dicesti - ardi d'amore. - Io te 'l negai, ma un mio sospiro ardente fu piú verace testimon del core; e 'n vece forse della lingua, il guardo manifestava il foco onde tutt'ardo. Il medesimo dolor che tormenta gli amanti, se non ba- st'a far che dicano i loro affetti, si muta in ambizione amorosa di dimostrarli; e se gli animi onesti si contenta- no di non manifestarsi, con gran fatica si riducono a portar intiero il manto che ha da coprir tanti affanni. 39  XV. L'ira è nimica della dissimulazione Il maggior naufragio della dissimulazione è nell'ira, che tra gli affetti è 'l piú manifesto, essendo un baleno che, acceso nel cuore, porta le fiamme nel viso, e con orribil luce fulmina dagli occhi; e di piú fa precipitar le parole, quasi con aborto de' concetti che, di forma non intieri e di materia troppo grossa, manifestano quanto è nell'animo. Molta prudenza si richiede, per rinchiuder cosí gagliarda alterazione; e di chi è trascorso a tanto impeto, disse Platone: “tanquam canis a pastore, ita de- nique revocatus ab ea quae in ipso est ratione mitescat.” Era Achille in questa passione contra Agamennone, quando “truculento intuens aspectu: - O vir - inquit - ex dolo totus atque imprudentia factus ac genitus, et quis tibi Graecorum posthac libens pareat? -”. Ma l'ufficio della ragione, significata per Minerva scesa dal cielo, va temperando: “ - Non venit - inquit - a caelo, Achilles, ut te iratum in ultionem iniuriae acceptae erumpere vi- deam, sed ut ira<cundia>m tuam compescam -”. Sí che Omero, in questa occasione di Achille, spiega insieme quanto importi la dissimulazione. Da due potenti stimoli procede tanta licenza di parole nell'ira, cioè dal dispia- cere e dal piacere, perché ella è appetito, con dolore, di far vendetta che si dimostri vendetta, per dispregio che 40  crediamo fatto di noi, o d'alcuno de' nostri, indegnamen- te, come disse Aristotile; ed a questo dolor segue il di- letto, che nasce dalla speranza di vendicarsi, e perché l'animo è in atto di vendetta: e però Aristotele soggiun- se: “recte illud de ira dictum est quod, defluente melle dulcior, in virorum pectoribus gliscit”. Dunque, da cosí fatto misto di amaro e di dolce, dee guardarsi chi non si vuol mostrar facilmente turbato, come sogliono parer gl'infermi, i poveri e gli amanti, e tutti quelli che si fan vincer dal disiderio. Importa il prevenir con la conside- razione di quanto è maggior diletto vincer se stesso, in aspettar che passi la procella degli affetti, e per non deli- berare nella confusione della propria tempesta; ma nel sere- no dell'animo che, ritirato ogni pensiero nell'altissi- ma parte della mente, potrà sprezzar molte cose, o non curar di vederle. 41  XVI. Chi ha soverchio concetto di se stesso ha gran difficultà di dissimulare L'error che si può far nel compasso, il qual si gira nel- l'opinion di noi stessi, suol esser cagion che trabocchi ciò che si dee ritener ne' termini del petto; perché, chi si stima piú di quello che in effetto è, si riduce a parlar come maestro, e parendogli che ogni altri sia da men di lui, fa pompa del sapere, e dice molte cose che sarebbe sua buona sorte aver taciuto. Pitagora, sapendo parlare, insegnò di tacere; ed in questo esercizio è maggior fati- ca, ancorché paia d'esser ozio. I concetti che risuonano nelle parole, non solo portano l'imagine di quelli che stanno nell'animo, ma son fratelli mentali (già che non posso dir carnali) del concetto che l'uomo ha del suo sa- pere. Questo è il concetto primogenito (per dir cosí), al qual succedono gli altri; e se non è con misura, ne pro- cedono molti e vari ragionamenti, e di necessità però si scopre quanto è nel pensiero; ma chi di sé fa quella sti- ma che di ragion conviene, non commette alla lingua maggior giuridizzione di quanto è il lume dell'intelligen- zia che la dee muovere. 42  XVII. Nella considerazione della divina giustizia si facilita il tollerar, e però il dissimular le cose che in altri ci dispiacciono Convien di trattar di alcune cose piú in particolare, che ricercano d'esser tollerate, ch'è lo stesso a dir dissi- mulate, poiché sono molt'i dispiaceri dell'uomo ch'è spettator in questo gran teatro del mondo, nel qual si rappresentano ogni dí comedie e tragedie; ed or non dico di quelle che son invenzioni de' poeti antichi o mo- derni, ma delle vere mutazioni del mondo stesso, che da tempo in tempo, in quanto agli accidenti umani, prende altra faccia ed altro costume. L'ordine è forma che fa il tutto simigliante a Dio, che lo creò e lo serba col dono della sua providenza, la qual per lo gran mar dell'essere ogni cosa conduce con prospero viaggio; e disponendo la medesima regola sopra il merito o demerito delle ope- re umane, si vieta nondimeno alla debolezza de' nostri pensieri il passar negli abissi de' consigli divini, alli qua- li si dee infinita riverenza, avendosi da ricever per giu- sto quanto consòna alla volontà di Dio. E se pur sempre non vediamo nelle cose mortali quell'ordine infallibile che si manifesta nel moto del sole, della luna e dell'altre stelle, anz'in molta confusione spesse volte si truovano i 43  negozii di qua giú, non manca però la certezza dell'eter- na legge, che tutto sa applicar ad ottimo fine; e 'l premio e la pena, che non sempre vien pronta, si aspetti come decreto inseparabile dal giudizio divino, che per tutto va penetrando con la sua non mai limitata potenzia. A que- sta verità, ch'è via di quiete, per dissimular le sinistre apparenze, soggiungerò piú distinto il modo di accom- modarsi a quelle. 44  XVIII. Del dissimular l'altrui fortunata ignoranzia Gran tormento è di chi ha valore, il veder il favor del- la fortuna, in alcuni del tutto ignoranti; che senz'altra oc- cupazione, che di attender a star disoccupati, e senza sa- per che cosa è la terra che han sotto i piedi, son talora padroni di non picciola parte di quella. Veramente chi si mette a considerar questa miseria, è in pericolo di perder la quiete, se insieme non s'accorge che la medesima for- tuna, che talora fa qualche piacere alla turba degli scioc- chi, suol abbandonar l'impresa, e quando piú luce, si rompe, lasciando scherniti que' che non son degni della sua grazia; e di piú la gente di questa qualità, non ha che pretender per l'acquisto di quella gloria, che solamente appartiene a chi sa da dovero; e se qualche uomo di ec- cellente virtú, alcuna volta sta quasi sepellito vivo, in ogni modo si ha da udir il grido del suo merito; e non solo la voce ne dee risonar tra quelli che vivono nel me- desimo tempo, ma se ne va passando da un secolo all'al- tro; perché il vero valor è che fa per fama gli uomini immortali, come disse il Petrarca; e prima di lui Dante: 45  vedi se far si dee l'uomo eccellente sí ch'altra vita la prima relinqua. Di questa maniera si libera il nome dalle mani della morte, ed un'anima piena di cosí alta speranza, non sente noia che a qualche indegno e da poco, per poco tempo, si faccia applauso, es- sendo un salto di fortuna che se ne passa senza lasciar ve- stigio, come il fumo nell'aria. 46  XIX. Del dissimular all'incontro dell'ingiusta potenzia Orrendi mostri son que' potenti, che divorano la so- stanza di chi lor soggiace; onde ciascuno, che sia in pe- ricolo di tanta disaventura, non ha miglior mezzo di ri- mediar, che l'astenersi dalla pompa nella prosperità, e dalle lagrime e da' sospiri nella miseria; e non solo dico del nasconder i beni esterni, ma que' dell'animo; onde la virtú, che si nasconde a tempo, vince se stessa, assicu- rando le sue ricchezze, poiché il tesoro della mente non ha men bisogno talora di star sepolto, che il tesoro delle cose mortali. Il capo che porta non meritate corone, ha sospetto d'ogni capo dove abita la sapienzia; e però spesso è virtú sopra virtú, il dissimular la virtú, non col velo del vizio, ma in non dimostrarne tutt'i raggi, per non offender la vista inferma dell'invidia e dell'altrui ti- more. Anche lo splendor della fortuna ha da esser cauto nel palesarsi, già che, passando a dimostrazioni di so- verchi arnesi e di oziosi ornamenti, oltre al distrugger il capital nelle spese, suol accender gran fuoco nella pro- pria casa, destando gli occhi degl'ingordi a pretenderne parte, e forse il tutto. Ma piú dura è la fatica di dover pi- gliare abito allegro nella presenza de' tiranni, che so- glion metter in nota gli altrui sospiri, come di Domizia- no disse Tacito: “Praecipua sub Domitiano miseriarum 47  pars erat videre et aspici, cum suspiria nostra subscribe- rentur, cum denotandis tot hominum palloribus suffice- ret saevus ille vultus et rubor, a quo se contra pudore muniebat”. Sí che non è permesso di sospirare, quando il tiranno non lascia respirare, e non è lecito di mostrarsi pallido, mentre il ferro va facendo vermiglia la terra con sangue innocente, e si niegano le lagrime che dalla beni- gnità della natu- ra son date a' miseri come propria dote, per formar l'onda che in cosí pic- ciole stille suol por- tar via ogni grave noia e la- sciar il cuor, se non sano, al- men non tanto oppresso. 48  XX. Del dissimular l'ingiurie L'ingiuria, che si può dissimulare, e nondimeno si manifesta nel disiderio della vendetta, è fatta piú da co- lui che la riceve che dal suo nimico. Non tutti sanno ben conoscer il decoro dell'onesta tolleranzia, in che si ac- cordano tutt'i filosofi, che per altre opinioni, in varie set- te, non son di conforme parere, dicendo Tertulliano: “tantum illi subsignant, ut cum inter se<se> variis secta- rum libidinibus et sententiarum aemulationibus discor- dent, solius tamen patientiae in com<m>une memores, huic uni studiorum suorum commiserint pacem: in eam conspirant, in eam foederantur, illi in adfect<at>ione virtutis unanimiter student, omnem sapientiae ostenta- tionem de patientia praeferunt”. Alcuni, non distinguen- do la forteza dal temerario ardire, son pronti ad ogni qualità di vendetta, e per un cenno che non sia fatto a lor modo, vogliono penetrar negli altrui pensieri e dolersene come di offese publiche. I sensi cosí fieri son vicini ad estremi mali, e l'esperienza dimostra che le picciole in- giurie, se non si lascian passar sotto qualche destrezza, sogliono diventar grandi; ed a tutti color che son potenti, molto piú convien di ritirar la vista da simili occasioni: perché ogni un che possa poco, è buon maestro a' suoi pensieri, per accommodarsi a tollerare; ma chi ha forza di risentirsi, sente stimolo di correr a precipizio, e molti di questi che stanno in alta fortuna, scordati non sola- 49  mente di usar perdono, ma della proporzion della pena, prendono mezzi violenti per l'altrui ruina; da che avvie- ne ch'essi pur rimangono in tanta turbazione de' fatti loro che, oltre all'odio publico, son anche in odio a se medesimi, per la perdita della quiete interna, ch'è bene inestimabile ed appartiene all'innocenzia. 50  XXI. Del cuor che sta nascosto Gran diligenza ha posta la natura per nasconder il cuore, in poter del quale è collocata, non solo la vita, ma la tranquillità del vivere: perché nello star chiuso, per l'ordine naturale si mantiene; e quando gli occorre di star nascosto, conforme alla condizion morale, serba la salute delle operazioni esterne. E pur in questo modo, non a tutti si dee nasconder; onde, nell'elezzione, si con- sideri quello che fu detto da Euripide: <...> Sapienti diffidentia non alia res utilior est mortalibus. L'esperienza, che si suol doler degl'inganni, potrà far luce in questa materia, ch'è una selva oscura per l'incer- tezza del ben eleggere; e però ogni ingegno accorto va- gliasi degli abissi del cuore, ch'essendo breve giro, è ca- pace d'ogni cosa; anz'il mondo intiero non lo riempie, poiché solo il Creator del mondo può saziarlo. Si ammi- ra, come grandezza degli uomini di alto stato, lo starsi ne' termini de' palagi, ed ivi nelle camere segrete, cinte di ferro e di uomini a guardia delle loro persone e de' loro interessi; e nondimeno è chiaro che, senza tanta spesa, può ogni uomo, ancorch'esposto alla vista di tutti, nasconder i suoi affari nella vasta ed insieme segreta 51  casa del suo cuore, perché ivi soglion esser quei templi sereni, de' quali cantò Lucrezio: sed nihil dulcius est, bene quam <munita> tenere edita doctrina sapientium templa serena, despicere unde queas alios passimque videre errare atque viam palantes quaerere vitae. Applicando io però questi versi al senso che conviene a significar un'altezza d'animo, ed una quiete, che con- duce al piacer ed alla gloria immortale, e non al diletto fallace. 52  XXII. La dissimulazione è rimedio che previene a rimuover ogni male Era tanto stimata da Giob la dissimulazione onesta che, non avendo lasciato di valersene nel suo regno, poi che si vide privo di prosperità, parendogli di aver fatto assai dalla parte sua perché non gli fosse caduta dalle mani, disse: Nonne dissimulavi? nonne silui? nonne quievi? et venit super me indignatio. Egli con tranquillità governò il suo stato, e sempre che potette dissimular, lo fe' volentieri; e però s'era per- suaso che non avesse da seguir mutazione nelle cose sue, ben assicurate dalla prudenzia, che in sé raccoglie- va dissimulazione, silenzio e quiete. Ma se con tutto ciò cadde in miseria, fu voler di Dio, che si compiacque di far vedere nella persona di quel santo una invitta costan- za e 'l trionfo della pazienzia, che nel carro della vera gloria si menò appresso come catenati tutt'i mali, fin ch'egli ebbe la prístina felicità con duplicate sodisfaz- zioni; e quella sua giustizia, che nel termine della sem- plice natura si dimostrò al mondo, sarà esempio in tutt'i secoli per affermare che i servi di Dio, in ogni condizio- ne, son sempre beati. Dunque Giob era tale, anche nel tempo de' suoi tormenti; ma per non uscir dalla materia 53  di che vo trattando, dico ch'egli, facendo il conto con la sua conscienzia, dicea: “Nonne dissimulavi? nonne si- lui? nonne quievi?”, volendo significar che a questa dili- genza non suol mancar piacer alcuno; e quando succede qualche accidente che perturbi tanto sereno, vuol il cielo che, dopo l'avversità, si accresca splendor agli animi che son alieni dagli affetti della terra. 54  XXIII. In un giorno solo non bisognerà la dissimulazione È tanta la necessità di usar questo velo, che solamente nell'ultimo giorno ha da mancare. Allora saran finiti gl'interessi umani, i cuori piú manifesti che le fronti, gli animi esposti alla publica notizia, ed i pensieri esaminati di numero e di peso. Non averà che far la dissimulazio- ne tra gli uomini, in qualunque modo si sia, quando Id- dio, che oggi “est dissimulans peccata hominum”, non dissimulerà piú; ma poste le mani al premio ed alla pena, metterà termine all'industria de' mortali, e que' sa- gaci intelletti, che hanno abusato il proprio lume, si ac- corgeranno come allora non gioverà l'arte del cucir la pelle della volpe dove non arriva quella del leone, che fu consiglio di un re spartano: perché l'onnipotente Leo- ne, facendo ruggir il mondo dagli abissi fin alle stelle, chiamerà tutti; e ciascuno dee saper e dire “circumdabor pelle mea”, come disse Giob. Quell'aurora porterà un giorno tutt'occupato dalla giustizia, e nel mostrar i conti, non vi sarà arte da far vedere il bianco per lo nero. S'u- dirà il decreto, che sarà l'ultimo delle leggi, e darà legge eterna alle stelle ed alle tenebre, al piacer ed alla pena, alla pace ed alla guerra. Sarà forz'alla dissimulazione di fuggirsene in tutto, quando la verità stessa aprirà le fine- 55  stre del cielo e, con la spada accesa, troncherà il filo d'o- gni vano pensiero. 56  XXIV. Come nel cielo ogni cosa è chiara Se per questa vita in un giorno solo non bisognerà la dissimulazione, nell'altra non occorre mai; e lasciando di trattar delle anime infelici che, con la luce del fuoco eterno, anzi nelle tenebre, mostrano gli orribili mostri de' peccati, dirò dello stato delle anime eternamente feli- ci. Ivi hanno lo specchio, ch'è Iddio, il qual vede tutto, e ben nella lingua greca il suo nome, come osservò Gre- gorio Nisseno, dimostra efficacia di vedere, perché theós viene a theáome, ch'è mirare e contemplare. Veg- gono i beati colui che vede, sí che nel cielo non occorre che alcuno si celi. Ivi tutto è manifesto, perché tutto è buono, tutto è chiaro, tutto è caro. Quanti piú sono a possedere il sommo bene, tanto piú son ricchi. Dov'è tanto amor, non può succedere occasion di custodire in- teresse alcuno. Ma qui, dove siamo vestiti di corruzzio- ne, si procura con ogni sforzo il manto, con che si dissi- mula per rimedio di molti mali; ed ancorché ciò sia one- sto, pur è travaglio; onde si dee aspirar al termine di questa necessità, e spesso, rimovendo lo sguardo dagli oggetti terreni, vagheggiar le stelle come segni del vero lume che, anche per mezzo d'esse, c'invita alla propria stanza della verità. Ivi, nella divina essenza, i beati go- dono della chiara vista, ch'è l'ultima beatitudine dell'uo- 57  mo, essendo la piú alta operazione dell'intelletto, per mezzo del lume della gloria che lo conforta; perch'es- sendo la divina essenza sopra la condizione dell'intellet- to creato, può questi vederla, non per forze naturali, ma per grazia; e come uno ha maggior lume di gloria del- l'altro, cosí può meglio conoscerla, ancorché sia impos- sibile vederla quanto è visibile, perché il medesimo lume della gloria, in quanto è dato a tal intelletto, non è infinito. Or, considerando cosí sodisfatti, cosí felici, ed in eterno sicuri, gli abitatori del Paradi- so, si vede come non han da nasconder di- fetto alcuno; e per conseguenza la dissimulazio- ne rimane in ter- ra, dove ha tutti i suoi ne- gozii. The first stage X produces a screech volunaarity so that the rest of the world should think that x he is in the state wwhich the NONvolunatry production woutl SIGNIFY. Stage 2, produce X is now supposed not only TO SIMULATE pain-behaviour but also to be recognised as simulating pain-behaviour. Stage three  X screes so that Y not only recotgnises that the behaviour is voluntary but also recognises that X intends Y to recognise his behaviour as voluntary. We have underminded that this is a straightforward piece of DECEPTION. DECIEVING consists in trying to get a creature to accept certain things as SIGNS of something or other wihout knowing that this is a FAKED case. Were would weuld have a sort of PERVERSE faked case in which something is faked but at the same time a CLEAR thindictation is put in that the faking has been done.Y can be thought of as initially BAFFLED by this conflicting performance. There is this creature simulating pain but ANNOUNCING, that this what he is doing. What on earth can it be up to me. If Y does raise the question of why X should be doing this, Y might first come up with the idea that X is engagnen in some form of make believe – a game to which Y is expected to make some appropriate contribution. This is stage 4. But we may suppose, tthere might be cases which coud NOT be handled in this way. If Y is to be expected to be a participant whith X in some form of play, it ought to be possible for Y to recognise what kind of contribution Y is supposed to make. And we can envisage the possibility that Y has NO CLUE on which to base such recognition, or again that though some form of contribution seems to be suggested, when Y obliged by coming up with it, X instead of producing further play-behaviour geets corss and perhaps repeats its original and now problematic performance. This is stage 5, at which U supposes thanot that X is engaged in play that buta what I is doing is trying to get Y to believe or accept that X is in pain. In relation to the particular example which I have been using, to reach the position ascribed to in in stage five, Y would have to solve, bypass, or IGNORE, a possible problem presented by X/s behaviour. Why SHOULD X produce what is NOT a genuine but a FAKED expression of pain if what X is trying to get Y to believe is that X IS in pain? Wy not just let out a natural bellow? Possible answers are not too hard to come by. For example, it would be UNMANLY, or otherwise uncreaturely, for X to produce NATURALLY a natural expression of pain, or that X’s NON-NATURAL faked production of an expression of sincere pain is NOT to be supposed to INDICATE EVERY feature which WOULD be indicated by a NATURAL production (. The non-natural production or emission, for example, of a LOUD BEELLOW might properly be taken to indicate pain, not that THAT degree of pain wich would correspond with the DECIBELS of the particular emission. This problem would not, however, arise if X’s performance, instead of being something which, in the NATURAL INVOLUNTARY case, woud be an EXPRESSION of the STATE of X which (in the non-natural faked case) is is intended to get Y to believe in, were rather something MORE LOOSELY connecterd with the state of affairs (NOT NECESSARILY A STATE OF X) which it is intended to conveye to Y. X’s performance, that is, would be SUGGESTIVE, IMPLICATURAL, in some recognizable way, OF THE STATE of affairs WITHOUT being a NAUTRAL involuntary response of X to THAT state of affairs. We reach then stage 6. Where the correlation is meant to be something other than inconic. A stage in which the communication vehiles do not ave to be, initially A NATURAL SIGN of what which it is used to communicate. Provided a bit of behaviour could be expected to be seen by the receiving creature as having a discernible connection with a particular piece of information, that bit of bheaviour will be usable by the transmitting creature, provided that the creature can place a fiar bet on the cconnetion being made by the receiving creature. Any link will do, proided it is detectable by the receiver, and the ooser the links creatures are in a position to use, the greater the freedom they will have as communicators, since they will be less and less restricted by the need to rely on a proor natural connection. The widest possible range is given where creatures use for these purposes a ANGE of communication devices which or gamut of communication devices which have NO ANTECEDENT connection at all with the things that they communicate or represent, and the connection is simply made ofbecause the sassupmtion of such an artificial connection is prearranged and foreknown. Here creatures can simply cash in on the stock of information built into them. In some cases, the devices might have other features above the one of being artividial. They might infolve a finite number of roto devices and a FINITE set of fmodes or forms of combination – combinaroty operations, which are cableble of being used over and over again. The creatures whihcll have what some have thought to be characteristic of a language, a communication system with a finite set of initial devices, together with semantic provisions for them, and an understanding of what the functions of those modes of comination are. As a result, they can generate an infinite set of complex communication devices, together with a correspondingly infinite set of things to be communicated. This gives a rationale ro communiationThe muth exhibits the conceptual link Torquato Accetto. Keywords: dissimulazione onesta, dissimulazione disonesta nell’animali – mimesis – camuffare, camouflage, laboratorio di mascheramento – vegetato: camuffamento uffiziale dell’esercito italiano. vegetato: camuffamento uffiziale dell’esercito italiano, simulation as the key concept to unify the only sense of ‘sign’ x consequentia y, y seq-uitur x, segno naturale divenne segno artificiale – segno di una proposizione p – un gesto segna la proposizione p, la correlazione e iconica – ma se intenzionale, it cannot be ‘natural’. Passage in ‘Meaning revisited’ --. -- Giulio Cesare, Medici – grigio – esercito -- Accetto. Refs. Luigi Speranza, “Grice ed Accetto” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.

 

Achillini (Bologna). Filosofo. Grice: “It is from Achillini that I draw the idea that ‘mean’ is essentially a ‘consequentia’ relation – he speaks of the sillogismo fisiognomico (those spots do not mean measles, YOU mean that you have measles, since you painted them yourself!” – but then he was ‘of’ Bologna, and thus a physician, more than a philosopher! Bless his little heart!” Grice: “The fact that the Loeb Classical Library has Aristotle’s Physiognomica helped!” -- Grice: “I like Achillini; he is my type of logician.” “Possibly, his most generalised implicature is his little philosophical tract on ‘de prima potestate syloogismi,’ translated during the second world war as “la prima potesta del sillogismo.’ His example: “all men are mortal, Garibaldi!” -- Filosofo. Essential Italian philosopher. Grice: “What fascinates me about Achillini is, first, that he belonged to a varsity older than mine, Bologna; second, that he was a Renaissance occamist, as Matsen has shown.” Alessandro Achillini (Latina Alexander Achillinus) filosofo. Achillini è nato a Bologna e ha vissuto la maggior parte della sua vita. Era il figlio di Claudio Achillini, membro di un'antica famiglia di Bologna. E 'stato celebrato come docente in filosofia presso Bologna e Padova , ed è stato designato "il secondo Aristotele." Lui era di natura molto semplicistico. E 'stato qualificato nelle arti di adulazione e di doppio gioco a tal punto che i suoi studenti più argute e imprudenti spesso lo consideravano come un oggetto di ridicolo, anche se lo hanno onorato come insegnante. Egli possedeva anche un bel carattere vivace. Secondo la descrizione di un collega, che era bello, alto ma ben proporzionato, allegro, felice, spesso sorridente, e affabile. Achillini mai sposato. La sua reputazione tra i suoi colleghi era ammirevole ed era molto rispettato. E anche se era ben Achillini lettura e formidabile in un dibattito, è stato detto di essere un po 'rigida e rigido nella sua docenza. Dopo la sua morte, molte persone sono state estremamente devastati.  Le sue opere filosofiche sono state stampate in un volume in folio , a Venezia , e ristampato con notevoli aggiunte. E 'morto a Bologna e fu sepolto nella chiesa di San Martino. Tra le sue scoperte notevoli, è conosciuto come il primo anatomico per descrivere le due ossa tympanal dell'orecchio, chiamato martello e incudine . Ha mostrato che il tarso (parte centrale del piede) è costituito da sette ossa, ha riscoperto il fornice e l'infundibolo del cervello. Inoltre ha descritto i condotti delle ghiandole salivari sottomascellari.  Suo fratello è stato l'autore Giovanni Filoteo Achillini , e il suo pronipote, Claudio Achillini, era un avvocato.  Fu costretto a lasciare Bologna a causa della espulsione della potente famiglia Bentivoglio di cui era un partigiano. Poi anda a Padova dove è nominato professore di filosofia. Iniziò ad insegnare quando aveva 21 anni. Ad eccezione 1506-1508, è stato professore di filosofia a Bologna. Achillini era un professore presso Padova. Achillini insegna a Bologna per ventotto anni, che è più lungo di chiunque abbia mai insegnato a Bologna in la filosofia. Padova ha uno statuto, che se un professore è riuscito a leggere in qualsiasi giorno assegnato, o non è riuscito ad avere un certo numero di studenti che sarebbe essere documentati e poi ci sarebbe stata una diminuzione di stipendio per evento. Achillini non soddisface il requisito per la lettura, a cui è stato penalizzato 351 lire bolognesi. Anche riceve due lettere fortemente formulate dal Comune di Bologna, affermando che la sua assenza non era autorizzata, e se avesse continuato avrebbe penalizzato severamente (500 ducati d'oro per la prima infrazione). Partecipa molti comitati di dottorato come membro per l'esame e l'approvazione dei candidati. Ci sono registrazioni di lui che frequentano almeno novanta volte al presente procedimento. I procedimenti sono esami di dottorato o di elezioni dei nuovi membri della compagnia di collegiali medici.  Inoltre, e ben versato in teologia. I suoi disegni iniziali indicano un interesse ad entrare al sacerdozio. Egli sembra aver iniziato gli studi al seminario. L'anno in cui è entrata la tonsura nella Cattedrale di Bologna. E anche se poi sposta la sua attenzione al mondo accademico, rimanne un filosofo attivo per tutta la sua vita e ha contribuito a due Congressi Generali dell'Ordine Francescano; uno a Bologna e un altro terrà a Roma.. Mentre in residenza a Bologna, è accreditato come strumentale nel generare interesse per Guglielmo di Ockham. L'estensione del riconoscimento alcuno di Achillini è difficile da discernere, ma si ritiene che i suoi contemporanei e all'università istigato una breve rinascita Ockhamistica, come evidenziato dagli ultimi lavori dei suoi studenti.  pubblicazioni Le “Note anatomiche del grande Alexander Achillinus di Bologna” dimostrano una descrizione dettagliata del corpo umano. Paragona ciò che trov durante i suoi dissezioni a ciò che altri come Galeno e Avicenna trovano e note le loro somiglianze e differenze. Afferma ci sono sette caratteristiche in sede di esame del corpo al posto del credeva sei data nel libro di Galeno sulle sette. Queste caratteristiche sono sette dimensioni: il numero, la posizione, la forma, la sostanza come in sottili o spessi, sostanza in polposo o ossea, e carnagione. In questo saggio, dà anche indicazioni come come procedere con alcune dissezioni e le procedure, come la castrazione, l'estrazione della pietra, e la rimozione della gabbia toracica di esaminare ulteriormente il cuore ei polmoni.  E 'stato anche distinto come un anatomista, tra i suoi saggi che sono De humani corporis anatomia (Venezia), e Expliciunt Annotationes anatomicae in Mundinum Magni Alex. Achilini Boron. Editae per euius fratrem Philoteum (Bologna) – Achillini Bononiensis opera lima ejusce actoris repollita et extersa ac denuo maxima cura ac diligentia impressa (Venezia). Di Achillini Annotationes anatomicae è stato pubblicato da suo fratello, Giovanni Filoteo,  E 'stato pubblicato in un piccolo formato di diciotto fogli con un paio di poesie di sei e due righe ciascuna. Ulteriore lettura Franceschini, Pietro Dizionario della biografia scientifica   Herbert Stanley Matsen -- la sua dottrina di "universali" e "trascendentali": uno studio in rinascimentale Ockhamism . Bucknell University Press. Gallerie online, storia della scienza collezioni, University of Oklahoma Biblioteche immagini ad alta risoluzione delle opere di e / o ritratti di Alessandro Achillini in e il formato .tiff.  INDEX TOTIVS OPERIS DVBIORVM, ÇAPITVLORVM, ET EORVM QVAE NOTATV DIGNA VIDENTVR. finiti vigoris fit D e u s . p a g . 1 . telligat. Vtrum prima forma quæ estvi tor. Virum quodamordinerecedant intelligentiæ mediæ àpri. ma. 16 Virum intellectus possibilissubijciatur accidentibus. Verum incelle&uspossibilis sit formadansesschominé. 23 In libro dc.Orbibus. Cælum eftingenerabile. Cælum non est calidumnifivirtualiter Cælum nonindiget Athlante,ncq; animacogente. Cælum eft naturæncutræ, Dubium secundum . Vtrum specizdifferant stella, & o r Stella est continuasuoorbi. Stella eftdextrumcæli, Noucm gradus felicitatis secundum Aristotelem & Commé Intercælosnoncft corpus replensvacuum. rarorem, ibidem . Quid siccopulatio. Quomodo intelligitur propositio dicens recipiens debetelle Verum quaruncung; intelligentiarum perfe& ioattendatur ibidem Vtruntalis sit proportiomoventiú, qualiseftrefiftentiarī. ibi. Omnes diversitas stellarum pene proportionabilem habet Nonetfellaterræ aliquando propinqua,& aliquandoree Tantum motu diurno cælum stellarum mouctur. Puncto velocissimo diurni motus non describitur æquino Aialis. Sufficit Afrologis imaginarium esseorbem, quem putant Infra Solem sunt Venus& Mercurius. Vtrumtalisfit proportio motus ad motum in velocitate, Regularis.cftmotuscæli. ibidem Verum apud Thcologá independentia inferat infinitate. ibid. Dubium quartum. Vtrum intelligentia sit. Solius naturalis est subftantiaabftra & áelledernóftrare. 61 Dubium sextum.Verum intelle&usmoucatur. Deus non est condensabilis, ncq;rarcfa&ibilis. Deus noncftintentionaliter variabilis. Intelligentiæ mediæ sunt ingenerabiles & incorruptibiles. Incelligentiæ mediæ sunt nonaugmentabiles & non diminuibiles. Intelligentiæ mediæ non sunt rarefa&ibilcs, autcondensa Intd qualis cf desidcrijad desiderium. An homo cognoscar infinitatem Dei. Quid per infinitatem intelligendum sit. ibidem ibidem per se entiores. Vtrum possibile sit imaginare Deum esse potentiale. ibid. Vtrum Deus conservar intelligentias. ibidem Vtrum ex maiore de necessario sequatur conclusio de necella ibidem Ve rum 1. de generatione, tex.com.13. probetur ab Aristotele materiam esse æternam . ibidem rio in figura prima.  -- penes appropinquationem summo. VBIVM primum.Vtrum in Vtrum tantum Deum Deus in VTRVM in calofirmateria. Cælum est necessarium & æternum. Vtrum possibile fitcs homo antequam moriatur intelligat substantias separatas. Dubiumtertium. Vtrůcccentrici, & epiciclis intponendi. 48 Cælinon sunt perforati. Virum quanto naturæ lune viciniores materiæ, cantosingim 37 timus finis, sit primus mo Vtrum Deus, liberomoucatcæ Cælum non est rarefa &ibilcncquecondensabile. 7 Cælum non est senescibileneque fatigabile. ibidem Dubium quintum .Vtrum Dæmon sit. ibidem Deus non est alecrabilis. 20 35 36 Primus orbis mouet alios. Maxima sphærarum est stellata. Cælum est incorruptibile. Cælum non est alterabile nisi intentionaliter 26 Aggregatum omnium cælorum est quasi vnum animal.Vtrum ponenda sir creatio. Vtrum intelligemtiæmcdiæsint Cælum est cancumadiuum. productz. % Cælum est corpus spirituale & divinum . Cælum est grave aut leve. 30 Cælum non est augmentabilencg; diminuibile. Cælum non est sensibile nisi visu. Stellamoucturad motum sui orbis. Vnum est centrum mundi. in Sole. 17 28 In libro de Intelligentijs. Vtrum Deus fic intelle&usagens. Quid intellectus adeptus. stanci. primum mobile. ncq; per accidens. denudatum à natura recepti. ibidem. mota. tumpot eft. aliquomodo. Vtrum intelligentiæ inferiores intelligant superioram . 13 VIRUM intellecus sit VIRTUS materialis. Virum intellectum possibilem habeat omnis HOMO. Vtrum intellectus possibilis sit pure pocentialis. bis cius. Vtrum felicitas sit Deus. 27 Nullo motum ouentur corpora cælestia nisi circulari. Virum latitudo intelle&u ũlitvni formiter difformis. 33 Vtrum sequatur, Deus est infiniti vigoris, ergo mouetinin Verum valcat hoc naturalicer mouct: ergo ipsum movet quan Vtrum infinitum sit cognoscibile. Virum in substantia ponendus sit gradus. ibidem Verum aliquis sit appetitus inclinationi naturali conformis Deus est ingenerabilis & incorruptibilis. Deus non est augmentabilis nec diminuibilis. non bonus. Vtrum intelligentiæ se conservent. Verum intelligentiæ dependcantam phancasmatibus. ibid. Vorum Plato ponat formam quæ nonc idea. ibidem . biles. Intelligentiz mediz non sunt alecrabilcs. lum. ibidem Non est intelle&usagens in Deo, nisi identice nec possibilis Deus non est localicer mobilis neq; persc, ncq; per partem,  Vtrum vniversales itnotius SINGULARI. Intelligentiæ mediæ non sunt intentionaliter variabiles. Vtrum species prius apprehendatur quam genus. Inintelligentijs medijs est aliquo modo intelle&usagens, & Vtrum formæ intentionales educantur deporencia materiæ. inrelle& us possibilis. Intellectus possibilis est generabilis, & corruptibilis. Dubium septimum. Vtrum cælum recipiat else ab intelligencia. Vtrum vniversale sit innarum intelle&ui possibili, Vtrum scientia sit ipsum scitum. Vtrum corpus subratione qua mouetur sit subiectum. Vtrum omnium sensibilium corporum formas philosophus naturalis quidditatiue consideret. An cælum philosophus naturalis quidditatiuc consideret. An naturalis scientia pcedat ordinedo&rinæ metaphysicam. Quare in mathematica non possumus a posteriori demon II2 Quomodo movens primum consideratur a metaphysico. Dubium uerit. o&auum Vtrum cælum mutationem termina 90 vndecimum.Vtrum cælum sit sphæricut . 92 duodecimumVcrum cælum sit luminofum dese.73 Non est lumen lunæ reflexum tantum. Dubium Dubium Vtrum morus cæli fuerit æternus. Cælum movetur sine fatigatione & pæna. thematicam, naturalem, & metaphysicam . VBIVM primum.Vtrum vniversalia ex i Intellectus agens deus. fant inintelle&u. 104 Vtrum vniversale sit nomen tantum. ios Verum vniuersales it ens rationis. Vtrum vniversale sit respc&iuum. Vtrum vniversale sit extra animam in re abstractum . Vtrum vniversalia sint extra animam. Vtrum vniversalia substantiarum sint substantia. Vtrum vniuersale sit corporale. Vorum vniuersale sit corruptibile. Vtrum vniversale existat nullo Singulari illius existente. An felicitas considerat in scientia speculatiua. An felicitas sit vita. An felicitas sit sempiterna vita. An tanta sit æquiuocatio dicatur de vivo & lapideo. Vtrum ad felicitatem requiratur scientia moralis. Quomodo exdi&o speculatiuos equatur practicum. IIS Quid demonstratio SIGNI, causæ tantum,& causæ & eltc. De quibus causis considerat naturalis, mathematicus, & dini Verum cuiusq; causati scientia sit per omnes cius causas.  Intelligentiæ mediæ sunt localiter mobiles per accidens ab alio nonå se. sensatum sit in intellectu. Intellectus possibilis est augmentabilis & diminuibilis. Vtrum vniuersalia sine obic&uni intelle&us. Vtrum vniuersalia ina&usinr in intelle&u. Intelle & us est realiter alterabilis, terminatiue, non subiectiua Intelle&tus possibilis eft localiter mobilis per accidens, Intellectus possibilis est intentionaliter variabilis. Vtrum forma inintelle&u habeatesse singulare. Verum vniuersale verius habeat dscinintelle&uquàm ex Cælum est intelle&iuum, & appetitivum. bie &tum neq; tali mutationem ut ab ir ura d non esse. Vtrum coelum sit sub ic & um principale naturalium. Vtrum fubic&um attributionis in naturalibus sit cælum. Non concederet Aristoteles cælum fuisse creatum neq annihilabitur. Apud Aristo.non incipit mundus esse neq;desincr. Ad omnes operationes iniftis inferioribus cælum concurrit. Cælum iftis inferioribus non imponit necessitatem . naturali neq causæ finalis. Efficiens duplex. Non est influentia cæli instrumentum diftin&um a motu & primum efficiens à naturali consideratur. Quomodo corpora cælesia sunt in loco. extra . Vtrum vniuersale fit idem vel diuersum á singulari. Vtrum vniuersale fit causa fingularis. Quomodo, materiaà mathematico consideratur. Quomodo naturalis quatuor causas considerat. Vtrum melius sitponereinrationeformali subiedimobile 1Virum ex nihilo aliquidfiat. quàm moueri. sophianaturali. Vnde Quid ficmoueri localiter,fecundum forinam ,& fecundum materiam. Quæ intelligibilia cósideranturà mathematico, qàmetaphy. Dubium cercium decimum.Verum quiescente cæloparient Vtrumvnum& idemfitcaulasubie&i& accidentis. contenta, Vtrum vniuerfale fic in singulari. Cælum quatuorcausashaber. Vtrumvniuersaliadeclarentquidditatem fingularium. ErrorGalenidecertitudincMedicinæpra&ticæ. Vtrumvniuersaliaprædicenturdesingularibus. ftrare. Quomodo ccelum alteratur.  In intellectu possibilieftintellc&tusagens. Ratio formalis subie&I naturalis philosophiæ . Cælum estcffc&iúumhabentiumnacuraniininferioribus. Nontotumgenuscausæformaliscósideraturàphilosopho Cælum eftconferuatiuumhorum inferiorum . luminc.nus. 1 Coelumestcompofitumexmateria& forma. Cælum cftviuens,& non eftnegativum , Cælum eftaniinal, & noneftsensibile. TRTM naturatum sitfubic&um inphilo Cælum eft finaliter ,formaliter, & materialitercausatum. Cælum est esse Aiue conservatum. Vtrum subiectum contincat omnes veritates ad scientiam pertinentes. Nonestmutatumcælum adellemutationenonhabentelu Vtrum aliquid quodnonmoucturexsc,sitsubic&uminna turaliphilosophia Non fuit mundus generatus,neq;corrumpetur.' Vtrum subiectum philosophiæ sit ampliusquàmcorpus. Dubiumnonum. Vtrum cælunifitfinitæmagnitudinisin Quidsitordocorporum inphilosophianaturali. adu. Quidfitordoperfectioniscorporumnaturæ. Dubium decimum .Vtrum coeluitiilicvnum. Virum motus coelifit naturalis. In intellectum humanum nondire&eagiccælum . In Tractatúde Vniuerfalibus. Vtrum moralis scientiafitexcludeda àtrinaphilolophiæ di uisionc pofira ab Arift.6.metaphysicæ tex.com.2.in m a Vtrùm vniuersaliasinescientiarci. Vtrumvniuersaliafinirforniæ Vtrum vniucrsaleànaturadenominatadifferat: Vtrum morssequaturadnaturammateriephilosophia naturalis prima ordine doctrinæ præparans intelle&umad Verum vniuersale quantum eftdescnoneftinintelle&u,nec felicitem. Medicinam subalternarinaturaliphilosophiæ. Vtrumvniuersalesensibilium,cuiusnulluinsingularefucrit Quidmateriaprimaquidfecunda,&quidformasimplex, tra. In Libro de Physico auditu. Vtrum natura fitfubic&tumlibri phyficorum, Naturalisnonhabetde cælo perfe&tissimamcognitionem. Ante sensum ellevegetationem . An homo sit æquivocum . Vcrumfinitiadinfinitumnullasitproportio. IVnde do &rinaordinaria. Vtruinmagisvniuersalefit primo cognitum. Vtrum philosophi naturalis sit probaresuaprincipia. Quæ principiapolsintinscientiaprobari.Virum formaappetatmateriam Vtrūpriuatiofitcausaappetitusmateriæ definitiomateriz Quid materiasecunda. Duplex generalissimum substanciae. Deaccidencibuscælinorandum . Vtrūformaantcquagenereturpræcxiftarinmateria. Vtrum infinitumfitignotum. Vtruminductiofitbonaconsequentia. Vtrum principiasintcadem . Priuatio,quarcprincipiumperaccidens. Quid generatio fimpliciter ,&secundumquid. Sperma propria esse masculi et non feminæ. Et quiddeopi altcrumfcilicetperformamnionc Galeni. Opinio Alexandri de intelle& u possibili. Dubium verummateriahabcataliquamformasub Materiacæli,nunquam fincpriuationc. Principium perquodindiuiduuinefthoceftforma. Trinitasprincipiorumplatonica. Intelle&uspossibiliscorruptibilis& generabilis. Quareinconceptudifferentiænoincluditurgenuscuiusest Metaphysicæ,triplex subicctum. Differentia. Quid fit realiter distingui. Vtrum materiasinequantitatefirdiuisibilis. Vtrum tresdimensionesfintpassiones quantitatis. Vtrum compofitum ex materia & formacllcfitacceptum a Vtrummateriafitprodu&aàDco Vtrum mareria fic forma Propositionespersenotæinphilosophianaturali. Vcrum polsibilesitrotocontinuoquiescentepartemillius Diuisioformæ,& naturæ. 130 De principiomotus augmentationis, & alterationis. In libris de Elementis TRVM materiaexistat. Quid sittransmutatiosubstantialisquidac Quomodoipsaestmediuminterens& nonens. DubiumfecundúanSortenonexistenteSortessitho. 158: Dubium tercium quid cftmateria. Uam. Materia non ch operatiuanisipaciendo. Materianonperfccxistitsedinaliofcilicetcomposito Sper  Quómodo logica considerat de ente reali. Quæ ressintprimaprincipia. Terminigenerationis& corruptionis. quid. Quomodo materiaeftcns Cogitatiuavlcimatapræparatioadintelle&um . Andemonstrationesinmathematicaprocedantpercausam. Quomodomateriamediumdiciturinternihil & ago. Vtrum eadem sintnobisnota & naturæ. Appetitus duplex materialis & cumfenfu Quomodo materiæ acciditq fit potentia. Melius eft dicere causas esse notiores natura quàm naturæ. Quædiffinitiodescriptiua. Demonftrationesinphilosophianaturali, quæ a priori. Quomodo aliquideßin prædicamentoadaliquid. Quomodo homo cognoscitin cognitionenaturæ. Virum materiasir suapotentia. Quomodo artificinorioreftcaula. Verummateriasitpotentiaomncsformæ. Formalapidisextraintelle&tumestvniuersaleintentio,aliud Vtrumtriaprincipiaexæquoprincipientmotum à fubicéto. Vtrum vniuersalia sint realia. Quomodo consuctudo alteranatura. Verum fingulare fit per se intelligibile. Vtrum vniuersalia sint prius nota singularibus. Primum cognitumà nobis fingulare,& secundocognitum Quomodoexnonenteperaccidensfitaliquid. Vtrúcademproportiomateriæsitpotétiæ oésformæ, Vtrum intelligentiæhabcantmarcriam . Vtrum materiafitminusperfe&aaccidente. el vniveriale. A b intelle& uagente non datur definitio. Quomodo intelligentiæ sunt mobiles. Vtrum quantitas realiter diftinguatur à materia. metaphysico. Vniuerfaliarationeintelle&usinquofunthabent aliquid Vtrum matcria fit Deus æterni. Quid maximum fit & quid minimum non. Termini accidentales ex quibus fitaliquid. Quomodo conucniuntq,uomodo differüt. Quid generatio simpliciter, quid secundum Quomodo ipsacftinprædicamento. Vtrum transmutatioficripofsitdeindiuidnovniusspeciei Quomodo materiacivnumcumpriuatione ad indiuiduum ciusdem specici. Quomodo priuatio fub forma comprchenditur. Dubium quartum vtrum materia sit substantia. Virum insubstantial sit contrarictas. Vtrù philosophu snaturalisdebcatprobaremateriäсssc Quarcmagispriuatiocftidemmateriæquàmformæ Materiahabctdifferentiam ,circunscriptiuam,nonconficuti Vtrum tantum criafintprincipiarerum naturalium Vtrum generatio fit subita. Auicennae opinio de forma corporcitatis. Materia prima consideratur à philosopho naturali. Matcriacftinduobus prædicamentis. Dubiumquintumvtrummateriafitforma Materiam nonestina&umotiuointellectus torum. Dubium vtrum materiapossitexisteresincforma Opiniones tres de præ cxistencia forma in materia. Philofophi naturalis eft Quarcformasubstantialiscontrarium probarematcriamesse,formameffe, non habet. compositum effc. Anfrigiditasaquæminorsitfrigidicasterræ. moucri localiter. Vtrum principia sint contraria. Vtrum generatio accidentalissequaturalterationcm . Sex positionisdifferentia. Materianonestcompositum,ncq;aliquodquatuorclemen Vniuersale triplex Conceptü fpecificădatintelle&usagens,& nó gencricũ.124 Vtrum incælosirmateria. Vtrum materiapossitellesincpriuatione. Quid requiritur ad hoc vtaliquafintideinfimpliciter. Concretum principaliterfignificatqualitate,& quare. VtrummateriaAuat. A Muliere duplicem exirehumiditatem . Vtrum priuatiofitprincipium Quomodo priuatioprincipiumperaccidens Quomodo cælumvariarlocum secundumformam . Differentia materiæ eft poccntia,&nona&us nisi negatiuc. · Matcria nonhabetformamabipsainseparabilem, fedquam Scientiæ naturalis duplicia sunt principia. Virumens ficvniuocum , Vtrùm quanrirastermineturterminisproprijgeneris. Virum totum fitsuæpartes. Viruni forma fitab agente. Vtrūmctaphysicisit probare substantia abstractus esse Virum ficdarçminimum. Verum priuatio fit principium per se. Materia libet perdere poteft. Virum materiaapperat. Materiatertia,& quarta. stancialem fibi propriam cidentalis Dubium o&auum,vtrummateriaprimasitvnanumero omnium generabilium ,& corruptibilium . nat sint summa. Verum aërficfrigidus. Remotæ potentiæ numerantur numerarione specierum. Materia est potentia Cubic&iua ntelle&ui. Dubium vtrum materialitquantitas. Dubium 16.vtrum quantitatisuccederepossitaliaquantitas Dubium vtrum quantitas præueniat formam subftantia leminmateria. In Quæstione de subiecto Physionomiæ . VID princpium cognitionis tantum, & co Principiorum in complexorum proprietates Principiorum complexorum quærit metaphysicus proprietates corruptibilitatis Verum ambæ qualitates quasynum elementumsibidetermi Mareria non cftvnumesseina&u. Potentia describit materiam. Potciitiæpropinquæ materiæ sunt quatuor. Dubium23. vtrum essentia sit esse. Subic&um,quomodopersenotuminscientia Physionomia,& chiromantiascientiæ. SiestElementum, præsupponitur, quiaipsumeftfubic&um Physionomia &chiromantia naturalisubalternantur considerationi Artic. Tertio princinalitercósiderandüeltcirca mixta Quomodo intelle&usfitpra&icus. Quæ operationespraxesdicuntur. Eidem scientiæ subalternaripra&icam& speculativam. Artic.Quarto principaliter considerandum circa animatave getaciva , aut sensitiua. Vtrum deturminimum innaturalibus. Vtrum calidicas, frigiditas, ficcicas,& humiditas, sint qualita- Cor esse primam fenfusredicem secundum Arist. 264 Quæstio de priina syllogismi potestace. nobis. Vtrum terrasitvbiq; habitabiles. Cogitativam virtutem componere. Materia non eftspecies. Dubium nonum vtrum possit elleqrinco de supposito sint Condensare & rarefacere non perscsequuntur qualitatespri multæ materiæ mas . Dubium vtrum materia sit per se intelligibilis. Materia non potest esse &iue neque formaliter mouereintcl uitare. Materianonestdeseina&uenticaciuo. Dubium vtrummateriasitsuapotentia. Vtrum terrarespe& ucælifitvtpun &um . Vtrumterrasiessetlucida,& existeret in cælo videretur á Dubium 18.vtrum quantitas in terminata fit quantitaster minata nomia. Dubium verum materia primasır causa generabilitatis & Homo secundum quod natura bonus subiectum in physio Contra Scotum de subiecti continentia. Materia non eå quidditas nisi improprie. Ens et esse sunt idem. Essentia et existentia sunt idem . Forma estesseactu. In demostratione simpliciter passio de subiecto concluditur. Quid subiectum primum per attributionem . 258 Quarc substantiain metaphysica subiectum eftper attribu Dubium 24.vtrum totum sit suæ partes. Dubium vtrum forma ante generationem habeat este principalitatis. reale in materia. Dubium27.vtrum privatio sit res Contra Galenum de numero complexionum. An in compofito substantiali pluressubltantialesformarepe De via in physionomia & chiromantia. riantur. Scicntiaalterumduorummodorumdiciturpra&ica. 262 Vtrum cælum componatur ex quiditatibus, & videturelit, Quomodo theologiatora pra&ica. quialubente continetur, & sub corpore Prudentia circa quæ. Artic. Quinto principaliter considerandum de homine. anip Experientia quid. fo animam intellectivam expectet sensitiva. Vrrum aliquidmoucat se. te. Vtrum figuram aliquam sibi determinet elementum. Vtrum vnum elementum sit locus naturalis alterius. Vtrum vnum elementum in alterum immediateta an(mura Vtrum ignis sit primo calidus Vtrum elementa media æquáliter habeantde grauitatc& lc Homo in quantum lanabileå naturaliconsideratur. Ta , & tamen propositioestignora, Quid requiriturad hoc vt subie&um fit adæquätum Quid requiritur ad hoc vtfubic&um sit primum primitate 2180 Aegrotabile in ratione formalisubie&imedicinæcaderenon Genita ex putrefactione alterius sunt rationis a generare Dubiū 12.vtrú materia fir generabilis& corruptibilis Vtrum terrasit frigidior aqua. fitnul. Dubium Is.vtrü materia fine quantitate habcat partes Dubiumzz.verummateria 176 Solum ponenda sunt prædicamentorum Quantitasestquod passiocftnota.& idquod est ciuscau sit. pars quidditatis. & quo aliquid est Quomodo aliquando genera logicalia. nationis primæ sub antiæ. Dubium vtrum priuatio principium. potest. In in materia . quæruntur in naturalibus . resprima Quæstio de subiecto medicina, Materia efteffepotentia . rionem, Dubium vtrum formasubstantialis 179. Quid bonum animi. sitprincipium indiui Rario formalis subie&i,quid Latitudines in elementis compleri per contraria. Non cft potentia dc effentiali diffinitione materiz. Compositum est vtroque participans. ripossit. Subic&ũnon debet prædicari de principijsfubie&i,& quare. Materia inférior aliquomodo præfcindipoteft. Quare qualitates elementorum di&tæfunt effc elementisfub Verum qualitatessymbolæ elementorumsinteiufdemfpe Itantiales  ciel Quo mod o intelligiturpriuationem per secorrumpi. Materiaapudphilosophumestintelle&a Vtrumterrasitcentrummundi. Maceriacælinonpoteftpræscindiàforma. lectum . Dubium 11.vtrummateriasitgenus Anaërfitprimohumidus. Dubium vtrum materia appetat formam . Dubium vtrum appetitus fit naturalismateriæ Arric. Secundo principaliter considerandum est composicum Quomodo medicina partim practica, & partim theorica, lic militer & theologia, similiter & logica. generabile. Verum tantum quatuor sint elementa. Virum prima qualitates sint formæ substantiales elemento genitis per propagationem contra Scotum. Run gnitionis & cffc. Propriumnonageneresolumfluit,sedådifferentia,& gene Genita per putrefa & ionem non esse eiusdem rationis cuna De elleanabellentia distinguatur. Caput secundum devno. Error Auer. de necessarij SIGNIFICATIO nci Caput tertium ,de vero Caput quartum, de bono, Ens tripliciter eft quid. Quidditatiuum de quibus dicitur. Capursextum, dere, pagina. Caput septimum, decodem subiecto. Quomodo pars formæ fluit. ElTeidemin forma quatuor habet gradus. Caput nonum, decodem secundum materiam. Capur 12. de eodem difinitione. 260 Quomodo Deus eftf elicitas modo intelligitur Caput20. dediftin&ione ex natura rei Verum distinctio ex natura rei sit accepta ab Arist. Vtrum diffinitio& definitum ex natura rei distinguatur ra rei non realiter An communicabile,& prædicabiledifferant Differentia individualis est ipsa forma in composita ex materia 297 An Deo accributa propriamhabeant infinitatem. 299 Accidens non realiter distinguia substantia reis ubic&a Materiam & formam realiter distinguivult Scotus, &Sá&tus Thomas oppositum, similiter& Aver. rant . liter ili. Vtrumdiftin&tioperdiffinitionemfitdiftin&iopersolum Anomnia quæ sunt idem realiteralicui, fintilli formaliter Capur 13. de eodem habilitate. Dedifferentiainterpositionemquæeftprædicamentum ,& positioncm quæ estdifferentiaquanti. idem. ter. An fialiqua fintidem essentialiter, illasint idem realiserant.. Quomodointelle&uspossibilis & agens sunt vnum, & quo- Ansiali qua sint idem se totis subiective, illa sint essentiali modo duo. differant. De subiecto & propria passione, quomodo suntidem. An fiali quasetotisfubic&iuc differant, illafccotisobie&tiuc differant. Vtruma&us intelle&us possibilis collatiuusfitin primaope Ansi aliqua fecoisfubic& iuc differant,illafctotisobic&i Caput 19. dedistin&ionc rationis ratione intellectus. Vtrum fit aliquis conceptusfi&us. ue idem. obie Aiue. Vtrum omnis diftin&iofitrcalis aut rationis. Verum conceptus a rebus quarum sunt conceptus, sint ratio Verum omnis distinctio sit aliquid positiuum. ne distinAi.  . In libro de Distinctionibus. Intelle&us & voluntas sunt idem Quid eftaliquidsynonyma. APYT primum decncis SIGNIFICATIONIBVS pagina. Quomodo speciesre intelligibilis, a&usintelligendi,&habi tuis intellectus sunt idem . Cogitatiua,& intellectus idem materialiter Igncitas, leuitasest simpliciter,& forma ignis substantialis. Differentia inter hominem metaphysicum,&hominemna Vtrum prædicatio specicide genere fit pe rse. Anista propofitiofitpersc, homo albus est homo albus. De sensu communiquid Auer. & Vtrum CONCRETVM & abftractum formaliterdifferant. Quomodophantalinatasuntintelle&tus speculatiuimate Vtrum humanitas sit animalitas. Ria dedistinctionercali. Caputo&auumdecodemsecundumformam . Aninierdistin&ionesdatasàScoristisfitordo. Vtrum diftin&io secundum modum differtàdiftin&tionele Vtrum omnis distinctio ex natuta reisit distinctio ratio cundum esse. Memorativam in medio ventriculo cerebrimanifeftari. Potentia substantialis prior est accidentali.& deprædicamento substantiæ. Vtrum fialiquaessentialiterdifferant,realiterdifferant. Vtrum fialiquarealiterdifferant,illaeffentialiterdiffe verum ex coq essentialiter dicitur aliquidcaliquo dicatur Vtrum sialiquas et otisfubic&tiue differant, illaeffentiali rerdifferant. vniversaliter de codem & femper. decodemacuvelpotentia An fialiquaessentialiterdifferant, illa secotisfubic&iucdif Quæ sit maxima identitas. Vtrum seclula operationc intelle&us possibilisresrationc differant. An si aliquas intsetotis obicctiucidem, illasintsctotissub ie&iueidem. Qữo genus,& differentiarationedistinguantur,& nonrc. Vtrum prædicamentarcalitedrifferant. An relatiodifferatàfundamento. D e diftin &ionecaloris naturalis ab artificiali. VerumcumSortesnoneaipsesitens Materiam&formamnondistinguisecundumesse,quomon Entis diuisio de distinctione modali. 296 Duo modi realis distinctionis. Vtrum fialiqua realiterdifferant.illa formaliter differant An fialiquasint essentialiter idem , illa sint sctotisfubic&tiuc Quomodo dequo Vtrumintelle&usagens& possibilisdistinguanturexnatu 281 teria& forma. Ens,res,autsubatantiagenerasuntanalogicedi&tadeDeo* Caput22. dediftin&ione formali. turalemsecundumScorum. 298 Intelle&um appetere contra Scotum.& secundum Thomam .3 appetitivam cognoscere Quomodo intelligitur secundam intelligentiam esse vnam 304 Caput18.decodem secundum dispositionem. San&tum An diversitas & differentia coincidant in idem. Vtrum omnia formaliter diftin &ta realiterdifferant. ter idem Caput de distin &t i o n e e ssentiali. de'eodemsecundummodum Caput25.dedistin&ionesetorissubie&iue. Vtrum distinctiosecûdumessesiesufficicnsadhocvt contra dictoria verificentur de aliquo. formaminsubie&o,&multaindiffinitione. Vtrumomniaquæsuntidemformaliteralicui,fincidemrca Vtrum ellediffinitioneidem ,siteffeidemsecundumeffe. nis. Vtrum omnia formaliter distincta ex natura rei diffe Caput 11.de codem secundum else de distin 301 &ioneserorisobic & iuc. opus intelle& us. Vtrum quælibetconceptus ftinguatur. abalioconceptu, solaratione di Vtrum omnis diftin &iofitde genere relationis: Caput 14. decodem inredemonstrata. Capite 16.decodem effentialiter. 205 Vtrum ex comparatione intelle&uspossibilis, fiantrespe&us, Ansialiquasiti demserotisfubic&iua, illasintidemsetotis qui sunt genus aut species. rant. ter. Caput1s.decodem secundumpositionem Vtrum sialiqua sintidem rcaliter, illafint idem effentiali 292 194 Vtrum distinctio fitrcfpc&iuum .   fitiones habere possint. 317 Melius est non videre quædam, quàm videre,quomodo in Proportio maior est, quæ maiorem habet denominationem. telligitur. Regulæ tres proportionum secundum Ari  Quomodo sensus in prædicamento qualitatis, actionis, palo An deus cognofcatchimeramantaligidfi um .An incelle&tusina&u, vtintellc&us intelligentiarum propo Proportionis divisio . 307 308 Vtrumveritasdifferatàpropofitionevera. Inintellc&tuardo. pliciterabftra&arum aliquam veritatem videat persuam ftotclem . Q &uplaquare duplael quadruplz.  In quæstione demotuum propor Voluit Arif.deum cognoscere hæc inferiora, 313 Motys (equitùr dominium 318 . 323. FINIS. Alessandro Achillini. Achillini. Keywords: corpo umano, singulare, individuo.  Refs.: Grice, “Achillini’s problem with transcendentals and universals,”  Luigi Speranza, "Grice ed Achillini," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Acito  (Pozzuoli). Filosofo. Grice: “Acito, who would have thought it, made me read Cuoco’s brilliant novel on Plato based on an epigram by Cicero (“You know, Plato was there, in Taranto!” – Acito has also written on corporations – whatever they are (the mob) – and on Macchiavele -- Filosofo. Del periodo fascista e attivista del regime. Studiato a Torino. Iscritto all'Albo degli Avvocati di Milano, divenne direttore della rivista “Tempo di Mussolini”. Selezionato al Premio San Remo per libro “Machiavelli contro l'anti-Roma.” Partecipa come rappresentante italiano al Congresso dell'Unione Europea degli Scrittori a Weimar.  Insegna diritto, storia e dottrina del fascismo a Genova. “Il Popolo d'Italia,” “L'Oriente arabo”. “Odierne questioni politiche della Siria, Libano, Palestina, Irak; “Popolo d'Italia”; “Corporazioni e sindacati nello stato, nella storia, nei partiti politici” (Milano, Trasi); “Il volto della rivoluzione”; “Storia della rivoluzione”; “La dottrina dello stato”; “Realtà nazionali”; “Il Fascio e la Verga” (Milano, Morreale); “L'idea unitaria dello stato” (Milano, Sonzogno); “La idea romana dello stato unitario nell’antitesi delle dottrine politiche scaturite da diritto naturale”; “La dottrina dello stato in Cuoco”; “Contributo allo studio del pensiero politico del secolo XVIII” (Milano, Sonzogno); “La corporazione e lo stato nella storia e nelle dottrine politiche dall'epoca di Roma all'epoca di Mussolini: introduzione allo studio del diritto corporativo” (Milano, Pirrola); “Catalogo della mostra di sculture e disegni di Vincenzo Gemito” (Milano Castello Sforzesco Milano, Orsa; “Il trattato di ben governare: opera inedita di Tommaso da Ferrara del 1500”; “Tempo di Mussolini”; “L'ordinamento dello stato corporativo nel pensiero di Mussolini e nelle decisioni del Gran Consiglio del Fascismo” (Tempo di Mussolini); “Le origini del potere politico: "Omnis potestas a Deo" nelle discussioni degli scrittori politici del Trecento” (Tempo di Mussolini); “Machiavelli contro l'Antiroma, Tempo di Mussolini. “Il concetto di popolo” Tempo di Mussolini, “Il problema morale della rivoluzione” Tempo di Mussolini”, “La crociata anti-materialistica dell'asse”; “Tempo di Mussolini”; “Storia e dottrina del Fascismo”, “parte generale: Nozioni fondamentali” (Milano, Guf). Onorificenze Medaglia di Benemerenza per i Volontari della Guerra Italo-Austriaca nastrino per uniforme ordinariaMedaglia di Benemerenza per i Volontari della Guerra Italo-Austriaca (19Medaglia commemorativa dell'Unità d'Italianastrino per uniforme ordinariaMedaglia commemorativa dell'Unità d'Italia Medaglia commemorativa delle campagne d'Africa (1882-1935)nastrino per uniforme ordinariaMedaglia commemorativa delle campagne d'Africa, Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia Croce al merito di guerranastrino per uniforme ordinariaCroce al merito di guerra. Frank-Rutger Hausmann, Annuario ufficiale delle forze armate del Regno d'Italia, Istituto poligrafico dello Stato, I professori dell'Pavia, Amedeo Bianchi, Professore all’Università Bocconi: Notizie sulla famiglia Acìto Filosofia Filosofo Professore Pozzuoli MilanoStudenti dell'Università degli Studi di Torino Avvocati italiani del XX secoloProfessori dell'Università degli Studi di GenovaProfessori dell'Università degli Studi di Pavia Decorati di sciarpa littoria Personalità dell'Italia fascistaCavalieri dell'Ordine della Corona d'Italia.. È con Roma che nasce il diritto e nasce lo stato, perciò lo stato romano è lo stato giuridico. Infatti, il fondamento giuridico della società e dello stato, impide che a Roma si sviluppa la demagogia. Persino la repubblica a Roma è  aristocratica. Il senato, che impersona lo stato, è un corpo eminentemente aristocratico e il popolo stesso, inquadrato negli ordini della milizia, non degenera. Lo stato presso i romani afferma la potenza del suo carattere unitario, sintesi delle prime gentes rurali e militari. Questa qualità fa nascere il SENSO DI DIRITO che il genio romano applica nella formidabile organizzazione politica e sociale dello stato. Questa organizzazione statale che si reassume nel genio di Giulio Cesare e che detta l’impalcatura all’impero, altro non è se no la crezione dello stato unitario, che è una gerarchia di AUTORITÀ, FONDATA SUL DIRITTO, tutelata dalla forza militare, al quale [diritto] il CIVIS resta subordinato, ma nel quale [diritto] trovoa la regolazione giuridicamente definita e GARANTITA DEI SUOI RAPPORTI PRIVATI. SUBORDINAZIONE perciò incondizionata DEL CITTADINO ALLO STATO. IL PRINCIPIO DI AUTORITÀ domino tutta la COSTITUZIONE POLITICA dello stato romano e ne regge la potente struttura. Il cittadino romano non conosce l’antitesi ed ha una morale sua PROPRIA. IL MOS MAJORUM ANIMA I COSTUMI di Roma. Il successive consolidarsi del capitaismo, se pure di capitalism puo parlarsi nell’epoca antica, o meglio l’avidita delle richezze, CORRUPPE quello STATO DI PRIMITIVITA. Mentre il mondo dell’economia a schiavi si estendeva, il paganesimo non agi come MODERATORE DEGLI ISTINTI INDIVIDUALI.  Optimates and Populares, (Latin: respectively, “Best Ones,” or “Aristocrats”, and “Demagogues,” or “Populists”), two principal patrician political groups during the later Roman Republic from about 133 to 27 BC. The members of both groups belonged to the wealthier classes.  Skip  in 1s FAST FACTS Facts & Related Content Date: c. 133 BCE - 27 Areas Of Involvement: Patrician Related People: Lucius Domitius AhenobarbusQuintus Caecilius Metellus Celer Marcus Porcius Cato Marcus Aemilius Scaurus Titus Annius Milo...(Show more) See all facts and data → The Optimates were the dominant group in the Senate. They blocked the wishes of the others, who were thus forced to seek tribunician support for their measures in the tribal assembly and hence were labeled Populares, “demagogues,” by their opponents. The two groups differed, therefore, chiefly in their methods: the Optimates tried to uphold the oligarchy; the Populares sought popular support against the dominant oligarchy, either in the interests of the people themselves or in furtherance of their own personal ambitions. Finally, it is well to remember that the Senate’s authority was based on custom and consent rather than upon law. It had no legal control over the people or magistrates: it gave, but could not enforce, advice. Until 133 BC any challenge to its authority was little more than a pinprick, but thereafter more deadly blows were struck, first by such Populares as Tiberius and Gaius Gracchus, then by Gaius Marius, and finally by the army commanders from the provinces.  Gli Ottimati (in latino: Optimates, cioè i migliori) erano i componenti della fazione aristocraticaconservatrice della tarda Repubblica romana.  Nascita della fazione Modifica In origine influenzavano la vita politica romana, essendo la gestione della Res Publica appannaggio soltanto di quella ristretta cerchia di nobili che avevano le possibilità e la cultura per dedicarsi alla politica. In seguito alla Secessione dell'Aventino, però, le classi popolari e piccolo e medio borghesiriuscirono a ritagliarsi una fetta di potere, da esercitare mediante loro rappresentanti: i tribuni della plebe, magistrati dotati di potere legislativo (per esempio il diritto di veto su qualsiasi legge o decreto del Senato), nonché di auctoritas, ovvero l'autorità morale. Inoltre erano conferiti della sanctitas, ossia la sacra inviolabilità della loro persona, che rendeva ogni atto sovversivo, finalizzato a danneggiarli materialmente o fisicamente, un delitto gravissimo. Per rispondere a questa organizzazione politica del popolo, anche i patrizi romani si allearono tra di loro nel movimento politico degli "optimates" (it. "ottimi", "nobili"), cioè il partito aristocratico.  Organizzazione del movimento. Modifica In effetti la fazione aristocratica non era un vero e proprio partito politico secondo l'accezione moderna del termine (nonostante sia a volte chiamata Partito Aristocratico). Era bensì una confederazione di nobili, ciascuno dei quali era politicamente indipendente (o quasi) dagli altri, grazie ad una diffusa rete di clientele e di alleanze che ciascun nobile gestiva in modo autonomo. L'appartenenza ad un'unica fazione era resa però evidente dall'alleanza di tutti i nobili "optimates" con il Senato, dal comune interesse a conservare tutti i privilegi nobiliari, nonché dalla comune avversione nei confronti dei "Populares" (l'organizzazione politica dei ceti popolari e borghesi) e dei "Tribuni della Plebe". Gli Ottimati, infatti, desideravano limitare il potere delle Assemblee della plebe ed estendere il potere del Senato romano, che era considerato più stabile e più dedicato al benessere di Roma. Si opponevano anche all'ascesa degli uomini nuovi (plebei, di solito provinciali, la cui la famiglia non aveva avuto esperienza politica precedente) nella politica romana. L'ironia era che uno dei principali campioni degli ottimati, Marco Tullio Cicerone, era egli stesso un uomo nuovo.  Oltre ai loro obiettivi politici, gli ottimati si opposero all'estensione della cittadinanza romana fuori dall'Italia (e si opposero perfino ad assegnare la cittadinanza alla maggior parte degli Italici). Favorirono generalmente alti tassi di interesse, si opposero all'espansione della cultura ellenisticanella società romana e lavorarono duramente per fornire la terra ai soldati congedati (erano convinti che soldati felici erano probabilmente meno disposti a sostenere generali in rivolta).  La causa degli ottimati raggiunse l'apice con la dittatura di Lucio Cornelio Silla (81 a.C.-79 a.C.). Sotto il suo potere, le Assemblee furono private di quasi tutto il loro potere, il totale dei membri del Senato fu portato da 300 a 600, migliaia di soldati si stabilirono nell'Italia del Nord e un numero ugualmente grande di popolari fu giustiziato con le liste di proscrizione. Limitò i poteri dei tribuni della plebe, ridusse i consoli e i pretori ai compiti cittadini della direzione politica e dell'amministrazione della giustizia e vietò di ricoprire una medesima carica prima che fossero trascorsi dieci anni. Tuttavia, dopo le dimissioni e la successiva morte di Silla, molti dei suoi provvedimenti politici furono gradualmente ritirati, ma furono più durature le innovazioni nel campo del diritto e del processo penale.  Appartenevano agli "optimates" importanti uomini politici quali Lucio Cornelio Silla, Marco Licinio Crasso, Marco Porcio Catone detto Il Censore e Catone Uticense, il già citato Marco Tullio Cicerone, Tito Annio Milone, Marco Giunio Bruto e, a parte il periodo del Triumvirato, Gneo Pompeo.  Voci correlate. Modifica Repubblica romana Plebe Patriziato Romano Lucio Cornelio Silla Marco Tullio Cicerone Gneo Pompeo Marco Licinio Crasso Tito Annio Milone Collegamenti esterni. Modifica ( EN ) Ottimati, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autorit GND ( DE ) 4172652-2 Antica Roma Portale Antica Roma Diritto Portale Diritto. Alfredo Acito. Acito. Keywords: sindacato, stato unitario, idea unitaria del stato, Cuoco, storia di Roma, popolo d’Italia, materia e spirito, anti-materialistico, anti-materialistica, popolo, popolazione, Peacocke – sistema di comunicazione per una popolazione – idioletto – procedimento idiosincratico – idioletto, dia-letto – comunita, immunita. . Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Acito,” The Swimming-Pool Library.

 

Aconzio (Trento). Filosofo. Grice: “I like Aconzio way of LISTING the devil’s strategies – and naming tdhem after abstract nouns represented by females: superbia, … etc. – He says he philosophised on ‘dialettiica’ but only for his fellow Italians, and writing to Russell (Lord Bedford) he adds, ‘it would be fastidious to present them to you!” – When Elizabeth received his copy of ‘Il timore di Dio,’ she asked, alla Hardie, ‘And what, Mr. Aconzio, is the meaning of ‘of’?” -- Grice: “I like Aconzio, and so did my mother – a High Anglican! Aconzio’s claim to fame is twofold: his “Stratagemata” which resembles Speranza’s study of Apel – only that Aconzio is ‘stratagemata satanae’ – and his “De method” which inspired Feyerabend, an American professor at the newish varsity of Berkeley in the New World, to philosophise ‘Contro il metodo.’” – Grice: “There is a small passage in “Del metodo” – and an even smaller in “Stratagemata” – where Aconzio seems to have invented (but soon disinvented) the idea of a conversational implicature!” --  Filosofo. essential Italian philosopher. Grice: “What I like about my fellow Brit, Aconzio, is that unlike Feyerabend with his ‘Anything goes,’ Aconzio cared to write about ‘method.’ Ora è noto per il suo contributo alla storia di tolleranza religiosa. E 'stato tradizionalmente pensato per essere nato a Trento, anche se era probabilmente Ossana. E 'stato uno degli italiani, come Pietro Martire e Bernardino Ochino, che ha ripudiato la dottrina papale e, infine, ha trovato rifugio in Inghilterra. Come loro, la sua rivolta contro romanità ha preso una forma più estrema di luteranesimo, e dopo un soggiorno temporaneo in Svizzera ed a Strasburgo arriva in Inghilterra subito dopo Elizabeth adesione s'. Studia legge e teologia, ma la sua professione era quella di un ingegnere, e in questa veste trovalavoro con il governo inglese.  Al suo arrivo a Londra si une alla Chiesa riformata olandese a Austin Frati , ma è stato infettato con ana-baptistical e pareri Arian" ed è stato escluso dal sacramento da Edmund Grindal, vescovo di Londra. Gli fu concessa la naturalizzazione. E 'stato per qualche tempo occupati con drenaggio Plumstead paludi, per i quali si oppongono i vari atti del Parlamento sono stati passati in questo momento. E inviato a riferire in merito alle fortificazioni di Berwick e sembra che era conosciuto in Inghilterra sia per il lavoro come ingegnere e di un riformatore religioso e sostenitore della tolleranza durante l'inizio della Riforma. Prima di raggiungere l'Inghilterra pubblica un trattato sui metodi di indagine, "De Methodo, hoc est, de recte investigandarum tradendarumque scientiarum ratione" (Basilea). Il suo spirito critico lo pone al di fuori tutte le società religiose riconosciute del suo tempo. La sua eterodossia si rivela nella sua "Stratagematum Satanae libri octo," talvolta abbreviata in Stratagemata Satanae. Gli stratagemmi di Satana sono i credi dogmatiche che affittano la chiesa cristiana. Aconzio cerca di trovare il comune denominatore dei vari credi. Questa è la dottrina essenziale, il resto e irrilevante. Per arrivare a questa base comune, dove ridurre il dogma a un livello basso, e il suo risultato è in generale ripudiato.  "Stratagemata Satanae" non è stato tradotto in inglese fino al 1647, ma in seguito è diventato molto influente tra i teologi liberali inglesi.  John Selden applicata alla Aconzio l'osservazione, "bene ubi, nil melius; ubi maschio, nemo pejus" -- "Dove buono, nessuno meglio. Dove male, nessuno peggio." La dedica di un tale lavoro alla regina Elisabetta illustra la tolleranza o lassismo religiosa durante i primi anni del suo regno. Aconzio poi trova un altro patrono in Robert Dudley, primo conte di Leicester. Saggi: Stratagematum Satanae libri octo, De methodo sive recta investigandarum tradendariumque artium ac scientarum ratione libello, De methodo e Opuscoli Religiosi, opuscoli filosofici, Giorgio Radetti, Firenze: Vallecchi) Somma brevissima della Dottrina Cristiana Una esortazione al timor di Dio; Delle Osservazioni et avvertimenti che haver si debbono nel legger delle historie Traduzione in inglese, Tenebre Scoperto (Satana stratagemmi) , London  (facsimile ed., Scholars' Facsimiles & ristampe. Trattato Sulle Fortificazioni, Paola Giacomoni, Giovanni Maria Fara, Renato Giacomelli, e O. Khalaf (Firenze: LS Olschki). Riferimenti Attribuzione   Chisholm, Hugh, ed. " Aconcio, Giacomo ". Enciclopedia Britannica, Note finali: Di Gough Index a Parker Soc. Publ. Di Strype Grindal ,  62, 66 Dictionnaire di Bayle G. Tiraboschi, Storia della letteratua italiana (Firenze, Smith, Elder & Co. link esterno Allgemeine Deutsche Biographieversione online a Wikisource Opere di Jacob Acontius a Post-Riforma Digital Library. Molti riformati italiani vedremo cercarvi rifugio.Colà erasi ricoverato Jacobo Aconzio, valoroso giureconsulto di Trento, il quale nel 'opera “De Methodo, sive recta investigandarum tradendarumque scientiarum ratione (Basilea1558) aveva ripudiata ladialettica ordinaria, propo nendo un nuovo metodo di giungere al vero collo scomporre e ricomporre più volte la cosa,ed esaminarla sotto aspetti diversi, passando dal noto al l'ignoto. Alla divina Elisabetta regina d'Inghilterra, da cui ebbe ripetute attestazioni di stima, dedicò "Gli Stratagemmi di Satana in fatto di religione (Basilea 1565),libro allora molto acclamato, e tradotto in varie lin gue,ov'egli studia di ridurre a pochissimi idogmi essenziali del cristiane simo , nello scopo d'indurre le sêtte a vicendevole tolleranza. Aveva avuto per compagno Francesco Betti romano ,che al mar   In Chap. 3, Caravale investigates the long publishing success of Acontius’s Satan’s Stratagems in seventeenth-century England. After reconstructing the popularity of Acontius among the Dutch Arminians in the 1610s and 1620s, the chapter focuses first on the religious debates that involved Catholics, Arminians and Latitudinarians in 1630s England and then on the heated controversies which characterized the English Civil War in the 1640s. Particular attention is given to debates at the Westminster Assembly of Divines, where the Presbyterian Francis Cheynell suggested forming a Committee to examine Acontius’s book, which had just been (partially) translated into English and published by John Goodwin in 1647. The condemnation of the book issued by Cheynell’s Committee did not stop Acontius’s supporters from circulating his book widely. Indeed, new editions of Satan’s Stratagems were published in the early 1650s. This chapter follows this exciting publishing story as a significant part of the cultural and intellectual history of Revolutionary England. What was hidden behind the intriguing title exalting Satan’s Stratagems? This chapter aims to answer this question in an attempt to understand the extraordinary success of Jacob Acontius’s masterpiece and contextualize its line of thinking. The reader will find a careful reconstruction of the author’s intellectual biography (ca 1520–1566) from his early career as a notary in Trent, Italy to his conversion to Lutheranism in the mid-sixteenth century, his escape from the peninsula and his sojourn in England as an engineer. Acontius soon became involved in religious controversies in England in the early 1560s, which is when he wrote his major work, Satan’s Stratagems, arguing consistently for an extremely broad and tolerant vision of Christianity. The book is analyzed in detail and comparisons are made with his previous publications and other major contemporary books on similar topics. 1565. Satanæ Stratagemata libri octo, J. Acontio authore, accessit eruditissima epistola de ratione edendorum librorum ad Johannem Vuolfium Tigurinum eodem authore. 1565. Jacobi Acontii tridentini de Stratagematibus Satanæ in religionis negotio per superstitionem, errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc. libri octo.  1648. "Satan's Stratagems, or the Devil's Cabinet-Council discovered, ... together with an epistle written by Mr. John Goodwin and Mr. Durie's letter concerning the same." London. J. Macock. Sold by J. Hancock. 1648. 4to. British Museum. George Thomason's copy, now in the British Museum, contains his correction of the date to 1647, and records its purchase on February 14 of that year.  The translation contains three dedications, one to the Parliament, one to Fairfax and Cromwell, and one to John Warner, lord mayor. The translator announces that if his work was well received he would complete it, but only four of the eight books were published. The stock was then sold apparently to W. Ley, who reissued it, with a new title, "Darkness Discovered; or, The Devil's Secret Stratagems laid", London. J. M. 1651. 4to. With a doubtfully authentic etching of the Italian author, ‘James Acontius, a Reverend Diuine.' This translation is an English version of Jacopo Aconcio's celebrated work, "Satanæ Stratagemata libri octo, J. Acontio authore, accessit eruditissima epistola de ratione edendorum librorum ad Johannem Vuolfium Tigurinum eodem authore. Basileæ, ap. P. Pernam. 1565. 4to. The Dictionary of National Biography says that this is the genuine first edition, of extreme rarity.  Brunet records an octavo edition of the same year, place, and publisher, but with a variant title: Jacobi Acontii tridentini de Stratagematibus Satanæ in religionis negotio per superstitionem, errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc. libri octo.  Basilea.P. Perna. 1565. 8vo. Reprinted, Basileæ, 1582, 8vo; and 'curante Jac. Grassero,' ib., 1910, 8vo; ib., ap.Waldkirchium, 1616; ib., 1618; ib., 1620; Amsterdam,1624; Oxon., G.Webb, 1631, sm. 8vo; London, 1648, 4to; Oxon., 1650, 12mo; Amsterdam, Jo. Ravenstein, 1652, sm. 8vo; ib., 1674,sm.8vo; Neomagi, A. ab. Hoogenhuyse, 1661,sm.8vo. The Dedication of the first edition, to Queen Elizabeth, begins,with grandiloquent flattery, Divæ Elisabethæ, etc. Les Ruzes de Satan receuillies et comprinses en huit liures. Basle. P. Perne. 1565. 4to. Also, Delft, 1611, 8vo, and ib., 1624, 8vo. Further, Bâle. 1647. sm. 8vo (German translation), and Amsterdam, 1662, 12mo (Dutch translation). The Satanæ Stratagemata is a book which had a considerable influence in the development of opinion. In all, I record twenty-one editions of it , five of them of English imprint , and all of them publications of about one century, 1565–1674, the era of the Reformation. Aconcio's argument was the simplification of dogmatic theology. In general, he reduces the doctrines of Christianity to a strictly Scriptural basis. He argues that the numerous confessions of faith of different de nominations are simply the ruses of the Evil One, the 'Stratagems of Satan,' to tempt men from the truth. He protests against capital punishment for heresy, and favours toleration among all Christian sects. Such liberal theology is distasteful alike to Calvinists, who accused Aconzio of Arianism, and to Catholics, who index his essay. The Tridentine Index Libb. Prohibb. (1569) places "Satanæ Stratagemata" among anonymous books, but the Roman Index of 1877 describes the essay accurately. Acontius (Jacobus) -- Jacobi Acontii tridentini de stratagematibus Satanæ in religionis negotio per superstitionem, errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc., libri octo. Basileæ, P. Perna, 1565, in-8 (1936 ou 8884"). Première édition d'un ouvrage singulier qui jadis a fait beaucoup de bruit parmi les théologiens protestants, mais qu'on ne lit plus guère aujourd'hui. Il doit se trouver dans ce volume un traité du même auteur, intituli: "De ratione edendorum librorum," qui a paru égalementent 1565, et qui aétéréim primé dans l'édition des "Stratagemata Satanis", donnée par Jacq. Grasser, à Basle, chez Conr.Waldhirche, en 1610, in-8, sous un titre qui diffère de celui de la première édition. Les autres éditions de ce livre n'ont pas de valeur. La plus répandue parmi nous est celle d'Amsterd., Jo. Rawestein, 1652, pet.in-12; celles d'Oxford, 1631 et 1650, pet, in-12, ne le sont guère moins. LES RUSES de Satan, recueillies et comprinses en huit livres, p pet. in-4. Cette traduction a été reproduite à Delft, de l'impr. de B. Schinckel, 1611, et aussi en 1624, in-8.; ce pendant les exemplaires n'en sont pas communs; celui del'édit. de 1565, qui était rebé en mar: ., n'a été vendu que 6 fr. chez La Valliere, mais il serait plus cher aujourd'hui. L'ouvrage est traduit en Namand, en allemand et aussi en anglais. L'auteur, nommé Jacobus Acontius sur le titre de ce livre, avait pour nom italien Giacomo Concio. M. Graesse cite à l'article Acontiues l'ouvrage suivant, qu'il dit très-rare. UNA essortazione al timor di Dio, con alcune rime italiane, nuov, messe in luce (da G. B. Castiglione). Londra (senz'anno), in-8. Aconce .De stratagematibus Satanæ in religionis negotio, per superstitionem, errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc. LibriVIII. auctore Jacobo Aconcio. Basileæ,1565, in-8. et Amstelodami, 1674, in-8. Cet ouvrage impie a été dédié à Elisabeth, reine d'Angleterre. Il en aparu une traduction française à Basle en 1565,in-4.; à Delft, en 1611, et en 1624, in-8. L'auteur s'est proposé, dans cet ouvrage, de réduire , à un très-petit nombre , les dogmes de la religion chrétienne, et d'établir une tolérance réciproque entre toutes les sectes qui divisent le christianisme: c'était le vrai moyen de déplaire à toutes. Un singolarissimo saggio in favore della tolleranza apparve nel 1565 per opera del giureconsulto trentino Giacomo Aconzio o Aconcio, saggio che fu posto erroneamente fra i libri di magia per il suo strano titolo, "De stratagematis Satane in religionis negotio, per superstitionem , errorem , hæresim , odium, calumniam, schisma, etc." (Basil.). Esso per contro è il primo libro, al dire dell'Hallam (op. cit. ii, cap. 2, p. 84), in cui, secondo la tendenza sociniana, si sia cercato di ridurre gli articoli fondamentali della religione cristiana al più piccolo numero possibile, escludendo, per esempio, quello della trinità e tutti gli altri non razionali. E ciò allo scopo di trovare un punto di appoggio comune e di universale consenso per tutte quante le sette, in cui è scisso il cristianesimo, e quindi una base sicura per la tolleranza reciproca di tutte le credenze. L'Aconcio si leva vivissimamente non solamente contro la pena di morte, ma contro qualunque pena inflitta ai pretesi eretici, ed esce in questa esclamazione. Se il sacerdozio riesce a prendere il disopra, se gli si concede questo punto, che non appena un uomo avrà aperto la bocca il carnefice dovrà venire a troncare tutti i nodi col suo coltello, che cosa di venterà lo studio della Scrittura? Si penserà che essa non vale guari la pena che altri se ne occupi; e, se mi è permesso di dirlo, si daranno come verità i sogni dell'immaginazione. O tempi infelici! o infelice posterità, se noi abbandoniamo le armi con le quali soltanto possiamo vincere il nostro avversario!  (CANTÙ, Op. cit ., II, 451).  Il saggio ebbe subito gran voga e fu tradotto in francese, in inglese, in tedesco ed in olandese. Anzi esso godette nel secolo seguente in Olanda di una immensa popolarità ed autorità. Aconcio intanto viene citato fra molti altri scrittori del suo secolo d'autori della tolleranza nel libro di Mino Celso senese, sotto il cui nome si ritenne per un pezzo si celasse o Lelio Socino od altri, ma di cui invece consta che fuggì da Siena nel 1559, vagò tra i Grigioni tre anni, e quindi si ridusse a Basilea, ove cercò sempre di mettere concordia fra i dissidenti (1). L'opera si intitola: "In haereticis coercendis quatenus progredi liceat, Celsi Mini Senensis disputatio. Ubi nominatim eos ultimo supplicio afici non debere, aperte demonstratur, Cristling. 1577. Fu ristampata nel 1581 senza indicazione di luogo, con due lettere di Beza e Dudicio in senso opposto; e inoltre nel 1662 ad Amsterdam col titolo, "Henoticum Christianorum, seu Disputatio Mini Celsi, etc. Lemmata potissima recensa a D. 2. (Dom .Zwickero). È una lunga dissertazione accurata, ove tra l'altro si sostiene bastare abbondantemente contro gli eretici le ammende e l'esiglio. Loscritto di Gioacchino Cluten: De Haereticisan sint comburendi? Argent., 1610, contiene, oltre alla prefazione del Castellion alla sua Bibbia latina, una raccolta di passi di più scrittori in favore della tolleranza (2). Una difesa, piena di giustizia e di moderazione, della causa della tolleranza è pure quella del teologo sociniano tedesco Giovanni Crell (1590-1633), intitolata, "Vindiciae pro religionis libertate (3). Essa fu tradotta poi nel 1687 dal Le Cene in francese, e riveduta dal Naigeon, sotto il titolo, "De la tolérance dans la religion. Al dire dell'Hallam, ancora nel 1760 l'Holbach l'avrebbe tradotta e ripubblicata (4). (1) Il SENKENBERG nelle aggiunte alla Bibliotheca realis iuridica del Lipenius,Lips.,1789,p.187, ricorda una edizione, s . I. 1562. Non ho potuto vedere il saggio; ma tale indicazione andrebbe poco d'accordo con quanto altri riferiscono, cioè che Mino Celso citi già l'ACONZIO.Giacomo Aconzio. Aconzio. Keywords: satana, diavolo, implicatura di satana – stratagemmi -- negozio – religione, per superstizione, errore, eresia, odio, calunnia, scisma, ecc.  Refs.: Luigi Speranza, "Grice ed Aconzio," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Acquisto (Monreale). Filosofo. Grice: “I like Acquisto; he was a priest, but you’d hardly notice it; but then he was jailed and few priests get that! They must be real bad boys!  But blame it on the mess that the Capri area found itself at that time – In any case, he reminds me of Manser, the Waynflete professor of metaphysics – Acquisot was very systematic –I would think his semiotics, strictly, is exposed in a chapter in the second part to his masterpiece, the ideologia – the first is psicologia, and the third is logica – in Ideologia, he is a Lockeian – words stand for ideas – and ‘linguaggio’ is the most effective ‘means of communication’ to transmit them – native or natural signs, like a ‘grido’ do communicate, but that’s it – ‘I’m in pain,’ but not ‘The cat sat on the mat.’’ – He is hardly original but then neither is Leibniz, or Locke or Kant, for that matter – His emphasis is on the atural versus artificial and pours scorns on those philosophers who tried to improve on the Latin language – created by the Umbrians, he claims --.which is artificial enough!” “raffaele d'acquisto – n. Monreale -- arcivescovo della Chiesa cattolica Incarichi ricopertiArcivescovo di Monreale   Nato1º febbraio 1790 a Monreale Ordinato presbitero5 febbraio 1814 Nominato arcivescovo23 dicembre 1858 da papa Pio IX Consacrato arcivescovo2 gennaio 1859 dal cardinale Antonio Maria Cagiano de Azevedo Deceduto7 agosto 1867 (77 anni) a Palermo   Filosofo.  Fu uno dei principali esponenti della storia del pensiero filosofico in Sicilia nell'800, fautore di quella linea ontologista che vide, allora, moltissimi seguaci in Sicilia e che mise in collegamento la riflessione filosofica siciliana con quella presente nel resto d'Italia, in particolare con la dottrina ed il pensiero di Vincenzo Gioberti. Il suo pensiero risulta una sintesi fra la psicologia cartesiana ed il dinamismo di Leibniz a cui si aggiunge la tradizione teologica e filosofica cristiana che prende come punti di riferimento sant'Agostino e san Bonaventura da Bagnoregio.  Pubblicò numerose opere i cui contenuti spaziavano dal pensiero intorno a Dio al creazionismo, dall'onnicentrismo all'analisi dell'uomo come essere vitale che è insieme Potenza, Sapienza ed Amore.   Indice 1L'età giovanile 2L'età adulta, l'insegnamento universitario e le opere 3La carica di arcivescovo ed i moti insurrezionali 4Gli ultimi anni 5Il pensiero filosofico 6Opere principali 7Genealogia episcopale 8 9 10 L'età giovanile Benedetto D'acquisto nacque come Raffaele D'Acquisto a Monreale il 1º febbraio 1790 da Niccolò D'Acquisto di professione calzolaio e da Maria Di Meo. Sin da giovanissimo manifestò uno spiccato interesse verso lo studio e per questo motivo fu iscritto dai genitori alla scuola del seminario di Monreale. All'interno del seminario il sacerdote Benedetto Signorelli rimase favorevolmente colpito dalle grandi doti e dall'ingegno di Raffaele D'Acquisto e decise di fornirgli i mezzi economici necessari per continuare gli studi in quanto i genitori non potevano garantirgli l'accesso all'istruzione superiore. Fu in segno di riconoscenza nei confronti di questo sacerdote che Raffaele decise di cambiare il suo nome in Benedetto. Da quel momento in poi verrà, infatti, ricordato come Benedetto D'Acquisto.  Nel 1806 all'età di 16 anni entrò a far parte dell'Ordine dei Frati minori riformati a Palermo dove prima compì gli studi superiori in filosofia e teologia e poi divenne insegnante nello stesso convento. Successivamente otterrà anche la laurea in filosofia presso l'Università degli Studi di Palermo; insegnerà tale disciplina anche in corsi universitari presso il collegio San Rocco di Palermo sito in via Maqueda nel centro della città.  L'età adulta, l'insegnamento universitario e le opere. Concorse alla cattedra di filosofia all'Palermo, ma la scelta della commissione esaminatrice cadde su un altro candidato ed allora anda ad insegnare filosofia presso il seminario arcivescovile di Palermo. Vinse il concorso per la cattedra di etica e diritto naturale all'Palermo e venne eletto arcivescovo, vi dedica le sue energie intellettuali migliori che gli valsero anche la carica alla vicepresidenza dell'Accademia di scienze, lettere ed arti di Palermo. Questo è anche il periodo in cui pubblica le sue opere principali ed in cui il suo pensiero raggiunge una grande fama. Tra gli saggi più importanti di questo periodo si possono ricordare “Elementi di filosofia fondamentale”, il “Sistema della scienza universale”; la “Genesi e natura del diritto di proprietà” (Palermo --  lodata persino da Napoleone III); “Trattato delle idee o Ideologia” in cui porta a compimento la costruzione della sua filosofia teoretica e lo studio sulla “Necessità dell'autorità e della legge” in cui tratta tematiche inerenti al diritto. Pubblica una delle sue opere più importanti intitolata la “Cognizione della verità” che rappresenta una sintesi armonica fra la filosofia e la teologia. In quest'opera sottolinea gli stretti rapporti tra il Creatore e le sue creature pur nella loro sostanziale ed infinita distinzione e differenza e presenta un'antropologia filosofico-teologica che concepisce l'uomo sotto un triplice aspetto (puro, trascendentale, fenomenico), caduto per sua libera scelta nell'errore e nel male, ma che pure ha in sé la condizione necessaria ma non sufficiente per la sua elevazione verso la verità e verso il bene, condizione che soltanto grazie ad una rivelazione esterna diventa sufficiente ed attuabile. Questo saggio rappresenta il punto massimo del pensiero del filosofo monrealese.  Oltre a questi scritti D'Acquisto ci ha lasciato anche un trattato di logica dal titolo “Organo dello scibile umano”, pubblicato postumo a Palermo ed un manoscritto inedito e privo di titolo attualmente conservato presso la Biblioteca comunale di Palermo.  La carica di arcivescovo ed i moti insurrezionali Benedetto D'Acquisto fu nominato arcivescovo di Monreale il 23 dicembre 1858 da papa Pio IX. Appena entrato nell'arcidiocesi dovette confrontarsi con un periodo turbolento caratterizzato dalla rivolta di Monreale del 4 aprile 1860, dall'arrivo delle truppe garibaldine e dal conseguente tramonto del regime borbonico.  Con la costituzione del Regno d'Italia versò una cospicua somma di denaro per equipaggiare la neonata Guardia Civica. Questo gesto gli meritò l'attenzione e la gratitudine di re Vittorio Emanuele II che in occasione della sua visita al duomo di Monreale volle premiare Benedetto D'Acquisto con la commenda all'Ordine Mauriziano con la motivazione di essersi distinto egregiamente nel campo della filosofia. Tuttavia nel 1866 scoppiò a Palermo la Rivolta del sette e mezzo, una violenta insurrezione antigovernativa che in breve tempo si estese anche ai territori limitrofi in particolare Monreale e Misilmeri. In questo contesto D'Acquisto fu nominato presidente del Comitato insurrezionale di Monreale con l'obiettivo di mantenere l'ordine pubblico nella cittadina normanna, ma non poté fare molto, perché di lì a poco la situazione degenerò ed i rivoltosi misero a ferro e fuoco la provincia di Palermo, causando la morte di 21 carabinieri e 10 guardie di pubblica sicurezza.  Dopo sette giorni l'insurrezione fu domata dalle truppe governative ma Benedetto D'Acquisto fu arrestato. Il generale Raffaele Cadorna, inviato dal governo come regio commissario con il compito di reprimere la rivolta siciliana, nella sua relazione al Consiglio dei ministri accusò D'Acquisto di avere incoraggiato il moto rivoluzionario e lo qualificò come "notissimo e pericoloso reazionario". Fu rinchiuso in prigione prima a Monreale e poi in altre località per circa un mese insieme ad altri uomini illustri come Giuseppe de Spuches, famoso letterato, poeta ed archeologo.  Rimesso in libertà provvisoria nel 1866, ngodette del provvedimento di amnistia e ritornò a Monreale per continuare la sua missione pastorale.  Gli ultimi anni Ritornato nel suo luogo natìo, si dedicò, dopo la diffusione del colera, all'assistenza di coloro che avevano contratto tale malattia. Tuttavia si ammalò anche lui e morì a Palermo. Fu tumulato nella chiesa di Santa Rosalia, una piccola parrocchia in campagna alla periferia di Monreale, ma dopo una solenne cerimonia le sue spoglie furono traslate nel duomo di Monreale.  Il suo pensiero filosofico, nell'ambito teoretico e delle relazioni logiche e dialettiche, si avvicina molto a quello platonico ed agostiniano con vistose influenze anche del pensiero di Fidanza. Nell'ambito dell'ontologia si rifà alla scuola metafisica di Monreale, il cui più importante esponente fu Miceli, di cui Acquisto rappresenta il naturale seguace e studioso. Il nucleo centrale della sua filosofia consiste nella sintesi fra psicologia ed ontologia.  Egli colloca nella coscienza il fondamento teoretico della conoscenza scientifica e divide le idee in tre categorie: l’idea sensibile che riguarda il mondo materiale, l’idea intellettuale concernenti il proprio essere e l’ideea necessaria relative a Dio. Questi tre tipi di idee co-esistono contemporaneamente nello spirito umano. A queste tre categorie ne aggiunge una quarta definita come idee "di rapporto" che permettono all'individuo di esprimere giudizi e formulare ragionamenti.  Nell'analisi del processo conoscitivo crea la sua nozione di onni-centrismo in cui riesce a trovare un equilibrio fra due poli apparentemente all'opposto: l'individualità e l'universalità.  Nella sua concezione onni-centrista riesce a far coesistere l'io individuale con l'io trascendentale sviluppando così un'unità reale fra intuizione sensibile ed intelletto.  Dall'unità tra intuizione ed intelletto si crea l'intuito intelligente che contiene in un nesso ontologico tutta l'umana vitalità e che mette in relazione l'individuo con l'intuito dell'azione creatrice dell'essere assoluto. Questa visione avvicina molto Acquisto a Rosmini e Gioberti. Il filosofo monrealese tratta anche delle relazioni fra morale e diritto. L'azione derivante dall'attività dello spirito può rimanere all'interno dello spirito stesso senza manifestarsi all'esterno e trasformandosi così in un atto giuridico. Questo atto giuridico costituirà la legge morale che conduce l'individuo a conformarsi alla natura, alla ragione ed a Dio. Tutto ciò rappresenta la sintesi perfetta fra l'essere naturale e l'essere spirituale.  Infine nella sua opera Corso di diritto naturale afferma che il diritto di proprietà è presente in ogni individuo che lo utilizza per raggiungere il suo scopo naturale.  Il diritto, dunque, nella vita dell'individuo tende essenzialmente alla conservazione, allo sviluppo e al perfezionamento della natura umana. Il diritto POSITIVO, invece, ha l'obiettivo di far prendere coscienza all'individuo delle proprie azioni e di creare una perfetta armonia fra il diritto stesso e la moralità. Ma soltanto l'onnipotenza di Dio puo portare alla coesistenza perfetta e senza contrasti fra fede e scienza.  Opere: “Elementi di filosofia fondamentale”; “Saggio sulla legge fondamentale del commercio fra l'anima ed il corpo e su di altre verità che vi hanno rapporto”; “Prolusione alle lezioni di diritto naturale a Palermo); “Discorso preliminare alle lezioni di diritto naturale ed etica”; “Memoria estemporanea sul diritto e dovere del proprio perfezionamento”; “Sistema della scienza universal”; “Corso di filosofia morale”; “Corso di diritto naturale e filosofia del diritto”; “Cognizione della verità”; “Trattato delle idee o Ideologia”; “Genesi e natura del diritto di proprietà”; “Necessità dell'autorità e della legge”; “Teologia dogmatica e razionale; Ragionamento sulla resurrezione dei corpi”; “Organo dello scibile umano”. Genealogia episcopale Cardinale Scipione Rebiba Cardinale Giulio Antonio Santori Cardinale Girolamo Bernerio, O.P. Arcivescovo Galeazzo Sanvitale Cardinale Ludovico Ludovisi Cardinale Luigi Caetani Cardinale Ulderico Carpegna Cardinale Paluzzo Paluzzi Altieri degli Albertoni Papa Benedetto XIII Papa Benedetto XIV Papa Clemente XIII Cardinale Giovanni Carlo Boschi Cardinale Bartolomeo Pacca Papa Gregorio XVI Cardinale Antonio Maria Cagiano de Azevedo Arcivescovo Benedetto D'Acquisto  V. Di Giovanni, D'Acquisto e la filosofia della creazione in Sicilia, Firenze 1868. V. Mangano, Benedetto D'Acquisto filosofo monrealese, Palermo 1890. G. Millunzi, Storia del seminario arcivescovile di Monreale, Siena 1895. F. Lorico, Vita di Benedetto D'Acquisto, Palermo 1899. V. Mangano, La filosofia sociale di monsignor Benedetto D'Acquisto, Palermo 1900. G. M. Puglia, L'arresto di mons. Benedetto D'Acquisto arcivescovo di Monreale, Palermo; Dizionario dei siciliani illustri, Palermo 1939.  Monreale Duomo di Monreale Rivolta del sette e mezzo Sant'Agostino San Bonaventura da Bagnoregio Antonio Rosmini  Benedetto D'Acquisto, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Benedetto D'Acquisto, . David M. Cheney, Benedetto D'Acquisto, in Catholic Hierarchy.  L'ontologismo rivoluzionario nella Logica di Benedetto D'Acquisto di Antonio Fundarò, dal sito dell'Istituto siciliano di studi politici ed economiciISSPE. Predecessore Arcivescovo di Monreale Successore Archbishop Pallium PioM. svg Pier Francesco Brunaccini, Giuseppe Maria Papardo del Pacco, Arcivescovi di Monreale Fino al 1500Caro Giovanni Boccamazza Pietro Gerra Ausias Despuig Juan de Borgia Llançol de Romaní XVI secoloJuan Castellar y de Borja Enrique de Cardona Alessandro Farnese Ludovico de Torres I Ludovico de Torres II XVII secolo Arcangelo Gualtieri Jerónimo Venero Leyva Cosimo de Torres Giovanni Torresiglia Francesco Peretti di Montalto Ludovico Alfonso de Los Cameros Vitaliano Visconti Giovanni Roano e Corrionero XVIII secolo Francesco del Giudice Juan Álvaro Cienfuegos Villazón Troiano Acquaviva d'Aragona Giacomo Bonanno Francesco Testa Francesco Ferdinando Sanseverino Filippo Lopez y Royo XIX secoloMercurio Maria Teresi Domenico Benedetto Balsamo Pier Francesco Brunaccini Benedetto D'Acquisto Giuseppe Maria Papardo del Pacco Domenico Gaspare Lancia di Brolo XX secoloAntonio Augusto Intreccialagli Ernesto Eugenio Filippi Francesco Carpino Corrado Mingo Salvatore Cassisa Pio Vittorio Vigo XXI secoloCataldo Naro Salvatore Di Cristina Michele Pennisi.  DELLA NATURA DEL LINGUAGGIO, E DELLA SUA INFLUENZA NELLA FORMAZIONE DELLE IDEE. (1) Per estensione della idea generale s'intende la sua capacità di applicarsi al numero degli individui; la comprensione è riposta nel pumero delleideesemplicidellequaliessa sicompone;perció quanto è maggiore lacomprensione tanto minore è l'estensione,ed all'inverso.  1.Ritrovare l'origineprimitivadellinguaggio,dopo infinite vicissitudini ed incalcolabili trasformazioni, oltre di essere fuori del nostro assunto , sarebbe la cosa più difficile. I fenomeni quanto sono più ovvi e generali altrettanto la loro radice è sepolta nelle te nebre . Moltissime e svariate sono state le opinioni dei   filosofi intorno all'origine del linguaggio, e forse an cora la lite non è stata decisa. Varie lingue si sono parlate,dalla corruzione e dalle trasformazioni di que ste ne sono risorte delle altre,e da queste ancor del l'altre. Se cosa di certo potrà trovarsi, la speranza di tal trovamento si deve porre nel fatto, cioè nella co stituzione dell'uomo e nella natura dello stesso lin guaggio. L'uomo è dotato di sensibilità e di facoltà attive e libere : égli prova sensazioni , è affetto da piacere e da dolore ; in ciò è passivo : egli reagisce sopra le stesse s e n s a z i o n i, e d a s u o p i a c e r e a n a l i z z a , r i c o m p o n e , e n e forma de nuovi prodotti,ed in ciò è attivo e libero; egli ha dunque delle sensazioni e delle idee e forma giudizi ; tutto ciò è effetto del lavoro interno dello spirito umano , e non v’interviene convenzione per conto alcuno. Dall'altra parte avvi nel linguaggio ciò che nell'uomo ha anche costituito la natura,evisitrovasempre lo stesso, propagato in tutle le lingue senza alcun can giamento o alterazione, e che dovrà per necessità tro varsi in tuttelelingue possibili.L'uomo èstato for nito degli organi vocali ; egli mette per essi natural mente de' suoni ;questi sono o semplici emissioni di fiato , tali sono i suoni detti vocali ; altri sono delle intonazioni che dipendono dall'azione libera di alcuni organi vocali, tali sono icosi detti suoni consonanti, e questi stessi suoni non possono prescindere dai suoni vocali perchè o li precedono, o li seguono, non po tendosi dare esercizio di organi subordinati senza l'e  197   sercizio degli organi subordinanti (1). I suoni vocali sono la manifestazione de' sentimenti , e le intona zioni,oconsonantileespressionidelleidee,quelli ac cennano allapassività,questiall'attività;quellisono comuni all'uomo ed alle bestie, questi all'uomo sola mente,e mettono la gran differenza fra le une e l'al tro. Tutto ciò è ancor opera della natura; bisogna in fine riconoscere un legame ancor formato dalla stessa natura : questo legame è il rapporto fra lo spirito e gli organi corporali, e fra questi e gli oggetti;la con dizione, che stringe sempre più e muove questo le game, è il principio d'imitazione che eminentemente possiede l'uomo; egli per parlare ha un modello n a turale da imitare,cioè la natura e le idee. Tutto ciò adunque che si ricercava alla perfezione del linguag gio era stato dato dalla natura;che altro mancava alla esistenza di una lingua, se non la combinazione vo lontaria dei suoni vocali e delle intonazioni per for mare la pittura e l'espressionedelleidee.Ma questa pittura, questa espressione nel linguaggio primitivo (1) Gli organi che concorrono alla formazione de'suoni articolati sono la trachea o canna della gola per la quale passa l'aria, e ri passa ne pulmoni; la laringe che è un canale cilindrico corto alla tesla della trachea ; la glotta che consiste in una piccola fissura fra due membrane circolari dove si forma il suono e la diversità ed intensilà de'tuoni ; la cavità della bocca e delle narici in cui il suono vieneriflessoerisuona;questiorganisonodestinatiallapro duzione de' suoni vocali ; la lingua colle suc vibrazioni,identi, le labbra coi loro movimenti sono gli stromenti delle intonazioni,le quali combinate con i suoni rocali danno in risullalo la voce ar licolala .  198   dovean essere da una parte corrispondenti ai bisogni ed allo sviluppo dell'uomo, perciò i suoni articolati, prodottidallefunzioninaturalidegliorganie dall'eser cizio libero dei poteri interni moventi gli organi m e desimi,e che esprimeano isentimenti e leidee,do veano essere in poco numero , che sono le radieali di tutte le lingue, restando in arbitrio dell'uomo l'in fletterli e modificarli a sua volontà secondo che cre scevano i bisogni della vita , e s'estendevano i rap porti e cogli oggetti della natura e cogli altri uomini. Dall'altra parte, come il tutto era preparato alla per sezione dell'uomo, cioè l'intelligenza, e gli organi di rapporto col mondo ; questi riceveano naturalmente l'azione degli oggetti esterni e produceano i senti menti , quella trasformava i sentimenti in idee per effettodeirapporti naturali onde erano connessi;egual mente erano preparati gli organi onde pingere ed espri mere coi suoni le idee; era quindi necessario, che la stessanatura,secondo gl'intimirapporti di questior gani, producesse i suoni in corrispondenza alle prime idee necessario risultato dell'esercizio delle facoltà. Ciò che ela ha realizzato per un procedimento naturale. È un fatto costantissimo nella natura dell'uomo cioè che egli per la sua suscettività prova sentimenti, per la sua intelligenza li trasforma in idee, e per la sua attività ne determina i movimenti muscolari nel corpo, iquali sonodirettisopral'oggettorappresentatodalle idee; cosi la stessa attività mette in funzione im u scoli degli organi vocali per significare agli altricon i suoni l'idea che gli è presente nello spirito, que  199   L'oggetto esterno ha una costituzione tutta propria, che forma la sua specifica natura; dalla specificità di questa natura origina il modo e la legge dalla sua azione sopra l'organo del corpo umano ; quest'organo, per lo stimolo impressovi dall'azione esterna entra in movimento, il quale, sebbene fosse la continua zione dell'azione esterna, tuttavia è modificato e spe cificato dalla legge fisiologica risultante dalla costitu zione dell'organo medesimo: questo movimento or ganico cosi specificato modifica realmente lo spirito, eviproduceprimamenteunsentimento,ilqualeper l'azione delle facoltà è seguito da una idea. Questa idea per l'attività intelligente diviene una norma della sua determinazione e direzione verso l'oggetto rap presentato dalla idea, onde prenderlo e mettersene in possesso. La stessa attività sotto la scorta della stessa idea, mette in esercizio i muscoli degli organi vocali per esprimere colla voce la idea, e per essa il suo oggetto. La volontà,nello eccitare i movimenti orga nici del corpo, può avere un doppio motivo prodotto da un diverso interesse,cioè o immediato, o mediato : è immediato quello per cui eccita il movimento nei muscoli,per esempio della mano,per prendere l'og getto rappresentato dalla idea;è mediato quello,per cui mette in azione gli organi vocali per significare o far nascere negli altri l'idea che è presente al suo spirito, col fine, sia di simpatizzare con essi,sia per determinare la loro volontà a proprio vantaggio, e per  200 sto procedimento si effettua nell'uomo sotto l'influenza delleleggifisiologiche e psicologiche.Eccone ilmodo:   avere da costoro o un'azione, o l'oggetto che desi dera , sia perchè non gli noceia. La causa dunque del doppio movimento è lastessa,cioè lamedesima idea, i motivi solamente differiscono, essendo uno il possesso dell'oggetto rappresentato dall'idea,e l'altro la premura di manifestarla aglialtri;onde lo stesso èilprocedimentodelmovimentodellamano,ede gli organi vocali eseguito sotto l'impero delle stesse leggi fisiologichee psicologiche, sebbene perun di verso riguardo. Perciò se naturale è la presa dell'og gettosignificatodalleidee,naturale è purelavoceche esteriormente la esprime :ciò ha bisogno di ulteriore sviluppo.  201 Nella esterna espressione delle idee dello spirito , cioè nel linguaggio parlato, avvi un processo inverso aquellocolqualeegliacquistaleidee,ma collastessa legge di continuità. Il processo, pel quale nello spi rito si forma l'idea,ha il suo principio nella azione dell'oggetto esterno :questa azione è sempre conforme alla naturale costituzione dell'oggetto, alla sua rela tiva posizione e stato in rispetto agli organi esterni; quindi di tante diverse specie e di tante gradazioni nella stessa specie sono le azioni che gli oggetti esterni esercitano sopra gli organi.L'azione dell'oggetto, ar rivando all'apparecchioesternodell'organo,lo stimola e vi produce un movimento rispondente all'indole ed alla forza dell'azione dell'oggetto agente, ed allo stato di organizzazionedellostessoapparecchio:questomo vimento cosi modificato si comunica alla struttura ed al processo nervoso dello stesso organo, nel quale il   movimento riceve un'altra modificazione e qualifica z i o n e ; il m o v i m e n t o c o s i m o d i f i c a t o e q u a l i f i c a t o i n = teressa e modifica lo spirito, e produce in esso il s e n timento,che per l'azione delle facoltà diviene idea, la quale nello spirito è il segno della esistenza del l'oggetto esterno e della sua qualità : l'idea devesi considerare come la interna parola, per la quale lo spirito sente , conosce ed è assicurato dalla esterna realtà e dei suoi modi per la modificazione reale che egli riceve dalla forza reale del di fuori attuata nel movimento, e dalla indole dello stesso movimento de terminata e dalla natura dell'azione dell'oggetto ester no,e dalla struttura dell'apparecchio esternoedella costituzione interna dell'organo e del cerebro. Dal l'oggetto esterno fino allo spirito avvi una continua zione di movimento, modifiealo però in diverse guise una connessa coll'altra fino all'ultima modificazione che riceve dall'organo centrale del cerebro. Il movimento nella sua essenza non è che la forza materiale attuata e manifestata sensibilmente per le due forme primitive del tempo e dello spazio;e per ciò esso è nell'azione dell'oggetto esterno, nelle at tuosità dell'apparecchio, e nella costituzione del tes suto nervoso del cerebro : riceve le diverse modifica zioni e specificazioni della natura dell'oggetto in pri ma , indi dalla organizzazione dell'apparecchio esterno dell'organo e della tessitura interna dei nervi ed in ultimodel sensoriocomune ; queste modificazioni e specificazioni diverse del movimento si possono con siderare come tante articolazioni dello stesso movi  202   203 mento, che costituiscono, per cosi dire, la parola fi siologica cheintendelospirito,perlaqualeconosce e la realtà dell'oggetto esterno nella forza attuata nel movimento , che è l'elemento generico , e la qualità dello stesso oggetto nella modificazione e specificazione dello stesso movimento,che formano l'elemento spe cifico delle idee ; questo è il processo naturale nella formazione delle idee. Volendo poi lo spirito manifestare al di fuori i suoi sentimenti e le sue idee, si serve dello stesso elemento generico cioè del movimento, che esso eccita agendo soprailcerebro:questomovimento eccitatonelce rebro, e da questo propagato ai tessuti nervosi riceve le peculiari modificazioni dall'esercizio delle facoltà dello spirito in conformità al sentimento ed alle idee che vuole egli esprimere, per le quali si mette in azione il sistema dei muscoli e muove gli organi vo cali, e gli apparecchi degli stessi organi , cioè il p u l m o n e e la trachea per la emissione dell'aria ; la glotta dove l'aria diviene sonora, che è ilmezzo di espres sione del sentimento ; il palato, la lingua, i denti e le labbra, dalla funzione dei quali il suono riceve le diverse modificazioni, le quali formano le intonazioni o i s u o n i c o n s o n a n t i , c h e s e r v o n o a m a n i f e s t a r e le f o r m e del sentimento cioè le idee e le loro qualità ; quindi nell'aria emessa divenuta suono che in fondo è m o vimento, si ha l'elemento generico, il quale forma la base del linguaggio, e l'elemento specifico che consi stenelle modificazioni che ricevelostessosuono.Onde i suoni vocali sono le prime modificazioni del suono   204 ܕ generale, indi le intonazioni o le articolazioni dello stesso suono,le quali si combinano in guise diversis sime con isuoni vocali,edaqueste combinazioniri sulta il linguaggio articolato; queste intonazioni sono sempre precedute o seguite da suoni vocali ; poiché l'elemento specifico del linguaggio non può sussistere senza il generico che ne è la base, di cui le intona zioni sono modificazioni prodotte dall'esercizio delle facoltà.Isuoni , che esprimono le circostanze e le po sizioni necessarie dell'oggetto che si vuole significa re, formano le parti elementari che si trovano in ogni lingua delle parti del discorso:lecombinazioni poi dei suoni vocali con i consonanti per esprimere l'oggetto e le sue qualità dipendono dalle esterne circostanze in cui possono trovarsi gli uomini,come sonoilcli ma,ilgeneredi vita,lareligione,ed altro,lequali come influiscono sopra lo sviluppo della facoltà, cosi determinano lacombinazione de'suoni vocali con icon sonanti . Nella formazione delle idee vi sono due estremi,il primo è l'oggetto esterno allo spirito, ed il secondo è lo stesso spirito che dà esistenza alla idea . L'agente esterno nelle stesse circostanze sempre agisce allo stesso modo , é cosi gli organi essendo nello stesso stato , per cui l'idea è sempre la stessa; laddove nella espres sione esterna della stessa idea, cioè nel linguaggio , essendolospirito,ilprimo estremoche suscitailmo vimento, secondo le disposizioni da cui egliè affetto per la influenza delle esterne circostanze, muove gli organi vocali in modi diversi e combina in diverse  guise isuoni vocali con i consonanti, per cui lo stesso oggettop.e.l'astrodelgiornonelle diverse lingue ha diversi nomi,come sole,sol,soleil,yacos eco. Perchè poi potesse rendersi stabile la esterna m a nifestazione dei sentimenti e delle idee, che è fugi tiva nel linguaggio parlato, lo spirito si serve delle figure; ad alcune delle quali associa ed attacca in prima i suoni vocali, ad altre i consonanti , quali figure d i vengonosegnideisuoni,come leparolelosonodelle idee, e le idee degli oggetti; e come il punto e le linee possono combinarsi di diverse maniere; quindi la diversità e la moltiplicità delle figure ossia delle letlere. Dunque l'elemento di base oggettivo alla for mazione delle idee, della parola, della scrittura è lo stesso, cioè il movimento : lo specifico, nella forma z i o n e d e l l a i d e a , è il m o d o d i a g i r e d e l l ' o g g e t t o e s t e r n o sull'organo e dell'organo sullo spirito; nella forma zione della parola è pure la costituzione degli organi e l'articolazione dell'aria che si porta al senso degli altri; nella formazione della scrittura è ancora la costi tuzione degli organi e la loro azione sopra una m a teria esterna che viene specificata. Lo stesso spirito è il fine del processo fisico e fisiologico nell'acquisto della idea, ed il principio dello stesso processo nella espressione esterna della idea;ilegami hanno lastessa connessione e la medesima continuità si nell'uno che nell'altro processo:lo spirito nella espressione delle sue idee imita il modo naturale della loroacquisi zione. In tutti i segni adunque degli oggetti, cioè nelle 203    idee,nelleparole,nellascrittura vi ha l'elemento ge nerico e lo specifico : il generico in fondo è lo stesso, cioè il movimento, il quale non è che laesterna m a nifestazione della forza intrinseca a tutti i corpi , l'e lemento specifico è riposto nella trasformazione dello stesso movimento secondo la struttura degli organi che sono in funzione, e la natura dell'oggetto che ve la determina ; perciò i movimenti possono diversificare di tanti modi , quante sono le esterne impressioni, il loro grado di forza, e la costituzione degli oggetti che le cagionano , la struttura e lo stato degli organi in ternied esterni.Nell'essereassicuratolospiritodella esistenza di un oggetto per mezzo della idea vi sono perciò due condizioni della diversità de' movimenti ; una esteriore, che deriva dal modo di agire dell'og getto esterno allo spirito ; e l'altra interna, che nasce dalla naturale struttura e dallo stato degli organi , i quali modificano e trasformano ilmovimento ricevuto dall'esterno.  206 Cosi nel manifestare lo spirito le sue idee , é per esse la cognizione degli oggetti vi hanno due condi zioni, una è la reazione dello spirito, la quale è da esso determinata giusta la informazione che egli ha della idea ; e l'altra è riposta nel movimento degli organi interni e nella funzione degli organi vocali che produconoilsuono,ilqualepuò modificarsiindi versissimi modi ed in tanti suoni articolati , quante sono le idee e le loro qualità , come è chiaro, della moltiplicità e delle parole, e delle diverse lingue. Il suono nel linguaggio risponde ed esprime il senti   mento che è la base della idea, e l'articolazione del suono alle forme del sentimento cioè alle idee ed alle loro proprietà; come il sentimento nello spirito ri sponde al movimento organico che ve lo cagiona , e la idea all'indole peculiare dell'armonia del movimento sotto la quale è prodotto. Questi fatti sono connessi e legati l'uno all'altro in un processo di continuità tanto nella formazione della idea,quanto nella produ zione del linguaggio, ma in un ordine inverso ed al terno . L o spirito legge nelle sue idee le esistenze degli o g getti col processo che comincia dalla loro azione , e per un processo inverso, che ha principio dall'azione dello stesso spirito, egli esterna e manifesta le stesse idee fino alla scrittura, alla pittura, alla scoltura ec. Uno è il movimento, ed indefinite le modificazioni chelodiversificano;unoèilsentimento ed indefinito il numero delle idee nelle quali si trasforma; uno ė il suono , ed indefinito il numero delle parole 'nelle quali è articolato;unico è ilpunto del flusso dal quale nasce la linea,ed indefinito il numero delle figure, e le combinazioni che di essi possono farsi, d'onde le diversità delle lettere nelle diverse lingue : tratti g e nerali hanno le idee, le parole , le figure. L'unione del pensiero col linguaggio, e di questo colla scrit tura ha ilcentro e la base nello spirito, il quale,per il movimento modificato delle leggi fisiche ed orga niche riceve leimpressioni nellasuaunità,eda que sta riversa il prodotto e lo propaga al di fuori per mezzo delle stesse leggi.Se le condizioni che formano  207   l'elemento specificodellinguaggiofosserosemplificate e ridotte a principi non sarebbe difficile la formazione di una lingua universale. È bensi da osservare che la totalità dell'armonia della costituzione del corpo umano , ed in essa la spe cialità degli organi che la compongono, è modificata ed informata negli individui da talune cause esterne ed interne , le quali , agendo sopra di esso potente mente e perennemente vi determinano un tempera mento costante ilquale poi,come modifica di un modo speciale i sentimenti e le idee,cosi modifica diversa mente il movimento degli organi vocali nella produ zione delle intonazioni , le quali commiste ai suoni vocali producono una diversa articolazione, e quindi la diversità delle parole che significano presso diversi individui la stessa idea ed il medesimo oggetto.Qui si trova la ragione del linguaggio diverso presso le diverse nazioni,lequali,secondo lediverseposizioni e circostanze morali , politiche, fisiche e topografiche, parlano diverso linguaggio come hanno diversi costu mi.La nazione greca,che fucolta,civile e voluttuosa, parlava u n linguaggio ornato , polito e splendido ; R o ma,che parve nata a comandare,ebbe un linguag gio nobile, robusto, magnifico. Le lingue che ebbero nascita da questa madre portano tratti differenti non solo della loro madre, ma ancora fradi esse.La spa gnuola porta il carattere di gravità, di pomposità e di alterezza : la francese è vivace, spiritosa ed animata: l'italiana molle, gentile ed amena ; l'inglese sobria, sentenziosa e concisa:quelle delsettentrione aspre,  208   Il linguaggio convenzionale è uno dei più potenti mezzi che contribuiscono al soddisfacimento di questi bisogni ; e mentre il linguaggio si accresce per lo svi luppo delle facoltà, tende a sempre più perfezionare le facoltà. Ma i segni convenzionali,che compongono il linguaggio, non possono aversi senza i segni natu rali;poichènonpuòdarsifragliuomini convenzione alcuna senza che prima s'intendano, nè possono in tendersi senza i segni naturali, i quali sono a tutti comuni, perchè prodotti spontaneamente dalla loro n a tura,eperciòperquestituttigliuomini s'intendono; devono per tanto ammettersi prima i segni naturali per iquali eglipo s'intendono,ed intendendosi sopra gli stessi segni naturali fondano il linguaggio con venzionale, il quale è di quelli una estensione. I segni naturali sono le grida, ed i gesti, i qua li sono varii come lo sono le grida. Questi segni sono generalmente da tutti intesi, perchè esprimono in tutti le medesime idee ed i medesimi sentimenti. Che se al grido si unisce ilgesto, il segno di espres sione diviene più indicativo e sicuro : infatti questo linguaggio siparla nella vivacità dellepassioni,quando non ha luogo l'esercizio delle facoltà intellettive. Ora 209  dure ed austere.La lingua e l'eco del costume, come il costume lo è della natura e carattere delle idee , le quali sono più o meno perfette, in maggiore o m i nor numero secondo il maggiore o minor grado di sviluppo e di perfezionamento delle facollà, ed il m a g giore o minor numero dei bisogni che si suscitano nell'uomo.   se il gesto si unisce al grido,ed il movimento de'm u scoli corporei al movimento de muscoli degli organi vocali per rendere più sicura ed espressa la manife stazione dell'interno sentimento e della idea,non su difficile mettere in movimento imuscoli degli organi della lingua de' denti e delle labbra per rendere più completo e più perfetto il suono per la manifestazione più esalta più commoda e più espressiva della idea, e surrogare alle gesla le intonazioni che suppliscono alla loro imperfezione. Si osservi infatti, quali sono le risorse della natura che ruole esprimere gli interni sentimenti e le idee. Mentre il bambino ha soli sentimenti e non ha for mato idee degli oggelli che lo modificano , egli si espri me per ilmezzo delle grida, iquali diversamente m o difica secondo la diversità de'sentimenti che egli prova ; quando le sue facoltà cominciano a svilupparsi, ed a formare idee , egli comincia a dare una certa preci sione alle sue gesta , ed insieme una certa articola  210 suoni vocalileintonazioni , le sue idee, sebbene noi , con che intende esprimere non sono tura , e per e per opera della l'istinto della imitazione na uso delle parole comincia a far non l'intendiamo convenzionali; indi , perchè che ascolta, e che gesto diretto sopra , per il mezzo del attacca l'oggetto presente al suo allo stesso oggetto sguardo, mente : tutto ciò succede nel bambino. Questo natural procedimento naturale che si fa per gradi essere pergradi perfetti imperfetti nel bambino , , dovelte ed istantanei nell'uomo pri   211  miero,ilqualenacqueadulto,colpienosviluppo delle sue facoltà : egli conobbe i suoi poteri naturali, co nobbe la natura degli oggetti che lo circondavano , ebbe nette e precise le sue idee, perciò fu facilissimo per la manifestazione delle sue idee accoppiare le in tonazionisempliciaisuoni vocaliancorasemplici,d'on de risultò la voce articolala anche semplice,al prof ferimento della quale uni anche il gesto , e fu c o m preso. Questa voce divenne il segno radicale che si attaccò alla idea,ilquale per l'abitudine divenne per-, manente.Formata questa lingua primitiva;divenne essa il tipo della formazione di tutte le altre. Quesla teoriaèconformeaciòchesileggenelGenesicap.2, v. 19, 20. Formatis igitur, Dominus Deus, de humo conctis animantibus terrae, et universis volatilibus coeli, adduxiteaadAdam,utvideretquidvocaretea:omne enim quod vocavit Adam animae viventis, ipsum est nomen ejus. Appellavitque Adam nominibus suis cuncta animantia et universa volatilia coeli, et omnes bestias t e r r a e . C o s i a n c h e i m p o s e il n o m e a d E v a , h a e c v o cabitur virago, perchè,quoniam deviro sumpta est,e ciò perchè egli conobbe che ella era , os ex ossibus meis, et caro de carne med . La Divinilà in fine dovea dare l'ultimo complemento a tutti gli elementi della sua opera , ed attualizzare tutti irapporti necessari fra questi elementi.Ilprimo uomo adunque, come naturalmente provò sentimenti, come per l'eserciziodellasua intelligenzalitrasformó in idee , come naturalmente per i primi mise fuori suoni yocali, per la seconda produsse le intonazioni ;   212 così dovette combinare le intonazioni colle vocali e produrre la parola articolata , imagine e pittura della idea, allo stesso modo come trasformò in idea il sen timento coll'esercizio delle facoltà della sua intelli genza. Questo lavoro delle facoltà non fu che istan taneo nell'uomo che nacque sviluppato,ed istantaneo su il linguaggio. Fu opera della Divinità l'esistenza, e la perfezione dell'uomo primiero mediante la per fezione e lo sviluppo delle sue facoltà, cosi fu opera della stessa Divinità l'esistenza del linguaggio m e diante l'esercizio degli organi vocali dati all'uomo per questo fine. Fuvvi dunque nella lingua primitiva la base posta dalla natura, e questa base devesi trovare in tutte le lingue ; fuvvi l'opera e l'esercizio delle facoltà, e questo sirinviene in tutte lelingue;ilprimo elemento è in variabile,esitrasfonde da generazioneingenerazione senza mutamento o alterazione; il secondo è varia bile,e cangia coi tempi, secondo i climi, i bisogni, il genere di vita , ed il progresso dei lumi , ed esso è la causa della moltiplicità delle lingue e della loro varietà .  P i 2. Dietro tali considerazioni chiaramente si scorge, che il linguaggio articolato è il segno in fatto della grande differenza che distingue l'uomo da tutti gli altri viventi, a cui mancano le intonazioni, perchè manca l'esercizio libero delle facollà della intelligenza, e mancano in conseguenza la precisione e la perfe zione delle idee,e sono perciò limitati ai semplici suoni vocali, perchè limitati alle sole sensazioni. Nell'uomo   però in cui sonvi non solo le sensazioni, ma ancora interviene l'esercizio libero delle facoltà , sonyi e le vocali,e le intonazioni,e la combinazione,ed il con certo delle une e delle altre, per la espressione delle idee.Ibruti naturalmente,peresprimereleloro sen sazioni, si servono de'suoni vocali diversamente m o dificati ed espressi, e tale espressione è intesa dagli individui della stessa specie. Non potrebbe l'uomo anche fare lo stesso,essendovi in esso gli stessi a p parecchi e le stesse condizioni ? certamente che si, m a l ' u o m o h a p u r e i d e e , e d h a il m e z z o o n d e e s p r i m e r l e , cioè le intonazioni ; chi impedisce d'impiegarle e c o m binarle per la espressione delle idee come per le vo caliesprimeisentimenti.Era forsedifficileilframet tere le intonazioni necessarie alle vocali spontanee ? come non era e non è difficile il combinare il sen timento coll'esercizio delle sue facoltà ed averne in risultato l'idea, cosi non gli fu difficile combinare e modificare le vocali necessarie all'espressione del sen timento colle intonazioni,che potevano contornarle e. precisarle alla esatta pittura della idea. Si forma un nuovooggetto,unamacchina,p.e.mancailnome, l'espressione ; che sifa, si combinano due o più ter mini che esprimono gli elementi , e se ne forma un solo.Questo esempio èsensibile,ma infinitiesempi simili si osservano, sebbene poco considerati in tutte le lingue come nella greca , nella latina ed in tutte le altre ; come dunque in tutte le lingue per l’unione delle voci radicalisiformarono le derivate;cosi nella lingua primitiva dalla unione delle vocali e delle in  213   tonazioni analoghe si formarono le radicali.Ma come avrebbero potuto trattenersi a memoria tante voci ? come si trattengono a memoria ed ilvocabolo nuova mente composto, e le voci derivate. L'oggetto che è presenteallospirito,glielementiediloronomi par t i c o l a r i , c h e s i c o n s e r v a n o n e l l a m e m o r i a , s o n o il m e z z o di ricordare il vocabolo nuovamente coniato ; cosi le vocali che esprimonoi sentimenti dell'animoiquali sono presenti allo spirito , le intonazioni corrispon denti all'operazione delle facoltà,che ancor è presente allo spirito , sono il mezzo di ricordare la voce i m piegata alla espressione di quel sentimento precisato, di quella idea ; si risovvenga che il linguaggio pri mitivo,per ipochissimi bisogni dell'uomo,per ipochi rapporti cogli altri uomini , non si componeva che delle sole radicali, e che le voci composte comincia rono ad accrescersi secondo crescevano e s'intreccia vano ibisogni ed irapporti. Quindiper dimenticare il s u o n o , c h e e r a u n p r o d o t t o n a t u r a l e , b i s o g n a v a d i menticare l'idea;ciò che succede ad ogn'uomo oggi. giorno. S'aggiunga a ciò, che quanto èpiù forle l'impres sione, quanto è più vivo il sentimento , tanto è più energicà e pronunziata l'espressione ed il suono vo cale ; quanto più marcata è l'azione dello spirito sul sentimento,tantoèpiùdecisa l'espressione delle in tonazioniedelleconsonanti,equantoèpiù interes sante e distinta l'idea, tanto più viva è l'espressione e la parola. Ciò è chiaro e ne ' selvaggi , ed in tutti coloro che sono nell'impegno di trasmettere colle p a  214   215 role le loro idee ardenti e staccale. La parola è la pit tura e l'immagine della idea; l'idea è l'immagine dell'oggelto e l'espressione dello spirito ; l'oggetto e lo spirito sono l'espressione dell'assoluto ; tanto è chiaro a sé lo spirito,e tanto luminoso allo spirito l'ogget to, quant'è il grado di luce che comunica l'assoluto allo spirito ed all'oggello : tanto è vivo il sentimento e distinta l'idea, quanto è più chiaro a sé lo spirito e luminoso allo spirito l'oggello ; tanto forte è il suono vocale,ed energica l'intonazione, e precisa la parola quanto più vivo è il sentimento e distinta l'idea. I sentimenti dell'uomo primiero , che nacque adulto e non bambino , e tale dovea nascere , i prodotti del l'azione degli oggetti esterni, la percezione del pro prio spirito,ed indi le sue idee furono vivissimi, di stintissimi, ed al massimo grado di precisione, tanto per la novità,quanto pel grado di luce, che la Divi nità diffuse e nello spirito dell'uomo di recente for mato e nella natura, che la prima volta espose al suo sguardo ; perciò forte, marcalo,ed espressivo dovette essere,ma semplice,econcisoilsuolinguaggio,ciò si rende chiaro dalle indole della stessa lingua , la quale,a giudizio de'più dotti filologi,può conside rarsi come l'esemplare di tutte le altre: Schlegel in fatti la chiama la più sublime e la più energica, e per la sua vibrata concisione , e per le vive e frequenti aspirazioni delle voci, e lo stesso Audisio la dice di vina (1). (1) Questa è la lingua ebraica, la quale fu parlata da Adamo e    G l i e l e m e n t i d u n q u e d e l l i n g u a g g i o , c h e f o r m a n o il s u o tipo originale,furono tutti dati all'uomo dalla natura, e l'uomo,che trovò in se preparati e pronti questi ele menti, non fece altro che metterli in opera, ed ebbe immediatamente il prodotto. Per questo tipo il lin guaggio è mezzo di comunicazione e centro di rap porti fra tutti gli uomini ; perchè in tutti questo tipo è identico,tutti comunicano e fra loro s'intendono, restando sempre separati per l'arbitrario : infatti il tipo naturale delle lingue è insegnato es'impara dalla ragione, perchè in tutti gli uomini ella è uguale e la stessa :e perchè tale, è in tutti gli uomini centro di unità e condizione identica di comunicazione,per il mezzo degli apparecchi vocali, che sono uguali e gli stessi in tutti ; laddove l'arbitrario s'apprende per l'uso e per abitudine , perchè introdotto dall'uso e dall'abitudine (1). 3. Tuttociò come da lume,e ci rende facilelaco noscenza della natura del linguaggio,cosi riceverà m a g dai suoi discendenti, ed ebbe questo nome da Eber nella famiglia del quale si conservò dietro la confusione delle lingue. (1) Ciò fa conoscere l'errore che si commelle nell'apprendimento delle lingue specialmente antiche,pel quale si daono tante svariate e moltiplici regole e precetti di che si compongono le grammatiche specialmente moderne, le quali, gravando la mente non fanno ap prendere con facilità e perfezione la lingua. In qualunque lingua devesi imparare colla ragione,cioè colle regole,ciò che è opera della natura e della ragione, vale a dire,ilfondamento della lingua : la costruzione perd,ilgenio,iterminidellalingua,leloro inflessioni, e la sua eleganza, essendo un prodotto dello sviluppo ed esercizie delle facoltà, debboosi imparare coll'uso.  216   Occupa nel linguaggio il primo luogo quella voce che esprime l'oggetto dell'idea che o è principio di a z i o n e o n e è il t e r m i n e , o p u r e q u a l c h e p r o p r i e t à d e l medesimo oggetto ; questa voce è stata detta nome ; che 217  gior luce , e sarà confermato dall'analisi che ne fa remo. Il linguaggio è un fatto il più noto ed il più generale;analizzandoquestofattosiconoscerà distin tamente ciò che vi ha posto la natura, e ciò che vi è introdotto dalla volontàdegli uomini. Tuttigliuo mini sono dotati di sensi pei quali ricevono impres sioni dagli oggetti esterni e provano sensazioni ; tutti hanno una intelligenza dotata di facoltà, perlequali e possono trasformare i sentimenti in idee , parago narle , e formare giudizi sopra le idee e gli oggetti corrispondenti,e preparare in un giudizio la maleria di un altro,e da ciò che ha conosciuto avanzarsi ad ulteriori conoscenze. Tutti possono cacciar fuori una massa d'ariadaipulmoni,emettereinazioneglialtri organi vocali che servono a modificarla, e come non per propria industria ha avuto l'uomo queste facoltà, cosi non perpropria arte ha conseguito di poter par lare. Infatti prima di formarsi o la grammatica, o la logica,ciascuna nazione ha ricevuto dalla natura l'uso della favella e gli elementi necessari e presso tutti si mili.Chiunquevuoleesprimerelesueidee,emani festare gl’interni giudizi in qualunque siasiluogo,in qualunque lempo,di tante parti naturalmente fa uso, quante sono necessarie ad esprimere le idee, ed i giu dizi con tutte le circostanze, le particolarità, e la gra dazione di colorito e di luce. 1   se esprime l'oggetto si dice sostantivo, se indica la proprietà si chiama aggettivo, se però si considerano in astratto, e come separate dai loro soggetti , rien trano nella classe de'sostantivi come bianchezza, tar ghezza,solidità,ecc.È però da riflettere,chegliog getticheagiscono sopraisensi,edicuilospiritopuò formarsi idee sono di un numero incalcolabile ;ildare ad ognuno di essi un nome sarebbe stata una impresa non che difficilissima, ma si bene impossibile ;l'uomo ha superato tale difficoltà,con applicare lo stesso nome a tutti quegli oggetti che presentano le medesime pro prietà ; si è dato il nome di albero a ciò che hanno d'identico quegli oggelti che sorgono da una radice, che son nutriti dalla terra, che hanno tronco, rami, foglie ecc., quindi tutti i nomi esprimono idee gene rali di classe, di genere,dispecie,tranne quei nomi che disegnano un solo individuo come Pietro,Paolo ecc., i quali si dicono nomi propri a differenza dei primi che si chiamano appellativi. Ma dicendosialbero,uomo,nonsisaprebbediqual albero,di qual uomo volesse parlarsi;la natura ha suggerito un altro mezzo onde togliersi questa per plessità, qual'è ilpronome, il quale è una parola che rappresenta determinatamente il nome dell'oggetto , ed ha nello stesso tempo il vantaggio di escludere le frequenti ripetizioni dello stesso nome.Il pronome ė anch'esso generalissimo, potendosi applicare ad oggetti diversissimi e ad ognuno di essi secondo le circo stanze.Indica in prima la persona che parla io;la persona a cui si parla , tu; e quella di cui si parla  218   219 quello, questo, colui ecc.; attribuisce ancora la pro prietà alla cosa designata , come tuo, nostro ; indica similmente le relazioni degli oggetti con altri di cui si:forma giudizio, come, il quale, le quali,e nota in finelapresenza,lavicinanzaolalontananza dell'og getto designato, come questo, quello, colui. Vi sono altre circostanze ed altre relazioni che pos sono avere gli oggetti , e che il linguaggio con pre c i s i o n e e s p r i m e ; q u i n d i il n o m e t a n t o s o s t a n t i v o c h e aggettivo ha numeri, generi, e casi. Il numero indica s e l ' o g g e t t o è u n o , o p i ù d i u n o ; il g e n e r e p r o p r i a mente determina i sessi, o l'analogia che hanno coi sessi ; i casi esprimono le diverse relazioni che un oggetto ha con altri, designate con certe particelle che si premettono ai nomi ,tali sono isegnacasi come il, del, al ecc. come nelle lingue moderne ;o da certe infles sioninellesillabefinalidello stessonome,comepater, patris,patriecc.,yxws,4x8,qxw ecc.,nellelingue an tiche per la più parte. Il nominativo indica o sem plicemente la cosa che è , o pure che agisce ; il ge nitivo esprime il possessore ; il dativo la persona o la cosa a cui si reca utile,danno,o qualunque altra attribuzione; l'accusativo la cosa su cui passa o cade l'azione ; il vocativo mostra l'oggetto a cui si diri gono le parole ; l'ablativo finalmente che si trova in molte lingue, serve ad esprimere tutte quelle altre p o sizioni che non si potevano commodamente espressare cogli altri casi. Un oggetto può solamente esistere,può essere in azione , e può ricevere in sè l'azione di un altro;    era perciò necessaria una voce che esprimesse questi stali ;questa voce è detta particolarmente verbo, il quale esprime ciò che è di più essenziale nel discorso, cioè o l'esistenza, o l'azione, o la passione coi progressi del tempo, e le circostanze delle cose, e contiene in sè un completo giudizio intorno alla natura delle cose medesime.Essoindicailtempo dell'esistenza,del l'azione e della passione e le sue gradazioni, cioè il presente,ilpassatoel'avvenire;ammette anche imodi, l'indicativo che esprime lacosa assolutamente; l'im p e r a t i v o c h e c h i e d e o c o m a n d a , il s o g g i u n t i v o c h e e s p r i m e il giudizio sotto la condizione o la subordinazione di qualche cosa a cui si riferisce. Esso finalmente ha numeri e persone. È prossimol'avverbiochesiuniscetantoainomi quanto ai verbi , e serve a determinare il particolar luogo,modo,e grado o ad una cosa,oall'esistenza, o all'azione, o alla passione ; esso ha una vastissima estensione sul riguardo che può modificare le circo stanze della cosa o esistente o in azione ,ed è una maniera abbreviata di espressione come hic qui vale in questo luogo ecc.  220 Il verbo in ogni lingua genera un'altra voce, che vien detto participio, in quanto serba la significazione del verbo da cui ha origine , ed acquista insieme la forma del nome ,con che un giudizio viene incluso in un altro , e richiama con un sol segno alla m e moriaciòcheèstatodetto,osisuppone conosciuto, con designare nello stesso mentre la persona, il n u mero, l'azione ed il tempo,come amans amante, co luicheama,amava,oamando.   221 3 Sebbene sembra che queste parti avessero potuto bastare ad esprimere inostri pensieri, purnondimeno affinchè il linguaggio riuscisse a copiare perfettamente i nostri interni sentimenti con supplire all'espressione degli accidenti e de'siti lasciati e non indicati dalle parti antecedenti, si sono aggiunte altre voci di gran dissimo uso,che si dicono preposizioni come super so pra , circum intorno ; alcune altre che servissero a se parare o a congiungere le idee secondo il bisogno , tali sono le congiuntive e le disgiuntive come et e , aut o,ecc. Altreinfine,chesebbenenon abbiano segnatamente attaccata alcuna idea,indicano però i movimenti del nostro animo , che le facoltà non hanno potuto , a causa della loro istantaneità analizzare e sviluppare in idee , e che possono considerarsi come l'espressioni naturali dell'uomo affetto di dolore o di piacere , o di qualunque altra forte e subitanea affezione heu, oimè ecc.Quindi colla frequente ricorrenza, e colla combinazione di otto voci riusciamo ad immettere nel l'animo altrui le nostre idee , i nostri giudizi , e le nostre affezioni con tutte le loro particolarità , cioè l'oggetto del nostropensiero,lesue proprietà,igradi delle medesime proprietà,tuttigliaggiunti, l'esisten za, l'azione, la passione con i loro rispetlivi tempi, modi e numero degli agenti o pazienti; gli ordini delle cose adiacenti nella natura, la loro successione nell'animo, il graduato calore degli affetti.Di queste parti alcune sono invariabili e sempre le stesse nella loro espressione ; altre sono soggette a certi cambia    menti, tuttavia però nello stesso cambiamento serbano una certa costanza , la quale forma il principio e la natura della grammatica delle lingue. 4. Tutte queste parti,che devono riguardarsi come il fondamento del linguaggio , si trovano in tutte le lingue si antiche che moderne ;in esse si scorge l'o pera della natura sempre stabile e costante in mezzo alle incalcolabili varietà che subiscono le lingue ;tutto ciò che cangia è opera dell'uomo , ciò che è costante èl'effettodiuna causa superiore,laqualecomeman tiene costantemente nell'uomo gli organi e le facoltà, conserva egualmente le parti essenziali del linguaggio. Non è però lo stesso nelle lingue ciò che è opera del l’uomo ; questa viene modificata da varie circostanze, tali sono il genere di vita , i temperamenti diversi , la religione, il costume, la temperatura dell'aere, la qualità de' luoghi , le gradazioni di sviluppo e tante altre,che,come influiscono sopra la maniera di pen sare, influiscono nella maniera di esprimersi, da ciò ladiversitàdellelingue.Sidissepiùsopra cheisuoni vocali sono l'espressione della sensibilità,e le into nazioni,e i consonanti il prodotto delle facoltà dello spirito ; la sensibilità ed i prodotti diessa sono quasi simili in tutti gli uomini, perchè in tutti esistono gli stessi sensietutti sono capaci di piacereedidolore; iprodotti però delle facoltà libere dello spirito variano esimodificano diversamenteintuttigliuomini;onde è che possono darsi alla stessa voce varie intonazioni, cioè possono i suoni vocali essere combinati con di verse e varie intonazioni, d'onde risulta la diversità  222   delle voci articolate e la moltiplicità delle parole . M a la stessa temperatura dell'aria , la medesima educa zione, la religione , lo stesso suolo , i medesimi co stumi come influiscono nell'esercizio e sviluppo delle facoltà,influiscono cosi nello stesso modo d'intonare, perciò la stessa lingua presso lo stesso popolo,ed in questo più o meno perfetta, più o meno elegante,più o meno estesa a seconda lo sviluppo e la collura degli individui dello stesso popolo,della medesima nazione. Oltrediqueste cagioni intrinseche,avvene un'altra estrinseca che produce la varietà delle lingue, vale a dire la mistione di altre lingue, e da questa mistione hanno origine altre lingue che sorgono nuove. Tale sappiamo l'origine di tutte quelle lingue , e di quei popoli fin dove si estende l'istruzione dataci dalla sto ria, e con particolarità di quelle a noi più vicine e le piùfamose,come lagreca,elalatina;tanto l'una che l'altraebbero originefraipiratiemasnadieri,ecreb berosottoibarbari.IFenici,iFrigi,iMacedoni, gli Illirici, i Galati, gli Sciti,e l'eventuale concorso degli errabondi, e degli esuli diedero origine alla greca nazione,e furono i primi legislatoridella lingua.Gli Umbri, i Galli, gli Etruschi, i Sabini, i Campani , i Sanniti diedero origine alla latina, ognuno de' quali da parte sua,introducendoipropri termini,elapro pria maniera d'inflettere, concorse alla formazione di una nuova lingua non prima parlata, che fu il pro dotto di vari e diversi dialetti, quale indi,le vicende delle nazioni,ilprogresso nelle arti,nellescienze,e nella civilizzazione portarono a quello stato di perfe zione che tanto in esse ammiriamo.  223   L'opera dell'uomo non è mai stabile,come l'uomo stesso ; ha egli la sua nascita , la puerizia , l'adolo scenza,lavirilità,la decrepitezza,efinalmente muore per rinascere la materia sua corporea sotto di altre forme; cosi è delle lingue : infatti dalla Greca nacquero altre lingue;e di sotto le rovine dell'impero e della lingua del Lazio sorsero l'italiana, la francese, e la spagnuola.Ma perquantigradivisipervenne?quante mutazioni,e quante vicissitudini non bisognarono su bire prima di arrivare al grado di perfezione in cui sonoalpresente?Variecauseviconcorseroesicom binarono ; gli improvisi eventi degli affari politici, il sito, l'amenità de' luoghi, l'asprezza delle contrade, l'aspetto più o meno ridente di un altro cielo,la lem peratura diversa dell'aria,lalontananzaolavicinanza de'mari,delle selve,de'monti, la diversa indole degli uomini che si unirono , le forme diverse di governo e di religione , la coltura delle arti, e delle scienze , egualmente che i vari dialetti che si resero familiari per lafrequenza de'negozi diedero all'antico linguag gio forme affatto diverse.  221 Cacciati gli Ismaeliti da tutta l'Europa,ove aveano per qualchetempofattodimora,restòl'articoloarabo, checominciòaprefiggersiainomi;quindinonsicu rarono le desinenze de'suoni finali, l'introduzione di questo articolo fu la cagione primaria del mutamento dellalingua liberaepittricedelLazio nellelinguem o derne servili. Abbandonando gli Arabi la Gallia m e ridionale, la Spagna , le coste di Salerno e della Italia meridionale, lasciarono tuttavia la desinenza de'versi   puerile,senon vogliam dire,sonante.Non possiam però negare che dobbiamo loro le brevissime note dei numeri, i calcoli algebrici , vari nomi di astronomia e stromenti di gnomonica, con alcune notizie di bo tanica e di medicina. Vari nomi di fioried erbe, in cogniti ai nostri , furono recati dall'oriente dai cro cigeri ; intanto le arti e le scienze che 'mano mano siavanzavano,lenuove scoperlechesifacevano,ap portavano nuovi soccorsi e nuovi nomi alle lingue. Varie maniere di costruire addussero prre gli inglesi ed i francesi nell'italiano linguaggio,e varie pure di questoneintrodusseronelloro;cosisiaggiunse sem pre novità a novità, varie leggi di costruire, diverse maniere d'inflettere, originate in prima dalla negli genza della pronunzia , anche molto spesso tronca vansi non che le lettere, ma ben anco le intere sil-. labe : dal che ne avvenne che gli uomini domiciliati nello stesso suolo, degenti sotto lo stesso cielo,e sotto la stessa forma di governo cominciarono per effetto d'imitazione a adottare comunemente tal forma di pronunziare,checoll'andardeltempo divenneunuso, una legge. 5. La natura ha sempre prodotto degli uomini di genio, i quali e per la finezza del giudizio, e per la vivacità della immaginazione si sollevarono sopra degli altri ; ciò che dal volgo era enunciato di una maniera bassa e triviale, da quelli profferivasi con scelta, con dignità ed eleganza;furonoessiimitati perchè piace vano, e cosi discesero e si propagarono nel volgo le maniere più dignitose e più culte di espressioni ,  223 1 15   gli ornamenti della lingua cominciarono a mostrarsi in tutto il loro splendore ; si cercò d'imitare ipoeti, gli oratori, e si seguirono ne' loro vari stili. Questa fatica e questo diletto che prima s'ignorava in mezzo al fragore ed allo strepito delle armi , e fra gli in commodi de viaggi e delle emigrazioni , cominciò a seguirsi , a perfezionarsi dai filosofi nel libero ozio delle lettere , nel calmo silenzio della meditazione , nella tranquilla diligenza di scrivere. Cosi il linguaggio dapprima rozzo ed incolto per la tanta confluenza delle discordi locuzioni, cominciò a tingersi dello stesso colore,a vestirsi della stessa for ma,amostrarsiunasolalingua,chesottolalima degli uomini di genio e degli eruditi apparve finita e perfetta; ove isuoni sembravano aspri,furono con sultate le orecchie , si adottarono sillabe più scorre voli e sonanti ; ciò che pareva meno adatto ad espri mere una cosa si corresse e si rese più preciso. Da ciò chiaro appare che ogni lingua ha le sue parti essenziali esprimenti le idee ed i giudizi del nostro spirito, cioè i suoni articolati secondo idiversi offici che ognuna,nella espressione de'nostri pensieri,deve adempiere,edinciòconsisteilfondamento della lin gua che è opera della natura. Avvi un modo parti colare di costruzione e di combinazione di queste parti , una diversità di suoni e d'inflessioni che costituisce la differenza delle lingue, ed il diverso loro genio, e ciò dipende dall'opera degli uomini e dalle circostanze nelle quali si trovano.Ha finalmente ciascuna lingua de celebri scrittori,de'grandi parlatori,che altri  226   Il primo carattere della lingua, cioè il fondamento, forma l'oggettodioccupazione della filosofia,laquale ricerca ciò che avvi di naturale nelle lingue; il se condo appartiene ai grammalici, che si occupano delle forme e della proprietà delle stesselingue ; il terzo si tratta dai retori che ne considerano l'eleganza, lo stile e gli ornamenti. La prima svolge gli elementi naturali e sempre costanti del linguaggio,la loro unione relativa all'ordine, alla successione, ai tempi,ed alle circostanze delle idee e de' pensieri che si succedono nel nostro spirito, ed a questo riguardo illinguaggio è una pittura fedele delle nostre idee;questi elementi, che sogliono chiamarsi parti del discorso,si ritrovano identici in ogni lingua.La seconda riguarda la varia desinenza de' suoni, la loro inflessione, il modo di verso di costruire i medesimi suoni ; questa varia se condo le diverse lingue, o piuttosto forma la varietà delle lingue, perchè essa è opera dell'uomo non mica della natura. La terza rintraccia l'ornamento delle lingue,l'uso dellefigure,ele maniere vezzose,eper cosi dire voluttuose delle medesime ; essa è il risul tato della coltura e del genio. 6.Eglièverocheunuomo,ilqualeèdotatodi organi sani che funzionano normalmente,e di un'anima ragionevole, può formarsi idee degli oggetti che agi scono sopraimedesimi organi,puòimprimereleidee nella memoria, può richiamarle quando l'esige il bi  227 proccurano e si studiano d'imitare; in essi trovasi e deve ricercarsilaproprietàdellalingua,perchèessila recarono allo stato di perfezione e di pulitezza.   228 sogno,può riflettereedastrarre,tuttaviasenzaillin guaggio la nostra condizione sarebbe troppo degradata ; e quantunque i bisogni comuni ed i vantaggi della vita avvicinassero gli uomini e li mantenessero fra loro uniti, purnondimeno, senza la facoltà di manifestarci scambievolmente gli interni sentimenti e le idee , le società reslerebbero stazionarie'ó molto imperfette. Potrebbero i gesti in certo modo esserci utili,essendo l'espressione energica della natura :ma di qual aiuto sarebbero in distanza o nelle tenebre? come potreb bero indicare le cose passate ed a lungo intervallo da noi ? in qual maniera esprimerebbero tante varie m o dificazioni si dell'animo nostro , quanto degli esseri fuori di noi con tutte le gradazioni delle varie loro tinte e colori , con quella esattezza e precisione con cui sono espressedaisuoni articolati?igestinon po trebbero mai indicare inostri interni sentimenti,iloro gradi d'intensità , e certe oscure e delicate affezioni di cui l'animo è affetto. È opera del linguaggio ar ticolato il delineare e pingere con esattezza,con pre cisione e nella sua totale adequatezza tutto ciò che sentiamo,che sperimentiamo e che vogliamo trasmet tere nell'altrui animo ;esso analizza e scompone nelle sue parti i sentimenti , e dà ad ognuna di esse un segno preciso.Egli è vero che noi possiamo avere idee sensibilideglioggetti esterni,elepossiamo trattenere a memoria senza l'uso de' segni, che anzi non può prodursi un segno prima di averne formato l'idea che deve attacarsi a questo segno.Ma tante idee sono di tal carattere, che tosto formate sparirebbero senza al    229 taccarle al segno che le rende permanenti, e noi sa remmo nella dura fatica di sempre formarle di nuovo, talisonoperlapiùparteleideecomplesse necessarie, intellettuali, e tutte le nozioni astralte di virtù,vizio, giustizia, bellezza, deformità, differenza, uguaglianza. Senza l'uso delle parole le scienze non avrebbero p o tulo avere esistenza;poichè non avvi scienza pura mente empirica,cioè,che non abbia principi generali : l'individuale,essendo mutabile,non avendo necessità, non può esser base e fondamento di scienza ; or le nozionigenerali,iprincipi necessari non avrebbero potuto aver permanenza nello spirito senza i segni ; i segni li rendono stabili e pronti all'uso,ed isegni hanno servito d'occasione alla loro formazione, a tanti ritrovati,a tante ricerche:leparoleperchè?come? onde?da chi?quando?essenza,relazione,causa,at tributo sono fonti fecondi onde lo spirito possa met tersi in movimento e scoprire delle nuove vedute. Tutte le scienze sono nate,si sono accresciute ed hanno acquistato quel grado di estensioneediperfezione in cui le troviamo per aver ricercato ilperchè ed ilcome di un effetto, e tutti i passi e le idee, cominciando dal perchè e dal come sino all'ultimo risultato,sono state segnate dalle parole e permanentemente registrate nel linguaggio. Tante riflessioni potrebbero addursi intorno all'in fluenza del linguaggio sopra le idee ed il perfeziona mento delle nostre facoltà; ma non volendo esagerare nė deprimere i vantaggi dello stesso linguaggio ci li mitiamo a ciò che è della massima importanza.    230 Quasi tutte le operazioni riflesse del nostro spirito sonocomplesseerisultanodavarielementi;ma questi elementi sono cosi connessi nella unità del sentimento, che sembranoessereunsoloesempliceelemento;vero è che l'altività dell'analisi,penetrando nel seno dello stesso sentimento,ne distingue glielementi confusi;ma questa distinzionenon sarebbe permanente,durevole, e lucida senza il linguaggio e le parole, ognuna delle quali disegna ciascuno degli elementi distinti,non che i rapporti che si scovrono fra essi elementi . U n sol fatto sembra la sensazione, il giudizio, il raziocinio : l'analisi li decompone, ed il linguaggio nola e dise gna ciascuna parte della decomposizione , e presenta successivamente e distintamente il tutto;onde volen dosi replicare e riconoscere l'operazione, basta repli care e ripetere le parole. Il linguaggio in generale d e v e c o n s i d e r a r s i c o m e il p i ù p o s s e n t e a i u t o d e l l a m e moria , anzi esso costituisce una memoria artificiale. In vero, lo sviluppo e la coltura dell'uomo non con siste precisamente nella prontezza ed esaltezza del giu dicare, nella sola faciltà di ragionare,ma nella pron tezza di aver nuovamente le idee, le operazioni pas sate che possono servire al bisogno presente;per ri produrre con prontezza le idee è necessario che fos sero nette e scolpite, e tali si rendono per il linguag gio;illinguaggio,agevolando lamemoria,contribuisce moltissimo allo sviluppo ed alla coltura dell'uomo ; infatti sono in ragione direttalacivilizzazionede'po poli, e la perfezione del linguaggio.  Le paroledelle quali si compone illinguaggio non   231  sono che suoni articolati : esse per questo riguardo sono oggetto proprio ad agire sopra il senso dell'u dito, e produrre modificazioni ed idee nello spirito , i suoni articolati considerati in se stessi nulla espri mono , sollanto producono sensazioni , modificano a loro modo lo spirito , e tante sono le modificazioni quanti sono i suoni articolati che agiscono sopra l'u dito : di tutte queste modificazioni e di queste idee lo spirito ne ha coscienza, e ne ha memoria.Noi sap piamo che l'esperienza diviene più tenace,più solida, più infallibile quando è comparata : infatti acquistiamo le idee precise ed esatte delle distanze, quando si c o m bina l'esperienza della vista con quella del tatto. Or ogni idea di qualunque natura ella sia, a qualunque classe essa appartenga è una esperienza, è un senti mento distinto che si deposita nella memoria ;intanto questa idea,questa interna esperienza non riceve l’ul tima perfezione, l'ultima mano d'opera, siccome non si figge nella memoria onde possa a piacere richia marsi , che allorquando si combina colla esperienza dell'udito,colsuono articolato,quando all'idea,che abbiamo attualmente nello spirito e nella coscienza , si attacca la modificazione che produce il suono ar ticolato; questo suono tanto per essere giudicato iden tico alla idea a cui si attacca, quanto per essere si multaneamente presente allo spirito, diviene rappre sentativo dell'idea,come l'idealodiviene del suono, e fa sì che l'idea sia compresa tulta e ristretta dentro la capacità e la periferia del suono,ed acquista m a g giore sensibilità per la sensibilità del suono in cui è   ristretta ed a cui è attaccata , e cosi riceve l'ultimo contornamento, l'ultima precisione e finitura. Cosi le parole cielo,mare,monte,temperanza,giustizia ecc. Questo vantaggio è comune a tutte le idee ed in q u e sto influisce più potentemente il linguaggio sopra le idee. Ciò è chiaro non solo nelle idee sensibili , m a ancora nelle intellettuali,nellenecessarie,siano sem plici,siano complesse,e con particolarità nelle idee de' numeri, e nelle idee universali. Il numero non è che l'aggregato di molte unità omogenee ; esso si forma col ripetere ed aggiungere l'unità a sè stessa. Noi non possiamo , sotto il m e desimo atto di conoscenza,abbracciare più di quattro ocinqueunità insieme;ma illimitede'numeri non si arresta al quattro o al cinque , esso è indefinito. Supponghiamo di avere coll'idea il termine dell'unità ed il segno dell'addizione, cioè uno e più, e proce dendo progressivamente uno più uno più uno più uno, ciascuna di queste addizioni, ed indi il numero che ne risulterebbe sarebbe cosi confuso che noi non po tremmo affallo determinarlo,e molto meno potremmo formarne idea onde poterla distinguere da un'altra ; come infattipotremmo senza isegni avere l'idea 2000 e distinguerla da 1999 ? in questi numeri come ogni parola si affigge ad ogni passo della progressione,la parola ne determina e precisa il numero e l'idea, e per mezzo de' segni noi distinguiamo l'una dall'al tra, e le mettiamo in combinazione ed in rapporto , eneformiamolascienza;questescienzedunque,la necessità e l'utile che ne deriva si devono al linguaggio.  232  Leideegeneralinonhannoalcunmodellonellana tura a cui corrispondano , ma sono il prodotto della azione dello spirito sopra le idee individue. Noi non possiamo numerare tutti gli oggetti della natura, che sono o possono essere in rapporto con noi , perchè non possiamo tutti colle loro differenze e proprietà trattenerli nella memoria ,e riprodurli distintamente quando vogliamo, per la stessa ragione non possiamo dare ad ognuno un nome proprio, essendo essi di un numero indefinito; questa impresa è superiore alle nostre forze. Ma lo spirito dell'uomo , che ha nella sua attivitàdellepotentirisorse,paragonandogliog getti, ed interponendo fra essi la identica sua cogni zione, conosce ciò che l'uno è all'altro, e questi ad un altro,ecosidiseguito,evedendolesomiglianzee le analogie da una parte , e le differenze e dissomi glianze dall'altra , per effetto della sua identica ve duta ed indivisa interposizione fra questi oggetti e le loro qualità, riunisce quanto in essi trova d'identico, l'astrae da ciò che li diversifica, ne forma una con cezione di tal natura che tutti gli contiene e li rap presenta ; tale concezione non è che una veduta reale dellospirito,ma chenonhaalcunarealtànellanatura; essa è più o meno estesa nellasua compreensione, d'on de nascono le idee generali di specie, generi, classi, ordini, famiglie. Or tali idee , non avendo originale nella natura, perchè semplici vedute dello spirito,senza un segno che le rappresenta svanirebbero, nè potreb bero aversipresenti al bisogno ;laddove laparola rende permanente l'idea generale, tutta , per cosi dire , la 233 ܐ  chjude nel suo ambito, e rappresentando tutta l'idea generale, rappresenta tuttele idee identiche contratle in un solo gruppo, ed identificate in una sola idea, a questo riguardo ogni termine generale è l'espres sione concisa di un completo e perfelto metodo ;poiché contiene ed esprime confronti , giudizi , astrazioni e maniere di generalizzare; e siccome il termine gene rale si considera come unico e semplice in sè stesso, cosi circoscriveefissailimiti della idea,eledà l'ul timo grado di precisione. Le parole adunque non solo associano le idee in dividuali in un modo indipendente dall'ordine di ac $ quisizione,onde poterleconfaciltàrichiamare,ma sono ancora necessarie per fissare irapportide'con fronti, i termini de' giudizi, per dividere gli oggelti della natura e le loro proprietà , per astrarre, per g e neralizzare,e per rendere facile in fine le scienze tutte. Ogni idea dunque ha bisogno di una parola che la rappresenti; se è concreta per renderla indipendente dalla sua sensazione,e per tenere raccolte in una m a niera permanente tutte le idee semplici di cui si c o m pone,e per richiamarla tosto alla memoria : se è astratta per tenere riunite in un solo gruppo le idee astratte di cui è composta, e formarne un modello distinto e durevole nella memoria. Il vantaggio però più generale e proprio del lin guaggio si è quello, per cui tutti gli uomini mettono in comunicazione tutteleloro idee,iloro sentimenti, ilorobisogni ed imutui soccorsi;poichè essendo co muni i segni che l'indicano, ne segue che colui che  231   ascolta esegue le stesse operazioni interne di colui che parla,cioèeccitainsè,edunisce successivamente nel suo spirito quelle idee che si sono eccitate successi vamente in colui che parla,con questa sola differenza, che questi analizza il proprio pensiero ed attacca ad ogni elementoun termine,laddovequello sintesizza, riunendo cioè le idee con quell'ordine con cui ven gono indicatedalleparole.Questo vantaggioperònon ha egualmente in tuttiilsuo pieno effetto, perchè le parole presso tutti non hanno lo stesso grado di pro prietà, di precisione e di analogia , quindi variano i modi d'intendersi come variano i mezzi di comuni carsi. L'influenza del linguaggio su questo rapporto è di una utilità indefinita,poichè,colla comunicazione delle idee e de sentimenti, lega fra loro gli uomini, e consolidà le basi della umana società. Coltivato e diretto dall'arte, applicato ai vari oggetti si trasforma e veste vario stile;ma ciòmerita l'attenzionede're tori, e degli oratori.  Sebbene igeroglifici,lecifrealgebriche,isegni te legrafici, gli emblemi ed altri segni convenzionali pos sano rappresentare le nostre idee,tuttavia il sistema de' suoni articolati è da preferirsi a qualunque altro mezzo di espressione, tanto per la facilità, pel numero , quanto perché può adattarsi a tutti i luoghi, a tutti i tempi , ed a tutte le circostanze per la portentosa varietà dell'articolazione ed inflessione de' suoni.La scritturaèunaespressionedellinguaggiocome questo laèdelleidee;essaperciòèsempre relativaedinra gione diretta del linguaggio , talchè la perfezione di 235   236 quella dipende dalla perfezione di questo ; poiché,come laparolarappresental'idea,lascrillurarappresenta le parole.   l'autore non ebbe più tempo a pubblicarla , sì che restò inedita con l'altro trattato teologico su'sacramenti. La dottrina intanto di que st'altra opera che titolava Organo dello scibile umano o Lo gica, scritta forse più che quindici anni fa, è sempre con forme al sistema dell'autore, e benchè sembri non uscir dalle vie segnate alla logica da Aristotile e dagli scolastici, trovi tuttavia nell'Introduzione quanto oggi si richiede da un trat tato di logica che non voglia la nota di logica formale , sic come si dice. « La logica , vi è scritto, ha la sua deriva « zione dal greco hóros che in latino si traduce verbum , « cioè parola , discorso , perchè essa nella sua essenza non « è che l'atto vivo che prorompe dalla virtù ragionevole « dello spirito umano , che colla sua unità abbraccia e tra « scorre dalla potenza dalla quale emana all'obbietto che lo « fa nascere ; essa primamente distingue ed unisce questi « due termini , i quali possono considerarsi come due sil « labe fondamentali che connette l'atto logico , e risulta la « parola feconda è che senza dividersi in sè si protende , « abbraccia, e s'interpone fra tutti gli esseri che esistono e « che possono esistere ; ne conosce i rapporti e le relazioni , « li distingue e li riunisce in un sistema vastissimo e c o m « prensivo. Questa forza logica ripassa sopra la fecondità a dell'atto creatore e conservatore della Causa prima , il quale « senza scindersi produce la immensa varietà degli esseri e « li coordina in un sistema portentoso ; lo riflette e lo river « bera in sè , e per le relazioni che tra essi scorge li rias ime in unico sistema cosmico. Questa forza che si an « nunzia nella parola vivente ed operosa , con la penetrante (1) Questo m s . porta il titolo: Elementi di Filosofia fondamentale. Organodelloscibileumano,oLogicadelP.BenedettoD'Acquisto da Mon reale professore di Diritto Naturale e di Etica nella R. Università degli studj di Palermo.Consta di quaderni 6,tutto di mano dell'autore,e disposto per la stampa : oggi è presso i fratelli Matteo e Filippo L o rico di Monreale,nipoti del D'Acquisto,insieme all'altro ms. su’Sa cramenti, di carte 140 , e contenente 18 capitoli.  27   « sua luce scorta e dirige le operazioni delle altre facoltà « dello spirito al trovamento del vero che è l'obbietto natu « rale della intelligenza dello spirito ; e trovatolo dà il m o d o « onde poterlo convenientemente mostrarlo agli altri ». Così il nostro filosofo dà a fondamento della logica formale una logica che oggi è detta reale , e all'arte logicale prepone la scienza del pensiero.Ilquale appunto secondo che congiunge diversi estremi piglia nell'esercizio logico diversi stati o gradi progressivi come son detti dall'autore. Chè , « il primo grado « si trova , ci dice il nostro , nella nascita dell'atto logico e « nel primo è radicale , nel quale esiste la potenza , l'oggetto « e l'atto , il quale separando nel primo istante la potenza « dall'oggetto , congiunge indi l'uno all'altra ed emerge l'è, a prima parola logica che esprime la nascita dell'individuo « umano; il quale è ciò ch'egli è,ma sebbene è ciò che è, « non dice però sono; allora dice sono, quando intende il si « gnificato della parola vivente è: e ciò succede in virtù del « secondo atto , il quale comprende ed abbraccia il primo , « che coll'interporsi distingue la potenza e l'oggetto contenuti « cell’atto,e dice sono;ciò che costituisce il secondo sviluppo « logico ; il quale forma il piano generale in cui la potenza « conoscendo ed affermando sè stessa , conosce in sè ed af « ferma tutte le modificazioni ed in esse tutti gli oggetti m o « dificanti, pe'quali la potenza si manifesta in diverse guise. « L'atto logico adunque s'interpone tra le sostanze degli o g « getti , le distingue e le congiunge , ed il risultato è l'idea « generaledell'essere;terzosviluppo.L'attologicos'interpone « t r a l ' e s s e r e e d il s u o m o d o , li d i s t i n g u e e li c o n g i u n g e ; e d « il resultato è l'oggetto qualificato. L'atto logico s'interpone « tra la qualità di un oggetto e quella di un altro, le di « stingue e le congiunge , ed il resultato è l'idea specifica « della qualità. L'atto logico s'interpone tra l'azione di un « essere e quella di un altro , le distingue e le congiunge , « e il resultato è l'idea di causalità.Infine, l'atto logico s'in « terpone tra tutti questi resultati dello sviluppo graduato « dello stesso atto logico ,ed il resultato è l'idea comprensiva  28 1   « del sistema.L'alto logico adunque ha una capacità univer- « sale ed una forza comprensiva che si estende ed abbraccia « tuttociò che è.L'atto di ogni facoltà si limita alla indivi « dualità ; l'atto logico trapassa la individualità , e si eleva « alla massima generalità ». Ho voluto riferire, o Signori , questo lungo passo , si perchè è già di un'opera inedita, e sì perchè si abbia come il nostro appuntava nelle altissime ra gioni della scienza quella che comunemente si crede non e s sere che solo disciplina pratica , e spesso vanamente sottile, del discorso umano. È sempre , intanto , la stessa dottrina che va ripetuta per più capi , e che si ha spiegata poi in tutta la sua sintesi stupenda nel Sistema della Scienza Universale . Nella quale opera il D'Acquisto ha lasciato un bel monumento ,come al trove ebbi a dire (1), della filosofia in Sicilia a metà del se colo X I X . Questo sistema della scienza universale ha il suo perno nell'atto infinito che sostiene come creativo, conserva tore e imperativo , l'universale ordine delle cose , in cui l'au tore trova che tutto è vita , tutto forza e movimento di un'immensa armonia ($ 544);tanto che esso sistema è lo specchio di tanta universale armonia, metafisica, fisica, m o rale,naturale esovrannaturale,laquale ha principio nelDio che concepisce , produce e accorda il concetto e il prodotto della creazione primaria e secondaria , e ha termine nel Dio della rivelazione , della grazia e della redenzione. Vero è che il nostro filosofo, fedele al suo metodo , non va sulle prime alle alte regioni della ontologia; ma è vero eziandio che non si chiude mai , secondo l'uso de'psicologi , negli stretti limiti della psicologia e della ideologia : e però il suo libro dà un vero sistema comprensivo (2) delle universali ragioni della (1) Ved . il nostro libretto Sullo stato attuale e su'bisogni degli studi filosofici in Sicilia , p . 5 2 e s e g g . P a l e r m o , 1 8 5 4 . (2) Saprà bene il lettore che il Contı , nella sua lettera al pro fessorNaville sulla filosofia contemporanea in Italia (ved.Appendice allaStoriadellaFilosof.,Vol.IIp.538),poneilD'Acquistotra’seguaci del metodo comprensivo.  29   scienza , esposto seccamente e quasi con metodo geometrico, ma sempre con la medesima profondità di speculazione e logico rigore. Che se poi quest'opera del nostro senta forse più che altra dell'odore delle dottrine del Miceli , basta ri cordare l'occasione sopra notata ond'essa nacque , perchè si abbia pronta spiegazione delle molte reminiscenze miceliane che occorrono frequenti al lettore. In quanto adunque a n a tura della nostra cognizione e a quel che in essa si accolga e scopra la riflessione, il sistema ripete le dottrine stesse e l'analisi minuta che si hanno nella Psicologia , nel Saggio sulla legge fondamentale del commercio tra l'anima e il corpo dell'uomo , e nella Ideologia ; m a per quel che concerne la ontologia , qui si ha tutta la teorica compiutadella creazione e dell'ordinamento idealo e reale, metafisico, fisico e morale delle cose , con le « investigazioni altissime dell'umano sa pere » : tanto da chiamare appunto per questa ragione Si stema della Scienza Universale il sistema di cui l'autore non tirava, a suo dire, che brevi linee, ma cosiffatte « da som « ministrare dal punto supremo della sua altezza le vedute « anticipate indicanti i nessi essenziali e le vere tendenze « della scienza,che poi illavoro dello spirito umano potrebbe « condurre ad effetto » (p. 14 ). L'ideale e il reale vanno iBenedetto D’Acquisto. D’Acquisto. Acquisto. Refs: Luigi Speranza, “Grice ed Acquisto” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.

 

Acri (Catanzaro). Filosofo. Grice: “Acri has explored quite a few topics – all in the good Lit. Hum. Oxon. tradition – and since he tutored at an even older varsity, kudos! He has explored ‘Amore’ and he expands on the Athenian dialettica – he in fact distinguishes between turbo and sereno – He left his notes on sereno as an unpublication, but a tutee cared to publish them ‘Unpublication’ – There is turbo, and there is turbato – as applied to ‘colloquenza’ qua conversational dyad,  Acri speaks of the colloquenza itself as being ‘turbata’ – he relishes on that – if there is no ardimento, and the Romans loved one – what’s the good to argue? The second phase of the dialettica is ‘serena’ – I find the distinction genial and in a way corresponds to my epagoge/diagoge distinction – the ‘turbo’ is dyadic – say A wants to influence B (turbo 1), B gets influenced and expresses it in a second conversational move (turbo 2). – Dialettica turbata – they reach the principle of conversational helpfulness and they arrive at the ‘sereno’ – dialettica serena’ – until the next turbo arises, that is1” - Grice: “I like Acri – he is a platonist, and he is explicitly against the positivists, whom he contrasts to the ‘filosofi sobri.’ His own theory of ideas is hardly platonic, but finds its base on Vico, which is nice – since, if an Italian does not understand Vico, no one will! –Acri explores the connection between ‘idea’ and ‘expression,’ and considers the ‘radice’ (root or stem) of expressions – he has commented extensively on ‘Cratilo.’ In any case, he is a sensualist, so at the root of it all is what he calls, after Aristotle (“De Interpretatione”) ‘il fantasma’  and the ‘imagine.’ Italian philosopher, author of an essay on Plato’s and Vico’s theory of ideas. “Abbozzo” essential Italian philosopher. Grice: “I love Acri’s rendition of the Cratilo into the vernacular!”  Filosofo. Opere: “Del sistema in genere”; “Prose;  “Abbozzo d'una teorica delle idee” (Palermo: Stab. tip. Lao, -- In memoria di Alfonso della Valle di Casanova); “Sulla natura della storia della filosofia” (Bologna: Nicola Zanichelli successore alli Mrsigli e Rocchi); “Cratilo – Menone – Apologia di Socrate, Critone -- Dizionario Biografico degli Italiani. IL CRATILO. Due solenni questioni intorno all'origine della lingua toglie ad esaminare Platone in questo dialogo; se cioè i vocaboli o i nomi abbiano in sè da natura lor propria ragione, o vera mente se retto sia il nome che da chiunque a cosa qualunque vien posto. Cratilo segue la prima sentenza: Ermogene la seconda. Platone ammette alcun che di vero in amendue, sebben apertamente nol dica e le confuti anzi tuttadue. Pertanto facendo capo dalla seconda, in per sona di Socrate, così contro di Ermogene la argomenta. Il nome parte è del discorso. Or potendosi tenere discorso vero e falso, chiaro è che sia possibil dir anco un nome vero ed un falso. Se dunque la sentenza di Ermogene stesse vera, che ogni nome da chiunque posto Due solenni questioni intorno all'origine della lingua toglie ad esaminare Platone in questo dialogo; se cioè i vocaboli o i nomi abbiano in sè da natura lor propria ragione, o vera mente se retto sia il nome che da chiunque a cosa qualunque vien posto. Cratilo segue la prima sentenza: Ermogene la seconda. Platone ammette alcun che di vero in amendue, sebben apertamente nol dica e le confuti anzi tuttadue. Pertanto facendo capo dalla seconda, in per sona di Socrate, così contro di Ermogene la argomenta. Il nome parte è del discorso. Or potendosi tenere discorso vero e falso, chiaro è che sia possibil dir anco un nome vero ed un falso. Se dunque la sentenza di Ermogene stesse vera, che ogni nome da chiunque posto a qualunque cosa sia retto, deriverebbe che tutti i nomi, sì veri che falsi, sarebbono del pari retti, e che la cosa medesima potrebbe aver nomi altrettanti, quanti individualmente dagli uomini le fossimo posti, e che tosto anzi gli avesse, che quel sopressa li pronunciassero. Inoltre, se le cose non han già sol esse una stabilità lor propria da natura (contro il dir di Protagora, esser elle a mo' ch'a noi paiono; giacchè se così fosse, non potrebb'esser uno più sapiente di un altro); ma stabilità pari ad esse han pure le azioni loro, per modo che, se unoe ha da tagliare una cosa, per ret tamente ciò fare, ei non la dee tagliare a ca priccio suo, ma nel modo che la natura della medesima richiede di tagliarla e che taglisi e con quello con che debbe tagliarsi; così pur segue che il nominare le cose, send'un'azione, noi non le dobbiamo nominare a libito nostro, ma nel modo che la lor natura richiede di nominarle e che nomininosi e con che deb bonsi nominare. Arroge, che se il giudicare poi di quello con che fassi una cosa, cioè del suo stromento, se sia ben fatto, non pertiene al l'artefice che lo fa, ma a colui che ne usa a modo (giacchè il giudicar di un pettine se sia ben fatto e acconcio al tessere, non per tiene a falegname, ma a tessitore, e il giu dicar di una nave, di una cetra, se sian ben ſatte, non pertiene ai loro fabbricatori, ma a piloto e a citarista); così pur segue, che il giudicare del nome di cosa qualunque, se sia ben fatto, cioè se la indichi ed insegni vera mente, non pertenga a chiunque nè a chi lo pone, ma a colui che a modo ne usa, al dia lettico; e per conseguenza rimane chiaro che il porlo non è opra di chiunque, ma di solo colui, che ragguardando al nome che in ispezie a ciascuna cosa da natura conviene, colle let tere e colle sillabe è in grado di render l'idea del medesimo. A questo discorso non sapendo Ermogene che rispondere, prega Socrate, che voglia spie gargli e fargli conoscere cotesta ragione, che il nome ha in sè da propria natura; e quindi soggiugnendogli ch'ei non ammettendo la sen tenza di Protagora, esser le cose come paiono a ciascuno, non poteva tener vero quello che in virtù di tal opinione Protagora affermava dei nomi, Socrate allora il conforta a ricorrere ad Omero, il quale distingue nelle cose stesse i nomi ad esse dati dagli Dei da quelli dati dagli uomini; avvegnachè gli Dei chiamino le cose con nomi, che ad esse rettamente convengono. E così movendosi a spiegare Socrate, secondo Omero, come ad Astianatte, Ettore, Oreste, Agamemnone, Atreo, Pelope e Tantalo bene stieno que nomi ch'hanno, dalla menzione di quest'ultimo naturalmente viene condotto a spiegar la ragione del nome pur del suo padre, cioè di Giove, e quindi sale a quello di Saturno e di Urano. Intanto rispetto ai nomi che sono posti agli uomini ed agli eroi, egli avverte di non doversene troppo fidare, perchè molti di essi, dicegli, sono stati presi da que de pro pri progenitori, o sono stati posti secondo gli auspici e voti per loro, come Eutichide, for tunato, Sosia, salvato, ecc., e per ciò dando l'addio a tali nomi, passa a spiegare quelli delle cose che sono sempre nello stesso modo ed immutabili, vale a dire ai nomi Dii, demoni, eroi, uomini, ed al nome corpo ed anima, dai quali l'uomo è composto. Ma desideroso Ermogene, nel modo che aveva inteso la ra gione del nome di Giove, di saper anche quella del nome degli altri Dei, Socrate, dopo aver formalmente protestato, che per riguardo agli Dei, affatto nulla di loro ei sapeva nè con quai nomi tra loro si chiamassero, nondimeno dice, che si accingeva a dar la spiegazione di tai nomi, secondo l'opinione ch'ei credeva avere avuto gli uomini nel porre i nomi ai medesimi; e così fra questi pel primo comincia da quello di Vesta.Il nome per esser retto, come si disse, bi sogna ch'esso abbia una certa natural conve nevolezza con quello ch'ei nomina; per dunque conoscere se un nome sia retto e stia bene colla cosa da esso nominata, bisogna pur conoscere l'essere della cosa medesima. Or intorno all'es tempi di Socrate e di Platone; l'una degli Eraclitiani, che credevano le cose esser sempre in moto; l'altra degli Eleatici, i quali opinavano, che fossero sempre in riposo. Secondo il proprio sistema ciascuno spiegava pure i nomi; onde Socrate, nel dar l'etimologia del nome Vesta, riferisce anche la sentenza di queste due scuole filosofiche dicendo, che gli Eleatici il nome di Vesta, Eatix (Hestia), perchè, second'essi, in antico in vece di obaix (ousia), essenza, en tezza, si diceva anche aix, esia, il derivavano da siva (einai), essere, mentre gli Eraclitiani, prendendolo per sinonimo di oaix, osia, il de rivavano da 33siv (othein), cacciare, spingere. Dopo questo passa ai nomi degli altri Dei, e quindi a quello del sole, della luna, delle stelle, della terra, dell'aria, delle stagioni e dell'anno; e quantunque la maggior parte di questi paia spiegarli secondo il sistema di Eraclito; tuttavia havvene alcuno, la cui spiegazione può anche convenire al sistema degli Eleatici; finchè ve nendo ai nomi della prudenza, scienza, sa pienza, giustizia, fortezza, virtù, vizio, ecc., e a quelli della tristezza, del diletto e a tanti altri, quasi tutti ei li spiega un po' lepidamente ed ironicamente, ridendosi degli Eraclitiani, col riferire tutto al loro modo, come se le cose fossero sempre in moto. Ma questo modo di dichiarar la ragione del nomi, come facevano gli Eraclitiani, semplice mente per mezzo di una superficiale e succes siva decomposizione del medesimi in altri nomi, non appagava intieramente Socrate. Impercioc chè, dice egli, se uno interroga intorno alle parole, da cui è composto un nome, e poi di nuovo intorno a quelle, da cui sono composte queste medesime, e così continua sempre oltre ad interrogare, è necessario venire alla fine ad una parola, la quale non si può più decom porre, e di cui nulla più sappia quegli che ha a rispondere. D'altra parte però se uno non sa dar la ragione dei primi nomi, non sa certo darla del derivati, che si debbono spiegare per mezzo del primi. Per la qual cosa a rintracciar la ragione del primi nomi ei si fa nel seguente modo. I nomi tutti, sì primi che derivati, deb bon dichiarare come veramente ciascuna cosa è. Ora se noi non avessimo nè voce nè lingua, e dovessimo indicare le cose, certo, come i muti, colle mani e col capo e con tutto l'altro del corpo noi tenteremmo di significarle, elevando le mani verso del cielo per indicar quel che è alto e leggiero, e per l'opposito abbassandole verso terra per indicar quel che è basso e grave. Dal che rettamente ei conchiude che il nome per esser retto, cioè per poter indicare come vera mente una cosa è, dee pur anco essere un'imi tazione, che la voce fa di quella cosa, ch'uno per mezzo della voce toglie ad imitare onde fi gura e il color delle cose, la musica il loro suono, così l'arte del nominare imita la loro es senza per mezzo di sillabe e lettere. E per di mostrare poi come per mezzo di sillabe e let tere uno possa ciò fare, oltre al distinguere egli le lettere in consonanti e vocali e semi vocali ecc., ei fa pur osservare in molte di esse un valor loro proprio, facendo avvertire nel l'elemento r il valore d'indicare il moto e ciò che è aspro e duro, nell'elemento l quello d'in dicar ciò ch'è liscio e molle, e così un proprio valore dà egli a molte altre lettere. E di que sta cognizione pertanto intorno al valor delle lettere, come anche della cognizione della na tura delle cose fornito lo istitutore dei nomi, afferma Socrate, che in quel modo, che i pit tori per render l'immagine che vogliono effi giare, or adoprano un colore or un altro ed or ne mescolano molti insieme, così egli nel far ciascun nome per ciascuna cosa, adope rando l'elemento or di una lettera or di un'al tra ed or mescolandone più insieme, secondo che l'immagine della cosa ch'ei voleva nominare pareva richiedere, abbia formato i primi nomi; e quindi da questi primi, sempre coll'imita zione per mezzo di sillabe e lettere, abbia pur composti tutti gli altri, e che questa sia la vera ragion de nomi. Secondo un tale ragionamento pare che Socrate, che è quanto dir Platone, propenda per la sentenza di Cratilo, il quale affermava, avere gli esseri in sè da natura la ragion del loro nome. Nondimeno non esser tutti i nomi retta mente posti conforme alla natura delle cose, che nominano, il dimostra poi nel seguente modo. Il nome, dice egli, è uno stromento, il qual si fa per indicar e insegnar le cose come veracemente sono. Or ogni stromento sup pone un artefice; e buono essendo quello che è fatto da un buon artefice, e cattivo quel che è fatto da un cattivo, ne segue che anche i nomi saranno altri bene, altri mal fatti. Cratilo pretende che tutti i nomi, come tali, cioè in quanto son nomi, son tutti ben fatti e retti; per modo che se uno dà a qualcuno il nome che non gli conviene, costui parrà sì ben averlo, ma esso appartiene propriamente a colui, la cui natura viene dichiarata dal nome. Dun que se tutti i nomi sono retti, ripiglia Socrate, non più anco si potrà dire il falso. No, non si può dire il falso, soggiugne Cratilo, perchè dire il falso è dir quel che non è; or quel che non è, non si può pensare nè dire. E che dunque, replica Socrate, fa colui che ti chia masse o ti salutasse col nome di Ermogene, mentre che tu sei Cratilo? costui non chiame rebbe, non saluterebbe te, ma un altro? di rebbe egli qualche cosa o direbbe nulla? Costui, risponde Cratilo, non farebbe altro, ch'un van un'altra prova. Il nome, dice egli, secondo quel che da noi si è ammesso, è una imitazione, la quale si fa per mezzo delle lettere e delle sillabe, come la pittura imita coi colori; e per ciò in quel modo che la pittura, se, nello effigiare le cose, vi adatta i convenienti colori, effettua bene e belle le loro immagini; così pure l'arte del nominare, se per mezzo delle lettere e delle sillabe imitando l'essenza delle cose, saprà ad esse adattare tutto quello che conviene e che loro è simile, bella ne effettuerà l'immagine; che se no, effettuerà sì bene un'immagine, ma non già bella, per conseguenza i nomi ch'essa fa, gli uni saranno ben fatti, e gli altri no. Cratilo a questo energicamente si oppone, di cendo che se in un nome si muta, si traspone, o si toglie o si aggiugne una lettera, non so lamente non iscriviam bene tal nome, ma non lo scriviamo affatto, anzi esso diventa subito un'altra cosa che il nome. Socrate concede ciò aver luogo ne numeri, a quali se uno toglie od aggiugne un'unità, subito diventan essi un altro numero da quel che eran prima, ma non già nelle qualità e nelle immagini delle cose; poichè se le immagini dovesser aver tutto quello che ha la cosa di cui son immagini, non sa rebbero più immagini, ma rimarrebbero la cosa stessa di cui elle appunto sono le immagini; e per ciò neanco i nomi debbono aver tutto quel che ha la cosa di cui sono nomi, nè es serle in tutto e per tutto simili; perchè, se così fosse, ne avverrebbe, che gli esseri sarebbero tutti doppi, e non si saprebbe più dire qual fosse proprio la cosa e qual solo il nome. Per la qual cosa a giudicare se un nome sia ben fatto, basta che in esso si trovi il tipo della cosa di cui esso è nome; e quantunque si debba concedere, che più retti e belli sian que nomi, che per la gran parte son composti di lettere convenienti; tuttavia non si può sostenere, che un nome, il quale non abbia le lettere simili alla cosa che nomina, non possa indicare la medesima. Ed in conferma di questo Socrate adduce il nome azXood:ng (sclerotes), durezza, nella cui composizione in vece di entrarvi ilr, il cui valore è appunto d'indicare ciò che è duro e aspro, v'entra anzi il X, l, che indica tutto il contrario, ciò che è molle e liscio; nondimeno quand'uno il pronuncia, tutti sanno quello ch'ei vuole dire e quello ch'egli ha in mente; così che fa pur d'uopo conchiudere, che le cose s'indicano non solo per mezzo dell'imi tazione delle medesime, che si fa colle lettere e colle sillabe, ma ancora per mezzo dell'uso e della convenzione. Che se dunque tutti i nomi non son posti convenientemente secondo la natura della cosa che nominano, ei si vede quanto senza fonda somi glianza tra essi e quelle, che chi conosce i nomi conosce anche le cose. Del resto, anche dato, continua Socrate, che per mezzo del nomi si possano conoscere le cose; tuttavia essendo essi, anche quelli che rettamente conforme la natura delle cose sono posti, solamente imma gini delle medesime, il miglior modo di cono scerle sarà investigarle per esse, una per l'altra a vicenda, se a sorte cognate sono, e ciasche duna per sè, e così venirle a contemplare nella verità loro, e non solo nelle loro immagini. Intanto come questa verità, questa cognizione si possa conseguire lasciando ad investigare un'altra volta, pel presente ei si contenta di far vedere, che qualcosa di stabile e fermo è nelle cose, e che oltre ad esservie un viso bello, ei v'ha poi un bello in sè, che non è passeggiero nè soggetto a movimento o flusso, ma immu tabile e sempre lo stesso; pel che rettamente conchiude dicendo, che non retta gli pareva la sentenza di Eraclito, il quale voleva che tutto fosse in centinuo flusso. Cratilo però alle ra gioni di lui non si acqueta, onde Socrate il prega, che più attentamente volesse ancora esaminare la cosa, e, quando gli venisse fatto di trovare la verità, si piacesse di fargliene partecipe.Così termina il dialogo, dal quale si vede, come già in principio di questo argomento dicevamo, che Socrate, e nella sua persona Pla tone, quantunque confuti la sentenza di Ermo gene e quella di Cratilo, nondimeno, ancorchè espressamente nol dica, molto di vero ei rico nosce in amendue, anzi le rettifica. In fatti, se concede a Ermogene esser lecito agli uomini porre nomi alle cose; non gli concede però ciò essere lecito a tutti, com'ei pretendeva, ed afº ferma non potersi porre a capriccio, se hanno ad essere ben posti, ma richiedersi un'arte, e per ciò esser opra di solo colui, che è in istato di rendere per mezzo del nome l'idea della cosa che vuol nominare; come dall'altra parte, se ammette con Cratilo avere i nomi da natura lor ragione, non conviene però che tutti sieno rettamente posti e stieno a capello; e se pur gli concede migliori essere i nomi che per mezzo di lettere e di sillabe esprimono la na tura delle cose che nominano; tuttavia non gli consente, che assolutamente non abbiansi a chiamare nomi quelli che non sono così for mati; giacchè l'esperienza ci dimostra esservi nomi, i quali, senza che abbiano alcuna lettera simile o corrispondente alla natura della cosa da lor nominata, per via del solo uso noi ve niamo posti in grado di ottimamente intenderli e riferirli a cose, che non hanno punto di si mile col medesimi. Chi è versato nella lettura delle opere di Pla tone facilmente si persuaderà, che questo divino oltre all'addurre le prove dell'immortalità dell'anima umana, scopo suo fu pur anco di rappresen tarci il quadro del filosofo morente; nel Gorgia, oltre lo scopo di far vedere i difetti dell'oratoria politica e sofistica, ebbe pur anco quello di far la difesa di se stesso, perchè non si fosse dato alla vita pubblica; noi dunque ora nel Cratilo dobbiamo pure investigare, se egli oltre al di mostrare, che la vera origine e ragion de nomi non si dee derivare nè dalla stessa natura sola nè dal solo arbitrio umano, abbia pur avuto intenzione di dimostrare ancora qualch'altra cosa pratica. Erano ai tempi di Platone intorno allo essere delle cose, come abbiam già detto, due sentenze, l'una degli Eraclitiani, i quai credevano ch'esse fossero in un continuo flusso o moto; e l'altra degli Eleatici, i quali opina vano, che fossero sempre in riposo. Ciascuna di queste due scuole (come tutti in ogni tempo, e come anche vediamo aver fatto il nostro Vico), per confermare le loro dottrine, i loro sistemi, ricorrevano all'etimologie delle parole, credendo in queste trovare la ragione di quelli. Ma, quantunque lo studio delle etimologie talora conduca alla cognizione delle cose, Platone tut tavia non vi aveva molta fede, sì perchè ne nomi stabiliti a sorte dall'uso e dalla consue tudine, di rado e forse quasi mai è possibile trovar la loro ragione e la verità di quello che nominano; sì perchè nemmanco sulla strada più vera e più sicura ci mettono quelli, che dall'in gegno e dalla potenza umana fur posti. Imper ciocchè chi pose i primi nomi alle cose, com'egli dice, li pose, quali credeva che queste fossero; or sei non aveva una retta opinione delle cose, e ad esse pose i nomi secondo l'opinione ch'ei n'aveva, noi rimarremo ingannati, se il se guiremo. Per far vedere adunque in che vano e fragile fondamento si appoggiassero le scuole filosofiche che così facevano, e metter in chiaro l'insufficienza di questo loro metodo per venire alla cognizione delle cose, Platone in questo dialogo facendo una lunga esposizione di etimologie, sebben acute ma strane, di cui molte forse raccolse da vari libri, mise in ridi colo l'abuso di tale studio, validamente dimo strando, che le cose debbonsi piuttosto cono scere per mezzo d'esse medesime, che per mezzo de' nomi, che sono soltanto una loro adombra zione; e così, come metodo a ciò acconcio ed efficace, colloca poi egli alla fine del dialogo, come opposta diametralmente alle opinioni degli l'iraclitiani, la sua dottrina delle idee. Che se a questo avessero badato certi eru diti (!), non mai avrebbero creduto che Platone (1) Proclo spezialmente fra gli antichi, e fra i moderni il Menagio, ad Diogen. Laert., pag. 149, e il Tiedemann, Argum. dialogg. Plat., pag. 84 e seguente. etimologie, che espone in questo dialogo. E nel vero, an corchè sia difficile il distinguere dappertutto quello ch'ei dice per gioco e quello che dice da senno; tuttavia al veder, che nello spiegar la ragione de nomi di Teti, di Poseidone (Nettuno), di Demetra (Cerere) e d'altri, ei lascia le etimologie prossime e ovvie, e in vece ne arreca delle rimote, anzi talvolta ne inventa delle strane e bizzarre, spezialmente quando adduce quella oltremodo ridicola di Dioniso (Bacco), niun certo può disconoscere ch'ei non ischerzi. Arroge, che il protestaregli, per bocca di Socrate, che quello che per riguardo all'eti mologia de nomi dichiarava, il diceva non come cosa sua propria e che sapesse, ma come cosa che teneva per ispirazione della musa di Euti frone, ognuno avrebbe dovuto accorgersi o al men sospettare, che Platone non poteva far buono tutto quello che per ispirazione della musa di questo sciocco e superstizioso fanatico ei diceva. Per la qual cosa lo Schleiermacher è di parere che Platone avesse in mira di bef farsi in questo dialogo di Antistene; ma, oltre che molte cose in esso occorrono che mala mente si potrebbero attribuire a questo filosofo Socratico, come rettamente osserva lo Stallbaum, ei si dee ancora avvertire che gli studi di An tistene erano piuttosto dialettici e retorici, che grammatici, e non si trova documento veruno, il qual ne accerti ch'ei si occupasse anche della ragione de nomi. E se poi non si può assolu tamente negare, che nelle sue giocose etimologie abbia pur egli avuto in mira Prodico, perchè questi nel dar la ragione della differenza de nomi, di necessità spesso doveva anche spie garne le etimologie; scopo suo però fu piut tosto di beffarsi di tutti quel filosofi, che, come abbiam detto, nelle etimologie de nomi cre devan trovar confermati i loro sistemi, e spe zialmente di mettere in canzone i sofisti, che in coteste arguzie ponevano molto studio e tanto si dilettavano, i quali appunto egli dileggia, quando ironicamente spiegando il loro nome, afferma che significa eroi. E in fatti che Protagora molto attendesse anche all'interpretazione degli scrit tori spezialmente poeti, abbiam già veduto nel dialogo del Protagora, intitolato dal suo nome, nel quale insieme con Prodico ed Ippia ed altri espone a Socrate il suo sentimento intorno ad un passo oscuro d una canzone di Simonide. E che, oltre all'aver lasciato precetti intorno alla retorica, come ci attesta Cicerone nel Bruto. i 2: « scriptae fuerunt et paratae a Protagora rerum illustrium disputationes, quae nunc com munes appellantur loci, º molto pure si occu passe intorno alla proprietà dei nomi e della collocazione delle parole per rendere bella l'elo cuzione, lo aſſerma lo stesso Platone nel Fedro, pag. 267, C, ed Aristotele nclla Retorica, lib, ini, ori gine e ragione de nomi abbia pure disputato. Questo pare chiaramente indicato nel Cratilo, alla pag. 295 (Stef 391. C), anzi da quel, che ivi dice Ermogene, sembra che tal questione facesse parte del suo libro della Verità, reo A), 3sizg, come vedremo. I seguaci di cotesto sofista adunque sono quelli, contro dei quali è diretta spezialmente l'ironia e lo scherzo di que sto dialogo, poichè cotesti sono quelli, che, come il loro maestro Protagora, approvando la sentenza di Eraclito, il quale stabiliva, che tutte le cose perpetuamente scorressero, come un fiume, avevano ad essa accoppiata la loro, cioè che l'uomo fosse la misura di tutto e che le cose fossero come a lui appariscono; e per ciò credendo che tutto continuamente fluisse e che i nostri sensi a questa mutazione delle cose si accomodassero in guisa, che sempre esse fos sero come a loro apparivano, venivano pur a credere tali essere i nomi delle cose, quali dal senso e dall'intelligenza di ciascheduno venivano percepiti, cioè naturali. Da questo si vede che in cotesti Eraclitiani-Protagoristi non si deb bono comprendere, gli antichi e veri seguaci di Eraclito, ma solo i posteriori, che, material mente intendendo Eraclito, facevano una cattiva e falsa applicazione dei suoi principii. E se dum que di tutte le sette filosofiche, come sappiamo, era anticamente costume di riferire i loro sistemi ai sapienti più antichi e spezialmente ad Omero, non dee dunque far maraviglia, se i detti nuovi Eraclitiani-Protagoristi, chiamati appunto Omeriani da Platone nel Teeteto (pag. 179. E), tentassero pur di derivare le loro spie gazioni e interpretazioni de nomi da Omero ed anche da Esiodo, e se in questo dialogo conforti poi Socrate Ermogene, se non ammet teva la verità di Protagora, a ricorrere ad Omero, e se quindi egli pure, secondo questo poeta, gli faccia parecchie spiegazioni del nomi. Il Cratilo, interlocutore di questo dialogo e da cui anzi lo stesso dialogo s'intitola, Aristotele (Metaph. 1, 6), Apuleio (de dogm. Plat.2), e Diogene Laerzio (III, 6), narrano essere stato, prima di Socrate, maestro di Platone, e che gli abbia insegnato le opinioni e dottrine di Eraclito. L'Ast però (Platons Leben und Schri ſten, pag. 19) opina, che il Cratilo interlocu tore del presente dialogo sia diverso dal Cratilo che fu maestro di Platone, affermando non altro potersi raccogliere dallo stesso dialogo, se non che il Cratilo, ivi interlocutore, era se guace di Eraclito, e non già che sia stato mae stro di filosofia e che abbia avuto Platone per discepolo; e per ciò pretende non esser pro babile, se così fosse, che Platone l'avesse messo così in canzone senza riguardo veruno. Questa sentenza a noi non pare di gran momento; poichè hoi non abbiamo sufficienti argomenti Cratili, amendue filosofi e della scuola di Eraclito, onde poter dubitare qual di loro sia stato maestro di Platone. D'altra parte, Aristotele, Apuleio e Diogene Laerzio avevan certo notizia e del Cratilo maestro di Platone, e del Cratilo inter locutore di questo dialogo; non avendogli essi di stinti, rimane chiaro che sì quello che questo sono il medesimo Cratilo. Per riguardo poi a quello, ch'ei dice non esser probabile, che Platone abbia messo in canzone così ingratamente il suo maestro, noi facciamo osservare, che Pla tone non gli fa dire da Socrate alcuna cosa dura, anzi l'ironia, che regna nella esposizione delle etimologie, è pur così coperta, che può anche sfuggire a non mediocri ingegni. Volendo Platone render conto, perchè si fosse scostato dalle opinioni eraclitiane del suo primo mae stro Cratilo, ed avesse poi seguito quelle di Socrate, ei non poteva più giurare in verbo del suo primo maestro Cratilo, nè rappresen tarcelo superiore a Socrate nelle ricerche e di scussioni didattiche, ma sì bene rappresentar celo, come veramente egli era, e cercar, per quanto poteva, di farci conoscere il modo di verso dell'esposizione scientifica d'amendue, come anche intieramente il loro carattere. Per questo appunto Platone non si contenta già di far abbattere da Socrate in questo dialogo le opinioni, che Cratilo aveva intorno alla ragion de nomi, ma il fa udire ancora una lunga ſi lastrocca di spinose etimologie, che Socrate espone ad Ermogene, la quale se par essere un dileggio verso coloro a cui viene fatta, non è però fuor di proposito, perchè Cratilo era così dato alle dottrine di Eraclito, che tutto contento ed incantato beccava qualunque cosa gli fosse detta in confermazione di quelle, e tanta era la sua ostinatezza in quel che soste neva, che dicendogli Socrate alla fine del dia logo migliore essere il metodo di conoscere le cose per mezzo di esse stesse nella verità loro, che solamente per mezzo delle loro immagini, cioè per mezzo dei loro nomi, a tal patente ragione ei non si arrende ancora. L'altro interlocutore del dialogo, anzi il primo che entra in discorso con Socrate, è Ermogene, figliuolo d'Ipponico e fratello di Callia. Anche questo afferma Diogene Laerzio (nel luogo ci tato) essere stato maestro di Platone nelle dot trine della scuola di Elea. Ma questa asser zione viene rigettata dall'Ast (nell'opera citata, pag. 2o), e dal Groen Van Prinsterer (Pro sopographia Platonica, pag. 225), il qual ul timo crede, e con lui concorda lo Stallbaum, che il testo di Diogene Laerzio sia stato cor rotto da un ignorante, il quale abbia intruso il nome di Ermogene dopo quello di Cratilo, nell'opinione, che siccome dei due rappresen Platone, così il fosse anche stato quello dell'Eleatica, Ermogene. A questo aggiungasi ancora, che Aristotele ed Apuleio, i quali affermano essere stato Cratilo istitutor di Platone, ciò non di cono più di Ermogene. Altro è che questi fosse seguace delle dottrine degli Eleatici, altro è che in esse abbia pure istruito Platone; giacchè trattandosi di un fatto, sì per istabilire la sua verità, come per abbatterla, è del tutto neces saria una prova positiva, la quale, quando manca, è nullo tutto ciò, che pro o contrada qualunque si dice. Per la qual cosa, se l'unica e dubbia autorità di Diogene Laerzio non si dee tenere da tanto per farci credere vero tal fatto, neanco per negarlo pare a noi esser suf ficiente la prova negativa dello Stallbaum e del Groen Van Prinsterer, i quai dicono, il poco ingegno e la poca dottrina di Ermogene essere un argomento bastante a far sì, che niuno il possa creder essere stato maestro di Platone. Imperciocchè come veramente stesse di dottrina Ermogene, non è poi cosa facile a dichiarare, stante che il merito scientifico degl'interlocu tori, che Platone mette ne suoi dialoghi in iscena, non si dee giudicare dal grado, in cui egli ce li rappresenta e ce li fa parlare; giac chè quando si tratta di coloro ch'ei vuol con futare, ei fa da loro anche dire cose strane ed assurde, le quali essi mai non sognarono, ma ch'egli però dalle loro dottrine deduce, per sempre far maggiormente spiccare il contrasto della verità, ch'ei difende. D'altra parte poi, se si dovesse giudicare da questo dialogo, pare che per niuna parte Ermogene la ceda a Cra tilo. E nel vero, per non dire che la discus sione, fatta in principio tra Ermogene e So crate, è sottile anzi che no, e suppone in Ermogene un non mediocre ingegno, bisogna avvertire che la lunga esposizione delle etimo logie secondo il sistema di Eraclito, è diretta a mettere in canzone non altri, che coloro che tal sistema seguivano; e per ciò pare anzi che d'in gegno un po' tardo ben si potrebbe tacciare Cratilo, che non mai in udirle di tal corbelleria s'accorga, ma non Ermogene, il quale, udendole, scorgendo per mezzo di esse beffarsi Socrate dei seguaci delle dottrine di Eraclito, veniva sempre più confermato in quelle contrarie degli Eleatici, ch'ei sosteneva. Del resto ch'Ermogene non pigliasse tutte per vere le etimologie di Socrate, non solo si vede da quello, che in udirle non mai egli fa alcun segno d'ammira zione o di contentezza, come se fosse giunto alla cognizione di qualcosa grande e nuova, ma nemmanco di piena approvazione; giacchè, appena che ha udito l'etimologia di un nome, senza più, quasi sempre passa subito a inter rogar Socrate di quella di un altro, e se talor mostra d'averne per buona alcuna, la sua con a Socrate, Pare che un po' ci tocchi o ci cogli ecc., daivet, xtvòvvsústg o doxsig rt Xéyetv. Ma, che ancora? Che Ermogene più per curiosità e diletto che per altro, se ne stesse ad ascoltar l'espo sizione delle etimologie di Socrate, argomento certo n'è, ch'ei pure celia collo stesso Socrate, come (per non citar altri luoghi) quando udita l'etimologia del nome ivtavróg, anno, ironica mente gli dice, che aveva già fatto molti passi nella sapienza, e spezialmente quando Socrate, nello spiegare il vocabolo 3) aſºspdv (blaberon), nocevole, dicendogli che propriamente si do vrebbe chiamare 3ov) arrrepoijv, boulapteroun, ei gli soggiugne che all'udirlo pronunziar così bel nome, gli pareva veramente che zufolasse il preludio dell'aria di Minerva. Il timore e la superstizione, che dà a dive dere Socrate in questo dialogo, nel protestare che per riguardo agli Dei e ai loro nomi, ei punto non ne sapeva, ma che solo diceva quello che ebbero in opinione gli uomini in porre loro i nomi, indicano manifestamente, che l'Euti frone, per ispirazione della cui musa, ei dice tenere le spiegazioni, che dà dei nomi, è quello, da cui è pure intitolato un dialogo di Platone. Così appunto opinano l'Ast e lo Stallbaum. Quest'uomo è il tipo della leggerezza e della superstizione; ei si vantava di saper meglio che alcun altro le cose divine, e tanto era il suo entusiasmo, come dice egli stesso (!), quando di esse parlava e mandava fuori i suoi oracoli, che eccitava il riso e pareva maniaco. Verisimil mente dunque nell'interpretare la mitologia degli antichi poeti e spezialmente di Omero, e nel cercar la ragion de nomi degli Dei e nel darne la spiegazione, vi poneva molto studio e vi met teva pur lo stesso entusiasmo e furore, come nel mandar fuori gli oracoli. Forse sarà anche stato della scuola di Eraclito. Onde piacevole e grazioso pare lo scherzo di Platone, in far per bocca di Socrate dar l'etimologia de nomi a Cratilo, il qual non era men entusiasta e maniaco in beccar ciò, che parevagli confer mare le sue dottrine eraclitiane (giacchè, quanto a Ermogene, egli stava, come abbiam veduto, a udirle più per curiosità e diletto, che per altro); mentre così facendo Platone, a chi era di perspicace ingegno dava, per mezzo dell'ironia, a divedere, che a lui non andava a grado, anzi disapprovava il poco ragionevol modo degli Eraclitiani, nello spiegare i nomi e nel pretendere di trovare quasi in ciascun verso di Omero qualche cosa di oscuro e mi sterioso, togliendovi quel suo proprio colore, semplice e naturale. In qual tempo sia stato composto questo dia logo da Platone, e qual loco gli si debba as ri mane ancora a vedere. Lo Schleiermacher il pone dopo il Teeteto, il Menone e l'Eutidemo, e pretende che debba servire di compimento a quel primo; ma ognun vede che l'argomento della scienza, che trattasi nel Teeteto, non viene ampliato nè discusso nel Cratilo; anzi tutto il contrario, quel che affatto alla fine del Cra tilo è appena indicato, viene poi diffusamente discusso nel Teeteto; chiaro dunque egli è, che questo il dee seguire e non precedere. L'Ast il colloca non solo dopo il Teeteto, ma anche dopo il Sofista, il Politico e il Parmenide; anzi crede che il Cratilo faccia parte ed appartenga ad una trilogia o tetralogia, che non fu da Platone compiuta; e per prova ne adduce le prime parole del dialogo: Brami tu dunque che in cotesta questione anche qui Socrate c'entri' le quali ei dice essere del tutto nude, secche e immotivate. Inoltre che quest'opera non sia un lavoro compiuto, seguita egli, si vede da quello, che nell'ultima sua parte i passaggi da una cosa all'altra sono scuciti e duri, e molto, che non ista in immediata relazione con quel che precede, vien posto senza alcuno appa recchio e introduzione, mentre le ricerche, che si connettono coll'argomento principale e che eccitano un grande interesse, vengono al l'improvviso abbandonate. Ma checchè ne voglia dire l'Ast, quantunque le prime parole del dialogo indichino a precedente discussione tra Er mogene e Cratilo, tuttavia di questa trilogia o tetralogia incompiuta, ch'ei pretende, non s'in contra indizio veruno nelle opere di Platone, nè si trova che l'argomento del Cratilo venga da lui trattato in qualche altro suo dialogo. Questo scritto può stare da sè, ed io non veggo la ragione, perchè l'Ast il voglia far seguire al Sofista, al Politico e al Parmenide, e non anzi a tutti questi precedere. E nel vero, per non dire, che l'irrisione, che domina nell'espo sizione delle etimologie nel Cratilo, non troppo acconciamente può stare vicina alle gravità e serietà, con cui sono trattati il Sofista, il Po litico e il Parmenide, l'argomento del Cratilo non ha che fare con quello di questi; nè si ravvisano ancor in esso vestigia della scuola pitagorica, come nel Parmenide, ma appena si fa menzione in un suo luogo dell'armonia de corpi celesti; nè appare ch'ei segua il me todo dell'investigazione tenuto dai filosofi Me garici, i quali erano versatissimi in trattare le quistioni di questo genere, come lo segue nel Sofista, nel Politico e nel Parmenide; nè fi nalmente si vede ch'egli molto insista sulla sua dottrina delle idee, ma appena ne fa cenno alla fine del dialogo, e la dà soltanto ancora come un suo sogno. Per l'opposito, niuno può disconoscere, che tra il Protagora, l'Eu tidemo e il Cratilo vi regni un'affinità quasi irri sione drammaticamente ci rappresenta Platone il vano fasto di Protagora e di tutti que sofisti che si millantavano essere maestri di virtù, e se nell'Eutidemo poi egli si beffa delle meschi nità delle arguzie e de lacciuoli dialettici pur de' seguaci di Protagora, anche nel Cratilo, come abbiam veduto, con ischerzo e con ironia viene egli a dimostrare l'inutile sforzo de' Pro tagoristi-Eraclitiani, che per mezzo dell'inter pretazione del vocaboli tentavano di venire alla cognizione delle cose e di stabilire i loro sistemi. Per la qual cosa, sebben l'autore in quest'opera sia lungi dal comico che domina nel Protagora e nell'Ippia Maggiore, l'andamento però e la condotta della medesima, come anche la molti plicità degli esempi e le minutezze, con cui, secondo il metodo di Socrate, procede Platone in principio di essa, e finalmente ancora lo scherzo e l'ironia che si scorge nell'esposizione delle etimologie, danno a bastanza a divedere, ch'ella moltissimo si approssima ai dialoghi po polari Socratici, ch'egli scrisse i primi, e che da lui sia stata composta in una età, in cui egli non era ancora del tutto scevro da pro tervia e petulanza giovanile. Non pertanto, quan tunque da solo quello, che si fa menzione in questo dialogo delle vocali a ed o, le quali furono introdotte in Atene, sotto l'arcontato di Euclide (l'anno 2 della 94 olimpiade, 4o3 prima dell'era volgare, e 26 dell'età di Platone), non si possa di certo conchiudere, che dopo tal anno sia stato questo scritto composto, per la ra gione, come ottimamente osserva lo Stallbaum, che queste vocali potevano già essere in vigore in uso privato, prima che pubblicamente fos sero sancite e passate ne' monumenti pubblici (ved. il Matthiae Gramm. Ampl., tom. 1, pag. 22, annot.); tuttavia non si può dubitare, che questo dialogo da Platone sia stato disteso in quel tempo, in cui egli aveva già concepito i principii della sua dottrina delle idee e deter minato con essa di confutare i Protagorei e gli Eraclitiani. Or tanto le cognizioni richiedentisi per poter ciò ben fare, quanto le sottili inve stigazioni circa la ragion de nomi, che in que st'opera si ravvisano, paiono indicare esserelle un lavoro di Platone non così giovane, ma sì bene di lui d'alquanto già più maturo. Che se poi tra il Protagora e il Cratilo, che hanno tra di loro un'affinità che non si può disconoscere, noi abbiamo inserito l'Ippia Maggiore ed il Gorgia, non è già che crediamo il Gorgia essere anteriore al Cratilo (anzi la di fesa che nel Gorgia fa Platone di se stesso, perchè non si fosse dato alla vita pubblica, ma alla filosofica, indica chiaramente che tale scritto è un lavoro di un uomo più che maturo), ma non per altro così ci parve di fare, se non perchè abbiam voluto far seguire l'un dopo celebri sofisti della Grecia, Protagora, Ippia e Gorgia, ne quali Platone graziosamente smaschera il loro vano sapere ed acremente li frusta. Però se uno bada, che i Protagoristi-Eraclitiani, che Platone dileggia in questo dialogo canzonando le loro etimologie, questi medesimi poi con con cludenti ragioni validamente egli confuta nel Teeteto, facilmente ei si persuaderà, che il Cratilo a questo dee stare unito e precederlo, anzi che susseguirlo; e per conseguenza che noi, nell'assegnargli il posto che gli assegniamo, nel suo vero l'abbiam collocato. Three sections on Plato in Acri’s essay on ideas: Plato’s Parmenide, Plato’s Sofista, Plato ed Anselmo. Gl’Intelligibili e il Parmenide di Platone. L'uno quale Platone lo disamina nel principio della seconda parte del Parmenide è un intelligi bile , e la contraddizione in cui lo involge è tale per colui che lo considera come idea contro l'in tenzione di Platone medesimo.Ecco,se tu fissi l'uno nel nome suo,se tu appunti l'occhio nell'uno come uno, esso non è più uno , cioè non è idea. Impe rocchè all'uno fissato nell'uno,contratto in sé,sen za espansion di sorta, non compete relazione alle idee di parte e di tutto, di principio, mezzo , fine, cioè all'idea di quantità, e neanco all'idea di quan tità parvente come a dire la figura, e neppure al l'idea di luogo nè a quelle di moto o di stato,nè a quella di qualità,né a quella di relazione di si miglianza, di egualità,di medesimezza e dell'idee contrarie,nè a quella di tempo,nè a quella di es sere o divenire,né da ultimo all'idea di senso,di opinione, di scienza. Adunque l'uno irrelativo non è quanto,nè quale,né in luogo,nè in tempo,non ė medesimo, nè simile, né eguale a sè e neanco il contrario, non è, non diventa , non si sente , non s'opina, non si sa. Dunque l'uno irrelativo non é uno: cioè a dire l'uno elemento dell'idea uno non è l'idea uno che si componë e di quello elemento e di molti altri. Gl'intelligibili e il Sofista di Platone. Nel Sofista Platone tratta della comunione delle specie , come se le specie precedessero la comu nione,pigliandoa esempio l'essere,ilmoto,lostato, il medesimo e il diverso. Ma la comunione precede le specie; imperocchè l'essere non è tale senza pri ma comunicare col medesimo, nè ilmedesimo è tale senza prima comunicare con l'essere, nè il medesimo è ciò ch'è senza il diverso,nè questo è ciò ch'è senza quello. Alla mente di Platone certo la comunione delle specie si mostra come necessa ria; tuttavia le si pasconde che le specie prima di essere specie sono elementi le une delle altre , e la comunione è per lei esteriore e di specie già in tiere e fatte. Più giusto sarebbe stato lo affermare ed esaminare la comunione degl'intelligibili, cioè di quei semi che pe'loro congiugnimenti diventa no specie o speciose o spettabili se cosi dire si vo glia . Sant'Anselmo e Platone . S. Anselmo nel capitolo primo del Monologio or meggiando i passi di s.Agostino per provare Dio dice : tutti beni son beni per una qualche cosa ch'è bene per se stessa; e nel secondo dice : tutte quelle cose che sono grandi per alcun che sono gran di, il quale è grande per se stesso; e nel terzo a g giugne che tuttociò che è , per un qualcosa pare che sia , la quale è per se stessa ; e nel quarto aggiugne : se le nature delle cose si distinguono per disuguaglianza di gradi,e alcune nature si re putano migliori di altre conviene che ci sia alcuna    tra quelle cosi eminente da non averne altra a sė superiore. Imperocchè,se,tale distinzione di gradi è cosi infinita che non sia alcun grado superiore di cui altro superiore non si rinvenga; la ragione conduce a questo , che la moltitudine di esse n a tare non sia chiusa da alcun termine.Ma ciò diuno reputa non assurdo se non chi è affatto privo di r a gione. È dunque di necessità alcuna natura,la quale é talmente superiore ad alcuna od alcune,che al tra non ve n'abbia, a cui sia ordinata come infe riore (volgarizzamento del Rossi). Queste argomen tazioni si posson paragonare a quelle che fa Platone per provare le specie per sé. Egli dice : Ne' sen sibili c'è meschianza e confusione di contrarie no te; imperocchè una cosa è bella e brutta, giusta e ingiusta, grande e piccola, e via via; bella, giusta, grande per un rispetto,e per un altro brutta, iugiu sta,piccola;dunque ci dev'essere un bello che per nessun rispetto sia brutto , un giusto per nessun rispetto ingiusto , un grande per nessun rispetto piccolo,e viceversa;delle quali specie contrarie par tecipa il sensibile. La differenza è in ciò, che Pla tone si fonda più su la contrarietà delle note che apparisce ne'sensibili,e Anselmo più su la grada zione di esse note;e dovechéPlatone a filodilo gica è necessitato a dare a tutte il valore m e d e simo di specie, Anselmo lo dà ad alcune, come alla grandezza e non già alla picciolezza , all'essere e non già al non essere,al bene e non già al male; e da ultimo Platone vuol provare una moltitudine  99   inconfondibile di enti per sè,e Anselmo di un solo. Ma di quest'argomento suo che ci conviene pen sare ? Ecco, premettiamo che al tempo dei Dottori si vedeva nelle idee una certa costituzione già fer ma; esse aveavo fatto presa;e che poi per istinto dubitativo generato dalla riforma o meglio gene ratore di essa parve che si disciogliessero,e si cer cò rifare la loro sostanza medesima. E l'argomen tazione propria alla filosofia medievale è nell'espli care ciò ch'è implicato; e dimostrare un'idea vale dischiuderla da un'altra dove giaceva intiera e for mata , da un'altra della quale non si dubita. E , stando a questa filosofia, il contenuto di un'idea è quasi indipendente da quello delle altre, e ai sil. logismi come esplicativi si dee assegnare un gran valore anche pigliati singolarmente. Ma non c'è, si può dire , componimento e accordo e universa lità mirabile nella Somma di S. Tommaso ? Si, ma l'universalità dalla religione è data alla filosofia, la quale assume l'ufficio di sconnetterla,scomporla e verificarla a parte a parte. E il contrapposto dell'u niversalità della materia con la singularità e la di. visione e lo spezzamento della forma è notabilissima nel libro mentovato , che recapitola maravigliosa mente il pensiero del suo tempo. Per un'altra filoso fia al contrario l'argomentazione non sta ne' sillo gismi netti,che anzi li ha a sdegno,ma nella gene razione dialettica e necessaria,in guisa che tanto vale per essa dimostrare un'idea quanto farla con cepire nelle viscere d'un'altra e poi evocarla alla  100   101 luce. Però avvertisco io che il suo generare, la sciando da parte le frasi nuove,è in fatti un porre una serie di equazioni facendo si che l'ultimo ter mine che si vuol generare appaja eguale al primo termine che si risguarda come generatore,in virtù di molti medii che celano graduatamente la reale dissagguaglianza. Ecco uno schema dell'argomen tare suo:a è vicino a m,perchè vicino a b,e o vicino a C, e c vicino a d, e d vicino a e, cd e v i cino a f; col divario che dov'io dico vicino essa dice eguale.Da ultimo c'è un'altra filosofia,non ne mica a quella dei Dottori, anzi benevola,anzi re verente come a madre figligola, la quale non sup pone l'idea intera e formata, e neanco vuol rifarla da capo o generarla come dice l'altra,a cui è ni micissima perchè quella é superba , m a la costi tuisce di principii che già preesistono,la compo ne.In breve una è esplicativa ovvero resolutiva,l'al tra generativa, almeno di nome e in apparenza, e l’nltima è costitutiva o compositiva. E inoltre questa il contenuto di un'idea costituisce per modo che si colleghi a quello di tutte l'altre,ond'essa è deside rosa d'universaleggiare e procedere alla larga c01 tra la prima che singulareggia e procede per or dini distinti, minuti , sottili; e, contro alla seconda che vuol generar le idee una dall'altra, ella crede che vivano insieme ciascuna della vita dell'altre, e risplendano insieme ciascuna dello splendore del l'altre. E la sua argomentazione sta non già nello esplicare o nel generare, bensi nel bene allogare;    inguisachè un'idea è dimostrata quando posta in mezzo alle altre con esse fa buon accordo. Onde il sillogismo, non già come esplicativo o come e guagliativo, sibbene come dispositivo è l'argomento suo, e non ha valore da solo ma insieme ai mol tissini altri per efficacia reciproca. Ma tornando ora lá d'onde ci siamo mossi di ciamo che si può dir buono, grande, giusto tutto ciò che partecipa alla grandezza, alla bontà, alla giustizia , e che altresi pare si possa dire che la grandezza, la giustizia , la bontà c'è perchè ci sono cose grandi,giuste,buone;esenza dir quale delle apparenze risponda al vero , affermiamo che ricorre qua la questione de'generi,cioè se son reali fuori noi o son concezioni astratte , e che l'argo mento di sant'Anselino come quello che presuppone un intricatissimo viluppo di ragionamenti da solo non può avere piena evidenza. Acri. Refs: Platone in Italia. Luigi Speranza, "Grice ed Acri," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Addiego. (Turi). Filosofo. Grice: “I like Addiego; his obituary looks fine, ‘amateeur mathematician and professional philosopher;’ of course he was a priest and priests tend to get the nicest obituaries written by members of their respective orders!  Henry VIII once said, “I shall follow Occam and not multiply religious orders beyond necessity!’ Some say he went a bit too further! My St. John’s used to be a Cistercian monastery!” “One good thing about Addiego is that instead of trying to prove the immortality of the soul, or the existence of God – “These are Strawsonian presuppositions,’ he would say – he rather played with Platonic numbers and geometries! His mathematical explorations caught the attention of the Pope who invited him to Rome, thus leaving his ‘paese,’ the lovely Bari – and beyond!” -- Vincenzo maria d’addiego (n. Turi), filosofo italiano, nominato Preposto Generale dei Padri Scolopi.  Entra giovanissimo nell'ordine degli scolopi.  Papa Leone XII lo chiama a Roma e con un Breve apostolico lo nomina preposto generale dei padri scolopi.  Alla sua morte il Pio VIII gli rese l'estremo saluto nella casa professa di S Pantaleo.  Note  D. Resta, Turi. La perdita del loro Preposi to Generale P. Vincenzo Maria D'Addiego, rapito ai vivi in pochi istanti nella notte dei 31 del p.sp.. marzo, ha immerso in grandissima costernazione I Religiosi delle Scuole Pie. Nativo egli di Turi nella Puglia, vesti giovinetto le divise del Calasanzio, e fatti con somma lode isuoi studj nel Collegio Re a s le di Napoli , diretto dai religio si suddetti ivi professa per lo spazio di quaranta e più anni prima le belle lettere, e poscia la Filosofia e le Matematiche , nell'insegnamento d'entrambi accoppið sempre la pietà, lo studio l'amorevolezza el'industria alla precisione de'metodi. Fu due vol te Provinciale; e dopo lepassate luttuose vicende nominato Delegato Generale pel riordinainento delle Scuole Pie nel regno delle due Sicilie, ebbe la consolazione di veder coronate le sue fatiche da un esito felicissimo. Chiamato Breve di Leone XII , di gloriosa ricordanza, nel1824 alGovernoHi tiftta la sua Religione, la regole con dolcezza e prudenza , si mostrò padre con tutti, e a tutti su specchio einodello di quelle rel giose virtù , che più belle appariscono in chi tiene l'altrui direzione Vicino al termine del suo ogorevole incarico, stavaeliane Tando alla tranquillità della vita privala, dalla quale la sola Defienza aveva pniuto cayarlo; quando piacque all'Eterno di premiare (come speriaino) con franquillità ben maggiore imeritiche si aveva procacciati nella crislis na e religiosa carriera di anni 74. Domani sicelebrerà la Stazio De rrella Chiesa di S. Giovanni in Laterano. TRATTENIMENTO PEL NEL LETTORE Che D. D. D. NECESSITA DEGLI SU LA MIGLIORAMENTO MACCHINE pubblicamente SIGNORI I Giuseppe GIUSEPPE DE GIOVANNI Studenti di COLLEGIO Filosofia e DELLE SCUOLE PIE SOTTO LA VINCENZO D'ADDIEGO . FRANCIONI Rivera Cesare D. PASCALE REALE DIREZIONE DEL MARIA MARTINO BATISTA SPERIMENTI DELLE sperimentano CONVITTORI Matematica FISICO ZNALED COLLONES /1000 NAPOLI 1810. COL PERMESSO DEL GENERALE , NELLA STAMPERIA MINISTRO FLAUTINA. DELLA POLIZIA   نموده و S u m a t quisque , quod suum credit , nihil mihi vindico , Sgravesand in Prafat, Mihi satis fuerit , suum cuique habuisse honorem , Dalham in Præfat. I chierici regolari poveri della Madre di Dio delle scuole pie (in latino Ordo Clericorum Regularium Pauperum Matris Dei Scholarum Piarum) sono un istituto religioso maschile di diritto pontificio: i membri di questo ordine, detti comunemente scolopi o piaristi, pospongono al loro nome le sigleS.P. o Sch. P.[1]   Lo stemma dell'ordine reca il monogramma coronato di Maria e le lettere greche MP e ΘY, abbreviazioni per μήτηρ θεοῦ (madre di dio) Le origini dell'ordine risalgono alle scuole popolari gratuite (scuole pie) fondate da san Giuseppe Calasanzio a Roma nel 1597. Il 25 marzo 1617Calasanzio e i suoi compagni diedero inizio a una congregazione di religiosi per l'insegnamento: papa Gregorio XV elevò la compagnia a ordine regolare con breve del 18 novembre 1621.[2]  Gli scolopi si dedicano principalmente all'istruzione e all'educazione cristiana di giovani e fanciulli.[2] Il fondatore dell'ordine, Giuseppe Calasanzio, giunse a Roma nel 1592 e venne nominato Teologo e precettore dei nipoti del cardinale Marco Antonio Colonna.  Nel 1596 si iscrisse alla Confraternita dei Santi Apostoli. Nel mese di maggio cominciò le visite ai rioni di Roma, portando aiuto ai poveri. Un giorno, mentre passava in una piazza, fu colpito in modo insolito dallo spettacolo di una turba di sudici e malvestiti ragazzi che giocavano tra grida scomposte, atti sconci, litigi e bestemmie. Di colpo comprese qual era la missione per la quale era giunto a Roma dalla sua patria lontana: la scuola. Così, in un ambiente di ristrettezze e povertà, sul finire dell'autunno dell'anno 1597, in due povere stanze attigue alla sagrestia e messegli a disposizione dal parroco Don Brendani della chiesa di Santa Dorotea in Trastevere, aprì "la prima scuola popolare gratuita in Europa", come riconobbe anche Ludwig von Pastor, che nella sua monumentale opera Storia dei Papi scrisse: «...ebbe origine la prima scuola popolare gratuita d'Europa.» E lì, in tempi in cui l'istruzione era privilegio delle classi più abbienti, sviluppò il suo progetto della scuola come strumento di promozione umana e salvezza educativa per i ragazzi di strada (metodo preventivo, attinto da san Filippo Neri). Nel 1602 fondò la "Congregazione secolare delle Scuole Pie". Vincenzo Maria d’Addiego. Addiego. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Addiego” – The Swimming-Pool Library.

 

Adorno (Siracusa). Filosofo. Grice: “I like Adorno; he more than anyobody else I know UNDERSTANDS the change of mind set from the Hellenic embassy at Rome and the ‘gravitas’ of the Romans who found that relativistic talk on justice ‘sophistical’! Scipione and the Roman aristocracy – just to be different – enjoyed it and embraced it – and it turned out that, as antiquities became more popular with the Romans, they recovered the many schools of philosophy that have thrived in the provinces: Velia, Crotone, Girgenti.” Filosofo. Laureato in Filosofia a Firenze e professore a Bari, Bologna e Firenze, è stato presidente dell'Accademia Toscana di Scienze e Lettere "La Colombaria", del Museo e istituto fiorentino di preistoria e dell'Accademia delle Arti del Disegno. Ha diretto la pubblicazione del Corpus dei papiri filosofici greci e latini.  Ha studiato il rapporto tra l'insegnamento socratico e la sofistica, estendendo i suoi interessi a Platone, allo stoicismo e all'epicureismo; inoltre ha approfondito aspetti della cultura greco-latina e cristiana tra il primo secolo a.C. e il sesto secolo d.C., nonché del pensiero tardomedievale e umanistico. Utilizza il metodo filologico per la descrizione degli autori del pensiero antico della scuola ionica, di Socrate, di Platone, della prima Accademia, delle scuole ellenistiche, di Epicuro, di Seneca, ecc.  La sua formazione culturale affonda le radici negli ambienti intellettuali e politici fiorentini tra gli anni 1930 e 1945 e in particolare risente dell'influenza crociana nell'interpretazione della filosofia come riflessione teorica mai disgiunta dalla situazione storica reale. In nome di questa concretezza antimetafisica e della necessità di una descrizione storica del pensiero filosofico, aderisce al metodo marxista e alla filosofia del linguaggio facendo sì che i testi classici vengano interpretati nel loro autentico e concreto sottofondo politico e culturale.  Opere: “I sofisti e Socrate”; “La filosofia antica”; “Studi sul pensiero greco”; “Socrate”; “Dialettica e politica in Platone”; “Platone”; “I sofisti e la sofistica nel 5°-4° sec. a.C.”; “Pensare storicamente”.  Pitagora di Samo. I suoi viaggi, la permanenza in Magna Grecia. Le suggestioni e la polymathia  di Pitagora”. Esigenze e problemi in Magna Grecia e ad Velia dal VI secolo all'inizio del V l. Note  Francesco Adorno, su RAIEnciclopedia multimediale delle scienze filosofiche.  l'11 dicembre  22 dicembre ).  Adórno, Francesco, in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  l'11 dicembre .  Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche alla voce corrispondente.  Maria Serena Funghi , Hodoi dizēsios. Le vie della ricerca: studi in onore di Francesco Adorno, Firenze, Olschki,  Francesco Adorno, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Francesco Adorno, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Francesco Adorno, su openMLOL, Horizons  Unlimited srl. Filosofia Filosofo del XX secolo Filosofi italiani del XXI secolo Storici della filosofia italiani Accademici italiani del XX secolo Accademici italiani Professore  Siracusa Firenze Studenti dell'Università degli Studi di Firenze Professori Bari Professori dell'Bologna Professori dell'Università degli Studi di Firenze.   E interessante sottolineare che Pitagora di Samo, isola ionica vicina alle coste dell'Asia Minore, emigra in Crotone, Italia (Magna Grecia) circa nel 5~0, dopo aver fatti molti viaggi in Egitto e in Oriente, viaggi non impossibili, anche se poi le piu tarde scuole pitagoriche hanno voluto vedere in essi ben altro. Samo, dopo alterne vicende simili a quelle delle altre città e isole ioniche, dopo lunghi contrasti tra la classe dei nobili e la democrazia, e dominata dal tiranno Policrate, che favod il popolo contro i nobili, che si circonda di una fastosa corte, che e amico di Amasi re di Egitto. E per contrasti sorti con Policrate che Pitagora abbandona la Ionia per recarsi a Crotone nell'Italia meridionale, accompagnato là da una fama già leggendaria. Eraclito ed Erodoto, parlando di Pitagora, testimoniano appunto la fama di lui nel mondo ionico. Eraclito (Diogene Laerzio, IX, l) sprezzantemente parla della multiscienza o polymathia di Pitagora. Evidentemente il disprezzo nasce in Eraclito da una fama, o leggenda che fosse, ormai acquisita. Erodoto riferendo dubitosamente la leggenda di Zalmosside, un tracio vissuto a Samo, in qualità di schiavo e di allievo di Pitagora e che, poi, liberato e arricchito torna in Tracia, dove sale in fama di mago e dove insegna l'immortalità dell'anima, provata con un trucco, afferma che questo gli era stato narrato dai greci abitanti l'Ellesponto e il Ponto (cfr. Erodoto, IV, 95). La vita e la figura di Pitagora le troviamo avvolte nella leggenda dai tempi piu antichi. Con una certa sicurezza si può dire ch'egli nacque a Samo, da Mnesarco, irù torno al 570 circa. Emigra da Samo nella Magna Grecia nel 530 per un dissidio sorto con Policrate tiranno di Samo. Muore sul principio del V secolo. Possono non essere leggendari i suoi molti viaggi, in particolare quelli in Tracia, in Asia Minore, in Egitto] a Creta. Risale probabilmente a Pitagora in Crotone la fondazione di una setta, ove si svolge una vita pitagorica, cui partecipano sia gli uomini sia le donne. Fama di dotto e di enciclopedico e fama di uomo superiore Pitagora dove, dunque, avere già prima del suo ultimo viaggio che lo trasporta a Crotone. Per quanto scarse, fondamentali sono le testimonianze di Eraclito, Senofane ed Erodoto, che confermano l'esistenza reale di Pitagora. Pitagora a Crotone, fondatore di una setta, di quella vita pitagorica di cui parla anche Platone (Repubblica, 600b), scienziato e sacerdote a un tempo, sacerdote e medico di anime, si perde nella leggenda, o meglio nelle ricostruzioni dei tardi filosofi neo-plato­nici e neo-pitagorici. “La Vita di Pitagora,” del neo-platonico Porfirio e la “Vita pitagorica” del neo-platonico Giamblico ricavano gran parte delle notizie dai neo-pitagorici Apollonio di Tiana, Moderato di Gada e Nicomaco di Gerasa. Solo che il neo-pitagorismo puo sorgere, interpretandola a modo suo e per nuove esigenze, da una lunga e continua tradizione che si scandisce in tempi diversi, ogni volta tornando alla leggenda pitagorica e proiettando in essa ciò che rispondeva a un certo tempo e a una certa situazione, onde, piu che di pitagorismo parlamo di pitagorismi. Di tappa in tappa, a ritroso, attraverso un attento smontaggio delle varie stratificazioni, si può risalire sino a Filolao, pitagorico di cui possediamo alcuni frammenti. Risalire oltre è estremamente difficile e pericoloso. Gli stessi scritti andati sotto il nome di Pitagora – i versi d'oro, i tre saggi su educazione, politica, e fisica -- sono composti da pitagorici che rivivano il sacro verbo del divino Pitagora. Lo stesso Aristotele, cosi propenso ad interpretare posizioni diverse in funzione del proprio pensiero, non cita mai direttamente Pitagora, ma parla sempre di coloro che vengono detti PITAGOR-ici (Metaf., I, 5, 985b). – cf. Speranza non cita direttamente Grice, ma parla sempre di coloro che vengono ditti GRICE-iani. D'altra parte di quello che può essere stato il Pitagora storico - anche il nome ha destato sospetto, ché ‘Pitagora’ significa l'annunciatore del Pizio, e la leggenda vuole ch'egli fosse figlio di Apollo pizio o di Mercurio - non sappiamo altro dalle fonti piu antiche se non ch'egli, figlio di Mnesarco, nativo di Samo, si sarebbe occupato di una quantità di studi," (Lct&I Lct't'ct -- Eraclito) - e che quindi sarebbe stato spinto da un largo desiderio di sapere. Forse di qui la fama di Pit-agora, l’annunciatore del pizio, che per primo usa il termine ‘filosofo’, desideroso, filos, appunto, di sapienza, sofia, che sostenne l'immortalità dell'anima e forse la tras-migrazione delle anime, che, giunto a Crotone, fonda una conventicola politico-religiosa. Obbiettivamente non basta l'accenno di Eraclito ai molti mathemata per indurre che Pitagora interpreta il tutto in termini numerici, che per Pitagora le cose sono numeri, né può bastare per far risalire a Pitagora la fisica pitagorica. Si pensi, comunque, anche al fatto che il termine “~&-rj(.Lot”, che c'è in Eraclito (fr. 41), nel greco significa solo studio, apprendimento, e che nelle fonti antiche, riferentisi a Pitagora, mai troviamo il termine “numero” (&.pL&(.L6t;). Il termine “numero” lo si trova, invece, in alcuni frammenti di Filolao. Orbene, una tradizione riferisce che e Filolao a divulgare la sapienza pitagorica, tradendo quello che è stato detto il "silenzio pitagorico" cioè l'assunto che la setta doveva mantenere il segreto sull’inziazione. Solo che altra tradizione riferisce anche che il silenzio sarebbe stato rotto da Ippaso, pitagorico piu antico di Filolao, da Archippo, da Liside e cosi via. E costruita nei circoli pitagorici la leggenda di Pitagora uomo divino, già Eraclide elabora la leggenda delle re-incarnazioni di Pitagora; e ben si conosce l'austerità dei pitagorici del IV secolo, austerità che ci è testimoniata da Isocrate. Dunque l'interesse accresciuto per il pitagorismo suscita il desiderio di conoscere quale era stata la sua storia. Si scoprono nomi, si conoscono accadimenti, ma non si scoprono saggi di pitagorici anteriori a Filolao. La leggenda del silenzio pitagorico nasce cosi, e -cosi nasce l'accusa mossa a Filolao e poi ad altri di aver violato il segreto pitagorico (Maddalena, I pitagorici, Bari, p. 90, n. 32). Aristotele, poi, sostiene che al tempo degli atomisti, quelli che sono chiamati pitagorici si dedicano allo studio delle matematiche e lo fecero progredire. Essi, dunque, nutriti nello studio delle matematiche, credeno che i principii delle matematiche sono i principii delle cose (Meta/., l, 5, 985b, 23-26). Evidentemente qui Aristotele si riferisce proprio a Filolao e all’italiano Archita, della famosa colomba mecanica. Dunque il pitagorismo, fondato sulla scienza dei numeri e della geometria, dei numeri interi prima, degl'irrazionali poi, attraverso l'influenza di Teeteto e di Teodoro, e in effetto posteriore a Pitagora e ai primi immediati suoi discepoli. Ma forse un altro passo di Aristotele può chiarire il complesso problema. Aristotele, accanto ai pitagorici aritmetici, ne pone altri. Altri pitagorici però dicono che dieci sono i principii, ordinati in serie: limite/illimitato, dispari/pari, uno/molteplice, destroy/sinistro, maschio/femmina, in-quiete/in-movimento, diritto/ricurvo, luce/tenebra, bene/male, quadrato/rettangolo. In modo simile pare che pensasse anche Alcmeone di Crotone, sia che apprese questo da loro, sia ch'essi l'abbiano appreso da lui (Metaf., I, 5, 986a-986b). ALCMEONE, medico della scuola di Crotone, vive circa al tempo in cui a Crotone fu Pitagora. A Pitagora, dunque, si puo far risalire il motivo delle opposizioni, delle cose vedute come determinantisi e quindi opponentisi. Forse di qui è nata la fama di Pitagora discepolo, nella lonia, di Anassimandro e di Anassimene. Discepolo o meno, certo nell’Ionia Pitagora conosce gli studi (!Lot&~!Lot't'cx) di Anassimandro e la sua visione geometrica della realtà scandentesi nel ritmo dei limiti e delle compensazioni entro la linea dell'indeterminato illimitato. Dalla materia indefinita, pura quantità, incomprensibile se non determinata, limitata e qualificata, cioè numerata, onde dal numerare si costituiscono le cose stesse, il passo e breve, come facile è l'affermazione che, dunque, le cose sono numeri. Probabilmente tale e la tesi dei primi discepoli di Pitagora, anche se non cosi esplicita. Piu tardi, sia da Parmenide di Velia sia, per altro verso, d’Eraclito, tale tesi della realtà scandentesi nei contrari, e aspramente criticata, soprattutto per l'implicita opposizione contraddittoria di ciascuna unità (uno per sé) alle altre unità (molti per sé). In Filolao si trova la tesi famosa dell'armonia dei contrari, del pari e del dispari che si costituiscono dall'uno-parimpari e, sottesa, una discussione serrata nei confronti di Parmenide, ed è probabilmente con Filolao che l'oggetto dei “!LCX~!LCX't'cx” pitagorici divenneno il numero, “cìp~&!Lo(“, mentre nei primi pitagorici e ancora il contorni di una cose, il di-segno, costituito di punti. Si venne cosi a delineare già nel pitagorismo due momenti storicamente determinabili. Uno originario, del tempo di Pitagora, in cui il tipo di indagine è vicino a quello di Anassimandro e di Anassimene. Un secondo che, dopo Parmenide di Velia, si delinea in un senso piu strettamente matematico e musicale, che però spiega come i suoi sostenitori (Filolao ed ARCHITA DI TARANTO) puossono proclamarsi pitagorici, recuperando certi “!L«&~!LCX't'CX” di Pitagora. Piu complicato ancora è stabilire storicamente l'aspetto religioso-magico di Pitagora, l'effettiva consistenza della setta d'iniziati che fonda a Crotone, i suoi rapporti da una lato con gli sciamani e il leggendario Abari, sciamano venuto dal nord (Dodds, “I greci e l'irrazionale”, Firenze, pp. 171 sgg.), dall'altro lato con ALCMEONE e la scuola medica di Crotone. Ancora durante il suo soggiorno in l’Ionia, Pitagora e famoso per la sua multi-scienza, ma anche per il suo atteggiamento di uomo attraverso cui parla il divino, per il suo atteggiamento magico-religioso. Si dice che tale suo fascino suscita nella Ionia meraviglia e forse anche diffidenza (M. Timpanaro-Cardini, “Pitagorici; test. e framm.,” I, Firenze, p. 4) ed si sostenne che Pitagora e un aristocratico che si trova in contrasto con il mondo ionico e milesio, razionalista e teso ormai a spiegare i fenomeni coi fenomeni (O. Gigon, “Der Ursprung d. griechischen Philos. von Hesiod bis Parmenides”, Basilea, pp. 120 sgg.). È questa un'ipotesi plausibile, che da un lato spiega il contrasto con Policrate di Samo, tiranno, democratico, circondato da una corte lussuosa, e dall'altro l'accoglienza data a Pitagora in Crotone, governata aristocraticamente, in lotta contro Sibari liberale e democratica. Sempre in via ipotetica si puo dire allora che certi atteggiamenti religiosi e magici Pitagora benissimo accolta durante i suoi viaggi in Egitto e poi a Creta. Cosi il motivo dell'immortalità dell'anima l’accolta dal dionisismo trace e cretese, dal demetrismo di Creta, trasformando quelle che erano credenze agrarie, e che oramai avevano assunto nelle città dell’Italia forme politico-religiose, in una incantagione di tipo medico quali trova tra i medici incantatori e sacerdoti egiziani e soprattutto tra i medici della scuola di Crotone. Di qui, forse, e nata poi la fama di Pitagora discepolo del cosiddetto orfico Ferecide di Siro, e la leggenda che Pitagora, giunto a Creta, scese nell'antro dell'ida, apprenne nei misteri le cose riguardanti gli dèi. Parte poi per Crotone (Pap. Herc., 1788, VIII, fr. 4). Cosi non sembra un caso che la'leggenda già nota a Platone (“Carmide”, 156d-e) -abbia fatto di Zalmosside, presunto discepolo di Pitagora, un medico che, accanto alla pozione o all'erba curativa, pronuncia un discorso incantatore, ch'era tipica pratica dei medici di Crotone, tra cui non va dimenticato che v'e ALCMEONE che e pitagorico, o, forse, viceversa, influenza i primi pitagorici. Ora, la. tesi ionica dei contrari, dei limiti e della compensazione, può essere propria anche di Pitagora, può spiegare, rifacendoci in particolare al motivo dell'aria o respiro di Anassimene, la testimonianza di Aristotele, secondo cui certi pitagorici ritennero che esiste il vuoto e che il vuoto entra nell'universo, in quanto l'universo respira dall'infinito, o “apeiron”, il respiro e il vuoto. Il vuoto, si dice, distingue le nature, essendo una specie di separazione e di distinzione delle cose consecutive (“Fisica”, IV, 6, 213b 22-27). Poiché la tesi dell'universo che respira ed è respiro è criticata in un frammento di Senofane (fr. 7: cfr. Diogene Laerzio, IX, 19), non del tutto aleatoria è l'ipotesi che il respiro dell'universo sia proprio del primissimo pitagorismo. La vita del tutto si scandisce, dunque, nel ritmo dei contrari per la forza della respirazione, di due moti contrari, emissione ed immissione, costituenti l'armonia del tutto, d'onde quella che e la cosmologia pitagorica. La vita risulta quindi dall'equilibrio della respirazione, dal soffio vitale (anima). L'anima è, quindi, presente a tutto e per ciò, nell'uomo, il venir meno dell'equilibrio, della compensazione è malattia e poi morte dei singoli, non del respiro che ri-vive in chi vive. Per questo, l’uomo muoe,  perché non puo ricongiungere il principio con la fine, si legge in un frammento di Alcmeone di Crotone (fr. 4). Qui, forse, anche il motivo pitagorico dell'immortalità dell'anima e della trasmigrazione, è terapeuticamente la cura del corpo che non può non essere accompagnata dalla cura dell'anima. E come il corpo si cura ristabilendo l'equilibrio, cosi l'anima si cura ristabilendo l'equilibrio, purgandola, purificandola mediante un apprendimento, mediante un’incantagione. E se l’insegnamento consiste nell'iniziazione alla visione dei contrari e del respirante· cosmo, l’incantagione si dove a un discorso e alla musica. Il sodalizio pitagorico a Crotone si delinea come una specie di scuola medica, in cui se da un lato il maestro iniziava ai “mathemata” putificatori, dall'atro, mediante una dieta, ;a prescrizione di cibi (fave, carni, ecc.), austerità di vita, tendeva alla cura dell'anima, a far si che l'uomo scande la propria vita all'unisono con la vita del cosmo. Senza dubbio vecchie credenze popolari, certi aspetti del dionisismo e de.i misteri cretesi, certi tabu, ricongiungendosi a tradizioni apollinee, sirveno benissimo a costituire questa vita pitagorica che in altri tempi, per altre esigenze assume ben diversi significati. Si venne cosi a costituire, probabilmente fin dal tempo di Pitagora, tutto un complesso di norme dietetico-religiose, un sodalizio purificatorio, in cui, secondo il racconto di Dicearco (Porfirio, Vita di P., 18-19), che fossero ammessi ad ascoltare il verbo del maestro, la verità (“autòs épha”, “ipse dixit”) e a far parte del sodalizio uomini e donne, e ove, fin dai primi tempi si ha la celebre distinzione tra acusmatici o acustici -- coloro che dovevano solo ascoltare -- e matematici, coloro che si iniziavano agli studi veri e propri e che furono probabilmente i continuatori dell'insegnamento scientifico del maestro. A Pitagora, dunque, si possa far risalire la visione del cosmo scandentesi nei dieci contrari (da cui poi prese le mosse la concezione aritmo-geometrica e musicale) e vivente del respiro (da cui la cosmologia); la concezione dell'immortalità dell'anima e della presenza dell'anima là dove sono esseri (e forse a questo allude il celebre frammento di Senofane, per cui l'immortalità dell'anima e la trasmigrazione si è fatta risalire ai primi pitagorici. Si narra che una volta, passando per dove maltrattavano un cagnolino, Pitagora impietosito pronunziasse, ‘Smetti di battere, poiché è certo l'anima di un mio amico: l'ho riconosciuto udendone la voce!’ (fr. 7); la cura medico-incantatrice dell'anima, ove sono presenti tradizioni magiche antiche, vive soprattutto in l'Italia meridionale, e tradizioni agrarie e mistiche che probabilmente proprio allora si costituisce in quelle associazioni che avranno poi il nome di orfiche e che giuocano in senso politico nelle ultime lotte dall’aristocrazia. Ed è qui che sia pure in via ipotetica - s'in- serisc~ il fatto che a Crotone, in un primo tempo, e accolto con entusiasmo l'insegnamento morale, equilibratore e GERARCHICO, di Pitagora dai circoli aristocratici che hanno in mano il potere quando Pitagora giunse a Crotone. Secondo la tradizione, la setta pitagorica e poi ostacolata e combattuta sia dagli aristocratici - essa, in fondo, dovette rivelarsi piu vicina alla latta condotta dai democratici in nome di una misura e di una legge che non fosse obbligatoria solo perché data dagli antichi signori che unici hanno in mano il potere. E non è forse un caso che si dice che a Pitagora si siano ispirati i legislatori Zaleuco di Locri e CARONDA DI CATANI, sia dai primi movimenti democratici che videro forse nella setta pitagorica un'eccessiva chiusura aristocratico-sacerdotale. La leggenda narra che l'aristocratico CILONE DI CROTONE, fattosi interprete dei malcontenti contro il sodalizio pitagagorico, che ha sede nella casa di Milone, assalta, insieme a molti altri, la casa, ov'erano riuniti i pitagorici, e l’incendia. Si dice che sfuggirono alla morte Archippo e Liside. Liside si rifugia a Tebe dove sembra fonda un circolo pitagorico. Certo a Tebe fiorirono piu tardi Filolao e poi Simmia e Cebete, i famosi interlocutori pitagorici del “Fedone” di Platone. Archippo si rifugia a Taranto, ove prosegue l'opera del maestro. Di Taranto e il pitagorico ARCHITA, amico di Platone. Quanto a Pitagora vi sono due versioni, l'una risalente a Dicearco (fr. 34 Wehrli), l'altra ad Aristosseno. Secondo la versione di Dicearco, prima dell'esplosione violenta dei Ciloniani che porta all'incendio della casa di Milone, Cilone fa allontanare Pitagora da Crotone. Pitagora si recato a Metapmto dove e morto ancor prima dell'incendio. Secondo la versione di Aristosseno (fr. 18 Wehrli), Pitagora sarebbe sfuggito al massacro, perché non era presente. Fuggito a Locri poi passa a TARANTO per andare, infine, a Metaponto dove e morto, probabilmente (cfr. Porfirio, Vita Pit., 56). Data l'indefinitezza della figura storica di Pitagora e del suo insegnamento, eopportuno delineare solo certe suggestioni la cui origine si possa effettivamente far risalire a Pitagora, suggestioni che hanno dato luogo a motivi molteplici e a interpretazioni che si son delineate su vie diverse (la via della legislazione, dell'aritmetica, della mistica, del SIMBOLO, della medicina), e che hanno profondamente inciso, per un verso o per l'altro, a seconda di certe esigenze o di altre, sulla cultura italic meridionale, costituendo, nella circolazione delle idee, componenti molteplici, sia nel mondo italico. l primi pitagorici. lppaso. Il medico Alcmeone. Si può dire che i primi pitagorici, quelli che Aristotele avvicina ad ALCMEONE DI CRONOTE, sono quei pitagorici che stabiliseno le dieci serie di opposti. Sono gli scolari di Pitagora o i discepoli piu vicini al maestro i quali pensano si al numero come rapporto e armonia, ma tra i componenti dell'armonia poneno oltre tutti gli opposti, anche l'uno e il molteplice. Ma come potevano accordarsi l'uno e il molteplice? (E. Paci, St. d. pensiero presocratico, Torino, p. 83). Proprio questo disaccordo o opposizione, tra l'uno da un lato e il molteplice dall'altro, impegna la discussione di Eraclito, mentre, per altro verso, imposta la polemica di Parmenide di Velia. Certo di numeri nel *senso* matematico della parola non troviamo accenno nei primi pitagorici, se non piu tardi con Filolao. Nei primi pitagorici si tratta-nell'esigenza di definire la quantità indefinite, il contorno di una cose, di un disegno, costituito di punti. In altri termini, i pitagorici scoprono, attraverso quanto, mediante Pitagora, e pervenuto dalla geometrizzazione di Anassimandro, che “intendere” significa “misurare”, e “de-finire, appunto di-segnare. E poiché il ‘di-segno’, lo schema, sotto questo aspetto la forma, la de-limitazione è linea. Un piano e un insieme di line. Un solido e un insieme di piani. Una linea e un insieme di punti. Si puo dire che ciò, senza di cui nulla è, e il punto, e che, dunque, la qualificazione, l'intelligenza delle cose è dovuta al punto stesso e alla variazioni spaziali dei punti, onde una figura e una schema, la cosa, e pure, numeri. Ciò che rende conto della realtà stessa, delle cose, e la misura. Ora, se l'unità è il *punto*, si capisce come l'unità sia unita accanto ad altre unità. Di qui l'opposizione uno/molti, e, nella configurazione della cosa-punti, le opposizioni pari/dispari, limitato/illimitato, destroy/sinistro, maschio/femmina, quiete/movimento, diritto/ricurvo, quadrato/rettangolo. E poiché il dis-pari è in-divisibile, e cioè riferibile all'unità, il dispari e anche bene e luce, mentre, all'opposto, poiché il pari è divisibile, riferibile alla molteplicità, il pari r anche *male* e tenebre. Nella tavola pitagorica delle opposizioni, abbiamo cosi una figura-punti dispari e una figura-punti pari, che, se vengono ra-ffigurati, come sembra facessero i primi pitagorici, con una squadra (gnomone), si de-terminano in modo che i lati della squadra resultino uguali nei dispari, mentre nei pari i lati resultano disuguali, e quindi mentre i primi sono sempre rapportabili all'unità, i secondi sono rapportabili alla molteplicità. Il quadrato a costituito di gnomoni dispari, il rettangolo di gnomoni pari, per cui il *quadrato è unità*, il rettangolo molteplicità, e via di seguito. Si puo cosi parlare di un numero quadrato e di un numeri oblungo, ed è probabilmente entro questi termini che assume significato la famosa uaternaria pitagorica, sulla quale, si è detto poi, i pitagorici giurano, dato il suo valore sacro. Il suo valore sacro deriva dal fatto che la rappresentazione geometrica della quaternaria è costituita da 10 punti messi in forma di triangolo avente quattro punti per lato, la cui somma 1 + 2 + 3 + 4 è uguale a 10. La quaternaria costitusce il numero perfetto, poiché racchiude in sé i numeri delle TRE proporzioni musicali (proporzione ottava 2:l, proporzione quinta 3:2, proporzione quarta 4:3), delle quattro specie di enti geometrici -- punto = l; linea = 2; superfice = 3; solido = 4) cioè di ogni cosa (cfr. Mondolfo-Zeller, “La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico” Firenze, p. 676). E questa un'interpretazione piu tarda. Unità-molteplicità resta, dunque, l'opposizione fondamentale. Compresa l'unità, la misura, l'armonia, rimane incompresa la molteplicità, la dis-armonia: il calcolabile (razionale) e l'incalcolabile (irrazionale, incommensurabile). Oppure gli uni rimaneno accanto agli uni e, dunque, ai molti dell'indefinito spazio (quantità), che fu forse il respiro di cui, sembra, parla Pitagora, o il vuoto cui accenna Aristotele. Solo che l'indefinito, de-finendosi, è un insieme di punti, è il contorno di cose che tuttavia si scandisce come pari e dispari, come infinito e finito, come comprensibile e incomprensibile, il tutto vivente dell'infinito (respiro), e quindi esso stesso, perché indefinito, incomprensibile, irrazionale. Di qui prende le mosse la critica di Parmenide di Velia, che, senza dubbio, ha rapporti coi primi pitagorici, anche se può essere leggendario ch'egli sia stato avviato alla filosofia, come dice Diogene Laerzio, da Aminia, figlio di Diocete, pitagorico (IX, 21). Ma di qui, crediamo, anche le due facce dello stesso Pitagora, da un lato volto ai “mathémata”, alla geometrizzazione, alle tecniche, e dall'altro al silenzio, alla via sacerdotale, come si dirà piu tardi, che coglie, come in un'iniziazione, di là dall'opposizione del finito e dell'infinito, del pari e del dispari, il divino respiro del tutto, la suprema armonia. Da questo, comunque, discende anche il significato medico dell'insegnamento di Pitagora e dei primi pitagorici, come particolarmente si rileva in ALCMEONE DI CROTONE, che se anche si accosta a Pitagora avendo già una sua certa formazione di origine milesia, poteva sopratutto attraverso il motivo dei contrari e dell'equilibrio, lui medico, accettare parte dell'insegnamento pitagorico. Come alla fisica ionica si ricollega probabilmente la primitiva dualità pitagorica apeiron/péras, cosi da quella stessa fisica trae verosimilmente Alcmeone alcune opposizioni: umido/asciutto, caldo/freddo, amaro/dolce, le cui potenze constata nella pratica della medicina, e che introduce in questa corrente pitagorica (M. Timpanaro-Cardini, pp. 119- 20). Dice cosi Alcmeone che la salute si mantenne dall'equilibrio delle forze, dell'umido, del freddo, del caldo, dell'amaro, del dolce e cosi via, mentre il dominio di un solo provoca la malattia (fr. 4), onde l’uomo muoie perché non puo ricongiungere il principio con la fine (fr. 2). E cosi non è un caso che medici e pitagorici siano stati anche CALLIFONTE e DEMODENE DI CROTONE, e poi di Taranto, medico e maestro di GINNASTICA.  Ed è probabilmente entro questa cerchia di interessi e di problemi, anche se discussa n'è la datazione, che rientra l'anonimo trattatello cosmologico-medico “Sul numero sette” (m:pl ~~3otJ.Ii3(1)v), i cui primi undici capitoli (forse piu antichi) descrivono il dominio del numero sette nell'universo, mentre i capitoli ultimi (XII-LIII) discutono le malattie partendo dalla premessa che gli animali e le piante che vivono sulla terra hanno una natura simile a quella del cosmo, i piu piccoli come i piu grandi (c. VI). A parte Pitagora, maestro e medico, nei primi pitagorici sembra abbiano prevalso, entro la visione totale di Pitagora, interessi piu particolari e tecnici, o per la medicina, o per la traduzione di una cosa in punto-figura, dai quali  si venne poi formando quella che sarà la cosmologia pitagorica (come può darsi sia il caso di Petrone d'Imera che ha una visione del cosmo in forma triangolare; o di Cercope, o di Brotino, o di Xuto, di cui in effetto non sappiamo quasi niente); o per la mnemotecnica (Parone) o la botanica (Menestore). Esclusi dalla scienza segreta, gli acusmatici con a capo Ippaso di Metaponto si ribellano contro i matematici, divenendo tali essi stessi, o meglio Ippaso, uno dei maggiori matematici del primo pitagorismo, egli che divulga il dodecaedro, iniziando le ricerche sugl'irrazionali.o incommensurabili,  poi proseguite da Teodoro e da Teeteto. Di fatto, le testimonianze su di lui sono molto discordanti e in discussione è anche il periodo storico in cui sarebbe vissuto. Ssecondo E. Frank, Plato u. die sogenannten Pyth., Halle, e quasi contemporaneo di Archita. Per quanto possiamo ricavare su Ippaso dalle testimonianze (tutte molto tarde, aristoteliche, post-aristoteliche e neo-platoniche) sappiamo ch'egli trova gl'irrazionali in geometria, il medio armonico in aritmetica (di qui l'avvicinamento ad Archita), gl'intervalli sin-foni in musica, la tesi dei periodi cosmici e del tutto costituito dal fuoco, per cui già in antico è stato avvicinato ad Eraclito (cfr. Waerden, in "Hermes," pp. 180 sgg.; M. Timpanaro, cit., pp. 105 e 78-83). La circolazione delle idee Epicarmo, commediografo, vissuto tra il 550 e il 460, nato forse a Cos, nell'Ionia, o a Megara Sicula, vissuto fin da bambino nella Isola di SCILIA e particolarmente a SIRACUSA, alla corte di Gelone e di Gerone, ove, sembra, conosceSenofane, ha, per i frammenti che di lui ci sono rimasti, pochi purtroppo, mportanza notevole come fonte. C'è chi in EPICARNO ha rintracciato motivi eraclitei, chi ha individuato motivi del primo pitagorismo (l'opposizione di pari e dispari: particolarmente interessante il fatto che, parlando di tale opposizione, per dire cosa siano le unità e il cangiamento delle cose, Epicarmo, sosteenne che si tratta di aggiungere o togliere pietruzze - fr. 2, - ossia i punti), chi ancora parladi chiari influssi senofanei. Originario di Cos, nell'Ionia, o di Megara Sicula, vissuto a Siracusa, fin da bambino, alla corte di Gelone e di Gerone, Epicarmo e il primo grande poeta della commedia dorico-siciliana. Si son conservati di lui un trecento frammenti e molti titoli, da cui si ricava che nelle sue commedie mette in parodia la mitologia (“Ulisse disertore”, Ciclope, Sirene, Ulisse naufrago), o si diletta di rappresentare figurine umane, tipizzandone i caratteri (Il contadino, Il megarese]. Isolando l'uno o l'altro motivo si cerca di delineare ora uno ora altro sistema filosofico di Epicarmo. Piuttosto che andar rintracdando una filosofia di Epicarmo, ciò che sembra importante è, da un lato, sottolineare il significato che hanno i suoi frammenti per stailire certi motivi propri del primo pitagorismo, ma soprattutto, dall'altro lato, per rendersi conto di come circolasno le idee e di come tali idee dovessero far presa ed essere discusse non in un certo ristretto mondo di intellettualima in piu vasti strati, costituendo una vera e propria atmosfera culturale. Non va scordato, a questo proposito, che Epicarmo e un commediografo, probabilmente uno dei primissimi. Sappiamo che la commedia (il canto del xé;l!Lot;, della festa orgiastica) come la tragedia (il canto dei <tpciy(l)v, dei capri) hanno origine da feste e riti collegati con il culto di Dioniso, e che il dionisismo e all'inizio, religione essenzialmente agraria, poi popolare nelle p6leis, e che via via s'imposne con la caduta dell’aristocrazie. La commedia sempre mantene il suo carattere popolare e, almeno piu tardi, popolare e politico, tanto che in effetto non poté mantenersi che in Atene democratica, ivi compreso il caso limite del conservatore Aristofane che, appunto, liberamente pone sulla scena la sua polemica politica contro gli uomini nuovi e i filosofi rivoluzionari. Probabilmente Epicarmo è il primo. Non senza interesse è che Platone (“Teeteto”, 152 d. c.) dica che nel genere della commedia Epicarmo è degno di stare a pari con Omero ad avere collegato e ahicolato in commedia vera e propria quelli che originariamente sono canti fallici e parodie popolari di miti distaccati gli uni dagli altri. Ora, proprio il fatto che Epicarmo scrive commedie e che, dunque, si rivolge a un certo pubblico, usando una certa tecnica di discorso, porta a pensare che quelli che distaccati dai contesti (che non abbiamo piu) sembrano possibili "sistemi " autonomi, dovevano essere in effetto motivi comprensibili a tutti, rispondenti anche se presi in giro a esigenze e problemi diffusi in un piu largo mondo. Sotto questo aspetto e per quel poco che di lui ci è rimasto, Epicarmo non fu né pitagorico né eracliteo né senofaneo. In lu,  pitagorismo, motivi eraclitei e senofanei stanno a denunciare un intrecciarsi di problemi e di interessi, in una riflessione consapevole, da un lato sulle tecniche per rendersi conto di fenomeni su cui operare, indipendentemente da ogni racconto della realtà, dall'altro lato sui metodi con cui intendere quella realtà stessa entro cui l'uomo vive, l'uomo stesso realtà, in città politicamente agitate e in via di assestamento, ove la misura, frutto di faticosa riflessione, la misura senofanea o lo misura eraclitea o quella pitagorica, la comprensione della natura e del metodo che può rivelare quella stessa natura ordinate (“cosmica”) puo dar luogo a misura cittadina, onde cosmo politico e politica cosmica finino con l'identificarsi, e dare un significato all'opera dei legislatori, di contro alla legge di prima la cui obbligatorietà riposa sulla antichità della legge dettata dai primi conquistatori, assurti a demoni, i cui discendenti, discendenti di dèi, hanno in mano i poteri politici, formando l’aristocrazia. Di qui la polemica di Senofane contro l'antropomorfismo degli dèi di Omero e contro le genealogie di Esiodo, di qui l'esclamazione di Eraclito che demone all'uomo e il logos a tutti comune, che è poi il logos che il tutto governa. Non sembra cosi senza interesse ricordare che le nuove esigenze culturali, il fervore di queste ricerche, le indagini tecniche, i tentativi di spiegarsi i fenomeni, l'esigenza di rintracciare quale sia la via (636t;) esatta per queste ricerche stesse, si siano avute nelle colonie ioniche e in quelle della Màgna Grecia nell’Italia meridionale, ove si intrecciàno anche con certe conclusioni dei culti dionisiaci, prima che nella propria Grecia. Qui assumono significato e sono oggetto di discussione pio tardi e in Atene democratica, al tempo di Pericle, quando oramai le città della lonia asiatica erano state assorbite dall'impero persiano e nelle città della Magna Grecia nell’Italia meridionale e in Sicilia i legislatori o i primi signori si erano trasformati in tiranni. Non sembra, dunque, senza importanza che a Epicarmo si puo accostare Senofane e Pitagora ed Eraclito. E ciò non tanto per Senofane, Pitagora, Eraclito presi in sé, in quella che e la loro coerenza (è vero anche che dei motivi eraclitei in Epicarmo si può a ragione dubitare), quanto per il fatto che sia nella lonia sia nelle colonie d'Occidente si rivele una comune situazione storica e politica che implica una comune e diffusa esigenza volta, dicevamo, al ritrovamento di tecniche e alla comprensione della realtà, di quello che è l'ordine del tutto. Particolarmente indicativo e in questo senso ricordare che quasi in questi stessi anni, in Atene in crisi, ed in via di rinnovamento dopo le guerre persiane, Eschilo, nel “Prometeo”, fa dire a Prometeo, che ha trovato cosi preziose invenzioni (!L1Jl«v/jfL«T«) in vantaggio dei mortali (v. 469). Gli uomini sono inetti prima che la chiarezza di spirito e dominio della mente a loro desi. Gli uomini in passato, pur vedendo, invano vedeno, e udendo udeno, ma simili a fantasmi di sogno nella loro lunga vita confusamente e a caso ogni azione compiano. Non conoscevano un sicuro SEGNO per presagir l'inverno o la fiorente primavera, ma senza conoscenza (')'VW!L1)) alcuna regolavano ogni azione. Ma finalmente a loro il sorgere degli astri rivelai e il tramonto si difficile a scernere. Inoltre il numero, somma di ogni invenzione (l~o:x,ov aocpLa!LiiT(I)V), trova  per essi, e le combinazioni delle lettere, costruttrice memoria di ogni cosa, madre dele Muse (vv. 442-461, trad. Untersteiner) Naturalmente qui non interessano per ora quali potevano essere le conclusioni, anche su di un piano politico, di tali ricerche, ma interessa sottolineare tutti questi motivi che rendono conto di come storicamente, in certi ambienti e in certe situazioni, si delineano certi problemi che dettero luogo a certe concezioni della realtà e della vita. Ed è appunto entro questi termini che sembra assumere il suo valore, nella polemica contro i pitagorici, e forse anche contro Eraclito, la ricerca della via, dell'unica via (636ç), o metodo di Parmenide di VELIA. Può darsi che Parmenide, cittadino di Elea, colonia focese sulla costa della Campania, vissuto tra il 520 e il 440 (tali date sono pura- [2 Platone, all'inizio del “Parmenide” (127b), narra che una volta durante le grandi Panatcnee, Parmenide e Zenone vennero ad Atene e si incontrarono con Socrate, allora giovanissimo, mentre Parmenide era già molto innanzi negli anni. Aveva circa sessantacinque anni. Calcolando sulle indicazioni di Platone si potrebbe dire che Socrate giovanissimo poteva avere allora sui diciotto anni, e poiché sappiamo che Socrate nacque nel 470i69, l'incontro tra Parmenide e Socratc potrebbe essere avvenuto nel 452 circa, per cui Parmenide dovrebbe essere nato nel 517 o anche nel 520 o 522, ché in effetto Platone non precisa esattamente i sessantacinque anni (cfr. anche Teeteto, 183e; Sofista, 2l7c). Secondo Diogene Lacrzio (lX, 1), invece, Parmenide sarebbe nato nel 544/400. Probabilmente Diogene Laerzio desumeva la sua cronologia da Apollodoro e dalla tradizione che s'era sforzata di far coincidere le date di Parmenide con quelle di Eraclito e di Senofane (Diogene L., IX, l, 20). Della sua vita sappiamo pochissimo. Sembra che si occupa di politica e che ordina la propria patria, Velia, con ottime leggi (Plutarco, .Adv. Colot., 32). Anche il poema di Parmenide va sotto il titolo “Intorno alla Natura” (sembra si dividesse in due nette parti, la prima intitolata la vmta, la seconda l'opinione). Ne sono rimasti in tutto !58 versi. 41    mente indicative), abbia risentito e discusso il motivo senofaneo dell'uno che tutto comprende, ch'è tutto mente, o viceversa che sia Senofane ad aver fatto tesoro dell'unica via di Parmenide. Può darsi che Parmenide discuta Eraclito e polemizzi contro le opposizioni di lui, o, piu facilmente, con l'opposizione unità-molteplicità, che implica nell'opposizione stessa di piu esseri il non essere, dei primi pitagorici. Può darsi infine che proprio dall'insegnamento e dalla problematica dei pitagorici -- si dice che Parmenide fosse stato iniziato alla ricerca e al sapere da Aminia pitagorico -- sia sorto in Parmenide il problema di quale sia la via che rende possibile il sapere e comprensibile il reale. Certo le testimonianze sono molto incerte e, a seconda della presa di posizione dell'uno o dell'altro testimone, si è puntato su uno o altro dei motivi parmenidei, facendo risalire a una o altra fonte, colorendo quindi di una o altra tinta quello che fu il pensiero di Parmenide. Proprio questo, tuttavia, può essere indice di come Parmenide, piu che sviluppare o portare a estreme conseguenze un certo "sistema," in effetto cerca, nella molteplice e diffusa discussione intorno alle possibilità del sapere, nella diffusa esigenza di come rendersi conto di quelle che sono le strutture che rendono intelligibile e comprensibile la realtà, d'inserire il proprio punto di vista, sçaturito dal discutere e l'una e l'altra delle posizioni. Alcuni frammenti che possediamo del suo poema (in tutto 158 versi, inseriti e citati in testi piu tardi) conforta questa ipotesi di un Parmenide calato in un preciso ambiente ove si dibatte, appunto, la questione dell'intelligibilità del reale. Cosi in tal senso, sembrano suonare le seguenti parole. Col solo pensierò esamina e decidi la molto dibattuta questione (fr. 7, v. 5); ma ora devi imparare ogni cosa e il cuore che non trema della ben rotonda verità e le opinioni dei mortali, in cui non è vera certezza (fr. l, vv. 29-30). La molto dibattuta questione e "ora devi imparare - cioè renderti conto - di come siano possibili le opinioni dei mortali," sono due espressioni molto precise che sembrano indicare da un lato come il problema di Parmenide nasca da un dibattito su questioni che stano a cuore e rispondevano a esigenze diffuse, e, dall'altro lato, come sia possibile, giunti a trovar la via che rende possibile il sapere, comprendere come sorgano le opinioni, ché, infine, di opinione (36~ac) si può parlare, finché non si sappia la verità (&>..of)&tLcc). Sembra lecito allora supporre che la sentenza di Parmenide (pare che il poema fosse piuttosto breve) venga alla fine di un lungo dibattito, di una ricerca che, scartando via via tutte le possibili vie, perché contraddittorie, trova l'unica via, unica perché non contraddittoria, su cui, dunque, si fonda l'unico sapere e di conseguenza la verità, "ben rotonda," appunto, e che non "trema," perché non contraddittoria, e, per ciò, essa stessa unica. 'Col solo pensiero esamina e decidi la molto dibattuta questione (fr. 7, v. 5). Abbiamo qui il punto su cui Parmenide impernia l'impostazione che rende valida la ricerca senza di cui non è possibile fondare un sapere verace e, a sua volta, la verosimiglianza delle opinioni (cfr. fr. l, vv. 31-32) intorno alla natura. Ora, può essere interessante sottolineare che il proemio (ne sono rimasti 32 versi e forse è intero) del poema, che a sua volta nettamente si divide in due parti (la verità, di cui leggiamo abbastanza; l’opinione, di cui non leggiamo che pochi frammenti), piu che con un volo poetico che rivelerebbe, com'è stato detto, l'entusiasmo dello scopritore, si apra con una serie di luoghi, di tapoi, lasciti di un comune modo di parlare, anche popolare, che evocano l'intento di Parmenide. LE CAVALLE CHE MI PORTANO fin dove vuole il mio cuore, anche ora mi condussero via, dopo che le dee mi ebbero [guidato sulla via molto famosa, che per ogni città porta l'uomo che [possiede il sapere (fr. l, vv. 1-3). Basti qui ricordare che, secondo Aezio (Plac., IV, 5, 5), per Parmenide sede della ragione (dell'egemonico, dice Aezio), come atto in cui si raccoglie il molteplice, è il petto, il cuore, e che il cavallo rappresenta, fin dai tempi piu remoti, la forza dell'intelligenza e la capacità dell'apprendere, perché sia facile riconoscere un motivo popolare-evocatore in quest'attacco del proemio. In altri termini Parmenide dice che la sua naturale capacità intellettiva - naturale e dunque divina - lo ha condotto fino alla distinzione Notte e Giorno (ivi guidato dalle vergini Eliadi, le figlie del sole, ed ecco un altro topo popolare, che affrettavano il corso verso la luce, liberando il capo dai veli (fr. l, vv. 9-10), lo ha condotto cioè fino al punto primo delle tradizionali distinzioni (da Esiodo ai misteri), all'origine verbale delle contraddizioni oltre cui è la non contraddittorietà, cioè l’alterità. lvi è la porta che mette ai sentieri della Notte e del Giorno, e ai due estremi la chiudono l'architrave e la soglia di pietra c la riempiono, in alto nell'etere, grandi battenti di cui la Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi dall'alterno uso (fr. l, vv. 11-14). La PORTA ROSSA DI VELIA si apre e benigna la dea accoghe Parmenide, perché ivi è giunto condotto dalle cavalle (cioè dal retto pensare), onde, appunto, la dea dice: Non fu un avverso destino a mandarti per questa via (che~ invero lontana dall'orma [dell'uomo), ma la legge divina, “thémis”, e la giustizia, “dike” (fr. l, vv. 26-28), cioè il giusto pensare, che è via lontana dall'uomo comune (tanto è vero che Parmenide usa il termine “anthropos” e non “aner”). Ma ora - prosegue la dea - devi imparare ogni cosa c il cuore che non trema della ben rotonda verità c le opinioni dei mortali, in cui non ~ vera certezza. Ma tuttavia anche questo imparerai, come l'apparenza debba configurarsi perché possa veramente apparir verosimile, penetrando il tutto in tutti i sensi (fr. l, vv. 28-32). L'accettare i dati dell'esperienza, di ciò che appare all'immediatezza dei sensi, implica molteplicità e dispersione, contraddizione; la definizione dell'indefinito implica il frantumarsi del reale in unità opposte fra loro, onde accanto alle cose che sono bisogna porre un non essere. Il pensiero, invece, coglie sé come discorso (logos), ma discorso che è unitd (mente, nas) ove ogni singolo membro del discorso si articola all'altro in una continuità che costituisce e presuppone il tutt'uno, compatto, che è la stessa realtà. Infatti a seconda di come in ognuno è avvenuta la fusione delle molto erranti membra, cosi la mente accompagna l'uomo. Poiché lo stesso ~ ciò che pensa - l'intima struttura delle membra - negli uomini, in tutti e in ognuno. Ché il pensiero ~ ciò che prevale (fr. 16). E allora quella stessa realtà, che nell'immediatezza sensibile e nella definizione puntuale appare molteplice e disarticolata, onde si pongono esseri accanto a esseri e quindi essere accanto a non essere, non appena si colga il pensiero, che è discorso e unità comprensiva (mente), quella realtà molteplice è essa stessa unità, cioè pensiero; e illusione il molteplice, il nascere e il perire, l'opposizione. Ma guarda tuttavia come le cose tra loro distanti sono invece per opera della mente saldamente unite. Infatti non scinderai l'essere dalla sua connessione con l'essere, né disgregandolo completamente in ogni sua parte, seguendo un certo ordine, né concentrandolo in se stesso (fr. 4). Parmenide punta subito sul pensiero, cioè sul discorso che è mente, ossia unità, o meglio comprensione totale e compiuta, per cui l'essere non è né un punto, ove tutto si concentra, né una serie disgregata di punti accanto a punti, ma totalità. In Parmenide, dunque, non si tratta tanto di un essere che è e di un non essere che non è, ma di due nostri modi di atteggiarsi di fronte a un'unica realtà: o si accettano le cose cosi come appaiono all'occhio, ai sensi, le une accanto alle altre, ritagliate e disarticolate, contraddittorie, nascenti e morenti; o, di là dall'apparenza fisica, si coglie, mediante la ragione, la ragion d'essere del tutto, che non è nessuno degli aspetti, ma è tutti insieme, simultaneamente: e non è mai stato e non sarà mai, perché è Qra (vuv) tutto insieme, nella sua compiutezza, uno, continuo (“lv auv~:x'<”) (fr. 8, vv. 5-6) o soltanto nella sua natura un tutto (faTL 3~ 11ouvov oÒÀoq~ué<;), come ha corretto l'Untersteiner. Le due famose vie di Parmenide (" orsu, io dirò ... quali sono le vie di ricerca che sole son da pensare ": fr. 2, vv. 1-2) si risolvono in effetto in una sola via legittima, quella del pensiero, che è l'unica che svela il reale. Pensare implica sempre pensare qualcosa, cosi come dire implica sempre dire qualcosa, ché pensare il nulla è non pensare cosi come DIRE IL NULLA è NON DIRE. Ora se pensare è pensare l'essere (perché il non-essere non puoi né conoscerlo -.è infatti impossibile, -né esprimerlo ": fr. 2, vv. 7-8), e se il pensare dunque implica l'essere, lo stesso è pensare (voc!v) ed essere (fr. 3). Per la parola e il pensiero (vo&:!v) bisogna che l'essere sia: solo esso infatti è possibile che sia e il nulla non è " (fr. 6); e poiché il pensiero è n~s(vou<;), mente comprensiva, e 16gw.(},6yo<;), discorso, cioè articolazione della molte- plicità in una sola unità, e l'essere e il pensare sono la stessa cosa, l'es- sere è mente, è cioè unità totale, compiuta (finita), circolare. Per me," dice la dea, "è uguale da qualunque punto cominci: poiché là tornerò di nuovo" (fr. 5). Pensare, dunque, e dire non si può che l'essere, per cui la via che è e che non è possibile che non sia (fr. 2, v. 3) è la via che, non essendo contraddittoria, è l'unica che persuade, ed è perciò la via della Verità ("questa è la via della persuasione, poiché segue la verità (fr. 2, v. 4); mentre l'altro modo di atteggiarsi di fronte alla realtà, quello della sensibilità, è una via che non è e che è necessario che non sia, e questo è un sentiero inaccessibile a ogni ricerca (fr. l, vv. 5-6). La conclusione cui la prima via conduce, e non può non condurre ("e, come era necessario, il nostro giuizio fu quindi di abbandonare una delle vie, perché impensabile e innominabile, e infatti non è la strada della verità, e che l'altra è ed è vera (fr. 8, vv. 16- 18), è che l'essere è e che solo dell'essere si può dire che è, solo è è è. Pensare l'essere, e non si può non pensare che l'essere, implica che l'essere è finito, cioè compiuto - ché a lui nulla può mancare, onde l'essere è totalità, ché, se fosse due o piu di due, tra l'uno e l'altro essere dovremmo ammettere un qualcosa che distingue e che dunque è diverso dall'essere, cioè il non essere che non è, per cui l'essere è tutto, ed è simultaneo (" è ora tutto insieme "), senza origine e senza termine, ché dovrebbe o scaturire dal non-essere o risolversi nel non-essere (per questo né il nascere né il perire gli concesse Dike allentando i legami, ma lo tiene ben fermo": fr. 8, vv. 13-14). L'Essere in quanto essere non ha né passato né futuro, ed è indivisibile, e poiché ogni parte dell'essere è essere e non può non essere, l'essere è identico tutto a se stesso. L'essere, dunque, è immobile ché,. se si muovesse dovrebbe muoversi in un luogo altro dall'essere, cioè nel non essere che non è (cfr. fr. 8, vv. 1-35). Totale unità, perfetto e quindi finito, indivisibile, immobile e immutabile, identico a sé, tutto presente sempre e, dunque, atemporale e aspaziale, tale l'Essere, quale necessariamente il pensiero può pensarlo senza contraddizione; o, meglio, QUESTI I SEGNI, crljji4TCX (fr. 8, v. 2), non contraddittori, tanto è vero che si possono ridurre a uno solo (a è), e quindi persuasivi, con cui si può IN-DICARE (SEGNARE) l'Essere. L'Essere, dunque, non si può umanamente che IN-DICARE, tanto è vero che, alla fine, Parmenide non può non pensare l'Essere che come sfericità compatta. Esso è compiuto tutto intorno, uguale alla massa di una rotonda sfera, che dal centro preme in ogni parte con ugual forza giacché· è necessario che non sia in questo o in quel punto di poco piu grande o piu piccolo. Da ogni parte identico a se stesso, urta in ugual maniera nei suoi confini (fr. 8, vv. 42-45, 49). Parmenide crede cosi di risolvere nell'unità totale dell'Essere la contradditoria opposizione unità-molteplicità, definito-indefinito dei pitagorici. Non a caso egli dice. Ti tengo lontano da quella via su cui errano i mortali che niente sanno, uomini a due teste ... gente indecisa per cui l'essere e il non essere è lo stesso e non è lo stesso, e per cui di ogni cosa v'è una strada, che può esser percorsa in due sensi (fr. 6, vv. 3-5, 7-9). Si può in questi versi scorgere una critica ai primi pitagorici e, forse, ai motivi piu diffusi e facili di Eraclito. Risolta, dunque, nell'Unità totale dell'Essere la molteplicità, il nascere e il perire, quella stessa molteplicità, quello stesso nascere e perire si rivelano contraddittori e quindi non veri. Il che significa che la contraddizione sta nel porre e nel definire le cose come enti o esseri accanto a enti o a esseri, cose che per sé nascono e per sé periscono, nel definire le cose come cose. Cosi facendo si ritiene, si opina di aver colto l'essenza, le forme delle cose, mentre in effetto si sono distaccati gli aspetti dell'è, si sono contraddette le cose, cioè l'essere stesso, onde opiniamo vero ciò che in effetto non è che puro nome. Perciò non sono che puri nomi quelli che i mortali hanno posto, convinti che fossero veri: divenire e perire, essere e non-essere e cambiar di luogo e mutare lo splendeQte colore (fr. 8, vv. 38-41). E qui va sottolineato che Parmenide non dice come Eraclito essere - non essere, nascere - morire, unica cosa. Ma dice essere e non essere, divenire e perire. Nell'e disgiuntivo sta la contraddizione e, dunque, il non vero, nella denominazione e definizione (nel contornare la cosa in senso pitagorico). E questo è tanto piu chiaro all'inizio ·della seconda parte (l'Opinione) del poema, ove Parmenide dice. I mortali nelle loro dottrine hanno dato nome a due forme, di cui una è di troppo- e in questo è il loro errore- e apponendole ne distinsero la figura, e vi apposero segni assolutamente diversi l'uno dall'altro. Qui la fiamma del fuoco etereo, dolce, e lieve al piu alto grado, e dappertutto uguale a se stesso,  ma non uguale all'altro; ed anche quello per sé, come suo contrario: la notte senza luce, massa densa e pesante (fr. 8, vv. 53-59). Nella molto dibattuta questione Parmenide sembra che chiaramente e consapevolmente, indicando la via da seguire, batta l'accento su ciò che è fondamentale per ogni ricerca, che, cioè, bisogna innanzi- tutto rendersi conto del campo e dell'orizzonte del proprio lavoro, ri-chiamando al principio che non è affatto afferrare e comprendere le cose il definirle, il raffigurarle, il nominarle: questa è, appunto, opi-nione, illusione. Il che non significa che, resisi conto di questo - che la realtà definita e SEGNATA con piu nomi diversi è un'illusione, è non vera, mentre l'Essere in quanto tale, il solo pensabile, si risolve nell'Unità totale, per cui il vero è l'Essere tutto, immobile e compatto, - il definire e il numerare, il distinguere e il nominare non siano, emro questi stessi limiti, un lavoro valido e utile. Appresa la verità, anche questo imparerai, come l'apparenza debba configurarsi, perché possa veramente apparir verisimile, penetrando il tutto in tutti i sensi (fr. l, vv. 28-32). Si chiarifica cosf il motivo della Notte e del Giorno del proemio che ora ritroviamo all'inizio della parte dedicata all'Opinione. L'unica via, che è quella del pensiero e sulla quale conducono le vergini Eliadi, porta oltre le distinzioni originarie di Giorno e di Notte (oltre quelle distinzioni che son servite all'uomo per definire e intendere il reale) annullando ogni distinzione nell'unicità dell'essere che è. Solo ora, solo quando si sia consapevoli di ciò, possono sussistere i due mondi, il mondo della verità e quello dell'opinione, come due modi diversi di cogliere l'unica realtà: sentita e tradotta in parole da un lato (opinione), e, dall'altro lato, còlta col pensiero e tradotta in una sola parola, la parola per eccellenza, è. Quando si sia consapevoli di questo, si coglie il valore ipotetico delle opinioni, che possono determinare e ritagliare una certa realtà verosimile. Di qui - crediamo - tra le opinioni, si pone l'opinione di Parmenide su come sia costituito il cosmo, di cui, pur- troppo, non abbiamo che oscuri accenni in Aezio. Quella di Parmenide sembra fosse una visione dell'universo concepito come un complesso di cerchi concentrici, costituenti tutti una sola circolarità, che, forse, era l'immagine verosimile dell'Unità del Tutto, della Sfera, e, sotto altro aspetto, giustificazione delle opinioni dei pitagorici. Avendo cosi risposto Parmenide alla dibattuta questione, avendo risolto l'essere, per non contraddizione, in una massiccia unicità, portando ad estrema conseguenza il tema parmenideo si poteva giungere alla considerazione che, in effetto, l'unico piano che resta all'uomo in quanto uomo è il mondo della opinione e delle parole, sulle quali parole si configura la realtà stessa e non viceversa. Sarà questa clusione di Gorgia; o ~ rovesciata la questione - si poteva giungere alla possibilità, sul piano delle parole, di infinite contraddittorie, che, in altro ambiente, e per interessi diversi - verso le discussioni e le antilogie dei sofisti e la confutazione di -potranno essere le conclusioni eleatiche dei Megarici. Senza le premesse di tale discussione e problematica si precisano chiaramente nei finissimi argomenti di Zenone di Velia, diseepolo e difensore di Parmenide, in cui si vede bene il taglio netto tra l'essere che è e in cui tutto si annulla, e il mondo umano costruito dall'uomo stesso. All'inizio del “Parmenide” Platone narra che una volta, durante le grandi Panatenee, Parmenide e Zenone vennero ad Atene. Parmenide era allora molto innanzi negli anni, tutto bianco, ma d'aspetto bello e nobile, e aveva circa sessantacinque anni. Zenone si avvicinava allora ai quaranta anni, di grande statura e bell'uomo (Parmenide, 127b). Platone dice, poi, che in quell'occasione Zenone lesse un saggio che scrive per difendere la tesi di Parmenide, ma k:he quel libro egli compose per amor di polemica e che per giunta un tale glielo aveva sottratto, per cui, Platone fa dire a Zenone. Nnon ebbi neppure il ternpo di pensare se fosse o no il caso di darlo alla luce (128a). Platone, forse, per dare avvio alla sua discussione, probabil-mente nei confronti dell'eleatismo megarico, si riallaccia di proposito a Zenone e a Parmenide mettendoli in rapporto con Socrate, allora giovanissimo, quel Socrate di cui poi i megarici furono discepoli. Può darsi, dunque, che Platone forza la notizia di Zenone ad Atene insieme a Parmenide, in un'epoca, il 455-450, in cui sembra difficile, per ragioni cronologiche, che Parmenide sia potuto venire ad Atene, o avesse circa sessantacinque anni. Nulla vieta, invece, di pensare che Zenone sia stato effettivamente ad Atene, anche se in epoca diversa, e che sia nato tra il 500 e il 490. Discepolo di Parmenide, Zenone nacque ad Elea nel 500/490. ·Platone (Parmenide, 127b) narra che nel 452 circa Zenone, venuto con Parmenide ad Atene, aveva circa quaranta anni. Tutte le fonti lo presentano come uomo prestante e altamente intelligente, che prese attiva parte alla vita politica della sua città, dove sarebbe eroicamente morto combattendo il tiranno Ncarco, quando, preso da Nearco e torturato, per non parlare si spezza la lingua con i denti, sputandola addosso al tiranno. Sembra che la struttura originaria del saggio di Zenone (o dei suoi saggi) fosse antinomica, e che [Altro punto sospetto è che Platone dice che il saggio che Zenone scrive e stato fatto circolare senza il permesso dell'autore. Potrebbe questo essere indice che Platone, in effetto, non espone la tesi vera di Zenone, anche se, nella finzione del dialogo, Zenone stesso approvi, con qualche riserva, il sunto che dei punti salienti dà Socrate. Platone, nel Parmenide tende a dimostrare l'impossibilità di pensare l'essere di Parmenide che porta dietro di sé l'altrettanta impossibilità di pensare i molti, onde, postici sul piano di Parmenide, risulta impossibile il discorso, un qual- sivoglia giudizio. Non interessa ora la soluzione di Platone e il suo tentativo di poter pensare l'Essere come dialetticità corrispondente alla dialetticità del pensiero, per cui si rendeva possibile porre un tutto oggettivo. come ordine dialettico e misura su cui scandire, attraverso la conoscenza di sé, lo stesso ordine politico. È tuttavia importante sottolineare che nei confronti dell'uno di Parmenide e delle opere di Zenone (che accettando l'ipotesi di Parmenide e anche accettando che l'uno di Parmenide si può, all'estremo, ritenere assurdo, vuoi dimostrare che altrettanto assurdo è porre unità accanto a unità, come i pitagorici, quando si ritenga che queste siano realtà per sé e non puri nomi), la polemica di Platone chiarifica quella che storicamente dev'essere stata l'aporia fondamentale in cui doveva trovarsi il lettore del saggio di Zenone. In verità - abbietta Zenone nel Parmenide di Platone - questo mio saggio vuol essere in certo modo una difesa della dottrina di Parmenidc contro quelli che cercano di metterla in ridicolo sostenendo che la tesi dell'esistenza dell'uno va incontro a molte conseguenze ridiwlc c contraddittorie. Vuole confutare perciò questo mio saggio quelli che asseriscono l'esistenza dei molti c render loro la pariglia e anche di piu, cercando di mostrare che la loro ipotesi dell'esistenza dei. molti va incontro a conseguenze ancor piu ridicole di quella dell'uno se si vuole andare in fondo alla ricerca (l28c-d). In effetto qui Platone corregge la sua prima affermazione che Zenone e Parmenide avessero detto la stessa cosa ("dite su per giu la cosa medesima ": 128b}, e per i suoi intenti lascia cadere la precisazione di Zenone. Ma ciò è fondamentale, perché, in genere, è con questi abili accenni che Platone distingue quello che a lui importa da quello che accantona, ma che corrisponde, quasi sempre, alla verità storica. Zenone, quaranta fossero gli argomenti contro la tesi che sostiene il molteplice e il moto. Platone che vede in Zenone il difensore dell"Uno di Parmenide, lo chiamò il "PALAMEDE eleatico" (Fedro, 26ltl). ] dunque, sarebbe parmenideo alla rovescia. Egli accetterebbe che l'Uno tutto di Parmenide porti alla finale contraddizione dell'impensabilità - proprio sulla via del pensiero - dell'Uno stesso. Solo che la facile critica dell'annullarsi dell'Uno deve tener presente che, ammessa la esistenza dei molti, di punti accanto a punti, come enti reali, si cade nelle stesse contraddizioni di chi pone l'uno. Zenone non dice mai cosa sia l'Essere. Zenone nega che posti i molti come esistenti, sul piano logico i molti esistano, confermando cosi la tesi parmenidea che i molti in quanto tali, in quanto definizioni, non sono che puri nomi. Ammessa, dunque, pitagoricamente, l'esistenza di punti reali costituenti le cose, bisogna necessariamente ammettere che ciascuna di tali unità in quanto punto ha una grandezza, anche se minima, onde in ogni punto vi sono infiniti punti e quindi ogni punto-unità sarà infinitamente grande; se il punto poi non ha gradezza, poiché le cose si costituiscono come aventi grandezza per l'unione dei punti, come sarà mai possibile che punti senza grandezza diano luogo a grandezze? n punto dunque, se non ha grandezza, non è (fr. l, 2). Ancora: ammesse piu cose costituite di punti, esse saranno ad un tempo in numero finito e infi.t;lito, il che è contraddittorio: saranno in numero finito, perché non possono essere piu o meno di quante sono; infinito perché tra l'una e l'altra ve ne sarà un'altra ancora, e tra questa e l'altra un'altra ancora all'infinito (fr. 3). Ancora: ammessa la molteplicità di cose reali per sé, bisogna ammettere o che sono continue, onde la molteplicità si annulla nella continuità, che, essendo divisibile all'infinito, è costituita di infiniti punti a loro volta divisibili all'infinito, fino al nulla; oppure che ogni cosa, limitando l'altra, occupa uno spazio e si distingue dal- l'altra per uno spazio: ma allora ogni spazio in quanto luogo implica un altro luogo e cosi all'infinito, sino all'unico luogo cioè l'uno, cioè il nulla (Aristotele, Fisica, 209a-210b; Simplicio, Fisica, 140, 34, 562, 1). Entro questa linea rientra anche il cosiddetto argomento del grano di miglio. Un grano o la decimillesima parte di un grano di miglio fa rumore: ora se fra un grano di miglio e un medimmo c'è proporzione, vi sarà proporzione anche tra i suoni, per cui se un medimmo di miglio fa rumore lo farà anche un solo grano (Aristotele, Fisica, 250a~ 19; Simplicio, Fisica, 1108, 18), ma ciò non avviene. Evidentemente quest'ultimo argomento rientra nei termini dei primi. Se l'uno, o la totalità, è impensabile irrelativamente, altrettanto impensabili sono i molti qualora si pongano quali realtà accanto a realtà. Nessuna parte del molteplice costituirà il limite ultimo e nessuna sarà senza una relazione con un'altra" (fr. 1). Poiché i molti sono impensaolli, se non. determinati come variazione di quantità di un CONTINUO, e poiché IL CONTINUO si può rappresentare come retta all'infinito, fino al nulla, i molti, se posti come realtà per sé, non sono. Cosi nell'ipotetica retta (nulla è pensabile se non in quanto estensione ed estensione che si qualifica) altrettanto inconcepibile è il moto, o meglio la possibilità dello spostamento e del passaggio da punto a punto, ché, dato, ad esempio, un segmento AB, tra A e B posta una metà A', necessariamente tra A e A', vi sarà una metà A" e cosi vita all'infinito – eis apeiron -- (argomento della dicotomia, cioè della divisione in due: Aristotele, Fisica, 233a, 239b, 263a; Simplido, Fisica, 1013; 4). Evidentemente non vi è allora passaggio tra un ipotetico primo punto A e il punto della linea accanto ad A, onde si può dire che Achille piè veloce" (in A) non raggiungerà mai la tartarugà che sia un passo avanti (in A"), ché, in effetto, logicamente, né l'uno né l'altra si muovono (argomento dell'Achille: cfr. Aristotele, Fisica, 239b; Simplicio 1013, 31), tanto piu che la linea, essendo costituita d'infiniti punti, è divisibile all'infinito, e quindi, all'infinito, si annulla. Analogamente LA FRECCIA non raggiungerà mai il bersaglio, dovendo percorrere l'infinito e rimanendo sempre ferma al punto di partenza (argomento della freccia: cfr. Aristotele, Fisica, 239b; Simplicio, Fisica, 1015, 19; Filopono, Fisica, 816, 30; Temistio, Fisica, 199, 4). Infine, dei presunti quaranta argomenti con i quali Zenone avrebbe dimostrato la contraddittorietà in cui pone o l'esperienza sensibile o la definizione dei dati che implicano la molteplicità o il movimento, abbiamo l'argomento detto dello stadio. Considerando in uno stadio un punto mobile che va ad una certa velocità, se lo si considera rispetto ad un punto fermo andrà, ad esempio, a dieci chilometri l'ora, se lo si considera invece rispetto a un altro punto mobile che vada alla sua stessa velocità in senso opposto, quello stesso mobile va a venti chilometri all'ora. Il quarto argomento - dice Aristotele - è quello delle due serie di masse uguali che si muovono in senso contrario nello stadio, lungo altre masse uguali, le une cioè a partire dalla fine dello stadio, le altre dalla metà, con velocità uguale; la conseguenza è, secondo Zenone, che la metà del tempo è uguale al doppio (Fisica, 239b; cfr. anche Simplicio, Fisica, 1016, 9 sgg). I celebri argomenti sul movimento, con cui, accettata la premessa che esiste il moto, con ferrea consequenzialità, di deduzione in deduzione, si dimostra come-sul piano logico, contraddicendosi, non si possa se non negare il moto (onde, appunto, Aristotele, secondo Diogene Laerzio, VIII, 57, nel “Sofista” andato perduto - ha potuto dire che Zenone fu padre della DIALETTICA, come arte del confutare), ci sono rimasti attraverso le discussioni e le critiche di Aristotele. Non sappiamo, in effetto, se tali argomenti fossero proprii del saggio di Zenone, ché le fonti precedenti, ivi compreso Platone (che fa intravedere solo gli argomenti contro l'esistenza della molteplicità), ne tacciono. Certo gli argomenti sul movimento potevano essere conseguenza di quelli sulla pluralità, che, portando a dimostrare l'intraducibilità della fisica in termini logico-matematici, per l'impensabilità del CONTINUO SPAZIALE, portavano anche a rendere impensabile il continuo temporale-spaziale su cui si determinano, definendoli, i punti-geometrici, i cui rapporti di movimento divenivano rapporti spaziali e, quindi, ancora una volta impensabili o contraddittori. La polemica di Zenone sembra quindi rivolta sia contro i punti- cose dei primi pitagorici (o se si vuole contro la riduzione a numeri interi delle cose da parte dei primi pitagorici), supponendo i numeri irrazionali, sia contro l'impossibilità di ridurre le esperienze della vita, della mutevolezza, alla sfera della ragione e dei numeri, senza perdere in puri nomi quella stessa vitalità. Le conseguenze della discussione di Zenone, tenendo presenti certe posizioni a lui contemporanee o immediatamente posteriori - lasciando da parte le implicazioni che vi hanno veduto certi storici, riferendo le tesi di Zenone ad alcune delle concezioni della matematica e della fisica moderna, - sembrano potersi indicare nei seguenti punti: l. impossibilità di ridurre la fisica in termini matematici; 2. conseguente impossibilità di pensare, e quindi di definire, sia l'Essere come totalità, sia la molteplicità; 3. consapevolezza che ogni ricostruzione matematica è valida, in quanto ipotetica e che altrettanto ipotetica è ogni ricostruzione fisica. Sul piano storico si determinano cosi: posizioni diverse, a seconda di quale aspetto della problematica, impostata da Zenone, veniva approfondito. O si insistito sul continuo giungendo a risolvere e ad an- nullare i molti (che restano come determinazioni valide su di un piano puramente linguistico) nel continuo stesso, cioè nell'infinita unità (Me- lisso); o si è risolto l'uno su di un piano puramente matematico, per cui l'uno non è nessuno dei punti della serie, né il pari né il dispari, ma la possibilità dell'uno e dell'altro, e che nell'opposizione-armonia dà luogo a un'ipotesi logica che spiega un'ipotesi fisica (Filolao e piu tardi Archita); o si è assunta l'ipotesi fisica del continuo divisibile al- l'infinito in infiniti punti ognuno dei quali, infinito, ha in sé tutte le infinite possibilità, gl'infiniti semi vitali, onde in ogni punto tutto è tutto (Anassagora); o si è fatta l'ipotesi che gli infiniti punti, proprio perché infiniti e quindi escludenti un passaggio dall'uno all'altro all'infinito costituiscono infiniti limiti, d'onde una infinita serie di limiti, d'indivisibili (atomi) implicanti nel limite una separazione, cioè un altro limite come vuoto (Leucippo, che fu discepolo di Zenone, e Democrito). Infine, se da un lato la problcmatica di Zenone portava a impo- stare l'intelligibilità del reale non come afferrante la struttura in sé del reale stesso, ma come ipotesi o fisica o matematica, dall'altro lato portava, nella consapevolezza dell'impossibilità logica dell'Essere o del divenire, della Verità, a rimanere sul piano dell'opinione c del discorso umani, entro i termini dello stesso mondo dègli uomini e dei loro rapporti (Protagora, Gorgia). Da quelli che sembrano essere i frammenti autentici (111) del poema di Empedocle di Girgenti, che va sotto il tradizionale titolo “Sulla natura”, ciò che pare potersi ricavare è la seguente concezione. La realtà tutta è costituita di quattro elementi o radici (p~~6ljL«T«): fuoco (Zeus lucente), aria (Era donatrice di vita), terra (Edoneo), acqua (Nesti, le cui lacrime son fonte di vita per i mortali); Tali radici non hanno nascita (&yhot-r«). Ciò che vico detto nascere e perire non è altro che il mischiarsi in uno o altro modo degli elementi di fondo. Vi sono due forze, l'una che unifica (amor~, cpLÀEot), l'altra che separa e distingue (discordia o odio, ve!xoc;), mediante cui la realtà tutta si scandisce in un ritmo, ovc a un primo momento, in cui predomina la forza unificatrice (amore) e in cui le quattro radici (tutte uguali c tutte aventi la stessa dignità: fr. 17, vv. 27-30) sono mescolate insieme come in uno sfero (si è parlato di ricordi parmenidei), succede un momento in cui nella lotta di Odio e di Amore - non ancora del tutto disgiunte le radici [Nato ad Girgenti nel 492 circa, sembra che Empedocle sia morto nel 432. Le notizie sulla sua vita e sulla sua morte sono leggendarie. Si dice che abbia avuto rap- porti coi pitagorici (cfr. Diogene Laerzio, VIII, 54-55) e con Parmenide, durante un suo viaggio a Velia (Teofrasto, Pllys., fr. 3, Dids, DorograpA; G., p. 477). Fu di parte democratica e politicamente attivo. Sembra che Empedocle abbia scritto piu opere; di una parte di esse non ci son tramandati che i titoli (Politica, Della med;cina, Proemo ad Apollo); d d poema Sulla Natura (ficp\ ~)leggiamo I l i frammenti, del poema Puri#- caz;o,; (l{d«pJLOl) pochi frammenti. 62    sorge la vita vera e propria, che è amore e contesa a un témpo, unità e distinzione, finché per il predominiò di Odio le quattro radici si di- stinguono totalmente restando masse accanto a masse. In effetto il ciclo cosmico è sempre tutto insieme uno, ché l'Essere consiste appunto in questo scorrere e trapassare dall'unità dello sfero alla distinzione delle radici, dall'uno all'altro polo, ove l'essenza delle radici resta sem- pre quella che è, mutandosi le cose per la tensione delle due forze op- poste: le due forze che reggono il mondo sono state ieri e saranno domani, e mai l'infinito tempo di questa coppia sarà vuoto (fr. 16). D'altra parte la massa dell'acqua, o quella del fuoco, o della terra, o dell'aria, è costituita, ciascuna, d'infinite particelle d'acqua, di terra, di fuoco, di aria, onde nel momento d'Amore sono tutte fuse e confuse insieme, mentre nel momento di Odio si distinguono separandosi e tutte le particelle di acqua si unificano nell'acqua, quelle di fuoco nel fuoco, quelle di terra nella terra, quelle di aria nell'aria. Aristotele poteva cos( sostenere che Empedocle cadeva in contraddizione perché, alla fine, Amore separa e Odio unisce: quando, infatti, per opera di Discordia, il tutto si disgiunge negli elementi, allora il fuoco si .raccoglie in una unica massa, e cosi ciascuno degli altri de- menti; quando, al contrario, per azione di Amore, essi si raccolgono nell'Uno, è necessario che di nuovo le parti di ciascun elemento si separino fra loro (Metaf., l, 4, 985a m). A parte l'abbiezione di Aristotele, ciò che resta proprio di Empe- docle è che la realtà è costituita di infinite particelle di acqua, di terra, di fuoco, di aria, che, distinte per qualità, sono, come sfondo originario su cui tutto si ritaglia, una unità indistinta, ove le distinzioni avvengono per la tensione delle due forze. E allora, per Empedocle, la vita, l'esistenza, è appunto il momento intermedio, che non è né pieno amore né pieno odio, ma, appunto, la tensione i cui momenti estremi sono come termini ideali di un ciclo, che in quanto ciclo è sempre quello che è, cioè la tensione stessa. I dati dell'esperienza, portata all'estremo, dànno che tutto ciò che è, è riducibile a quattro elementi: solidi (terra), liquidi (acqua), aeri- formi (aria e fuoco). Tali elementi sono irriducibili ad altro, se non all'essere che è i quattro elementi stessi nella loro unità, donde l'ipotesi di un'unità ongmaria e di una distinzione ultima, entro·cui, come arco di un pendolo, oscilla il costituirsi di tutte le cose, in virtu delle forze di attrazione e di repulsione, cui si giunge, sempre per esperienza, in quanto forze che ciascuno vive quotidianamente. Questo sembrano significare i versi del secondo frammento. Angusti poteri sono diffusi per le membra. Gli uomini vedono solo una piccola parte di una vita che non è vita. Condannati a pronta morte, sono rapiti e si dileguano come fumo. Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a caso s'imbatte. E sospinto in tutte le direzioni si vanta di scoprire il tutto. Tanto è difficile che queste cose siano viste o udite dagli uomini e abbracdate dalla loro mente. Tu, dunque, poi che sei qui giunto, saprai non piu di quanto la mente umana possa (fr. 2). L'uomo in quanto uomo, in quanto amore e odio a un tempo, in quanto fusione ancora e distinzione dei quattro elementi, se da un lato non può cogliere il momento originario della totale fusione nello ~fero (fr. 27-28) d'amore, ché in quel momento, questa attuale realtà, l'uoniò, non è piu (a lui, all'essere, è impossibile accostarci s1 da raggiungerlo con gli occhi e afferrarlo con le mani, che è la via di persuasione maggiore che arrivi al cuore dell'uomo (fr. 193), dall'altrv lato tuttavia può rendersi conto, proprio perché la realtà quale appare all'uomv è unione e distinzione degli elementi, che i due termini estremi sona unità totale e fusione delle radici e distinzione delle quattro radici in masse accanto a masse. Ipotesi l'una e l'altra (tu dunque saprai solo questo cui poté assurgere la mente umana -- fr. 2), fondata sull'esperienza di ciò che all'uomo, momento della realtà tutta, è dato sentire, vedere, toccare, vivere, in quanto esperienza di vita, cioè di forze vitali nella loro opposizione. E te vergine Musa dalle candide braccia, supplico, di ciò che è giusto udire agli uomini che hanno la vita di un giorno. Tu, dunque, uomo, con ogni tuo potere scorgi, in quanto è palese, non piu fidando all'occhio che all'orecchio, non all'orecchio sonoro oltre la chiara fede del gusto, e a nessuna delle altre membra, per quante è una via di conoscenza, nega fede, ma conosci ogni cosa in quanto è palese (fr. 4). E poiché, appunto, la via di persuasione maggiore che arrivi al cuore dell'uomo è la via dell'esperienza diretta (fr. 193), è questa che pone l'uomo di fronte alla realtà costituita di terra, di fuoco, di acqua, di aria, e a questa Empedocle richiama. Su via! Vedi un po' se nelle testimonianze che ti ho dato ho commesso qualche errore, parlando della forma ((Lopq~~) degli elementi. Guarda, dunque, il bianco sole il cui calore ovunque si spande, e tutte le costellazioni infuse di vaporosa chiarezza, e la pioggia che reca freddo e nuvole ovunque, e la terra donde scaturisce tutto ciò che è saldo e compatto (fr. 21). Non solo, dunque, si dimostra l'esistenza del fuoco, dell'acqua e della terra per via puramente sperimentale, ma anche l'esistenza dell'aria, cioè dello spazio come pienezza corporea, escludente il vuoto che è non essere inconcepibile, mediante la prova famosa della clessidra. Empedocle descrivendo il processo respiratorio, dimostra l'esistenza dell'aria come corpo, immergendo una clessidra nell'acqua. Quando una fanciulla, giuocando con una clessidra di lucente rame, ne copre il foro con la sua mano ben modellata, e la immerge nella cedevole argentea pozza, il volume dell'aria che preme dall'interno dell'orifizio impedisce all'acqua di entrare, finché la fanciulla non libera la corrente d'aria compressa. Allora, non appena l'aria ne esce, l'acqua vi entra in quantità uguale (fr. 100, 8-21). E, cosi, sperimentabili sono le due forze (amore e odio) dalla cui tensione nascono e muoiono tutte le cose, senza che gli elementi subi- scano variazione. E manifesta è la lotta tra Amore e Odio anche nell'insieme del corpo umano. Quando sotto l'azione di Amore, gli elementi si riuniscono in una sola massa, allora i corpi fioriscono di crescente vita; quando sono disgiunti dalla funesta Discordia, allora le membra errano separatamente verso le prode estreme della vita (fr. 20). L'uomo, dunque, in quanto momento intermedio dell'oscillazione pendolare del tutto, trovandosi come al momento culminante della tensione su cui la realtà tutta si scandisce, avendo in sé gli elementi e le forze su cui si struttura la realtà, può conoscere la realtà stessa in quanto le sue strutture coincidono con le stesse strutture costitutive della realtà. Di qui l'affermazione di Empedocle che il simile conosce il simile, che fra le parti vi è un'attrazione simpatetica. Si pone cosi in maniera consapevole il problema del conoscere, possibile in quanto le strutture della realtà coincidono con le strutture del soggetto, in una identificazione delle parti del soggetto alle parti dell'oggetto (con la terra vediamo la terra, con l'acqua l'acqua, con l'etere l'etere divino, e  col fuoco il fuoco distruttore, con l'Amore l'Amore e con la funesta Discordia la Discordia (fr. 109), ch'entrano in comunicazione mediante effluvi emananti dalle cose e che penetrano nei sensi per mezzo di pori. t evidente in Empedocle una forte preoccupazione metodologica, per spiegare il ritmo della realtà tutta, una e, nell'unità, molteplice. Fondandosi sui dati di un'esperienza totale, si rende verosimile l'ipotesi fisica del tutto i cui termini opposti, idealmente dati (la fusione di tutti gli elementi, la separazione degli elementi accanto agli elementi), diano conto di quella che è in atto la presenza della realtà. Ipoteticamente son cosi concepibili i due estremi dell'unica oscillazione e. la formazione e la disgiunzione della situazione attuale. Dalla fusione del tutto, poi, via via, si costituirono le cose: dapprima, ad esempio, sulla terra spuntarono teste senza colli, ed erravano le braccia nude prive di spalle, vagavano occhi soli sprovvisti di fronti (fr. 57). Molti esseri nacquero con doppie facce e petti, e buoi con facce d'uomini, o sorsero busti umani con teste bovine, e forme miste di maschi e di femmine, provviste di membra villose (fr. 61). Per giungere infine, attraverso il punto intermedio della parziale unificazione e disgiunzione, alla totale disgiunzione degli elementi. Una, dunque, la realtà, e molteplice a un tempo. Immobile nell'essere dei suoi elementi, mobile nello svariare dellè congiunzioni e disgiunzioni, entro il ritmo delle due forze opposte che governa il tutto, il tutto che sempre è, pur nelle sue facce molteplici. Si capisce cosi come anche Empedocle {leghi ogni antropomorfismo, come egli canti l'essere uno vitalità, “cpp-l)v”, ineffabile, che per tutto il mondo si slancia con veloci pensieri (fr. 134), come l'appello alla natura sia- un appello polemico, di contro a certe credenze popolari, un appello all'indagine scientifica. Gli uomini vedono solo una piccola parte di una vita che non è vita. Condanna~ a pronta morte, sono rapiti e si dileguano come fumo. Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a caso s'imbatte. E sospinto in tutte le direzioni si vanta di scoprire il tutto. Tanto è difficile che queste cose siano viste o udite dagli uomini o abbracciate dalla loro mente. Tu dunque, poi che sei qui giunto, saprai non piu di quanto la mente umana possa (fr. 2). L'appello di Empedocle all'esperienza è chiaro. Egli distoglie l'amico Pausania, cui il poema è dedicato, dal disperdersi dietro ciò che appare nell'immediatezza, dall'aver brama di ciò cui tendòno gli uomini volgari, per richiamarlo ad ascoltare e a meditare sul suo insegnamento: Se nella trama serrata del tuo pensiero comprendi con chiarezza le mie lezioni, se con spirito puro ti lasci iniziare, le mie tesi tutte e per sempre ti saranno presenti e molte altre ancora ne acquisterai, perché per sé si QCcrescono nell'uomo, ciascuna secondo la sua natura (fr. 110). Attraverso l'indagine della natura, di esperienza in esperienza, in un collegarsi intelligente delle esperienze stesse, l'uomo, egli stesso natura, si fa davvero partecipe della natura, modificandola in un unico processo. L'indicazione evidente del metodo costituisce una tecnica con cui operare, e adeguarsi alla realtà stessa: Conoscerai cosi quanti rimedi vi sono dei mali e riparo della vecchiaia. Placherai. L’mpeto degli infaticati venti, che, balzando sulla terra, con il loro soffiare inaridiscono i coltivati, e, se tu vuoi, potrai richiamarli quando possano servire. Dopo la pioggia darai all'uomo la siccità propizia, e dopo l'arida estate la feconda acqua che nutre l'albero e le messi future (fr. 111). Di qui, probabilmente, e da altri testi simili a questi è nata piu tardi la leggenda di un. Empedocle mago e taumaturgo, nell'epoca in cui sono nate anche le leggende su Pitagora, che non a caso è stato piu volte avvicinato a Empedocle. Si narra che Empedocle fa sbarrare una gola montana da cui soffiava, greve e pestilenziale, il vento di mezzogiorno sulla pianura (Plutarco, De curios., 515c); che arresta la pioggia, che salva gli agrigentini da una pestilenza e cosi via. Potremmo moltiplicare gli esempi. Evidentemente, in un'epoca che anda rintracciando, a sostegno di proprie tesi, dati miracolosi, si son ritagliati certi aspetti e certi testi di Empedocle, che potevano servire. In effetto, ricollocando Empedocle nel suo tempo (nacque nel 492 circa e muore nel 432), nella sua città, Girgenti, in un'epoca di grande attività economica e politica, in una Sicilia in cui sappiamo che circolano le idee di Senofane, di Pitagora, della scuola medica di Crotone, di Parmenide, di Eraclito, la figura e la personalità di Empedocle non hanno nulla di straordinario. Egli e uno scienziato, che, atraverso una serie di esperienze, formula, tenendo presenti i risultati di Parmenide, di Eraclito e la polemica di Senofane, l'ipotesi del tutto che costituito di quattro elementi, fusi e confusi in una sola unità come sostrato, si distinguono ed. esistono per virtu di due forze opposte. Ora, se il metodo di Parmenide e uno metodo strettamente logico, quello di Empedocle è un metodo empuiStlco e razionale, che imposta, a sua volta, il problema del rapporto fra natura e uomo che; parte della natura, può, in quanto sappia il ritmo della natura stessa e la sua costituzione, modificare sé e la natura. Sotto questo aspetto la fisica di Empedocle è, ad un tempo, la sua morale, tesa, attraverso l'indicazione del metodo e delle vie dd conoscere, a purificare gli altri, la maggioranza dei cittadini ignoranti, legati a tradizioni, a riti, a concezioni che Empedocle, conscio di una piu ardita cultura, sente come estremamente invecchiati e falsi. Cosi, leggendo i pochi frammenti che sono rimasti dell'altro suo carme, “Le purificazioni” {xot&otp!Lo(), si ha la consapevolezza precisa di trovarci di fronte a un uomo vissuto in un certo ambiente, che ha la coscienza di respirare una nuova atmosfera culturale, effettivamente civile, e in questo senso purificatoria, di avere. contribuito a fare avanzare la scienza, che non può essere solo patrimonio di alcuni, ma che diviene davvero operante in quanto si divulghi, formi una diversa coscienza critica, un diverso equilibrio e rapporto umano che diviene, dunque, azione politica, naturalmente entro i termini di una certa situazione storica. In quanto rivolta ai piu, ai concittadini di Agrigento popolosa e arretrata, la sua lezione può apparire come profetica. Ma come storicamente, per non equivocare, non diremmo Empedocle taumaturgo, cosi neppure lo diremmo profeta o mistico. Il suo discorso ai piu, il carme pun"'ficatorio, è, in effetto, molto chiaro nella sua genesi, quando lo si riconduce a quello che probabilmente ha voluto essere. Il discorso di un saggio che rivolgendosi a un pubblico, a una massa, senza dubbio arretrata, usa un linguaggio comprensivo per quel pubblico, al quale egli appare, appunto perché sapiente, come un dio e un sacerdote di una nuova religione. Sotto questo aspetto la sua parola vuoi essere incantatrice, indicando ai piu.la via da seguire, indicando, pur nella necessaria discordia, la strada dell'equilibrio e dell'amore, facendosi dunque parola medica e politica. Amici, che abitate la grande città che declina al biondo Acragante, sul sommo della cittadella, uomini usi a fare buone opere, fidi porti di ospiti, che non conoscono la perfidia, a voi salute. Io al vostro cospetto non piu· mortale, ma un dio, mi aggiro, fra tutti onorato come ne sono degno, coro- nato di bende e di fiorenti serti. Uomini e donne mi venerano e mi seguono in grandissimo numero, chiedendo la risposta mia che guida a salute. Gli uni vogliono oracoli, altri di malattie innumeri domandano la parola che sana, lungamente da aspre doglie trafitti (fr. 112). La via che guida a salute, la parola che sana. Aristotele dice (secondo Diogene Laerzio, VIII, 57, nel “Sofista” perduto) che come Zenone di Velia inventa LA DIALETTICA, Empedocle inventa LA RETORICA, l'arte del dire. E cosi si dice anche che Gorgia, fratello di un medico, e discepolo di Empedocle, e che Empedocle scrive anche un trattato di medicina, e che ha contatti con i medici di Crotone, con i medici pitagorici e con i medici agrigentini Pausania e Acrone. Non possiamo giurare sull'esattezza di queste notizie, ma sono sintomatiche di un certo indirizzo. Senza dubbio il Carme Purificatorio (ch'ebbe grande successo anche quando fu letto ad Olimpia) è una specie di discorso medico-oratorio (iatrosofistico), probabilmente sulla linea dei discorsi medico-incantatori dei primi pitagorici e della scuola medica di Crotone (anche se diverso n'è l'insegnamento), che venivano, d'altra parte, a coincidere, data una precisa concezione del tutto, con il movimento politico delle democrazie sicule. E democratico e politicamente attivo sappiamo che e Empedocle. Ora, se in Empedocle abbiamo una concezione fisica che puo, nel suo insistere sull'uomo come parte del tutto e partecipe della vicenda cosmica, coincidere con .certe visioni dionisiaco-popolari, d'altra parte egli, giuocando su quelle, tende a purificarle di ciò ch'esse, sul piano rituale, avevano di torbido e d'irrazionale; e, rifacendosi appunto alla concezione del ciclo cosmico, ove nella vicenda del tutto nulla va perduto, per cui su di un piano mitico si puo sostenere la trasmigrazione delle anime, tenta di allontanare il volgo dall'uso dei sacrifici umani e dall'antropofagia, lascito d'antichi riti. Empedocle, cosi:, sottolinea che l'uomo, in quanto parte della natura, è divino, onde compito dell'uomo è uniformarsi al ritmo stesso su cui si scandisce il tutto, tendendo all'equilibrio delle forze, di Amore e di Discordia, senza far prevalere Discordia, la cui mancanza tuttavia annullerebbe l'uomo stesso, per cui, anche se l'aspirazione è all'unità totale e divina, tuttavia l'uomo, proprio perché uomo è anche discordia e lotta, senza di cui neppure si renderebbe conto di Amore, senza di cui non sarebbe sapiente, senza di cui non istituirebbe quell'equilibrio chç è la salute dell'uomo e del tutto, onde Empedocle sarà cantato da LUCREZIO (1, 710 sgg.). Cosi se nel carme “Sulla Natura” leggiamo: poiché Contesa, nelle membra, grande s'accrebbe, e al suo onore insorse, compiutosi il tempo che ad Amore e a Contesa è prefisso, in alterna vicenda per ampio giuramento (fr. 30); nel Carme purificatorio éos1 suona il frammento 115. V'è un oracolo del fato, antico decreto degli dèi, suggellato di larghi piuramenti: se mai alcuno dei dèmoni che ebbero in sorte una lunga vita, macchi le sue membra di sangue, o seguendo la Discordia empio spergiuri, vada errando tre volte diecimila anni lungi dai beati, nascendo nel corso del tempo sotto tutte le forme mortali, permutando i penosi pensieri della vita. Perché la forza dell'aria li tuffa nel mare, e il mare li sputa nell'arida terra, la terra nelle fiamme del sole fulgente, che li lancia nei vortici dell'aria, l'uno li riceve dall'altro e tutti li respingono. Uno di essi anch'io sono, fuggiasco dagli dèi ed errante, perché fidai nella folle Discordia. Ma l'uomo è anche amore, amore che si pone, mediante la discordia, come termine di realizzazione, onde se da un. lato a questo porta l'indagine sperimentale e metodologica, dall'altro a questo è possibile aniare i piu·mediante certe tecniche di discorsi, LA RETORICA, che viene ad essere a un tempo medicina e politica. Gran parte ddle leggende su Empedocle, miracoloso guaritore e resuscitatore di morti, uomo divino e profeta, derivano da certi passi del Carme Purificatorio, che sono poi serviti, in tarda epoca, a far di Empedocle unà specie di santone, accomunandolo non senza perché àlla leggenda di Pitagora, e, per altro verso, a Orfeo, allorché si parlerà dell'aurea catena della verità divina rivelatasi attraverso la catena degli iniziati. Cosi anche la morte di Empedocle è rimasta avvolta nella leggenda. La piu fàmosa è quella secondo cui Empedocle, per disfarsi dell’estranea tunica di carne (fr. 126) che lo riveste, per tornare (ed è evidente, in Plutarco e in Porfirio da cui è tratto il frammento, l'interpretazione orfico-pitagorica) alla patria celeste, si sarebbe gettato nel cratere dell'Etna, che avrebbe poi eruttato uno dei calzari di bronzo del filosofo (cfr. Strabone, VI, 274; Diogene Laerzio, VIII, 70; Suda, s.v.). Ma altrettanto sintomatica è l'altra leggenda secondo cui Empedocle, dopo aver resuscitato una donna, durante la notte, dopo un banchetto, chiamato da una gran voce, in mezzo a un immane bagliore, sarebbe scomparso in un'apoteosi, tornando, egli divino, tra i numi del cielo (cfr. Eraclide Pontico, in Diogene Laerzio, VIII, 67 sgg.). Qui, d'altra parte, s'innesta LA RETORICA DI GORGIA e se ne chiarifica la portata. Non preoccupiamoci - egli dice - dell'Essere e del Non-essere, tanto l'uno e l'altro sono la stessa cosa. Che ci sia o non ci sia quel mondo è lo stesso, perché non è conoscibile (Del non ente o della natura). Se ci crediamo, accettiamolo. Ma esso non incide affatto su questo nostro mondo umano, che è il mondo dell'illusione e dell'opinione su cui si agisce facendolo e ordinandolo mediante la parola e l'arte della parola (RETORICA). L'Elogio di Elena di Gorgia sarà anche una pura esercitazione o uno scherzo, ma è senza dubbio uno scherzo assai serio, che proprio, in quanto esercitazione, mette chiaramente a nudo cosa Gorgia intendesse con RETORICA, indipendentemente (come Protagora) da ogni preoccupazione d'ordine logico-gnoseologico. La parola domina tutta quanta la vita affettiva. Con la parola discipliniamo gli affetti. La retorica, dunque, è fondamentale nella formazione degli uomini, meglio nella istituzione della vita sociale. È appunto giuocando passione con passione, sentimento con sentimento, che possiamo costruire una società umana. E poiché la passione di una folla non è la passione di un individuo e quella di uno non è la passione di un altro, di qui l'importanza del sapere usare le parole, volta a volta, l'importanza delle tecniche dei discorsi, fino a giungere allo studio del come accentuare parole, o porre parole accanto a parole. Cosi non .1 caso Gorgia nell'Elogio di Elena vede subito la relazione che corre tra la retorica e la poesia. Le parole della poesia riescono a suscitare nell'anima nuove e particolari esperienze. L'anima attraverso i discorsi uditi si modifica. Il discorso cosi è visto come espressione da una parte e dall'altra come capacità di modificare il modo dei rapporti umani, e poiché l'uomo è sentimento e opinione. E sentimento e opinione sono parole. E la parola che trasforma e costruisce il mondo umano, istituisce volta a volta quelle che possono essere le virtu, indi- [Figlio di Carmantida, fratello del medico Erodico, nacque a Leontini, in Sicilia, probabilmente tra il 485 c il 480. Sembra sia stato discepolo di Empedocle ed abbia risentito gl'influssi della scuola di Velia e di quella pitagorica. Con sicurezza sappiamo che nel 427 venne ad Atene, ambasciatore di Leontini, per chiedere aiuti contro Siracusa. Ad Atene ha molto successo e determina un notevole influsso sulla letteratura oratoria. Itinera poi in Tessaglia, in Beozia, ad Argo. E certo a Delfi e a Olimpia ove tenne orazioni. Senza dubbio e altre volte ad Atene e qui tenne un famoso Epita/io. Muore vecchissimo - quasi tutte le antiche testimonianze dicono a 109 anni - in Tessaglia presso Giasone, tiranno di Fere. Suoi discepoli furono: Menonc tessalo, Licofrone, Isocrate, Crizia, Alcibiade, Tucidide, Prosscno di Beozia, Polo di Girgenti, Licimnio, Protarco, Alcidamante di Velia. Le sue opere piu famose sono: “Intorno al non ente o intorno alla Natura”, “L'elogio d’Elena”; “L'apologia di Palamede”; “Epitafio”; “Discorso olimpico”; “Discorso pizio”. Forse è di Gorgia anche un trattato su L'arte oratoria.pendentemente da cosa sia la Virtu con il V grande. Sotto questo aspetto estremamente importante, proprio per rendersi conto dell'appello al concreto dei primi sofisti, appare il fatto che Gorgia, ad esem-pio, non intende ricercare cosa sia la Virtu, ma, a chi gli chiedeva cosa è Virtu, risponde. La virtu di chi? Del bambino, dell’uomo virile, o del vecchio? della donna o dell'uomo? (cfr. Platone, Menone, 71e; Aristotele, Politica, I, 1260a, 17). La seconda fase dei pitagorici secondi. Le indagini matematiche. Ippocrate di Chio Secondo la leggenda, dalla distruzione della casa dei pitagorici a Crotone si salvarono Liside e Archippo. Liside si sarebbe rifugiato a Tebe, ove, sembra, avrebbe fondato un circolo pitagorico di cui un prosecutore sarebbe stato Filolao, fiorito nella seconda metà del V se- colo, che sul finire del 400 sarebbe andato in Italia. Archippo si sa- rebbe, invece, rifugiato in Taranto, ove avrebbe proseguito l'opera di Pitagora, proseguita a sua volta da Archita di Taranto, uomo politico di vaglia, contemporaneo e amico di Platone. In realtà di Filolao e di Archita sappiamo molto poco.1 Non ~enza una qualche ragione, anzi, particolarmente per quel che riguarda Fi- lolao, si è giunti a dubitare che gli stessi frammenti che si ritengono proprii dell'opera (Sulla natura) di lui, siano in effetto rielaborazione, se non falsificazione, di Speusippo, il nipote di Platone e suo succes- sore nella direzione dell'Accademia, che avrebbe composto un libretto Sui numeri dei Pitagorici (cfr. Throlog. Arithm., p. 82, 10 De Falco). Platone nel Fedon pur discutendo alcune tesi pitagoriche, rivela un suo pitagorismo, soprattutto per quel che riguarda il mo- tivo dell'armonia dei contrari, e cosi:, in piu passi degli altri dialoghi l in particolare nel Filebo e nel Timeo, sembra riallacciarsi a certi mo- tivi che paiono tipici di. Filolao (armonia del limite e del non limitato, armonia cosmica), e di Archita (armonie musicali). Ad ogni modo l'ac- cenno che nel Pedone Platone fa direttamente a Filolao è molto so- spetto: O come,.Cebète, non avete, tu e Simmia, udito parlare di questi argo- menti, voi che siete stati discepoli di Filolao? Si, ma niente di preciso, Socrate. Anch'io, veramente, solo per averne udito parlare di queste cose (Fedone, 61tl). Chi abbia un po' di pratic~ dei testi platonici sa che generalmente Platone usa questi giri di frase allorché vuoi mettere sugli attenti in- torno a certe dottrine. Nel caso preciso Platone avverte che la tesi che sta per esporre, appunto quella dell'armonia del tutto cui si giunge at- traverso l'analisi di se stessi (ché le nostre strutture corrispondono alla ragion d'essere del tutto) non è né tesi di Socrate né di Filolao, ma interpretazione personale, volta a certi scopi precisi e diversi. Tal- volta, effettivamente, dietro alcune tesi platoniche si nascondono mo- tivi esistenti, ma che in realtà avevano storicamente tutt'altro signifi- 1 Scarsissime sono le notizie sicure su Filolao e su Acchita. Di Filolao sappiamo che visse nella seconda metà del V secolo: fu senza dubbio contemporaneo di Socrate (dr. Feàone, ove Socrate parla di Simmia e Cebete di Tebe che avevano ascoltato Filolao). "Demetrio negli Omonimi dice che Filolao fu il primo a pubblicare i libri dci Pitagorici, col titolo Della natura " (Diogene L., VIII, 84-85). Su questo e sull'esistenza di un'opera di Filolao si è molto discusso e la questione è ancora aperta. Di Acchita di Taranto, sappiamo che visse a cavallo tra il V e il IV secolo, che fu uomo politico di vaglia, signore di Taranto, amico di Platone (cfr. VII lettera, 338b, 339a) che riusci a far partire Platone da Siracusa, quando Platone nel 361/60 si trova in quella città semi-prigioniero del tiranno Dionisio (VII lettera, 350a). Secondo Aristosseno (fr. 48 Wehrli) Acchita, quando fu stratega, non fu mai sconfita~: ritiratosi dal comando, cedendo all'invidia, la città subi subito uoa sconfittacato. Questo, con tutte le cautele possibili, può essere il caso di Filolao e, sotto un certo aspetto, di Archita: Platone avrebbe, probabilmente in polemica con le conclusioni dell'Uno massiccio di Parmenide, rielabo- rato un pitagorismo a modo suo, pur rifacendosi a certi motivi che po- tevano scaturire dalla discussione di Filolao nei confronti dell'Essere di Parmenide. E questo particolarmente appare da certe pagine del Par- mmide e del Filebo, ove sono alcune espressioni che sembrano coinci- dere con alcuni frammenti di Filolao, ma che in effetto vanno molto oltre ciò che di fatto possiamo ricavare dai frammenti di Filolao. Es- sendo, dunque, possibile una distinzione tra Platone e Filolao, senza arrivare a sostenere una troppo raffinata falsificazione da parte di sco- lari di Platone, che avrebbero costruito i testi di ·Filolao a bella posta, la cosa piu probabile sembra sia la seguente:- del secondo pitagorismo ciò che appare di piu altamente metafisica, in un'aspirazione all'ordine supremo del tutto, è in effetto rielaborazione platonica in primo luogo, poi rielaborazione di Aristotele. Piu probanti, per tentare di avvicinarsi alle tesi storiche del se- condo pitagorismo, sembrano certe pagine di Platone in cui si pole- mizza contro coloro che si occupano di geometria, di aritmetica, di astronomia, di teoria musicale: loro difetto sarebbe, secondo Platone, di non essersi elevati al primo principio, alle strutture dialettiche dell'essere, per ri~anere sul piano delle ipotesi e della traduzione del visibile in termini geometrici e aritmetici (cfr., in particolare, Repubblica, 510c sgg.). L'abbiezione di Platone, che implica tutt'altro problema, il problema della ragion d'essere del tutto, è la stessa abbiezione - anche se diversa nel suo contenuto - che ai pitagorici muoverà Aristotele. Sotto questo aspetto, rifacendoci a certi frammenti di Filolao e di Archita e alla distinzione fatta da Aristotele tra i pitagorici del tempo di Alcmeone di Crotone e i pitagorici del tempo degli atomisti, sembra che si possa realmente parlare di un secondo pitagorismo, facente capo a Filolao e poi ad Archita, i quali, in quanto matematici o per lo meno in quanto sono partiti da osservazioni o da scoperte di carattere aritmetìco e geometrico, sarebbero stati accomunati al pitagorismo - nome generico, - entro cui per antonomasia si son fatti rientrare, tutti coloro che si sono occupati di matematica e di armonia. Tale il significato della testimonianza di Aristotele, che, parlando dei pensatori del tempo degli atomisti, afferma: vi furono i cosiddetti pitagorici, i quali, applicatisi alle scienze matematiche, le fecero per i primi progredire: cresciuti poi nello studio di esse, vennero nell'opinione che i principii delle matematiche fossero i principii di tutti gli esseri. E poiché i principii della matematica sono, naturalmente, i numeri, parve loro di vedere nei numeri, piu che nel fuoco, nella terra e nell'aria, molte somiglianze con le cose che sono o che divengono (Metaf., 958b). Aristotele, dunque, non solo distingue tra i pitagorici del tempo di Pi~agora, cui sarebbe attribuibile la tavola delle dieci opposizioni e i cosiddetti pitagorici di un tempo piu tardo, ma è a questi ultimi ch'egli, in particolare, attribuisce il progresso delle scienze matematiche, in- tese come scienze del numero, e la tesi che il reale è pensabile qualora sia riducibile a numero, cioè a quantità. Ed è, infine, a questi ultimi ch'egli attribuisce la tesi che elementi del numero sono il pari e il dispari: il primo, infinito: il secondo, finito; e l'unità, essendo pari e dispari insieme, la fanno costituita di entrambi gli elementi; e dal- l'unità sarebbe formato il numero (Metaf., 986a). Mentre nei primi pitagorici trovammo unità accanto a unità, donde vedemmo la critica di Parmenide, qui sembra invece si trovi il tentativo di risolvere sul piano matematico le aporie di Parmenide e di Zenone. In altri termini con Filolao e poi con ARCHITA DI TARANTO pare che certe scoperte aritmetiche e àltre musicali abbiano -portato a impostare il pro- blema della pensabilità del reale sul piano del discorso, possibile qua- lora si riduca a quantità il pensabile stesso, ponendo quindi l'ipotesi della numerabilità e misurabilità resa possibile dall'unità come discorso, onde l'unità non è piu uno o altro punto della serie, ma il discorso stesso come armonia di punti (finiti e infiniti), cioè come condizione di quelli e quindi come " parimpari," per cui ogni aspetto comprensibile del reale è pari e dispari, è unità (monade) e diade. L'unità e la molte- plicità si conciliano cosi in una serie infinita di numeri, che si ritmano nell'unità del discorso, come armonia, e come armonia dei contrari: l'armonia nasce solo dai contrari: perché l'armonia è unificazione di molti termini mescolati, e accordo di elementi discordanti (Filolao, fr. 10). Il che non significa èhe per Filolao l'uomo colga l'essenza ultima della realtà: la causa o le cause prime - saranno questi i problemi di Platone e di Aristotele. Egli pone semplicemente e concretamente la possibilità di pensare il reale : la sostanza delle cose, che è eterna, e la natura stessa richiedono conoscenza divina, non umana; solo che nessuna delle cose che sono e noi conosciamo 106    sarebbe potuta esistere, se non ci fosse la sostanza delle cose che compòngono il cosmo, delle limitanti e delle illimitate (fr. 6). Ora, poiché le cose appaiono come aventi qualità infinite, esse non sarebbero pensabili, se non si potesse trascorrere tra esse, cioè se non si potessero ridurre tutte a quantità, a un indefinito definibile me- diante la numerabilità e la misurabilità: perciò le cose stesse sono nu- meri, divisipili (pari) e indivisibili (dispari), limitanti e limitate, fra cui corrono rapporti di misura, proporzioni, che ne costituiscono l'armonia, cioè quell'unità che è condizione e presenza in ogni cosa: tutte le cose che si conoscono- dice Filolao -hanno numero: senza il nu- mero non sarebbe possibile pensare né conoscere alcunché (fr. 4). Il numero ha due specie sue proprie, il dispari e il pari: e la terza è il parimpari, for· mato da queste due mescolate. Molte forme ci sono dell'una e dell'altra, e ogni cosa per se stessa le rivela (fr. 5). Sembra, dunque, evidente che per Filolao non si tratta di conosce- re o di cogliere quella che è la realtà in sé, ma di determinare quale sia la condizione che rende pensabile la realtà, cioè che rende possi- bile la scienza: è la natura del numero che fa conoscere ed è guida e insegna ad ognuno tutto ciò che è dubbio e ignoto. Nulla sarebbe comprensibile, né le singole cose né le loro relazioni, se non. ci fossero il numero e la sua sostanza. Ma questo, armonizzando nell'anima tutte le cose con la percezione, rende co- noscibili esse e le loro relazioni secondo la natura dello gnomone, col dar corpo e distinguere le determinazioni delle cose, di quelle illimitate e di quelle limitanti (fr. 11). E allora se pensare è armonizzare nell'anima tutte le cose con la percezione, è riferire e misurare, la verità consiste nell'armonia, nel numerare e misurare, che è articolare e discorrere: nessuna menzogna accolgono in sé la natura del numero e l'armonia: non è cosa loro la menzogna. La menzogna e l'invidia partecipano della natura dell'illimitati? e dell'inintelligibile e dell'irrazionale. La verità è connaturata e propria della specie dei numeri (fr. 11). Di qui l'importanza del discorso matematico, per cui ciò che nel- l'immediatezza sensibile appare come continuo e indefinito, illimitato, diviene intelligibile in quanto si numera, in quanto ciò che si defi- nisce non è piu né acqua, né terra, né fuoco, né altra qualità, ma è traducibile in figure, in forme (mediante lo gnomone), costituite di piani, di linee, di punti; e i piani, le linee, i punti (gli originari punti, o ciottoli dei primi pitagorici), i numeri interi della serie (tutti uguali l'uno all'altro), si articolano fra di loro, in una unità discorsiva, che dunque non è nessuno dei punti, ma la loro stessa condizione, che è quindi ad un tempo pari e dispari, una e due, illimitata e limitante. Tutte le cose sono necessariamente o limitanti e illimitate o illimita- te o limitanti e illimitate. Soltanto cose illimitate non ci potrebbero essere (fr. 2). E in Giamblico si legge. Secondo Filolao è assolutamente impos- sibile che ci sia oggetto conoscibile, se tutti gli elementi sono illimi- tati" (fr. 3); cosi. come non ci sarebbe conoscenza se tutto fosse li- mitante. Dalla constatazione che nulla è pensabile se non è numerabile e misurabile, se non si colgono le figure ddle cose, se non si riduce tutto a un determinatore comune, viene l'affermazione di Filolao che la natura nel cosmo è composta di elementi illimitati e di elementi limitanti: sia il cosmo nel suo insieme che tutte le sue parti (fr. 1). Ora, se è vero, come sembra ritenessero i pitagorici, che le figure, le forme, “idee”, delle cose si costituiscono di numeri, è altret- tanto vero che ogni cosa ha un suo numero, e che, reciprocamente i numeri si determinano come figure: punti, linee, triangoli, quadran- goli, poligoni, cubi e cosi via. Nascevano di qui i problemi grossi dei rapporti tra le figure, che tradotti in numeri ponevano il problema delle proporzioni, a loro volta fondamento delle tecniche, ad esempio ar- chitettoniche, statuarie, e musicali. La natura del numero e la sua grande potenza - dice Filolao - le si vedono ... anche in tutte le attività e in tutte le parole degli uomini, sia nelle attività tecniche che nella musica (fr. Il). E Archita: la scoperta del calcolo ha fatto cessare le discordie e ha accresciuto la concordia. Non è possibile che ci sia sopraffazione da che esso è stato trrntc: c'è invece parità. Per esso infatti ci accordiamo nelle relazioni di affari. Per mezzo suo i poveri ricevono dai ricchi e i ricchi dànno ai poveri, avendo fiducia e gli uni e gli altri di avere la loro parte. Il calcolo è strumento di giudizio e impedisce i torti (fr. 3). Quanto al cosiddetto sistema filolaico relativo alla concezione del- l'universo ed alla sua formazione, bisogna andare molto cauti. Se da un lato può darsi che Filolao abbia sfruttato tesi di pitagorici piu an- tichi e forse risalenti allo stesso Pitagora (come, ad esempio, il motivo della sfericità della terra, del moto dei punti, costituenti le figure, del moto inteso come respiro dell'universo), dall'altro lato il tentativo di tradurre in figure piane e solide, gli elementi come il fuoco, la terra e cosi via, può essere sospetto, soprattutto per quel che riguarda le figure solide e i loro rapporti, “sterometria”, perché la stereometria, come appare chiaramente da Platone, che ne fa un solo accenno nella Repubblica, mentre la conosce piu a fondo nel Tim~o, fu studiata da Teeteto - discepolo di Teodoro che è senza dubbio alquanto posteriore a Filolao. Può cosi essei:e giustificato il sospetto di una rico- struzione a posteriori, formata anche di tesi proprie del pitagorisnìo primo e secondo (l'accentuazione dell'armonia musicale, il tentativo di matematizzare l'astronomia rifacendosi all'aritmetica e alla musica), in cui sono presenti anche ipotesi platoniche, democritee, eudossiane. In effetti i frammenti che si dicono propri di Filolao o i frammenti di altri pitagorici del tempo o anche anteriori, sono troppo pochi, brevi, e inseriti in testi troppo posteriori per giustificare sia una concezione cosmologico-cosmogonica propria di Filolao, sia una concezione cosmo- logico-cosmogonica dei pitagorici tout court. Non solo, ma non va scordato che possiamo ricostruire tale concezione pitagorica solo attraverso testimonianze di Aristotele che non cita Filolao, di Simplicio che non cita Filolao, ma· che, su sua stessa confessione, riprende da Aristotele, e da Aezio che cita Filolao. Al centro del cosmo è posto il fuoco, intorno al quale ruotano dieci corpi celesti (probabile ricordo del valore dato alla decade, alla tetraetys, dai primi pitagorici), ivi compresa la terra, che non ha dunque posi- zione centrale e che è sferica. Il cosmo si sarebbe generato da un primo alito caldo (il respiro di Pitagora), da un fuoco centrale (che sembra risalire a Ippaso di Metaponto), che armonicamente determina un in- determinato spazio vuoto. Il cosmo è uno, e cominciò a formarsi dal mezzo, con distanze uguali dal mezzo all'alto e dal mezzo al basso. Le parti che si trovano sopra la 109    parte centrale sono dalla parte opposta rispetto a quelle che si trovano sotto. Le une e le altre si trovano insomma, rispetto alla parte centrale, nello stesso rapporto: se non che sono da parti opposte (Filolao, fr. 17). Dal fuoco centrale, chiamato la madre degli dèi, perché da esso si generano i corpi celesti, o Estia, il focolare della patria, o il trono o la torre di Zeus, il fulcro cioè della vitalità del tutto (il primo armonizzato, l'uno, è nel mezzo della sfera, e si chiama focolare -- Filo- lao, fr. 7), si determina l'illimitato, costituendo cosi a poco a poco l'or- dine di tutta la realtà, formata alla fine dei dieci corpi celesti ruotanti armonicamente intorno al focolare dell'universo. Dal centro (fuoco) alla periferia abbiamo: la terra e, ad essa opposta, l'antiterra, invisi- bile per l'uomo perché ruotante insieme alla terra dalla parte opposta al fuoco; i cinque pianeti (Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno); il sole C' il pitagorico Filolao dice che il sole è come un cristallo, perché accoglie il riflesso del fuoco che è nel centro e rimanda a noi la luce e il calore (Aezio, II, 20, 12); la luna e, infine, circondante il tutto, il cielo delle stelle fisse. Filolao, poi, sempre secondo la testimonianza di Aezio (II, 7, 7) avrebbe chiamato Olimpo la parte estrema di ciò che sta intorno, nella quale sono gli elementi nella loro purezza, mentre Cosmo avrebbe chiamato la zona che si trova sotto l'Olimpo e in cui si muovono i cinque pianeti, il sole e la luna, e Urano la zona sub- lunare dove ancora è disordine e indeterminatezza. Sembrerebbe, dun- que, che secondo Filolao l'universo sia una sfera entro cui si muovono armonicamente i corpi celesti, aventi come perno e centro di irradia- zione il fuoco centrale (la dimora di Zeus), che in quanto è fonte di tutto è anche ovunque, tanto piu là dove di piu il tutto è definito, il cielo delle stelle fisse, o Olimpo (la tradizionale sede di Zeus), per cui, forse simbolicamente, il fuoco è quell'unità che non è nessuno dei numeri, ma è tutti nella loro armonia, trovandosi cosi al centro e alla periferia come involucro di tutto (cfr. Aristotele, De coe.lo, Il, 13, 293), unità di finito e d'infinito. Sembra, infine, che a questa concezione vada riallacciata la celebre dottrina dell'armonia delle sfere di cui parla Aristotele. Certo Aristotele non cita direttamente i pitagorici ed è probabile che anche questa teoria sia una posteriore interpreta- zione e rielaborazione. Alcuni dicono che dal movimento degli astri nasce armonia, in quanto dal movimento sono prodotti dei suoni e questi sono consonanti. C'è in- fatti chi crede che, muovendosi corpi cosi grandi, ne nasca un suono perché suono è prodotto dal movimento dei corpi che sono quaggiu, i quali pure sono meno grandi e meno veloci di quelli. Non può, dicono, non nascere un suono straordinariamente grande dal movimento del sole e della luna e degli astri, che sono tanti e tanto grandi e procedono con tanta velocità. Cos{ essi credono che i rapporti della velocità degli astri in relazione alle distanze siano i medesimi degli accordi musicali; e perciò dicono armonico il suono degli astri ruotanti. Poi, a giustificare il fatto che questo suono non lo udiamo, dicono che la causa sta in ciò, che esso c'è sempre dal nostro nascere; manca per questo, dicono, ogni contrasto col silenzio, e quindi non possiamo distinguerlo, ché suono e silenzio si discernono appunto perché sono in contrasto. Insomma accade, per tal suono, agli uomini quello che accade ai fabbri, che per l'abitudine fatta al rumore non lo distinguono piu (De coelo, II, 9, 290b). Ora, come nella cosmologia l'alito caldo, il fuoco, che è al centro ed alla periferia, si costituisce come armonia vivente del tutto, cosi: sembra-che per i pitagorici l'anima fosse armonia e accordo musicale. L'anima, in quanto p~euma, soffio vitale, sta all'essere vivente come l'uno centrale, il focolare dell'universo, sta al tutto costituendo armonia tra gli elementi contrari. L'anima, dunque, sarebbe l'armonia che costituisce, essendone la condizione, la mescolanza ordinata degli de- menti corporei. Sotto questo aspetto, venendo meno gli elementi corpo· rei non viene meno l'anima, ché l'anima come armonia non è il risul- tato di una somma di parti, ma la condizione dell'ordine stesso, per cui l'anima resta sempre armonia di ciò che è vivente. Questa sembra fosse la tesi di Simmia, discepolo di Filolao, anche se Platone, nel Pedone, obbietta che, dissolvendosi gli elementi corporei, dovrebbe venir meno anche l'anima. Queste, nelle loro linee generali, le dottrine cosmogonica-cosmolo- gica e dell'anima-armonia che la tradizione ha fatto risalire ai pitago- rici. Senza dubbio alcuni motivi sono certamente del primo e del se- condo pitagorismo, altri sono dovuti a interpretazioni e sistemazioni posteriori, e, innanzi tutto, a Platone. Cosi, per esempio, certe conce- zioni proprie di Platone, che, nel Timeo in particolare, le mutuava da Teeteto (cfr. la tesi dei cinque elementi: terra uguale cubo, acqua uguale icosaedro, aria uguale ottaedro, fuoco uguale tetraedro, etere uguale dodecaedro), sono state piu tardi (da Aezio, in II, 6, 5) attribuite a Filolao (cfr. E. Sachs, Die fiinf plat. Korpcr, Berlino, 1917). Molte tesi cosiddette pitagoriche sono in realtà di Platone o posteriori ai pitagorici, o sono interpretazioni che, comunque, rispondono ;~ problemi e ad esi- genze di altri pensatori in altre situazioni storiche. Ciò che invece sembra proprio dei secondi pitagorici, o almeno dei 111    matematici della seconda metà del V secolo, è il valore dat~ all'i(lotesi, intesa etimologicamente come il presupposto che permette un. certo ragionamento; ipotesi matematiche che permettono appunto di pensare e che hanno estrema importanza per le tecniche, come sottolinea Fi- lolao. Di qui la critica di Platone a coloro che si sono occupati di geo- metria, di aritmetica, di astronomia: essi hanno formulato i(lotesi, ma da queste non sono giunti ai fondamenti primi, o meglio, al contrario, a queste .non son giunti dalla suprema ragion d'essere (cfr. Ref1., 510c); e la critica di Aristotele secondo cui i pitagorici sarebbero rimasti sospesi fra il sensibile e l'intelligibile (Metaf., I, 987a). Ha cosi ragione Abel Rey (La science dans l'antiquité, Parigi) quando sostiene che i pita- gorici hanno insistito sui " primi principii della scienza che non sono però i primi principii in se stessi assolutamente parlando." Entro questi termini può essere opportuno ricordare che a Filolao sembra si debba la scoperta e lo studio della proporzione o medietà ar- monica (di quarta, di quinta, di ottava), accanto alla proporzione arilm~­ tica (le cui proprietà furono formulate da.Archita) e a quella geometrica. Queste ricerche e studi appaiono come l'aspetto piu saliente del secondo pitagorismo, insieme a un altro problema che si presentava loro, e che, forse, entrava in contrasto con la teoria dei punti-unità dei primi pi- tagorici, il problema degli incommensurabili o numeri irrazionali (detti prima indicibili, 4ppYjTat; poi irrazionali, 4>-oyo'), che tuttavia po- neva le basi di nuovi rapporti e misure, la possibilità del passaggio dalle figure piane (geometria), alle solide (stereometria). Di qui da un lato il problema della duplicazione del quadrato e dall'altro il problema della duplicazione del cubo, che vennero spostando il problema da un'inda- gine piu strettamente aritmetica a una indagine che divenne sempre piu strettamente geometrica. Non sappiamo con precisione a chi risalga la teoria delle grandezze irrazionali. Probabilmente si scoprirono gli irrazionali, quando, volendo applicare il teorema detto di Pitagora (la duplicazione del quadrato) al triangolo rettangolo isoscele, ci si accorse ch'era impossibile misurare e indicare con un numero la diagonale del quadrato di lato l. Senza dubbio il motivo degli irrazionali fu poi approfondito da Teodoro di Cirene e quindi da Teeteto, come risulta chiaramente da Platone. Quanto alla duplicazione del cubo, o problema di Delo (cosi detto perché secondo la leggenda, conservataci da Eutocio, l'oracolo di Odo avrebbe richiesto agli abitanti di Delo di duplicare uno degli al- tari del tempio, clie aveva forma cubica), sembra che per primo vi si 112    sia dedicato il matematico Ippocrate di Chio, che venuto ad Atene per ragioni di commercio vi si stabill insegnando matematica tra il 450 e il 430, scrivendo i primi elementi di geometria ed entrando in rap- porto coi maggiori esponenti della cùltura ateniese. lppocrate applicò alla duplicazione del cubo il metodo, da lui stesso scoperto, detto apagogico, che consiste nel ridurre un problema a un altro problema, di modo che, se il secondo è risolto, o dimostrato, lo è ugualmente il primo. Egli stabilisce cosi che il problema della duplicazione del cubo era di trovare due medie proporzionali fra due numeri dati e non una sola media come per la duplicazione del quadrato (cfr. P. H. Michel, La science hellène, in Hist. génér. des Sciences, Parigi, l, p. 236). Sempre a Ippocrate di Chio sembra si debba l'impostazioné del problema della quadratura del circolo, cui credette di poter giungere mediante lo stu- dio dell'area delle lunule, che, se non risolse la quadratura del circolo, servi a formulare nuovi teoremi. In questa epoca il problema della quadratura del circolo fu ripreso e discusso anche da lppia di Elide, che mediante la curva <la lui detta di Ippia o quadratrice, se non risolse la quadratura del circolo, formulò il teorema della trisezione dell'angolo; da Antifonte 'che tentò la soluzione raddoppiando indefinitamente il numero dei lati di un poligono regolare iscritto in un cerchio; e da Brisone, un sofista fiorito sulla fine del V e l'inizio del IV secolo, che oltre al poligono iscritto considerò anche quello circoscritto. Non a caso ci siamo soffermati un momento su questo tipo di in- dagini volte a questioni precise e concrete. Accantonato il problema del- l'Essere quale si era formulato con Parmenide ed Eraclito, rivelatosi quel problema come inesistente, ché nell'uno e nell'altro caso si finiva nel silenzio, questo tipo di ricerche (volte all'indagine delle condizioni che rendono pensabile la realtà, o delle condizioni che rendono possibile il rapporto umano, o di quelle che esplicano il 'fatto' natura) ap- pare come il piu significativo e tale da costituire una ben precisa si- tuazione culturale. E se per filosofia s'intende ciò che allora s'intendeva, non una specifica disciplina avente un suo oggetto (come avverrà con Platone e con Aristotele), ma ricerca, desiderio di sapere in senso gene- rale, diremmo che la filosofia della seconda metà del V secolo, fu la matematica, la fisica, lo studio di quello che è il modo umano di pen- sare e di parlare, la retorica, l'indagine di come gli uomini istituiscono rapporti, di come l'uomo è religioso. Entro questi termini culturali ed entro questo tipo di ricerche rientrano esattamente anche le indagini di Democrito.'A tal proposito sembra, anzi, interessante ricordare che già sulla metà circa del II secolo si venga sempre piu definendo il campo pro- prio della dialettica e particolarmente della retorica come scienze a sé, approfondendone il significato educativo. Da un lato ciò si rivela da quel poco che sappiamo della Retorica dello stoico Diogene di Babilonia, che insieme a Carneade si recò a ROMA per l'AMBASCERIA DEL 155, il quale vedeva nella retorica l'arte con cui si formano uomini politici utili alla città (cfr. Filodemo, De rhet., I, p. 333. Sudh.); o dall'altro lato attraverso la sistemazione della retorica del celebre Ermagora di Temno. Egli, oltre a determinare le tecniche dei discorsi relative alle questioni di dispute particolari da parte di singole persone (ipoten), delineò la pos- sibilità di discutere sul piano retorico argomenti di carattere generale (ten), vedendone il pro e il contro, come in tribunale, e che possono essere utiii sia per la parte deliberativa della retorica, sia per quella giudiziaria, sia per quella encomiastica, in uno sviluppo di quelli che in Aristotele erano i luoghi comuni (tesi) e i luoghi propri (ipotesi). Si capisce come poi di qui si potranno assumere, per esercitazione retorica nelle scuole, o per utilità di discussione in tribunale o in wli- tica, le tesi dalle tesi stoiche di morale, dalle tesi platoniche, da quelle aristoteliche, indipendentemente dai contesti e dal loro significato in quei contesti. Ma qui il discorso si fa diverso, anche se era necessario questo accenno per prospettare quelli che saranno certi aspetti della cultura quale troveremo dalla seconda metà del II secolo a. C. in poi a Roma, nel costituirsi di un ambiente, di una tematica, di un com- plesso di esigenze, che prendendo mosse e strumenti dal pensiero e dalla problematica della cultura greca si delinea in modi diversi, risol- vendosi alla fine in una diversa strutturazione, ove altre sono le do- mande e le richieste. Ad ogni modo, posta la formalità della logica crisippea e la sua soluzione in termini di grammatica e di sintassi, in un'analisi del lin- guaggio, ammesso pure che l'assenso venga dato a ciò che piu forte- mente. impressiona, onde assumiamo fede nella esistenza di ciò che si vien oresentando ('tUrx«vov )su cui poi si costituisce il discorso, posta l'analisi rivelante i vari tipi di discorso, la loro verità o falsità, e posti con ciò i sillogism! ipotetici, i ragionamenti anapodittici, ciò che sem- bra difficile spiegare è come Crisippo sia poi potuto passare, sul fon- damento di quella logica, a determinare la ragion d'essere, la logica di tutto, il cui esito è una teologia, una fisica, una concezione del di- ritto naturàle simili a quelle di Cleante. Qui non vengono in aiuto né le testimonianze, né i pochi e sospetti frammenti. Se da un lato tro- viamo un certo insieme di testimonianze, che, riferendosi particolar- mehte a Crisippo, permettono di ricostruire la sua logica e la sua dia- lettica, il suo studio dei significanti e dei significati, e certi termini tecnici, nel senso che sopra abbiamo detto; dall'altro lato, dall'e·sposi- zione che gli antichi dettero dello stoicismo parlando insieme di Ze- none, di Cleante e di Crisippo, vengono fuori, soprattutto comuni a Cleante e a Crisippo, la stessa teologia, la stessa fisica, la stessa etica. Possiamo cos1 solo sospettare o che la dimostrazione del tutto (fatalmente ordinantesi in una catena, manifestazione della Legge con cui Dio si realizza) è tratta per analogia dal modo con cui si costituisce il discorso, per cui lo stesso tutto e la sua ragion d'essere e concatena-. zione fatale è, alla fine, un possibile discorso ipotetico, che viene ac- cettato o respinto solo per opzione, per un atto di volontà, in un ripie- gamento, dal punto di vista ontologico, sul probabile o credibile; op- pure che Crisippo abbia nettamente distinto dalla logica (dialettica e retorica) come unica scienza umana, valida per provare uno o altro tipo di discorso, la fisica e la teologia valide a spiegare in quanto ba- sate su di un ragionamento, che può essere formalmente vero, e al quale diamo quindi l'assenso, una certa condotta morale. L'uomo, cos1, razionalmente ricostruendo un ipotetico tutto razionale, ove tutto è determinato, nella consapevolezza critica delle proprie determinazioni e limitazioni, da esse si libera accettandole e, in un giuoco ove le pedi- ne sono date e date sono le mosse, ha possibilità - tale sembra l'affer- mazione crisippea che fato e volontà umana possono coesistere - di determinare tra le possibili mosse date una mossa piuttosto che un'altra. Dice Crisippo: a quel modo che chi ha dato la spinta a un cilindr~ gli ha dato l'inizio del movimento, ma non la capacità di girare, cosf la rappresentazione imprime, si, l'oggetto, ma l'assenso sarà in nostro potere... Cosi l'ordine e la ragione e la necessità del fato muovon gli stessi gelliO"i e priiÌcipii delle cause, ma l'impeto delle risoluzioni e delle menti nostre e le azioni stesse le governa la volontà propria di ciascuno e l'indole degli animi (Cicerone, De fato, 41-43; Aulo Gellio, Notti Attiche, VII, 2). Altro di Crisippo non possiamo dire, ché gran parte delle piu duttili discussioni sugli indifferenti, sul rapporto tra utile e onesto, probabilmente certi sviluppi relativi alla giustizia, all'unica ragione per cui tutti gli uomini sono uguali e, idealmente almeno, hanno quindi  tutti gli stessi diritti da natura (il giusto è per natura e non per convenzione, come anche la legge e la retta ragione, secondo dice Crisippo ": Diogene L., VII, 128), le interpretazioni allegoriche degli dèi, alcune affermazioni paradossali, sono certo posteriori a Crisippo, e se prestiamo fede alle ricostruzioni di Cicerone, furono proprii della Scuo- la e in particolare di Diogene di Seleucia o di Babilonia e di Antipa- tro di T arso, che, dopo Zenone di T arso, successero nello scolarcato della Stoà durante il II secolo. Secondo Antipatro si deve rivelare ogni cosa, perché il compratore non ignori nulla di ciò che conosce il venditore: e per Diogene il venditore deve dire i difetti di ciò che vende, fin quanto vuole la legge; per il resto agisca senza inganno e, poiché vendè, venda nel modo migliore... E mentre Antipatro dice: " M a come? Mentre devi provvedere agli uomini e ren- derti utile al consorzio umano, a tale scopo sei nato, e riconosci il princi- pio naturale, per cui l'utile tuo è inseparabile dall'utile comune e vice- versa, terrai nascosto agli uomini quel vantaggio che può favorirli? Diogene risponderà. Altro è nascondere, altro è tacere. (Cicerone, De officiis, III, 51-52). In effetto sembra che se da un lato molte delle discussioni di etica1 sorte nella Scuola, hanno un sapore di esercitazioni dialettiche e retoriche, dall'altro lato proprio tali esercitazioni ponevano il problema della eticità su di un piano casistico, che venne, non poco, spostando la rigi- dità dell'originario stoicismo, permettendo una maggiore duttilità nei confronti delle singole situazioni politiche, mentre il motivo dell'ugua- glianza di tutti gli uomini in nome dell'unica ragione naturale assu- meva significato polemico di fronte alle sempre piu gravi sperequa- zioni sociali, anche se, alla fine, entro l'ambito di una realtà ove tutto si dispone in ben precisi gradi, rispecchianti la Legge di Dio, poteva giustificare proprio quelle stesse sperequazioni sociali. L'atteggiamento polemico, invece, tanto meglio si vede in alcune posizioni di Cinici del III secolo (Bione di Boristene, Menippo di Gà- dara, Cercida di Megalopoli, Telete), che, mantenendo il tipico aspetto cinico, di ribellione ad ogni tipo di società, nelle loro satire e diatribe e meliambi, forme letterarie propriamente popolari e rivolte al popolo, vennero puntando l'accento sulla sperequazione tra ricchi e poveri: Perché mai il cielo - scriveva Cercida - non toglie ai ricchi la loro maialesca ricchezza? A quali signori, dunque, a quali celesti dovremo rivolgerei, per avere il giusto compenso, quando il Cronide, che tutti ci ha generati, che anche a noi ha dato la vita, degli uni si mostra padre [dei ricchi], degli altri patrigno [dei poveri]? (Meliambo I, v. 9, w. 23-27). Alla morte di Crisippo, avvenuta ad Atene tra il 208 e il 204, sco- larca dell'Accademia era Telecle, successo a Lacide di Cirene, ch'era stato a capo della Scuola dalla morte di Arcesilao (240 circa) al 223. Di Lacide, ch'ebbe notevole fama di maestro, che fu circondato da molti discepoli venuti ad Atene da· tutte le parti del mondo greco, sappiamo solo che espose per scritto il pensiero del maestro. COs1, poco o niente sappiamo di Telecle, morto verso il 178, e meno ancora del suo successore Evandro, che lasciò la direzione dell'Accademia a Ege- sino di Pergamo, al quale successe il discepolo Carneade. Di altri Ac- cademici di questo periodo sappiamo solo i nomi, Aristippo di Cirene e Pitodoro, che dedicò i suoi scritti all'esposizione delle argomentazio- ni di Arcesilao (si cfr. Diogene L., IV, 51; Il, 83; lndex Herc., XXVII, 9; Cicerone, Lucullus, VI, 16; Suda, s. v. Aotxu31Jc;). La loro importanza sembra, dunque, soprattutto dovuta all'avere costituito una tradizione arcesilea, prendendo le mosse dalla quale Car- neade,1 in un approfondimento delle argomentazioni di Arcesilao, serratamente discusse gli scrhti di Crisippo (" Se Crisippo non fosse sta- to, neppure io sarei : Diog. L., IV, 62) e le tesi stoiche elaborate dai discepoli di Crisippo, Diogene di Babilonia, alla cui scuola fu Car- neade (Cicerone, Lucullus, XXX, 98), e Antipatro di Tarso, contempo- raneo di Carneade, del quale si dice che mai osò attaccare Carneade nella scuola o in piazza, preferendo difendere lo stoicismo attraverso gli scritti (Numenio, fr. 5). Nato a Cirene nel 219 circa o nel 214, in una città ricca di tradizioni scientifiche e culturali - da dove erano venuti ad Atene anche [Nato a Cirene tra il 219 e il 214, Carnéade venne ad Atene in un'epoca che non è dato precisare. Ad Atene si preoccupò soprattutto di rendersi conto delle varie com- ponenti culturali: ascoltò Egcsino di Pergamo, scolarca dell'Accademia, Diogene di Ba- bilonia, scolarca della Stoà e discepolo di Crisippo. Fu uomo di vastissima cultura, dia- lettico sottile, buon parlatore. Successe nello scolarcato dell'Accademia a Egesino di Per- gamo. Probabilmente fu proprio la sua fama di dialettico e di buon parlatore che fece decidere gli ateniesi ad inviare a Roma Carneade insieme allo scolarca della Stoà Dio- gene di Babilonia, e allo scolarca del Peripato, Critolao, in qualità di·ambasciatore presso il senato romano (155 a.C.). Gli ateniesi, condannati da Roma a pagare una·forte multa per avere saccheggiato Oropo, inviarono Carneade, Diogene di Babilonia e Critolao, a Roma perché cercassero di far ritirare il provvedimento. Giunti a Roma e non ascoltati subito dal senato, i tre ambasciatori presero contatto coi giovani romani, discutendo con loro di filosofia. Chi fece la massima impressione, per la sua arte dialettica, per avere un giorno esaltato la giustizia e il giorno dopo, con altrettanti argomenti convincenti, sostenuto che la giustizia è stoltezza, fu Carneade.  gli accademici Aristippo e Lacide, - Carnel).de, ad Atene, ascoltò le lezioni e le discussioni dei maggiori maestri, dallo scolarca dell'Accade- mia Egesino di Pergamo a Diogene di Babilonia, scolarca del Portico (Cicerone, “Lucullus”, VI, 16; XXX, 98). Studioso e lettore attento di scritti filosofici di ogni provenienza dice Cicerone che Carneade co- nosceva a fondo ogni parte della filosofia: Va"o, XII, 46, - ottimo parlatore e sottile dialettico, sembra che per queste sue doti sia stato scelto da Egesino a succedergli nello scolarcato dell'Accademia. Che Carneade, come Arcesilao, non abbia scritto nulla, indica chiaramente una netta presa di posizione e l'assunzione della filosofia come sempre attenta e aperta consapevolezza critica. Di qui, non tanto un atteggiamento polemico nei confronti dello stoicismo, quanto un continuo richiamo alle ingiustificate evasioni dai limiti delle possibi- lità umane verso cui lo stoicismo veniva scivolando. Non a caso, anzi, tutta la discussione di Carneade si svolge al di dentro della stessa lo- gica dello stoicismo. Carneade non oppone allo stoicismo altra conce- zione, sia pur rovesciata, ché sempre si sarebbe trattato di una " filo- sofia," ma egli, riconoscendo con lo stoicismo, o meglio con Crisippo, che i fondamenti del discorso umano sono da un lato i dati dell'impressione sensibile e dall'altro lato l'attività del soggetto che ordina e unisce in nessi e implicazioni quei dati stessi, proprio per questo, non po- tendo la ragione umana uscire da se stessa e dal proprio discorso, sottolinea l'illeceità del passaggio dal discorso umano ad un presun- to discorso della realtà. E, soprattutto, usando il metodo delle anti- Carneade visse fino al 129 circa. Intorno al 137, vecchio e ammalato, aveva lasciato la direzione dell'Accademia, che passò al discepolo Carneade di Polemarco che prem.ori al maesto (131). Lo scolarcato dell'Accademia fu quindi tenuto da Cratete di Tarso, al quale, morto nel 129, successe Clitomaco di Cartagine. Carneade non lasciò scritti. Su di lui e sul suo modo di pensare scrisse Clitomaco, che, probabilmente, fu la maggior fonte di Cicerone. Per utilità ricordiamo che dopo Platone scolarchi dell'Accademia furono: Speu- sippo (347·339), Senocrate (339-314), Polemone (314-270), Cratete di Atene (270-268), Arcesilao (268-240), Lacide (240-223), Tclecle (223-178), Evandro, Egesino di Pergamo, Carneade. Di Diogene di Babilonia e di Critolao, che accompagnarono Carneade a Roma nel 155, sappiamo molto poco. Diogene di Babilonia, discepolo di Crisippo, successe nello scolarcato della Stoà a Zenone di Tarso: soprattutto si occupò di dialettica e di retorica. Fu il quarto scolarca della Stoà dopo Zenone: Cleante (264-232), Crisippo (232-208), Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia. Pochi i frammenti di Critolao, nativo di Faselide, nella Licia, e scarse le notizie su di lui. Successe nello scolarcato del Liceo ad Aristone di Ceo che scrisse una “Storia del Peripato”, in cui sono inseriti i testamenti degli scolarchi suoi predecessori. Critolao fu il quinto scolarca del Liceo, dopo Aristotele: Teofrasto (322-288/86), Stratone di Lampsaco (288/86-27-2/68), Licone di Troade (272/68-228/25), Aristone di Ceo, Critoli10. A Critalao successe Diodoro di Tiro. 274    logie, egli tende a chiarire l'impossibilità di affidarsi a una qual- siasi dottrina che presuma d'essere l'unica vera o la possibilità che una dottrina abbia di dimostrarsi vera razionalmente. Di qui, di contro ad ogni tipo di teologia o di dimostrazione dell'esistenza degli dèi o del divino, l'appello di Carneade a rendersi conto dei propri limiti e delle proprie possibilità è, si, da un lato, la dichiarazione di morte di un certo tipo di filosofia, ma dall'altro lato è anche il piu alto riconoscimento della serietà dell'indagine che, negando alla filosofia la sua presunta funzione di scienza delle scienze, dà alla filosofia la funzione di determinare volta per volta il limite e la validità di que- sta o di quella ricerca, la consapevolezza dell'umana responsabilità, della responsabilità del pensiero. Carneade, certo, non si spiega senza Crisippo (soprattutto per ciò che riguarda i limiti della logica e della dialettica), senza la tesi stoica del fato e della Legge, e senza i conseguenti problemi sulla pos- sibilità o meno della libertà e della umana capacità di azione. Sotto questo aspetto, l'appello di Carneade alla consapevolezza critica, alla responsabilità del pensiero, al significato e alla funzione che ha il fi- losofare, non è un vuoto appello, ma una concretissima presa di po- sizione, nei confronti di tesi che finivano per alienare- l'uomo, in una situazione storica particolarmente favorevole a simili evasioni ed evi- tate responsabilità in astratte pacificazioni. Cosi, accanto alla discus- sione svolta da Carneade nei confronti della fantasia catalettica, della veracità o meno dell'impressione sensibile, della dialettica come capa- cità di discernere i ragionamenti veri dai falsi, dell'assenso, della ne- cessità della epoché (discussione, del resto, anche se piu approfondita, molto simile a quella svolta da Arcesilao), sembra di non poco conto ricordare la precisa problematica posta da Carneade nei confronti del- l'impossibilità di porre da un lato una realtà fatalmente ordinantesi in nessi, ove tutto è là dove dev'essere necessariamente, momento del necessario realizzarsi di una legge universale, e, dall'altro lato, l'uomo avente la capacità di volere, per cui almeno alcune cose sono in suo potere. Carneade, ed è naturale, non si decide né per l'una né per l'altra tesi. Ciò ch'egli vuole è giungere a porre l'inconciliabilità tra libertà e necessità, tra possibilità umana di costruire il proprio mondo e d'esserne responsabile, e la visione di un tutto ove Dio è legge. Ma nel sottolineare tale aporia, Carneade portava ad estrema conseguen- za ed a consapevolezza quella ch'era stata la problematica propria di gran parte del pensiero greco. E qui pensiamo particolarmente ad Aristotele nel quale si vede bene il conflitto tra un tutto che sillogisticamente si scandisce e la volontà come capacità di realizzare in armonia dei fini che dipendono dall'attività propria dell'uomo e alla soluzione di una parte almeno della scuola aristotelica, che svincolando il filo- sofare dalla ricerca delle cause prime e dei fini ultimi, aveva posto la funzione del filosofare nell'indagine delle condizioni che permettono la costruzione delle singole scienze, o, per altra via, del come è che si pensa, del come è che si parla. Ma pensiamo anche ad Epicuro, alla sua polemica contro l'astrologia e la dialettica di Platone, con- tro il sillogismo di Aristotele, contro la matematicizza:z;ione dell'u- niverso. Ed infine pensiamo agli stessi Stoici, in particolar modo a Zenone e a Crisippo, e cioè ai loro sillogismi ipotetici, alla loro logica proposizionale, che, invece di un esito religioso-teologico - non va dimenticato che gran parte degli stoici provenivano da zone orientali, particolarmente semitiche, ove giovani si erano formati - poteva aver quell'esito, che, in effetto, ebbe proprio in Carneade. Posto cioè che ogni discorso si costituisce di implicazioni dovute al ricordo di impressioni ricevute, ognuna delle quali non è, presa in sé, né falsa né vera (non abbiamo alcun criterio per poter affermare che l'impressione vera è quella che corrisponde all'oggetto impressionante, perché dovremmo già prima conoscere l'oggetto), e posta quindi l'ipoteticità del discorso, si deve avere il coraggio di mostrare che proprio perché ogni discorso è ipotetico, per cui l'uno si può opporre all'altro (antilogia), ogni di- scorso è valido sul piano umano, e la sua stessa verità - la coerenza o meno delle implicazioni - può cangiare, se diverse sono le impres- sioni e i relativi ricordi, per cui la stessa dialettica, intesa come scienza che dovrebbe distinguere il vero dal falso nei discorsi, non ha alcun criterio assoluto e quindi è vana, sf come vano sul piano ontologico si rivela il criterio dell'analogia con cui gli Stoici hanno costruito la loro cosmologia, la loro concezione del divino, della Provvidenza, con cui provano l'esistenza di Dio, e pongono la tesi del diritto naturale. Co- struzione umana, gli umani discorsi e le umane verità, le une e gli altri validi entro i termini della mobile storia degli uomini e delle loro esperienze, la stessa giustizia è storica e non naturale. Gli uomini sancirono il diritto per proprio utile, dal momento che spesso esso venne cangiato a seconda dei costumi e, nell'ambito di una medesima società, a seconda dei tempi: non esiste pertanto alcun diritto naturale; tutti, uomini ed esseri viventi, sono portati all'utile proprio, sotto la guida della propria natura; di conseguenza o non esiste affatto la giu- stizia o, se esiste in qualche modo, è il colmo della stoltezza, perché in servizio del vantaggio a ltrui nuocerebbe a se stessa (Lattanzio, Div. inst., V, 276    16, 2-3). C'è, dunque, un diritto civile, non un diritto naturale (Cicerone, Rep., III, 7 sgg.). Distinta la giustizia in due parti, chiamando l'una so- ciale e l'altra naturale, Carneade le capovolge ambedue, dal momento che la prima è civile saggezza, ma non vera giustizia, e la seconda è 1..erto naturale giustizia, ma non saggezza (Cicerone, Rep., III, 20, 31). Il che, ancora una volta, non significa affatto negare la giusuz1a o opporre alla tesi stoica un altro concetto di giustizia, ma dimostrare l'impossibilità di cogliere la giustizia in sé, di cogliere, di là dall'uma- no discorso e dalle situazioni umane, la ragion d'essere del tutto, la legge come recta ratio su cui tutto si fonda. Carneade, testimonia Cicerone, confutò la giust1z1a, non già perché pensasse che essa dovesse essere ingiuriata, ma per dimostrare che i suoi difensori discutevano intorno alla giustizia, senza avere alcun fondamento certo e solido (Rep., III, 7, 11). Lo stesso potremmo ripetere per ciò che riguarda gli dèi, la co- smologia, la provvidenza, la divinazione (artificiale e naturale) e cosi via, tutte tesi stoiche, che Carneade discute senza uscire fuori dalle stesse argomentazioni stoiche, dimostrandone la contraddittorietà sia ricorrendo alle antilogie sia ai vecchi sofismi megarici, come i soriti, sia all"' ironia" socratica (si cfr., anche per ciò che sopra è stato esposto, Cicerone, Lucullus; De natura deorum, III; De divinatione, II; De fato, VII, XIV; De finibus, II, 35-41; Sesto Empirico, Adv. math., IX e VII passim). D'altra parte, infine, poiché, almeno in Crisippo, la dimostrazione del tutto e di quelle che sono le leggi del tutto è tratta per analogia dal mondo con cui si costituisce il discorso, per cui di implicazione in implicazione si giunge a porre la condizione prima nel principio attivo e in quello passivo, lo stesso tutto e la sua ragion d'essere e concate- nazione fatale sono, alla fine, un possibile discorso ipotetico, che viene accettato o respinto per opzione. Sembra chiaro, allora, come di qui Carneade potesse trarre che, dunque, l'esito non· contraddittorio della logica stoica doveva essere non la certezza in un sapere assoluto, che accantona ogni altra opinione, ma il ripiegamento sul probabile o cre- dibile (7tr.&«vov- pithan6n ). Molto si è discusso sul significato che ha in Carneade la tesi del credibile. " È invalso l'uso," scrive il Dal Pra (Grande Antologia filosofica, Milano, l, pp. 515-16}, di considerare del tutto a parte la dottrina carneadiana del pithan6n, che darebbe fondamenmente si scandisce e la volontà come capacità di realizzare in armonia dei fini che dipendono dall'attività propria dell'uomo e alla soluzione di una parte almeno della scuola aristotelica, che svincolando il filo- sofare dalla ricerca delle cause prime e dei fini ultimi, aveva posto la funzione del filosofare nell'indagine delle condizioni che permettono la costruzione delle singole scienze, o, per altra via, del come è che si pensa, del come è che si parla. Ma pensiamo anche ad Epicuro, alla sua polemica contro l'astrologia e la dialettica di Platone, con- tro il sillogismo di Aristotele, contro la matematicizzaione dell'universo. Ed infine pensiamo agli stessi stoici, in particolar modo a Zenone e a Crisippo, e cioè ai loro sillogismi ipotetici, alla loro logica proposizionale, che, invece di un esito religioso-teologico - non va dimenticato che gran parte degli stoici provenivano da zone orientali, particolarmente semitiche, ove giovani si formano - poteva aver quell'esito, che, in effetto, ebbe proprio in Carneade. Posto cioè che ogni discorso si costituisce di IMPLICAZIONI dovute al ricordo di impressioni ricevute, ognuna delle quali non è, presa in sé1 né falsa né vera (non abbiamo alcun criterio per poter affermare che l'impressione vera è quella che corrisponde all'oggetto impressionante, perché dovremmo già prima conoscere l'oggetto), e posta quindi l'ipoteticità del discorso, si deve avere il coraggio di mostrare che proprio perché ogni discorso è ipotetico, per cui l'uno si può opporre all'altro (antilogia), ogni discorso è valido sul piano umano, e la sua stessa verità - la coerenza o meno delle implicazioni - può cangiare, se diverse sono le impressioni e i relativi ricordi, per cui la stessa DIALETTICA, intesa come scienza che dovrebbe distinguere il vero dal falso nel discorso o dialogo, non ha alcun criterio assoluto e quindi è vana, si come vano sul piano ontologico si rivela il criterio dell'analogia con cui gli stoici hanno costruito la loro cosmologia, la loro concezione del divino, della provvidenza, con cui provano l'esistenza di Dio, e pongono la tesi del diritto naturale. Cotruzione umana, le umani discorsi e l’umane verità, le une e gli altri validi entro i termini della mobile storia degli uomini e delle loro esperienze, la stessa giustizia è storica e non naturale. Gli uomini sancirono il diritto per proprio utile, dal momento che spesso esso venne cangiato a seconda dei costumi e, nell'ambito di una medesima società, a seconda dei tempi: non esiste pertanto alcun diritto naturale; tutti, uomini ed esseri viventi, sono portati all'utile proprio, sotto la guida della propria natura; di conseguenza o non esiste affatto la giu- stizia o, se esiste in qualche modo, è il colmo della stoltezza, perché in servizio del vantaggio altrui nuocerebbe a se stessa (Lattanzio, Div. inst., V, 276    16, 2-3)... C'è, dunque, un diritto civile, non un diritto naturale (Cicerone, Rep., III, 7 sgg.). Distinta la giustizia in due parti, chiamando l'una so- ciale e l'altra naturale, Carneade le capovolge ambedue, dal momento che la prima è civile saggezza, ma non vera giustizia, e la seconda è terto naturale giustizia, ma non saggezza (Cicerone, Rep., III, 20, 31). Il che, ancora una volta, non significa affatto negare la giust1z1a o opporre alla tesi stoica un altro concetto di giustizia, ma dimostrare l'impossibilità di cogliere la giustizia in sé, di cogliere, di là dall'uma- no discorso e dalle situazioni umane, la ragion d'essere del tutto, la legge come recta ratio su cui tutto si fonda. Carneade, testimonia Cicerone, confutò la giusUZla, non già perché pensasse che essa dovesse essere ingiuriata, ma per dimostrare che i suoi difensori discutevano intorno alla giustizia, senza avere alcun fondamento certo e solido (Rep., III, 7, 11). Lo stesso potremmo ripetere per ciò che riguarda gli dèi, la co- smologia, la provvidenza, la divinazione (artificiale e naturale) e cos1 via, tutte tesi stoiche, che Carneade discute senza uscire fuori dalle stesse argomentazioni stoiche, dimostrandone la contraddittorietà sia ricorrendo alle antilogie sia ai vecchi sofismi megarici, come i soriti, sia all'ironia socratica (si cfr., anche per ciò che sopra è stato esposto, Cicerone, Lucullus; De natura deorum, III; De divinatione, II; De fato, VII, XIV; De finibus, II, 35-41; Sesto Empirico, Adv. math., IX e VII passim). D'altra parte, infine, poiché, almeno in Crisippo, la dimostrazione del tutto e di quelle che sono le leggi del tutto è tratta per analogia dal mondo con cui si costituisce il discorso, per cui di implicazione in implicazione si giunge a porre la condizione prima nel principio attivo e in quello passivo, lo stesso tutto e la sua ragion d'essere e concate- nazione fatale sono, alla fine, un possibile discorso ipotetico, che viene accettato o respinto per opzione. Sembra chiaro, allora, come di qui Carneade potesse trarre che, dunque, l'esito non· contraddittorio della logica stoica doveva essere non la certezza in un sapere assoluto, che accantona ogni altra opinione, ma il ripiegamento sul probabile o credibile (7tt&otv6v- pithanon). Molto si è discusso sul significato che ha in Carneade la tesi del credibile. " È invalso l'uso," scrive il Dal Pra (Grande Antologia filosofica, Milano, l, pp. 515-16) di considerare del tutto a parte la dottrina carneadiana del pithanon, che darebbe fondameoto al suo probabilismo, come anche di considerare il probabilismo del tutto a parte rispetto allo scetticismo vero e proprio. Per con- tro, un attento esame della questione porta a concludere che, anche a proposito del problema dell'azione e del motivo della probabilità, Carneade non ha fatto che attenersi al classico metodo della ritorsio- ne polemica nei confronti dello stoicismo. Crisippo sostenne che il probabile conduce all'assenso, ma non certo all'assenso della rap- presentazione comprensiva; mentre tale assenso infatti è criterio di verità, la probabilità è causa permanente di errore; ci si potrà difen- dere da esso percorrendo interamente ogni enunciazione, evitando che il conflitto delle ragioni in pro ed in contro ci distolga dalla rappre- sentazione comprensiva, evitando soprattutto che l'indebolimento del- l'assenso ci porti a !asciarci sfuggire la rappresentazione comprensiva. Ebbene, Carneade rispondeva all'incirca nei termini seguenti: il vostro criterio, o stoici, della rappresentazione comprensiva non è in fondo che un pithan6n, ossia una di quelle probabilità che voi considerate come perenne fonte di errori; la vostra dialettica, che è tutta la vostra scienza, fondata sulla persuasione e sulla probabilità diviene una pura e semplice arte di persuadere, una retorica; la vostra pretesa di costi- tuire, partendo dalla sensibilità, una scienza del vero e del falso, è vana; per l'azione è sufficiente la persuasione, come mostra lo stesso sapiente stoico; e la persuasione rende inutile la conoscenza compren- siva; la vostra teoria della conoscenza non ha dunque oggetto; pro- prio e solo alla persuasione voi siete costretti a ridurvi; il pithanon è l'unico punto che vi resta di tutta la vostra filosofia." La rappresentazione ha due aspetti, uno relativo all'oggetto, l'altro al soggetto. Rispetto all'oggetto essa vera o falsa... Rispetto al soggetto ap- pare vera o faisa: e quella che appare vera si chiama persuasive, “pithane”. Ora, quella rappresentazione che appare vera, e in modo abbastanza chiaro, è per Carneade criterio di verità... per la. condotta della vita e l'acquisto della felicità... Talvolta accade anche che una tal rappresenta· zione sia falsa. Ma siccome questo capita di rado, si pu~ prestar fede a quella che per lo piu è vera, poiché noi non possiamo regolare giudizi e azioni che in conformità di ci~ che è il piu consueto (Sesto Empirico, Atlv. math., VII, 166-173). Il criterio primo e comune secondo Carneade è dato dalla rappresentazione persuasiva. Ma poiché le rappresentazioni non sono mai isolate,.ma formano come una catena nella quale ciascuna è collegata con le altre, il secondo criterio sarà la rappresentazione persuasiva e insieme non contraddetta, “aperispastos”. Come alcuni medici comprendono chi ha davvero la febbre non da un solo SINTOMO, ma dal concorso di tutti, cosi l'accademico dal concorso delle rappresentazioni giudica la verità; e se nessuna delle rappresentazioni concomitanti la contraddica come falsa, dice che è vera quella che gli appare. Ma ancor piu della rappresentazione non con- traddetta è persuasiva e perfetta generatrice di giudizio quella che ag- giunga al non esser contraddetta anche l'esser esaminata in ogni parte (" diexodeuméne "), per esempio, per quel che riguarda il giudicante, il giudicato, il mezzo attraverso cui si giudica, la distanza e l'intervallo,. il luogo, il tempo, la disposizione, l'attività, e cosi via. Nelle contingenze comuni, dice Carneade, usiamo per criterio la sola rappresentazione persua- siva; in quelle un po' importanti la non contraddetta; in quelle poi che in- fluiscono sulla felicità, quella esamimta in ogni parte (Sesto Empirico, Adv. math., VII, 176 sgg.). Cicerone e Sesto sono le uniche fonti per avvicinarsi alla pos1z10ne di Carneade. Cicerone sembra attingesse - ma personalmente li rielabora, agli scritti di un discepolo di Carneade, Clitomaco di Cartagine, che fedelmente espose il pensiero del maestro. Ad ogni modo, comunque s'intenda o s'interpreti la tesi del pithan6n, sia pur attraver- so la ricostruzione che dell'atteggiamento di Carnede dà Cicerone e l'esposizione che del cosiddetto scetticismo di Carneade dà Sesto Empirico, ciò che chiaramente emerge è il continuo appello di Carneade a non uscire fuori dal proprio mondo umano, ad assumere di fronte ad ogni opinione o concezione, per venerata o venerabile che sia, una consapevolezza critica che, chiarendo le nostre idee, rende conto di ciò che siamo e di ciò che possiamo plausibilmente fare, in un accantona- mento delle supreme verità, quali che siano, oggetto di fede, ma di- struggitrici di quell'umano dovere che è il ragionare. Sotto questo profilo ed entro i termini delle discussioni antilogiche di Carneade, ci rendiamo conto dell'impressione che fece in Roma il suo celebre discorso sulla giustizia, in cui, dopo aver sostenuto il valo- re della giustizia con argomenti convincenti, con altrettanti convin- centi argomenti ne dimostrò l'assurdità. Ma ci rendiamo conto anche delle preoccupazioni di un CATONE di fronte a uomini come Carneade, e il suo darsi da fare, perché gli ambasciatori (Carneade accademico, Diogene di Babilonia stoico, Critolao peripatetico), inviati da Atene a ROMA (156-155), per convincere il senato a ritirare il decreto con cui Atene e condannata a pagare una forte multa per aver saccheggiato Oropo, vennneno subito ricevuti e se ne andassero al piu presto. L'ambasceria di Carneade a ROMA NEL 155 è un episodio, ma è un episodio che è pure un SINTOMO e che, anche se con cautela, può indicare un termine bi-fronte: la conclusione di quella ch'ela problematica propria del pensiero greco, e l'inizio di tutta una problematica rispondente a situazioni diverse, a diverse richieste ed esigenze, nell'incontro tra due culture diverse di origini diverse, in un sempre maggiore allargamento anche a culture orientali, non piu filtrate solo dai greci, ma ritornanti al mondo greco attraverso Roma. Certo non fu all'indomani del 155 che tutto divenne diverso. Ma è sicuro che già coi primi discepoli di Carneade (dei quali peraltro sappiamo pochissimo: Carneade di Polemarco, premorto al vecchio Carneade, che venne meno nel 129 erica, Cratete di Tarso, Clitomaco che fedelmente espose il pensiero del maestro), e particolarmente con Carmada e Metrodoro dai quali deriva Filone di Larissa (160-79), che fu a Roma e del quale Cicerone ascolta le lezioni, e Antioco di Ascalona (130-68), si puo determinare una problematica diversa, rispondente, appunto, a situazioni diverse e a diverse richieste. E cosi troviamo entro la scuola stoica modificazioni e compromessi che dettero luogo alla cosiddetta media stoa, indicativi anch'essi di situazioni diverse e di diversi controlli umani e politici, ove in nome dell'ordine e della razionalità del tutto, del diritto naturale e della legge universale, si puo riconoscere Roma la capitale del mondo, caput mundi), recuperando gia vecchie concezioni astrali e cosmologiche dei caldei, sia certi aspetti piu mistici e religiosi di Platone. Non solo, ma non è un caso che proprio in questi tempi, tra la fine del II e l'inizio del I secolo, vi sia un rifiorire dell'epicureismo e si diffonda un epicureismo romano che già condannato dal senato romano, nel 173 o nel 154, con l'espulsione degli epicurei Alceo e Filisco, per avere introdotto costumi licenziosi (Ateneo, XII, 547a), è indicativo di una opposizione nuova, di un appello alla plebe, fino all'esplosivo canto di LUCREZIO, il quale vide in Epicuro piu che una dottrina un'arma politica e culturale. Né certo possiamo comprendere LUCREZIO e l'epicureismo romano se non si tengono presenti proprio quelle situazioni di cui parlavamo, e senza di cui è difficile rendersi conto del delinearsi di una nuova civiltà, frutto di un incontro, di uno scontro e di un dialogo, diversi da quelli da cui si generò il complesso delle compo- nenti della cultura greca: la quale, a sua volta, offri i suoi elaborati strumenti, ma in una modificazione dei suoi contenuti. Roma si assicurò il dominio dell'Egeo nel 190, nel 188 (pace di Apamea) conquista l'Asia Minore fino al Tauro, nel 168, con la battaglia di Pidna, la Macedonia fu definitivamente sconfitta, e, nel 148, con la seconda battaglia di Pidna, divenne PROVINCIA ROMANA. Nel 146, a causa di un'ultima rivolta della lega greca, Roma, dopo avere distrutto Corinto, rese tributarie tutte le città greche, trann~ Atene e Sparta. Il poeta Antipatro di Sidone, nato verso il 170, cosi canta la distruzione di Corinto. Dov'è, dorica Corinto, la tua ammirata bellezza, dove le tue corone di torri e le ricchezze antiche? Dove i templi degli immortali e le case? Dove le spose sisifee e le miriadi di folla? Nessun VESTIGIO è rimasto, infelice, di te. Tutto ha rapito, tutto ha divorato la guerra. Noi sole, le alcioni, immortali Nereidi oceanine. Restiamo a testimoniare il tuo dolore (Ant. Pal., VII, 87). Sono versi come tanti ve ne potevano essere, si come tante erano state le guerre e le distruzioni durante la lunga e tormentata storia della Grecia, ma sono versi che possono avere, ora, un loro significato simbolico, come significativo è il fatto che Antipatro di Sidone fu il primo poeta greco che volontariamente anda a Roma. Cosi altrettanto indicativa è la vicenda di Polibio, che, nemico di Roma, difensore della Macedonia, e, dopo la battaglia di Pidna (168) tra i mille ostaggi inviati a Roma da Emilio Paolo. A Roma entra in dimestichezza con Scipione Emiliano e col suo circolo, descrivendo, infine, la grandezza di Roma, con chiara consapevolezza che tutto un mondo culturale e civile s'era compiuto e che, con Roma, altro si richiedeva, altre sono le esigenze, altra divenne la cultura. Oserò avanzare l'ipotesi che quanto il resto dell'umanità [i greci] de- ride è il fondamento della grandezza romana, cioè la superstizione. Questo elemento è stato introdotto in ogni aspetto della loro vita pubblica e pri- vata con ogni artificio per impressionare l'immaginazione a un grado tale, che non se ne potrebbe concepire uno piu alto. Molti probabilmente si stu- piranno nell'apprendere ciò; la mia opinione è che ciò fu fatto per impressionare le masse. Se fosse possibile fondare uno Stato in cui tutti i citta- dini fossero filosofi, potremmo forse far a meno di questo genere di cose; ma in ogni Stato le masse sono instabili, piene di desideri illeciti, di violente passioni. Tutto quel che si può fare è quindi tenerle a freno col timore dell'invisibile e con altri inganni di tal genere. Non a caso, ma a ragion .veduta, gli antichi insi.nuavano nelle masse idee sugli dèi e pensieri su~la v1ta. ultrate~re~a. La folha. ~ la .incapacità sono nostre [dei greci] poi- che cerchtamo dt dtsperdere tah liluswni (VI, 56). E non è, forse, senza interesse ricordare che proprio IL CIRCOLO DEGLI SCIPIONI ha accolto ostilmente la celebre opera (Scritto sacro) di Evemero di Messana (vissuto tra il 340 e il 260 a. C.), in cui Evemero, rifacendosi a certe tesi sofistìche sull'origine storica della nascita degli dèi, sosteneva che gli dèi non sòno altro che uomini celebri e famosi in vita, che, per i loro meriti verso il genere umano, furono divinizzati dopo la morte.compimento del pensiero greco e Roma. La cultura e tradizioni greche a Roma sono forti. Chi si ponga a studiare la situazione culturale tra la seconda metà del secondo secolo e la prima metà del primo a. C., tra l'ambasceria dei tre filosofi a Roma (155) e la morte di Cicerone (43), si trova di fronte a un insieme di questioni assai complesse e difficilmente districabili, che certo non si possono risolvere con quella specie di categoria che è divenuto il termine “eclettismo”, per la prima volta usato da Diogene Laerzio (Proem., 21) nei confronti di Potamone di Alessandria, ma ripreso dal Brucker (Historia critica philosophiae, Il, Lipsia, p. 193) e da allora adottato da tutta la storiografia filosofica per indicare l'indirizzo proprio dell'ultimo secolo avanti Cristo e di cui Cicerone sarebbe il maggior rappresentante. Si è cosi parlato di “eclettismo” per lo stoico Boeto di Sidone (morto nel 119 circa), per gli stoici Panezio (180-109) e Posidonio (135-51), per Mnesarco (1 sec. a.C.) successo nello scolarcato della Stoà a Panezio; per gli accademici Filone di Larissa (160-79) e Antioco di Ascalona (1.30-&1), successi nello scolarcato dell'Accademia a Clitomaco (187-110), per l'aristotelico Andronico di Rodi. Al di fuori dell'”eclettismo” e, invece, rimasta la corrente epicurea con Zenone di Sidone, Fedro, Filodemo, Patròne, culminante in Roma con Tito LUCREZIO Caro (98/95-54/51), mentre con Enesidemo (di cui non si sa con certezza il secolo in cui visse, ma sembra il 1 a.C.) si avrebbe un ritorno all'originario scetticismo di Pirrone e di Timone. La prima difficoltà oggettiva è la mancanza di testi e di una documentazione precisa che permettano una ricostruzione storicamente esatta di singole posizioni, soprattutto per Boeto di Sidone, per Panezio e Posidonio, che pur ebbero un'influenza grandissima, per Filone è Antioco di Ascalona, con i quali sembra che l'insegnamento dell'Accademia abbia assunto un diver~ significato rispetto a quello di Carneade. Ciò che sappiamo di loro, lo dobbiamo soprattutto Cicerone, o, meglio, alla rielaborazione che Cicerone nel corso della sua meditazione e nella sua precisazione del significato della retorica per la costituzione di una vita associata (entro i termini de! mondo romano, della sua cultura e della sua storia, in un momento drammatico per la salvezza della repubblica) ha operato di quei dibattiti, di quegli atteggiamenti fluidi e duttili, a loro volta influenzati dalle nuove richieste, dai nuovi problemi impostati dalla tradizione e dalle esigenze di Roma, da una Roma che da “città-stato”, avente una sua cultura ed una sua formazione, si veniva trasformando in “impero”, in mezzo a lotte e a dolori, a guerre, a cozzi di partiti, nell'incontro con altre e diverse concezioni e culture. D'altra parte, una seconda difficoltà sta nell'impossibilità di accertare con esattezza l'esistenza di UNA LINEA ORIGINARIA E ORIGINALE DELLA TRADIZIONE ROMANA, prima dell'incontro piu vasto con il mondo greco ed il mondo orientale (168 a.C.), a parte le sicure reciproche influenze dovute a quel ponte di passaggio che furono Cuma e L’ETRURIA prima (fin dall'viii secolo a.C.), TARANTO, la MAGNA GRECIA (282-266) – Crotone, Velia --; la SICILIA (264-210) poi. A tal proposito Cicerone (106-43 a.C.) è piuttosto preciso nel dichia-rare l'imprecisione e la fluidità della cosiddetta corrente pitagorica romana, che avrebbe costituito lo sfondo e il tessuto della cultura di Roma fino al tempo della conquista della Grecia. Cicerone stesso in quel pitagorismo piu che una determinata concezione, piu che una filosofia, vede una tradizione, un modo di vita, o meglio una visione di un ordine trascendente e teleologicamente determinato su cui si vengono armonicamente scandendo le leggi della città e un tipo di éthos, in una struttura di stato ARISTOCRATICO e contadino-MIITARE, dove trovano posto esigenze religiose estremamente semplici e povere e pratiche terapeutico-cultuali, che se da un lato, trasmesse dalla Magna Grecia – Crotone, Velia --, potevano andare sotto il nome generico di "pitagorismo," dall'altro lato s'incontravano con la situazione ARISTOCRATICO-contadina del popolo di Roma. Per molti rispetti - scrive Cicerone - sono un ammiratore dell'ingegno e della virtu dei nostri connazionali, ma soprattutto per quegli studi a cui si dedicarono molto tardi, trasferendoli dalla Grecia nella nostra città. È vero che fin dalle prime origini di Roma, durante il periodo regio, gli ordinamenti, e in parte anche le leggi, regolarono a perfezione gli auspici, le cerimonie religiose, le assemblee popolari, gli appelli al popolo; il consesso dei senatori, la ripartizione dei cavalieri e dei fanti e tutta l'organizzazione militare. Però, quando lo stato lazio o romano e liberato dal regime monarchico, si verifica un progresso meraviglioso e uno slancio incredibile verso ogni specie di primato. Non è certo questo il luogo per parlare dei costumi e degli ordinamenti dei nostri ante-nati né della costituzione e del governo dello stato lazio o stato romano. Esaminando in questa sede le attività culturali e filosofiche, molti fatti mi fan credere che esse pure siano state desunte dal di fuori e siano state non solo ricercate, ma anche mantenute e coltivate. I nostri ante- nati avevano infatti quasi sotto gli occhi un uomo di straordinaria sapienza e rinomanza, Pltagora, che visse in Italia al tempo in cui liberò la patria Lucio BRUTO. Poiché la dottrina di Pitagora ebbe larga diffusione, a mio parere penetra anche nella nostra città, e questa congettura non è soltanto probabile, ma è anche confermata da alcuni INDIZI. Infatti le grandi e potenti città dell'Italia meridionale – Crotone, Taranto, Velia --, che appunto fu chiamata Magna Grecia, sono al culmine del loro splendore ed ivi ha grande risonanza il nome di Pitagora prima, e piu dei “pitagorici”. Chi può pensare che i nostri connazionali siano stati sordi a quei richiami di alta dottrina? Anzi ritengo che per ammirazione verso i pitagorici anche IL RE NUMA che regna tra il 714 e il 671, molto prima del tempo di Pitagora, e stimato dai posteri un pitagorico. Essi infatti conoscevano le teorie e le massime di Pitagora, e dai loro pro-genitori avevano avuto notizia della equità e della saggezza di quel re. Ma, facendo una confusione cronologica sull'età di quegli uomini, perché si perdeva nella lontananza del tempo, credeno che colui che primeggia per sapienza e un alunno di Pitagora. E questo basti per la congettura. Quanto agl'INDIZI sui Pitagorici, benché se ne possano raccogliere molii, ci limiteremo a pochi, perché non è questo l'argomento della presente discussione, Si dice che essi solevano esporre in poesia certi insegnamenti piu segreti e rilassare nella tranquillità le loro menti affaticate dalle meditazioni con il canto e la musica. E CATONE, scrittore autorevolissimo, dice nelle sue “Origini” che presso i nostri ante-nati vige nei banchetti l'usanza che i convitati l'uno dopo l'altro cantassero, accompagnandosi al flauto, le glorie e le virtu degli uomini illustri. Risulta da ciò evidente che a quel tempo esiste il canto applicato ai suoni musicali e la poesia. Per quanto anche Le Dodici Tavole rivelano che già allora si coltivava la poesia. Una legge (tab. VIII) sance che non e lecita la diffamazione mediante la poesia. Un'altra prova della cultura di quei tempi è che i festini religiosi e i banchetti dei magistrati si svolgevano al suono della lira. E questa era appunto una caratteristica di quella scuola filosofica di cui sto parlando. Per mio conto anche il carme di APPIO CIECO, console nel 307 e nel, 296, che Panezio loda vivamente in una lettera a Quinto Tuberone, di cui Scipione l'Emiliano era zio e L. Emilio Paolo il nonno, discepolo di Panezio, forte oratore avversario dei Gracchi,  è d'ispirazione pitagorica. Nelle nostre istituzioni vi sono ancora molti particolari che risalgono ai pitagorici. Ma li tralascio, affinché non appaia che abbiamo appreso da altri ciò che abbiamo fama di avere appreso da noi. Lo studio della sapienza, ovvero filosofia, è certamente antico presso di noi, però non riesco a trovare nomi da citare per il periodo anteriore a LELIO, detto sapiens, oratore, stoico, console nel 140, e SCIPIONE EMILIANO. Quando questi erano giovani, mi risulta che furono mandati dagli Ateniesi come ambasciatori presso il senato lo stoico Diogene e l'accademico Carneade (155 a. C.) (Cicerone, Tusculanae disp., IV, 1-3). Sembra, questa, una pagina abbastanza indicativa. Dietro la leggendaria figura di Pitagora è chiaramente mostrata l'UNILATERITà della cultura romana. Non sappiamo fino a che punto vi sia qui un giuoco ciceroniano, volto da un lato a mostrare il quadro di una antica AUSTERITà romana, cui puo servire il topos della vita pitagorica, e dall'altro lato a dimostrare la necessità di una consapevole riflessione che serva da fondamento, in una piu ampia concezione, a certi modi di vita, senza di cui la stessa attività dell'oratore non è, in effetto, realmente e concretamente politica e che Cicerone riconosce dovuta alla complessa problematica della cultura, che, tuttavia, ha da innestarsi sul tronco delle nuove esigenze e dei problemi, che, politicamente, socialmente, economicamente, militarmente, si presentano a Roma. Cicerone, naturalmente, ha presente la situazione di Roma al suo tempo, e sarebbe ozioso ricordarne i conflitti e i cozzi di ideologie e di interessi di classe e personali, i tentativi economici, le resistenze, le aperture (dai conflitti dei Gracchi a Mario e Silla, a Cesare e Pompeo), in un mondo, senza dubbio, in gravissima crisi e in trasformazione. Ma Cicerone sa anche che l'uomo politico, l'oratore (e si badi che Cicerone nettamente distingue il retore, il tecnico dei discorsi, il professore o precettista di retorica, dall'~atore, che pur deve conoscere quelle tecniche e quei manuali, com'è chiaramente dimostrato dal “De inventione”, un manuale di retorica, al “De Oratore”), non può concretamente agire, determinare una certa condotta piuttosto che un'altra, se non inserendosi nella situazione presente, se non avendo coscienza della propria responsabilità, che tuttavia scaturisce dal riflettere sulla struttura culturale del proprio tempo, e a cui si giunge rendendosi conto del come e del perché si è pervenuti a quella struttura stessa. Sotto questo profilo Cicerone è una fonte preziosa, soprattutto quando le sue opere vengano studiate in ordine cronologico e non in astratto, e si tenga conto delle varie situazioni storiche dall'85 al 44, per ricostruire, piu che un insieme di sistemi, il complesso delle molteplici linee attraverso cui si venne determinando l'incontro tra il mondo orientale e il mondo romano, e la trasformazione dell'uno e dell'altro, nel giro di un secolo circa, in una nuova atmosfera culturale. Il pensiero di Cicerone è incomprensibile, quando non lo si veda scaturire da certe precise situazioni storiche, quando non se ne colga la genesi dal di dentro di ciascun'opera, da quelle piu strettamente retoriche e giuridiche a quelle in cui si tenta di delineare il significato del “vir bonus”, dell'orator che, mediante il suo sapere, la sua “virtus”, sa inserirsi in una certa società, duttilmente, sapendo usare le tecniche, avviando quella società a una certa ritenuta convenienza e a una certa ritenuta “honestas”. Si capisce perciò come Cicerone, pur puntando a un certo ideale di uomo e di società, si preoccupa dei mezzi pratici per realizzarlo, e si capisce altresl come esponga via via i piani diversi con cui si sono storicamente presentati i vari aspetti della retorica e i vari tipi di oratoria, diversi a seconda delle concezioni e dei caratteri, delle situazioni in cui si sono venuti a trovare gli uomini politici. Di qui, ed entro questi termini, i vari tipi di oratoria esposti da Cicerone da quella di SULPICIO e di SCEVOLA, a quella di COTTA, di CRASSO e di ANTONIO, a quella dei GRACCHI e di ORTENSIO, di BRUTO - e i fondamenti filosofici che hanno mosso quegli oratori, cioè quegli uomini politici. Cosi, attraverso questo lavoro, Cicerone, dal “De inventione” al “De Oratore”, all'Orator, e cosi via, si è reso sempre meglio conto che la retorica ha da trasformarsi in ORATORIA, cioè in filosofia, nel senso che la verace persuasione si ottiene ben pensando (virtu), che è ben parlare (ELOQUENZA) istituendo misurato e onesto costume. L'oratore, perciò, deve possedere un complesso di cognizioni che vanno dalla psicologia allo studio dei caratteri, di ciò che ragionevolmente anche del- l'ordine del tutto e della realtà e del divino può essere accettato (consensus gentium), donde, nel conflitto tra "filosofia" e "retorica," il significato dato da Cicerone alla psicagogia del Fedro platonico e alla retorica di Aristotele, e, ad un tempo, accanto alle ipotesi (discussione giuridica di casi particolari), alle tesi (discussione di problemi generali), e quindi a certi aspetti della virtu e delle concezioni degli stoici la cui casistica e discussione scolastica, offre larga mèsse per le tesi" -, ma anche alla duttilità discussiva di un Arcesilao o di un Carneade, determinando il pro e il contro di ogni concezione e tesi, in un abile inserirsi e modificare che nega ogni sistema chiuso, per cui, appunto, Cicerone verrà criticando e esclu- dendo sia il fato sia la divinazione. Cicerone, in effetto, non è mai stato né un "brillante espositore di dottrine altrui," come si è detto, né un uomo che abbia cucito insieme dottrine talvolta anche in contrasto tra loro, se non in quanto con- trasto e conflitto furono propri dello stesso Cicerone. Pensi pure ciascuno come vuole: vi deve essere libertà di giudizio. Noi ci atterremo sempre ai nostri principi; ricercheremo cioè sempre in ogni questione quello che abbia maggiore carattere di probabilità, senza essere vincolati a regole di nessuna scuola, alle quali ubbidire di necessità. (Tusc. disp., IV, 4). Vi è piuttosto, in Cicerone, una sottile noia nei contronti delle di- spute di scuola, l'esigenza di ricondurre sul piano di un concreto agire umano sia il ragionamento sia la problematica morale sia la problema- tica relativa all'ordine del tutto, nell'ideale di usare le tecniche retoriche e le tecniche dialettiche, o una o altra concezione etica o religiosa, al fine di persuadere a un certo modo di vita che sia salvazione della libertà romana, della cQflcordia di Roma, lacerata nei conflitti. Tale consapevolezza portava Cicerone a sostenere ch'egli, pur facendo tesoro della cultura greca, pur usando le tecniche ricavate dai manuali greci di retorica, pur rifacendosi ai grandi oratori latini, pur usando con- cetti e motivi elaborati dai greci, aveva cercato di dare una consapevo- lezza critica (filosofica) al popolo romano, una cultura, che anche nel linguaggio, non fosse piu né greca né meramente precettistica e sco- lastica: Magnifica e gloriosa cosa è per i Romani non avere piu bisogno del greco per la filosofia: che, per certo, adempirò, se porterò a fine l'opera iniziata (De divinatione; Il, 1). Stando cosi le cose, sembra estremamente difficile potere, attraverso Cicerone, ricostruire precise posizioni di pensatori precedenti (Pane- zio, Posidonio, Filone di Larissa, Antioco di Ascalona, e cos( via), ché, sempre, anche quando Cicerone cita direttamente, anche quando dice di avere in mano le opere di quegli autori, egli usa quelle fonti in fun- zione di un suo fine, in funzione del pro e del contro, delle tesi, in funzione di certe situazioni politiche e, nei confronti di quelle, della sua politica. Ciò che, invece, è possibile, attraverso Cicerone, attraverso la mediazione da lui attuata, da un lato è ricostruire un'abbastanza precisa atmosfera culturale, ed entro questa la stessa evoluzione ed originalità del pensiero ciceroniano, fino a cogliere il senso e il perché di una posizione che è l'indice della trasformazione di una problema- tica, ben diversa da quella delle fonti stesse di Cicerone; e, dall'altro lato, tenendo presente tutto questo, ricostruire certe linee e correnti, certe componenti e certi materiali, che hanno dato luogo alla compo- sizione ciceroniana. Ora, attraverso Cicerone ed altre non molte fonti sicure, appaiono evidenti quattro punti fondamentali. La cultura greca, in senso stretto, a parte i contatti con il mondo greco prima del 168 a.C., penetra in Roma sotto forma di inse- gnamento scolastico impartito dagli schiavi e dai liberti greci, soprat- tutto per ciò che riguarda la retorica. 2) Quella stessa retorica e con essa aspetti e concezioni propriamente ~recierano richiesti dai romani delle classi superiori, m quanto strumento per una formazione culturale che servisse alla vita politica. Anche i maestri piu noti e i capi- scuola di Atene, o di Rodi; che, per la sua relativa libertà, divenne notevole centro culturale, se da un lato assunsero sempre piu aspetto professorale, dall'altro lato entrarono in rapporto con personalità ro- mane, furono a Roma, insegnarono a romani, furono consiglieri di uomini politici di Roma, viaggiarono in oriente e in occidente. 4) Nes- sun romano, discepolo di piu di un maestro greco e attento a correnti diverse, fu, tra il secondo e il primo secolo a.C., filosofo di professione, o "saggio," ma uomo politico, uomo di governo, oratore, finché pro- prio in questo, in questo saper governare, consisterà per essi il "sapere," il filosofare, in un tutt'uno di otium e negotium, ove l'otium serve al negoiium e il negotium è illuminato e reso intelligente dall'otium; il che non ha ancora nulla a che fare con l'ideale della vita contemplativa, o con un rifugio nell'otium per liberarsi da un ingrato negotium, ma è l'approfondita consapevolezza dell'antica "pratica" romana, che si trasforma in "cultura," in "humanitas," attraverso l'influenza della meditazione greca. Altri e diversi diverranno i problemi e gli ideali di vita con l'av- vento del principato e dell'Impero. Filosofia, retorica, politica e diritto. Da Catone a Cicerone. Rispetto al primo punto sembra ora non poco suggestivo riportare un testo del De Oratore, in cui Cicerone riferendosi ai tempi immedia- tamente posteriori alla conquista del mondo greco, scrive: Allorché la durata della pace - avendo Roma stabilito il suo dominio su tutte le genti - assicurò un certo otium, non vi fu giovinetto posse- duto da un qualche amore di gloria, che non volgesse i suoi sguardi e i suoi sforzi all'arte del dire. Dapprima ignoravano tutto delle ragioni interne della retorica e neppure lontanamente pensavano che vi fosse un metodo o un qualche precetto dell'arte, si che pervenivano solo fin dove potevano giungere col talento naturale e la riflessione. Piu tardi, dopo che si ascoltarono gli oratori greci, si studiarono i loro modelli, si seguirono le lezioni dei maestri greci, fu veramente con incredibile studio che i ro- mani s'infiammarono per l'eloquenza... (De Oratore, l, 4, 14). I romani delle classi aperte al governo si resero conto dell'efficacia che per la carriera (cursus honorum) aveva la retorica, e poiché incon- trarono presso i greci e le scuole gr.eche la piu ampia discussione e precisazione di quell'arte, si servirono dei greci, trovand6 numeroso per- sonale insegnante tra i molti. schiavi che procuravano le conquiste. Ciò era già avvenuto al tempo della conquista di Taranto ('Zl2), quando da Taranto·fu condotto come schiavo. a Roma Livio Andronico, che venne poi liberato dal padrone, al quale Andronico aveva educato i figli (Hieron., Chron., 187a). Con Andronico, accanto all'insegna- mento privato del greco, ebbe inizio l'insegnamento pubblico del greco: domi forisque insegnava Andronico (Svetonio, Gram., 1, 1). Ma con Andronico - e questo inì:eres~ qui ricordare - ebbe anche inizio, in Roma, sul calco della scuola greca,'l'insegnamento secondario. L'inse- gnamento primario, cioè l'insegnamento. dello scrivere, risale molto piu indietro, probabilmente al periodo etrusco della Roma dei re, quando i latini adottarono l'alfabeto degli etruschi e il metodo di insegnameoto della scrittura, derivato agli etruschi dai greci (cfr. I. Marrou, Storia dell'èducazione nell'antic/Utà, Roma, p. 333). L'insegnamento secondario latino appare molto piu tardi, verso la metà del m secolo a. C.. Questo ritardo non deve. meravigliare; l'insegnamento secondario classico si basava in Grecia sulla spiegazione dei grandi poeti e prima di tutto su Omero. Come avrebbe potuto Roma conoscere l'equivalente d'un tale studio dal momento che non possedeva una letteratura NAZIONALE? Di qui il paradosso, che non è forse stato abba- stanza messo in rilievo, che la poesia latina è stata precisamente creata per fornire una materia d'esegesi all'insegnamento, e certamente per rispondere all'esigenza del nazionalismo romano, che non sarebbe stato a lungo soddisfatto di un'educazione unicamente data in greco. Il primo poeta IN LINGUA LATINA, che anche il primo professore di letteratura IN LINGUA LATINA, è quello stesso Livio Andronico di TARANTO, segnalato come il primo in data dei maestri di gr.eco che hanno insegnato in Roma. Egli tradusse IN LOQUELA DEL LAZIO o loquela lazia o la loquela dei lazini l'Odissea, servendosi del vecchio metro indigeno, il saturnio. Tale traduzione e per Andronico un testo che egli spiega, praelegehat, parallelamente ai classici nella ‘loquela graii’  (Svet., Gram., 1, 1). Naturalmente non fu questa l'unica fonte della poesia nella loquella dei lazii, ma per molto tempo conservò il carattere, per noi strano, d'essere intimamente vincolata alla necessità d'alimentare i programmi dell'insegnamento secondario: due generazioni dopo, Ennio, anch'egli mezzo greco, ac- canto ad autori greci, continua a spiegare i suoi poemi promossi, fin dalla loro apparizione, al rango di .classici" (Marrou, cit., p. 334). Quando Roma conquistò definitivamente la Grecia, i romani delle classi superiori conoscevano benissimo il greco e già lo usavano come lingua diplomatica, per cui non ebbero· piu bisogno di traduzioni, tanto è vero che la retorica fu studiata e insegnata per tutto il secondo secolo e il primo a. C., in greco. Ma i! discorso, sul piano del conte- 16    nuto, è lo stesso di quello fatto per l'insegnamento secondario. La retorica, che costitu1 l'aspetto fondamentale dell'insegnamento supe- riore, servi ai romani, che avevano possibilità di fare carriera poli- tica, come strumento di cultura, come esercizio e preparazione, .s1 come per l'insegnamento secondario serviva la grammatica e l'esegesi dei testi poetici. E perciò essi, almeno in principio, si rifecero, indi~ scriminatamente, ai retori greci e ai manuali di retorica, indipenden- temente dai possibili contenuti di pensiero che pur erano dietro quelle tecniche. Questo spiega come l'insegnamento della retorica si svolgesse me- diante esercitazioni, mediante svolgimenti di discorsi fittizi, che toc- cavano o le tecniche persuasive, rientranti nella deliberativa, o le tecniche proprie della controversia, ove si discuteva il pro e il contro di casi parti- colari in relazione a testi di. legge, in modo astratto e precettistico; ma questo spiega anche come il contenuto soprattutto delle questioni generali (''tesi"; anche se già si ritrovano in Aristotele come luoghi comuni, e come "tesi" in Teofrasto, esse vennero poste in primo piano da Erma- gora di Temno) si potesse assumere, indifferentemente, a seconda della "tesi" messa in discussione, sia dalle questioni di etica impostate dagli stoici, sia dalla dialettica e dai pro e dai contra sottilmente posti dagli accademici. L'entusiasmo che nel 155, a Roma, suscitò Carneade presso i giovani colti, col suo doppio discorso sulla giustizia (cfr. I vol.), rientra in questo quadro, sL come l'adesione che in quella stessa occasione ottenne, da parte di molti, lo stoico Diogene di Babilonia, maestro di dialettica. Lo studio della retorica, dunque, non presentava soltanto l'insegna- mento di una precettistica, ma implicava un piu vasto sapere: discus- sioni sulla dialettica e sulle fonti del sapere, su problemi morali, giuri- dici, di psicologia, e, quindi, alla fine, discussioni su una o su altra concezione del tutto, ove il materiale poteva essere assunto dalle piu diverse tesi, offerte dalle filosofie greche, e usato, poi, a seconda del- l'una o dell'altra causa politica o giuridica, deliberativa o relativa a controversie. Proprio questa neutralità della retorica, nei confronti dei possibili contenuti, nel senso della prima grande sofistica, dovette, in principio, preoccupare i conservatori romani. Polibio (XXXI, 24) testimonia che nel 167 circa era in Roma grandissimo numero di maestri greci. Del 161 è il Senato consulto che proibisce la residenza in Roma ai retori e ai filosofi greci. Si capisce cosi come, per politica, un conservatore DELLA RAZZA DEL CELEBRE CATONE il Censore (234-149)1 si preoccupasse del- 1 [Nato nella Sabina, a Tuscolo, nel 234, Marco Porcio Catone, di una famiglia  17  ]  l'introduzione in Roma delle tecniche retoriche greche e dèlle dispute delle scuole filosofiche e scientifiche greche. In effetto Catone, piu che della elaborazione della cultura greca, si preoccupava dei Greci e probabilmente dei Greci del suo tempo, ch'egli considera dei degenerati. t sf bene - scrive nei celebri “Praecepta ad filium” avere notizia delle lettere greche, ma non studiarle a fondo. RAZZA CATTIVISSIMA e indocile (nequissimum et indocile genus) è quella dei greci, e fa' conto che sia un profeta che ti dice questo. Se, quando che sia, codesta gente ci darà la sua scienza, manderà tutto in rovina; e peggio ancora, se verranno qua i suoi medici. Congiurano di ammazzare con la loro medicina tutti i barbari; e si faranno pagare per questo, affinché si abbia fiducia in loro e possano facilmente compiere l'opera di distruzione. Chiamano barbari anche noi, anzi avviliscono noi piu degli altri con il chiamarci Opici (in Plinio, Natur. hist., 29, 7). Ad ogni modo lo stesso Catone fu grande oratore e si rese tanto conto della funzione politica della retorica, ch'egli, appunto, ne teme le possibili applicazioni. I conservatori romani paventarono, ora, certi di agricoltori, legato alla sua terra, contadino rimase )><'r tutta la sua lunga. vita. Vita parca, dura, laboriosa, dice egli stesso, vissi sin da principio, coltivando il mio campo tra i dirupi della Sabina, dissodando, seminando le selci (p. 69, Maleovari). Gretto, duro, di pocbe idee ben fisse, contadino-soldato egli fu )><'r tutta la vih. Questore in Sardegna di Publio Scipione Africano nel 204, edile nel 199, pretore nd 1::18, console e comandante di eserciti in Spagna nel 195, e nominato censore 'nel 184 e soprattutto il suo nome fu legato alla durezza della sua censura, tanto che fu detto, )><'r distinguerlo da altri Catoni, Catone il Censore. Inviato nel 153 a Cartagine, in qualità di ambasciatore, ne torna con la convinzione che gl'interessi di Roma esigessero la distruzione di Cartagine: "Delenda Carthago" divenne il suo slogan. Muore nel 149, a ottantacinque anni. Plutarco riferisce un epigramma su Catone, che in due versi sintetizza la figura fisica e morale di Catone. Tutto denti, mordace, occhi verdi, rossigno è Catone, e Persèfone teme ancora d'accoglierlo nell'Ade. Se una specie di enciclopedia dove essere il suo “Praecepta ad filium” (vi si trattava di medicina, di agricoltura, di retorica, di giurisprudenza e di arte militare), un vero e proprio trattato di arte agraria è il “De agr'icoltura”, il primo libro in prosa nella locuzione dei lazini giunto fino a noi (dalla classe degli agricoltori provengono gli uomini migliori e i piu valorosi soldati. Meno in balla di cattivi )><'nsieri sono coloro che attendono al lavoro dei campi. Non altro che pochi frammenti possediamo della sua grande opera storica ·in 7 libri, le “Origines” (I libro: storia di Roma sotto i re; II e III libro: storia delle primitive città. italiche; IV e V libro: storia della prima e della seconda guerra punica; VI e VII libro: storia degli avvenimenti fino al 149). Orazioni Catone scrisse (ben quarantaquattro volte dovette difendere se stesso) durante tutta la sua vita (delle 150 che compose, di un'ottantina leggiamo oggi scarsi frammenti). Celebri sono rimaste certe sue lapidarie sentenze. “Orator est, Marce fili, VIR BONUS DICENDI PERITUS” “Rem tene, verba sequentur" (dai Praecepta ad filium). Tutto cose, fatti, conti, come risulta dalle biografie antiche (Livio, 39, 40; Cornelio Nepote; Plutarco), la sua durezza, il suo talento, il suo buon senso da contadino, il suo utilitarismo, il suo ideale d'uomo forte, non ozioso, la sua stessa dirittura, hanno servito a creare la figura del ROMANO O LAZINO per eccellenza (a parte la sua ambizione, e il non troppo bello episodio del suo essersi dato all'usura)] aspetti della cultura greca, si come nel v-Iv secolo i conservatori ateniesi dello stampo di un Aristofane e di un Senofonte, o del piu grande Platone, temettero la sofistica. Non a caso, anzi, Catone s'ispira piu volte a Senofonte e si senti vicino al Socrate, moralista e predicatpre, presentato da Senofonte nei “Detti memorabilia” e nel “Convito” (il principio delle Origines di Catone, fr. 2, è una traduzione del principio del “Convito” di Senofonte). Non solo, ma è interessante a tal proposito ricordare che le opere di Senofonte, che Cicerone testimonia essere sempre state in mano di Scipione Emiliano (in particolare i ·Memorabili e la Ciropedia) e lette da Catone (cfr. Tusc., Il, 26, 62; Ad Quint. frat., l, l, 23; Gato maior, 59, 79-81), fano parte della Biblioteca dei re di Macedonia, messa insieme dallo stoico Perseo, discepolo di Zenone di Cizio, e che, dopo il 168, Paolo Emilio ha trasferito a Roma, come proprietà privata, in casa sua, e posta a disposizione dei propri figli e degli amici loro. Il Socrate senofonteo, filtrato attraverso testi stoici che formano il.grosso della biblioteca dei re di Macedonia - non si scordi l'aneddoto secondo cui Zenone di Cizio si.sarebbe convertito alla filosofia leggendo il Socrate di Senofonte e ritrovandone un esempio nel cinico Cratete -- apparve certo a Catone rispondente al suo ideale di vita, come anche risulta dalla biografia che di Catone compose Plutarco (cfr. F. Della Corte in Studi di fil. greca, Bari, pp. 314 sgg.). Ad ogni modo, accanto ai retori e ai maestri greci, cominciarono a circolare a Roma i testi di pensiero, che offreno quel materiale e quei contenuti, quella necessaria cultura di cui parlavamo, e che, a seconda della situazione politica, delle cause in questione, puo servire all'oratore. D'altra parte, per rendersi conto delle scelte, per cui di volta in volta puo essere assunti passi o·tesi di Platone o di Aristotele, di Zenone o di Crisippo, e, piu tardi, di Panezio e di Posidonio, di Carmada e di Filone e di Antioco, o i loro modi di intendere Socrate o Platone o Aristotele, va tenuta presente la classe cui appartennero via via gli oratori e i politici ROMANI O LAZINI, da P. Cornelio Scipione Emiliano (l'Africano minore) ai Gracchi, a Pompeo, a Mario e Silla, a Cicerone. Non va, intanto, scordato che nella seconda metà del secondo secolo cominciò a circolare la grande sistemazione della retorica dovuta a Ermagora di Temno, vissuto a metà del 11 secolo. Il manuale di Ermagora duo essere, per quel che ne sappiamo, una specie di summa e di ordinamento dei vari aspetti in cui si era discusso il problema della retorica dai sofisti agli stoici, dai quali ultimi deriva Ermagora stesso, in una teorizzazione della retorica. Egli, dopo avere insistito sulla distinzione tra ipotesi e tesi, dando particolar valore alla tui -- due sono i generi delle 'questioni'," scrive Cicerone. L'uno è il genus infinitum, l'altro il genus definitum. Definito è quello che i greci chiamano ipotesi, e noi nella loquela lazia, causa. Infinito quello ch'essi dicono tesi e noi possiamo chiamare pro-posito (Cic. Top., 21, 79), imposta la distinzione dei discorsi retorici sullo stato della causa. Ermagora divide a sua volta lo stato della causa in due grandi aspetti, l'aspetto razionale (yévot; Àoytx6v, genus rationale) e l'aspetto legale (yévot; VO(J.tx6v, genus legale) (cfr. in Hermagoras Fragmenta, ed. D. Matthes, Lipsia, i fragmm. 6-23). Ermagora cosi teorizza da un lato una retorica razionalistica e filosofica, dall'altro invece una retorica spiccatamente giuridica, una interpretatio iuris sorgente dalla stessa pratica giuridica. Da un lato, quindi, la retorica ermagorea mira al vero, dall'altro al GIUSTO: ai due massimi valori, cioè, della filosofia stessa, nella sua parte teoretica e nella sua parte morale (A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Milàno, p. 114). Accanto alle altre conoscenze, offerte dai testi del pensiero greco, e dai maestri greci che venivano a Roma o alle cui scuole (Rodi, Atene) ci si recava, prese sempre piu piede, sulla fine del II secolo, l'esigenza di una sistemazione e razionalizzazione del DIRITTO, tanto che sulla fine del 1 secolo, anche per l'impulso dato da Cicerone, sorsero, accanto alle scuole di retorica, scuole vere e proprie di DIRITTO in cui insegnarono magistri iuris, iuris periti. La conoscenza delle leggi e del complesso delle leggi, come insegna Ermagora di Temno, sirve non poco alla retorica ed all'azione politica. Materiale per tale sistemazione, soprattutto quando si pensi che il significato della legge giusta e universale era discusso e studiato in particolare da uomini che tende- vano al potere politico e che per nascita e censo ne avevano la possibi- lità, era offerto dalle varie elaborazioqi e approfondimenti che della Legge e del diritto avevano dato e davano gli Stoici, risalendo poi, attraverso essi, alle testimonianze di Platone, di Aristotele, di Dicearco. Quasi tutte le nozioni - scrive Cicerone - le cui parti sono riunite ora in corpi dottrinali, costituenti questa o quell'arte, un tempo erano disperse e non formavano un insieme. Cosi, in musica, il ritmo, i toni, la melodia; in geometria, le linee, le figure, le dimensioni, le grandezze; in astronomia, le rivoluzioni del cielo, il sorgere e il tramontare, i movimenti degli astri; in grammatica, la spiegazione dei poeti, la conoscenza della storia, il significato delle parole, la pronuncia; nella stessa retorica, l'invenzione, l'elocuzione, la disposizione, la memoria, l'azione. Il rapporto di questi elementi fra loro era ignoto. Sembra senza legami, disarticolati. Si è coscer- cato al di fuori, in un altro campo, di cui i filosofi si attribuiscono l'intiera proprietà, un metodo che in qualche maniera cementasse questi materiali sparsi e li costringesse a entrare in un sistema razionale. Poniamo dunque l'oggetto del diritto civile: mantenere, sulla base delle leggi e dei costumi, i principi di giustizia che regolano gli interessi dei cittadini nelle loro reciproche relazioni. Distingueremo, quindi, i generi, riducendoli a un certo numero, il piu piceolo possibile. Il genere è ciò che racchiude due specie o piu, simili tra loro per un carattere comune, ma separate per una differenza propria. Le specie consistono nelle suddivisioni che si raccolgono sotto il genere di cui sono formate. E tutti i termini che servono a desi- gnare generi o specie, avremo cura di definirli con il loro esatto valore. La definizione, infatti, è una spiegazione breve e precisa dei caratteri che sono propri dell'oggetto che vogliamo definire... Si tratta, insomma, di ricondurre il complesso del diritto civile a un piccolissimo numero di ge- neri, dividere poi .ciascuno di questi generi in diversi membri o specie, far vedere infine, con una definizione, il valore proprio di ogni termine: avremo cosi una teoria completa del diritto civile, ed una scienza t:stesa e feconda invece che difficile e oscura (De Oratore, I, 42, 187-190). Se cos{, per il yhoç ÀO')"x6v, il genere razionale, e per le "tesi" si cercava il materiale negli aspetti piu vari del pensiero greco e nei modi con cui esso poteva essere usato - retoricamente si potevano benissimo accostare tesi diverse, e, soprattutto, frasi diverse, sganciate dai loro contesti, - per il yhoç VOIL'x6v, il genere legale, il materiale e offerto, formalmente, dalla logica, dalla dialettica, e, per il contenuto, dal rapporto v6jLoç-Myoç, o meglio v6oç-v6jLot;, che impostato da Platone (cfr.. Leggi, 957c), poteva essere interpretato secondo il "diritto naturale" approfondito da alcune posizioni stoiche. L'esegesi del diritto e delle leggi, l'esegesi delle tecniche retoriche, la loro funzionalità a seconda di certe situazioni ed esigenze politiche, implicavano una piu vasta cultura, la richiesta di conoscenze e sistemazioni - come chiaramente si vede attraverso Cicerone - atte ad essere usate di volta in volta. Cicerone verrà a costituire come il nodo di questo processo, svoltosi dall'età di Scipione alla morte di Cesare, nel consapevole tentativo, egli homo novus, di conciliare l'oratoria usata dagl’ARISTOCRATICI con l'oratoria dei "populares" (o, meglio, di certi ARISTOCRATICI che mossero il popolo), mediante, appunto, una piu alta e vasta cultura, che fosse terreno comune, comune parentela, con cui determinare la persuasione alla pace, non solo entro il campo dell'aristocrazia, ma anche del popolo e tra aristocrazia e popolo: naturalmente attraverso l'oratoria di un uomo capace di questo, attraverso un PRINCEPS fori, cioè sempre dal- l'alto. Ma di qui, per Cicerone, l'importanza ch'egli da all'insegnamento della retorica in la lingua degl’abitanti del lazio, perché fosse possibile costituire nel mondo romano o del lazio una consapevolezza critica (filosofia), che doveva,  nel suo ideale, determinare upa misura e un rapporto tra le classi, che fa davvero dello stato una res publica. Tale prospettiva vede bene chi riperc'Qrra l'evoluzione dell'oratoria romana dei lazini nei suoi rapporti con la vita politica, da Scipione Emiliano ai Gracchi a Silla. Le tecniche retoriche sono assunte per presentare un certo tipo di politica e, quindi, persuadere a una certa concezione di vita che, in alcuni almeno, come nell'Emiliano, trovò la sua espres- sione, il suo linguaggio, nello stesso modo di vita dell'uomo, creando un personaggio, un modello. E fu il modello aristocratico del vir bonus, del salvatore della patria, dell'uomo misurato, che si sacrifica per lo Stato e la sua unità, e la cui eloquenza riflette, appunto, tale modo di vita. Si pensi a Scipione, a Lelio, ad Antonio, a Crasso, a Rutilio Rufo, a Scevola pontefice, a Cotta. Oppure si tratta di muovere e commuovere il popolo vero e proprio, il popolo lazino, e allora altro è il tipo di eloquenza usata, altra la concezione cui si fa ricorso. Si pensi all'oratoria dei Gracchi, di Mario, di Sulpicio. Sotto questo aspetto sembra chiaro perché nel 99 Crasso, allora censore, abbia ~;mdannato e sciolto la scuola di retorica in la loquela dei lazini, creata l'anno prima da Plozio Gallo, su ispirazione di Mario. I rappresentanti del partito senatoriale e aristocratico, come ora Crasso, studiano a lungo la retorica e attraverso essa e per essa si erano formata una vasta cultura, mediante cui tendevano a persuadere della propria concezione non solo la propria classe, bens( tutto IL POPOLO ROMANO o il popolo del LAZIO. Ma, pur dotti di greco e sostenitori della funzione che per l'oratoria ha la cultura greca, IN PUBBLICO OSTENTANO DISPREZZO per quella cultura stessa (cfr. Cicerone, De Oratore, Il, l, 4), consapevoli del pericolo che l'oratoria venisse insegnata in la loquela del Lazio. Non è un caso che la fondazione di una scuola di retorica in la loquela del Lazio e ispirata da Mario, un "popolare," che Cicerone dice essere sné eloquente né colto (Cic., Pro Fonteio, 19, 43). L'arte del ben dire, in quanto insegnata in quello ch’Ovidio chiama la ‘loquela graia’, accompagnata da lunghi studi, divenne patrimonio delle classi ricche e dell'aristocrazia. Plozio Gallo, attraverso la sua scuola, minaccia quel monopolio, dando le stesse armi piu che ai populares allo stesso popolo. S'irrisce qui la questione dell'anonima “Retorica ad Erennio”, composta, sembra, tra 1'86 è 1'82. È un trattato di retorica in la loquela dei lazini, il primo giuntoci integrale. Alcuni, di recente, l'hanno ritenuta di ispirazione ploziana (Marrou), rispecchiando un insegnamento di tipo molto moderno, nettamente opposto alla retorica classica delle scuole della loquela ‘graii’, anche se nutrito di questa, e specialmente di Ermagora, in cui si reagisce all'ingombro delle regole, alle astratte esercitazioni, per avvicinare l'insegnamento alla pratica e alla. vita mediante soggetti attinti dalla reale vita romana dei lazini (“exempla latina” – essempi dei lazini) e dibattiti agitanti la politica contemporanea (Marrou, Storia dell'educazione nell'antichità, I, p. 336). Il questore Cepione deve condannarsi per essersi opposto alla legge frumentaria del tribuno saturnino (Ret. ad Er., l, 21)? Si può assolvere l'uccisore del tribuno P. Sulpicio, ucciso nel1'88 per ordine di Silla (Ret. ad Er., l, 25)? Il Senato delibera, durante la guerra sociale, 91-88, sulla questione di accordare il diritto di cittadinanza agli ITALICI chi non sono lazini (Ret. ad Er., III, 2). Morte tragica di Tiberio Gracco (Ret. ad Er., IV, 55). Naturalmente non tutti i soggetti sono tratti da un'attualità cosi scottante, e l'argomentazione non è sistematicamente orientata nel senso favorevole ai populares - un buon retore deve sapere parlare pro e contro. Tuttavia non c'è dubbio che l'atmosfera generale della scuola risentiva della posizione politica del fondatore (Marrou, cit., p. 336). Altri (Michel, Rhétorique et Philosophie chez Cicéron, Parigi), invece, ritengono che non bastino le citazioni dei Gracchi, gli elogi dei populares, gli “exempla latina” – essempi dei lazini, per accertare che la Retorica ad Erennio sia opera ispirata ai retori latini o lazini. Già Antonio, che, secondo Cicerone (De Oratore, I, 21, 94), aveva composto un trattato di retorica, e favorevole agli “exempla latina” (cfr. Cicerone, De Oratore, Il, 24, 199 sgg.). Non sempre l'autore della Retorica ad Erennio mette in primo piano i populares. Se è vero che, anche senza nominarlo, elogia Mario, è altrettanto vero che tesse l'elogio di Silla (Ret ad Er., IV, 54, 68), spesso evoca la politica aristocratica e cita ed elogia la figura di Scipione Emiliano (Ret. ad Er., IV, 13, 19; 32, 43), non solo ma in certi casi, come nella lotta contro Saturnino, approva il consensus bonorum (Ret. ad Er., l, 12, 21), e non pochi sono, infine, gli esempi in la ‘loquela Graii’ (Ret. ad Er., l, 10, 17; 15, 25; 16, 26). Il Michel (p. 72) trae di qui la conclusione che l'autore della “Retorica ad Erennio” vuole stabilire una specie di equilibrio tra populares e OPTIMATES e ravvicinare i precetti dei retori greci alla storia politica di Roma. In effetto la “Retorica ad Erennio”, che chiaramente si ispira ad Aristotele, a Crisippo e ad Ermagora, è un trattato in cui si tenta, sull'esempio, appunto, di Ermagora, di presentare una summa dell'arte del dire, in una sistemazione dei vari aspetti della retorica in un tutt'uno coerente, facendo uso nelle esemplificazioni, non solo degli esempi oratori greci, ma, SCRITTA DA UN ROMANO, nel LAZIO, per romani, anche dei mggiori esempi dell'oratoria romana. Si vedono cosi, chiaramente, i due aspetti della Retorica ad Erennio. La teoria dell'arte del dire è ricavata dalle fonti greche, INDIPENDENTEMENTE dai contenuti filosofici ch'erano sottesi dietro quelle fonti. Essa consiste nella classificazione dei tre generi oratori aristotelici, giudiziario, dimostrativo, deliberativo. Nella divisione delle tecniche retoriche, di origine crisippea, in invenzione, elocuzione, disposizione, recitazione, cui è aggiunta, invece dell'argomentazione della causa, come in altri trattati stoici, la memoria, che, forse, risale a Zenone di Cizio. Nella divisione in sei parti del discorso, exordium, narratio, divisio, confutatio, confirmatio, CONCLUSIO. Per la casistica e l'esemplificazione sono usate le fonti romane, cioè i tipi di orazione dei grandi oratori latini o lazini del lazio, tanto del grande Antonio, quanto dei Gracchi. Non va, d'altra parte, scordato che la Retorica ad Ermnio è il primo trattato romano di retorica, giuntoci integrale di cui, in realtà, le fonti romane ci sono ignote, se non siano ricostruite attraverso Cicerone, il quale nel suo tentativo fin dal “De inventione”, molto vicino alla Retorica ad Erennio, di dare una base meno precettistica e piu culturale-filosofica alla retorica, discutendo poi della funzione e della cultura necessaria all'orator, che deve svincolarsi dall'assumere unilateralmente una o altra precisa concezione, dall'accettare una o altra posizione, ha classificato e opposto tipi di retorica, cui corrispondeno tipi di concezioni. La Retorica ad Erennio è, da un lato, l'indice chiaro dell'esigenza, ormai maturatasi, da parte romana, dai lazini del Lazio di una sistemazione e di un ordinamento in un complesso dottrinario del sapere retorico, si come, sempre in funzione della retorica e del CON-VIVERE civile, si verrà poi sistemando e ordinando il sapere giuridico, e, dall'altro lato,· è l'indice chiaro delle mutate condizioni politiche. L'oligarchia senatoriale nella quale si era sviluppato l'ideale del “vir bonus” subisce la concorrenza delle altre classi. Nelle quaestiones uno spirito nuovo, piu democratico, penetra le istituzioni. I giudici sono tribuni, cavalieri. Di qui il nuovo aspetto politico e concreto dei problemi oratori. L’avvocato che perora per un magistrato dinanzi ai giudici cavalieri si trova a dover difendere un grande dinanzi a chi pretende d'essere del popolo. Rutilio Rufo, console, risponde alle accuse dei pubblicani. Il grande Crasso stesso, in un'arringa defensionale che scandalizza Antonio, si dichiara, lui senatore, schiavo del popolo (Cic., De Oratore, l, 52,. 226). L'eloquenza non è piu la nobile arte dei dibattiti aristocratici. t 10 strumento ambiguo di queste lotte in cui s'ignora sempre se l'oratore aduli il popolo o l'istruisca. Talvolta lo istruisce adulandolo (Michel, cit., p. 45). La retorica assume cosi una sempre piu larga funzione, oltrepassando i meri schemi precettistici, divenendo chiaro e necessario strumento politico, mediante cui inserirsi in una certa società per ordinaria a un certo fine, onde, appunto, il problema diviene il problema dei fini, dei termini entro cui è razionalmente valida l'azione umana socialmente e, entro questa, del fine proprio dell'uomo. S'innesta qui la problematica di Cicerone, homo novus, cavaliere, che sa benissimo come la sua carriera non la può dovere che alla propria cultura e all'abilità con cui usarla, in una contemperanza dell'antico ideale del vir bonus senatoriale, il cui modello e la figura di Scipione l'Emiliano, dottrinariamente, forse, delineato da Panezio, con il raggiungimento di quell'ideale, indipendentemente dalla propria nobiltà di origine, attraverso la cultura e la propria "prudentia." Sotto questo aspetto Cicerone non fu né un popolare né un aristocratico, ma un uomo di centro politicamente impegnato, sensibilissimo alle esigenze della classe nuova, in una moralizzazione della res-publica, di cui deve pur sempre rimanere guida il Senato. In Cicerone, cavaliere, uomo di cultura, avvocato e politico, hanno senza dubbio giuocato mo.):ivi di'lersi, concezioni e dottrine diverse, che, se prese nel loro insieme e nella loro coerenza, sono in contrasto l'una con l'altra, assumono tuttavia un significato, qualora vengano ricondotte entro i contesti ciceroniani. Cicerone non espone dottrine altrui, ma usa tesi e aspetti di dottrine, a seconda o della situazione politica per la quale parla, o della sua personale situazione, in mezzo ad avvenimenti mutevoli e talvolta drammatici, dando a filosofia non tanto il significato di una certa filosofia, quanto quello di consapevole riflessione su esperienze umane, riflessione che renda conto razionalmente, ragionevolmente (prudentia), di quelle stesse umane esperienze. L'uomo, poiché è dotato di ragione e per mezzo di essa vede la concatenazione dei fatti, le cause efficienti di questi e le cause occasionali, e ne conosce quasi i precedenti, confronta le cose simili e congiunge intimamente le cose future alle presenti, può facilmente vedere tutto il corso della vita e preparare le cose necessarie per viverla. E questo stesso istinto naturale, mediante la forza della ragione unisce l'uomo agli altri uomini, crea una corrispondenza che si manifesta nel linguaggio e nella socievolezza (Cic., De officiis, l, 4, 11-12). Cosi, sul piano della discussione, della dialettica, potevano servire gli Accademici, e sul piano della logica certe posizioni stoiche - si pensi all'uso fatto da Cicerone dei sillogismi ipotetici e dell'analogia e alcuni aspetti dell'analisi aristotelica per la formalità delle definizioni; sul piano della condotta forense e politica, accanto a quelle tesi sia accademiche, sia aristoteliche, sia stoiche, potevano servire le tecniche retoriche elaborate da Aristotele, da Crisippo, da Ermagora; sul piano piu strettamente umano, della possibile comunione umana, poteva servire la delineazione di una humanitas il cui incontro è la comune ragione e la comune cultura, in un comune linguaggio, che sembra fosse l'aspetto piu saliente della tesi stoico-aristotelica di Panezio, in cui, certo, hanno giuocato il motivo della filosofia umana di Aristotele e il motivo accentuato della vita attiva di Dicearco; su di un piu alto piano politico si ricercava una legge universale, un diritto naturale che giustificasse un certo ordine sociale, una certa legalità, per cui potevano servire altre tesi stoiche. Ma, oltre a tutto questo, l'aspirazione umana ad una quiete ultra mondana, soprattutto dovuta a :situazioni immediate e tristi della vita, poteva benissimo far usare a Cicerone tesi di Platone sull'immortalità dell'anima o alcuni aspetti del Protrettico e dell'Eudemo di Aristotele, accanto a una visione del divino la cui fonte può essere Cleante, insieme al topos della filosofia intesa come consolatio. Ora, se tagliamo via Cicerone e poche testimonianze posteriori, di cui alcune sono di derivazione ciceroniana, poco o nulla resta delle opere dei pensatori greci tra il secondo e il primo secolo. Di qui, per le ragioni dette sopra, la difficoltà di ricostruire, attingendo a Cicerone, dottrine e posizioni compiute, storicamente esatte. Si pensi, ad esem- pio, al caso di Platone. Se le opere di Platone fossero andate perdute e si dovesse ricostruire Platone mediante Cicerone, non avremmo certo Platone ma Cicerone stesso, che usa frasi e motivi di Platone. Lo stesso dobbiamo dire per gli accademici da Clitomaco a Filone di Larissa ad Antioco di Ascalona, gli ultimi due direttamente ascoltati da Cicerone e per gli stoici Boeto di Sidone, Antipatro, Panezio, Posidonio, anch'esso ascoltato da Cicerone, e per tutti gli altri cui si riferisce Cicerone. Non è, evidentemente, possibile ricostruire, ad esempio, la dottrina e una compiuta e sistematica filosofia di Panezio attraverso Cicerone, per poi, con un Panezio cosi ricostruito, spiegare Cicerone. Ciò che possiamo è, invece, renderei conto delle questioni suscitate in Cicerone, in funzione della sua problematica, dai pensatori greci da lui citati e discussi, i quali, a loro volta, hanno senza dubbio, almeno per ciò che ne sappiamo, risposto alle esigenze, ai problemi, alle richieste che provenivano da Roma, fin dal tempo di Carneade e di Polibio, in un complesso e Ìn un ampiamento di orizzonti, anche geografici, per cui se è vero che il mondo romano si grecizzò, è altrettanto vero che il cosiddetto mondo greco si romanizzò, o meglio si venne determinando tutta una nuova e diversa atmosfera culturale, in cui anche certe parole, pur rimanendo le stesse, vennero ad assumere altro significato. Il celebre DOPPIO DISCORSO SULLA GIUSTIZIA, che Carneade tenne a Roma nel 155, era ancora riportato e discusso da Cicerone circa un secolo dopo. Con l'andar del tempo se n'era lorse ingrandita la fama e l'importanza, ma, certo, ciò sta a testimoniare che uno dei punti fondamentali della riflessione romana s'era venuto a imperniare sul motivo delle condizioni che rendono possibile l'umano rapporto. E per questo non vanno dimenticate da un lato la storia di Roma e delle sue conquiste dal 200 in poi e dall'altro lato la problematica che veniva a sorgere sulle condizioni e le capacità del potere. A parte l'aspetto dialettico del DOPPIO DISCORSO DI CARNEADE, la sua forza filosofica di rimettere sempre tutto in dubbio, ci.J che di quel discorso rimaneva piu crudo e scottante era, non solo la sottile negazione della dottrina stoica dello IUS NATURALE e la conclusione che la giustizia non va ricercata né in Dio né nella natura, intese come ordine e bene universale, ma l'esito di quel discorso stesso, per cui Carneade non negando l'esistenza della giustizia nel senso comune sottolinea ch'essa è sempre, soprattutto nei rapporti tra stato e stato, una forma di ‘ingiustizia’ nel senso comune della parola. Se Roma avesse voluto essere veramente giusta avrebbe dovuto restituire ciò che, con le sue conquiste, aveva tolto agli altri. Roma si è comportata prudentemente e utilmente, non con giustizia. In conclusione, dunque, non è possibile vivere giustamente, ché significherebbe ridursi ad un assoluta inazione. Se lo stoico vuoi vivere, cioè agire, deve negare il suo concetto di giustizia. Lo stesso va ripetuto per i romani. Quello di Carneade poté suonare come un richiamo, preciso e severo, nei confronti dei romani, alla lealtà, alla consapevolezza critica di ciò che si fa, un richiamo alla riflessione sulla verità della propria azione, e, nel caso specifico, all'azione dei romani, le cui conquiste e le cui forme di governo giuste dal punto di vista dell'utile romano e dell'utile di una certa classe dirigente venivano ammantate dell'orpello del concetto di giustizia. Se tutto ciò indigna il vecchio Catone, particolarmente per la verità pericolosa ch'era implicita nel discorso di Carneade non va scordato che Polibio scrive che la grandezza romana sta nell'avere imposto un certo ordine e una certa legge giuocando sulla superstizione, tenendo a freno le masse mediante il timore dell'invisibile: Polibio, VI, 56, tutto questo impone, d'altra parte, una piu approfondita discussione e giustificazione. Carneade, è stato detto, non condanna l'impero romano: mette solo in rilievo il fatto che esso non ha alcuna base etica; e questo stimola altri a cercarne una (T. A. Sinclair, Il pensiero politico classico, Bari). Non solo, ma va aggiunto che se al tempo di Carneade il concetto di impero non esiste, se non nella sua figura giuridica, e proprio la riflessione sulla giustificazione del comando di un singolo o di un gruppo in Roma, nella delineazione di un modello di uomo giusto, e del potere di Roma sugli stati e le città conquistate, che venne a costruire, appunto, il concetto di principato e di impero. Entro questa linea,· nei termini di questa esigenza di rendere giustificabile e, per ciò stesso, razionale e, dunque, convincente, l'azione della classe, che ha possibilità politiche, e l'azione di Roma, sembrano chiarirsi molti degli atteggiamenti assunti e dagli Stoici, e dagli stessi Accademici, i quali tutti, nel corso del n secolo e della prima metà del 1, ebbero contatti diretti e di clientela con i maggiori esponenti della classe dirigente romana, a cominciare da Polibio e da Panezio: Mentre, per altro verso, la deli- neazione di un ordine razionale e universale cui adeguarsi, fondamento e giustificazione dell'azione svolta da Roma, almeno da quando certe possibilità di carriera si allargarono dalla classe senatoriale alla classe dei nuovi ricchi o dei cavalieri, mise in crisi il monopolio del potere dei nobili, giustificando, appunto, in nome della comune ragione, le possibilità dell'inserimento politico da parte delle nuove classi. E cosi, alla concezione universalistica e imperialistica di Roma, e alla concezione di un ordine politico basato su quella razionale uni- versalità, di cui il "princeps" - l'"orinor" in principio - è il depo- sitario e il propagandista, non poco poteva servire la tesi del giusna- turalismo stoico, qualora se ne giustificasse la possibilità, risolvendo il problema impostato da Carneade, che cioè il concetto stoico di giustizia e di diritto assoluto veniva a negare l'azione e gli atti giusti. Ora tale giustificazione imponeva una revisione, entro i termini dello stoicismo, della originaria soluzione stoica, che fu tentata da Panezio di Rodi, amico e consigliere, insieme a Polibio, di Scipione Africano, s1 come da parte degli Accademici (da Carmada e Metrodoro a Filone di Larissa e Antioco di Ascalona), perché fosse possibile la stessa dia- lettica e la discussione, perché si potesse giustificare l'azione, si imponeno delle modìficazioni che, rispondendo alle nuove esigenze, non ebbero poi piu niente a che fare con l'originaria posizione di un Carneade: né, d'altra parte, va scordato che già Clitomaco, successore di Carneade, dedica la sua opera intorno alla gnoseologia del maestro al console Lucio Censorino, e che, piu tardi, Antioco fu amico di Lucullo e che a Roma visse e scrive Filone di Larissa. Chi tenti, dunque, una ricostruzione, storicamente valida, delle varie fasi del pensiero tra il 150 circa e Cicerone, non può non tener conto della storia interna di Roma, soffermandosi in primo luogo dapprima sull'esigenza da parte senatoriale di giustificare il proprio operato e la propria virtuosità fino a giungere a costruirsi con Scipione Emiliano minore l'ideale modello del vir bonus, salvatore della patria, che assomma in sé I'auctoritas, il cui consiglio è dato alla potcstas (all'esecutivo), piu che con la parola, con la propria figura morale e la propria condotta, divenendo princeps della città. In secondo luogo, tenendo presente il conflitto tra la classe senatoriale e l'impoverita borghesia italica rurale, culminante nel conflitto tra lo stesso Scipione e Tiberio Gracco (dell'uccisione di Tiberio, Scipione dirà: iure caesum) e poi tra Scipione e C. Papirio Carbone, fino a che, morto Scipione, improvvisamente, nel 129, la notte precedente il giorno in cui egli dove pronunciare un discorso in senato contro le proposte di legge sulla questione agraria (fu chi disse che Scipione venne fatto uccidere da Papirio Carbone), sembrò potersi attuare la rivoluzione in virtu di Gaio Gracco (nel 122), rivoluzione però stroncata dalla oligarchia senatoriale; e, in terzo luogo, tenendo presente il celebre conflitto tra Mario e Silla, fino a giungere a Pompeo e al primo triumvirato. Entro questi termini sembra chiarirsi perché il problema fondamentale - quali che di volta in volta ne siano state le soluzioni - fosse il problema delle condizioni che permettono la vita politica: o in una negazione delle tecniche retoriche - particolarmente da parte senatoriale, - puntando sul retorico modello di una figura esemplare, e, per la sua esemplarità, convincente; oppure, via via negata la retorica come arte a sé, neutra, in un'affermazione della retorica filosofica, psicagogica - onde piu volte l'uso di Platone e di Aristotele, - che, ricorrendo a tecniche diverse, caso per caso, seducesse ad una razionalità, istituente ordine e misura, entro i termini della legge, specchio di quella medesima comune razionalità. Di qui, anche, la sempre piu accentuata importanza data alla conoscenza del diritto e alla sua sistemazione. Il riflesso di tali polemiche sulla retorica, il conflitto dapprima tra contenuti e retorica e poi tra retorica degli affetti e retorica filosofica, la problematica tra il porre una virtuosità in assoluto, che alla fine nega ogni possibilità di azione, e, quindi, anche ogni possibilità di convin- cere a quella virtuosità stessa, e il porre una possibilità di rapporto umano, fondato solo di volta in volta sul giuoco degli affetti, il riflesso di tutto ciò, anche nella sua aderenza, caso per caso, a precise esigenze politiche, è molto chiaro in Cicerone. A tal proposito, anzi, sembrano particolarmente illuminanti certi passi di Cicerone, in cui egli condanna l'insegnamento retorico di Cleante e di Crisippo. È vero che Cleante scrisse un trattato di retorica e anche Crisippo, ma in modo tale che se uno desidera diventar muto, non deve leggere niente altro (De fin., IV, 3, 7). Troppo rigida ed esclusiva la loro logica per divenire eloquentia (De Oratore, Il, 38, 157 sgg.), essi non hanno possibilità di discutere altri argomenti, ché uno solo è il loro, onde mancano di inventio (Topici, 2, 6). Essi perciò non possono convincere alla virtu, per alta e pura che sia la virtu da essi proclamata (cohlc, sottolinea Cicerone, fu il caso dello stoico romano Rutilio Rufo, che per non adulare le passioni del popolo, per non scendere dinanzi ai giu- dici ad usare la tecnica del pathos, non fu capace di difendersi: De Oratore, I, 53, 227-54, 231). Sotto questo aspetto sembrerebbe aver ragione Carneade, dimostrando che sul piano umano lo stoico non può che contraddirsi, ripiegando sul probabile e sul convenevole, negando con ciò stesso la propria tesi, tanto è vero che gli stoici non pongono alcun passaggio tra il saggio e virtuoso e il non saggio e malvagio (di qui, per Cicerone i paradossi degli stoici: cfr. Paradoxa stoicorum), giungendo alla fine a sostenere che nessun uomo è saggio, tranne pochissimi, che, d'altra parte, non hanno possibilità di convincere gli altri per lo stesso fatto che gli altri sono non saggi, per cui il saggio stoico resta in conclusione assolutamente avulso da ogni tipo di vita politica, rinnegando con questo lo stesso proprio concetto di giustizia e di razionalità. In realtà vi sono negli stoici cose troppo incompatibili con l'oratore quale noi formiamo. Questa, ad esempio: ad ascoltarli, tutti coloro che non sono saggi sono schiavi, nemici pubblici, folli; d'altra parte non v'è uomo che sia saggio. Sarebbe, dunque, una grande assurdità affidare la cura di guidare il popolo, il senato, qualsivoglia assemblea a chi fosse persuaso che tra i suoi ascoltatori non vi è uomo sensato, non un cittadino, non un uomo libero (De Oratore, III, 18, 65). Tale impossibilità di guidare la vita politica, sottolinea Cicerone, non ha permesso agli Stoici piu antichi di scrivere intorno allo stato (De legibus, III, 5-6, 13-14). Solo Dione stoico, aggiunge, se n'è occupato. Chi sia Dione stoico non sappiamo a meno che non si tratti di Diogene di Babilonia, che secondo Ateneo, XII, 526, scrisse De legibus, e, insieme a lui, Panezio di Rodi. Su questo argomento dei magistrati, alcune questioni furono studiate molto sottilmente prima da Teofrasto, poi dallo stoico Dione. Tu dici? Anche dagli stoici fu trattato questo? Non proprio, salvo da colui che ho ricordato, e poi da quel grande e coltissimo uomo di Panezio. Gli stoici antichi soltanto astrattamente e pur con acutezza hanno trattato dello Stato, ma non in questa maniera pratica per l'utilità del popolo e dello stato (De legibus, III, 5-6, 13-14). È vero. Lo stato che potremmo delineare attraverso i frammenti di Cleante e dì Crisippo sarebbe lino Stato universale, fondato sul motivo del diritto naturale, razionalmente ordinato, ove la legge sarebbe specchio della legge del tutto, del logos, ma dove anche, data la distinzione stoica tra saggi e non saggi e la incomunicabilità tra gli uni e gli altri, si avrebbe un solo saggio ché tutti i saggi si identificherebbero in uno e molti uomini, i non saggi, i quali soli, alla fine, si dimostrerebbero capaci di azione e di vita sociale, che sarebbe però ingiusta, asociale, apolitica, dove non potrebbe non avere il sopravvento che la retorica degli affetti e delle passioni. L'abbiezione di Cicerone avrebbe potuto essere e in fondp lo e l'abbiezione sottesa di Carneade nei confronti degli stoici, ma con scopo rovesciato, ché Cicerone tende a rendere convincente sul piano umano proprio alcune tesi stoiche, in quanto utili a un certo fine politico. Certo a Carneade, per quel poco che di lui sappiamo, non seppe rispondere il capo della stoà del tempo, Antipatro di Tarso. Si dice che Antipatro non ebbe mai il coraggio di scendere in discussione con Carneade direttamente e ch'egli tentasse di difendere le posizioni dello stoicismo ortodosso per scritto (cfr. Numenio, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 8, 6), limitandosi ad approfondire gl'indifferenti tra cui avrebbe posto il dovere e la fama validi entro l'ambito umano (cfr. Cicerone, De fin., III, 17; anche Seneca, Ad Lucil., 92, 5; 87, 38), mentre Diogene di Babilonia, il collega di Carneade al tempo dell'ambasceria a Roma, discepolo di Crisippo, avrebbe particolarmente approfondito alcuni aspetti della dottrina stoica, in forma precettistica e tecnica (la dialettica, la retorica, la musica), ma in modo tale che, ponendosi su di un piano piu logico che ontologico, nel senso di Zenone di Cizio, puo rinnovare i contenuti stessi dello stoicismo. Panezio avrebbe poi tentato il recupero di tutte quelle tesi stoiche che, utili per un tipo di politica e di giustificazione di una certa azione, avrebbero potuto assumere, entro una precisa visione del tutto, una loro forza sul piano umano. In realtà, dietro l'atteggiamento piu pratico - come sottolinea Cicerone - piu umanistico di Panezio, che puo esattamente servire ai fini dell'azione di Scipione Emiliano, v'era la possibilità di svi-luppare la logica e la dialettica di Crisippo, indipendentemente da corrispondenti strutture ontiche, battendo l'accento sull'aspetto ipotetico del discorso e sulla retorica nel modo in cui, attraverso Zenone e poi' Crisippo, s'e delineata in Diogene di Babilonia. Studi recenti (cfr. A. Plebe, La retorica di Diogene di B., Filosofia) hanno messo in chiaro la stretta relazione posta da Diogene tra filosofia e retorica. Se la filosofia viene ad essere stoicamente 2 [Di Diogene di Babilonia, o di Seleucia, sappiamo molto poco. Discepolo di Crisippo, successe nello scolarcato della Stoà a Zenone di Tarso. Fu il quarto scolarca della Stoà dopo Zenone: Cleante (264-232), Crisippo (232-208), Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia. A Diogene di Babilonia successe nella direzione .della scuola Antipatro di Tarso e ad Antipatro, nel 129, Panezio.  la scienza del ben pensare, attraverso cui si determinano le condizioni senza le quali non v'è discorso cioè i dati e l'implicarsi dei dati stessi in nessi necessari, in un discorso sintattico e proposizionale, che è costituito dall'esperienza, in cui anzi consiste l'esperienza si capisce come l'arte del dire, in quanto espressione dell'arte del pensare, possa avviare gli altri a ben pensare, costituendo un· ordine. sintattico e armonico, sociale, specchio appunto dell'ordine razionale cui si giunge attraverso lo stesso pensare e il rivelarsi del pensiero a se medesimo. Ipotetiche le premesse, anapodittici i sillogismi, formalmente il di- scorso è necessario e può costituire, sul piano umano, un ordine altrettanto necessario e perciò stesso razionale, a cui serve la retorica, valida qualora, appunto, sia introduzione e avviamento al ben pensare e per ciò al ben vivere, insignificante, anzi da respingere, qualora resti su di un piano neutro di contenuti (cfr. framm. 95, III Arnim). Di qui il contra.sto tra retorica pura e retorica filosofica, sospesa tra arte e scienza, e il parallelo, posto da Diogene, tra retorica e medicina (fr. 91, III Arnim), per cui la vera retorica è terapeutica ed è psicagogica. Di qui, formalmente e per la sua funzione terapeutica e stimolante, il rapporto posto da Diogene tra retorica e musica (fr. 92, III Arnim). La funzione della retorica, che, in quanto seducente in vista del fine cui mira, cioè l'ordine e la misura razionali, si fonda su tecniche precise che potevano essere benissimo riprese dalle analisi sulla retorica e dai topici di Aristotele, sulla conoscenza dei caratteri umani (Gorgia, Platone, Aristotele, Teofrasto}, assumendo anche l'accorgimento dell'inganno o dell'illusione seducente (cfr. fr. 105, III Arnim), sapendo con opportunità (eùx.cxtp(cx, cukairla) usare i discorsi (fr. 122, III Arnim), prende un suo carattere preciso in quanto serva a porre ordine e composizione (croveaL(i, syncsis) nelle città e buona condotta (eòotyroy(ot, cuagoghia) politica, cioè sociale (fr. 102, III Arnim). Retorica e politica venneno, in tal modo, a coincidere in funzione della costituzione di un rapporto umano che fosse rapporto razionale, simile all'ordinarsi necessario di un discorso, in una misura per cui ciascuno si ponga là dove è bene che sia, come lè parole in una strut- tura grammaticale e sintattica. Non a caso, cos(, sembra che tra i pen- satori greci, suoi contemporanei, Catone il Censore avesse, accanto all'ideale del Socrate senofonteo, una qualche simpatia per Diogene di Babilonia, che, d'altra parte, e anche questo sembra opportuno sottolineare, era stato a Roma già prima della CELEBRE AMBASCIATA DEL 155 (cfr. Cicerone, De senectute, 7, 23). La medit Stoà. Panezio. Polibio. Il diritto naturale. La ncostruzione di Cicerone. Le lodi che Cicerone fa di Panezio si fondano sul riconoscimento che Panezio avrebbe reso realizzabile, politicamente funzionale, l'ideale della virtu e della giustizia stoiche. Ciò che di Panezio sappiamo è, in realtà, molto poco. Sappiamo ch'egli nacque nel 180 circa, a Rodi, città in quel tempo culturalmente attiva, politicamente legata a Roma. Uomo aperto e curioso, non vincolato fin dal principio a una precisa scuola, non formatosi ad Atene, sappiamo che Panezio visse a Roma parecchi anni, ch'entrò in dimestichezza con Scipione Emiliano, che ne fu consigliere ed amico, che fu con lui ad Alessandria e durante le campagne d'Africa, dal 146 al 142, e che divenne, in Atene, scolarca della stoà, succedendo ad Antipatro di Tarso, nel 129, proprio all'in- domani dell'improvvisa morte di Scipione. Può darsi sia un caso, ma è un caso che può far pensare. Panezio lasciò lo scolarcato (non si sa se anche in quell'anno sia morto) nel 109. In effetto Panezio non fu uno stoico di scuola, né, d'altra parte, si può sapere l'influenza che avrebbe potuto giuocare su di lui il pensiero dello stoico eretico [Nato nel 180 circa a Rodi, Panezio, amico e discepolo di Diogene di Babilonia, visse a Roma parecchi anni, entrando in dimestichezza con P. Scipione Emiliano, di cui fu consigliere. Lo segui in Africa e in Asia tra il 146 e il 138. Nel 129 fu nominato scolarca della Stoà, succedendo ad Antipatro di Tarso (su Antipatro cfr. vol. 1). Lascia lo scolarcato nel l09 e sembra sia morto in quello stesso anno. Delle sue opere, andate perdute, si ricordano soprattutto una Sul dovere! (ITcpl wii x~o~), che sarebbe stata scritta al tempo del suo soggiorno a Roma, ed una Sulla provvidenza (ITcplnpov61cxç), che sarebbe la fonte del De olficiis di Cicerone. Si conoscono inoltre i seguenti titoli: Sulla tranquillità dell’animo (ITcpl IÒ&u!l-(«ç); Sul ,Oflt!Nio (ITcpl no>.l-n:!cxç); Sulle sct!l~ (ITcpl atlp~m:(J)'\1); Di Socrate dei socratici (ITcpl Ec,xp«wu Xlll TW'II E(J)xpcmxwv); Lettera a Q. Elio Tuberone. Nello scolarcato della Stoà, a Panezio successe Mnesarco, del quale non sappiamo nulla se non che segui pedissequamente il maestro. A parte Posidonio (dr. oltre) e i romani che seguirono Panezio, un altro discepolo di Panezio, del quale occorre fare almeno il nome, fu Ecatone di Rodi, che si occupò in particolare di problemi morali e i cui manuali divulgativi ebbero larga diffusione. In essi si discuteva soprattutto il pro- blema dei conflitti dei doveri, in una delineazione della piu rigida morale stoiea e in una distinzione tra virtU teoretiche e virtU non teoretiche, riportando lo Stoicismo ad una rigidezza che non era stata certo quella di Panezio. Scrive in tal senso Diogene Laerzio: "Secondo gli Stoici, non v'è alcun grado intermedio tra la virtU e il vizio. Come un legno deve essere diritto o storto, cosi un uomo è o giusto o ingiusto... Ecatone, nel secondo libro Sui beni, sostiene che la virtU è sufficiente alla felicità... non dando alcun valore a tutto ciò che si crede possa turbarla. Panezio e Posidonio invece sostengono che la virtU non è sufficiente, ma occorrono anche buona salute, abbondanza di mezzi di vita, e forza" (Diogene L., VII, 127-128). Per il resto cfr. sempre Diogene Laerzio, VII, passim. Ci sono stati tramandati i titoli delle seguenti opere di Ecatone: Sui fini (ITcpl T&ÀW'IIi; Sui beni (ITcprciyat.&wv); Sullt! virtu (ITepl cip&:Twv); Sul dovert! (ITcpl xat&ljxo~ ; Sulle passioni (ITcpl ncx&ciiv); Sui paradossi (ITcpl natpct36~(J)'II); Sentt!nze (xpc't«'). Boeto di Sidone, del quale, di fatto, non sappiamo niènte (cfr. J. F. Dobson, Boethus of Sidon, "Classica! Quarterly," pp. 88-90), se non che avrebbe fatto un commento ai Fenomeni di Arato (su Boeto cfr. Diogene Laerzio, VII, 54, 143, 148, 149). Anche se indirettamente, cioè al di fuori e indipendentemente dalle dispute scolastiche e professorali di Atene, Panezio avrebbe risposto a Carneade, rendendo positivo e non puramente negativo lo stesso "probabilismo" di Carneade, che, valido sul piano umano, suppone a suo contenuto - se non vi fosse una presunta verità, neppure si potrebbe parlare di probabilità, di capacità d'assu- merne fede, nr.&Clv6v- pithan6n, dietro a sé o innanzi a sé, la visione di un tutto ordinato, un dover-essere cui ciascuno, a seconda della propria natura deve adeguarsi. Qui, forse, il senso del cosiddetto pla- tonismo di Panezio, in questo suo porre l'ordine e la legge del tutto - niente affatto contrastante con certe tesi stoiche - come termine di realizzazione, come dovere, cui l'uomo ~onoscendo sé, entro i limiti della propria natura, deve avvicinarsi, realizando con ciò, di volta in volta, la piu genuina natura umana, l'istintr proprio dell'uomo. Di qui i due aspetti che Cicerone (sembrano ispirati a Panezio parti- colarmente il De natura deorum e il De otficiis) e anche altre testimo- nianze. (sia pur assai frammentarie) sottolineano come i piu appariscenti di Panezio: da un lato un rigoroso immanentismo naturalistico, dall'altro lato - entl'Ò i termini di quella che è la natura nella sua totalità - il dovere dà parte dell'uomo di adeguarsi a quella natura stessa, ciascuno a seconda della propria natura. Sembra cos' interessante ricordare che Diogene Laerzio (VII, 41), su testimonianza di Fania, scolaro di Posidonio, sottolinea che mentre Zenone e Crisippo ponevano per prima la logica e per seconda la fisica e Diogene di Babilonia l'etica, Panezio e Posidonio cominciano dalla fisica: TIClvClhLot; 3~ XCll Tioaet36>vtot; cinò -.C>v rpuatxwv clpxov-.ClL. Approssimativamente possiamo renderei conto della concezione della fisica di Panezio per via negativa, cioè attraverso quello che le testimonianze sottolineano avere Panezio ne- gato rispetto alle posizioni degli stoici precedenti. Panezio avrebbe so- stenuto che il cosmo non muore e non invecchia, ch'esso è uno ed eterno nella sua totalità, e; che, dunque, non ha né un principio né una fine, né v'è conflagrazione (bcn6pc.>att;, ek_pirosis) periodica, e che per ciò stesso nessun dio lo regge, per cui è sciocchezza (rp>.-f)votrpov, flénafon) tutto ciò che si dice, intorno al divino: l>.eye yà:p rp>.-f)votrpov elvotL -.òv nept .&eou Myov (Epifanio, De fide, 9, 45. Per il resto cfr.: Cicerone, De nat. deor., Il, 46, 118; Filone, De aet. mundi, 76; Diogene L., VII, 142; Arnobio, Adv. nat., Il, 9; Stobeo, Ecl., I, 20 e Il, 7). Sembre- rebbe cos' potersi riferire a Panezio, anche se non direttamente citato, la concezione riportata da Cicerone nel De natura deorum secondo cui natura e divinità coincidono nel senso che il divno è la stessa ragion d'essere (L6gos) del tutto, forza vitale e organizzatrice (egemonica), non separata dagli esseri individuali, esistente .anzi nel costituirsi di quegli esseri, che quanto piu realizzano e conservano se stessi (la propria natura), tanto piu realizzano e conservano l'universo mede- simo, ché diversi tra loro per gradi, non lo sono affatto per natura. L'ordine, quindi, e i rapporti tra le cose non sono dovuti a una "sim- patia" delle cose tra loro né alla necessità del fato, bens1 ad una ra- zionalità che rende pensabile e giustificabile la realtà stessa e i suoi molteplici aspetti, e che esclude da sé sia il motivo della divinazione sia il motivo dell'anima immortale, separata dai corpi (cfr. Cicerone, Lucullus, XXXIII·, 107; De divinatione, l, 3, 6,. 7, 12; Il, 42, 87-47, 97; Tusc. diss., l, 32, 79-33, 80; Diogene L., VII, 149). Piu di questo non possiamo dire della fisica di Panezio. D'altra parte, sia il fatto che alcuni interpreti antichi hanno veduto nella concezione fisica di Panezio una diretta influenza della concezione platonica (va sottolineato che il riferimento è al Timeo ed è dovuto all'interpretazione che del Timeo dà Proclo, In Plat. Timaeum, 50b), sia i continui riferimenti delle testimonianze all'aristotelismo di Panezio, al suo essere non solo filoplatone ma anche filoaristotele (Stoic.lnder Herc., col. 61, Com- paretti 534), avendo Panezio sostenuto l'eternità del cosmo, sempre tutto in atto, l'unità di anima e corpo, portano a pensare che per Panezio la realtà, tutta in atto sempre, nei suoi aspetti molteplici, sia quella che è, in sé né buona né cattiva, comprensibile in quanto ricondotta ad una sua universale razionalità, rasserenante qualora appunto se ne comprenda da un lato la sua necessaria razionalità, dall'altro lato che, entro quella stessa razionalità, ogni cosa è là dove è bene che sia, ogni cosa attua se stessa pienamente in quanto attui la propria natura, cioè la propria ragione, secondo le risorse che la natura ha dato. Poiché, d'altra parte, è un fatto che all'uomo è dato rendersi conto di ciò (tra l'uomo e la bestia vi è grandissima differenza; la bestia, solo in quanto è stimolata dal senso, conforma le sue abitudini a ciò che è vicino e presente, non curandosi affatto del passato e del futuro; l'uomo, invece, poiché è dotato di ragione e per mezzo di quella vede la concatenazione dei fatti, le cause efficienti di esse e le cause occa- sionali, e ne conosce quasi i precedenti, confronta le cose simili e con- giunge intimamente le cose future alle presenti, può facilmente vedere tutto il corso della vita -- Cic., De off., I, 4, 11), tale consapevolezza e comprensione è ciò che Panezio chiama ragione di contro all'istinto e agli impulsi degli animali e alla natura propria di ciascuna cosa, ché, sotto altro aspetto, essi stessi impulsi e natura, sono razionali. "Due sono gli elementi naturali dell'animo: l'uno è posto nell'istinto,  35   detto dai Greci op!J.i) (hormè: impulso), che trascina l'uomo qua e là; l'altro è posto nella ragione, che insegna e rivela all'uomo cosa si debba fare ed evitare. È quindi vero che la ragione deve comandare e l'istinto obbedire. I movimenti dell'animò sono di due specie e consistono nel pensiero e nell'appetito: il pensiero si applica soprat- tutto alla ricerca del vero; l'appetito spinge all'azione. Faremo in modo dunque di rivolgere il pensiero alle cose piu grandi e di far sentire all'appetito il peso della ragione..." (Cic., De off., I, 28, 101; l, 36, 132). Di qui, evidentemente, l'affermazione di Diogene Laerzio che secondo Panezio due sono le virtu: virtu teoretica e virtu pratica (VII, 92). In altri termini, insomma, l'istinto, l'impulso sono tali in quanto non compresi; compresi, l'istinto e l'impulso cessano di essere irrazionali, onde la razionalità - e ciò è dato all'uomo consiste nello stesso impulso qualora sia ordinato nella consapevolezza di quelle che sono, appunto, le risorse che la natura ci ha dato (•.. Ticxvat(-rLot; -rò l;;ijv xat-riX-rà;t;8e8o(dvrxt;~!Li"!x!pUae(a)ç&.!pop~t;-ri>.ot; d.m:!pi)vat-ro: Clemente Alessandrino, Strom., II, 21). Ciascuno deve conservare le proprie tendenze... Perché si possa pm facilmente conseguire quel decoro, che si cerca. E ciò avverrà se non contrasteremo per nulla con la natura dell'uomo in generale ("siamo tutti partecipi della ragione e di quella superiorità per la quale ci distinguiamo dalle bestie, da cui deriva l'onesto e il decoro ed alla quale risale la cono- scenza del dovere": Cic., De off., l, 30, 107); ma, conservata questa, seguiremo la nostra propria natura ("come nei corpi ci sono grandi dUie- renze... cosi negli animi vi sono varietà anche maggiori": Cic., De off., I, 30, 107), cosi che anche se le altre ci sembrano migliori e piu impor- tanti, misuriamo alla sua regola le nostre attitudini; non ~ opportuno in- fatti andare contro la natura e cercare di ottenere quello che non si può. Da ciò risulta chiaro che cosa sia il decoro, perché non ~ lecito far nulla, ~e comunemente si dice, a dispetto di Minerva, ci~ quando la natura ~ contraria. Ma non v'è cosa piu decente della coerenza e di tutta la vita e delle singole azioni, e non si può conservarla se, per imitare l'altrui, trascuriamo la nostra natura... Tanta questa differenza fra le nature umane, che talvolta per gli stessi motivi uno è costretto a darsi la morte ~ un altro no... (Cicerone, De off., l, 31, 110-112). Concepita la realtà come razionalmente .strutturata, strutturato ra- zionalmente l'uomo, parte della realtà, posto che, appunto, la natura è ciò per cui tutto è là dove è bene che sia, s1 che ciascuno realizzandc il proprio impulso, conservando sé conserva il tutto (si come nell'or- ganismo quanto piu ogni organo è sé e realizza la propria funzione tanto piu l'organismo vive in atto nei suoi organi), ne consegue che 36    l'uomo scoprendo sé come ragione, quanto p1u vive secondo ragione, cioè secondo l'impulso proprio dell'uomo, che ordina e si fa guida degli altri impulsi, armonicamente, a seconda delle proprie possibilità, tanto piu ciascuno vive secondo "natura," secondo la propria natura, e quindi coerentemente. Sia pur nell'interpretazione che ne dà Cicerone, sembra che l'aspetto saliente di Panezio sia stato quello di insistere sul fatto che nell'ordine razionale del tutto ciascuno ha il suo giusto posto, in una specie di ordine gerarchico, per cui da un lato ne deriva che ciascuno deve rea- lizzare sé razionalmente, cioè misuratamente, entro i propri limiti e le proprie possibilità, dall'altro lato ne deriva anche che ciascuno deve rimanere al suo posto, al posto che natura gli ha dato. Non a caso Cicerone, in funzione del suo ideale politico, riallacciandosi alla idea- lizzata figura di Scipione, svilupperà particolarmente proprio questo motivo, fino a giungere a far rientrare entro questo quadro la difesa della proprietà privata. Se è vero che formalmente gli uomini sono tutti uguali, perché partecipi di ragione (cfr. Leggi, l, 7-21 sgg.) e che per ciò, formalmente, non esistono cose private per natura, è altret- tanto vero che, in concreto, come ciascuna cosa e ciascuno nell'ordine del tutto è distribuito al suo posto, cosi ciascuno ha il diritto a ciò che gli è toccato in sorte. Come il primo dovere della giustizia è di non offendere alcuno, se non si è provocati da ingiuria, cosf dovere della giustizia è di usare delle cose comuni e delle cose private come proprie. Non vi sono però cose private per natura, ma per antico possesso... Tuttavia, poiché quei beni comuni per natura diventano di proprietà privata, ognuno si tenga ciò che ebbe in sorte; se poi qualcuno desidererà per sé l'altrui, violerà il diritto ddl'umana società (Cicerone, De officiis, l, 7, 20-21). L'uomo di Stato dovrà soprattutto badare che ciascuno conservi il suo e che la pro- prietà pri\>ata non sia diminuita da parte dello Stato..._, L'eguagliamento delle fortune è la' peggiore delle pesti. Gli Stati furono costituiti e le comunità cittadine furono ordinate appunto perché ciascuno mantenesse la sua proprietà. Gli uomini infatti, sebbene siano spinti per istinto natu- rale ad unirsi fra di loro, cercano la difesa delle città nella speranza di conservare i loro beni (Cic., De off., Il, 21, 73). Certo, nel motivo di "ciascuno al suo posto," sia entro l'ordine del tutto sia entro le società specchio della politéia cosmica (l'argo- mento platonico anche se con frase stoica è particolarmente presente in Cicerone nelle Leggi: "Questo mondo intero è da considerare come un'unica città comune agli dèi ed agli uomi~i": Leggi, I, 7, 23) si veniva delineando lo scioglimento del rigido motivo stoico dell'ordine dato: a seconda dd posto che ciascuno ha, nel tutto e nella società di cui fa parte, ciascuno ha da realizzare per essere sé, un proprio dovere, che se formalmente è uguale per tutti (vivere secondo la comune ra- gione) ed è uno - onde l'ideale del saggio stoico, - in concreto si pone da un lato come realizzazione della ragione propria di ciascuno e, dall'altro lato, in ciascuno, come ordinamento armonico dei propri impulsi, sf che ciascuno sia se stesso, in armonia con sé e con gli altri, costituendo un ordine sociale. L'istinto naturale, mediante la forza della ragione, unisce gli uomini agli altri uomini, crea una corrispondenza che si manifesta nel linguaggio e nella socicvolczza, ispira soprattutto uno straordinario amore verso la prole, induce a desiderare adunanze c riunioni: per questi stessi motivi gli uomini cercano di procurarsi quelle cose che sono necessarie alla vita e alle sue comodità, e non solo per se stessi, ma per la moglie, per i figli, c per tutti gli altri che essi amano e debbono proteggere... Né invero è piccolo privilegio della ragione umana che soltanto l'uomo possa cono- scere cosa sia l'ordine, il decoro c la misura nei fatti e nelle parole. E cosi non v'è altro animale che conosca la bellezza, l'armonia, l'ordine delle cose visibili; e la ragione naturale trasportando per analogia queste pro- prietà dagli occhi all'animo, tanto pio egli ritiene che si debbano osservare la bellezza, l'armonia c l'ordine nei detti e nei fatti, che non si commettano atti indccorosi cd effeminati, e che in ogni pensiero cd azione nulla si faccia o si pensi a capriccio... (De off., l, 4, 12-14). Di qui il concetto, sviluppato da Cicerone, del dovere medio e del conveniente e i concetti della società come ordine gerarchico e armonico e del rapporto tra gli Stati come rapporto di interdipendcnza armonica sotto l'egemonia di una città guida, realizzante la universale razionalità. Certo, secondo le tesi piu rigide dello Stoicismo, il virtuoso in assoluto è solo il sapiente, per cui solo il sapiente attua il dovere asso- luto (xcx-r6p&6lfL«, kat&rthoma); d'altra parte, se nell'ordine del tutto ogni essere ha il suo posto, e nella società, che idealmente dovrebbe rispecchiare l'ordine supremo, ciascun uomo ha il suo posto, per cui, per natura, non tutti possono essere sapienti, attuando quindi il dovere perfetto, ne deriva che, tuttavia, a ciascuno, per ciò che gli compete e che gli è proprio, spetta attuare il suo dovere, detto, rispetto a quello perfetto, dovere medio (xcx&;jxov, kathèkon), nella cui attuazione con- siste l'onestà. Si parla di un dovere relativo e di uno assoluto. lo penso che si possa chiamare retto il dovere assoluto, poiché i Greci .lo chiamano xcx'r6p&6lJL« (dovere perfetto), c l'altro, comune, perché lo chiamano xcx&;jxov. E cosf 38    definiscono questi doveri, in modo da stabilire come dovere perfetto quello che è retto; chiamano invece dovere comune .quello del quale si può dare una ragione plausibile. Tre, secondo Panezio, sono i casi che si presentano, quando si deve prendere una deliberazione. Riflettere cioè se si deve prendere una deliberazione: nella quale considerazione spesso gli animi ondeggiano in opposti pensieri. Ricercare poi ed esaminare se l'ar- gomento preso in considerazione possa arrecare o no le comodità e le gio- condità della vita, gli averi, il benessere, il credito e il potere, con i quali portiamo giovamento a noi stessi e ai nostri; la quale deliberazione rientra nell'utile. Si è, infine, incerti nel deliberare, quando ciò che sembra utile contrasta con l'onesto: mentre infatti l'utilità ci trascina verso di sé e l'onestà anche ci chiama a sé, avviçne che il nostro animo vacilli nel pren- dere una decisione e rimanga perplesso fra opposti pensieri... (Cic., De off., I, 3, 8-9). Ciascuno, dunque, in quanto viva seeondo ragione, cioè bene, ha il dovere di far bene il proprio singolo mestiere di uomo, il proprio ufficio, nei proprì limiti, conoscendo sé1 (cognitio), di agire secondo misura (actio), secondo convenienza (7tprnov, prépon), decorosamente (decus). Cos~ accanto alla virtu teoretica, era possibile, nella realiz- zazione pratica della ragion d'essere, che è lo stesso ordine del tutto, posto dinanzi agli occhi come dovere, porre ilcomplesso ·delle virtu pratiche (giustizia, beneficenza, temperanza: cfr. De ofJ., 1), in cui consiste l'onesto, che se formalmente sta, apJ?unto, nella giusta misura, di volta in volta realizzata secondo le circostanze, costituendo un abito civile, che va dai rapporti sociali 1 (De of J., I, 7-34) all’educazione, dal modo di vestire e di incedere (De off., l, 35-36) al modo di parlare (1, 37), al decoro delle abitazioni (1, 39)  e cosi via; dall'altro lato rispecchia quéll'arnionia razionale del tutto, quel supremo bene che, dunque, non nega i singoli beni, quei singoli benessere, estetica- mente valutabili, buoni perché belli, cioè compiuti con ordine e mi- sura. "Nella padronanza dell'animo e nella giusta misura di ogni cosa consiste il decoro, che i n greco si dice 7tpé7tov, pré p o n " (D e off., l, 27, 93). La virtu pratica per eccellenza, dunque, è quel giusto mezzo,, di sapore aristotelico, che sta a fondamento sia dell'agire giustamente, sia dell'agire benevolmente, sia dell'agire con temperanza, in un rap- porto di equilibrio e di rispetto, in cui sta l'humanitas e la charitas generis humani: charitas, cioè rapporto di decoro, che, in quanto armo- nico, si riflette come rapporto di grazia, di eleganza. Il decoro per natura non può mai esser disgiunto dall'onesto; ciò che è infatti decoroso è anche onesto, e ciò che è onesto è anche decoroso, e quale sia la differenza tra loro è piu facile immaginare che spiegare. Qualunque  39   cosa infatti appare decorosa, quando ha per fondamento l'onestà. Il decoro [si manifesta non solo nella temperanza, ma è il fondamento di tutte le virtu che costituiscono l'onestà]. È decoroso infatti ragionare con assen- natezza e prudenza, agire consideratamente, vedere ed osservare in ogni cosa il vero... La stessa cosa si può dire della fo,rtezza. Le azioni generose e magnanime sembrano decorose e degne dell'uomo... Il decoro, dunque, riguarda tutte le parti dell'onestà e le riguarda in modo che non si vede solo per via di astrazione, ma si manifesta chiaramente. Vi è un qualche cosa di decoroso che si presuppone in ogni virtu; ma questo può essere separato dalla virtu piu in teoria che in pratica... Due sono poi le specie del decoro: vi è infatti un decoro generale, che si ritrova in ogni genere di onesto, e un decoro, a questo subordinato, che riguarda le singole parti di esso. Il primo è di solito cosi definito: "Decoro è ciò che è consentaneo alla superiorità dell'uomo, in quanto la sua natura si differenzia dagli altri esseri animati." Cosi, invece, si definisce quella parte che è subordinata al genere: "Ciò che è consentaneo alla natura umana, in modo che in esso appaiano moderazione e temperanza ed una certa nobiltà... A noi la na- tura stessa ha assegnato una parte, dotandoci di superiorità e preminenza sugli altri esseri animati... e perciò, dalla natura stessa essendo state asse- gnate le parti della costanza, della moderazione, della temperanza e della verecondia e insegnandoci essa il modo di comportarci verso i nostri simili, possiamo conoscere quanto sia l'estensione del decoro generale e quali parti contempli il decoro particolare. Come infatti là bellezza del corpo per l'armonica disposizione delle:.membra attira gli sguardi e ci diletta in quanto tutte le parti sono tra loro unite in leggiadra armonia, cosi quel decoro che risplende nella vita eccita l'ammirazione di quelli con i quali si vive con l'ordine, la coerenza, la moderazione degli atti e dei fatti. Si deve avere dunque un certo rispetto non solo per gli uomini migliori, ma anche per tutti gli altri... Il dovere poi, che deriva dal decoro, deve prima di tutto seguire quella via che conduce alla convenienza ed alla conservazione delle leggi di natura; e se noi la seguiremo come guida, non potremo mai sbagliare e conseguiremo la sapienza, la giustizia e la fortezza... (Cic., De off., l, 27-28). La concezione stoicheggiante di un tutto ordinato, di una realtà razionalmente articolata, ove, come in un discorso o in un organismo vivente, ogni parte implica l'altra in una sola armonia - accantonate e non piu discusse le ragioni e i motivi che avevano mosso i primi stoici nei confronti di Platone e di Aristotele, - poteva benissimo, soprattutto in quanto volta a costituire il fondamento di un certo ordine politico e l'ideale modello, inserire nel proprio corpo dottrinario antichi testi platonici, particolarmente, per ciò che riguarda appunto l'ordine costituito, i testi del Platone ultimo, dal Timeo alle Leggi all'Epinomide, oltre alcune parti della Repubblica. Cosi, una volta posto l'ordine del tutto piu che come conclusione 40    di un'argomentazione scientifica, come dato e come termine di realiz- zazione, e sottolineata quin6i la possibilità di Ùn ayviamento a quel- l'ideale nella capacità di compiere ciascuno, per ciò che gli compete, il proprio dovere, entro i termini del mondo umano, la rigidezza mo- rale di certo stoicismo poteva risolversi nel compromesso del dovere comune e del conveniente, salvando i cosiddetti "indifferenti," che assumevano un loro valore in quanto strumenti di quella misura (chi è ricco, se lo sia con temperanza e prudenza, può attuare meglio l'ideale del sapiente di chi è povero). Non solo, ma è chiaro come per ciò si potessero recuperare da un lato i motivi platonici del cittadino cellula e organo della propria classe e delle classi strumenti in funzione del tutto ordinato che è lo Stato, e della temperanza di ciascuno che ha da rivelarsi non solo nella misura interna, ma anche negli atteggiamenti esterni (dal vestire all'incedere, dall'accogliere le sventure con fortezza al rispetto per i vecchi e cosfvia), e dall'altro lato si potessero sfruttare- le indagini aristoteliche sul_ giusto mezzo, sulle virtu etiche e sui caratteri. Entro questo quadro poi, che poteva servire come un'enciclo- pedia e un sistema del sapere, e la cui funzione, appunto, fu tale negli ambienti romani nei quali venne formandosi, assumeva un particolar significato, una volta interpretato nel senso platonico, l'antico motivo stoico· del diritto naturale. Una la ragione del tutto, una la legge su cui tutto si scandisce: la legge, almeno formalmente, pone tutti su di un piano di uguaglianza, ove per natura tutti hanno gli stessi diritti, in quanto dovere di cia- scuno è di seguire quell'unica ragione e quell'unica legge diffusa in tutto e in ciascuno. Secondo ragione o giustizia, perciò, non vi sono patrie o classi diverse, uomini superiori e inferiori, schiavi e liberi, ma una sola Città, una sola patria, l'umanità nel tutto (cosmopolitismo). Certo, l'interpretazione della legge e della giustizia come adeguazione all'ordine e alla legge universali, in nome della comune umanità razio- nale, per cui tutti gli uomini sono uguali, quando si era venuta formu- lando e!ltrO l'àmbito della prima Stoà, in Grecia, rispondeva a precise esigenze, ed assumeva un carattere politicamente rivoluzionario nei confronti delle strutture politico-sociali delle Città-Stato, quali in par- ticolare si erano venute determinando dopo la morte di Alessandro; si come, in altra situazione, la stessa vis polemica aveva avuto l'appello alla convenzionalità della legge, ed allo Stato valido in quanto costru- zione degli uomini, non soffocati nella libera esplicazione della loro natura, che è di non aver natura ma di costruirsela (appello formulato da alcuni dei primi solisti e dagli epicurei). Entro i termini, invece, in cui viene ora prospettato il concetto di natura e di ragione universale, che non esistono a sé, ma nel co-  41   stituirsi stesso del tutto, per cui tutto è là dove è bene che sia, tutto ha il suo giustò posto, lo stesso appello al diritto naturale assume una venatura ed un'accezione diversa. Se formalmente, infatti, per natura tutti gli uomini sono uguali, sempre per natura ciascuno è diverso dall'altro, ed entro l'ordine del tutto, in cui ogni parte è organo, di- verso dall'altro, in funzione del tutto, ognuno ha da essere là dove è posto da natura, in un'armonia si delle classi e degli uomini tra loro, ma dove ognuno non può non restare se non dove è. D'altra parte, proprio perché ciascuno è là dove deve essere, po- tendo entro i suoi limiti esplicare il proprio diritto, nel rispetto, appunto, dei limiti e delle possibilità altrui, cioè nel rispetto dell'ordine costi- tuito, non tutti possono aver la coscienza, o meglio la conoscenza di quello che è l'ordine supremo, da cui deriva l'ordine umano. A tale ordine, dunque, gli uomini vanno avviati da chi ne sia capace, dal saggio, dal vir bonus, incarnazione della Legge, e, sia pur gradual- mente, da quella Città in cui la classe dirigente, l'auctoritas, in nome del popolo, costituendo, volendo un'armonia di Senato e di Popolo, ordini in armonia le altre città e gli altri stati avvicinandosi con ciò all'ideale dell'unico Stato. Non possiamo certo dire quanto Panezio abbia influenzato la concezione politica di Scipione e del suo circolo, o, viceversa, quanto certe tesi paneziane abbiano subito l'influenza della politica di Scipione. Ad ogni modo nella situazione storica di Roma, la costituzione romana deve essere apparsa, sia pur con tutti i suoi difetti, sia pur sfruttando miti e superstizioni religiose (come malinconica- mente sottolinea il greco Polibio), rispetto alle singole situazioni poli- tiche delle città greche, condizione della possibile realizzazione dell'ar- monia delle genti ed internamente ad ogni stato dell'armonia tra le classi. Non sembra cosi un caso che tanto Polibio quanto Panezio abbiano esal- tato la costituzione romana (Cic., Rep., I, 21, 34), e che Polibio, rifa- cendosi al motivo dicearchiano della "politèia" mista, ne abbia visto la possibile realizzazione attraverso la Respublica romana, mentre Panezio ha dato un contenuto teorico alla politica perseguit~ da Sci- pione, il quale ha presentato se stesso come il salvatore della Patria e della Respublica. Polibio,4 l'uomo che aveva combattuto contro Roma, in nome della f Nato a Megalopoli nd 208 circa, Polibio fu, come ilpadre Licona (uno dei capi della Lega Achea), avversario dei Romani. Vinti i Greci a Pidna nd 168, Polibio venne inviato come ostaggio a Roma. A Roma divenne intimo della casa degli Scipioni e, soprattutto, del giovane Scipione Emiliano. Maestro e consigliere di lui, Polibio accom- pagnò Scipione l'Emiliano nelle sue varie spedizioni: sia in quella che si concluse con la distruzione di Cartagine (146), sia in quella contro Numanzio (134). Morl a 82 anni, nel 126, sembra per una caduta da cavallo. Solo cinque libri restano dei quaranta della sua Storilt, che vuole essere un'indagine documentata e obbieniva degli eventi (UI, 5, 58), libertà della Grecia, che, come il padre Licorta, aveva avuto cospicua parte nella storia della Lega Achea, che, dopo la vittoria romana del 168, fu in.viato quale ostaggio a Roma, entrato in dimestichezza con la gente degli Scipioni, e divenuto maestro e consigliere di Scipione Emiliano, al principio della sua Storia (che vuoi essere una storia basata tutta sulle reali vicende umane e sui fatti, •pragma- tica," l, 2), scrive: Chi può essere tanto stolto o pigro da non sentire il desiderio di sapere come e sotto quale forma di governo i Romani, in meno di cinquantatré anni [dal 221 al 169], fatto senza precedenti ndla storia, abbiano conqui- stato quasi tutta la terra abitata? (I, l). Il carattere peculiare della nostra opera dipende da quello che è il fatto piu straordinario dc:i nostri tempi [la conquista romana]: poiché la sorte rivolse in un'unica direzione le vicende di quasi tutta la terra abitata, e tutte le costrinse a piegare a un solo e unico fine, bisogna che lo storico raccolga per i lettori in una uni- taria visione d'insieme il vario operato con cui la fortuna portò a compimento le cose dd mondo (I, 4). E nel VI libro si legge: Chi ritiene impresa piu bella e piu grandiosa non solo guidare, ma sottomettere e controllare altre. nazioni, cosi che tutti guardino a lui e si inchinino ai suoi ordini, allora bisogna ammetta che la costituzione degli Spartani è inadeguata e inferiore a qudla dei Romani. I fatti stessi ba- stano a provare la maggiore efficienza della costituzione di Roma (VI, 50). Tre erano [al tempo ddla battaglia di Canne] gli organi ddlo Stato che si spartivano l'autorità. Il loro potere era cosi ben diviso e distri- buito, che neppure i Romani avrebbero potuto dire con sicurezza se il loro governo fosse nd complesso aristocratico, democratico, o monarchico. Né c'è da meravigliarsene, perché considerando il potere dc:i consoli, si sarebbe detto lo stato romano di forma monarchica, valutando quello del Senato lo si sarebbe detto aristocratico; se qualcuno inqne avesse consi- derato l'autorità dd popolo, senz'altro avrebbe definito lo Stato romano democratico. Le prerogative di ciascuno di questi organi ai tempi della guerra annibalica e, tranne qualche piccola eccezione, ancora .ai nOstri giorni, sono le stesse (VI, 11). Il rapporto tra le diverse autorità è cosi ben congegnato, che non è possibile trovare una costituzione migliore di quella romana. Quando infatti un pericolo comune sovrasti dall'esterno e costringa i Romani a una concorde collaborazione, lo Stato acquista tale e tanto. potere, che nulla viene trascurato, anzi tutti compiono quanto è ricercandone principi, cause e pretesti (III, 6, 7) nel tempo e nello spazio, in una spie· gazione razionale e scientifica del reale succedersi dei fatti (pragmaJica), che renda conto di come Roma abbia potuto divenire il centro della storia.  43   necessario e i provvedimenti non risultano mai presi in ritardo, poiché ogni cittadino singolarmente e collettivamente collabora alla sua attuazione. Ne segue che i Romani sono insuperabili e che la. loro costituzione è per- fetta sotto tutti i riguardi. Quando poi, liberati dai timori esterni, essi go- dono del benessere seguito ai loro fortunati successi e vivono in pace, se nell'ozio e nella tranquillità, come suole accadere, qualcuno si abbandona alla prepotenza e alla superbia, subito la costituzione interviene a difendere l'autorità dello Stato. Se difatti uno degli organi che lo costituiscono diventa troppo potente in confronto agli altri e agisce con tracotanza, non essendo esso indipendente come abbiamo detto, ma essendo i singoli organi legati l'uno all'altro e controllati nella loro azione, nessuno di essi può agire con violenza e di propria iniziativa... (VI, 18). Non va ora scordato che questi testi del VI libro, sulla costituzione romana, seguono ad alcune pagine dedicate da Polibio alla nascita degli Stati, alle loro varie fasi, alla loro decadenza e ricominciamento dal punto di partenza, in un andamento ciclico (VI, 1-10). Polibio, rifacendosi, in parte, a Platone e ad Aristotele, per la teoria della naturale trasformazione delle forme di governo, divenuta oramai un t6pos ("essa è stata esposta con particolare acume da Platone e da altri filosofi," VI, 5), sottolinea che la prima forma di governo è la monarchia la cui degenerazione è la tirannide, in contrasto alla quale sorge l'aristocrazia la cui degenerazione è l'oligarchia, contro la quale si fa avanti l'ordinato potere del popolo (democrazia), che tuttavia degenera nella oclocrazia (potere della plebe). La moltitudine, abituata a consumare i beni altrui e a vivere alle spalle del prossimo, quando ha un capo magnanimo e ardito, che non può aspirare alle cariche pubbliche per la sua povertà, usa la violenza e concordemente ricorre a uccisioni, esili, divisioni di terre, fino a quando, ritornata allo stato selvaggio, ritrova un padrone e un monarca" (VI, 9). Questa la rotazione delle forme di governo (1toÀ~-n:~6>v dV«XOXÀwatç, politeiòn anak.Yklosis), processo naturale per il quale esse si trasformano, deca- dono, ritornano al tipo originario (VI, 9). A prima vista sembra che la costituzione romana, descritta subito dopo (VI, 11-18), non rientri in nessuna delle tre succedentesi forme di governo. In effetti Polibio vede in essa la piu alta forma di demo- crazia, la possibilità di salvare la libertà nell'ordine dello stato costi- tuito come armonia dei poteri e come armonia tra gii Stati, sotto la guida di Roma, e in Scipione l'Emiliano (se ne veda l'esaltazione in XXXII, 8-16) l'uomo virtuoso, il princeps che può, almeno per un certo tempo, salvare lo Stato e l'universale Stato dal disordine, dovuto a gruppi faziosi e popolari - non è un caso l'accenno alla divisione delle terre, ove, forse, è presente in Polibio la lotta condotta da Scipione con-    tro Tiberio Gracco, - con il conseguente ritorno a forme monarchiche e tiranniche, attraverso l'ocloaalria. La posizione di Polibio e di Panezio (il loro avere recuperato certe linee di una certa tradizione greca, in una sistemazione che rispondeva alle esigenze politiche di una precisa classe romana) giustificava la giusta azione di Roma, di fronte al discorso di Carneade sulla giustizia. La repubblica (res-publica) fa dire Cicerone a Scipione è cosa del popolo (res-popul1), ed il popolo poi non è qualsivoglia agglomerato di uomini riunito in qualunque modo, ma una riunione di gente asse> ciata per accordo nell'osservare la giustizia e per comunanza di interessi. La prima causa poi di siffatto riunirsi non è tanto la debolezza, quanto una specie di istinto associativo naturale; l'umano genere non è infatti isolato né vagantQ nella solitudine, ma generato con carattere tale che, nemmeno in ogni sorta di abbondanza... [e facilità di vita, l'individuo po- trebbe rimanere isolato1. Motivo dell'associarsi non furono gli sbranamenti delle fiere, ma la stessa natura ume.na, e il fatto che gli uomini si riunirono tra loro perché rifuggivano naturalmente dalla solitudine e appetivano la comunione e la società... Tutta la popolazione, che è costituita da un rag- gruppamento di gente, tutta la città, che è l'ordinamento della popolazione, tutto lo Stato che, come dissi, è cosa del popolo, deve esser retto da un governo cosciente, onde essere duraturo. Ora delle tre tipiche forme di governo, la pio pericolosa è quella che sorge dalla smodata libertà delle plebi.1Da questa suole sorgere il potere degli ottimati o quello fazioso dei tiranni, o il regio o quello popolare, e da esso suoi germogliare una qualche specie di regime di quelle che già dissi, ed impressionanti sono i ritorni e quasi i cicli dei mutamenti e delle vicissitudini negli ordina- menti politici; è proprio del filosofo conoscerli, mentre il prevederli nel momento in cui incombono quando si è al governo dello Stato, moderan- done il corso e mantenendolo in propria potestà, questo è pregio solo di un grande cittadino e di un uomo quasi dit~ino. Sento pertanto che la pio degna di approvazione è una quarta specie di ordinamento, moderata e frammista di questi tre [monarchia-aristocrazia-democrazia1che ho men- zionati per primi (Cic., De rep., l, 25, 26, 29). Il circolo sembra cosr chiudersi. Da un lato abbiamo formulata e sistemata, attraverso il recupero di motivi stoici, platonici, aristotelici (distaccati dai loro contesti), la visione di un tutto razionalmente ordi- nato, ove ogni cosa è là dove deve essere, dove è giusto che sia; dall'altro lato abbiamo, in funzione di un'azione politica, il tentativo di un ordi- namento dello Stato, che trova il suo fondamento e la sua giustifica- zione, la sua legalità, nello stesso ordine universale, nell'ordine natu- rale, che, in quanto a tutti comune, per la comune razionalità, se for- malmente dichiara tutti uguali e fratelli di fatto, in nome del diritto    naturale, del vinculum iuris e della giustizia, pone ciascuno a un certo posto, dove i posti sono già dati per natura e, dunque, per legge. Entro questi termini si vede bene; da parte romana, il tentativo di dare un fondamento giuridico allo Stato di Roma, s! che il diritto positivo, quale si era venuto determinando storicamente, trovasse la sua conferma in un diritto comune a tutti, nel diritto, appunto, di natura, di modo che il vinculum iuris e il vincolo su cui si articola il tutto coincidesse. Rompere q!Jel vincolo avrebbe significato spezzare l'ordine costituito, rovesciare la respublica, venendo meno alla giusti· zia e al diritto stesso, su cui si poteva basare la "propaganda" di Roma e della sua classe dirigente in funzione dello ius gentium. "Il consolidamento del territorio o della giurisdizione di una na- zione, specialmente quando comprende tribu o distretti confinanti, non può non far sorgere contemporaneamente la questione dei rapporti tra legge nazionale e legge delle tribu o dei distretti: e la risposta non può essere rimandata a lungo. Un qualsivoglia sistema 'comune' deve sorgere per rispondere a questa pratica necessità, e il contenuto effet- tuale di questo sistema dipenderà in ogni caso dalle condizioni in atto quando la necessità compare... Roma incontrò questo problema nei primi tempi, relativamente, della sua storia giuridica, quando l'in- fluenza della filosofia politica greca era forte e il diritto romano ancora malleabile, e anzi piu suScettibile di influenze esterne di quanto non divenne piu tardi, dopo che le sue leggi si furono sviluppate e fissate in una tecnica tanto esigente da richiedere uno studio che escludeva necessariamente gli altri rami del sapere. Avvenne cosi che i primi giuristi romani poterono - e lo fecero, in effetti - fondere i principi filosofici greci con le leggi locali della penisola italica, per formare il loro nascente sistema giuridico; e per alcuni di essi questa fusione può avere gradualmente ·preso la forma di una identificazione piu o meno completa dello ius gentium - un sistema 'comune' distillato in pratica dalle varie leggi locali di Roma.e delle vicine tribu da ultime assogget- tate - con lo ius naturale che la filosofia stoica aveva insegnato a consi- derare come un sistema 'comune' a tutta l'umanità" (C. H. McLlwain, Il pensiero politico occidentale dai Greci al tardo Medioevo, trad. it., Venezia, 1959, pp. 136-37). Il motivo del diritto naturale, dunque, poté servire in Roma, da fondamento e da giustificazione per l'azione politica della classe diri- gente senatoriale e, piu tardi, attraverso l'idealizzazione della figura di Scipione Emiliano (quale si rivela anche nel Somnium Scipionis di Cicerone), soprattutto al tempo di Cicerone, quale giustificazione della posizione assunta dalla classe degli uomini nuovi, e, ad un tempo, in nome della 1egge (espressione della legge razionale su cui si scan-    disce il tutto) a giustificare la conservazione dell'ordine dato, d'i contro a coloro che tendevano a rompere quell'ordine, fossero i popolari o un Cesare. Tale, nel suo fondo, la politica di Cicerone. Se, ora, la visione di Cicerone, la sua interpretazione della concezione paneziana, retori- camente espressa volta a volta a seconda di certe situazioni, spiega quella ch'egli dichiara difesa della "res-publica," essa spiega anche, oltre la ripresa di motivi platonici, aristotelici e stoici, l'avversione di Cicerone per i popolari e per Cesare e la sua avversione per gli epi- curei, la cui filosofia, egli arriva a dire, dovrebbe essere condannata non con ragionamenti, ma con un decreto legge (De finibus, II, lO, 30). Basti qui ricordare la formulazione che del diritto aveva dato Epicuro, coerentemente alla sua concezione che socialmente implicava non un ordine dato, scandentesi su di un ordine universale e razionale, ma un ordine e un equilibrio frutti dell'attività umana, per cui la razio- nalità è conquista e azione, e la formulazione che, attraverso una rie- laborazione del concetto di giustizia, di ordine, di legge-intelletto di Platone, mediante il motivo della legge e della ragione propria di certe posizioni stoiche (Cleante, Crisippo, Panezio) vien data del di- ritto naturale da Cicerone: lucidissima formulazione di un concetto che s'era venuto elaborando in un secolo circa di discussioni politiche, nell'àmbito di Roma, e che sta a fondamento di una precisa presa di posizione. Diceva, dunque, Epicuro: Per tutti gli animali che non poterono stringere patti per non ricevere né recarsi danno reciprocamente, non esiste né il giusto né l'ingiusto, altrettanto per tutti quei popoli che non vollero e non poterono porre patti per non ricevere e non recare danno (Massime Capitali, XXXII). Non è la giustizia qualcosa che esiste di per sé, ma solo nei rapporti reciproci e sempre a seconda dei luoghi dove si stringe un accordo di non recare né di ricevere danno (Mass. Cap., XXXIII). L'ingiustizia non è di per sé un male, ma lo è per il timore che sorge dal sospetto di non poter sfuggire a coloro che sono preposti alla punizione di tali azioni (Mass. Cap., XXXIV). Da un punto di vista generale il diritto è uguale per tutti, poiché rap- presenta l'utile nei rapporti reciproci, ma dal punto di vista delle parti- colarità dei vari luoghi e di ogni genere di principt causali segue che una medesima cosa non è per tutti giusta (Mass. Cap., XXXVI). Cicerone, invece, proprio di contro alla tesi contrattualistica e con- venzionalistica di Epicuro e di contro all'altrettanto contrattualistica e storicistica tesi di Carneade, ambedue estremamente pericolose per uno Stato costituito, che, d'altra parte, cercava giustificazione e fondamento alla propria politica universalistica, dice. Vi è certo una vera legge, la retta ragione conforme a natura, diffusa tra tutti, costante, eterna, che col suo comando invita al dovere, e col suo divieto distoglie dalla frode; ma essa non comanda o vieta inutilmente agli onesti né muove i disonesti col comandare o col vietare. A questa legge non è lecito apportare modifiche né togliere alcunché né annullarla in blocco, e non possiamo esserne esonerati né dal senato né dal popolo...; essa non sarà diversa da Roma ad Atene o dall'oggi al domani, ma come unica, eterna, immutabile legge governerà tutti i popoli ed in ogni tempo, e un solo dio sarà comune guida e capo di tutti: quegli cioè che ritrovò, elaborò e sanzionò questa legge; e chi non gli ubbidirà, fuggirà se stesso e, per aver rinnegato la stessa natura umana, sconterà le piu gravi pene, anche se sarà riuscito a sfuggire a quegli altri che solitamente sono con- siderati supplizi (Cic., De rep., III, 33). Ancora una volta, sia pur nell'affermata uguaglianza di tutti gli uomini, si rivela una precisa presa di posizione da parte di un preciso partito politico. Assumono anzi un valore non poco indicativo certe battute iniziali de)T,'! Leggi, in cui chiaramente si dice: Riallacciamoci, dunque, nello stabilire la definizione del diritto, a quella legge suprema che è nata tutti i secoli prima che alcuna legge sia mai stata scritta o che un qualche Stato sia mai stato costituito... Dal momento, dunque, che dobbiamo mantenere e conservare inalterate le condizioni di quello Stato, la cui forma Scipione ci insegnò essere la migliore... e poiché tutte le leggi dovranno essere adattate a quel genere di costituzione, occor- rendo anche inserirvi i principi morali senza sancire ogni cosa .per scritto, trarrò fuori la radice del diritto dalla natura, sotto la cui guida dobbiamo svolgere tutta questa discussione... (Leggi, l, 19-20). Non solo, ma altrettanto indicativo è che alla tesi postulata da Cicerone ("tutto l'universo è governato dalla potenza, dalla ragione, dalla potestà, dall'intelletto, dal volere, o con qualsiasi altro termine che indichi ciò che pensiamo": ib., 21), donde discende che il tutto è come legalmente costituito, Cicerone stesso contrapponga la tesi epi- curea, secondo la quale il "dio di nullà si cura né delle cose proprie né delle altrui," e faccia dire ad Attico epicureo: "Te lo concedo, se me lo chiedi: tanto per questo concerto di uccelli e risonare di acque" - il dialogo si finge svolto in campagna - "non temo che mi senta al- cuno dei miei condiscepoli" (ib., 21). In effetto l'uguaglianza di tutti gli uomini - si dirà pio tardi di tutti gli animali, onde la giustizia è vincolo universale degli esseri viventi - è un'uguaglianza relativa, ché già in partenza sono date le disuguaglianze. L'uguaglianza è dovuta alla comune ragione di cui ognuno partecipa, ma in gradi diversi. Entro il motivo stoico, infatti,    la comune ragione è la Ragione universale che realizza se stessa me- diante gl'individui, onde ciascuno nel tutto e nella società deve man- tenere il posto che gli è dato da natura, per cui il bene è conoscenza e sta nel mantenere l'ordine dato. D'altra parte, entro i termini di questa visione legale del tutto, se da un lato si giustificava l'azione politica e la funzione cosmica (ordi- natrice) della classe senatoriale, dall'altro lato si delineava la possibilità formale di un rispetto umano, che si concretava in quel decoro, in quel dot1ere medio, in quella charitas humana, in quel vivere conveniente- mente alla propria natura, di cui sembra abbia parlato Panezio, e che sul piano pubblico diveniva, di contro ad altre posizioni politiche, ri- spetto della res-publica e dovere di lavorare per essa. Di qui, anche, entro quest'àmbito politico, l'importanza dello studio del diritto, della formulazione della parola"della legge e della sua interpretazione, in quanto rispecchiamento dell'ordine universale, della universale giusti- zia, o, meglio, in quanto quell'ordine esiste appunto nella formulazione stessa della legge. Sotto questo aspetto, in questo convergere fra giu- stizia formale e giustizia sostanziale, il sapere giuridico diviene il fon- damento medesimo della ricerca scientifica, diviene iuris prudentia, e, per·altro verso, studio delle tecniche oratorie. Non sembra cosi un caso che fin dal principio le persone che ruo- tarono intorno a Scipione Emiliano e che ebbero rapporti con Polibio e con Panezio, si siano proclamate tutte vicine allo " stoicismo" e siano state soprattutto personalità politiche, militari, oratori e giuristi, a co- minciare da C. Lelio (nato nel 190 a. C. circa), avversario dei Gracchi, detto sapiens, per la sua prudentia politica, amico di Panezio; C. Fan- Dio, genero di Lelio, console nel 122, anch'egli amico di Panezio, autore di Annales, contrario alla proposta di C. Gracco di concedete la piena cittadinanza ai Latini e i diritti dei Latini agli ltalici; Blossio di Cuma discepolo di Antipatro di Tarso, Quinto Mucio Scevola l'Au- gure (174 circa-87), Q. Elio Tuberone, avversario di Scipione Emiliano e di C. Gracco, Sp. Mummio, vicino a Scipione e a Panezio, P. Rutilio Rufo (118-75), Q. Elio Stilone (154-dopo il 90), maestro di Varrone e di Cicerone; per giungere a Q. Mucio Scevola Pontefice, nato nel 140 circa, morto nell'87, vittima delle lotte civili, celebre per la sua giu- stizia, giurista di grande valore, autore di libri XV/Il iuris civilis, in cui cercò di dare un fondamento al diritto, e di un'opera intitolata "Opo~ (H6rot) in cui dava definizioni (!Spo~) di concetti giuridici e di rapporti giuridici, a L. Lucilio Balbo, anch'egli giurista, discepolo di Q. Mucio Scevola, il Pontefice, a Q. Lucilio Balbo, al quale Cice- rone assegna nel De natura deorum il compito di esporre le conce- zioni stoiche sul divino; a M. Favonio (nato circa nel 90 a. C.), parti-    giano di Pompeo, ucciso dopo Filippi; a Cornificio Lung0, a Q. Vale- rio Sorano; al celebre Catone Uticense, ch'ebbe a maestri gli stoici Atenodoro Cordilione (da Pergamo, segui Catone, a Roma, ove rimase suo ospite) e Antipatro di Tiro. Cicerone definl Catone stoico com- piuto, soprattutto per la sua dirittura e constantia sapientis. Avversario di Cesare, in cui vedeva l'attentatore alla libertas romana, a Utica, assediata da Cesare, nel 46 a. C., si tolse la vita. II suo suicidio è rima- sto un topos della letteratura stoica e della teorizzazione del suicidio politico sul quale, poco prima di uccidersi, sembra abbia discusso con Io stoico Apollonide (cfr. Plutarco, Catone, 55 sgg.). 4. Posidonio. Le sctenze. Ipparco di Nicea È stato detto che il gran merito di Posidonio di Apamea,'1 scolaro di Panezio, vissuto tra il 135 e il 51 a. C., "fu di raggruppare, in modo piu completo di chiunque altro, la massa di credenze che dominavano lo spirito degli uomini, dando ad esse una forma singolare ed elo- .quente. II vasto insieme dei suoi scritti esprime con una.pienezza unica Io spirito generale del mondo greco all'inizio dell'èra cristiana: egli concentrò questo. spirito e lo rese consapevole. È per questa ragione che, in seguito, gli scrittori che si occuparono di teologia, di filosofia, ·di geografia o di scienze naturali, considerarono Posidonio come la fonte piu abbondante e piu facilmente accessibile a cui attingere. Egli li Posidonio, nato sul 135 a. C. ad Apamea, in Siria, a circa venti anni lasciò la patria, dilaniata da lotte intestine, disprezzando, inoltre, la molle vita delle città greco- siriache. Giunto ad Atene nel 115, entrò nella Stoà, allora diretta da Panezio. Ritiratosi Panezio dall'insegnamento nel 110/109, Posidonio lasciò Atene. Si mise in viaggio: fu in Africa settentrionale, in Gallia, altrove. Dal 95 a.C. circa fissò la sua dimora in Rodi, ove,·divenuto celebre per la sua cultura, il suo insegnamento, le sue ricerche scien- tifiche e storiche, fu fatto cittadino onorario della città, occupandone anche la pritania. Ambasciatore a Roma sostenne gli interessi di Rodi. In Rodi venne visitato dalle mag- giori personalità del tempo. Tra gli altri lo fu da Pompeo, e Cicerone si recò apposita- mente a Rodi per ascoltarlo. Morl nel 51 circa. Delle moltissime opere di Posidonio, andate perdute, riferiamo qui i titoli traman- dati: Fisica {~cnxòç ).6yoçl; Sull'universo (IIe:pt x6CJ!'OUl; Sugli dèi (IIe:pt &t:wvl; Sugli eroi e sui dèmoni (IIcpt ijpc!!Cil\1 X(Xl à(XLI'6116l\ll; Sul fato (IIt:pl &:(I'(XPI'évtJçl; “Sulla divinazione” (IIt:pl I'(XVTLlrijc;;l; “Sull’anima” (IIcpl ~U)('ijt;l; Introduzione al lin- guaggio (E!a(XyCilyi) ncpl >Jl;t:Cilç l ; Contro Ermagora {Upòt; 'Epi'(Xy6p(X11 l ; Srtl cri- terio (IIcpl TOU xpLTCptou l; Sulle passioni (IIcpl 7rot&wv l; Dottrina del carattere (:Eu\IT(Xy- V.CC mpt 6py'ijçl; “Sulle virtu” (IIa:pl~~'lipCTW\1l; Etica ('Hihxòc;;~·Myoc;l; Protrepttci (IIpOTpmTLXot); Sul dovere (IIr:pl wu xcx&Tjxo\ITOc;l; Esege# del Timeo di Platone ('E~iJY1JaLç TOU IIM.TCil\10<;; TLI'(X(ou l ; Sulle meteore (IIe:pl !.I.ETC6lp6l11 l ; St<lla gran- dezza del Sole {Ilcpl TOU 'H).(ou l'cyi&ouc;l; Su Zmone (IIpòt; ZijiiCil\I(Xl; Sujl'oceano (Ilepl cllXC«VVul ;Oltre Polibio (TIZ I'CTii Ilo).(~L0\1l ; Tattica (Téxll'll T(XXTLxij l ; Lettere ('E7rLCJTOì.r&t l- 50    univa i vantaggi di uno stile attraente e colorito a quelli di una enci- clopedia" (E. Bevan, Stoics and Sceptics, Oxford, 1913}. D'altra parte, si è anche detto, il fatto che il nucleo degli scritti di Posidonio fosse tratto dalla filosofia corrente delle scuole e dalle credenze popolari accresce la difficoltà che sorge quando si cerca di attribuirgli con sicu- rezza molte idee che ritroviamo presso scrittori a lui posteriori. "Que- ste idee possono infatti essere giunte a questi scrittori attraverso la mediazione di altri" (Bevan, cit.). Senza dubbio dietro molte cogni- zioni di Cicerone, che ascoltò Posidonio a Rodi, di Filone l'Ebreo, di Strabone, di Seneca e cosi via, c'è Posidonio, ma ci sono anche quei molti manualetti di filosofia popolare, per lo piu di tipo stoico, che sappiamo circolare nel 1 secolo a. C., e che erano compilazioni di luo- ghi comuni, di sentenze correnti, di detti popolari. Impossibile rico- struire attraverso le fonti una posizione, storicamente attendibile, di Posidonio, ché a seconda delle fonti usate potremmo avere piu Posi- doni l'uno diverso dall'altro; tuttavia mediante quelle fonti stesse, cri- ticamente vagliate, è possibile cogliere un Posidonio volto, piu che a costruzioni astratte, a raccogliere dati, descrivere e catalogare fenomeni, a rendersi conto e a rendere conto di quei dati e di quei· fenomeni stessi, dai normali agli anormali all'osservazione, si tratti di fenomeni fisici o di fenomeni cosiddetti psichici, o di fatti storici, in un tenta- tivo, sembra, di dare una spiegazione integrale dell'universo o, com'è stato detto, di "rendere l'universo familiare agli uomini." Già un primo sguardo ai testi da cui si traggono le testimonianze su Posidonio o entro cui si trovano citazioni da Posidonio, rivela non solo la molteplicità degli interessi di lui in campi molteplici, ma anche, e soprattutto, il fatto che Posidonio servi da fonte e da informazione a uomini di culture diverse e mossi da interessi diversi. Chi si limi- tasse a Cicerone o a Seneca avrebbe un Posidonio studioso di questioni morali e sociali; chi si limitasse a Galeno avrebbe un Posidonio stu- dioso di fenomeni psichici; chi si limitasse a Strabone o a Simplicio o a Stobeo o ad Ateneo, avrebbe un Posidonio descrittore di fenomeni naturali, geometrici, astronomici, astrologici, geografici, storici; chi si limitasse a Cicerone e a Diogene Laerzio avrebbe un Posidonio assai vicino a un Cleante e a un Crisippo, particolarmente in fisica. Abbiamo citato solo alcuni nomi di autori dalle cui opere è possi- bile trarre informazioni su Posidonio, ma già questi sono assai indi- cativi per mostrare da un lato gli aspetti diversi dell'opera posidoniana e, dall'altro lato, l'impossibilità di ridurre il pensiero di Posidonio a una o ad altra precisa dottrina. Cosi v'è chi, unilateralmente puntando su certe fonti, da cui sem- bra apparire una qualche insistenza di Posidonio sulla lotta tra un  51   principio positivo e attivo e un principio negativo e passivo, tra forza attiva e materia, tenendo presente l'origine orientale, siriaca di Posi- donio, ha fatto di Posidonio un mistico, legato.a concezioni dualistico- religiose "orientalizzanti," che di contro al razionalismo unificante proprio dello stoicismo greco, avrebbe inserito entro la concezione stoica il motivo di forze irrazionali, come starebbe a dimostrare la polemica di Posidonio contro Crisippo e il primo stoicismo che, ridu- cevano, invece, l'errore e il male a sbaglio logico, negando l'esistenza di un'anima irrazionale, e sostenendo che le passioni non sono che errori di giudizio. E cosi v'è chi - sempre escludendo quelli che sono stati gli aspetti diciamo scientifici dell'indagine posidoniana, appunto perché "scienti- fici" e non "filosofici" - ha cercato, spuntando precise testimonianze, avulse dai loro contesti, di fondare tutta la concezione di Posidonio sul motivo stoicheggiante della "simpatia" universale, dimostrando come proprio in questo Posidonio si allontanasse dal maestro Panezio, riallacciandosi allo stoicismo di Crisippo (diceva Crisippo che il pneuma diffondendosi e penetrando ovunque, au!J.ftot&ét; ~<nLV ot1Y.(j) .ro n<iv cfr. Arnim, II, fr. 473). Posidonio, ancm:a di contro a Panezio, avrebbe ripreso la tesi della ciclicità del tutto i cui termini estremi, toccantisi, sono dovuti alla conflagrazione (ecpirosis) del cosmo, in cui l'universo, che si scandisce per degradazione nelle due zone del razionale e del- l'irrazionale (aristotelicamente del sopralunare o celeste e del sublu- nare o terrestre e mortale e corruttibile), si riassorbe tutto - ivi com- prese le anime umane - nel l6gos universale. Entro questi termini (dovuti alle ricostruzioni dello Schmekel e del Reinhardt, mentre molto piu cauto, usando tutte le fonti, appare l'Edelstein) si è delineato un ben preciso sistema di Posidonio, in cui mentre da un lato .sarebbero penetrati motivi mistici e irrazionali di provenienza orientale, dall'altro lato tali motivi sarebbero stati spie- gati da Posidonio, al di là delle tesi propriamente stoiche, mediante la concezione aristotelica dell'universo distinto nelle due zone, celeste e sublunare, e la concezione platonica dei due aspetti dell'anima, la razionale e l'irrazionale, in una conseguente ripresa del dualismo pla- tonico, proprio del Timeo (sembra che Posidonio abbia scritto un commento ·al Timeo) nella tensione tra Intelligenza e Necessità. Posido- nio, dunque, avrebbe posto a fondamento del tutto due principi attivo l'uno (~ò noLouv, tò poiun), passivo l'altro (~ò n«oxov, tò paschon), in quanto materia sostanziale non avente alcuna qualità (Diogene L., VII, 134). "La materia e sostanza di tutto, Posidonio disse che è senza qualità e senza forma, non avente né una forma distinta per sé né una qualità in sé" (Doxographi Graeci, p. 458, 811). L'altro principio, il principio attivo o divino, è alito caldo, pneuf!Ja e fuoco, forza vitale che, pur senza forma, si diffonde e dà forma alla materia informe, esso l6gos dando a tutti una ragione, una propria ragion d'essere. "Dice Posidonio : .&&6c; la-rL 7tV&:U(.Lot vo&:pòv 8L~xov 8L' &:7tl%<71jc; oòatotc;: dio è alito razionale diffuso per tutta la materia" (Commenta Lucani, ed. H. Husener, ad. v. 578, p. 305). Ne discende che la realtà qual è scaturisCe nelle sue qualificazioni, cominciando dagli elementi (fuoco, aria, acqua, terra), dalla tensione tra il principio attivo e quello pas- sivo in una gradazione che va dal superorganico (l'originario fuoco, l'originaria forza, il l6gos divino, inesistente in sé quale realtà tra- scendente) all'organico e all'inorganico, dal razionale (di cui parteci- pano dèi e uomini) all'irrazionale, al limite, al corpo, come termine estremo e affievolito dal diffondersi del pneuma. Di qui la distinzione tra un mondo celeste e divino ed un mondo sublunare e corporeo, cor- ruttibile, già oltre la natura e sottoposto al fato. "Dice Posidonio che il fato è terzo dopo Zeus. Primo è Zeus, seconda la natura, terzo il fato" (Doxographi graeci, 234a, 4). L'irrazionalità, dunque, in quanto mancanza di organicità, di razionalità, di ordine collegante ("sim- patia") è propria del mondo corporeo e, perciò, anche dell'uomo in quanto corpo, impulsività (primo aspetto dell'anima irrazionale) e desiderio (secondo aspetto dell'anima irrazionale). Le passioni non sono, quindi, dovute ad un errore di giudizio, ma hanno una loro realtà, accanto all'altro aspetto altrettanto reale dell'uomo, che è, in lui, la forza egemonica, la razionalità (anima razionale), mediante la quale l'uomo può coordinare le passioni, con ciò facendosi specchio di quell'ordine che è costituito dal divino 16gos o pneuma che si dif- fonde e si realizza nell'ordine con cui appare il tutto. Animato il tutto per la razionalità o forza vitale e organica che gradatamente per il tutto si diffonde sino al limite del corporeo e dell'irrazionale, posto l'uomo come nesso tra l'irrazionale e il razionale, oltre l'uomo, tra l'uomo e il principio divino, vi è tutta una serie di anime, di demoni e di eroi intermediari. Secondo certi stoici, scrive Alessandro Polii- store, "l'aria è tutta piena di anime, venerate come demoni ed eroi; sono esse che mandano agli uomini sogni e presagi" (in Diogene L., VIII, 32). E tale tesi è da Cicerone (De divinatione, l, 64) attribuita a Posidonio. Di qui, sembra, il motivo posidoniano della divinazione e, sul piano della "simpatia," il significato che vengono ad avere le congiunzioni stellari e i loro influssi, attraverso le graduazioni demo- niche, sulle cose e sugli uoplÌni (cfr. Ario Didimo, f. 32 in Doxographi Graeci, p. 466, 18; Achille Tazio, lsagoge in Arati Phaenomena, c. 10), ché, appunto, le stelle e gli astri sono divinità. Senza dubbio stoica, nel suo complesso, la concezione di Posidonio,  53   si capisce d'altra parte com'essa sia stata detta eretica e platonizzante nei confronti dello stoicismo primo, e non solo per ciò che riguarda la "fisica" - secondo Diogene Laerzio, VII, 41, Posidonio poneva, nell'ordine degli studi, innanzi tutto la fisica, - ma anche, paralle- lamente, per ciò che riguarda l'"etica," soprattutto per la minuziosa indagine posidoniana delle passioni, dell'irrazionale e del male, del fato, che sono propri della natura umana, ad essa radicati e che si risolvono solo, platonicamente, in un controllo delle passioni, in una sapiente misura, per cui è possibile da parte di chi sa, di chi ha com- preso e studiato le umane passioni e gli umani caratteri, un'educazione dell'anima, mediante l'indicazione di un ordinamento delle passioni stesse, in cui consiste la razionalità, in un amore di sé come armonia, specchio dell'armonia del tutto, che diviene ad un tempo amore degli altri, in quanto tutti, cose e uomini, sono come organi di un solo orga- nismo (dr. in particolare, per l'analisi delle passioni e per la loro terapia, Galeno, De plac. Hipp. 6t Plat., libri IV e V). Sotto questo aspetto, la funzione del filosofo, in quanto saggio, è d'essere educatore e, per ciò stesso, socialmente e politicamente impegnato. Molti piu frammenti e testimonianze abbiamo relativamente alle ricerche ed alle scoperte scientifiche di Posidonio. Innanzi tutto sap- piamo che gran parte delle sue descrizioni di fenomeni, dei suoi cal- coli, delle sue dottrine, sono dovuti a osservazioni dirette, a minuziose raccolte di dati, opportunamente vagliati e non solo catalogati. Sap- piamo altres1 che Posidonio, nato in Siria, ad Apamea (città greca sull'Oronte, fondata un secolo e mezzo circa prima della sua nascita), abbandonò ancora giovane la patria, dilaniata da lotte intestine, da guerre tra città e città, nella corsa al potere dell'uno o dell'altro prin- cipe della oramai distrutta casa seleucida. Due frammenti di Posidonio parlano, anzi, del suo disprezzo per la vita molle delle città grcco- siriache e per la "miserabile farsa delle loro operazioni militari" (cfr. Bevan, cit.). Da Apamea Posidonio venne ad Atene, ove entrò nella scuola di Panezio circa nel 115 a. C. Dopo la morte di Panézio (110/09) viaggiò molto: fu in Africa settentrionale fino alle colonne d'Ercole (Strabone testimonia ch'egli vide coi proprt occhi calare il sole di là dei limiti del mondo sconosciuto: III, l, 5, 138; che vide alberi popolati di scimmie: XVIII, 3, 4, 827). Visita l'entroterra di Marsiglia e in quei villaggi barbari vide teste umane appese alle porte delle capanne (Strabone, IV, 5, 198); e, sempre spinto dalla sua curio- sità e dall'esigenza delle sue ricerche,· fu ovunque nel mondo occiden- tale conquistato e ordinato da Roma. Da circa il 95 a. C. in poi fissò la sua dimora in Rodi, la patria di Panezio, ove scrisse le sue opere, insegnò, divenne celebre, cittadino onorario di Rodi, di cui occupò 54    anche la pritania, e per cui andò ambasciatore a Roma, visitato dai romani che passavano per Rodi (come fu il caso di Pompeo) o che da lui veniv,ano appositamente per studiare, come fu il caso di Cicerone. Sono tutti dati molto indicativi. Discepolo di Panezio, quando Panezio era scolarca della Stoà ad Atene, Posidonio, in effetto, non fu stoico di professione, non fu scolarca della Stoà, legato cioè a certe regole. Viaggiò molto, raccolse u n notevole materiale di osservazioni. non s'impegnò mai con un partito, né fu cliente, tanto che fissò la sua dimora a Rodi, la città rimasta piu libera del mondo dominato da Roma. Il complesso delle sue ricerche e delle sue osservazioni lo portarono non solo a raccogliere e a descrivere un materiale di prim'ordine in tutti i campi delle scienze naturali (astronomia, meteorologia, geo- grafia), ma anche a formulare teorie che furono fondamentali per ulteriori ricerche e che chiaramente dimostrano la precisione del me- todo proprio dei precedenti grandi ricercatori di Alessandria. In astro- nomia, Posidonio, riallacciandosi alla misurazione del diametro del sole ottenuta da Aristarco e migliorata da lpparco di Nicea e rifacendosi a un calcolo di Archimede, giunse a dare la misura del diametro del sole e della distanza di esso dalla terra che piu si approssima alle misure calcolate oggi, spiegando anche perché il sole appare piu grande sul filo dell'orizzonte che non nel cielo aperto (cfr. Plinio, Nat. ·hist., II, 85; VI, 57), mentre descriveva il fenomeno della rifrazione atmo- sferica (cfr. Cleomede, Sul moto circolare dei corpi celesti), Posidonio poi, rifacendosi all'analisi che delle maree avevano dato Eratostene e Seleuco di Seleucia, mediante osservazioni proprie, fatte dalle coste della Spagna atlantica, sostenne che le maree sono dovute agli sposta- menti della luna, descrivendo, per primo, i tre periodi delle maree: alta e bassa marea quotidiana; alta e bassa marea mensile; alta e bassa marea annuale. Il fenomeno è, secondo Posidonio, dovuto all'influenza della luna e degli altri astri sulla terra, entro l'ambito della simpatia universale. Celebri furono anche le descrizioni e catalogazioni, meto- dicamente effettuate da Posidonio, dei fenomeni sismici, ch'egli, con Aristotele, spiegava mediante l'ipotesi che i movimenti terrestri fos- sero dovuti all'aria circolante nelle cavità sotterranee, e la descrizione della formazione delle comete. Si è detto, infine, che Posidonio è stato il fondatore dell'"etnologia." In effetto, Posidonio, rifacendosi a de- scrizioni di popoli date da Erodoto e da Polibio, alle analisi dei carat- teri umani e dei popoli di certi testi ippocratici, mediante osservazioni proprie, ha cercato di determinare i caratteri fisici e i tratti psicologici di ciascun popolo, spiegando tale rapporto psico-fisico con l'influenza dei climi. Egli ha cosi nettamente distinto ·i popoli europei del nord  55   dai popoli europei del bacino mediterraneo. Ha sottolineato che i popoli del nord e quelli delle zone tropicali, gli uni per il troppo freddo, gli altri per il troppo caldo, hanno intelligenza ottusa, mentre i popoli che vivono in clima temperato hanno intelligenza vivace, e in loro prende il sopravvento il l6gos, la razionalità, fonte di civiltà e di equilibrio. Ogni natura (piante, animali, uomini) si determina qual è nel suo luogo naturale, ma quando viene trasportata in altra regione si adatta poco a poco ai caratteri del nuovo ambiente, finché ne assume la natura propria. Abbiamo, non a caso, citato il nome di Archimede (cfr. sopra, I vol.) e il nome di Ipparco. Ipparco di Nicea, in Bitinia, nacque intorno al 180, mori nel 125, visse ad Alessandria e a Rodi, dove compf la maggior parte delle sue osservazioni. Non è qui il luogo per descri- vere le scoperte di Ipparco e i suoi calcoli. Basti ricordare ch'egli ottenne la possibilità di determinare la posizione delle stelle (calcolò la posizione di circa 800 stelle) e di farne un catalogo, appurandone la grandezza a seconda della loro luminosità, calcolando la loro longi- tudine e latitudine, mediante processi matematici, per i quali, usando pratiche babilonesi, determinò i fondamenti della trigonometria. Posto un circolo, egli lo divise in 36 gradi, ogni grado in 60 minuti e cia- scun minuto in sessanta secondi. " Dividendo poi il diametro in 120 parti, Ipparco cercò di calcolare, con procedimenti teorici, di cui troviamo l'applicazione in Tolomeo, e non con semplici approssima- zioni pratiche, il valore delle corde in rapporto a queste parti del diametro. Non solo, ma per rendere piu comodi e piu rapidi i calcoli astronomici nei quali dovevano essere utilizzati i diversi valori delle corde, ne stabiH una vera 'tavola' cominciando da un angolo di una metà dì grado e successivamente procedendo per metà di grado. Si vede di quale aiuto poteva essere una tale tavola, e quale ·precisione un simile procedimento trigonometrico dava alla espressione matema- tica delle osservazioni astronomiche" (P. Brunet, La science dans l'an- tiquité, in Histoire de la Science, a cura di M. Daumas, Parigi, p. 266). Su questa base scaturisce il tentativo di Ipparco di applicare le costruzioni geometriche alla realtà concreta dei fenomeni osservati. Solo dopo la piu attenta .osservazione del movimento di ciascun astro, delle sue eccezioni, della sua grandezza e periodo, per cui Ipparco, oltre la tavola trigonometrica, si costruf degli strumenti nuovi (per la misura del diametro apparente del sole e della luna, costruf uno stru- mento migliore di quello che s'era fatto Archimede, in quanto munito oltre che di un punto visivo mobile, di un punto visivo fisso con cui con esattezza si otteneva il dia~etro angolare dell'astro), è possibile passare alla costruzione geometrica che renda ragione delle apparenze. 56    Ipparco cosi, studiando il sole, dimostrò per via di misurazione la ine- guaglianza delle stagioni, mediante gli eccentrici e gli epicicli, deter- minando la posizione del sole per ogni giorno dell'anno, giungendo quindi a formulare la celebre teoria della "precessione degli equinozi." Ipparco, infine, sempre sul piano del calcolo e della misurazione con- tinuò l'opera geografico-matematica di Eratostene, sviluppando l'uso delle coordinate geografiche, cioè introducendo paralleli e meridiani, indicando cosi le regole geometriche mediante cui è possibile disegnare carte piane del cielo e della terra. Sembra che per la rappresentazione del cielo abbia proposto una proiezione stereografica e per quella della terra una proiezione ortografica (cfr. Brunet, cit., p. 273). A parte i risulçati di Ipparco, ciò che soprattutto interessa sotto- lineare qui è il tipo della sua ricerca, che, sul piano di un Archimede, di un Eratostene, sul piano di quella ch'era divenuta la ricerca propria dei "filosofi" di Alessandria"', indipendentemente da pregiudiziali teo- logiche, da costruzioni già date "a priori," si fonda sull'osservazione sperimentale, e, attraverso questa, senza rimanere preso dalla pura enumerazione dei fenomeni, vien determinando una teoria, che serva a rendere ragione dei fenomeni osservati, attraverso il calcolo e la misura- zione matematica (che assumono il valore di strumento, si come gli strumenti veri e propri che servono per quelle misurazioni e calcoli me- desimi, come n'è esempio il nuovo astrolabio inventato da Ipparco). D'altra parte, ciò che, come abbiamo detto, colpisce particolarmente chi studia come si sono costituite le scienze dei primi "filosofi" di Alessandria, fino a un Eratostene, un Archimede, un lpparco, se da un lato è la prevalenza data all'osservazione diretta e allo studio delle condizioni che permettono l'una e l'altra ricerca, che diviene scienza, appunto, a seconda dell'uso corretto delle sue stesse limitazioni, dal- l'altro lato, ed entro lo studio di quelle condizioni medesime, è l'allon- tanamento dalla prima impostazione dovuta agl'immediati discepoli di Aristotele, che, in un'accentuazione dell'ultimo Aristotele, per il peri- colo sempre implicito in Aristotele che per il suo legame con Platone si era mantenuto sul piano delle "forme" e quindi sempre della filosofia intesa come teologia, avevano decisamente puntato sulla mèra raccolta di dati, sull'enumerazione, che in quanto tale, rende alla fine impossibile il sapere. Molto bene ciò si nota quando chiaramente si vede (si cfr. particolarmente Archimede) da un lato l'importanza data all'esperienza, all'osservazione, alla catalogazione dei fenomeni nor- mali e anormali, ma dall'altro lato, attraverso la stessa analisi dei feno- meni, alla invenzione di ipotesi che riescano concretamente a spiegare in unità una molteplicità di fatti. Tutto ciò, naturalmente, era pio facile finché si trattava, entro l'ambito di ciascuna scienza di trovare  57   le condizioni dell'una e dell'altra. Piu difficile lo fu per ·la fisica e particolarmente per l'astronomia. L'astronomia, e per altro verso la fisica, dopo Platone - si pensi in special modo alla soluzione del Timeo, delle Leggi e dell'Epinomide, e all'importanza politica ch'ebbe per Platone quella soluzione - andò ·a cozzare contro il motivo (d'altra parte ripreso da Aristotele) del movimento circolare e uni- forme dei cieli. Con esso, che, in quanto movimento perfetto e razio- nale, veniva identificato con la divinità, entrava in contrasto il rispetto dei fatti e diveniva estremamente astratta la riduzione della fisica e dell'astronomia a teologia, ché la soluzione geometrico-matematica dei fenomeni (la "salvazione dei fenomeni") correva il rischio di passare da strumento esplicativo a costruzione per sé stante entro cui, poi, dovevano essere costretti i fenomeni. I termini del contrasto si vedono bene quando si pensi all'accanto- namento della teologia operato in Alessandria dagli "istorici" e poi, andando oltre essi, dai "filosofi" che usarono la matematica e la geo- metria come strumenti esplicativi dei dati Bsservati e sperimentati, finché alla loro volta in altri ambienti (sempre per sottintese esigenze politiche) quelle ipotesi geometrico-matematiche tornarono ad avere la funzione che avevano assunto in Platone e in Aristotele, definitiva- mente teologizzando la filosofia. Per altro verso, tale contrasto si vede bene allorché si dia il debito peso alla polemica di Epicuro e all'ipotesi della struttura dell'universo costituito di atomi e di semi vitali, e al "casuale" incontro di quegli atomi, ove la razionalità non è piu un dato, una forma per sé, ma una conquista. Sia pur giungendo a solu- zioni diverse - a parte la componente del primo scetticismo .e della seconda Accademia, - anche l'ipotesi del primo stoicismo (Zenone) e il motivo della "simpatia" (Crisippo}, potevano servire alla costi- tuzione di una fisica autonoma, o, per lo meno, alla giustificazione di certe esperienze religiose, non razionali, che s'erano delineate sem- pre di piu in ambienti popolari, lasciti di antiche credenze, di antichi miti e riti. · Ora, una piuttosto ampia documentazione mostra un Posidonio assai vicino al metodo d'indagine proprio di Ipparco di Nicea: analisi minuta e diretta di fenomeni, uso .di certi ritrovati matematici e geo- metrici in funzione della spiegazione dei dati stessi; ma anche studio minuto e diretto di fenomeni psichici (forze irrazionali, caratteri di- versi, e cos{ via); registrazione di fenomeni fuori dell'usuale. Di qui, da parte di Posidonio, nella sua palese esigenza di rendere "familiare l'universo agli uomini," il recupero del motivo stoico della "simpatia" e della ipotesi stoica, mediante cui è possibile pensare la realtà, per cui a fondamento del tutto stanno due principi non qualitativamente determinati, non aventi cioè "forma" : da un lato urra quantità assolutamente indefinita, dall'altro lato una forza. Dalla tensione dei due termini si costituiscono e si qualificano le cose, onde l'ordine e la razionalità non son presupposti, "forme," ma si costituiscono nella stessa tensione dei due termini, in un conflitto ove la misura e la razionalità sono un'operazione, ove operativa è la stessa scienza e la saggezza, e dove la religiosità consiste da un lato nel sentirsi dipendere dalle forze irrazionali (documentate dall'esperienza, testimoniate dalle tradizioni religiose popolari, dai misteri) dall'altro lato nell'operare, mediante il l6gos, su quelle forze, costituendo un'armonia che è la stessa razio- nalità. Giuoco di forze l'universo, giuoco di forze l'uomo; il l6gos, che è soffio vitale (pneuma), scaturisce dall'equilibrio di quelle forze nella con-passione (simpatia) dell'una e dell'altra forza, e perciò nel- l'organarsi dell'una e dell'altra cosa, dell'una e dell'altra forza vitale (anima), onde le reciproche influenze e simpatie, ivi comprese le influenze stellari, come, ad esempio, le maree dovute alla Luna, e i rapporti tra le anime incorporate e le anime (pnéumata) che per gradi si trovano tra il l6gos e i corpi. Sembra, cosi, chiaro come per Posidonio, curioso di ogni aspetto della realtà, dei fatti della natura e dei fatti umani, la "filosofia" sia scienza in quanto consapevolezza dell'operatività del sapere, mediante cui se da una parte è possibile rendere "familiare l'universo," dall'altra parte, entro un tale universo familiarizzato, è possibile rendere docile la natura, dare all'uomo, operando sulla natura, una vita civile. Vi è a tal proposito una testimonianza preziosa di Seneca (Lettere a Lucilio, XIV, 90). Seneca discute e critica la tesi posidoniana, sostenendo che pur riconoscendo a Posidonio d'aver "portato un gran contributo alla filosofia" (Lett. a Luc., 90, 6-7), non può ammettere oon Posidonio che la filosofia sia tecnica, sia operatività, che mediante la filosofia si siano costituite e abbiano progredito le tecniche, che naturalmente modifi- cano e trasformano la natura in funzione del benessere umano: dalle tecniche per costruire case alle tecniche per fare il pane, alle tecniche per coltivare (agricoltura), alle tecniche per avere le case riscaldate, comode, a quelle per costruire tavole, e cosi via. "Non posso concedere a Posidonio che la filosofia abbia trovato le arti di uso comune, né saprei darle la gloria dei mestieri fabbrili. La sapienza sta piu in alto, non delle mani maestra, ma delle anime (sapientia altius sedet nec manus edocet, animorum magistra est)" (Lett. a Luc., 90, 7, 25-26). Nella polemica di Seneca - e si vedranno le ragioni per cui Seneca dà àlla filosofia un compito liberatore, il compito di purificare l'anima, di curarla, per condurla alla contemplazione del divino, in un'evasione da questo mondo - sembra chiarirsi l'atteggiamento proprio di Posi-  59   donio, anche nel campo piu strettamente politico, ché, appunto, anche la politica è saggezza, e, in quanto tale, è operativa, cioè capacità da parte del saggio di costituire, di creare un ordine tra le passioni, in un equilibrio che è conquista, e che, in quanto equilibrio, è, ad un tempo, giustizia. Sappiamo, ora, che Cicerone, il quale aveva ascoltato Posidonio a Rodi e che con Posidonio era entrato in dimestichezza, tanto da inviar- gli la Storia del proprio consolato, perché il grande storico la usasse per la sua opera (può essere abbastanza sintomatico che la richiesta di Cicerone sia rimasta senza risposta), fece largo uso delle notizie, dei dati, delle singole dottrine scientifiche di Posidonio, e soprattutto della tesi posidoniana relativa all'unificazione delle scienze nella filosofia, ma in funzione della cultura enciclopedica propugnata da Cicerone, utile per la formazione dell'oratore (cfr. particolarmente, De Oratore, III, 55 sgg., 57, 61, 87 sgg.). Anche; tale deviazione ciceroniana è piuttosto indicativa, come lo è il fattiféhe, appunto, il successo che ebbe Posi- donio nel futuro della cultura fu dovuto essenzialmente alla mèsse di notizie, di dati, di istorie, che si sono ritrovate in lui, usato soprat- tutto come una specie di enciclopedia del sapere. Sembra, infine, che Posidonio, sottolineando i rapporti intercorrenti degli oggetti che scaturiscono dalla tensione tra i due principi nell'or- ganarsi delle cose sotto la spinta del l6gos, del pneuma, abbia da un lato giustificato sul piano di un'ipotesi le possibili influenze dell'una stella sull'altra e delle stelle e degli astri sulla terra e sulle cose della terra, ivi compreso l'uomo (astrologia); dall'altro lato, posto che per gradi di affievolimento, non giungendo il 16gos a tutto, vi è una zona che rimane come abbandonata a sé, pura quanticl, abbia con ciò giu- stificato non solo le passioni e il caso, ma anche indicato la possibilicl di operare, mediante .il 16gos umano, su quella zona, qualificando certe cose, cioè trasformando il loro primigenio aspetto in altro. Posi- donio, pare, giustificava cosf tutta una serie di esperienze che aveva determinato la tradizione astrologica (di provenienza caldaica) e tutta un'altra serie di esperienze che, pur rifacendosi all'astrologia, si era delineata per un verso nella fiducia di costituire delle tecniche mediante cui con la natura trasformare la natura (alchimia, magia), e per altro verso operando su certe cose, in rapporto diretto con una o altra influenza stellare, influire sulle stelle stesse e perciò sugli uomini e sugli dèi (magia astrologica). Anche se, indirettamente, alcune testimonianze hanno fatto pen- sare che Posidonio abbia raccolto del materiale intorno alla storia della magia e abbia descritto esperienze magiche, e abbia inoltre composto una specie di storia dell'astrologia- che, si badi, nell'antichità non era affatto 60    distinta dall'astronomia - il silenzio di Cicerone, il quale, cÒmunque, sostiene che tra gli stoici il solo Panezio avrebbe rifiutato gli "astro- logorum praedicta" (De divinat., II, 88), e il silenzio, in merito, di fonti piu tarde, non permettono un piu lungo discorso. Ha, invece, una sua importanza l'accostamento tra Posidonio e Democrito fatto da Seneca nella citata Lettera a Luci/io. Dopo avere negato che le tecniche e le invenzioni siano frutto della filosofia e della saggezza come avrebbe voluto Posidonio, Seneca cita Democrito: il medesimo Democrito trovò come si leviga l'avorio, come un sassolino sottoposto a cottura si trasforma in uno smeraldo, come anche oggi, cuo- cendoli, si colorano certi sassi adatti a essere cosf colorati. Ora, anche se un saggio ha fatto queste scoperte, non le ha fatte perché era un saggio (Seneca, Lettere a Lucilio, 90, 33). Cultura e politica nell'ultima fase della Repubblica. Cicerone. Lucrezio. L'avvento di Augusto l. La Nuova Accademia: da Clitomaco, Carmada e Metrodoro di Stratonica a Filone di Larissa e Antioco di Ascalona. Cicerone È noto come, ancora una volta, bisogna rifarsi a Cicerone per rico- struire, molto approssimativamente, quello che fu il pensiero di Filone di Larissa e di Antioco di Ascalona, l'uno e l'altro per un certo periodo della loro vita scolarchi dell'Accademia (Filone dal 110 all'88 a. C. circa; Antioco sembra dall'87 al 68); e come, in effetto, sia la posizione di Filone sia quella di Antioco, e il conflitto tra di loro, si possano comprendere solo attraverso il filtro di Cicerone e le sue intenzioni. Secondo l'Academicorum index herculanensis (XXV, l, 36; XXIV, 28; XXIX, 39.; XXX, 5), a Carneade, ritiratosi per vecchiaia e malattia nel 137, successero nello scolarcato dell'Accademia, prima Carneade di Polemarco, morto nel131, poi Cratete di Tarso, al quale, morto nel 129, successe un altro discepolo di Carneade, Clitomaco, detto Asdrubale, nato a Cartagine riel 187 circa. Carneade di Polemarco e Cratete di Tarso non sono piu che dei nomi.1 Dello stesso Clitomaco" sappiamo pochissimo. Venuto ad Atene 1 Per la vita di Carneade cfr. I volume. Dci primi successori di Carneade sappiamo pochissimo, in realtà solo i nomi: Carneade d i Polcmarco, scolarca dal 137 al 131; Cratctc di Tarso, scolarca dal 131 al 129; Clitomaco Asdrubale di Cartagine, scolarca dal 129 al 11o. Sembra che Clitomaco, per un qualche disguido con Carneade, nel 140 - nato nel 187 circa a Cartagine, aveva allora 47 anni - abbia aperto una scuola per conto suo. Ciò renderebbe conto del perché Carneade ritiratosi dall'insegnamento nel 137, piuttosto che Clitomaco abbia designato alla sua successione, prima Carneade di Polemarco, poi Cra- tcte di Tarso. Solo dopo la morte di Carneade e di Cratcte, Clitomaco, ritenuto il piu fedele interprete del pensiero di Carneade, poté essere nominato scolarca dell'Accademia. Delle sue molte opere (400 secondo Diogene Laerzio, IV, 67) non abbiamo che notizie. La piu celebre è una storia della dottrina sulla sospensione dell'assenso, in 4 lihr'i. Si ricorda anche uno scritto sulle sètte. Per il resto si veda sopra, s{ come a veda sopra ciò che riguarda le varie correnti determinatesi in seno all'Accademia al tempo di Clitomaco.  95   su1 ventiquattro anni (cosi secondo l'lndex herculanensis, XXIV, 2; mentre secondo Diogene Laerzio, IV, 67, sui quaranta), aperto alle discussioni piu vive del suo tempo - egli discusse e approfondi le tesi dei peripatetici, degli stoici, degli accademici: cfr. Diogene L., IV, 67 - Clitomaco fu noto soprattutto per i suoi scritti con i quali divulgò il pensiero di Carneade, da lui frequentato per una ventina d'anni, dandone evidentemente una sua interpretazione (si ricordi che Carneade non aveva scritto nulla). Non sembra un caso, anzi, che con- temporaneamente a Clitomaco, di contro a lui, altri discepoli di Car- neade abbiano sostenuto che diversamente andava interpretato Carneade. Delle moltissime opere di Clitomaco (circa quattrocento, sostiene Diogene Laerzio, IV, 67), quasi tutte relative all'esplicazione del pen- siero di Carneade (Diogene L., Il, 92, cita anche un suo scritto su Le scuole filosofiche e Cicerone, Tusc. disp., III, 22, 54, un suo scritto consolatorio inviato ai Cartaginesi in occasione della distruzione della città), Cicerone apertamente dichiara di conoscerne e usarne, per esporre la tesi di Carneade sulla "sospensione del giudizio," tre, di cui due dedicate al poeta Caio Lucio e al console L. Censorino, ed una, piu Si veda sopra anche per Callide, Carmada, Metrodoro di Stratonica e i loro relativi disce- poli. A Clitomaco successe nel 110/109 Filone di Larissa. Nato a Larissa, in Tessaglia, nel 160/159 circa, Filone fin da giovane potE _ascol- tare l'insegnamento dell'accademico Callide che a Larissa dirigeva una diramazione dell'Accademia. Sui ventiquattro anni, nel 136 circa, passò ad Atene, entrando nell'Acca- demia, sotto la direzione di Clitomaco. A Clitomaco, mono nel 110 a.C. circa, suc· cesse quale scolarca dell'Accademia. Filone resse l'Accademia fino all'88. Nell'88, allo scoppio della guerra mitridatica, si recò a Roma, dove prosegui il suo insegnamento, e dove, sembra, mori intorno al 79. Nulla·~ rimasto dell'opera di Filone se non scarsi frammenti e testimonianze di un suo scritto Sulla filosofia e la notizia di un. suo lavoro, composto a Roma, che si sarebbe non poco spostato dallà linea Carneade-Clitomaco-Carmada seguita da Filone finchE sog· giornò ad Atene. Antioco nacque ad Ascalona, in Palestina, tra il 140 e il 130 a. C. :Venuto ad Atene da giovane, segui per molti anni l'insegnamento di Filone. Nell'88 quando Filone si trasferl a Roma, Antioco si recò ad Alessandria, passando prima per Roma dove conobbe Lucullo. Nell'86 era sicuramente ad Alessandria con Lucullo. Nel 79 era ceno ad Atene, scolarca dell'Accademia. Segui poi Lucullo nella spedizione di Siria, durante la seconda guerra mitridatica, assistendo alla battaglia di Tigranocerta (69 a. C.). Mori nel 68 circa. Delle molte opere di Antioco .non possediamo nulla se non ciò che riferisce Cicerone, in panicolare di una, il Sosus. Il Sosus fu composto da Antioco, al tempo del suo sog· giorno ad Alessandria, per controbattere e confutare lo scritto dell'antico maestro Filone giuntagli da Roma e che lo aveva indignato. Si veda nel testo i termini e il significato della polemica Filone-Antioco. Se già Filone.aveva dato un nuovo indirizzo all'Accade- mia, per cui si disse ch'egli era stato il fondatore di una quana Accademia; piu deciso ancora verso un aspetto piu dogmatico fu l'indirizzo dato da Antioco per ciò detto il fondatore della quinta Accademia ("Di Accademie, come dicono i piu, ce ne sono state tre: la prima e piu antica fu quella di Platone, la seconda, o media, quella di Areesilao, uditore di Polemone, la terza e nuova quella di Carneade e Clitomaco. Alcuni ne aggiun· gono una quarta, quella di Filone e Carmada, e altri ne contano una quinta, quella di Antioco": Sesto Empirico, Pyrr. hypoth., l, 220). 96    ampia intitolata, appunto, Sospmsione del giudizio, in quattro libri, nei quali venivano esposte e discusse le tesi di Arcesilao e di Carneade. Non dirò nulla - sottolinea Cicerone - di cui si possa sospettare che sia una mia invenzione: riprenderò tutto da Clitomaco, vissuto con Car- neade fino alla vecchiaia, uomo di acutezza veramente cartaginese, c so- prattutto accurato e zelante. Abbiamo di lui quattro libri sulla sospensione dell'assenso (de sustinendis.assensionibus)... Ho esposto sopra, sull'autorità di Clitomaco, come Carneade spiegasse il suo probabilismo. Ascoltate ora come tale problema sia presentato da Clitomaco stesso, nel libro da lui dedicato al poeta Lucilio, dopo averne dedicato un altro, sullo stesso argo- mento, a L. Ccnsorino, che fu console con M. Manilio (Cic., Lucullus, XXXI, 98; XXXI1, 102). A quanto sembra Cicerone riteneva che Clitomaco fosse stato un espositore accurato e fedele di Carneade (del suo zelo analitico e della sua prolissità parla anche Sesto Empirico, Adv. math., IX, l, che, d'altra parte, accomuna sempre il nome di Clitomaco a quello di Carneade, Pyrrh. hypot., l, 220, 230), soprattutto per ciò che riguarda quello che dovètte essere il motivo piu discusso nella scuola, in polemica con i fondamenti della logica stoica, e cioè il motivo dell'assenso cui si accom- pagnava la possibilità o meno del criterio del probabile, che a sua volta coinvolgeva la possibilità o meno della fiducia nell'azione. In due modi, aggiunge Clitomaco, si può intendere l'affermazione: il sapiente sospende l'assenso; l) che il sapiente non dà il proprio assenso a nulla; 2) che si trattiene dal rispondere, senza dichiarare se approva o no, senza negare, senza affermare. Clitomaco ammette la prima inter- pretazione, c non dà mai il suo assenso: adotta anche la seconda c, tenendo ferma la sola probabilità, risponde si o no, a seconda che ciò che si presenta sia piu o meno probabile..., ma solo per quelle appercezioni che spingono all'azione, e per quelle, mediante cui possiamo, quando si venga inte~ro­ gati, rispondere in uno o altro senso, non seguendo che le apparenze, dato, tuttavia, che non diamo il nostro assenso (Cic., Lucullus, XXXII, 104). Sembrerebbe, dunque, che la interpretazione data da Clitomaco della posizione di Carneade - sulla scia di Carneade egli mostrava anche come tutte le tesi che sostengono la possibilità di un sapere assoluto siano controvertibili: cfr. Sesto Empirico, Adv. math., IX, l - s i risol- vesse sul piano della totale sospensione, allorché si tratta del vero in assoluto, onde il sapiente non solo non può proclamare alcuna verità, ma, conseguentemente, neppure accettare una qualsiasi opinione: se tutto è opinione, nulla è opinione, ché assumendo una qualsiasi opi-  97   nione già si distinguerebbe tra vero e opinabile. Solo che allora, pro- seguendo coerentemente su questa via, sarebbe impossibile il criterio del "probabile," sia pur sul piano dell'azione (dice Sesto che "gli Acca- demici assentiscono a qualcosa con predilezione e, per cosi dire, con simpatia, accompagnata da un forte volere" : Pyrrh. hypot., l, 230). Se l'una rapppresentazione vale l'altra, non si capisce come l'una, sul piano del volere, sia da preferire all'altra, sia piu probabile dell'altra. E per ciò verrebbe a cadere anche la retorica propugnata da Clitomaco (cfr. Sesto, Adv. math., II, 20 sgg.), che di contro alla dannosità della retorica comune, basata sofisticamente sulla possibilità di muovere gli affetti, sosteneva che la vera retorica consisterebbe nell'avviare a ben pensare, attraverso lo studio e la discussione delle varie opinioni dei filosofi. Ma se l'una opinione vale l'altra, l'un giudizio vale l'altro, nep- pure è possibile pensare bene o pensare male, ed altro non resterebbe che il silenzio. Tali, sembra, le obbiezioni che in seno alla scuola furono mosse a Clitomaco da altri discepoli di Carneade, i quali tesero a dare del mae- stro un'interpretazione piu temperata e meno esclusiva. Su questa linea, per quel poco che ne sappiamo, si mossero particolarmente Carmada e Metrodoro di Stratonica. Certo, delle molte discussioni che fiorirono intorno al modo di interpretare il genuino pensiero di Carneade poco o nulla sappiamo, se non, appunto, che l'Accademia sembrò un "uni- verso coro" (Sesto Emp., Adv. math., IX, 1). Cosi, di Callide che diresse una diramazione dell'Accademia a Larissa, di Zenodoro di Tiro che ne diresse una ad Alessandria, di Hagnone di Tarso che scrisse un'opera Contro i retori, di Melanzio di Rodi e di Eschine di Napoli, non abbiamo che notizie esteriori (cfr., per Callide e Zenodoro, lndex herc., XXXV, 36; XXXIII, 8; XXIII, 2; per Hagnone, Quintiliano, lnst. or., II, 17, 15; per Melanzio ed Eschine, Cicerone, Lucullus, VI, 16; De Oratore, l, 45; Diogene Laerzio, II, 64). Tutti, comunque, appaiono impegnati intorno alla questione della "sospensione dell'assenso" e sulla sua portata pratica, da un lato di contro a certa verità assoluta colta dagli stoici, di là dalla loro stessa impostazione logico-empiristica, che non poteva non condurre al silenzio, dall'altro lato di contro al peri- colo, portando ad estrema conseguenza la "sospensione del giudizio" sul piano teoretico, di rimanere in silenzio, cioè nell'assoluta impossi- bilità di pensare e di agire. Entro i termini di tali discussioni si mossero Carmada e Metrodoro di Stratonica. Di Carmada si dice che fosse bravissimo oratore, che celebre fosse la sua memoria (cfr. Cicerone, Tusc. disp., l, 24, 59; De Oratore, II, 88, 360; Lucullus, VI, 16), che, fedelissimo di Carneade (ne imitava perfino la voce: Cicerone, Orator, XVI, 51), ne seguisse    il metodo (cfr. Cicerone, De Oratore, I, 18, 84), discutendo le varie opi- nioni, non tanto per far prevalere l'una o l'altra, quanto per richiamare sempre chiunque ad un controllato atteggiamento critico, in cui, d'altra parte, consisteva per Carneade, come già per Clitomaco, la retorica da opporre alla cosiddetta "retorica comune." Ma proprio perché fosse possibile la riduzione dell'atteggiamento carneadiano a tecnica retorica, mediante cui, dalla discussione di tutte le opinioni, escludendo ogni passaggio dall'opinione al vero in assoluto, si potesse assumere, sul piano pratico, una certa opinione che servisse piu di un'altra, sia nel discorso sia nellfl spinta all'azione, era necessario scostarsi dalla sospen- sione assoluta propugnata da Clitomaco. Ugualmente sembra che Me- trodoro di Stratonica - sottolinea il Dal Pra - " sia stato del parere che conveniva senz'altro riconoscere l'inevitabil~tà dell'assunzione di qualche opinione e di qualche posizione; lo scettico stesso non è pertanto che non abbia alcuna opinione ed alcuna posizione; piuttosto egli attri- buisce alla sua opinione o posizione un valore ben diverso da quello che gli stoici attribuivano alla loro verità. Per mantenersi nello scetti- cismo basterebbe pertanto riconoscere la differenza tra verità ed opi- nione e convenire che non si può dare se non opinione, ossia una persuasione pragmatica, una certezza che è d'altra parte sufficiente per la condotta della vita" (Lo scetticismo greco, Milano, 1950, pp. 227-28). In effetto la discussione si manteneva qui - entro l'àmbito delle scuole di Atene - sul piano della piu acuta tradizione greca relativa alla problematica logica, scaturita dalla questione dell'aderenza o meno dei termini del discorso alla cosa significata. Se si ritiene che il discorso verace sia quel discorso che corrisponde nel rapporto soggetto-predicato a reali rapporti di inerem:a propri delle cose, onde, pur usando nomi, i nomi sono tuttavia simboli significanti realmente le cose e il discorso è tale in quanto riflette il discorso del reale (in senso aristotelico); allora, posto che rimane sempre in dubbio che la rappresentazione, l'immagine o il nome, corrisponda a ciò che è, alla cosa, e che, quindi, lo stesso discorso. sia arbitrario, ne deriva che si debba sospendere ogni giudizio, cioè che non si debba né affermare né negare qualcosa di qualche altra cosa, perché ciò implicherebbe sempre l'affermazione o la negazione di un'inerenza di cui non potremmo dir niente; su questo piano, probabilmente essendo inadeguato ogni giudizio, si elimina la possibilità del discorso verace e, per ciò, altro non resta che il silenzio, un pieno ritorno all'afasia di Pirrone. Oppure, se si ritiene (riallaccian- dosi al tipo di logica scaturita dalle discussioni intorno all'analitica e all'inerenza necessaria di Aristotele, e delineatasi attraverso la tema- tica dei sillogismi ipotetici di Teofrasto e l'implicazione di Diodoro Crono e di Filone Megarico),,che il discorso si fondi su rappresenta-  99   zioni (già esse giudizi e proposizioni, e non soggetti e predicati), non perciò analizzabili, sulla cui veracità ed esistenzialità assumiamo fede in quanto afferrano piu fortemente di altre, ne deriva che il discorso si costituisce di rapporti tra rapprèsentazioni-giudizi, la cui implica- zione è dovuta al ricordo e, dunque, all'anticipazione. Perciò verace o no è il discorso, se corretta o meno è la implicazione, indipendente- mente dall'adeguazione o meno, nel giudizio, alla reale ineremea (di qui i sillogismi ipotetici, e ipoteticamente il porsi delle possibili strutture della realtà); se si ritiene E:iÒ, si può benissimo, sul piano della verità in sé e della esatta corrispondenza tra rappresentazione e cosa rappre- sentata, parlare di sospensione del giudizio e di non assenso, mentre sul piano del discorso si può parlare di probabilità relativamente a ciò che esso significa, assumendo quel discorso che appare come il meno con- traddittorio, cioè il piu probabile, il piu credibile (nr.kv6v, pithanòn). In altri termini, se sul piano del vero non c'è nessun "criterio" che permette di sostenere che le cose sono comprensibili (per cui può anche darsi che lo siano), onde non si può parlare né di vero né di falso, sul piano, invece, delle rappresentazioni, quali si presentano alla mente, indipendentemente dal loro corrispondere o meno alla cosa, si può par- Jare, relativamente a ciò che appare, di verità e di falsità. Il remo che nell'acqua appare spezzato e fuori dell'acqua diritto, può darsi che in sé sia spezzato o diritto: perciò su questo sospendiamo il giudizio; solo che è vero che ai sensi appare··spezzato ed è vero che ai sensi appare diritto, ma anche che, se piu evidente è attraverso l'impres- sione stessa, ch'è diritto, è vero, nel giudizio, che è diritto ed è falso che è spezzato, e perciò l'assenso è di probabilità (per l'esempio del remo, o per quello del colore cangiante delle piume del collo della colomba, cfr. Cicerone, Lucullus, XXV-XXVI). Tale, sembra, la posizione di Fi- lone di Larissa che, discepolo diretto di Clitomaco, al quale successe nella direzione dell'Accademia, alla morte di Clitomaco, avvenuta nel 110/109 a. C., fu piu vicino alla interpretazione che di Carneade ave- vano dato Carmada (di cui furono scolari Diodoro e Metrodoro di Scepsi, ma dei quali non abbiamo che i nomi: cfr. lndex herc., XXXV, 39; Cicerone, De Oratore, II, 88, 360; Plinio, Nat. hist., VII, 24, 89) e Metrodoro di Stratonica (di cui furono scolari Metrodoro di Pitane e Metrodoro di Cizico, e anche dei quali non sappiamo che i nomi: cfr. lndex herc., XXXVI, 11 e XXXV, 33). Cosi: Sesto Empirico (Pyrrh. hyp., I, 235), brevemente esponendo la tesi di Filone di Larissa, scrive: "Filone afferma che relativamente al criterio stoico, cioè la rappresentazione catalettica, le. cose sono in- comprensibili; ma relativamente alla natura delle cose, esse sono com- prensibili." Il criterio stoico non garantirebbe cioè se le cose siano o no 100    comprensibili. Ma proprio questo, appunto perché non si· può dire quando una cosa sia o non sia compresa, non esclude che le cose in quanto tali siano comprensibili. "Noi," sottolinea Cicerone, che in questo passo, su sua testimonianza, si riferisce a Filone, "non neghiamo quello che ·si presenta chiaro come la luce, ma diciamo che quelle stesse cose che voi stoicamente dite di percepire e di comprendere, a noi sembrano probabili" (Le~cullus, XXXII, 105). Di qui deriverebbe la sottile distinzione posta da Filone tra evidenza e ' percezione: evi- denti o incerte le cose in quanto presenti alla mente in modo piu o meno forte, ciò non significa ch'esse siano di per sé percepite e non percepite (cfr. Cicerone, Lucullus, X, 32; Xl, 34). E cosi, all'abbiezione che Antioco di Ascalona - discepolo dapprima di Filone, ma poi deci- samente volto a uno stoicismo del tipo di quello di Cleante - avrebbe mosso a Filone: se assumiamo la proposizione alcune rappresentazioni sono false, e quindi affermiamo esse non differiscono in nulla dalle vere, si cade in contraddizione, perché, accordata la prima e riconosciuta dunque una qualche differenza tra le rappresentazioni, la prima viene negata dalla seconda che dichiara le rappresentazioni false simili alle vere; Filone avrebbe risposto: "l'abbiezione sarebbe giusta se toglies- simo del tutto la verità: ma non lo facciamo; noi discerniamo tanto il vero quanto il falso, solo ch'essi si presentano sotto l'aspetto della probabilità, poiché non abbiamo alcun segno che indichi la perce- zione" (Cicerone, Lucullus, XXXIV, 111). Sembra, dunque, che Filone svolgesse la propria discussione su due piani diversi. Da un lato, egli, riallacciandosi ad una certa tradizione (da Democrito a Carneade), negava la possibilità (sia coi sensi, sia con la ragione) di cogliere quelle che sono le strutture proprie della realtà, che resta di là dalle possibilità umane, e intorno a cui si sospende ogni giudizio o si parla per via di ipotesi; dall'altro lato, perciò, entro l'arco del discorso umano, Filone poneva la possibilità di costituire discorsi piu o meno probabili. Di qui la funzione della esperienza e della ragionata esperienza e della ragione che, se rimane sospesa sul piano dell'essere, è valida, con i suoi sillogismi, la sua dial~ca, la discussione delle opinioni, dei pro e dei contra, sul piano umano: " p e r navigare, seminare, sposarsi, avere figli, fare infinite altre cose, per le quali la sola probabilità può essere di guida" (Cicerone, Lucul- lus, XXXIV, 109). • Si capisce in tal modo perché Filone, andando a ritroso nella storia del pensiero greco, abbia ritenuto che la genuina tradizione filosofica si dovesse rintracciare in quei pensatori che avevano messo in discus- sione la possibilità di cogliere le strutture della realtà, avanzando ipo- tesi e prospettando ragioni non contraddittorie, che permette~sero la  101   pensabilità del reale, onde la possibilità di molteplici spiegazioni, ed entro la discussione di queste l'opzione per quelle che possano servire di piu, che siano utili alla vita, o, per lo meno, ad una presunta utilità, un presunto bene della vita. E per ciò Filone poteva sostenere che egli, in effetto, rappresentava il piu intimo platonismo e, dunque, l'Ac- cademia, interpretando il platonismo da un: lato sul piano dei dialoghi socratici, dall'altro lato sottolineando dei dialoghi della maturità di Platone l'aspetto dialettico e problematico, insistendo sul mito e sul verosimile, compresi come ipotesi di spiegazione, in funzione della vita pratica e associata, per cui poteva sostenere che in realtà non v'era stata una prima e una seconda Accademia, ma che unico n'era stato sempre l'intento. Filone ha sostenuto nelle sue opere - e l'abbiamo ascoltato dalla sua stessa bocca - che non vi sono affatto due Accademie, e dimostrava in modo irrefutabile ch'erano in errore coloro che cosi pensavano... Chiamano nuova quest'Accademia, se nell'antica si deve collocare Platone. Comunque, Platone, nei suoi scritti, non afferma nulla, discute spesso il pro e il contro, interroga su ogni argomento, senza mai giungere a qualcosa di certo. Tuttavia, si chiami pure, se si vuole, antica Accademia· quella di cui ho parlato ora, e nuova quella che si è continuata fino a Carneade, quarto successore di Arcesilao, e che non si discostò dai principr del suo fon- datore... Arcesilao diresse i propd .attacchi contro Zenone, non per per- tinacia, o per ambizione di vincere, ma a causa dell'oscurità di quelle questioni che avevano condotto Socrate a confessare la propria ignoranza, e, prima dì Socrate, Democrito, Anassagora, Empedocle e quasi tutti gli antichi. Sostennero che nulla si può conoscere, nulla comprendere, nulla sapere; che limitati sono i sensi, deboli gli intelletti, breve la vita, e la verità, come diceva Democrito, immersa nel profondo; che tutto dipende dalle opinioni e dalle convenzioni; che nulla può esser lasciato alla verità; e che, infine, tutto è circonfuso di tenebre. Arcesilao, cosi, affermava che nulla si può sapere, neppure ciò che Socrate s'era mantenuto (Cicerone, Va"o, IV, 13; XII, 46 e 44; si cfr. anche Lucullus, XXIII, dove sono an- cora citati Anassagora, Democrito, Empedocle, Socrate, Platone, e accanto a loro Metrodorò di Chio, Stilpone, Diodoro Crono, Alexino, i Cirenaici). Di qui, dunque, il valore dato all'opinione, alle discussioni dèlle opinioni, mediantt cui determinare ipotesi piu probabili di altre, in una continua apertura della ricerca, s1 che la ricerca stessa si costituisca come regola con cui individuare ciò che serve (bene) o non serve (male) alla vita, al convivere. Non sembra, perciò, un caso, secondo la testimonianza di Stobeo (Ecl., Il, 40), che Filone, in un suo libro sulla funzione della filosofia, paragonasse la filosofia alla medicina e il filosofo al medico, che sostenesse che la f).Inzione della filosofia consiste nell'av- 102    viare a purgarsi dalle opinioni unilaterali e perciò stesso false (I libro), determinando quindi i beni e i mali (II libro), quale possa essere il fine - cioè la felicità - cui l'uomo deve tendere (III libro), quali le varie forme di vita - per chi, in senso particolare; e come, entro i termini della convivenza politica, in senso generale, - quali, per l'uomo comune - per chi non è sapiente - i precetti e le regole da seguire (IV libro). Pur- troppo il rapido sunto dato da Stobeo e la frammentarietà degli Accademici di Cicerone - nei quali, sembra, si doveva trattare anche l'aspetto dell'etica di Filone - non permettono di renderei conto se sul piano pratico e accettando una verosimile ipotesi, che potesse inter- pretarsi in chiave platonica, Filone abbia proposto l'ipotesi stoica del- l'ordine entro cui tutto si scandisce ed entro cui ciascuno deve assu- mere il posto che gli spetta. Tale sembra l'interpretazione di Numenio (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 9, l) e di Agostino (Contra Ac., III, 18, 41), i quali sostengono che Filone dapprima nemico giurato degli stoici, sarebbe poi passato allo stoicismo (Numenio), riducendo lo stoicismo a platonismo (Agostino). Senza dubbio Cicerone (Varro e Lucullus), discorrendo dell'aspro conflitto che sarebbe scoppiato tra Filone e An- tioco di Ascalona, fa intravedere questo passaggio di Filone. Ad ogni modo, interessante sembra la notizia (Cicerone) che Filone avrebbe particolarmente sottolineato l'utilità pratica della piu generale tési stoica dell'ordine, quando da Atene (nell'88. circa, all'epoca della prima guerra Mitrìdatica) passò a Roma (da dove non si sarebbe piu mosso, e dove forse mori nel 79 circa), entrando in diretto. contatto con gli uomini che in quel tempo conducevano la politica romana. Secondo Cicerone, Filone, dopo essere giunto a Roma, scrisse un'opera in due libri, che pervenuta nelle mani del suo ex scolaro Antioco di Ascalona che, allora, si trovava ad Alessandria, ne suscitò grande indignazione. Mentre ero proquestore ·ad Alessandria - fa dire Cicerone a Lucullo, che fu appunto ad Alessandria come proquestore nell'87, - con me era Antioco, egià prima di noi era giunto ad Alessandria Eraclito di Tiro, amico di Antioco, che per parecchi anni aveva studiato sotto Clitomaco e Filone: egli fu uomo di valore e celebre in questa filosofia, che, quasi abbandonata, torna oggi alla ribalta. Spesso ho ascoltato Antioco discutere con lui, ma, sempre, dall'una e dall'altra parte con dolcezza. Fu proprio allora che i due libri di Filone, recentemente portati ad Alessandria, per- vennero per la prima volta, tra le mani di Antioco. Quest'uomo, per na- tura dolcissimo (nulla avrebbe potuto essere piu mite di lui), violentemente si arrabbiò. Me ne sorpresi, ché fino ad allora non l'avevo mai visto in quelle condizioni. Appellandosi alla memoria di Eraclito, gli domandava se quei libri gli sembrassero di Filone, o se ma:i avesse ascoltato aualcosa di simile, sia da Filone, sia da qualche altro accademico. Eraclito diceva di no, ma riconosceva lo stile di Filone, né era possibile dubitarne. Erano presenti anche gli amici miei P. e C. Selio e Tetrilio Rogo, uomini dotti, i quali assicuravano di avere ascoltato a Roma sostenere quegli stessi prin- cipi da Filone, e che avevano copiato i due libri dal manoscritto dell'autore. Antioco trattò allora Filone ancora peggio e alla fine non poté tenersi dal pubblicare contro il suo maestro un libro intitolato Sosus (Cicerone, Lucullus, IV, 11-12). Antioco, nato ad Ascalona in Palestina (cfr. Strabone, XVI, 2, 29), tra il 140 e il 130 (di circa venticinque anni piu giovane di Filone), venuto ad Atene in gioventu, segu( per molti anni l'insegnamento di Filone, facendo parte dell'Accademia di cui difese con zelo le tesi fondamentali, discutendo particolarmente contro la posizione stoica di Mnesarco (successo nel 110 a Panezio nella direzione della Stoà) e di Dardano. Circa al tempo in cui Filone lasciò Atene (88 a. C.) per andare a Roma, Antioco lasciò Atene per recarsi ad Alessandria. Forse era passato prima per Roma. Certo si legò di amicizia con Lucullo. Nel 79 Antioco era ad Atene, scolarca dell'Accademia, e là lo ascoltll Cicerone, recatosi ad Atene al tempo della dittatura di Silla. Nel 74, quando Lucullo fu nominato console e condusse le truppe durante la seconda guerra mitridatica, che vittoriosamente per Roma si concluse con la battaglia di Tigranocerta (69 a. C.), Antioco segu( Lucullo in Siria. Mod nel 68 a. C. Senza dubbio Antioco, come risulta dal Lucullus di Cicerone - in cui da un lato per bocca di Lucullo si espone la tesi di Antioco, IV-XIX; e dall'altro lato si difende, per bocca di Cicerone stesso, la posizione di Filone e dell'Accademia in genere, XX-XLVII, - era passato da un atteggiamento piu strettamente critico, da una posizione vicina a quella di Carneade, di Clitomaco e di Filone (del Filone almeno del periodo di Atene) ad una posizione piu dogmatica, avvici- nandosi decisamente a tesi stoiche: anch'egli, sembra, al tempo in cui entrò in piu stretti contatti con l'ambiente romano e particolarmente con un uomo come Lucullo. La malignità di Cicerone, secondo cui alcuni avrebbero sostenuto che Antioco aveva abbandonati i suoi an- tichi amori e le tesi di Filone, quando anche lui ebbe scolari e sperll ch'essi in futuro sarebbero stati detti "antiocheni," è una malignità assai indicativa quando si pensi che i discepoli di Antioco erano soprat- tutto romani (cfr. Lucullus, XXII, 69-70). Curiosa sembra allora la rot- tura tra Antioco e Filone, se essa è dovuta, come pare, all'irritazione che Antioco provò per il passaggio da parte di Filone allo stoicismo, passaggio documentato dall'opera di Filone, scritta a Roma, giunta ad Antioco che si trO\'llva ad Alessandria. Antioco scrisse allora 11 ~osus, in cui, soprUtutto, secondo quanto riferisce Cicerone, cerca di demo- lire il motivo del "probabilismo" e della"sospensione." Gli argomenti contro la tesi del "probabile" e contro la "sospensione" ricalcano la linea con cui Zenone, Cleante, Crisippo, Antipatro di Tarso sostenevano la "fantasia catalettica" e l'"assenso" e con cui Platone, nel T~~teto, affermava che l'atto del giudizio è dovuto all'anima (Cicerone, Lucullus, VII, 19-22); ma ciò che piu colpisce è il fatto che secondo Antioco, il "probabile," l"'evidenza," non bastano per assicurare un certo fonda- mento a un certo tipo di vita, per convincere e persuadere a vivere secondo l'ordine del tutto. Ma è la conoscenza delle virtU che innanzi tutto ci assicura che molte cose possono essere percepite e comprese. In esse sole, diciamo, è la scienza: la scienza, secondo noi, è non solo comprensione degli oggetti, ma comprensione stabile e immutabile; lo stesso è per la saggezza, per l'arte di vivere, che ha in se medesima la propria invariabilità. Se tale invariabilità non implica alcuna percezione e conoscenza, io domando donde viene e come è nata... Perché l'uomo onesto s'imporrebbe (egole, anche severe, perché non tradirebbe il suo dovere o la sua fede, se non possiede alcuna comprensione, percezione, conoscenza, nulla che fondi le ragioni della sua azione? Sarebbe impossibile che si stimassero l'equità e la fede date ad un prezzo tale da non indietreggiare dinanzi ad alcun supplizio per osservarle, se non vi fosse assenso a realtà che possono essere false. Se la saggezza stessa ignora se è o no saggezza, come, prima di tutto, assumerà il nome di saggezza? E poi come oserà fare qualsiasi cosa, o agire con fiducia se non avrà nessuna idea certa da seguire? Poiché avrà dubbi sul termine e il fine dei beni, non sapendo a cosa riferirli, come potrà essere saggezza? È chiaro anche che bisogna stabilire un principio che la saggezza deve seguire, quando comincia ad agire, e che tale prin- cipio dev'essere conforme a natura. Se no, la tendenza (traduco cosf horml), mediante cui siamo mossi ad agire ed a cercare ciò che ci è sem- brato bene, non potrebbe esser messa in movimento. Ma la rappresentazione che la mette in moto deve dapprima apparire ed essere creduta vera, il che sarebbe impossibile se una rappresentazione vera non potesse esser distinta da una rappresentazione falsa. Come l'anima potrebbe essere spmta a ricercare un oggetto se non percepisse se l'oggetto che le appare è con- forme o estraneo alla natura?... Se la tesi di Filone fosse vera sopprime- rebbe interamente la ragione che è luce e fiaccola della vita. In ogni ri- cerca, è la ragione che offre il principio e che conduce la virtU al proprio bene, poiché la virtU non è che la ragione stessa fortificata da questa ri- cerca. Desiderio di conoscenza è la ricerca e scoperta è il fine della ricerca. Ma non si scoprono cose false; anche gli oggetti incerti non possono essere scoperti; si parla di scoperta quando certi oggetti ch'erano come racchiusi vengono messi in chiaro. Si comincia cos{ dalla ricerca e si finisce con la  105   percezione e la comprensione. La dimostrazione (in greco apoàèizis) è defin,ita "un ragionamento che conduce da oggetti percepiti ad oggetti che non lo erano" (Cicerone, Lucullus, VIII, 23-26). Su questa base, in effetto, si svolge tutta ·la critica di Antioco nei confronti degli ultimi Accademici e di ·Filone, per cui sembrerebbe che, alla fine, la ragione della rottura tra Antioco e Filone debba es- sere rintracciata nei due diversi modi di assumere la tesi dell'ordine: in Filone, come ipotesi probabile; in Antioco, come autentico fondamento, scientificamente determinabile, attrayer~ il procedimento conoscitivo impostato dagli Stoici. Secondo Antioco, perciò, non solo Filone; aveva tradito il suo primitivo atteggiamento, scostandosi dalla linea di Car- neade, di Clitomaco, dello stesso Carmada e di Metrodoro di Strato- Dica (ecco perché Antioco poteva dire che nel nuovo scritto di Filone,. giuntagli da Roma, non riconosceva piu il vecchio maestro), ma, assu- mendo la tesi stoico-platonica in forma ipotetica e probabilistica, distrug- geva quella stessa tesi, ché, potendo essere altrettanto probabile un'altra, tutte divenivano indifferenti, né piu, o l'una o l'altra, potevano spin- gere all'azione. Arcesilao aveva messo in discussione particolarmente lo stoicismo di Cleante (cfr. I vol.), cercando di mostrare la contradditorietà implicita nell'~ssumere la rappresentazione catalettica ad un tempo come rap- presentazione adeguata dell'oggetto che impressiona e come assenso, cioè giudizio. Posto, appunto, che la rappresentazione è di oggetti, la rappresentazione stessa non può essere giudizio, ché il giudizio si ha solo nella proposizione, e se la rappresentazione la poniamo nel senso di Cleante, evidentemente essa non è una proposizione, se mai un termine della proposizione. Impossibile l'assenso relativamente a ogni rappresentazione, ogni rappresentazione (non giudizio) si presenta vera tanto quanto ogni altra rappresentazione, per cui lo stesso giudizio che si determinerà nel costituire i nessi e le implicazioni tra le rappresen- tazioni (non a ca$0 Arcesilao fu avvicinato a Diodoro Crono e ai megarici), non potrà mai esser volto alle strutture e ai nessi in sé dd reale. Sul piano della verità, dunque, lo stesso stoico, se non vuol ca· dere in contraddizione è costretto a sospendere il giudizio, o a rima· nere in silenzio, e perciò stesso a ripiegare, nel campo morale, sul conveniente, sull'eulogon, o a rimanere inattivo. Se Arcesilao e, poi, Carneade (polemizzando con Crisippo) avevano svolto le loro discus- sioni sull'epoché per mettere in contraddizione i fondamenti della tesi stoica, senza di contro avanzare una loro propria posizione, con Metro- doro di Stratonica c con Filone si cercò di dare un valore positivo e non piu solo critico nei confronti dello stoicismo, al "probabile" carnea- 106    diano, assumendo, perché sia possibile l'azione una probabile ipotesi. E qui Antioco aveva buon giuoco: la tesi del "probabile," divenuta po- sitiva e non piu critica, poteva esser ricondotta alla prima tesi della sospensione del giudizio e perciò all'indifferenza di tutte le rappresen- tazioni, per cui si poteva ritorcere l'accusa fatta agli stoici, che cioè come gli stoici dovevano rimanere in silenzio e inattivi, cosi in silenzio e inattivi dovevano rimanere gli Accademici. Per venir meno all'una e all'altra accusa, Antioco, riallacciandosi all'interpretazione che della fantasia catalettica di Zenone aveva dato Cleante, e cioè che la rap- presentazione coincide esattamente con il rappresentato e che perciò i nessi tra le rappresentazioni ripercorrono i nessi tra le cose, giungeva, sia pur con altra terminologia (con terminologia stoica), a rifar sua la logica di tipo aristotelico, e, non rendendosi conto che, in effetto, la logica degli stoici era una logica "proposizionale" (di cui, invece, s'era reso conto benissimo Arcesilao criticando creante), riduceva il discorso stoico sulla realtà in discorso di tipo aristotelico che, a sua volta, gli faceva interpretare Platone in chiave aristotelico-stoica. Quali sono le qualità che diciamo percepite dai sensi, tali, di conseguenza, e cose di cui non si dice che sono direttamente percepite dai sensi, ma :he in un certo qual modo lo sono: "questa cosa è bianca, quella dolce, ~uesta emette suoni, un'altra è odorosa, altra ancora è aspra": tutto ciò lo afierriamo con un atto di comprensione dell'anima, non mediante i sensi. E poi: "è un cavallo, è un cane." Poi si passa, per il resto, ad una serie ~he collega insieme i caratteri piu salienti, come quelle proposizioni che abbracciano una percezione completa di realtà: "se è uomo, è animale mor- tale partecipe di ragione." Di questo genere sono le nozioni delle realtà impresse in noi e senza di cui ogni intelligenza, ogni discussione, ogni problema sono impossibili. Se tali nozioni (in greco ennoiaz) fossero false o impresse in noi in rappresentazioni tali che le vere non potessero essere distinte dalle false, come potremmo usarne? Come potremmo vedere quel che si accorda e quel che non si accorda con una cosa? E alcun luogo sarebbe lasciato alla memoria, che tuttavia è di fondamento, a un tempo, non solo della filosofia, ma di tutta la vita e di tutte le arti..Come potrebbe esserci, infatti, memoria di cose false? Ci si ricorda di ciò che non si è \'eracemente afferrato con l'anima?... (Cicerone, Lucullus, VII, 21-22). Antioco cosi, poiché il criterio stoico dimostrava, secondo lui, la coincidenza tra strutture della ragione e strutture della realtà, cui si giunge mediante le percezioni, sosteneva che, in effetto, gli stoici ave- vano servito, approfondendo la genesi del processo conoscitivo, a dar conto della tesi platonica, secondo cui l'ordine del tutto è razìonale e coincidente con le strutture del pensiero, onde l'indirizzo dato all'Ac-  107   cademia da Arcesilao prima (media Accademia), aveva cosutulto un vero e proprio tradimento del piu genuino pensiero di Platone, che, ora, Antioco, attraverso gli stoici e i peripatetici, voleva restaurare in funzione anche della vita associata e della moralità, non a caso rial- lacciandosi a Senocrate, Crantore, Polemone. Sembra allora chiaro, di qui, come Antioco interpretasse le tesi platoniche del tutto ordinato e dell'"anima mundi" (Timeo) e la tesi aristotelica della realtà tutta in atto, nel suo scandirsi in atto-potenza- atto, sulla linea di Zenone-Cleante, accantonando, d'altra parte, in questa, a sua volta, interpretazione dello stoicismo in chiave platonico-aristo- telica, certe tesi piu propriamente stoiche, come quella della confliJgra- zione, probabilmente anche per influenza degli stoici Boeto di Sidone, Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia (la stessa attività divina che farebbe dopo la conflagrazione? E ammessa la conflagrazione, non ammetteremmo corruttibile l'incorruttibile divinità?: cfr. Filone l'Ebreo, De aeternitate mundi, 54), ma derivandone, attraverso le conces- sioni fatte proprio dagli ultimi stoici al rigidismo morale primo, una propria interpretazione dell'imperativo stoico: "vivi secondo natura." E ora, entro il quadro che siamo venuti delineando, assume un suo particolare significato l'esposizione che per bocca di Varrone, Cicerone (Varro) fa della posizione di Antioco, che scaturisce dall'interpreta- zione che ·Antioco dava della vecchia Accademia, di Aristotele e degli Stoici. Per influenza di Platone, vasto, diverso, ricco, si costitu{ una forma di filosofia una e identica sotto una doppia denominazione, cioè la filosofia degli accademici e quella dei peripatetici. Essi, d'accordo sul fondo delle cose, non differiscono che per il nome. Infatti, se Platone lasciò, per cos{ dire, l'eredità della sua filosofia a Speusippo, figlio di sua sorella, i suoi discepoli piu brillanti per il sapere e per la dottrina furono Senocrate di Calcedonia e Aristotele di Stagira... Gli uni e gli altri, completi della fe- condità di Platone, formarono un sistema ben determinato, ricco e com- piuto ad un tempo. Accantonarono il socratico dubbio esteso a tutte le cOse e la consuetudine di Socrate di discutere senza nulla affermare. Cosf av- venne ciò che Socrate non approvava affatto, che cioè la filosofia si costituf in un'ane, in un ordine delle cose (ordo rerum), in una dottrina (descrip#o disdplinae). In principio tale filosofia fu unica, anche se sotto due nomi, ché non vi era alcuna differenza tra i peripatetici e l'antica Accademia... Stabilivano la stessa distinzione tra ciò che si deve ricercare e ciò che si deve sfuggire. Triplice fu la ragione del filosofare ricevuta da Platone: la prima trattava della vita e dei costumi; la seconda della natura e delle cose occulte; la terza del ragionamento e del giudizio che discerne il vero dal falso, i termini giusti da quelli che non lo sono, l'accordo e la repu- gnanza dei termini. 108    Nella prima parte, per apprendere a ben vivere, ci si rivolgeva alla natura, ci si raccomandava di obbedirle: in nessun'altra cosa, se non nella natura, va ricercato quel sommo bene, cui debbono riferirsi tutte le nostre azioni~ Stabilivano che l'estremo termine delle cose da desiderare, il fine dei beni, consiste nell'aver ricevuto dalla natura tutto ciò che è necessario all'anima, al corpo, alla vita. Dei beni del corpo, poi, ponevano gli uni nel complesso, gli altri nelle parti: nel complesso la salute, la forza, la bellezza; nelle parti l'integrità dei sensi e i vantaggi collegaù a ciascuna delle parti del corpo, come l'agilità per i piedi, la forza per le mani, la chiarezza per la voce, e per la lingua chiara scansione dei suoni. Dicevano beni dell'anima tutto ciò che serve a far penetrare la virtu nell'ingegno, e riferivano gli uni alla natura gli altri ai costumi. Della natura ritenevano proprie la prontezza nell'apprendere e la memoria, ambedue dipendenù dall'attività della mente e dell'ingegno. Ai costumi attribuivano i nostri interessi, e, per cos{ dire, le nostre consuetudini, le quali in parte si for- mano con un assiduo esercizio, in parte con la ragione... Tali sono, dunque, i beni dell'anima. Quelli della vita (terza specie) consistono in certe ag- giunte che possono facilitare la praùca della virtu. Infatti la virtu (del- l'anima e del corpo) si mostra anche ill" alcuni vantaggi che non dipendono tanto dalla natura, quanto da una vita felice. Affermavano perciò che l'uomo è membro della città e del genere umano, è cioè unito ai suoi simili mediante il vincolo dell'umanità. Ecco ciò che pensavano del sommo e naturale bene, cui riferivano tutti gli altri beni che servono ad accrescerlo o a conservarlo, sf come le ricchezze, la potenza, la gloria, la grazia. In tal modo ponevano tre specie di beni... Questa teoria comprendeva l'ob- bligQ di condurre una vita attiva e la fonte del dovere stesso: in altri ter- mini, raccomandava di obbedire ai precetti della natura... Della natura poi (questo seguiva) dicevano ch'essa va ricondotta a due principi: l'uno efficiente, l'altro, per cosi dire, che si offre all'azione modifi- catrice del primo. Nella causa efficiente, vedevano una forza; l'oggetto sot- tomesso alla sua azione era una specie di materia. Ad ogni modo non concepivano l'una senza l'altra, ché le parti della materia non sarebbero coerenù se non fossero trattenute da una qualche forza, e la forza non può trovarsi fuori della materia, poiché tutto ciò che è deve essere in qualche parte. Tale unione dei due principi la chiamavano corpo, o qua- lità. Di queste qualità le une sono primarie, le altre derivate da queste. Le qualità primarie sono uniformi e semplici; quelle che ne derivano varie e, diciamo, multiformi. Cosi l'aria..., il fuoco, l'acqua e la terra sono qualità primarie;. da esse sono scaturite le forme degli animali e di tutte le cose che la terra produce. Per ciò si chiamano principi e, per tradurre il termine greco, elementi. Ve ne sono due, l'aria e il fuoco, che hanno in sé forza motrice ed efficiente; le altre, cioè l'acqua e la terra, ricevono e patiscono in un certo qual modo l'azione di questa forza. Aristotele poneva un quinto elemento di cui erano formati gli astri e le anime, avente una sua essenza e che differisce dalle quattro di cui sopra. Ma subietta a tutte le modificazioni suppongono una certa materia non  109   avente alcuna specie e sprovvista di qualità, di cui tutte le cose sono espres- sione, di cui tutte sono fatte, sostanza di tutti i fenomeni, che può essere modificata in tutti i modi e in tutte le sue parti: donde segue che, per essa, perire non è affatto annièntarsi, ma scomporsi nelle sue parti, che possono essere tagliate e divise all'infinito, poiché nulla v'è in natura di s{ piceòlo che non possa essere diviso. Aggiungono che i corpi che sono mossi percor- rono intervalli ugualmente divisibili all'infinito. [Da tal moto e dalla mate- ria sorgono i fenomeni che abbiamo chiamati qualità], che, nella natura giustapposta e continua, hanno formato il mondo con le sue diverse parti. Fuori del mondo non v'è alcuna particella di materia, nessun corpo. Chia- mano parti del mondo tutti gli esseri di cui si compone e che sono tenuti insieme dalla natura senziente, in cui risiede la ragione, che eternamente dura, poiché nulla vi è di pio forte che possa distruggerla. Dicono che questa forza è l'anima del mondo, essa stessa mente e sapienza perfetta: questo chiamano Dio, questa specie di prudenza che veglia su tutte le cose sottoposte al suo comando, che ha particolar cura del cielo e che, sulla terra, si occupa anche delle faccende umane. Talvolta chiamano questa forza necessità, perché nulla può essere altrimenti da ciò che mediante essa si è costituito, nella catena, per cos{ dire fatale e immutabile dell'ordine eterno. Altre volte, invece, la chiamano fortuna, poiché produce quell'in- sieme di effetti inattesi, che l'oscurità delle cause e la nostra ignoranza impediscono di prevedere. Peripatetici e accademici trattano quindi la terza parte della filosofia, la parte che ha per oggetto la ragione e la dialettica. Benché sorga dai sensi, il giudizio di verità non risiede nei sensi. Ritenevano che la mente fosse giudice delle cose: la consideravano come la sola degna d'essere cre- duta, perché solo essa contempla ciò che, sempre, è semplice, uniforme e tale quale è. Questa essi chiamavano idea, sull'esempio di Platone (e tale termine noi postiamo esattamente tradurlo con spedes) •..La scienza, se- condo questi filosofi, non riposa che sulle nozioni dell'anima e sui ragio- namenti. [L'opinione sulle sensazioni non illuminate dalle nozioni]. Per questo approvavano le definizioni delle cose, e le usavano in tutte le que- stioni controverse. Approvavano anche le spiegazioni delle parole, cioè le ragioni per cui un certo termine era stato applicato a un certo oggetto,. il che chiamavano etimologia. Infine, prendendo per guida gli argomenti, quasi segni infallibili delle cose, giungevano alla prova e alla conclusione di ciò che volevano chiarire. In questo consisteva tutta l'arte della dialettica, l'arte in virtU della quale la ragione deduce conseguenze. Insieme alla dia- lettica, quasi frontalménte ad essa, facevano progredire l'arte oratoria, che consiste nello sviluppare tutto il seguito di un discorso composto in modo da persuadere..• [Chiarite le modifiche apportate da Aristotele e da Zenone di Cizio, si conclude, affermando]: penso come il nostro amico Antioco, che cioè nella fil~fia di Zenone va veduta una leggera riforma della vec- chia accademia piùttosto che una nuova dottrina... (Ci~rone, Van-o, IV-XII). Varrone, Cicerone e la funzione della cultura A parte Antioco, o chi per lui, il testo di Cicerone sopra riportato non ha tanto importanza se considerato a sé, quanto perché in esso è chiaramente delineata una concezione che sembra oramai divenuta comune, e che, indipendentemente dalle singole discussioni delle scuole . su singoli argomenti ed aspetti, assume significato in quanto viene a costituire un sistema di sfondo, una visione abbastanza generale e ge- nerica (divinità, ordine .dei cieli, mondo nella sua totalità, uomo e uomo che in quell'ordine del tutto trova i principl, la regola della vita) che serva da prima ed elementare cultura. Si capisce come qui giuo- cassero, di là dai loro contesti, testi singoli di Platone (dal Sofista al Timeo), dell'Epinomide, del primo Aristotele, gli aspetti pio generici della fisica stoica, in un tutt'uno abbastanzà· coerente che costituiva questa specie di religione cosmica entro cui dare forma all'ideale di un certo tipo di vita, proprio della classe colta e' dirigente. È stato giustamente detto che tale religione del Mondo trascende ormai le dottrine di scuola per ~ivenire il bene comune di ogni per- sona che abbia partecipato della b "paideia" greca : "oggi, diremmo, che abbia seguito il suo bravo corso scolastico" (Festugière, La révélation d'Hermès Trismegiste, II, p. 343). Non solo, ma non poco in- dicativo sembra il fatto che tali sintesi (di cui già in Cicerone si riflette l'esposizione manualistica da un lato, dall'altro lato la presentazione per argomenti) siano state compilate dai loro autori quando, usciti dai propri diretti impegni nelle loro singole scuole, sono entrati in contatto con la classe colta e dirigente del mondo romano, rispondendo evidentemente a ben precise richieste e .dando ad esse. chiarificazione e consapevolezza, in un arco che va da Polibio a Panezio ad Antioco e Filone. Per altro verso, invece, in seno alle scuole (particolarmente di Atene: Accademia, Stoà), si discutevano singoli problemi, donde il nascere, poi, ad uso delle scuole stesse, di manuali in cui - ad esempio per la scuola stoica - si elencavano questioni di morale, modi diversi di vita a seconda delle singole situazioni, sistemazioni delle ricerche della scuola sul linguaggio e sulle tecniche del dire (cfr. Diogene di Babilonia, Antipatro di Tarso, Cratete di Mallo, che insegnò a Per- gamo), introduzioni generali alla. stessa dottrina (cfr. Apollodoro di Sdeucia); oppure - per l'Accademia e ad uso delle discussioni - si elencavano le opinioni diverse intorno alle piu varie questioni, le ptolte sentenze da sottoporre a problemae cos1 via (si cfr., ad esempio, il sopracitato Clitomaco). Tutto ciò, fuori dalle singole scuole, fuori da precise problematiche che rispondevano a specifica preparaziOne, as- "sunse entro l'àmbito della cultura romana, la funzione da un lato di  lll   introduzioni generali, dall'altro di manuali utili alla preparazione sulle singole materie. E quando si pensa alla classe che in Roma aveva in mano le redini del governo e al modo di funzionare della politica romana (non si scordi l'importanza che ebbero anche i processi), ci rendiamo conto del perché la maggioranza di questi manuali, di cui è rimasta me- moria, o siano manuali d'introduzione (dacxyoylj, eisagoghè} alla filosofia (intesa come concezione culturale generale) o manuali di retorica, di dialettica, o esposizioni di una certa· serie di opinioni o sentenze su singoli problemi (non a caso in quest'epoca, 1 a.C., si formarono i cosiddetti Vetusta Placita, una epitome in sei libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, che sembra siano usciti dalla scuola di Posidonio), o manuali di morale e di casistica morale (si vedano sopra i titoli delle opere di Ecatone di Rodi) cui vanno aggiunti, entro i termini di una preparazione generale, manuali divulgativi intorno alle singole scienze (particolarmente di astronomia, di agricolt_ura, di storia naturale), cui potevano servire i clo~ti acquisiti e le si~gole ricerche dei grandi scien- ziati del m e del u secolo. E se è vero che tali Introduzioni e Manuali servivano già per i giovani greci, che venendo alle scuole di Atene, di Alessandria o di Pergamo, non aspiravano certo a loro volta alla professione dei loro maestri, ma a formarsi, appunto, una cultura ge- nerale che servisse poi loro ad aprirsi l'accesso ai posti che offriva l'amministrazione dei singoli regni, ciò è tanto piu vero per i giovani romani avviati alla carriera politica, nel disfacimento di quei regni stessi. Le discussioni svoltesi in seno all'Accademia e alla Stoà, partico- larmente in quest'ultima, per ciò che riguarda i modi di vita, le posi- zioni di Panezio, di Posidonio, di Filone e di Antioco, le introduzioni e i manuali, le dossografie e le esposizioni di singole questioni, si ri- flettono in Cicerone.2 Chiaramente, anzi, attraverso gli aspetti piu 2 Di antica famiglia di possidenti, appartenente all'ordine dci cavalieri, Marco Tullio Cicerone nacque ad Arpino, in un'antica villa dci suoi antenati, il 3 gennaio dd 106 a. C. Giovanissimo, insieme al fratello Quinto, Marco Tullio Cicerone fu condotto dal padre a Roma pcrch~ vi avesse la migliore istruzione. Sotto la guida dell'oratore Lucio Licinio Crasso ebbe a insegnanti i maggiori maestri greci allora in Roma. Avuta nel 90 la toga virile, CiccJ:one prese pane alla guerra Marsica, comandata da Pompeo Strabone. Tor- nato a Roma prosegui i suoi studi sotto la guida di Filone di Larissa, scolarca dell'Acca- demia in Atene fino all'88, stabilitosi a Roma dopo 1'88, c sotto la guida del retore Molonc di Rodi, mentre, in casa, aveva come precettore lo stoico Diodoto, che in casa di Cicerone moti nel 49 a. C. Ristabilitosi con Silla dittatore un relativo ordine, Ciocrone si dette alla carriera oratoria, trattando cause civili c subito dopo penali. Dell'SI ~ l'ora- zione a favore di Publio Quinzio, dell'SO l'orazione a favore di Sesto Roscio accusato di parricidio. Preoccupato per avere difeso Sesto, contro le accuse di Crisogono potente libcrto di Silla, Cicerone si allontanò da Roma, per un viaggio di "perfezionamento" 112    problematici deil'opera di Cicerone, si delineano alcune grandi conce- zioni, entro il quadro di quelle visioni d'insieme, di cui parlavamo, e che, appunto mediante le discussioni delle Scuole, i manuali, le in- in Grecia. In Atene ascoltò lo scolarca dell'Accademia, Antioco di Ascalona, successo a Filone di Larissa, il retore Demetrio Siro, gli epicurei Fedro e Zenone. Lasciata Atene, visitò le scuole di retorica in Asia e fu, quindi, a Rodi dove s'incontrò di nuovo con Molone di Rodi e dove conobbe Posidonio. Nel 77 era di nuovo a Roma, "non solo piu esercitato, ma quasi mutato" (Brutus, 89 sgg.). Cicerone, che nel frattempo aveva spo· sato Tercnzia, tornò alla carriera oratoria. Nominato questore nel 75, ebbe la provincia Lilybacum in Sicilia, che tenne con molta abilità e moderazione. Ritornato a Roma, nel 71 intentò il celebre processo contro Verre che nei suoi tre anni di pretura siciliana (73-71) 11veva saccheggiata la provincia. Nel1 .69 fu eletto edile curule, nel 66 pretore urbano. Disse allora la sua prima orazione politica (D~ imperio Gnaei Pomp~i). Nd 63, insieme a Gaio Antonio fu eletto console, con l'aiuto degli ottimati, difendendo poi il partito degli oligarchi contro quello dei popolari e di Cesare, con quattro orazioni contro il disegno di legge agraria proposto dal tribuno della plebe Rucio Servilio Rullo. Fu poi la lotta contro Catilina e la lotta a favore di Murena. Se è vero che durante il suo con- solato Cicerone aveva reso grandi servigi al partito degli ottimati, è altrettanto vero, come è stato detto, ch'egli aveva abusato del potere mandando a morte cittadini romani senza regolare giudizio. Avvenuto l'accordo di Pompeo con Cesare e Crasso (80), Cice- rone si trovò isolato, sotto l'accusa di Publio Clodio, che passato ai plebei, nella sua qualità di tribuna della plebe, nel 59 promosse una legge contro coloro che avevano fatto uccidere un cittadino romano senza regolare condanna. Cicerone allora (marzo 58) si allontanò da Roma,. mentre Clodio faceva decretare l'esilio di Cicerone e l'ordine di distruzione della sua casa di Roma e delle ville di Tuscolo e di Formia. Cicerone si recò a Brindisi, a Tessalonica e quindi a Dirrachio. Nel 57, il console dell'anno, su proposta di Pompeo, revocò l'esilio di Cicerone, sostenendo ch'egli aveva agito per il bene della Repubblica. Cicerone tornò a Roma in trionfo, pronunciò ~razioni di ringraziamento dinanzi al Senato e al popolo e riusd a farsi ricostruire a spese pubbliche le sue case. Legato a Pompeo, Cicerone che non era piu appoggiato dal Senato, cercò da ora in poi, appoggi e forza presso i potenti dell'ora, difendendo amici e fautori, accusando nemici c gente che potevano metterlo in pericolo. Con molta intelligenza e moderazione resse il proconsolato in Cilicia nel 51. Tornato nel 50 a Roma si trovò in piena lotta tra Pompeo c Cesare. Titubante dapprima, si decise poi a seguire Pompeo c fu con lui in Oriente. Malato, non combatté a Farsaglia (48) e, dopo la fuga di Pompeo, rifiutato il comando della flotta, si recò a Brindisi, dove attese Cesare. Appena Cesare sbarcò (47), Cicerone gli andò incontro. Cesare smontato da cavallo si accompagnò a Cicerone. Tornato a Roma si ritirò dalla vita politica. Ucciso Cesare nel 44, Cicerone pronunciò in Senato un'orazione in favore di una pacificazione c di un'amnistia generale. Marco Antonio invece eccitò il popolo contro i congiurati. Anche Cicerone fu costretto a fug- gire d" Roma. La sua lotta contro Antonio è affidata alle celebri Filippiche. Giunto a Roma Ottavio, che assunse, in qualità di crede di Cesare, il nome di Cesare Ottaviano, Cicerone tornò a Roma sperando che Ottaviano salvasse la Repubblica, mantenendo la sua linea politica di difesa del Senato e degli Ottimati. Ma Ottaviano si accordò con Antonio e Lepido, proclamandosi triumviri uipublicae costituendae per cinque anni, riserbandosi ciascuno il diritto di proscrivere i propri avversari. Cicerone fu proscritto da Ant<.onio. Fuggito da Rom.., si rifugiò nella sua villa di Astura presso Gaeta, ovc raggiunto da sicari di Antonio, venne ucciso il 7 dicembre del 43. Se le orazioni di Cicerone, seguite cronologicamente segnano le tappe della sua attività politica, le altre opere di lui segnano l'arco su cui si venne scandendo il suo pensiero, i momenti diversi della sua problcmatica e dei suoi fini, di cui specchio sono le stesse tecniche oratorie di volta in volta usate. In realtà impossibile è una divisione  113   traduzioni, si c9stituiscono in funzione di certe esigenze proprie del mondo romano. E quando diciamo mondo romano, non intendiamo qualcosa di compatto. Tutt'altro: un mondo culturalmente in fieri, delle opere di Cicerone in retoriche, filosofiche, storiche. Diamo qui, per utilità, l'elenco cronologico delle opere fisolofico-retoriche e delle orazioni. IOpt!re retorico-filosofiche Traduzione dell'Economico di Senofonte (85 a.C.: ne restano alcuni frammenti); traduzione dei Fenomeni di Arato (84 circa: ne restano alcuni frammenti); De inven- tione rhetorica (80: in 2 libri; tentativo di sistemazione delle tecniche retoriche); De Oratore libri 111 (55: si dà, oltre alle tecniche, valore alla cultura in un solo nesso di filosofia e di eloquenza); De Republica (in 6 libri, composto tra il 54 e il 51: doveva includere 9 libri. Il dialogo si suppone avvenuto nel 129 ed ha per principali interlo- cutori Scipione Emiliano e C. Ldio. Resta una parte del VI libro, andata sotto il nome di Somnium Scipionis; possediamo inoltre citazioni e riassunti di Lattanzio e di S. Ago- stino, alcuni frammenti scoperti da A. Mai in un palinsesto vaticano. Nel l libro dopo avere discusso della natura dello Stato e della sua origine, e dopo aver passato in rassegna le tre forme di reggimenti politici tradizionali, monarchia, oligarchia, democrazia, e delle loro degenerazioni, si sostiene che ottima è la costituzione romana; nel n libro si fa vedere come si è realizzata la costituzione di Roma; nel III libro si dimostra che non c'è Stato senza giustizia; nel IV libro si chiariscono i fondamenti istituzionali senza di cui non vi sarebbe vita morale; nel. V libro si delinea quale debba essere la figura dd reggitore, del rector rerum publicarum; nel VI libro si doveva· definire il princeps: ne è un saggio il somnium Scipionis); De Legibus (composto tra il 53 e il 51, fu pubbli- cato, sembra, nel 46; doveva essere in 5 o 6 libri; ne restano 3. Il dialogo si finge tenuto ad Arpino, nel 52, presso il fiume Fibreno e il fiume Liri; principali interlocu- tori sonò lo stesso Cicerone, il fratello Quinto e Attico. Nel I ·libro si discute e si defi· nisce il diritto naturale e il significato da dare alla legge; nel Il libro si dichiara che le leggi civili debbono avere a loro fondamento le leggi naturali; si discutono poi le leggi religiose; nel III libro si discutono le leggi dei magistrati; il IV e il V libro dove- vano trattare dei giudizi e dell'educazione); Brutus o De claris oratoribus in un libro (composto nel 46: il dialogo, che ha per principali interlocutori Cicerone stesso, Bruto e Attico, è una specie di storia dell'eloquenza romana, culminante in Antonio, Crasso e Ortensio); Orator (del 46: vi si delinea il ritratto dell'oratore perfetto secondo Cicerone, filosofo ed oratore ad un tempo); De optimo gent!re oratorum (del 46: è un'introdu- zione alle traduzioni latine, andate perse, che Cicerone fece dell'Orazione di Eschine contro Ctesifonte e dell'Orazione di Demostene per la Corona); Paradoza Stoicorum (del 46: elenco di tesi retoriche tratte da tesi stoiche in funzione di discussioni sulla morale); Hortensius (perduto, ma noto fino all'xi secolo: ne restano frammenti e testi· monianze. Doveva essere una specie di grande introduzione alla filosofia inspirantesi al Protrettico di Aristotele. Servi nelle scuole eome introduzione alla filosofia. Fu composto, sembra, tra il 46 e il 45); De partitione oratoria (45 circa: opera a carattere tecnico e istituzionale); Consolatio (perduta: ne abbiamo qualche frammento citato da Cicerone stesso e da Lattanzio. Fu sc:Ìitta nel 45 per consolarsi della morte della figlia Tullia); Academici libri (Cicerone ne stese due redazioni: gli Academica priora in 2 libri e gli Academica posteriora in 4 libri; degli Academica priora il l libro, o Catulus, è per- duto, il n libro, o Lucullus, si è salvato; degli Acllliemica posteriora si è salvato il l libro, o Varro; abbiamo alcuni frammenti e testimonianze degli altri libri. Furono scritti nel 45. Vi si espone criticamente la storia del pensiero degli Accademici e in pa'licolare il pensiero di Filone di Larissa e di Antioco di Ascalona); De finibus bonorum et malorum libri V (dd 45; in tre dialoghi - il primo dialogo abbraccia il l e il n libro; il secondo dialogo il III e IV libro; il terzo dialogo il V libro. Nel l libro C. L. M. Torquato espone la tesi epicurea secondo cui il bene sta nel piacere; nel n libro Cicerone confuta la tesi epicurea; nel III libro Catone espone la tesi stoica secondo cui il bene consiste nella virtU e tutti gli altri cosiddetti beni sono indifferenti; nel IV libro 114    ove la grande espansione e le conquiste presentano problemi nuovi, economici e sociali, per cui lo stesso modo antico di governo entra in crisi, in cui la classe senatoriale e, ormai, quella degli uomini nuovi Cicerone confuta la tesi stoica sostenendo che nulla di nuovo se non nelle espressioni. hanno detto gli Stoici, rispetto ai platonici e agli aristotelici; nel V libro si espone la dottrina degli· Accademici, o meglio quella di Antioco); Tusculanae Disputationes libri V (del 45; sono una prosecuzione del De finibus; si rivolgono ad un pubblico piu esteso che non il De finibus, e, questo, forse, spiega il maggior peso dato all'ideale dd saggio stoico: nel I libro si dimostra che il saggio non teme la morte, nel II che non teme i dolori del corpo, nel III e nel IV che è alieno da ogni passione, nel V che uno è il bene, la virtu, in senso strettamente stoico); traduzioni del Protagora e del Timeo di Platone (45 circa); De natura deorum libri Ili (composto tra il 45 e il 44: nel I libro Velleio epicureo espone la tesi di Epicuro sulla divinità, confutando le tesi di Platone e degli Stoici ed esponendo le varie teorie sugli dèi da Talete a Diogene di Babilonia; Vdleio viene quindi confutato da Cotta; nel II libro Balbo espone la tesi stoica sul divino; nel III libro, di cui sono andate perdute alcune parti, Cotta confuta la tesi stoica sia relativamente alla natura degli dèi, sia al loro governo sul mondo, sia al loro inte- ressamento per gli uomini. Cicerone, infine, sostiene ch'egli attraverso la sua posizione accademica, ritiene opportuno optare per la tesi di Balbo); De senectute o Cato maior (composto tra il 45 e il 44, probabilmente finito prima del De natura deor., del De divinazione e del De fato; il dialogo si finge tenuto nel 150 tra Catone il Censore, ottantaquattrenne, Scipione Emiliano e C. Lelio, ed ha per oggetto la difesa della vecchiaia; la prima ispirazione è probabilmente dovuta al I libro della Rep. di Pla- tone); De divinazione libri Il (del 44; si riallaccia al De nat. deorum, per confutare la tesi stoica della divinazione. Il dialogo si svolge tra Cicerone e il fratello Quinto. Nel I libro si espone la storia e la critica della divinazione, implicante una ferrea ne- cessità. Quinto si dichiara favorevole alla tesi stoica; nel II libro Cicerone confuta la tesi stoica); De fato (scritto dopo la morte di Cesare, 44, nel De fato si discute a fondo la questione del rapporto necessità-libertà, rifiutando sia la tesi epicurea che quella stoica); Laelius de amicitia (del 44; il dialogo si finge avvenuto nel 129 in casa di Lelio all'indomani della morte dell'amico di Lelio, Scipione Emiliano); Topica (scritti nel 44, durante un viaggio per mare da Velia a Reggio; è un'opera di logica formale e di tecnica retorica); De officiis libri Ili (composti sulla fine del 44; vi si tratta dei doveri medi, in una rielaborazione dell'opera di Panezio intitolata IItpl "tOÙ Xct&-l)xov-ro~. Nel I libro si delinea in che consiste l'honestum, nel II in che consista l'utile, nel III si chiariscono i conflitti tra honestum e utile); perduti sono andati, oltre I'Hortensius, il De gloria e il De virtutibus, ambedue del 44. II. - Orazioni Pro Quinctio (81); Pro Seztio Roscio (80); Pro Q. Roscio (76); Pro M. Tullio (72-71: non completa); Verrine (70; dalla Divinatio in C. Verrem al Proemium actionis in Verrem alle 5 accusat. in C. Verrem); Pro M. Fonteio, Pro .Aula Caecina (tra il 69 e il 67); Pro lege Manilia o De imperio Gn. Pompei (66); Pro .A. Cluentio (66); De lege agraria contra P. Servilium, De lege agraria ad. pop. Romanum contra Rullum (63); Pro C. Rabirio (63); In Catilinam (63); Pro L. Murena, Pro L. Fiacco, Pro P. Sulla, Pro .A. Licinio .A.rchia poeta (63-62); .Ad Quirites post reditum suum (57); Post reditum in Senatu (57); Pro domo sua a d Pontifices (57); De haruspicum responsis in Senatu (56); Pro Cn. Plancia, Pro P. Seztio, In P. Vatinium, Pro M. Coelio, Pro Lucio Corn. Balbo, Oratio de provinciis consularibus (56); In L. Calpurnillm Pisonem (55); Pro T. Anneo Milone (52), Pro C. Rabirio postumo, Pro M. Marcello, Pro Q. Ligario ad Caesarem, Pro rege Deiotaro (50-45), Filippiche (14 orazioni in M. Antonium, del 44). ·si ricordano, infine, . gli epistolari ciceroniani, raccolti, probabilmente, fin dal 46, dal dotto liberto di Cicerone, Tirone (Epistolarum libri XVI ad familiares, Ep. libri XVI ad Atticum, Ep. libri Ili ad Cicer. fratrem, Ep. ad Brutum) ed alcune opere storiche e poetiche andate perdute, ma, sembra, di nessun valore.  115   tentano di mantenere il proprio potere o di rinnovarsi - non senza grossi contrasti interni - senza perdere le proprie prerogative, cer- cando anche, per la propria opera o la propria azione, giustifica- zioni ideali. La prima concezione, d'ordine· generale (trascendendo le singole scuole e le loro piu profonde differenze), quale appare attraverso l'opera di Cicerone, è quella delineata come di Antioco: visione di un tutto ordinato, gerarchicamente scandentesi, ove il divino è la stessa ragion d'essere che fa s( che ogni cosa si articoli all'altra, in una sola unità vivente e razionale che su tutto si diffonde (anima mundt) e per cui ciascuna cosa ha la sua ragione (l6gos). Entro questi termini, in cui si fondevano aspetti platonici (doH'ultimo Platone) e stoici (particolar- mente la dottrina del principio attivo e del principio passivo, del l6gos e dei l6goi, della provvidenza, della legge, e la possibile interpre- tazione di tali dottrine, il cui esito era una concezione legale del cosmo), e il cui arco va da Panezio ad Antioco di Ascalona, si vede bene il costituirsi di una concezione, la quale ideologicamente serv( a giustifi- care un certo modo di intendere la politica e il mos, quali vennero attuati sull'esempio di Scipione, dalla corrente senatoriale, che prese, appunto, le mosse da Scipione Emiliano. Non solo, ma tale concezione, sotto l'aspetto dell'armonia del tutto e della legalità del tutto, giustifi- cava da parte ~enatoriale l'istituzione di un certo "diritto" a diritto universale e la teorizzazione di un costume e di una libertà che veni- vano perciò assunti a costume, a bene, a libertà per tutti. Non poi molto lontana da questa, è un'altra dottrina che traspare da Cicerone, e che sembra sia stata messa a fuoco da Filone di Larissa. Identico lo sfondo e la strutturazione stoico-platonica, essa tuttavia sembra rispondere a una diversa esigenza, che rivela, di contro alla oramai sclerotizzatasi visione di certi conservatori piu rigidi, la possi- bilità di una maggiore duttilità di una discussione e convinzione che si realizzi retoricamente. Essa rivela cioè l'esistenza di gente che, pur legata alla carriera politica e alla corrente senatoriale conservatrice, si rende conto dei mutamenti avvenuti, che piu vivi sono i contrasti entro la stessa classe dirigente, nel venire alla ribalta di uomini nuovi e in una carriera politica alla quaie non si accede piu solo per nascita, ma anche da parte di chi ha rivelato le proprie capacità nei tribunali e nei processi. Pur optando per la visione di un tutto ordinato, tale strutturazione tuttavia viene assunta non come verità assoluta. Tale accettazione dogmatica, utile finché unica era la voce, diveniva estre- mamente debole, quando, in una discussione piu aperta si poteva di- mostrare che, portata alle estreme conseguenze, giungeva alla nega- zione proprio dell'azione (s( come avveniva in certe posizioni dello 116    stoicismo) e, alla fine, all'impossibilità del discorso e, perciò, ad esau- rire la propria forza di convinzione. Di qui, invece, l'assunzione di quella tesi, e oramai comune concezione, come ipotesi, come verità pro- babile: era cosr possibile la discussione, la contrapposizione di opinioni diverse, il muovere a quella piuttosto che ad altra posizione e azione, mediante le tecniche della convinzione, fino a porre quella struttura- zione del tutto e la relativa acquisita saggezza e modo di vita piu che come essere, come dover essere, come impegno di realizzazione. E allora accanto al recupero di certo platonismo, stoicismo, aristotelismo, si chiarisce il recupero di altri aspetti del platonismo, di quel plato- nismo che poteva essere interpretato, invece che come essere, proprio come dover essere, insieme al paradossale ideale del saggio stoico, anch'esso posto come dovere, onde la possibilità di una morale medi~. di una misura e di una convenienza tutte umane, che, in chi n'è ca- pace, possono servire come termini medi per raggiungere l'impossibile virtu perfetta, posta non come principio, ma come termine di realiz- zazione. Tale la via presa da Cicerone e tale il suo rifarsi a Filone di Larissa e all'Accademia, piuttosto che al rigido dogmatismo in cui era venuto sfociando Antioco di Ascalona. Se avessi abbracciato la filosofia dell'Accademia per ostentazione o per puro gusto di critica, penso che andrebbe condannata non solo la mia stol- tezza, ma anche il mio costume e il mio carattere. Ché se nelle piccole cose si biasima la pertinacia e si reprime lo spirito cavilloso, vorrei, allorché si tratta del fondamento e del fine della mia intera vita, entrare in conflitto con gli altri, o frustrare gli altri tanto quanto me stesso? Perciò, se non pensassi essere inconveniente in una tale discussione, fare quello che tal- volta si· fa quando si discutono le questioni dello Stato, giurerei per Giove e per gli dèi penati che brucio per scoprire la verità e che penso come parlo. E come non potrei desiderare di scoprire il vero, dal momento che provo gradimento se, su di un qualche punto, scopro il verosimile? Ma proprio perché giudico essere cosa bellissima contemplare la verità, ritengo vergognosissimo affermare il falso come se fosse una verità. Personalmente, certo, sono incapace di non affermare mai il falso, di non dare mai il mio assenso, di non avere mai un'opinione, ma qui si tratta del saggio. Quanto a me, faccio molte congetture (io non sono un saggio), e non mi volgo a quella piccola Cinosura [Orsa minore] "guida notturna cui si affidano i Fenici in alto mare," come dice Arato [Cic., Arat. frg. 7; cfr. Nat. deorum, 2, 106], i quali, tanto piu esattamente si dirigono, quanto piU, per la sua vicinanza al polo, "ha una breve rivoluzione," ma dirigo i miei pensieri verso I'Orsa maggiore e le chiarissime stelle di settentrione, cioè verso ragionamenti in forma larga e non minuziosamente limati. E per ciò mi capita di andare errando e di navigare nel vago. Ma, come ho detto, non si tratta di me, ma del sapiente. Quando, infatti, ciò che mi rappresento ha fortemente  scosso la mente e i sensi, lo accetto e talvolta anche gli do il mio assenso; tuttavia non lo percepisco; ché nulla ritengo si possa percepire. lo non sono un sapiente; per questo cedo alle rappresentazioni e non posso resistere loro. Arcesilao è d'accordo con Zenone, quando pensa che la piu alta forza del sapiente è di stare attento a non essere afferrato e a non essere ingan- nato. Nulla è infatti. piu lungi dell'idea che abbiamo della gravità· del sapiente che l'errore, la leggerezza, l'avventatezza... (Cicerone, Lucullus, xx, 65-66). Quando scrisse gli Accademici (nel 45 a. C.) Cicerone aveva ses- santun anni. In essi, per quel che n'è rimasto (Acad. post. lib" l, Varro; Acad. prior. lib. Il, Lucullus), alla posizione piu rigida e pio dogma- tica di Antioco di Ascalona, quale, d'altra parte, si rifletteva .nella posizione di Varrone reatino e di Lucullo, si contrappone nell'inter- pretazione del probabilismo di Filone di Larissa (cfr. sopra: si veda anche: "ci sono molte cose probabili, le quali, per quanto non colte in sé, tuttavia, dandoci una rappresentazione chiara e distinta, servono a regolare la vita del saggio": De nat. deorum, l, 12; anche Tusc. disp., V, 33, 82), una piu duttile concezione, passibile d'essere assunta in funzione retorica, avente per fine un certo tipo di politica. Cicerone era oramai giunto al pieno della sua maturità. Se considerati non a sé o come semplice fonte, ma nel complesso degli scritti di Cicerone, gli Accademici hanno un particolare interesse, in quanto chiariscono il doppio aspetto di tutto il pensiero ciceroniano: da un lato l'esigenza di una concezione filosofica, di una riflessione critica che renda conto, diciamo cosr, di una "saggezza teorica"; dall'altro lato, anche mediante quella saggezza, la capacità d'inserirsi nel mondo umano, per mezzo del- l'arte del dire, sr che quello stesso mondo umano si muova, scendendo, se si vuole, a compromessi, usando tutte le tecniche della piu scaltrita retorica. Può darsi che in Cicerone non vi sia una "filosofia," com'è stato detto, che in lui coabitino piu concezioni, non poche volte in contraddizione tra di loro, ch'esse siano state desunte, volta a volta, superficialmente, dai manuali e dalle sillogi, ma è anche certo che in Cicerone si riflette la problematica di un'epoca, o meglio di una certa classe di uomini, fluida e in lotta, in una certa epoca, nel suo tenta- tivo di determinare un modo di vita, che andando oltre l'assunzione della cultura come mezzo, facesse della cultura il fine, in una sintesi di scienza e retorica, in un pensiero che è davvero tale se è azione. Non è cosr un caso l'abile ripresa del motivo aristotelico ("e cosr - esclama Cicerone, - l'uomo, secondo Aristotele, è nato per due fini, comprendere e agire, come un dio mortale -- De finibus, II, 13, 40) di una ragione teoretica, di una ragione pratica e di una ragione poietica (cfr. I vol.), ove, relativamente alla retorica, essa, avendo per campo il mondo del possibile e non del necessario, fa tutt'uno con la dialettica. Certo, per intendere la-funzione mediatrice di Cicerone, il tipo ideale di vita da lui affrescato, il significato da lui dato alla cultura e perciò al rapporto filosofia-retorica, cioè la prospettiva di una poli- tica illuminata, capace di inserirsi volta per volta nel contrasto degli avvenimenti, vanno tenuti presenti i momenti estremamente gravi della storia e della politica di Roma durante l'arco della vita di Cice- rone, dal 106 al 43 a. C. È storia troppo nota per farne cenno qui. Non vanno comunque scordate le alleanze e le rotture tra uomini in lotta, i conflitti tra i "populares" e gli aristocratici, e in seno agli aristocra- tici le lotte in nome del popolo o del senato che gli stessi aristocratici e i cavalieri ebbero tra loro, pur di assurgere al potere. Entro questi termini si vede bene il tentativo di Cicerone di ostacolare l'affermazione singolare dell'uno o dell'altro personaggio - non a caso Cice- rone fu in contrasto con Pompeo e con Cesare, - in nome di un ordine e di una legalità che conservasse quella res-publica quale si era deli- neata attraverso Scipione Emiliano, ch'era poi il tentativo di mante- nere un ordine in cui si determinasse la libertà d'azione piu che degli aristocratici o dei popolari, degli optimates. "Tutti sanno," ha scritto giustamente La Penna, "di qual largo favore godette nell'ultimo se- colo della repubblica romana lo slogan della libertas: uno slogan usato da parti opposte, con contenuto diverso e indefinito, uno slogan pluri- valente quasi quanto la libertà e la democrazia di oggi. Tutti por- tiamo dalla scuola, che spesso campa di sostrati remoti di cultura, l'immagine di Catone e di Bruto morenti per la libertà, benché a quasi tutti gli storici sia ormai chiaro che quella libertà era, in fondo, la facoltà per alcune cricche nobiliari di manipolare elezioni e magi- strature, grazie alla ineducazione politica e alla fame della plebaglia urbana, le cui esigenze vere o si manifestavano in esplosioni cieche e inefficaci o influivano in misura scarsa sulla legislazione. Ma è meno noto... che lo slogan della libertas non mor1, anzi continuò a prospe- rare sotto l'impero. Augusto attribuiva a suo merito di vindicare in libertatem rem publicam e gli imperatori successivi si proclameranno spesso vindici della libertà; nelle contese per l'impero non vi sarà contendente che non si proclami campione della libertà del popolo romano contro il tiranno. Tutto ciò è di scarsissimo interesse; piu interessante è che nel corso dell'impero lo slogan della libertas, in iscrizioni di monete e anche in qualche testo letterario, vada sempre piu accostandosi e quasi fondendosi con quello della securitas; e se- curitas è la tranqu~llità nel godimento dei propri beni, senza paura di  119   nemici esterni, senza paura di rivolte di schiavi o di agitazioni della plebaglia rerum novarum cupida, senza preoccupazioni per la cosa pubblica, che è in alto, in buone mani. Questo processo ideologico era naturale e già chiaro nell'età augustea..." (Libertas e Securitas, "Belfagor," p. 'Zll). In effetto tutto questo era già presente in Cicerone. E ciò si chiarisce tenendo presente la situazione storica, l'autorità degli optimates messa in forse sia da certi aristocratici e cavalieri che agivano avendo per scopo un potere personale, sia dalle rivolte popolari, in una struttura sociale in cui il popolo non c'era; ma anche si chiarisce cosi la funzione data da Cicerone alla cultura, la tensione a porre, sia pur come dover essere, un ordine e una misura ideali, per muovere i quali divenivano di grande importanza tutte le tecniche retoriche, onde la retorica venne pian piano a perdere per Cicerone il significato di mèra precettistica (come ancora era nel giovanile De inventione), per assumere la funzione di costituire e di "inventare" un certo ideale e di convincere ad esso. Se non vanno dimenticati i massacri di Mario, le molte guerre civili, le proscrizioni di Silla, la politica di Pompeo, di Crasso e di Cesare, i molti processi, neppure vanno dimenticati, anche in funzione di questi stessi conflitti, della lotta fra aristocratici e popolari, i due schemi retorici che n'erano scaturiti: l'uno fondato sulla pura virtus romana, legato alla sola tradizione del "forte" popolo romano, indi- pendentemente da ogni cultura, o meglio sganciato dall'ideale di un ordine costituito, la cui visione è propria del saggio; l'altro fondato invece sulla concezione del saggio di tipo stoico, in cui alla fine la virtu si distacca nettamente dalla politica. Di qui, ora, rifacendosi a quello che col tempo era divenuto un ideale, cioè la figura di Scipione Emiliano, virtuoso perché saggio, ma saggio perché uomo d'illuminata cultura, mediante cui ordinare lo Stato verso il bene, sorge l'esigenza di delineare l~ figura dell'oratore quale uomo politico, che può indicare quello che deve essere l'ordine e il fine da realizzare, in quanto abbia una vasta cultura generale e tecnica, e perciò stesso, perché ro- mano, non solo volta a quella greca, ma anche allo studio della tra- dizione di Roma, dei suoi costumi, della sua lingua, del suo diritto. Tale, sembra, l'esigenza messa in chiaro da Cicerone. Da un lato, quindi, l'importanza di una cultura enciclopedica, ed ecco di nuovo, oltre all'interesse per ascoltare e conoscere i vari maestri delle varie scuole, recandosi anche nei centri di maggior cultura, Rodi, Alessan- dria, Atene, il significato dato ai manuali, alle introduzioni, alla di- scussione delle questioni, mediante cui formare la propria personalità, cioè la propria humanitas o cultura; dall'altro lato il valore che assumono le ricerche dedicate alla tradizione romana, alla sua lingua, 120    alla sua cultura. Assume qui un preciso significato storico - di cui già ci si rendeva conto nel tempo- l'opera cosiddetta erudita di Varrone8 reatino, vissuto tra il 116 e il 27 a. C. A tale proposito, anzi, sembra avere un particolare interesse la delineazione che Cicerone fa della figura di Varrone e soprattutto della sua importanza per aver fatto conoscere ai romani la loro storia, le loro antichità, contrapponendo tuttavia a lui la propria funzione di rendere latino un aspetto della paidèia greca, costituendo i cardini di una nuova cultura. ... Che Varrone ci dica quello che fa, poiché le sue Muse tacciono piu a lungo del solito. Non credo che abbia smesso di lavorare, ma penso che nasconda le cose che scrive. "Niente a~o," rispose Varrone, "secondo mc, anzi, è follia scrivere ciò che poi si 'Vuole nascondere. Ho, invece, tra le mani una grossa opera, di cui da tempo mi propongo di dedicare una 3 Nato nel 116 circa a. C. a Rieti, nella Sabina, da una illustre famiglia plebea, Marco Terenzio Varrone fu soprattutto uomo di lettere e di vastissima cultura, anche se per un certo periodo si oc:cupò di politica. Questore nell'86, legato, propretore di Pompeo nella guerra contro Sertorio (76 e seguenti), uibuno della plebe, pretore nel 68, legato di Pompeo nella guerra contro i pirati (67), Varrone vedeva in Pompeo il salvatore delle antiche tradizioni repubblicane. Addolorato per l'alleanza di Pompeo con Cesare e Crasso, segui di nuovo Pompeo contro Cesare nella Spagna ulteriore (49). Dopo Fàrsalo si ritirò definitivamente dalla vita politica attiva per darsi tutto agli studi, ma sempre in funzione di Roma. Sia pur avendo combattuto contro Cesare, sia pur avendo scritto l'elogio di Porcia, la moglie di·Catone Uticense avversario di Cesare, Cesare, al quale Varrone aveva dedicato nel 47 le Antìquitates rerum divi,..,m, gli diede l'incarico di organizzare un complesso di pubbliche biblioteche latine e greche (cfr. Svetonio, Caes., 44). Morto Cesare nel 44, Varrone rientrò tra i proscritti di An· tonio. La sua casa e la sua ricchissima biblioteca furono saccheggiate e fu in quell'oc· casione che molte delle opere di Varrone andarono perdute. Varrone si dette alla macchia e fu nascosto da amici fidati, tra cui Fufio Caleno. Amnistiato poté tornare ai suoi studi. Morl nel 27 a. C., l'anno stesso in cui Ottaviano prese il nome di Augusto. Varrone stesso, secondo Gellio, III, IO, I7, nel I libro delle Ebdomadi, scrivèva che a 84 anni aveva composto 490 libri: il Ritschl, OfJUJt:., III, 525, riprendendo l'in· terrotto catalogo dei titoli delle opere di Varrone olfertoci da S. Gerolamo e aggiun· gendo scritti citati da autori antichi· che non si trovavano nel catalogo di S. Gerolamo, arriva a citare 70 opere per un complesso di 620 libri. Di tale sconfinata opera di Varrone resta pochissimo: Libri tres rerum rustìt:iiTUm (scritti a 80 anni); sei libri dei venticinque De linpa latina; un migliaio di frammenti delle altre opere. Diamo qui un elenco dei titoli delle opere piu celebri di Varrone: Antiquitates rerum humanarum et divinarum (41 libri); Annalium libri tres; De vita populi Romani; De gente populi Romani; De Pompeio (3 libri); Legationum libri 1I1; De iure civili (15 libri); DiscipliniiTflm libri IX (1. De grammatica; 2. De dialectica; 3. De rheto- rica; 4. De geometria; 5. De arithmetìca; 6. De astrologia; 7. De musica; 8. De me· dicina; 9. De architectura); Libri tres rerum rustit:iiTflm; De lingua latina (25 libri); De poematis (3 libri); De poetis; De Jt:aenicis originibus (3 libri); De actionibus scae- nicis (3 libri); Quaestìonum Plautinarum libri V; De lectionibus (3 libri); Suationes (3 libri); Orationes (22 libri); De proprietate scriptorum (3 libri); De bibliothecis (3 libri); De similitudine verborum (3 libri); Liber de philosophia; De forma philo· sophiae libri' IIT; De principiis numerorum libri IX; Logistorici (76 libri); Saturae menippeae (4 libri); Pseudo-tragoetiiar11m (6 libri: tragedie da leggere, non da rap· presentare); Poemata ( I O libri).  121   parte al nostro amico (parlava di me Cicerone); è un lavoro di una certa importanza, che sto limando e rifinendo. Varrone,  dissi io, benché da tempo aspetù questo tuo lavoro, non oso reclamarlo, ché il nostro Libone, di cui ti è noto l'affetto, mi ha detto (certe cose non si possono nascondere), che, !ungi dall'interrompere quest'opera, tu la rimaneggi con grande cura né mai l'abbandoni. C'è però una domanda che fino ad ora non mi era venuto in mente di farti; ma ora, che mi son dato all'impresa di trasmet- tere gli argomenti dei nostri comuni studi, e di illustrare in lingua laùna quell'antica filosofia che è cominciata con Socrate, dimmi, ù prego, perché tu, che scrivi tante cose, accantoni questo genere, dal momento poi che in esso eccelli, e che tale studio e tali quesùoni sono assolutamente superiori ad ogni altro studio e ad ogni altra arte?" Varrone rispose: "Tu mi parli di un progetto cui ho spesso pensato, che spesso ho agitato... Vedendo la filo- sofia trattata con una cura. particolare negli seritti dei Greci, ho ritenuto che quelli dei nostri concittadini che si sentono attratti da tali studi, se sono erudiù nelle dottrine greche, leggerebbero le opere dei Greci piuttosto che le mie; mentre quelli che non hanno gusto per le arù e le discipline greche, non si curerebbero affatto di un lavoro che non si può comprendere senza conoscere l'erudizione greca. Per questo non ho voluto scrivere opere che gl'ignoranù non potrebbero comprendere, e che i dotti sdegnerebbero di leggere. Noi poi, che rispettiamo come altrettante leggi i precetù della retorica e della dialettica (due scienze che la nostra scuola mette nel numero delle virtu), siamo costretti ad impiegare, nonostante la loro novità, alcuni termini che i dotù preferiscono cercare tra i greci, e che gl'ignoranti non vorrebbero neppure ricevere da noi. Sarebbe, dunque, un lavoro inutile. Non solo, ma tu, Cicerone, conosci la nostra fisica: essa abbraccia la forza efficiente e la materia che questa forza plasma e modifica: abbiamo dun- que bisogno anche della geometria. Infine, mediante quali termini ·si potrà esprimere e far capire i principi che concernono la vita, i costumi, ciò che si deve fuggire e ciò che si deve cercare?... (In questo campo], noi ci riallac- ciamo alla vecchia Accademia...: quanta sottigliezza ci vorrà per esplicarne le dottrinel Quale spirito e oscurità nelle nostre discussioni contro gli stoici! Tengo, dunque, per me solo i miei studi filosofici, e ne faccio, per quanto mi è possibile, la regola della mia condotta e il diletto dell'animo, d'accordo con Platone che la filosofia è il piu grande e il piu bel dono che l'uomo abbia ricevuto dagli dèi. Ma quelli dei miei amici che s'interes- sano di questi studi, li mando in Grecia, consiglio loro di andare ad attin- gere alla fonte piuttosto che ai rivi che ne derivano. Quanto alle cose che nessuno aveva ancora insegnato, e che gli studiosi non potevano trovare in nessuna parte, ho cercato, per quel che ho potuto (non ammiro granché le mie cos<:), di farle conoscere ai miei concittadini. Sono ricerche che non si potevano chiedere ai Greci, né, dopo la morte del nostro L. Elio, ai Latini. Ad ogni modo, le opere della mia giovinezza, in cui imitatore, non traduttore, di Menippo, ho diffuso qualche gaiezza, contengono certo cose riprese dal fondo stesso della filosofia e non poco dalla dialettica; non solo, ma perché i meno dotù, invitati a leggere dall'interesse dell'argomento, 122    comprendessero piu facilmente tali questioni filosofiche, mi sono proposto di trattarle nei miei Elogi e nei proemt delle mie Antichità, se, comunque V l sono ClUSCltO. "SI," risposi, "ci sei riuscito, Varrone; stranieri nella nostra città, errànti come viaggiatori, le tue opere ci hanno, per cosi dire, ricondotti a casa, e, grazie a te, possiamo finalmente conoscere chi siamo e dove viviamo. Sei tu che ci hai rivelato l'età della nostra patria, la successione dei tempi, i diritti della religione e del sacerdozio; tu che hai esposto l'amministrazione interna, la disciplina militare, la disposizione dei quartieri e dei luoghi, tu che ci hai svelato i nomi di tutte le cose divine e umane, le specie, le fun. zioni e le cause. Tu hai diffuso luce sui nostri poeti, sulla nostra letteratura, sulla nostra grammatica. Tu hai composto un poema vario, elegante, quasi perfetto; tu, certo, hai in piu parti toccato questioni filosofiche, abbastanza per dare l'impulso, non sufficientemente per istruire..." (Cicerone, Va"o, I-III, 2-10). Varrone, per quel che ne sappiamo, fu soprattutto un uomo di studio. Forte di una certa concezione filosofica generale, senza dubbio sulla scia del suo maestro Antioco di Ascalona (cfr. Cicerone, Va"o, III, 12), applicò alle proprie ricerche sul mondo antico, greco e romano, il metodo istorico proprio della scuola peripatetica, cercando d'illumi- nare le sue ricerche intorno ai costumi, alle leggi, alla religiosità, alla poesia e alla letteratura, mediante la visione della vita e della virtu propria degli stoici, dei cinici, e, pare, in particolare di Posidonio. Ad ogni modo sembra che le molte letture, la sua curiosità di co- noscere le cose umane, attraverso i monumenti e i documenti, lo ab- biano portato, nei suoi scritti, oltre alla descrizione e alla schedatura di tutto ciò che aveva ritrovato Varrone servf agli antichi sf come un'enciclopedia - a determinare come è che l'uomo, in certe condi- zioni politiche, geografiche, sociali, culturali, costituisce certi tipi di costume, di religione, di condotta politica. Sotto questo aspetto si chia- risce come Varrone distingua, senza porre l'uno superiore o inferiore all'altro, tre tipi di teologia, corrispondenti a tre modi diversi di spie- garsi da parte dell'uomo la propria esigenza religiosa. Il discorso su dio in forma di favola (teologia favolosa o poetica) risponde all'esi~ genza del divino propria degli uomini ignoranti o incolti; il discorso sul divino interpretato come ragion d'essere del tutto o causa, natura naturans (teologia naturale), è il discorso proprio degli uomini di cul- tura (filosofi), che identificano il divino con la stessa ragion d'essere o con le possibili condizioni che rendono pensabile la realtà, quali che poi ognuno ritenga siano le strutture del tutto (Varrone accettava la tesi accademico-stoica del divino come anima mund1); il discorso sulla divinità, rispondente all'esigenza dell'uomo in soCietà (teologia civile) di trovare un criterio all'obbligatorietà della legge, può essere in con- trasto, per ragioni politiche, con la t~ologia naturale (ove molte sono le soluzioni e le interpretazioni), per cui, proprio in funzione della vita associata, secondo Varrone, i discorsi della. filosofia intorno al divino e alla natura debbono rimanere privati o chiusi in seno alle scuole, a meno ch'essi non coincidano con le strutture legali di una certa comunità, servendo anzi a rendere conto di tale legalità. Il che, per altra via, sembra spiegare il successo di certo stoicismo e di certa Acca- demia nell'àmbito della classe romana, dirigente la vita politica (cfr. per la testimonianza sulle tre teologie, Sant'Agostino, De Civitate Dei, VI, 2-5). Gli studi storico-eruditi di Yarrone su come è che l'uomo è uomo, lo portavano, d'altra parte, a sostenere che già gli studi e le dimostra- zioni dei piu grandi pensatori dimostrano che l'aspirazione naturale dell'uomo consiste nel realizzare pienamente se stesso (felicità), e che perciò l'uomo è felice, allorché attua se medesimo sia come anima sia come corpo, ché l'uomo è un tutt'uno d'anima e di corpo. Vita beata, perciò, si avrà quando "virtu" (capacità di realizzare sé eccellente- mente) e "naturalità" (ciò che è bene compiere, che è primo per natura, prima naturae) coincidono, vita piu beata (beatior) allorché si abbiano anche quei beni di cui potremmo fare a meno, b~atissima quando non manca nulla. Di qui anche si capisce perché Varrone, dei due generi di vita (contemplativa e attiva), ormai luoghi comuni della tradizione, non ritenga compiuto né l'uno né l'altro, se presi a sé, ma ritenga perfetto il genere di vita misto, la vita cioè che sia ad un tempo contemplativa e attiva, in cui l'azione scaturisca dalla rifles- sione e la riflessione sia consapevolezza critica della propria posizione nel mondo e nel mondo degli uomini. Varrone, da un lato, con la sua sistemazione del sapere, e, dall'altro lato, attraverso l'ordinamento delle sue ricerche per discipline, ebbe un'enorme influenza su tutta la cultura posteriore e sull'organizzazione degli studi. Purtroppo della sua immensa produzione - sembra abbia scritto oltre 490 libri - si sono salvati Libri tres rerum rusticarum (che scrisse a 80 anni), sei libri dei 25 De lingua latina, pochi fram- menti e non poche tracce del suo insegnamento e dei resultati delle sue ricerche in quasi tutti gli autori posteriori. Cos{ sembra che tra le opere piu lette e sfruttate siano state le Antiquitates rerum huma- narum et divinarum (in 41 libri) e gli Anna/es (in 3 libri) - certo anche il De poematis, il De poetis, il De scaenicis originibus, il De actio- nibus scaenicis, i Quaestionum Plautinarum libri V, il De jure civili, i Logistorici - mentre notevole influenza, rispetto all'organizzazione degli studi e degli insegnamenti, mediante cui costituire il "cur- 124    riculum" che formi l'uomo, che lo liberi con una cultura fondata appunto sulle discipline liberali, hanno avuto i· Dùciplinarum libri IX, cosi suddivisi: de grammatica, de dialectica, de rhetorica, de geometria, de arithmetica, de astrologia, de musica, de medicina, de architectura. Varrone era convinto, si come il suo amico Cicerone, della impor· tanza della cultura per la formazione dei "cittadini." Solo che Cice- rone fu piu preso nel giuoco politico che non Varrone. Varrone ebbe, certo, uffici importanti (fu triumviro capitale, questore nell'86, pro- pretore di Pompeo nel 76, tribuno della plebe, pretore nel 68, partecipò alla guerra civile dalla parte di Pompeo), ma, piu portato agli studi e alle ricerche, pacificatosi con Cesare, al quale nel 47 dedicò. le Antiquitates, abbandonò ogni velleità politica, proponendosi soprat- tutto l'organizzazione degli studi (Cesare lo incaricò di mettere in- sieme una pubblica biblioteca). Riusd a sfuggire alla proscrizione di Antonio (43 a.C.). Purtroppo le sue biblioteche andarono completa- mente distrutte. Altro il temperamento di Cicerone. Senza dubbio piu ambizioso, egli, fin da giovane, fu attratto dalla carriera politica. Fu, anzi, in funzione di questa che Cicerone venne elaborando una concezione, che, riprendendo motivi circolanti nella cultura contemporanea, servisse a mantenere un ordine e una misura che fossero salvaguardia, nei gravi conflitti, nella lotta per il potere di singoli individui (popolari o aristocratici) - quando si tenga poi presente che in effetto non esi- steva un "popolo" - della libertas della res-publica. Studioso fin da ragazzo di retorica, in funzione di una possibile carriera politica, e degli aspetti diversi della cultura propria del suo tempo (egli ascoltò in Roma lo stoico Diodoto, l'epicureo Zenone, fu particolarmente attratto da Filone di Larissa e dal retore Apollonia Molone), preso dagli esempi di grandi oratori come Sulpicio, di giu- risti come Scevola, di uomini politici corne Cotta, della funzione, dive- nuta oramai ideale, di Scipione Emiliano, Cicerone tese per suo conto a trasformare la figura del retòre, divenuto oramai solo maestro di retorica, precettista, nell'antica figura del retore uomo politico, del- l'orator, nel senso di un Demostene, che, tuttavia, deve inserirsi in una situazione politica e sociale assai diversa, per la quale perciò si dove- vano far funzionare altri ideali, costituire una diversa concezione, alla quale potevano servire certi recuperi di Platone e degli Stoici, assunti entro i termini di una discussione dialettico-retorica delle diverse ipo- tesi elaborate nelle scuole, mediante la tecnica dei pro e dei contra, optando per quella tesi che piu sostenibile di altre (piu probabile) servisse a convincere della validità e della superiorità di un certo or- dine politico e giuridico. Per questo Cicerqne, non accettando la tesi  125   varroniana che le questioni piu strettamente filosofiche si debbano discutere in privato o nelle scuole, affermava· anzi ch'è necessario co- noscere e vagliare tutte le ipotesi, farle conoscere, latinizzarle, sf che poi, caso per caso, a seconda del conflitto politico in cui ci si trovi, mediante le arti del dire si possa convincere (duttilmente assumendo di volta in volta sia il tipo di eloquenza detta atticistica sia il tipo di eloquenza detta asianica) a quel certo ideale politico, in funzione se- natoriale, che salvi il "cittadino," la "res-publica," fondata sulla mi- sura della ragione, per cui ciascuno abbia il posto che gli compete. Di qui la paura continua di Cicerone (e il compromesso) nei__confronti di chi potesse assumere, o a nome del Senato o in nome del popolo, potere personale. - Cicerone fu pompeiana finché Pompeo si dimostrò difensore del Senato, ancora pompeiana durante la guerra civile, ché in Cesare egli vedeva il possibile tiranno e non il princeps tipo Scipione Emiliano; riti- ratosi dalla vita politica durante il periodo in cui Cesare ebbe in mano il potere, Cicerone riprese la sua attività politica alla morte di Cesare (15 marzo 44), in appoggio di Ottaviano, che gli sembrò il piu moderato, il difensore dei diritti del Senato, moderatore della "res-publica," contro Antonio. Incluso nelle liste di proscrizione allorché Antonio, Ottaviano e Lepido si trovarono d'accordo (secondo triumvirato), Cicerone fu ucciso dai sicari di Antonio nella.sua villa di Formia il 7 dicembre 43. Cicerone se da un lato appare come un conservatore, un senatoriale, dall'altro lato, certo, mediante la sua visione platonico-stoicheggiante di un tutto ordi- nato, ove tutto ha il suo giusto posto, in una ragionevale misura, ove lo stesso universo si costituisce legalmente ed ove lo stesso uomo politico per eccellenza (cfr. Somnium Scipionis) è colui che rappresentando il l6gos del tutto diviene una specie di anima mundi del mondo politico, Cicerone attraverso le sue opere,- da quelle retoriche a quelle dette filosofiche e giuridiche, ha preparato il fondamento giuridico e filoso- fico di quella che sarà la concezione imperiale-repubblicana di Ottaviano Augusto. Entro questi termini si vede bene la linea - anche cronologica - del pensiero ciceroniano, dal De inventione (85-80) al De officiis (44-43), che passando attraverso il De Oratore (55), il De republica (54), il De Legibus (52), le Partitiones oratoriae e il Brutus (46), si compie nel senso di un affinamento delle tecniche di persuasione e dello studio di quelle tecniche stesse, mediante l'Orator (46), i Paradoxa stoicorum (46), i Topica cui convincere, ponendo in discussione le varie ipotesi, per avviare - tale è per Cicerone la funzione protrettica della filosofia, e sembra che questo fosse il contenuto del perduto Hor- tensius (46) - a certi presupposti valori, dialetticamente enunciati e 126    retoricamente discussi che siano a fondamento della condotta civile quale veniva affrescata nella Repubblica e nelle Leggi (Academica, De finibus, Tusculanae disputationes, De natura deorum, Cato maior de senectute, De divinatione, De fato, De gloria, Laelius de amicitia, De otficiis: opere da Cicerone composte tutte al tempo della sua forzata inazione politica, tra il 45 e il 44-43). Inutile ripetere, ora, quanto ab- biamo detto cercando di ricostruire quelle che fuorono le componenti culturali del II-I secolo a. C., e che per necessità di documentazione abbiamo rintracciato attraverso Cicerone stesso (per la concezione ci- ceroniana della legge, della r.es-publica, del decoro, dei doveri medi, del- l'honestum, dell'humanitas, del consensus gentium, cfr. sopra). Certo, con Cicerone, attraverso la dialettica (in senso soprattutto accademico-filoniano e tecnicamente stoico: "la dialettica è l'arte che insegna a distribuire una cosa intera nelle sue parti, a ,spiegare una cosa nascosta con una definizione, a chiarire una cosa oscura con una interpretazione, a scorgere prima, poi a distinguere ciò che è ambiguo e da ultimo a ottenere una regola con la quale si giudichi il vero e il falso e se le conseguenze derivino dalle assunte premesse" : Brutus, 41, 152), si determina il t6pos della filosofia intesa come discorso reto- rico-protrettico in funzione di una certa forma di vita civile e legale, in una opzione dell'ideale platonico-stoicheggiante di un tutto ragio- nevolmente (piu che razionalmente) costituito. Filosofia, condottiera dell'esistenza! indagatrice della virtu! vittoriosa avversaria deì vizi! Senza di te che ne sarebbe non dico della mia vita, ma di quella del genere umano? Tu hai fatto nascere le città; hai chiamato a raccolta gli uomini che vegetavano dispersi; li hai uniti nella convivenza sociale, ottenendo il reciproco rispetto tra vicini ed insegnando alle fami- glie a federarsi con patti nuziali; tu. hai rivelato agli uomini le possibilità comunicative del linguaggio e della scrittura. Hai inventato le leggi, hai suscitato le comunanze, hai dettato i doveri... Meglio vivere un giorno a norma di filosofia, che tutta un'immortalità da dissennato. E chi saprebbe aiutarci meglio di te? A te sola dobbiamo la tranquillità del vivere; tu ci hai salvato dal terrore della morte... (Tusculanae, V, 2, 5-6). E che si tratti di opzione, di un ordine posto piu che come essere coine dover essere, di un fine cui convincere e convincersi mediante la dialettica e il discorso mitico, sembra si chiarisca bene quando si tenga presente la polemica di Cicerone nei confronti della divinazione, del fato e della simpatia universale, nei termini in cui derivavano da una massiccia e naturalistico-razionale interpretazione dello stoicismo teologico. Sotto questo aspetto Cicerone sembra che rovesci la visione del tutto ordinato e necessariamente articolato in una simpatia uni-  127   versale, per cui tutto ciò che avviene, avviene come è bene che sia (Provvidenza), necessariamente (fato), onde si rende possibile la divi- nazione, ch'era visione propria di certe posizioni stoiche. La questione di come allora si possa sostenere la possibilità del libero atto umano, era questione su cui già gli stessi stoici avevano a lungo discusso (in particolare Crisippo), e su cui gli avversari avevano dato risposte opposte: e si era assolutamente negato - almeno su di un piano logico - la conciliabilità tra destino e libertà (si ricordi l’argomento principe di Diodoro Crono, che, contro Aristotele, giungeva a negare, accettato che tutta la realtà è in atto, il contingente e il possibile); oppure, negata la possibilità della conoscenza della strutturazione del tutto (Carneade) o negato che il tutto sia razionalmente costituito, sca- turendo anzi da un incontro casuale di atomi (Epicuro), si giungeva ad accantonare la questione dell'ordine in sé, per sostenere che l'or- dine e la misura sono dovuti alla stessa attività e alle iniziative umane, mediante cui si sfuggiva al cosiddetto "argomento pigro" (ignava ratio), ch'era la conclusione cui secondo i megarici (probabilmente i seguaci di Diodoro Crono) doveva giungere chi sosteneva che il tutto è provvidenzialmente e fatalmente ordinato. Se per te è destino di gua- rire da questa malattia, guarirai; sia se ricorrerai a un medico sia se non ricorrerai. Egualmente se per te è destino non guarire da questa malattia, non guarirai, sia se ricorrerai a un medico sia se non ricor- rerai. Ora il tuo destino è l'una o l'altra di queste cose, dunque non serve a niente ricorrere al medico" (Cicerone, De fato, 12, 28). Non a caso Cicerone, particolarmente nel D e fato (cfr. anche D e divina- tione), ripropone la lunga discussione sul destino e sulla libertà, pro- spettando sia le concezioni antologiche (da Crisippo a Epicuro), sia quelle logiche che negando il possibile e la libertà sul piano .logico (Diodoro), non escludono su altro piano (allorché si dimostri con Car- neade che strutture della ragione e strutture della realtà possono non coincidere) che sia possibile da parte umana volere quell'ordine che, col criterio della probabilità, si pone come termine di realizzazione, solo miticamente e idealmente posto dietro le spalle, lasciando all'uomo la possibilità di costituire quell'ordine idealmente presupposto, a cui con- vincere mediante le tecniche della persuasione. Tale sembrò allora a Cicerone - nel periodo di pace fredda con Cesare e di inazione politica diretta - la sua funzione politica ("la filosofia rimase trascurata fino ad ora, né mai brillò nella letteratura latina; dobbiamo noi darle vita e splendore, e, se nella mia attività politica io fui utile ai miei concittadini, lo sia, per quanto è possibile, anche ora che mi sono ritirato a vita privata": Tusc. disp., l, 3, 5). Nella Repubblica e nelle Leggi egli aveva delineato quale doveva 128    essere lo Stato nella sua fondazione e nella sua costituzione giuridica, tenendo presente l'ideale figura di Scipione, non imperator, non rex, ma princeps, moderatore e reggitore dell'ordine ragionevole della res- publica, si come la divinità lo è del cosmo. Ora, a quell'ordine e a quella misura si doveva convincere per altra via. Non assunta dogma- ticamente alcuna posizione o concezione già data - ad ogni posizione come tale si può opporre altra posizione, - si determina il metodo del- l'opzione per una qual certa ipotesi, a seconda della sua probabilità e del suo possibile successo in funzione di una certa concezione che serva alla vita politica e associata (Accademici). Tale atteggiamento scettico, rispetto alla struttura della realtà, portava Cicerone in una, volta a volta, rigorosa discussione ed esposizione delle tesi opposte, ad assu- mere quella certa tesi che servisse a quel certo scopo, attraverso una retorica convinzione (De fìnibus, Tusculanae disp., De natura deorum), si che l'ordine e la misura prospettati (ch'erano poi l'ordine e la misura genericamente stoici e platonici) divenissero termini di volontà, azione per combattere chi volesse rompere quell'ordine politicamente e giuri- dicamente costituitosi, in un equilibrio sociale, che, d'altra parte, esclu- deva l'accettazione supina di un ordine necessario che, alla fine, poteva portare all'indifferenza per tutto ciò che avvenisse, appunto alla pigra ragione (De divinatione, De fato, De otficiis). In effetto l'opera di Cicerone presenta costantemente due aspetti: un Cicerone piu intimo, che, in fondo, non crede in nulla, angosciato - in un'epoca in cui morire era facile, in cui le vecchie tavole dei valori erano travolte - dall'idea della morte, che attraverso il successo e l'azione e l'opera personale spera nella gloria, unica eternità ("breve è la vita che da natura abbiamo ricevuto; ma se nobilmente la ren- diamo, essa lascia sempiterna memoria. Se tale memoria non durasse piu della stessa vita, chi sarebbe tanto folle da cercare, al prezzo delle piu grandi fatiche e dei piu grandi pericoli, di raggiungere la lode e la gloria- supreme? ... E cosi, in cambio della. vostra condizione mortale avete ottenuto l'immortalità": Filippiche, XIV, 12, 32: e sono le ultime parole di Cicerone), che delinea per sé e per gli altri del suo gruppo, della sua classe, una specie di modus vivendi, un'etica che si risolve in un giusto mezzo di tipo aristotelico, e per cui, appunto, la virtu sta, di volta in volta, in un saper dominare se stessi e le cose con misura, con distacco, in una convenienza che si rivela fin nel tratto, nella voce, nel modo di vestire e di parlare, in un vivere civile, che si delinea alla fine in un tipo di morale da "signori," e, perciò, per cosi dire, in un "galateo"; e un Cicerone pubblico, uomo politico, orator, che, in fun- zione della classe degli optimates, tende a difendere un tipo di res- publica, e per cui, su di un piano retorico vale la pena di ricorrere  129   anche ai piu consunti t6poi dell'ordine e della misura del tutto, del- l'armonia dei cieli, delle leggi stellari, dell'influenza degli astri (non si scordi che Cicerone aveva. tradbtto parte del Timeo e i Fenomeni di Arato),.della funzione civile degli àuguri, onde per il popolo servono la teologia poetica e la teologia civile delineate da Varrone. Non a caso cosi Cicerone che, per altro verso (e perché fosse possibile l'azione da parte di chi aveva le capacità di governo, di con~ro al pericolo del tiranno o di chi assumesse potere personale), negava la divinazione il fato, ponendo l'ordine e la misura come termini di realizzazione, poteva sostenere invece nelle Leggi: Credo che effettivamente esista la divinazione, che i Greci chiamano mantica... (II, 13, 32). Lo Stato e il popolo hanno sempre bisogno del con- siglio e dell'autorità degli ottimati... La istituzione e l'autorità degli àuguri è di vitale importanza per lo Stato, e dico ciò non perché io sia uno di loro, ma perché è di vitale importanza mantenere questa· opinione... C'è un privilegio maggiore della possibilità di interrompere una impresa d'interesse pubblico solo che l'àugure dica: "Un altro giorno?" C'è cosa piu meravigliosa che potere imporre le dimissioni di un console? Cosa vi è di piu religioso che poter dare o rifiutare il diritto di presentarsi al popolo o alla plebe, che potere abolire una legge ingiusta? (II, 12, 30-31). "Con Cicerone, come con Platone," .commenta il Farrington, "biso- gna sempre porsi la domanda: queste sono le parole del legislatore o del filosofo?" (Scienza e· politica nel mondo antico, trad. it., p. 217, n. 33, Milano, 1960); e prosegue: "questa era l'attività delle due piu rilevanti figure di letterati (Varrone e Cicerone) nella Roma degli anni immediatamente precedenti e seguenti alla morte di Lucrezio. Inoltre la loro elaborata teoria sul problema di salvare la società conservando e inculcando la superstizione non è un fenomeno isolato, ma è in armonia con la pratica del governo romano testimoniata da Polibio e con la teoria politica formulata dai maestri stoici della classe dirigente romana, dopo che Polibio e Panezio ebbero aperto allo stoicismo il nuovo mondo d'Occidente" (cit., p. 187). 3. L'Epicureismo a Roma. Epicurei romam. Filodemo di Gadara. Lucrezio Entro i termini della problematica ciceroniana, sembra chiaro l'at- teggiamento costantemente polemico di Cicerone nei confronti dell'epi- cureismo. Cicerone non combatte tanto l'ipotesi epicurea quale possi- bile ipotesi con cui spiegare la pensabilità del reale, quanto gli esiti a 130    cui quell'ipotesi conduce sul piano politico-sociale, particolarmente per quel che riguarda la tesi dell'ordine razionale e unico del tutto, e la tesi della religiosità della legge naturale, messe iri forse dalla filosofia di Epicuro, donde derivava anche la polemica di lui contro la cultura ufficiale, contro la superstizione usata come strumento politico, ma soprattutto la conclusione che l'uomo, ciascuno, è responsabile del pro- prio mondo, della costruzione del rapporto umano, indipendentemente da elaborate discussioni sul divino, sui processi conoscitivi, sulla dialet- tica e sulla retorica, che sembravano finire in esercitazioni puramente scolastiche. Va, dunque, ora, tenuta presente la forza rivoluzionaria dei mo- tivi dell'epicureismo e cioè il deciso sganciamento dell'uomo da un ordine precostituit.o e razionale per sé; il mondo umano costituito storicamente dagli stessi uomini entro l'arco della vita umana (e non si scordi il motivo della convenzionalità del diritto e della giustizia); la liberazione degli uomini da preconcetti e pregiudizi religiosi e teologico-politici (da cui la polemica di Epicuro contro un tipo di cultura e di politica); l'appello di Epicuro ad intendere la natura per quello che la natura è, ascoltando la "voce delle cose"; la raziona- lità dovuta alla stessa attività della ragione nella costruzione del pro- prio mondo in un equilibrio e in una misura che sono conquista e non dati; il risolversi della realtà, umanamente, nel linguaggio (per cui, poi, in effetto, semanti.camente la logica epicurea poteva coincidere, escluso che il segno evochi la cosa coincidendo con la cosa stessa, con la logica stoica del tipo di quella di Zenone di Cizio). Non solo, ma di qui anche, per i non addottrinati (Epicuro si rivolgeva a tutti, uomini e donne, non barbari e barbari), l'appello di Epicuro alla semplicità del- l'insegnamento, a dare quelle poche nozioni non contraddittorie e intui- tive sulla costituzione della realtà che rendano capace l'uomo di pen- sare con la propria testa, liberandosi da pregiudizi e paura, dal mistero della natura, di cui solo pochi eletti possono parlare (altro aspetto della polemica di Epicuro contro la cultura), e l'appello di Epicuro all'ami- cizia, all'isolarsi da un certo mondo politico, in un rapporto di uomini, che, comprendendosi, trovino nel con-vivere (amicizia) il significato di un mondo costruito dagli uomini stessi, . in equilibrio e serena armonia (cfr. per quanto sopra, vol. 1).4 4 Degli Epicurei di Atene e scolarchi del giardino dopo Epicuro sappiamo, in realtà, solo i nomi, e che seguirono e diffusero il pensiero del maestro. Ne abbiamo l'elenco dal primo scolarca dopo Epicuro al 51 a. C., anno in cui, sembra, l'Areopago di Atene concesse al romano Memmio di edificare sull'area occupata dalla Scuola di Epicuro. Essi sono: Ermarco, Polistrato, Basilide, Demetrio di Laconia, Apollodoro Tiranno del Giardino, Zenone di Sidone (morto nel 79-78, ascoltato da Cicerone),  131   Gli esiti, dunque, dell'ipotesi epicurea e ~ella propaganda epicurea preoccupano Cicerone. Egli è preoccupato perché, spezzato il pregiu- dizio (politicamente utile) di un ordine già dato, di una divinità che è legge e dell'immortalità dell'anima, mediante un insegnamento fon- dato su poche e semplici nozioni - possibili di essere comprese da tutti, - si poteva liberare il popolo dalla catena del divino e dalla paura dell'aldilà, donde ne sarebbe derivata, disancorata da una razio- nalità costituita, un'irrazionalità pericolosissima per quella res-publica difesa da Cicerone: non a caso Cicerone insiste contro gl'indifferenti dèi di Epicuro, messi "a riposo" (cfr. De nat. deorum, I, 44, 123), non pio elementi perturbatori dell'operare umano, e contro l'ipotesi dell'incontro fortuito degli atomi e del clinamen (cfr. De nat. deorum, I, 25, 69-70; De finibus, I, 6, 19), da cui secondo Cicerone deriverebbe la stessa irrazionalità del mondo umano: "Come non dovrei meravi- gliarmi," esclama Cicerone, "che vi sia un uomo capace di credere che elementi solidi e indivisibili, movendosi di propria forza e aggregan- dosi a caso fra di loro, diano origine a questo nostro mondo, pieno di tanta armoniosa bellezza? Chi crede possibile questo, non capisco perché non creda possibile ançhe che, seminando alla rinfusa una certa quantità di lettere dell'alfabeto, impresse in oro o in qualsiasi altro Fedro (ascoltato da Cicerone), Patrone (scolarca dal 70 al 51 a. C.). Cfr. oltre nel testo. Cosl, poco o nulla sappiamo della prima diffusion~:~ dell'epicureismo in Roma, sicura da prima del 173 a. C., se di quell'anno è l'espulsione da parte del Senato di due epicurei venuti dalla Grecia Alceo e Filisco (cfr. Ateneo, XII, 68, 547a; Eliano, V.v. hist., IX, 12) e dei primi epicurei romani, che avrebbero diffuso la dottrina di Epicuro in latino. Essi sono: Amafinio, Rabirio e Cazio, di cui non altro sappiamo se non ciò che riferisce Cicerone. Cfr. oltre nel testo. Durante il 1 secolo a.C. furono in Roma e nel circolo epicureo, formatosi a Napoli e a Ercolano, Filodemo di Gàdara e Silone. Nato a Gàdara, in Silia, nel 110 a.C. cilca, morto dopo il 40, non oltre il 30 (Strabone, XVI, 754), discepolo di Zenone di Sidone, venuto a Roma, Filodemo entrò in dimestichezza di Pisone e con lui, nella villa di Pisone ad Ercolano, fondò un vero e proprio eilcolo epicureo. Tra i molti libri epicurei ritrovati in papili nella casa di Pisone ad Ercolano, molti sono frammenti e testi dello stesso Filodemo. Sono pubblicati: L'ordinamento dei filosofi (andato sotto il nome di Intlez Herculanensis, comprendente un Indice degli Accademici, uno degli Stoici, uno dei Socrtllia); Su Epicwo (llcpl 'Emxoòpou) i Sulla morte (llcpl &«v<iwu) i Sugli tln (llcpl &c6iv) i Sulla religio- sitìj (llcpl ~lccç) i Sulla musica (llcpl IJ.O~) i Sugli Stoici (llcpl -r6iv :E-rtn- x6iv) ; Sui segni (llcpl cnJILII(c,)" X4l cnJILII~") ; .Atluersus Sophisttu. Molto poco sappiamo di Silone, se non che avrebbe fondato, in Napoli, un vero e proprio cilcolo epicureo, assai vivo durante la metl del 1 secolo a. C. Di lui parlano Cicerone che lo dice uir optimus et tloctissimus e Vilgilio che lo avrebbe avuto maestro a Napoli. Su di lui si cfr. Papiro Ercolanmse 312 pubblicato dal Cronert in Colotes unti Menetlemos, Lipsia, 1906. Il Papiro ercolanense l 044 dA poi alcune notizie biografiche di ·Filonide epicureo, vissuto nella prima metl del 1 secolo a.C., morto a Laodicea, e, perciò, detto di Laodicea, il quale avrebbe diffuso in Oriente l'epicurei~mo, convertendo ad esso, me- diante il peso di ben 125 ofiUScoli (~T«) il re Antioco Epifane. ] metallo, queste si disporrebbero in terra in modo da comporre lcggi- bilmcnte il testo degli Annali di Ennio. Non so davvero se il caso riu- scirebbe a tanto da formare un solo verso. Ma se il concorso degli atomi è da tanto, che dà origine a un mondo, perché non dovrebbe dare ori- gine anche a tante altre produzioni meno faticose c meno complicate, come un portico, un tempio, una casa, una città? Mi pare insomma che chi tanto infondatamente sragiona sul mondo, non abbia mai get- tato un'occhiata alla meravigliosa bellezza dci cieli. Per me io rinuncio ad ogni altro troppo elaborato tentativo di spiegazione; mi basta con- templare con gli occhi la bellezza di tutto ciò che noi affermiamo sta- bilito dalla divina provvidenza" (De_nat. deorum, Il, 37-38, 93-94, 98: ove va ricordato che è Balbo a parl~re, esponendo la tesi stoica sostc- nua da Posidonio nel Ilept .&e&v- Sugli dèi, - in contrapposizione alla tesi ecipurea sugli dèi, esposta da C. Velleio sulla linea del IIept .&e&v - Sugli dèi - dell'epicureo Fedro di Atene, nel I libro del De natura deorum). Non solo, ma Cicerone era preoccupato anche perché il motivo epi- cureo dell'ordine c della misura dovuti alla stessa attività umana, indi- pendentemente da ogni legge già data e naturale, poteva portare alla rottura della legge costituita da parte di uomini, che, avendone la capacità, tendessero ad assumere potere personale (forse anche di qui la fama di Cesare epicureo), ed infine perché l'epicureismo poteva dive- nire presso chi s'era nauseato della vita politica quale si svolgeva in Roma, evasione da quella stessa politica, in conventicole di amici, che sembravano tradire l'azione civile cui si appellava Cicerone, ma che, per altro verso, potevano essere d'accordo con Cicerone, contro la tiran- nide (come fu il caso dell'epicureo Cassio, che uccise Cesare). Sembra, in tal senso, molto indicativo che Cicerone sostenga di non avere mai letto un rigo degli epicurei latini che avevano diffuso la dot- trina epicurea tra il popolo, affermando che sono troppo facili, rozzi, plebei (cfr. Va"o, 2; Tusc. disp., l, 3, 6; Il, 3, 7-8; IV, 3, 5-7); ch'egli non discuta·mai a fondo le tesi di Epicuro, apponendogli altre tesi (ad esempio l'immortalità dell'anima, supinamentc accettata dal Pedone, il motivo dell'ordine e della legge del tutto, dell'ordine e della perfe- zione dei moti stellari, rivelanti la divinità che tutti accettano, consensus gentium: cfr. Tusc. disp., I, 11 sgg.; De natura deorum, Il, 37 sgg.); ch'egli pur ammiri la personalità e l'esempio della virtu di Epicuro ("e chi nega ch'Epicuro sia stato un uomo buono, gentile, ben edu- cato? in queste discussioni l'indagine verte sulle sue idee, non sulla sua condotta; lasciamo alla frivolezza dei Greci codesta moda bizzarra di far della maldicenza sul conto di quelli da cui dissentono nella ricerca del vero...; non solo, ma molti Epicurei furono e sono al presente fedeli  133   nelle amtctzte, equilibrati e sen m tutta la vita... ma...": D~ finibus, Il, 25, 80-81); e che, infine, decisamente affermi che le posizioni epi- curee e il loro linguaggio "dovrebbero essere proibiti da un c~nsor~ piuttosto che rifiutate da un filosofo" (D~ finibus, II, 10, 30). Le stesse ragioni che muovevano Cicerone a condannare le tesi epi- curee, aveva mosso nel 173 o nel 154 (a. seconda che il console ricordato, L. Postumio, sia quello del 173 o quello del 154 a. C.) il Senato romano a espellere da Roma due epicurei venuti dalla Grecia, Alceo e Filisco (cfr. Ateneo, XII, 68, 547a; Eliano, Var. hist., IX, 12). "Per avere introdotto costumi licenziosi," si legge in Ateneo: cioè dottrine che, rispetto al costume romano, sembravano immorali. Entro questi termini può essere significativo ricordare un testo della Bibbia, cioè un passo del Lib~r sapientiae, composto circa in questa stessa età in am- biente ebraico-alessandrino, in cui sono espressi gli stessi timori nei confronti dell'epicureismo - o comunque di posizioni che con l'epicu- reismo potevano essere affini per la loro inton~zione mondana - rela- tivamente, anche se per altra via, al pericolo che per i costumi comporta la negazione dell'immortalità dell'anima e l'annullamento del pregiu- dizio che Dio sia signore e legge del tutto. Gli empi con i fatti e con le parole chiamarono a sé la morte, e cre- dendola amica si consumarono e contrassero con lei alleanza: perché sono degni di appartenerle. Essi, infatti, non giudicando rettamente, dissero fra di loro: breve e noioso è il tempo della nostra vita e non v'è refrigerio alla fine dell'uomo, e non si sa che alcuno sia tornato dall'inferno. Perché noi siamo nati dal nulla e poi saremo come se non fossimo stati, perché il fiato delle nostre radici è un fumo: e la parola è una scintilla che viene dal movimento del nostro cuore. Spenta questa, il nostro corpo sarà cenere, e lo spirito si disperderà come aura leggera e la nostra vita passerà come la traccia di una nuvola, e si scioglierà come la nebbia battuta dai raggi del sole e sopraffatta dal suo calore. E il nostro nome sarà dimenticato col tempo, e nessuno avrà memoria delle nostre opere. Perché il nostro tempo è un'ombra che passa, e finiti come siamo non si torna a capo, si mette il sigillo, e nessuno torna indietro. Venite dunque e godiamo dei beni pre- senti, e profittiamo delle creature, come della gioventU con sollecitudine. Empiamoci di vino squisito e di unguenti: e non si lasci sfuggire il fior( della stagione. Coroniamoci di rose prima che appassiscano: non vi sia pratò, per cui non passi la nostra cupidità. Nessuno di noi sia escluso dai nostri sollazzi: lasciamo in ogni luogo i segni della nostra allegria, perché questa è la nostra parte e la nostra sorte (Libro d~lla sapienza, l, l, 16, 2, 1-9). In tal senso verrà sempre interpretato, dagli avversari dell'epicurei- smo, il "piacere" epicureo e in tal modo verranno giudicate le lorc riunioni amichevoli e conviviali, i loro sodalizi di amici che, sappiamo 134    si diffusero in Oriente e in Occidente. E cosr sembra assumere un significato ancora maggiore la lotta degli ebrei di Palestina contro Antioco Epifane, quando si pensa che probabilmente la diffusione del- l'ellenismo in quel paese ad opera di Antioco, la sua lotta contro. la superstizione ebraica (cfr. Maccabei, I) fu, in effetto, dovuta all'epi- cureismo cui si era convertito il re Seleucida, se diamo valore ad un frammento in cui si dice che Filonide di Laodicea, epicureo, era riuscito a piegare, in Antiochia, il re Antioco all'epicureismo: "piegato dall'aggre~sione di·almeno centoventicinque opuscoli, Antioco dovette soccombere" (cfr. V. E. R. Bevan, The house of Seleucos, II, pp. 276-7; anche B. Farrington, cit., p. 147). Ad ogni modo sappiamo, attraverso Cicerone, che circa nella se- conda metà del 11 secolo a. C., l'epicureismo, ad opera dei latini Amafinio, Rabirio, Cazio, si era diffuso in Roma e in Italia, soprattutto presso il popolo (plebs, dice Cicerone, che è termine preciso e che ha un suo significato giuridico). Sono, appunto, i testi di questo epicu- reismo facile, plebeo, che evade da discussioni tecniche, che non si preoccupa di dialettica e di retorica, sono questi i testi che Cicerone finge di non aver mai letti, e nei quali ci si sarebbe impegnati, attra- verso un'esposizione della fisica epicurea, a liberare gli uomini dalla superstizione. Lo studio della sapienza, ovvero filosofia, è certamente antico presso di noi [romani}, però non riesco a trovare nomi da citare per il periodo ante- riore a Lelio e Scipione Emiliano. Quando questi erano giovani, mi ri- sulta che furono mandati dagli Ateniesi, come ambasciatori presso il senato, lo stoico Diogene e l'accademico Carneade; essi non si erano mai occupati di politica, uno era di Cirene e l'altro babilonese: certamente non sarebbero stati tolti al loro insegnamento e scelti per quell'incarico, se in quei tempi certi nostri personaggi in vista non avessero dimostrato interesse per la cul- tura filosofica. Essi però affidavano allo scritto gli altri loro studi, chi il diritto civile, chi i propri discorsi, chi le memorie degli antenati: ma pre- ferirono attendere a questa dottrina, che insegna a vivere bene ed è la piu nobile di tutte le arti, con la loro vita piu che cori i loro scritti. Pertanto quella vera e otti~a filosofia che, iniziata da Socrate, trovò finora i suoi continuatori nei P~ripatetici ed anche negli Stoici che sostenevano le stesse idee in modo diveJ1So, mentre gli Accademici facevano da arbitri nelle loro controversie, non è rappresentata da quasi nessuna o da ben poche opere in latino, sia perché l'impresa era grande e gli uomini troppo affaccendati, sia anche perché pensavano che tali studi non potevano essere apprezzati da gente del tutto profana. Frattanto, mentre quelli tacevano, prese la parola Gaio Amafinio, e la plebs sotto l'influsso dei libri da lui pubblicati si rivolse soprattutto a quella dottrina, sia perché era molto facile da capire, sia perché le dolci attrattive del piacere erano invitanti, sia anche perché, -non essen-  135   dosi prodotto nulla di meglio tenevano quel che c'era. Dopo Amafinio molti seguaci della medesima dottrina lo imitarono scrivendo molte opere, e inva- sero tutta l'Italia; e mentre la miglior prova della grossolanità di quelle idee sta nel fatto che sono cosi facilmente apprese e approvate dagli igno- ranti, essi credono che questo confermi la verità della loro dottrina (Tusc. disp., IV, 3, S-7). C'è una categoria di persone che vogliono essere chiamate filosofi, e si dice abbian scritto davvero molti libri in latino: io non li disprezzo· in quanto non li ho mai letti, ma poiché·quegli stessi che li scrivono dichia- rano apertamente di scrivere senza conveniente determinazione e ordinata disposizione della materia e senza alcuna accuratezza né eleganza di stile, io trascuro una lettura che non offre alcun diletto. Nessuno infatti, sia pur di modesta cultura, ignora che cosa dicono e pensano i seguaci di quella tale scuola. Perciò, poiché no!Y'si preoccupano essi stessi della maniera di esprimersi, non capisco perché" debbano essere !ehi se non fra di loro che hanno le medesime idee. In realtà, tutti leggono Platone e gli altri della scuola socratica e tutta la serie dei filosofi che da questi derivarono, li leg- gono anche . coloro che non accettano o . non si entusiasmano per quelle teorie; ma quasi nessuno prende in mano Epicuro e Metrodoro, tranne i loro seguaci. Allo stesso modo leggono questi Latini soltanto quelli che ritengono giuste tali teorie (Tusc. disp., Il, 3, 7-8). Pertanto quei tali leg- gono i loro libri con quelli del loro ambiente, e nessun altro li prende in mano se non coloro che pretendono la libertà di scrivere allo stesso modo (Tusc. disp., I, 3, 6). Amafinio e Rabirio, non seguendo alcuna tecnica, trattano con stile volgare (vulgari sermone) di ciò che cade sotto gli occhi di tutti. Non sanno definire nulla, nulla dividere, nulla concludere con retta interrogazione: ritengono, infine, che non vi sia alcun'arte, né per la parola, né per il ragio- namento... In fisica, se approvassi Epicuro, cioè Democrito, potrei espri- mermi con piu facilità di Amafinio. È, difatti, cosa grande, respinte le cause efficienti, parlare del concorso fortuito dei corpuscoli (cosi chiamano gli atomi)?... (Varra, Il, S-6). Ogni volta che ci penso, mi fa spesso mera- viglia la stranezza di alcuni filosofi [Epicurei J che ammirano la conoscenza della natura ed esultando ringraziano chi per primo la scopri e lo vene- rano come un dio; si proclamano infatti liberati per merito suo da gravi padroni, cioè da un terrore continuo ed eterno e da un timore che giorno e notte li tormenta. Da quale terrore? da quale timore? Quale vecchierella è tanto pazza da temere codeste fole, che voi evidentemente temereste se non aveste studiato la scienza della natura, e cioè i "templi acherontei nel profondo dell'Orco, luoghi pallidi di morte, oscurati da tenebre?'' (Tusc. disp., I, 21, 48). Su testimonianza dello stesso Cicerone, l'Epicureismo, nelle sue linee di fondo, nella sua polemica contro un certo tipo di cultura ("lo studio della natura non forma un tipo d'uomo bravo a van- 136    tarsi e a straparlare e a sc10nnare quella cultura che è tanto ricer- cata dai piu": Gnom. Vat., 45), nella sua semplicità d'interpreta- zione della natura, opposta alla complessa interpretazione platonico- stoica, si diffuse, nonostante la censura senatoriale del 173, in Roma e in Italia, particolarmente presso il popolo; tuttavia non abbiamo suf- ficienti testimonianze e documenti per potere affermare il successo politico che avrebbe avuto l'epicureismo presso quel popolo medesimo in contrapposizione alla classe senatoriale e degli ottimati, in una ribel- lione contro la superstizione e il timor degli dèi, imposto da chi aveva in mano il potere, in un'interpretazione di tesi platoniche, aristoteliche e stoiche. In effetto, a Roma, c'era un popolo (plehs), ma non esisteva un popolo organizzato, cioè non esisteva un'educazione popolare, tale da dare al popolo una certa ideologia. Si capisce perciò perché, in Roma e nel mondo latino, piuttosto che l'epicureismo abbia avuto>Ìn ambienti popolari, piu successo l'Orfismo, il Pitagorismo (che anzi proprio ora si sarebbero costituiti a dottrine della salvazione dell'anima, mediante certe pratiche e riti), alcuni aspetti mistico-irrazionali del platonismo di origine orientale. Tanto piu chiaro si fa, allora, in Roma, al prin- cipio del 1 secolo a. C., sia di fronte alla cultura ufficiale, sia di contro alle superstizioni proprie di certo Orfismo e Pitagorismo, l'appello appas- sionato di Lucrezio (99-95/55-51 circa), la ·sua interpretazione latina del "libro" epicureo (De rerum natura, ·in 6 libri). A tal proposito sembra, anzi, interessante ricordare che Cicerone, il quale pare sia stato l'editore dell'opera di Lucrezio (o per lo meno rivide alcune parti del poema, forse su invito del fratello Quinto e su proposta di Pomponio Attico, il primo editore di Roma, cognato di Quinto), che del valore della sua poesia parla al fratello in una sua lettera privata del 54, forse quando mori Lucrezio (Il, 9: Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt: multis luminibus ingeni, multae tamen artis"), mai, in tutta la sua produzione, faccia direttamente cenno a Lucrezio (anche se per sottinteso piu di una volta), da un lato fingendo di non avere mai letto i piu antichi epicurei latini (il che poi non è adatto vero, se in una lettera a Cassio, Ad. fam., XV, 16, l, 19, l, poteva scher- zosamente discutere dei termini tecnici usati da quegli scrittori: e la lettera a Cassio è proprio dello stesso anno in cui Cicerone scriveva le Tusculanae, in cui è detto, appunto, della sua ignoranza di quei testi); dall'altro lato, cercando di minimizzare l'opera di Lucrezio, non solo tacendone, ma cercando di ridurla a un lavoro scritto per igno- ranti, non degno d'essere letto da uOmini di cultura e inutile per il popolo, per il quale invece è necessaria la "costante guida e l'autorità degli ottimati" (non sembra un caso che proprio là dove Cicerone cerca di minimizzare il significato della fisica epicurea, sostenendo che  137   è tesi sragionevole e assurda, tenga presente, mediante citazione indi- retta o chiaramente allusiva, proprio certi passi dell'opera di Lucrezio). Tutto questo, in effetto, rovescia la prospettiva dell'attività cicero- niana. Cicerone, in privato, poteva benissimo condannare la super- stitio e la religio, che, tuttavia, ritiene utilissime per ordinare lo Stato verso un certo modello; ma tende a ridurre la carica rivoluzionaria del libro di Lucrezio, ad annullarne l'efficacia e il pericolo, relegan- dolo tra le concezioni oramai superate, inconsistenti e da ignoranti, insistendo sulla popolarità dell'epicureismo, sull'irrazionalità dell'ipotesi fisica degli epicurei, sul fatto che pnì: essendosi diffuso in ambienti plebei non ha avuto alcun successo politico. A ben guardare, qui ci troviamo di fronte ad altro: al pericolo rappresentato da alcuni gruppi di seguaci dell'epicureismo, scaturiti non dal popolo, ma da certi aristocratici, in contrasto con la politica di Roma, che trovando nell'epicureismo una valvola di sicurezza e costruendosi, insieme agli amici, mondi a parte e certo piu sereni e meno drammatici del quotidiano mondo che si viveva in Roma, lontani da Roma, nelle proprie ville, potevano destare il sospetto di congiurare, in quelle loro riunioni, contro la res-publica, contro la morale ufficiale, in una vita - era l'accusa - dedita al "piacere" e depravata, una volta che s'erano sganciati dall'ordine del tutto (cfr. in particolare l'In Pisonem di Cicerone). Entro questo tes- suto prende voce Lucrezio, cercando di ·rendere davvero popolare - e perciò stesso pericolosissimo - quel verbo di Epicuro, che poteva vera- mente diventare il principio di un'educazione del popolo, in maniera assolutamente opposta a quella prospettata da Cicerone in funzione del- l'equilibrio e dell'armonia legale della res-publica. Di sicuro sappiamo che sulla fine delu e il principio del 1 secolo a. C. furono presso grandi signori romani alcuni epicurei (Sirone, Filodemo di Gàdara), che altri furono ascoltati dai ricchi giovani romani, che si formavano alla carriera, ad Atene. Ad Atene capiscuola del "giardino" erano stati, dopo Epicuro, Ermarco, Polistrato, Basilide, Demetrio di Laconia, Apollodoro (detto il "tiranno del giardino": x~p«Wo~, kepotirannos), dei quali non sappiamo quasi nulla. Ad Apollodoro suc- cessero Zenone di Sidcine (morto sul 79J78, ascoltato da Cicerone, maestro di Filodemo di Gàdara), Fedro (anch'egli ascoltato da Cicerone, e da cui Cicerone riprende la tesi epicurea sugli dèi, svolta nel I libro del De na- tura deorum ), Patrone, capo del giardino tra il 70 e il 51 a. C., e dopo il quale non abbiamo piu notizie di scolarchi epicurei ad Atene. Può essere a tale proposito interessante ricordare che Cicerone proprio nel 51 scriveva a un certo C. Memmio - lo stesso a cui Lucrezio aveva dedicato il De rerum natura? - per pregarlo, a nome di Attico e a ricordo di Fedro e dell'amico Patrone ("cum Patrone epicureo mihi omnia sunt, nisi quod in philosophia vehementer ab eo dissentio"), appellandosi anche al fatto che per diritto il "giardino" apparteneva alla scuola di Epicuro (cosi suonava il testamento di Epicuro), di non fare speculazioni edilizie sul terreno del "giardino" da Memmio stesso comperato, anche se l'Aeropago gli aveva dato il permesso (Ad. fam., XIII, 1). Evidentemente la Scuola epicurea di Atene andò dispersa, dopo il 51. Cicerone sostiene ch'egli aveva conosciuto Epicuro di cui cita libri e massime, attraverso Zenone di Sidone, "corifeo" di Epicuro secondo Filone di Larissa (Cic., De nat. deorum, I, 21, 59) e Fedro, anch'egli ripetitore del verbo epicureo ("di Fedro e di Zenone ho seguito le lezioni, benché null'altro riuscissero a dimostrarmi tranne il loro zelo e tutte le opinioni di Epicuro mi sono sufficientemente note": De fin., l, 5, 16. Quando ero ad Atene ero assiduo alle lezioni di Zenone che il nostro Filone soleva chiamare corifeo degli Epicurei e lo facevo per suggerimento dello stesso Filone...": De nat. deor., I, 21, 59). Non sap- piamo quanto di nuovo, rispetto all'originario epicureismo, abbiano detto gli epicurei di questo tempo. Senza dubbio Zenone, per quel che possiamo ricavare da alcuni frammenti del suo discepolo Filodemo di Gàdara, approfondi e chiari la genesi della conoscenza, secondo la linea epicurea, sottolineando il significato ipotetico della condizione della pensabilità della realtà, in quanto che a porre gli atomi si giunge per analogia prendendo le mosse dall'analisi sperimentale delle cose stesse (cfr. Filodemo, Sugl'indizi e sul modo di servirsene: 7te:pt a"rj(.LE:(Cùv xcxt 01)(.LE:~~ae:Cùv). Del ragionamento per analogia, fondamento dell'indu- zione, cosi diceva Filodemo: "Quando giudichiamo: 'poiché gli uomini che sono a nostra portata sono mortali, tutti gli uomini sono mortali,' il metodo dell'analogia sarà valido solo se assumiamo che gli uomini che non sono in condizione .di esserci manifesti sono, sotto tutti i ti- spetti, simili a quelli che sono alla nostra portata, sicché si deve assu- mere che anch'essi siano mortali. Senza questo presupposto il metodo dell'analogia non è v.alido" (Degli indizi, Il, 25). Di qui, forse, induttivamente e per analogia, l'ipotesi che l'incontro fortuito degli atomi, donde nascono i possibili mondi e il mondo degli uomini (gratuitamente, per cui allo stesso uomo è data la libertà di costruire il proprio mondo umano), sia dovuto al clinamen .(sulla que- stione del "clinamen," di cui non v'è traccia in ciò che oggi leggiamo di Epicuro, cfr. I vol.). Certo, Cicerone, subito dopo avere citato Zenone e Fedro, discute e critica come un'assurdità il motivo del "clinamen," affermando che tale motivo è l'aspetto piu nuovo - e se ci poniamo dal punto di vista stoico-platonico, piu contraddittorio - dell'epicurei- smo, che per il resto Cicerone - si come fa per l'epicureismo romano che riporta a tempi piu antichi in cui ancora non era conosciuta a Roma la tesi stoico-platonica - tende a riportare al piu antico demo- critismo (cfr. in particolare De finibus, I, 5, 18-20). Senza dubbio l'insistenza di Cicerone sul termine "fato," l'insi- stenza di Lucrezio sulla "catena necessaria," a cui si contrappone il "clinamen," fa sospettare un'interpretazione del testo epicureo dovuta alla polemica nei confronti del "fato" stoico, che, tuttavia, era posi- zione già implicita nell'antiteleologismo di Epicuro (cfr. I vol.). Nulla vieta, perciò, di pensare. che il motivo del "clinamen," nei termini in cui lo conosciamo attraverso Lucrezio, Cicerone (piu tardi Diogene di Enoanda), sia stato formulato, in una coerente interpretazione di Epi- curo, proprio all'epoca di Zenone, Fedro, Filodemo di Gàdara, tutti e tre in polemica contro il sistema stoico e particolarmente contro la fata- lità che da esso derivava. Se i moti tutti - dice Lucrezio - fossero concatenati, se il nuovo sem- pre con ordine fisso sorgesse dal vecchio, e non si desse dai primordia, col deviare, principio a nessun moto che rompa le leggi imposte dal fato, s{ che, all'infinito, non segua una causa dall'altra, donde, io domando, qui in terra, donde verrebbe mai ai viventi questo libero potere, sciolto dal fato, per cui andiamo ognuno là dove ci conduce la nostra propria volontà? (Il, 253 sgg.). E Cicerone, dopo avere esposto il tema del "fato," proprio degli stoici, oppone ad esso, anche se polemicamente, il tema· del "clinamen" epicureo: Ma Epicuro pensa di evitare la necessità del fato mediante la declina- zione dell'atomo: oltre il peso e l'urto, vi è dunque un terzo movimento [e qui è chiara la citazione da Luc:rezio: "Bisogna ammettere che esiste negli atomi oltre la spinta e il peso, un'altra causa del moto e che di qui, dal clinamen, ci derivi...": Lucrezio, II, 286 sgg.], allorch~ l'atomo devia dalla verticale dello spazio il meno possibile (eltJchiston, dice): tale declinazione, se non in termini propri, almeno in realtà, egli è costretto ad ammet- terla senza causa, poich~ l'atomo non devia sotto l'urto di un altro. Come potrebbe infatti urtare un altro, se sono tutti trasportati in linea retta dal peso, come vuole Epicuro? E se l'uno non è mai spinto dall'altro, ne segue ch'essi neppure si toccano. D'onde risulta, se l'atomo esiste e se declina, che declina senza causa. Epicuro ha prospettato questa dottrina, temendo, se l'atomo fosse sempre trasportato da un peso necessario e naturale, che non vi fosse alcuna libertà in noi, eh~ la nostra anima sarebbe mossa solo perch~ costretta dal moto degli atomi. Democrito, l'inventore degli atomi, ha preferito ammettere che tutto avviene necessariamente, piuttosto che togliere agli atomi i loro movimenti naturali (Cic., De fato, X, 22 sgg.). 140    Certo il piu noto degli epicurei vissuti m Italia fu Filodemo di Gàdara, che, se anche in circoli ristretti, fece conoscere direttamente Epicuro, ne propagandò le idee, costitu1 una· vera e propria comunità di amici di Epicuro, intorno al suo protettore Pisone (il console del 58, nemico di Cicerone: cfr. In Pisonem), nella celebre villa di Ercolano, ove raccolse una non indifferente biblioteca di libri epicurei. Filodemo, nato nel 110 a.C., a Gàdara, in Siria (ove sappiamo che mediante Filonide di Laodicea, che aveva convertito Antioco Epifane all'epicureismo, s'era diffusa una forte corrente epicurea), proba- bilmente venuto a Roma nel 78, alla morte del suo maestro Zenone di Sidone, visse fin dopo il 40 a. C., non oltre il 30 (cfr. Strabone, XVI, 754). Il Comparetti, da quando furono ritrovati i papiri della villa ercolanense dei Pisoni, ha sostenuto che quei papiri dovevano costi- tuire la biblioteca di Filodemo: gran parte sono opere dello stesso Filo- demo, di cui molti testi sembrano, piuttosto che lavori destinati· al pub- blico, veri e proprii appunti, schede (cfr. D. Comparetti, La villa erco- lanense dei Pisoni, i suoi Monumenti e la sua biblioteca, Torino, 1883; Ch. Jensen, Die Bibliothek von Herculanum, in "Bonner Jahrb.," pp. 49, 61; R. Philippson, s. v. Philodemos, in Pauly-Wissowa, XIX, 2, col. 2444-2449). Nella villa dei Pisoni, oltre la biblioteca epicurea fu ritrovata una serie di statue e tra esse quattro busti con iscritto il nome: Demo- stene, Epicuro, Ermarco epicureo, Zenone di Sidone. Anche questo è indicativo, ed è. indice della presenza di una vera e propria comunità epicurea. Intorno a Calpurnio Pisone, illustre nobile romano, la cui figlia fu la moglie di Cesare, s'era formato, pernio Filodemo, un cir- colo epicureo. Ed epicureismo significava, tenendo presenti i fondamenti della dottrina, vivere umanamente, liberarsi dai pregiudizi, trovare, eva- dendo dalla quotidiana vita politica e dagli affari, sereni rapporti di amicizia. Dolce è guardare da terra - esclama Lucrezio - quando i venti scon- volgono l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso travaglio; non perché faccia piacere che qualcuno si trovi in sofferenze, ma perché è dolce scor- gere i mali di cui siamo liberi. E dolce è assistere, senza che tu partecipi al pericolo, agli aspri scontri di guerra in campo aperto. Ma nulla è pio dolce dello starsene nei ben muniti luoghi, edificati dalla serena dottrina dei saggi, donde è concesso guardare gli altri dall'alto, e vederli qua e là vagare, e sbandati cercare la via della vita e manovrare con l'ingegno e far valere la propria nascita e faticando sforzarsi a gara il giorno e la notte di giungere alla ricchezza e di acquistarsi il potere. Oh tristi menti degli uomini, oh ciechi petti1... Pure assai vivo diletto... è ristorar la persona alle· gramente tra amici, con una spesa non grande, stesi su di un soflice prato,  141   lungo un ruscello corrente, sotto le fronde di un alto albero specie se il tempo è bello e primavera cosparge le verdeggianti erbe di fiori (II, 1-14, 29-34). E Filodemo, indirizzandosi al suo Pisone, nella festa delle [cadi, dedicata a Epicuro, nel ventesimo giornò di ogni mese, lo invitava nella sua modesta casa: Domani, nella sua modesta casetta, canss1mo Pisone, all'ora nona ti invita l'amico amante delle Muse, per il banchetto dell'annuale vigesima: se perderai manicaretti e brindisi col vino di Chio, troverai in cambio amici sinceri e ascolterai discorsi molto piu belli di quelli sulla terra dei Feaci (in Antol. palatina, Xl, 44). Sappiamo- fin dal tempo del primo epicureismo - di queste riu- nioni tra amici, di come, non solo ad Atene, ma a Lampsaco, a Miti- lene, in Siria, si fossero formate delle comunità epicuree (veri e propri tian), di come in esse si trovasse un rifugio dalla quotidiana vita poli- tica e dalla cultura ufficiale, intorno al nome di Epicuro, considerato l'umano dio della liberazione umana,· la divina umanità che sostituiva i vecchi dèi paurosi o il fato divino l6gos, in una umanizzazione della ragione e· della scienza (donde il prevalere della fisica sulla aritmetica e la geometria). Di qui, entro queste comunità, il culto di Epicuro. "Un dio, fu un dio...": dirà nel suo poema Lucrezio. E lo stesso Epi- curo aveva affermato: "Agisci sempre come se Epicuro ti vedesse"; e nel testamento aveva lasciato scritto: "Sia festeggiato secondo il con- sueto il mio genetliaco ogni anno il decimo giorno del mese di Game- lione e l'adunanza dei discepoli il ventesimo giorno di ogni mese [la cosiddetta festa delle lcadi], stabilita in memoria mia e di Metro- doro" (Diogene Laerzio, X, 18 sgg.). E su testimonianza di Plinio il Vecchio (Nat. hist., XXXV, 5) sap- piamo che ancora nel 11 secolo d. C., in Roma, si celebravano queste feste: "Epicurei vultus per cubicula gestant et circumfei:unt secum. Natali eius sacrificant, feriasque omni mense custodiunt vicesima luna quas icadas vocant" (sul culto di Epicuro cfr. A. J. Festugière, Epicure et ses dieux, Parigi, 1946; anche P. Boyancé, L'épicurisme dans la société et la littérature romaines, in "Bulletin Ass. Budé," Suppl. Lettres d'Humanité, 4, 1960). E già Epicuro aveva scritto a Meneceo: "Tutti i miei insegnamenti e tutti quelli della stessa natura, meditali giorno e notte ed anche con un compagno simile a te" (Lett. a Menec., 134); e aveva detto: "l'uomo sereno procura serenità a sé e agli altri" (Gnom. Vat., 79). Con il commento dei Libri di Epicuro, con tl suo approfondi-  142   mento di certi aspetti della dottrina epicurea, particolarmente per ciò che riguarda le passioni e le condizioni della conoscenza, Filo- demo istitui in Roma e ad Ercolano, appoggiato da Pisone, un con- tubernium epicureo (come dirà Seneca: piu che la dottrina di Epicuro, fu il suo contubernium a educare gli epicurei: Ep., I, 6), una comunità di amici il "cui accordo tra loro," sosterrà Numenio, "era simile a quello che deve regnare in una repubblica ben ordinata" (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 5). Secondo il De Witt (Organisation and procedure in Epicurean groups, in "Class. philology," 1936; Epicu- rean contubernium, in "Trans. and Proc. of the Philol. Assoc.," 1936), seguito dal Boyancé (cit.), anzi, il llepl. 7t«pplJa(«ç (Sul libero parlare) di Filodemo chiaramente indicherebbe l'attività di Filodemo volta a organizzare la scuola in forma conventuale, costituendo un modello d'ideale vita politica, di libera vita associata, da opporre alla politica imperante in Roma, sia pur come esigenza di crearsi mondi a parte, rifugi, appunto, dalla tragica sorte, dall'inutile e assurdo morire, che ogni giorno poteva colpire chi si dibatteva nelle lotte politiche della Roma del tempo. Non a caso si deve a Filodemo (Herc. vol., 1005, 4) la coniazione del termine "quadrifarmaco" (-re-rp«<pcXp(.L«Xov: tetrafdrma- con) - la medicina composta di quattro elementi - con cui egli indicava la funzione liberatrice della filosofia epicurea, mediante la quale l'uomo si cura dal timore della divinità (1. non si tema la divinità, che la divinità non si occupa dell'uomo), dal tiinore della morte (2. non si tema la morte, ché quando v'è l'uomo non v'è la morte, quando c'è la morte non c'è l'uomo), sapendo che facile è il piacere (3. tieni presente la facilità del piacere), e che breve è il dolore (4. tieni presente la brevità del dolore). Tutti e quattro gli elementi si trovano approfonditi in Epicuro (cfr. in particolare Ep. a Menec., 123, 124, 183), ma è senza dubbio assai indi- cativa la formulazione in massima da parte di Filodemo, il puntare, ora, soprattutto, sull'aspetto terapeutico della concezione epicurea della natura e sul rifugio ch'essa offre: sia nei convivi, sia nelle libere discus- sioni fra amici, sia mediante poesia, con cui ci creiamo dilettevoli mondi a parte. Tale il significato dato alla poesia da Filodemo e tale l'epicu- reismo - non dottrinario - di Orazio, che sappiamo aver frequen- tato il gruppo intorno a Pisone, e, se vogliamo, di Catullo e di tutto il complesso dei poeti muovi. Sembra facile ora capire cosa inten- ·desse Filodemo quando sosteneva il valore edonistico della poesia e della musica, si come, per altro verso, di contro a Diogene di Babilonia (cfr. sopra), la capacità mediante la retorica di costruire mondi umani, ché non scienza è la retorica, ma un'arte pratica, cioè l'arte di agire (prasst) in un mondo che non è già dato, ma è dovuto alla stessa atti- vità dell'uomo, rivelantesi attraverso il linguaggio che ha, sempre, una  143   realtà storica, si come la stessa giustizia e il diritto (ch'era, poi, tesi squisitamente epicurea: cfr. I vol.). Entro questi termini sembra,' cosi, assumere non poco significato l'ultima parte del V libro del De rerum natura di Lucrezio,6 in cui, mediante Epicuro, riprendendo l'antica linea che risale a Empedocle, ad Anassagora, a Democrito, a Protagora, a certe posizioni sofistiche e socratiche, teofrastee, si sottolinea con forza la storicità della natura e del mondo umano, di una natura che scaturita dall'accozzo fortuito di infi- niti atomi, - sottolineiamo che Lucrezio mai usò il termine "atomo," - s1 come ha dato luogo ad infiniti possibili mondi, ha dato luogo al mondo degli uomini. E s1 come non v'è perché al sorgere delle cose, se non gli ipotetici atomi-spérmata e il vuoto, il peso e il "clinamen," cui si giunge attraverso l'analisi delle cose, condizioni non contraddit- torie che rendono pensabile la molteplice e viva realtà, senza ricorrere ad allotri e superiori principi razionali, proiezioni a posteriori (si come gli dèi o il divino l6gos) delia umana razionalità, anch'essa, in effetto, Il Poco sappiamo della vita di Tito LucrC7.io Caro. Non sappiamo a che famiglia appartenesse, dove sia nato, quali le date esatte della sua nascita e della sua morte. Seoondo San Gerolamo, che probmilmente deriva dal perduto De viris illuslribtu di Svctonio, Lucri!Zio sarebbe nato nel 95 a. C.; impazzito per avere bevuto un filtro amatorio, nei' momenti di lucidi~ avrebbe scritto il ,suo poema; si sarebbe suicidato all'~ di 44 anni. Donato, invece, nella Viu di Virgilio, anch'egli derivando da Sv~­ tonio, afferma che Virgilio, nato nel 70, prese la toga virile a sedici anni ncllo stesso anno in cui Lucrezio mori. Seoondo S. Gerolamo, dunque, Lucrezio sarebbe nato nel 95 e morto nel 51; secondo Donato sarebbe nato nel 98 c morto nel 54. Ad ogni modo, in una lettera di Cicerone al fratello, Quinto (11, 93}, che ~ senza dubbio del febbraio del 54, si legge un giudizio su Lucrezio relativo alla pubblicazione del De rerum IIIIIUI'a che sappiamo essere avvenuta dopo la morte di Lucrczio, ad opera di Cicerone stesso. C'~ chi ha sostenuto che Lucrczio sia di Roma c chi della Cam· pania (un circolo epicureo era allora fiorente in Napoli): in rea!~ non sappiamo, cosf come non si può dire se Lucrczio appartenesse a nobile o a plebea famiglia. La gente Luac2:ia era allora assai dillusa in tutte le classi, in tutta Italia. Senza dubbio il poema di Lucrezio ~ incompiuto c ciò dovuto probabilmente alla•sua morte. Sulla notizia di San, Gerolamo che Lucrczio sarebbe impazzito per un filtro amatorio (certo tali pozioni erano molto in uso nella Roma del tempo), che avrebbe scritto il poema nei momenti di lucidi~ alternati da momenti di cupa' depressione c angoscia (alcuni testi del poema rivelano depressione, incubi visionari,, allucinazioni, d'altra parte pre· senti anche in Epicuro: cfr. IV, 1125 sgg.; lll, 1055 sgg.; l, 127; IV, 35 sgg.}, che si sarebbe suicidato, si ~ molto discusso c fanwticato. Il De rerum n/llura, in sci libri, formalmente incompiuto, fu dedicato da Lucrczio a Mcmmio. Sembra che il Mcmmio di Lucrczio sia Gaio Mcmmio, questore nel 77, pretore nel 58, che amante della letteratura greca, non di quella romana, colto, intel- ligente, piacevole conversatore, pigro c impaziente di lavoro intellettuale (cfr. Cice- rone, Brutus, 247}, oondussc con sé (57-56) quando fu proprctorc della Bitinia alcuni poeti, tra i quali Catullo. E sarebbe quello stesso Mcmmio che quattro anni piu wdi, esiliato da Roma per brogli elettorali, ad Atene, ottenuto il diritto dall'Areopago di costruire sull'arca ovc sorgeva la casa c il giardino di Epicuro, rifiutò a Pauonc, allora scolarca del Giardino, il favore di non profanare quel luogo sacro agli Epicurei (cfr. Cicerone, Ad fam., XIII, 1)] scaturita nel tempo, cosi, di fatto, ci sono gli uomini. E se ipotetica- mente gli uomini scaturiscono da incontri e particolari disposi~ioni di "semina," per cui dapprima si può mitizzare una certa genesi del- l'uomo ancora non uomo, finché in una qualche organizzazione dei "semi," come sono nati certi mondi e certi animali, nella lotta per la vita oggi estinti, ed altri tipi di bestie, rimaste bestie (cfr. V, 773-924), nasce il primo mondo 1egli uomini, piu che di uomini ancora di "be- stioni," viventi in istatc ferino, alla fine, sempre per una qualche for- tuita aggregazione dei semi vitali, scaturisce la razionalità e, ad un tempo, il linguaggio, e attraverso il linguaggio, questo o quel lin- guaggio, l'uomo reale, e solo da allora la sua storia, il processo me- diante cui è l'uomo che r;~.zionalizza la realtà. Perché cosi e non altri- menti? Non sappiamo, risponde Lucrezio: "non è possibile sapere ciò che avvenne prima, se non per quel tanto che il raziocinio ne scopre" (V, 1445). L'unica ipotesi è l'ipotesi epicurea, sostiene Lucrezio, me- diante la quale ci rendiamo conto non solo del costituirsi sdrammatiz- zato della realtà, ma anche di come l'uomo è uomo entro i termini della sua stessa realtà umana (ché prima del nascere e di là dalla soglia del morire, è umanamente il nulla, è altra realtà) tutt'uno di anima e di corpo, di come per rispondere alle proprie esigenze sono nate le verità degli uomini, dalle verità dell'uomo· primitivo e ferino, vivente nelle selve, alle verità dell'uomo razionale e sociale, che ha proiettato tali verità oltre sé in cielo, perdendo alla fine se stesso (donde poi la superstizione del divino signore, del divino che come padrone si occupa delle cose umane, la superstizione dell'anima immortale, che avrà premi o castighi nell'aldilà). Al modo erratico delle fiere, volgendosi il sole per molti lustri nd cielo, menavano lunga vita... Stavano nei boschi, ndle caverne dei monti, nelle foreste... Non conoscevano l'uso di costumanze e di leggi: ciascuno pren- deva di proprio istinto la preda messagli innanzi dal caso, assuefattosi a vivere e a campare da sé solo. Entro le selve all'amplesso Venere univa gli amanti... Si procurarono in seguito capanne e pelli e fuoco e si ridusse la donna, congiunta all'uomo, ad u·n solo connubio, e i padri videro nascere i propri figlioli... Poi, con gesti e suoni inarticolati fecero capire il [loro] giusto... Ma chi spinse gli uomini a foggiare con vari suoni il linguaggio fu la natura, e il vantaggio produsse i nomi delle cose. Quasi allo stesso modo in cui l'impotenza evidente a formulare la parola induce i bambini a gestire, come fanno quando col dito segnano le cose evidenti: perché ciascuno capisce di che si possa servire... Pensare che qualcuno abbia asse- gnato alle cose i loro nomi e che di H gli uomini abbiano appreso i primi vocaboli, questo è un uscir di cervello [cfr. in particolare il Cratilo di Platonel· Come poteva costui indicare tutto con le voci, e modulare vari  145   suoni, se, nel contempo, nessun altro era in grado di farlo? E poi, da dove a costui venne l'idea del vantaggio, da dove ebbe, sin dall'origine la facoltà di sapere ciò che voleva e di scorgerlo perfettamente distinto, se fino allora nessuno aveva usato il linguaggio? E non poteva, uno solo, piegare i molti e costringerli, vinti, a imparare di buon animo i nomi posti alle cose; non si istruiscono i sordi né si convincono con la logica a fare quanto debbono: e poi non lo soffrirebbero, né lascerebbero mai che troppo a lungo ed invano voci dal suono inaudito rintronino loro le orecchie. Infine, è proprio cosi strano che l'uomo, in cui voce e lingua erano in piena efficienza, usasse per indicare le cose, varie secondo le percezioni, la voce?... Se le diverse impressioni fan che le bestie, che pur non hanno la parola, emettano voci diverse, quanto è piu ovvio che l'uomo abbia cosi, con le varie voci, potuto iÌidicare la varietà delle cose! (V, 930, 956, 960, 1011, 1020, 1028-1034, 1041-1059, 1089-1090). Lascia che lottando lungo lo stretto sentiero dell'ambizione, si logorino a vuoto e sudino sangue, essi che parlano per bocca d'altri, ed apprendono le cose piuttosto da ciò che sentono, che dalla propria esperienza, oggi non meno di ieri, non meno d'oggi, domani... Piu facile ora è capire come l'idea degli dèi si sia diffusa tra i grandi popoli, e abbia stipato delle are sue le città, ed abbia indotto a introdurre i sacri riti del culto, solenni, quelli che ancora oggi sono in auge fra tanto progresso e in centri si grandi, onde ancora oggi negli uomini è insito quello spavento che erige in tutta la terra nuovi delubri agli dèi, e vi fa correre nelle festività tutti quanti. Sin da quei tempi, in effetti~ gli uomini vedevano da svegli, ma piu nei sogni, col corpo mirabilmente ingrandito numi d'aspetto stupendo. E poi che, a quanto appariva, essi movevan le membra ed emettevano terribili voci, ap- propriate alla enorme forza e allo splendido aspetto, a loro, dunque, per questo, attribuivano il senso e li facevano eterni, giacché se ne rinnovava sempre la vista, e la forma restava sempre immutata, e poi perché giu,di- cavano che, tanto forti com'erano, nessuna forza potesse agevolmente sop- primerli. E giudicavano che avessero ben piu propizia la sorte, perché il timore di morire non li affliggeva, e compivano - cosi vedevano in sogno - molte e mirabili imprese senza che mai li prendesse stanchezza alcuna. Scorgevano inoltre che i movimenti del cielo e le diverse stagioni si avvicendavano con successione uniforme, e non potevano conoscere per quali cause. Ne uscivano dunque affidando agli dèi tutto, e facendo che tutto fosse guidato dal cenno divino. E posero in cielo le sedi e i templi dei numi, perché si vedono evolv,ere la notte, in cielo, e la luna: la luna, il giorno e la notte, ed i severi notturni segni, e le erranti notturne faci del cielo, e i volanti fuochi, le nubi, le piogge, la neve, il sole, la grandine, i venti, i fulmini, i rapidi fremiti e i minaccevoli vasti fragori. Ah, da quando fece dipendere dagli dèi tali fatti, e vi aggiunse il fiero sdegno, infelice umanitàl Da quel tempo quanti lamenti a lei stessa, quante ferite a noi, quali lacrime ai nostri nipoti, essi non hanno partorito! Ed ostentar di girare, velato, intorno ad un sasso, ed accostarsi agli altari tutti, e cader faccia a terra davanti ai templi dei numi, .e alzar le palme, e del sangue di 146    numerosi quadrupedi sparger le are ed appendere voti su voti, codesto pro- prio non è religione: ma religione è saper penetrare a cuore tranquillo i fenomeni. Quando, in effetto, osserviamo i doni del firmamento immenso, e l'etere immobile sopra le stelle che brillano, e ripensiamo al cammino che fanno il sole e la luna, comincia allora a destarsi e a levare la testa nel cuore oppresso dagli altri mali anche quella inquietudine, se per noi forse non sia l'onnipotenza dei numi quella che volge con vario moto le candide stelle: perché ci rende perplessi l'oscurità del problema, se ci sia stato un principio generatore del mondo e sino a quando potranno durare le mura del cielo a questa loro fatica del movimento affannoso: o se, per caso, non possano, scorrendo con l'infinito volo del tempo, dotate d'eternità dagli dèi, sfidare invece le salde forze del tempo infinito. D'altronde a chi non si agghiaccia l'animo per la paura dei numi?... Sino a tal punto una occulta forza cal- pesta le umane cose, e si vede che vilipende e beffeggia per proprio conto gli splendidi fasci e le terribili scuri (V, 1130-1135, 1161-1235). Ma, prima assai che potesse foggiare col suono politi canti e dar gioia agli orec- chi, l'uomo imitò con la voce il limpido gorgheggiar degli uccelli, e il vento che sibila nei vuoti calami apprese ai campagnoli per primo come soffiare nelle vuote canne. Impararono in seguito poco per volta i soavi lamenti ch'escono dal flauto quando lo toccano con le dita, sonando, dal flauto che si trovò dai pastori per i boschi impervi e le selve, e i monti e i luoghi deserti durante gli ozi beati. Cos{ pian piano col tempo si manifesta ogni singola cosa e il raziocinio la poeta al lume del giorno. Accarezzavano lo spirito quei suoni e lo dilettavano...: hanno anche appreso a tenere distinti i ritmi... Ma non è possibile sapere ciò che avvenne prima, se non per quel tanto che il raziocinio ne scopre. L'uso ed insieme i continui sforzi dell'alacre ingegno all'uomo che progrediva passo per passo insegnarono a poco a poco la nau- tica, l'agricoltura, il diritto, l'arte di fare le fortezze, le strade, le armi, e cose simili, gli agi e i conforti, quanti ve n'è della vita, la poesia, la pittura e la ingegnosa scultura. Grandemente, in tal modo, il tempo svela ogni cosa singola e il raziocinio la porta al lume del giorno. Perché scoprivano che un vero prendeva luce dall'altro, finché con le arti non ebbero raggiunto l'ultimo vertice (V, 1377-1389, 1406-1407, 1445-1456). Questo, sembra, il motivo chiave dell'epicureismo di Lucrezio, questo suo appello, di contro alla filosofia teologica ed ai pericoli insiti in essa per il libero farsi degli uomini, per la stessa comprensione della natura (vera religione è "saper penetrare a cuore tranquillo i fenomeni": V, 1203), il suo appello all'esperienza e alla ragione, all'umanizzazione della scienza, mediante cui l'uomo può creare il suo mondo, conside- rare la natura per quello che la natura è, operando su di essa, diremmo in una libera "inter-azione," per un fine che non è dato, ma che è di volta in volta dovuto alla stessa razionalizzazione umana, operante, con le tecniche, su di una realtà non già preordinata, ma spontanea e feconda di tutte le possibilità. Questo il sentimento dell'epicureismo di Lucrezio, e perciò la sua venerazione per Epicuro che "purgò gli animi con i suoi precetti veridici, e al desiderio e al timore prescrisse un limite e fece chiaro qual fosse il supremo bene a cui tutti tendiamo e additò per quale via vi si può giungere diritti, con poca strada, onde è neces- sario che non i raggi del sole, non le lucide frecce del giorno spazzino via questo terrore dell'universo con le sue tenebre, ma la conosunza razion.ale della natura: sed naturae species ratioque" (VI, 24 sgg.: ove va notato che gli ultimi tre ·versi tornano nei proemi ai libri l, Il, III, oltre che nel VI). E qualora si tenga presente il modo con cui, da Varrone a Cicerone, si venivano recuperando certi aspetti di Platone, di Aristotele, dello stoicismo, nella costruzione di una religio, in funzione di una certa classe politica - anche se in efletto, e Cicerone n;è testi- monianza, i loro autori credevano in altro, - in un'epoca drammatica, in un'epoca in cui la morte eta davvero.sempre gratuitamente presente, si capisce bene da un lato l'appello ad Epicuro salvatore (" mentre l'umanità conduceva sulla temi una vita infame e abietta a vedersi, op- pressa dal peso di una religione il cui volto mostrandosi dall'alto delle regioni del cielo, minacciava i mortali con il suo orribile aspetto, per primo un uomo greco [Epicuro] osò levare il suo sguardo mortale contro di essa e per primo contro di essa insorgere: né lo trattenne ciò che si diceva degli dèi, né i fulmini né il cielo con il suo rombo minac- cioso ": l, 62-69); dall'altro lato l'esigenza e il dovere di far conoscere a tutti il libro di Epicuro: Venere, stringiti a Marte, mentre giace, con l'intatto tuo corpo, implo- rando, inclita, per i romani una pacifica tregua; che con la patria turbata, né noi con cuore tranquillo potremmo attendere all'opera, né per seguir tali cose, l'illustre germe di Memmio [cui il poema è dedicato], negar potrebbe se stesso alla salt~ezza di tutti (1, 37-44)... Né mi nascondo ch'è opera estremamente difficile esporre in versi latini le ardue scoperte dei Greci, specie perché dovrò spesso usare vocaboli nuovi - tanto il nostro lessico è povero, e cosi nuovo è il soggetto. Eppure l'animo tuo e il gaudio, che mi prometto, di una soave amicizia mi persuade che non debbo badare a fatiche di sorta, e che le notti serene io vegli cercando con quale canto, con quali parole, ti faccia splendere nella mente h vivida fiaccola, onde tu penetri a fondo i piu reconditi veri. E veramente bisogna che non i raggi del sole, che non le lucide frecce del giorno spazzino via questo terrore dell'animo con le sue tenebre, ma la razionale conoscenza della natura: sed naturae species ratioque (l, 136-148). E cosr non vanno scordati del De rerum natura due altri punti fon- damentali. Bisogna tener presente, innanzi tutto, l'insistenza ancora 148    maggiore che non in Epicuro, sull'atomo, condizione perché sia pensa- bile la realtl, non come atomo geometrico o .matematico, ma come centro di vita, come seme vitale, onde in ogni cosa è insito uno speciale potere: il che, non solo spiega meglio l'affermazione prima che "nulla si genera dal nulla," cioè da una pura quantità che all'infinito è zero, ma anche il fatto che le qualità si costituiscono dal modo in cui le po- tenze seminali si organizzano e si dispongono mediante gl'incontri. Viene da questo la paura che opprime gli uomini tutti: scorgono in cielo ed in terra prodursi vari fenomeni, fatti, dei quali non possono scor- gere punto le cause, e che riportano quindi alla potenza di un dio. Ma se tocchiamo con mano che non può naseere nulla dal nulla, allora piu chia- ramente sapremo comprendere quello che andiamo indagando: donde: ogni cosa si generi e come ognuna si generi, senza l'intervento di un dio... Se non vi fosse per ogni singola specie il suo germe, come si avrebbe un'origine certa e distinta per gli esseri? Ma poiché viene ciascuno d'essi da un germe specifico si forman là, di là balzano fuori alla luce del giorno dove sono insiti i primi corpi e la loro materia, né può ciascuno prodursi da ciascun seme, per questo: ché in ogni cosa è insito uno speciale potere. Perché vedremmo prodursi di primavera la rosa-, d'estate il grano... se non perché cofluendo, al tempo giusto, certi semi, erompe quanto si fa... dal fecondante connubio... A poco a poco crescono gli esseri tutti, da un germe specifico... (1, 151 sgg.). In secondo luogo, bisogna tener presente la distinzione, nell•uomo, tra la forza vitale (anima), che unisce le membra e ovunque è diffusa, e la sua organizzazione in quella che diciamo razionalitl (animus), o mente (III, 94 sgg.), che, insieme, costituiscono l'Anima, ch'era il modo d'interpretare epicureamente il motivo di un tutto vitale e fe.. condo implicito nel motivo dell•anima mundi di origine stoico-platonica. Come, negli esseri vivi, in ogni viscere suole trovarsi un succo, un odore, un colore speciale; ma dall'insieme di tutti si forma un solo organismo, si forma una sola essenza, cosf,_ commisti, il calore, l'aria e la occulta potenza del vento, aggiuntavi quella nobile forza che a loro compane il moto d'ini- zio, donde dapprima negli organi si desta il moto del senso, che si cela riposta nelle tenebre dell'essere, e di cui nulla piu addentro nel corpo a noi non s'immilla, diremmo, che è l'anima stessa dell'anima tutta. E come, occulta, è.commista nel nostro corpo e negli arti tutti la forza dell'animo e la potenza dell'anima perché risulta composta d'atomi piccoli e rari, cosi, formata di minimi, ti si nasconde questa energia senza nome, l'anima stessa di tutta l'anima, quasi, che domina nel corpo intero. In tal guisa il vento e l'aria e il calore debbono, mischiati negli arti, darsi reciproco slancio, e soggiacer gli uni agli altri, e sovrastarsi a vicenda, cosf però che risulti di  149   tutti un unico tutto, onde il calore ed il vento e la potenza dell'aria, cia- scuno per sé, non distruggano il senso e non .lo disgreghino, cos{ distaccati (III, 267-289). L'insistenza di Lucrezio sulla seminalità specifica degli atomi, sulla ricchezza potenziale di ogni seme e sulla vitalità feconda d'onde si generano sempre infiniti mondi, questi mondi, e tra essi il mondo degli uomini dà il metro di come Lucrezio ha interpretato Epicuro. Il ragio- namento è lo stesso di Democrito fino a porre a condizione della pensa- bilità della realtà gli atomi e il vuoto (cfr. I vol.): dalle cose visibili, divisibili, agli atomi invisibili, elementi primi non piu divisibili, ma, appunto perché tali (altrimenti giungeremmo allo zero, al nulla incon- cepibile), si postula la condizione epicurea degli atomi-semi (libro I); per il resto, dal rapporto atomi vuoto, dalla spontaneità del movimento degli atomi, precisato come "clinamen," al concetto del peso e del costi- tuirsi delle cose e delle qualità, dei mondi e del mondo dell'uomo (libro Il), da cui comincia - perché è un fatto - la razionalità e l'opera dell'uomo, che è natura, nella natura, in un unico processo, dalla concezione dell'anima, costituita di atomi leggeri, tutt'uno con il corpo alla dottrina della sensazione e degli éidola (libri III e IV), alla conce- zione della mortalità dei mondi creati e della caducità del mondo, alle possibili molte ipotesi su ciascun fenomeno celeste e al sorgere della vita sulla terra (donde poi la storia del mondo umano, dall'uomo ferino all'uomo razionale e padrone delle arti) (libro V), alla spiegazione dei fenomeni meteorologici e dei morbi e delle epidemie (libro VI), Lu- crezio segue la traccia del De natura di Epicuro (di cui, ricordiamo, s'è trovata una copia in 37 libri, ad Ercolano, nella ~iblioteca della villa dei Pisoni). Ma, dietro, sempre, rimane in Lucrezio la meraviglia della scoperta, che dovrebbe essere chiara a tutti, che dovrebbe definitivamente scacciare ogni alambiccata costruzione metafisico-teologica, ogni timore in una suprema legge, negli dèi o in un astratto l6gos. Allorché si tenga questo per verità, si fa chiaro che la natura, da sola, in tutto priva di despoti superbi e libera in tutto, agisce in ogni sua cosa d'iniziativa propria, senza interventi di dio (II, 1094 sgg.). Scientificamente, cioè razionalmente, possibile l'ipotesi di Epicuro, ne vien fuori da un lato che il fondamento della natura - natura na- turans - non è sottoposto ad alcuna legge, ad alcuna necessità razio- nale a priori, a nessun proiettato rapporto di causa ed effetto, ivi impli- cita la necessità di porre cause prime (efficiente, formale, materiale, fi- nale), ma che l'ipotetico fondamento, cui si giunge induttivamente per analogia, è una infinita ricchezza, una fluidissima spontaneità; e, dal- l'altro lato, che la realtà quale è, quale si costituisce (natura naturata), è ad un tempo la stessa natura naturans sempre possibile di cangia- mento e di modificazioni qualitative (di qui il motivo del farsi con- tinuo: II, 293-336), su cui è possibile operare (di qui l'inno a V enere ge- nitrice, che apre il poema), ché, in effetto, atomi-semi, vuoto, peso, clinamen, sono postulati, sono i fondamenti, ma non esistono: esiste la natura; esistono gli infiniti mondi, le loro genesi, le loro storie, la genesi degli animali, la loro evoluzione, la loro lotta per la vita, la loro estinzione o la loro sopravvivenza, la genesi e l'evoluzione dell'uomo, e poi la storia dell'uomo, da quando l'uomo è uomo, quest'organizzazione di semi che ha dato luogo alla ragione; e ad un tempo, insieme, esi- stono i semi e le loro connessioni e organizzazioni. Da un lato, come dietro le cose e i mondi quali sono nelle loro organizzazioni, si vede mentalmente questo pullulare vitale, instabile, di semi (atomi), il cui complesso. è ciò che Lucrezio chiama "materia," i loro incontri spon- tanei e infiniti (" clinamen "), il loro organarsi, donde questo o quel mondo, questa o quella cosa, questa o quella specie e qualità; dall'altro lato si vedono nascere le cose stesse e i mondi, la spiegazione naturale e razionale delle cose, dei mondi, dell'esserci naturale dell'uomo - in- dipendentemente da ogni miracolistico intervento, - e da quella stessa vitalità (anima), nell'uomo, la mente, !'animo, la razionalità che è un modo con cui si è venuta organando quella vitalità. La razionalità stessa, perciò, è "storica," positiva, si come i linguaggi e i costumi, le tecniche, mediante cui l'uomo istituisce il proprio mondo, costituisce quell'equi- librio di anima e corpo, quell'equilibrio tra uomini, che non ha nulla di già dato dietro le spalle, ma è dovuto all'attività dell'uomo. La feli- cità dell'uomo non sta, dunque, nell'adeguarsi a un ordine già dato, ma nel volere, di volta in volta, quell'equilibrio e quella misura (il "piacere"), che è una sua conquista, in una prosecuzione razionalizzata dell'opera della natura, che è serenità, in una comprensione e in un rispetto della natura ("religio"), per cui, alla fine, la virtu sta proprio in questo comprendere la natura, in questa critica della religione co- smica e dei miti, in questa umanizzazione e razionalizzazione della scienza, mediante cui nella costruzione della propria società, si effettua un'armonia, un giusto mezzo tra anima e corpo; e in tale armonia con- siste il "piacere," di là da ogni estetizzante "eroismo," oltre ogni edu- cazione basata sul culto della virtus, degli exempla, dei mores maiorum. Si vede bene, cosi, come il piacere e la misura lucreziano-epicurea non siano né la virtu eroica dello stoico, né il "conveniente," il de- coro, la "signorilità" prospettate da Cicerone; Cicerone per il popolo, per la plebs voleva la superstitio, l'ordine imposto dagli ottimati, m nome del divino e delle leggi, o l'equilibrio dovuto alla ca- pacità di un uomo, di un princeps, di cui si potesse dire che è l'incar- nazione della legge suprema, della legge cosmica, e perciò stesso "sal- vatore," "correttore" dello Stato, mentre per un · verso la filosofia si risolve in retorica e, per altro verso, in forme consolatorie o di edifi- cante conforto sacerdotale-religioso. Proprio di qui il conflitto tra ciceronianesimo e lucrezismo, tra due concezioni che, alla fine, non ammettono alcun discorso comune, si di- verso e opposto è il fondamento, l'ipotesi da cui prendono le mosse l'uno e l'altro, ~ non in un punto, nella comune consapevolezza di una disperata e drammatica situazione·storica, in un terror della morte, che rende tutto vano, nell'un discorso risolta in u n coraggioso appello all'uomo e alla sua razionalità, in un appello alla scienza, in un risolversi dell'uomo entro il suo stesso mondo umano; nell'altro discorso, nella speranza di un ordine proiettato retoricamente nei cieli, che si delineerà, poi, in una salvazione che non dipenderà neppure dalla capacità umana di adeguarsi all'eterno ordine della legge divina, ma sarà dovuta o a forze magiche e irrazionali (certo neopitagorismo, gnosticismo, certo neoplatonismo e ermetismo del 1-n sec. d. C.), o ad un gratuito inter- vento dello stesso dio, della persona di Dio (primo cristianesimo). Per secoli, certo, si è taciuto di Lucrezio, e perduto è andato, anche, il De rerum natura di Egnazio, che, sembra, fosse un seguace di lui. Non va dimenticato, comunque, che ciò che noi ancora leggiamo è quello che la stessa censura della storia ha salvato. Ad ogni modo, a parte ii· rigo di Cicerone nella citata lettera al fratello Quinto, gli ac- cenni di Cornelio Nepote (Biografia di Attico, 12), di Vitruvio (IX, Proemio, 41), di Ovidio (Am., l, 15, 23-24; Trist., Il, 425-26) e di Papinio Stazio (Silv., Il, 776: "docti furor arduus Lucreti"), l'unica fonte bio- grafica è quella celebre .di San Girolamo, in cui si dice che Lucrezio sarebbe morto suicida per pazzia a causa di un filtro amoroso, e che avrebbe composto alcuni libri del poema durante gl'intervalli della sua follia: "Titus Lucretius poeta nascitur: qui postea amatorio poculo in furorem versus, cum aliquot libros per intervalla insaniae conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, propria se manu interfecit anno ae- tatis XLIV" (Chron. Euseb., VII, 1). Non altro sappiamo della vita di lui, e incerte sono anche le date della nascita (99-95) e della morte (55-51) (cfr. sopra, Vita). Sembra che Girolamo abbia usato per tali notizie il De viris illustribus di Svetonio, il che darebbe attendibilità alla notizia. Certo i cristiani conoscevano bene il De rerum natura (cfr. Arnobio, Lattanzio) e di esso discutevano in forma polemica, sf come - in fondo per le stesse ragioni - il poema lucreziano era stato discusso e minimizzato da Cicerone, il quale non poche volte afferma che gli epicurei sragionano. Di qui a sostenere, ricostruendo la vita del poeta all'uso dei biografi antichi, che Lucrezio era folle, il passo è breve. Non si è forse detto (Vita Vergi/ii di Donato), ad esempio, che Virgilio, il cantore dei campi, nacque in un maggese? (ed anche questa notizia di Donato non è forse ricavata dal serissimo Svetonio?). In effetto, Lucrezio sembra che non abbia avuto, sul piano della for- mazione di una paidèia popolare, alcun successo, anche se certamente Lucrezio fu in polemica con il suo tempo e cercò di operare almeno attraverso certi uomini (forse Memmio, Attico) che, per la loro posi- zione, ne avrebbero avuto la possibilità. E proprio sotto questo aspetto non va sottovalutata la polemica di Cicerone nei confronti dell'epicureismo, e, ancora una volta, l'affermazione ciceroniana che gli argo- menti degli epicurei non vanno discussi filosoficamente, ma eliminati con un decreto legge. È stato detto - Farrington, cit., p. 194 - che "nel caso di Lucrezio, il fatto essenziale è che in un'età in cui lo scrittore piu colto (Varrone) e lo statista piu eloquente (Cicerone) erano d'accordo sulla utilità d'ingannare il popolo in fatto di religione, egli rivolge le forze della sua cultura e della sua eloquenza a sostenere l'opinione contraria. Manifestò apertamente l'intenzione di fare quanto è possibile a un uomo per liberare la mente umana dai vincoli della religione, e scongiurare i suoi compagni di non macchiare la loro anima con quell'abominio." Eppure, non va sottovalutato, accanto al Cicerone uomo politico e legislatore, la cui opzione per un certo mo- dello filosofico e_ culturale assume un significato preciso quando lo si veda in funzione di una certa politica e di una certa difesa, l'altro aspetto di Cicerone, problematico e scettico, la funzione da lui data alla filosofia come possibilità di proporre un ordine che è dover essere, e, alla fine, sia pur per altra via, un rifugio dalla tristezza della vana vita quotidiana. Lucrezio moriva tra il 55 e il 51; Cicerone verrà ucciso nel 43. Quella decina d'anni fu ancora peggiore di quella in cui Lucrezio scrisse il suo poema, ancora piu pericolosa. Si chiarisce allora come l'influenza lucreziana, insieme a quella di Sirone e di Filodemo di Gàdara, si sia piuttosto sviluppata in senso negativo, cioè in una giustifi- cazione dell'abbandono dalla vita politica attiva, in un rifugio in con- venticole di amici, o nel crearsi mondi a parte mediante la poesia. Sembra, perciò, di non poco interesse il fatto che proprio coloro che sappiamo essere stati i maggiori epicurei romani sono morti vittime delle lotte civili, o, a poco a poco, si sono tutti ritirati dalla politica attiva. Poco o nulla sappiamo- dopo Amafinio, Rabirio, Cazio - dei primi: T. Albucio, ritenuto un grecomane, che per un certo periodo fu propretore per la provincia di Sardegna, e che, condannato per estor- sioni, si rifugiò ad Atene, abbandonando ogni velleità politica, detto da  153   Cicerone "perfectus epicureus," (Cic. Brutus, XXXV, l) e autore di scritti a carattere epicureo; C. Velleio, senatore e tribuna della plebe nel 91, a cui Cicerone nel De natura deorum fa difendere la tesi epi- curea; Tito Pomponio Attico (nato nel 109 a.C.), di nobilissima fa- miglia, compagno di studi di Cicerone'e, poi, sempre, suo amico (ad Attico Cicerone dedicò il De amicitia e il De senectute, e a lui scrisse moltissime lettere, raccolte in 16 libri), evitò la vita politica: per sfug- gire anzi alle lotte interne, dall'87 al 65 visse ad Atene e, tornato in Roma, rimase neutrale durante le guerre civili, facendosi editore, il primo editore romano. E cosi, lontano da Roma, ad Atene, dedito agli studi, visse un altro epicureo, Lucio Saufeio (nato nel 110 circa), cdsf L. Calpurnio Pisone - intorno a cui, presso la sua villa di Ercolano, s'era formato il notissimo circolo epicureo, avversatissimo da Cicerone (cfr. In Pisonem), il quale a fosche tinte dipinge il suo gregge epicureo, il suo porcino circolo, ma anche la sua semplicità di vita - che console nel 58, censore nel 50, s'era adoperato per impedire la guerra tra Cesare e Pompeo, e nel 43 rinnovò i suoi sforzi per impedire nuove guerre civili, dopo il 43 definitivamente abbandonò ogni azione, rifugiandosi nella sua villa di Ercolano, insieme agli amici epicurei. Vibio Pansa, amico di Cicerone, tribuna e console, mori nel 43, a Modena, combat- tendo contro Antonio; L. Manlio Torquato, pretore, console, procon- sole, senatore, pompeiana, si uccise nel 46; Statilio mori a Filippi, nel 42 a. C.; Cassio, che insieme a Bruto, stoico, uccise Cesare, si suicidò a Filippi; Egnazio, seguace di Lucrezio, che tenne in Roma una scuola di retorica e di grammatica, abbandonò Roma e, insieme a Rutilio Rufo, si recò a Smirne. Papirio Peto è posto da Cicerone (Pro Sestio, 20-23) tra i combibones epicurei. "Ad uomini tormentati dalle miserie di guerre civili atroci," ha scritto il Boyancé, L'épicurisme, cit., p. 514, "dal crollo delle tradizioni ancestrali, la vita epicurea offriva una specie di porticciolo e di rifugio. L'ambizione scatenata faceva l'infelicità ad un tempo di coloro che n'erano presi e di coloro ch'erano condannati a servire loro da stru- menti. Tale ambizione era gravida di scacchi e di rischi mortali. Quanti pochi tra gli uomini illustri di questo tempo sono in effetto pacifica- mente morti nel loro letto! Nessuno dei triumviri del primo triumvirato, né Crasso ucciso in una guerra lontana, ove l'aveva trascinato la sua ambizione, né Pompeo assassinato a Farsalo da un re satellite, né Cesare crivellato di colpi in pieno Senato. Dei due piu grandi avversari dei triumviri, l'uno, Catone, si era suicidato a Utica, l'altro, Cicerone, do- veva esser messo a morte dai sicari di Antonio. Si comprende che la vita non era mai apparsa piu minacciata nelseno stesso della città e mai l'insegnamento di Epicuro sul timore della morte non era apparso 154    piu attuale. Né tanto piu, anche, era sembrato, in presenza delle incoe- renze e dei crimini della storia, che gli dèi si disinteressassero degli uo- mini. O se ci s'immaginava che intervenissero nei loro affari, quali mai dèi sarebbero stati! Quali dèi crudeli e gelosi! Il messaggio di Epicuro si fece ascoltare in tale atmosfera, in virtu di filosofi greci come Filo- demo o Sirone, in virtu anche di Lucrezio." Non solo, ma se Lucrezio aveva sottolineato con forza l'aspetto rivoluzionario dell'epicureismo, aveva anche tracciato il modello di una "vita" epicurea, che, a parte i fondamenti dottrinari, si avvicinava non poco al modello di "vita" stoico, sganciato anch'esso dai suoi fondamenti dottrinari e rispondente, piu tardi, quando dopo Ottaviano Augusto e Tiberio il principato si trasformò davvero in impero e in dispotismo, all'esigenza di fuga dal mondo, per cui un Seneca potrà essere stoico accettando in gran parte certi aspetti del modello di vita epicureo, mentre i circoli epicurei, in Roma, assumeranno sempre di piu il carattere di chiese, di isole, di rifugi. Aveva, dunque, cantato Lucrezio: E tu potresti, talora, dire anche questo a te stesso: "O miserabile, chiuse gli occhi persino il buon Anco, che fu migliore di te per tanti aspetti; e in gran numero di poi morirono re, principi, gente potente che in mano ebbe le sorti di grandi popoli. Ed anche colui [Serse] che un giorno apri per l'ampio mare una strada, e sull'acqua fece passar le legioni... E il fulmine di guerra, lo Scipionide che fu il terror di Cartagine, rimise l'ossa alla terra, come il piu vile dei servi. Aggiungici i pensatori, gli artisti e quanti han seguito le Muse... Finito il lume mortale, mori lo stesso Epicuro... Saresti dunque tu ch'esiti e che ti crucci al morire?... Quando potessero gli uomini, al modo come nell'animo sentono il peso che con la propria gravezza li opprime, cosi sapere da che causa ciò avvenga, e donde la macina, direi, si grande del male ci sta sul petto, vivrebbero non come i piu vivono oggi, che ignorano quello che vogliono e non domandano di meglio che mutar sempre di luogo, come se fosse possibile, cosi, deporre il fardello. Questi, venutogli a noia lo stare in casa, esce fuori dai sontuosi palazzi e torna subito indietro, perché non trova affatto che si stia meglio fuori. Quello, sferzando i puledri, corre di furia alla villa come dovesse salvare il fabbricato che brucia, e già sbadiglia che ancora non ne ha toccato la soglia, o casca morto dal sonno e cerca a letto il riposo, oppure volta e rientra di gran carriera in città. A se stesso cosi ciascuno sfugge; ma, contro voglia, a se stesso ciascuno resta legato, al sé cui non si sfugge; e, com'è logico, lo odia, perché non vede il malato qual è la causa del male. Se la vedesse, ciascuno, lasciata ogni altra faccenda, si sforzerebbe anzitutto di penetrare la natura, perché v'è in giuoco lo stato del tempo· eterno, non quello di un'ora sola, e la sorte in cui dovranno trovarsi, per il tempo eterno che avanza dopo la morte, i mortali (III, 1028-1074). E proprio per questo, al principio del.secondo libro, Lucrezio aveva detto, delineando la possibile vita del saggio epicureo: Dolce è guardar dalla riva, quando i venti sconvolgono l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso travaglio, non perché faccia piacere che uno si trovi a soffrire, ma perché scorgere i mali di cui siamo liberi è dolce: e dolce è assistere, senza che si partecipi al rischio, agli aspri scontri di guerra in campo aperto: ma nulla è dolce piu dello starsene nei ben muniti luo- ghi che edificò la serena speculazione dei saggi, donde è concesso guardare gli altri dall'alto... (Il, 1-9). Tale, anche per le sempre piu gravi vicende politiche, fu, dopo Lu- crezio, la linea su cui si posero i gruppi degli epicurei della nuova generazione. A parte Orazio, particolarmente interessante e indicativa sembra la doppia faccia di Virgilio (70-19 a. C.), che, epicureo da gio- vane (almeno come atteggiamento), vicino al circolo napoletano di Si- rone e di Filodemo, si venne poi indirizzando a una visione del mondo e delle vicende umane (anche se non dottrinariamente) di carattere stoi- cheggiante. Nel V componimento del Cataleptqn, Virgilio, giunto a Napoli, dopo il suo soggiorno a Roma, dove s'era iniziato agli studi di retorica, ed entrato in contatto con Sirone e con quella scuola, di- chiara di avere volto le spalle alle "ampullae rhetorum" (v. 1), a quella cultura che, in Roma, doveva avviarlo alla carriera politica (inanis cymbalon iuventutis: v. 5), per abbracciare, contro la "natio scholasticorum" (v. 4), gl'insegnamenti di Sirone: nos ad beatos vela mittimus portus, magni petentes docta dieta Sironis, vitamaue ab omni vindicabimus cura (8-10). Si era nel 45 a. C. Le Bw;oliche, composte tra il 41 e il 39, se da un lato indicano ancora l'influenza epicurea nell'ideale di una pacificante natura, in cui rifugiarsi ("Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi, silvestrem tenui meditaris musam avena..:": l, l sgg.), dall'altro lato mostrano (cfr. IV, V, VI), di contro alla possibile disperazione epicurea (il mondo umano lasciato a se stesso), la speranza nell'immortalità çlel- l'anima, che porterà all'uomo una serenità piu alta, l'esigenza di com- prendere la natura come un tutt'uno con l'uomo (con accenti molto vicini all'anima mund; di Lucrezio, alla sua umanizzata e vi- vente natura, ma già reinterpretata in senso stoico), onde nelle Geor- giche (composte tra il 37 e il 30, e su invito di Mecenate e di Augusto), e tanto piu, poi, nell'Eneide, riappare il motivo della Provvidenza, 156    della pietas, della purificazione dell'anima immortale attraverso il do- lore e la morte, della speranza in un al di là in cui saranno premi o pene (la descrizione dell'Ade orfico è in genere ricavata dal VI del- l'Eneide), del destino di Roma, dell'imperium di Roma che, mediante il suo princeps (il simbolico pio Enea), porterà pace, ordine e civiltà nel mondo, compiendo la ragion d'essere, la legge del tutto: tu regere imperio populos, romane, memento - hae tibi erunt artes - pacique imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos (Aen., VI, 851-53). Se è, senza dubbio, vero, com'è stato detto e si ripete che "il poeta partito da posizioni epicuree, attraverso la meditazione del dolore come retaggio comune all'umanità, è giunto ad intendere provvidenzialmente il destino e a ravvisare nel mondo la legge di una superiore giustizia che è legge di superiore bontà" (L. Alfonsi, s. v. in Enciclopedia filosofica), è altrettanto vero che non va scordata l'ascesa al potere di Au- gusto, di quell'Ottaviano del quale già nelle Bucoliche Virgilio aveva detto: "un dio, oggi, a noi dette questi ozt" (1, 6). Se il modello di vita, assunto da Orazio, entro i termini dei rifugi epicurei, si scoloriva in un atteggiamento di pacato intimismo e di sor- ridente umiltà (forse la celebre dichiarazione di Orazio d'essere un "porco del gregge di Epicuro," Epist., l, 4, 16, va veduta nel significato che gli antichi davano a porco, l'animale che si contenta di poco: cfr. Pla- tone, Repubblica, 372d; ma non va scordato peraltro il Carmen saecu- lare), il modello di vita virgiliano finiva in unl.accettazione del supremo ordine, dell'equilibrio nuovo, della rinnovata pietas, della religio, voluti da Augusto, e identificantisi in lui - in un compimento del cicero- niano ideale scipionico - correttore e salvatore della patria, princeps della res-publica, pater patriae. 4. Politica e cultura all'avvento di Augusto Cesare fu ucciso il 14 marzo del 44 a. C. Dopo quattordici anni di nuove lotte terribili, di proscrizioni e di gratuite morti, di alleanze e rotture, nel 30 a. C., dopo la battaglia di Azio, Ottaviano rimase arbitro della situazione. Sembrò, certo, che solo attraverso lui e la sua abile e privata politica fosse possibile ricostituire l'equilibrio e l'armonia, avere la pace. Egli apparve cosi come un patrono, protettore dei sudditi e, perciò, moderatore e princeps. Si sarà veduta, in lui, non solo la possi- bilità di salvar(' la res-publica, ma, dando ad Augusto il patronato uni-  157   versale, l'unica possibilità di una pax e di una libertas, anche se relati- vissime, che pur erano molto, rispetto al terrore di prima. Paolo Frezza, commentando come Augusto presenta il suo potere nelle Res gestae: (l l, Annos undeviginti natus exercitum privato èonsilio et privata i m pensa comparavi, pel" quem rem publicam [ a do ]minatione factionis oppressam in libertatem vindica[vi]. - XXV 2. Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua et me he[lli], quo vici ad Actium, ducem depoposcit. Iuraverunt in eadem ver(ba provi]nciae Galliae Hispaniae Africa Sicilia Sardinia. - XXXIV l. In consulatu sexto et septimo, p[ostquam bella civil]ia extinxeram, per consensum universorum (potitus rerum omni]um, rem publicam ex mea potestate in senat[ us] populique Romani arbitrium transtuli); e richiamando la cosiddetta lex de imperio Vespasiani: ("la legge ricorda ad uno a uno i poteri straordinari conferiti da senato e dal popolo a Vespasiano: ciascuno di questi poteri o facoltà eran stati esercitati anche da Augusto: e il documento si riferisce a questo fan. come precedente della concessione attuale"); ha finemente sottolineato il duplice aspetto con cui si determina potere di Augusto e il possibile conflitto tra il principe e le magistr ture della Città Stato, donde l'esigenza da parte del legislatore di dete minare la "costituzionalità del potere del principe: la sua commensur bilità con la conformazione dei poteri costituiti ed attribuiti in ser all'ordinamento della città-stato" (Frezza, Per una qualificazione is; tuzionale del potere di Augusto, in" Atti e Memorie dell'Accad. Tosca.t di Scienze e Lettere la 'Colombaria'," XXI, Firenze, 19: pp. 112-3). Da un lato Augusto, privatamente salvatore della res-publica, del Stato-Città (e, dunque, di tutte le sue magistrature), perciò stesso p· essere acclamato patrono protettore, onde i cittadini si assoggettano lui come clienti; dall'altro lato Augusto ritrasferisce le potestà su di assunte, con un atto di sua volontà, all'arbitrio del senato e del pop< romano. Solo che Augusto, proprio perché acclamato universalmeJ princeps e patrono (non particolarmente, come nel caso del rappo cliente patrono) e ritrasferendo al Senato e al Popolo, con un atto propria volontà, la potestà assunta, rimaneva arbitro dello Stato proc mandosi ragion d'essere (heghemonikon, princeps) dello stesso Stato, svincolava da ogni legame giuridico-istituzionale, e assumeva cosi in tutto il potere, essendo egli cioè l'istituzionalità medesima, egli al 158 là del Senato e del Popolo, con il suo potere esplicantesi attraverso il Se-. nato e il Popolo, egli, appunto, princeps rei publicae. Con ciò, evidente- mente, la Città-Stato cessava d'essere tale, mentre i cittadini cesseranno d'essere cittadini per divenire sudditi e i magistrati magistrati pèr dive- nire via via funzionari dell'impero e del sovrano. " L a necessità che il principio polarizzatore delle istituzioni dello Stato-Città, e il principio regolatore delle istituzioni del principato, rima- nessero l'uno all'altro opposti, ed insieme la necessità di ottenere da una sintesi dei due opposti principi, le soluzioni dei problemi in cui si pre- sentava il contenuto della nuova esperienza dello Stato: questa è, se non m'inganno, l'antinomia da cui si genera l'evoluzione storica del principato, ed in cui si puntualizza il limite- della consapevolezza che gli artefici dell'ordinamento nuovo ebbero dell'esperienza di cui essi stessi erano i modellatori. Del quale ordinamento il carattere fonda- mentale è dunque la duplicità. Da una parte il primordiale sistema istituzionale del potere del principe, che si riassume nella elementare affermazione di un sol soggetto di tutto il potere di fronte ad una totalità di sudditi, nella quale tende a scomparire la differenza fra il suddito e il civis. Da un'altra parte il raffinato. ma non piu autonomo, sistema istituzionale dello Stato-Città, in cui, come in un prisma, il totale e totalitario potere del principe si scompone in una molteplicità di settori di azione, di competenze, di limiti istituzionali all'esercizio del potere medesimo... Lo sviluppo della storia del principato, di cui la storia giuridica è un aspetto, si incarica di dimostrarci che, a misura che il potere del principe si va consolidando come ordinamento, ossia come sistema di rapporti costanti, lo Stato-Città, come soggetto com- presente nella formula dell'equilibrio dinamico della costituzione del principato... tende a scomparire. L'allontanamento dei cittadini dal- l'esercito, e dei senatori dai comandi militari, l'accesso dei provinciali al trono imperiale, e l'immissione sempre piu massiccia di provinciali nelle file della classe dirigente, la formazione di una nuova solida gerar- chia di alti ufficiali dell'impero, ai quali soltanto incombe la funzione di governo, agli ordini del sovrano, sono, com'è noto, i fenomeni com- plementari del progressivo scomparire del senato e della magistratura di Roma dalla direzione politica dell'Impero" (Frezza, cit., pp. 139-30). Ci siamo un momento soffermati, da un lato sulla situazione psi- cologica che ha potuto determinare l'accettazione del potere di Augu- sto, e, dall'altro lato, sulla stessa determinazione della qualificazione istituzionale-giuridica del suo potere, perché sembra che tutto questo possa servire a spiegare - attraverso le componenti culturali, di cui si è veduto il confluire e l'intrecciarsi tra il I I e il r secolo a. C., - il prevalere in quest'ultimo scorcio di secolo, e ancora nel primo quaran-  159   tennio circa del 1 d.C., di posizioni stoico-platoniche, entro la linea che abbiamo visto svilupparsi con Cicerone, e che esattamente rispon- devano e servivano a ben precise situazioni politiche, particolarmente quali si erano venute determinando con il prevalere di Augusto e con la sua linea tattica. Non sembra cosi un caso che Augusto riprendesse il termine di princeps, che si proclamasse primus inter pares, proprio per il motivo, che sopra abbiamo visto, di porre sé al di sopra (donde il titolo di augustus) e al di là del Senato e del Popolo, assumendo in tal modo un potere extra res-publica, per cui davvero si costituiva un'egemonia dei due termini e delle magistrature, dei quali Augusto rimaneva l'egemone, il princ~tJs. Il termine heghemonik_6n, già da Ci- cerone reso in latino con principatum, stava a indicare, nelle posizioni stoiche di questo periodo, la ragione universale, non come principio a ~ ma come atto unificante una molteplicità, secondo un ordine, ed esplicantesi mediante diverse funzioni, onde si poteva dire che la ragione del tutto (il 16gos) veniva a porsi prima inter pares, in sé riassumendo le parti e dando alle parti. il loro giusto posto nell'or- dine del tutto. E tale, si come Cicerone aveva fatto apparire l'Emi- liano, Augusto, anche se con abile sottinteso, voleva fare apparire sé, ragion d'essere dello Stato, principio d'ordine e di equilibrio, non uomo del senato e del popolo (cui rende la res--publica), ma di ambedue cor- rettore e principe. E si badi - anche questo è indicativo - che nei paesi ellenistici (non in Roma) Augusto veniva chiamato basiléus, re, e ciò tanto piu si chiarisce quando si pensa al significato che al re si era venuti dando nelle monarchie ellenistiche (cfr. sopra). E cosi non è, forse, solo un caso che il filosofo di corte, assunto da Augusto, suo consigliere e consigliere (una specie di confessore) della moglie di Augusto, sia stato uno stoico, Ario Didimo di Alessandria (vissuto tra il 69 a. C. e il primo decennio del 1 secolo d. C. : cfr. Diels, Dox., 80). E qui è forse interessante riferire un estratto dell'Epitome di Ario Didimo, riportato da Eusebio (Praep. ev., XV, ·15, 1-9), in cui Ario Didimo, in sintesi, delinea la concezione generica dello stoicismo: Chiamano dio l'intero cosmo con le sue parti. E dicono che il cosmo è unico, limitato, vivente, eterno e divino. In esso infatti sono contenuti tutti i corpi, e nessun vuoto esiste in esso. ~ chiamato cosmo non 5olo il qt~ale costituito da tutta la sostanza esistente; ma anche ciò che secondo un'ordinata disposizione ha una struttura di tal genere. Perciò, secondo la prima definizione, dicono che il cosmo è eterno; secondo l'ordinata dispo- sizione, lo definiscono generato e mutevole secondo infiniti periodi, passati e futuri. E la qualità costituita da tutta la sostanza esistente è il cosmo eterno e divino. Ma è detto cosmo anche l'insieme costituito di cielo, aria, 160    terra, mare e delle nature che sono in ciascuno di questi elementi. t detto cosmo anche il domicilio degli dèi e degli uomini, ovvero l'insieme costi- tuito (dagli dèi e dagli uomini), e dalle cose che sono nate in vista di quelli. Infatti, a quel modo che diciamo città in due sensi, come domicilio e come insieme degli abitanti e dei cittadini, cosf anche il cosmo è come una città costituita di dèi e uomini, in cui gli dèi hanno il governo e gli uomini sono i sudditi. Tra gli uni e gli altri v'è comunione, perché partecipano della ragione, che è legge di natura. Tutte le altre cose sono nate in vista di quelli. E in accordo con tutto ciò bisogna ritenere che degli uomini si prenda cura dio che governa l'universo [si confronti anche Platoae, Leggi,. 899d sgg., 903b sgg.], che è benefico, buono, amante degli uomini, giusto,, e che ha tutte le virtu. Perciò il cosmo è detto anche Zeus, essendo per noi l'autore della vita (z~n). In quanto dio fin dall'eternità governa tutte le cose ineluttabilmente con una ragione concatenata, è detto Fato. t detto Adrastea,. poiché niente può sfuggirgli [apodidrtiskein]. t detto Provvidenza, perché ha cura di ciascuna cosa secondo i singoli interessi. Cleante credeva che· parte dominante [egemonica] del cosmo fosse il sole, perché è il piu grande· degli astri e quello che massimamente contribuisce al governo dell'universo,. dando origine al giorno, all'anno e alle altre divisioni di tempo... Crisippo· identificò questa parte con l'etere purissimo e semplicissimo, perché è il piu mobile di tutti gli elementi e trascina in giro l'intera traslazione del' cosmo (Dossografi greci, a cura di L. Torraca, Padova, 1961, pp. 249-50).. Certo bisogna tener presente che quando si dice stoicismo o plato- nismo, o stoicismo platonico, o anche aristotelismo stoicheggiante o· platonizzante, in effetto diciamo qualcosa di molto vago, se non inten-· diamo una vaga visione d'insieme, uno sfondo culturale, ormai cristal-· lizzatosi ed estremamente diffuso sia nelle scuole, sia in manualetti di. massime, sul tutto e sulla vita pratica, circolanti presso il popolo, com'è· largamente testimoniato. Tale visione d'insieme e legale di un universo• vivente, poteva poi servire, sia sul piano del diritto e del potere poli- tico, sia sul piano dei singoli insegnamenti e dell'avviamento nelle scuole, da un lato ad una morale comune e religiosa, dall'altro lato alle tecniche formali del dire (grammatica, retorica e dialettica) e alle sin- gole tecniche pratiche (le cosiddette singole scienze); essa risulta compen- diata in manuali che, usando cognizioni e notizie acquisite, assumono l'aspetto di repertori e di centoni. Se ciò si vede bene, nel suo aspetto particolare, ad esempio nel tipo di geografia descrittiva e umana di Strabone (63-25 a. C.), a carattere enciclopedico e informativo, ove non v'è piu nulla degli interessi mate- matico-scientifici che avevano mosso un Eratostene e piu tardi Cratete di Pergamo e Agatarchide di Cnido, altr.ettanto bene ci rendiamo conto di tutto questo anche dalle testimonianze e dai pochi frammenti che poS5ediamo di Eudoro di Alessandria e di Ario Didimo. Vissuti nella seconda metà del 1 secolo a. C., il primo piu vicino a forme platoniz- zanti tipo Antioco di Ascalona (ad Antioco successero nello scolar- cato dell'Accademia, mantenendosi sulla stessa sua linea, Aristone di Ascalona, dal 68 al 51, ascoltato da Bruto e da Cicerone, e Teomnesto di Naucrati), il secondo a forme stoicheggianti (sembra che lo stoi- cismo ufficiale della scuola di Atene si sia mantenuto, con gli scolarchi successi a Panezio, Mnesarco, Apollodoro di Atene, Dionisio, Anti- patro di Tiro, sulla linea di Panezio), l'uno e l'altro hanno scritto dossografie, opere filosofiche a carattere enciclopedico, commenti al Timeo, di Platone, alle Categorie e ad alcune parti della Metafisica di Aristotele (Eudoro: cfr. Simplicio, Schol. in Arist., 6la, 25; Plutarco, De anim. procr. in Tim., III, 2; Alessandro, Metaph., 44, 23), epitomi (Ario Didimo: cfr. Doxographi del Diels). Entro, appunto, questa concezione comune platonico-stoica, con ve- nature proprie alla scepsi della nuova Accademia, in senso ciceroniano (cfr. sopra: e Ario Didimo in Stobeo, Ecl.; Diels, Dox.), si determinava un tipo di cultura enciclopedica, per cui poteva servire Aristotele (partico- larmente i libri di logica, usati come introduzione all'arte del retto ragionare, e i libri naturalistici, biologici, zoologici, meteorologici), sr come Panezio o Posidonio, e, in specie, i commenti scolastici ai grandi testi, e, insieme, le dossografie, le epitomi, le raccolte di questioni trat- tate per problemi e divise per scuole, secondo un capostipite nella cui linea si facevano rientrare i successori (tale metodo s'era diffuso, sul- l'esempio di Teofrasto, tra il 111 e il u secolo a. C., mediante la Successione dei filosofi: dtcx3o:x,~ -rClv cpr.ì.oaO<p(J)V, del peripatetico Sozione originario di Alessandria, che aveva distinto due scuole, l'ionica e l'italica, e che fu una delle fonti maggiori cui attinsero i compilatori posteriori, fino a Diogene Laerzio). Un esempio di tali motivi è rappresentato dall'edizione che delle opere scolastiche di Aristotele, ritrovate nel 133 a.C., a Scepsi (cfr. sopra, I vol.), consegnate dagli eredi di Neleo al libraio Apellico (che dal 100 circa, portatele ad Atene, le offrf in pubblica lettura) requisite da Silla nell'86 a. C., fece, insieme al grammatico Tirannione, Andro- nico di Rodi (scolarca dal 70 al 50 a. C.: dopo Critolao erano stati scolarchi Diodoro di Tiro ed Erimneo, dei quali poco o nulla sappiamo). Basti, nel sen~ di cui sopra parlavamo, ricordare quel che Porfirio dice del criterio usato da Andronico: "Egli divise le opere di Aristotele e di Teofrasto in argomenti (1tpor:yjL«u(~), mettendo insieme sotto titolo comune le specula~ioni che trattavano argomento affine (-r~Ì4; o!x&tcxç 01to-&éaetç etç -rcxù-ròv auvcxycxyci>v) (Vita di Plotino, 24, 138); e 162    basti pensare all'ordine con cui si venne a costituire il corpus aristote- lico (Organon, Fisica, De coelo, De genesi et corruptione, Meteorolo- gica, De anima, Parva naturalia, libri sugli Animali, Metafisica, Etica Nicomachea, Magna moralia, Etica Eudemea, Politica, Retorica, Poe- tica). Se da un lato è chiaro l'intento di volere istituire il libro della scuola peripatetica (altrettanto sintomatico è che proprio in quest'epoca venga edita, a cura di Attico e di Dercillide, sulla linea dell'edizione di Aristofane di Bisanzio, l'opera di Platone, divisa in tetralogie, da cui riprese poi Trasillo, vissuto sotto l'imperatore Tiberio, il cui Corpus platonicum sarebbe poi quello giunto fino a noi), dall'altro lato è chiaro l'intento di offrire una enciclop.edia delle scienze unificate, in un unico sistema. E ciò non significava affatto che, a cornice del quadro aristo- telico, della divisione della filosofia (come cultura di fondo) in logica, fisica, etica, non potesse servire la struttura generale dell'universo, entro i termini teologico-ontici e del tutto vivente, dell'ultimo Platone, di certi stoici e dell'Aristotele di alcune parti della Metafisica, oltre quello ch'era stato il platonismo, il primo stoicismo, l'aristotelismo. Di qui, anche, l'importanza delle introduzioni alle visioni totali di un cosmo ordinato e, perciò, all'astronomia; e le relative sinopsi sco- lastiche. Edizioni di testi, dunque, introduzioni generali, sillogi. Certo quel che colpisce, e che rivela tutto un modo di pensare rispondente a certe precise esigenze, è ciò che si pubblica, sono i testi che circolano e si commentano: Platone, Aristotele; il complesso della visione stoica quale si era venuto conformando nel tempo; per altra via si costrui- scono testi pitagorico-matematici, testi religiosi che vanno sotto l'eti- chetta di testi orfici, particolarmente si commenta, e non è poco indi- cativo, il Timeo di Platone, le Categorie di Aristotele, testi di astro- nomia; mentre si vanno perdendo, o si accantonano, almeno ufficial- mente, le altre linee che avevano costituito altre filosofie e concezioni. Non è forse senza interes_se ricordare a tale proposito il nome di Boeto di Sidone (detto " peripatetico, " per non confonderlo con Boeto di Sidone stoico), discepolo di Andronico di Rodi, amico di Strabone, successo, sembra, alla morte di Andronico nello scolarcato del Peri- pato di Atene. Egli avrebbe scritto una serie di commenti, a carattere interpretativo e divulgativo, alle opere di Aristotele, con particolare riguardo alle Categorie (cfr. Ammonio, In Cat., 5). Fondamentàli testimonianze di tutto questo sono tre opere, di non alto valore scien- tifico, L'introduzione ai fenomeni (Eta«y(J)yYJ et<; -.a ql«tV6fUV«), com- posta tra il 70 e il 63 a. C., di Gemino di Rodi, la Teoria circolare dei corpi celesti (Kux).~x1J .3-e:(J)pt« (l&-r&6:ip(J)v) di Cleomede (1 a.C.), e, infine, il De mundo (Ilept x6a(lOU), che andato sotto il nome di Ari- stotele e inserito nel Corpus aristotelico, venne compilato tra la seconda metà del I secolo a.C. (certo dopo l'edizione di Aristotele da parte di Andronico, e dunque, dopo il 40 a. C.) e il I secolo d. C. (ri- sulta già noto nella Dialexeis di Massimo di Tiro, la cui attività si svolse tra il 180 e il 190 d. C., ma già contro di esso avevano polemiz- zato Taziano, morto nel 172 e Atenagora, morto nel 177, mentre nel De mundo si rilevano chiare influenze di alcuni testi di Filone l'Ebreo, vissuto tra il 25 avanti e il 40 dopo Cristo: ma su tutto questo, e sulle varie tesi cfr. Festugière, cit., vol. Il, pp. 477 sgg.). I primi due testi sono vere e proprie introduzioni scolastiche al- l'astronomia, ove, in effetto, non v'è nulla di nuovo, ma dove colpisce il tentativo di inquadrare le descrizioni dei fenomeni celesti (si badi che si resta sempre sul piano descrittivo) entro una piu ampia conce- zione dell'universo, che è, poi, quella stoico-aristotelica, con non pochi spunti ripresi dalla tradizione che proveniva dal Timeo platonico, dal- l'Epinomide e, probabihnente, da alcune ricerche di Posidonio, ch'era pur sempre un tentativo di razionalizzazione dell'Universo. Il De mundo ha maggiori velleità, e si presenta come delineazione compiuta e sistematica dell'ordine del tutto, una specie di libro sapienzale, in cui se da un lato si sfruttano le conclusioni aristoteliche sul piano fisico-meteorologico (mondo superiore, immobile e ordinato, regione sublunare corruttibile e disordinata, etere quinto elemento, eternità del mondo), dall'altro lato si sfruttano certe tesi stoiche (il pneuma, la Prov- videnza, Dio legge dell'universo, l'universo come l'insieme del cielo e della terra con tutti gli esseri ivi contenuti), e certe tesi platoniche (Dio principio, mezzo e fine), in funzione di una unità sistematica, mediante cui si po~eva - sul piano di un Antioco - vedere in Ari- stotele e nello stoi~ismo un compimento del platonismo. Sotto questo aspetto, il De mundo, che si apre con un elogio della sapienza (I), per passare quindi a descrivere la struttura dell'universo, i suoi elementi, le regioni di tali elementi, i fenomeni propri a ciascuna regione (11-IV), sostenendo l'unità ed eternità del Cosmo, il suo ordine, la sua unica ragion d'essere (V), che è la stessa divinità, trascendente (l'altis- simo) e immanente a un tempo, che tutto governa e donde provengono tutti gli effetti, Dio, platonicamente principio, mezzo e fine del tutto (VI-VII), poteva assumere, davvero, la funzione di libro di scuola, ov'era, in linee chiare e facili, esposta quella cultura di fondo di cui abbia,mo parlato. Altri punti del De mundo, ha sottolineato il Festu- gière (cit., pp. 513-14), avranno un gran posto nella letteratura teolo- gica dei due primi secoli dell'Impero, e particolarmente nell'ermetismo, e cioè: l'eminente dignità di Dio; l'unicità di Dio; la polionimia di Dio. Dirà Seneca. Gli Etruschi, antenati dei romani, hanno riconosciuto lo stesso Giove, come noi, moderatore e guardiano dell'universo, anima e soffio vitale del mondo, signore e architetto di tale produzione, colui al quale ogni nome si addice. Vuoi chiamarlo Destino? Non t'in- gannerai: da lui tutto dipende, egli causa delle cause. Vuoi chiamarlo Provvidenza? Sarà detto bene: per suo consiglio si è provveduto ai bisogni di questo mondo, s1 che nulla ne turba il cammino ed egli senza ostacolo svolge il corso delle proprie azioni. Vuoi chiamarlo Natura? Non è errato: da lui tutto è nato, il soffio di lui ci anima. Vuoi chiamarlo Mondo? Non avrai torto: egli è questo Tutto che vedi, che penetra ciascuna delle sue parti, che è a fondamento di sé e di tutto ciò che è in lui" (Naturales quaest., Il, 45). Aveva detto Varrone: "Bisogna tener presente che tutti gli dèi e le dèe sono il solo Giove, o che, come vogliono alcuni, tutte queste cose siano parti di Dio, o che siano potenze di Dio, secondo l'opinione di coloro che fanno di Dio l'anima del mondo. Tutta la vita universale è la vita d'uno stesso Essere vivente, che contiene tutti gli dèi che sono po- tenze, membri, o parti" (fr. 15 b Agahd). Il De mundo si colloca, anche cronologicamente, tra questi testi di Varrone e di Seneca, rispecchiando assai chiaramente la koinè cultu- rale-politica quale si venne configurando tra la fine del 1 secolo a. C. e la prima metà del I secolo d. C., e l'importanza, piu che scientifica teologi~politica, assunta dagli studi di astronomia e di questioni na- turali, che, per il resto, usando notizie acquisite, si delineano in ma- nuali di volgarizzazione e in repertori scolasticamente utili, in summe di un sapere ormai istituzionalizzato. E cosi sembra di non poco inte- resse il termine architetto usato da Seneca per indicare la divinità, che se da un lato richiama la moralità come architettura di aristotelica memoria, dall'altro lato dà il significato esatto di questa visione misu- rata e normativa dell'universo, cui ha da adeguarsi l'uomo e la società e l'opera stessa dell'uomo, indipendentemente ormai, in una certa atmosfera culturale acquisita, da dimostrazioni e da prove, valida, invece, come dato di fondo su cui poi ciascuno deve svolgere il proprio mestiere, mettere a frutto le proprie particolari cognizioni. E qui, in ispecie, pensiamo alla prima scuola filosofica che si apri in Roma, proprio tra la fine del I secolo a.C. e i primi anr1i del I d. C., fondata da Quinto Sestio (nato circa nel 70 a. C.), cui successe, nella direzione, il figlio Sesto (forse Sertius Niger, indicato da Plinio quale fonte dei libri dodici, tredici, ventuno-trenta, trentadue-trenta- quattro, della su.a Storia naturale) e, perciò, detta poi la "Scuola dei Sestii." Breve fu la durata della Scuola. Per quel poco che sappiamo di essa, attraverso Seneca, che, nel 18-20 d. C., fu discepolo di Sozione di Alessandria, aderente alla Scuola dei Sestii; e di Fabiano Papirio, anch'egli della Scuola, e di cui Seneca dice che non fu "filosofo cattedratico, ma vero filosofo all'antica" (De brevitate vitae, X, l) e per qualche testimonianza di Stobeo, possiamo -indicare la Scuola come configurantesi entro i termini del piu generico stoicismo, che soprat- tutto doveva servire da fondamento all'insegnamento etico, alla forma- zione del cittadino, e da fondamento all'insegnamento di materie par- ticolari: questioni naturali, politiche, retoriche, di medicina (ricor- diamo di Fabiano i titoli pervenutici di alcune sue opere: Libri cau- sarum naturalium, De animalibus, Libri t:ivilium), di cui abbiamo un esempio nell'opera di Aulo Cor~elio Celso della Scuola dei Sestii. Celso, vissuto tra Augusto e Tiberio, scrisse una grande enciclopedia, di cui non è rimasto che il volume De re medica, già esso estremamente indicativo di un metodo e di un tipo di richlesta (gli altri volumi erano dedicati all'agricoltura, all'arte militare, alla retorica, alla filosofia e al diritto). Il De re medica (in otto libri) non è affatto opera origi- nale - si pensa anche che sia la traduzione di un'opera medica in greco, torse, secondo Max Wellmann, Celsus, in "Philol. Untersuch.," Berlino, 1913, di un certo Cassio, andata persa - ma, a parte il suo valore come fonte per la storia della medicina e delle scuole medi- che (1), è una preziosa opera divulgativa e descrittiva, che poteva servire non poco ad una preparazione specifica, soprattutto per la sua precisione nella descrizione dei sintomi delle malattie e dei mezzi di guarigione (11-IV), tanto dietetici che farmaceutici (V-VI: veri e propri trattati di farmacologia), degli interventi chirurgici (VIi: è per la prima volta descritta l'operazione della cateratta) e delle malattie delle ossa (VIII). D'altra parte non va qui scordato il medico Asclepiade (vissuto circa tra il 124 e il 45 a. C.), di Prusa, in Bitinia, che nella prima metà del I secolo a. C., fbndò in Roma la prima, privata, scuola di medicina (pubblicamente una Schola medicorum venne eretta in Roma solo nel 14 d. C.). Asclepiade, che aveva studiato ed esercitato . in molte città di Oriente e in Alessandria, che aveva risentito le influenze delle teorie di Erasistrato (cfr. I vol.), ritenne, ed è ciò che qui interessa, che la dottrina epicurea degli atomi (da Asclepiade detti 6nco1) e della formazione delle cose e loro costi- tuzione a seconda della disposizione e organizzazione degli atomi stessi, fosse l'unica dottrina che poteva permettere al medico di ope- rare sulla natura del corpo umano, ristabilendo, di volta in volta, certi equilibri, o determinandone, mediante un'intelligente esperienza, altri migliori, curando, appunto, "mediante la stessa natura," soprat- tutto per mezzo della dieta, s( da ricostituire la simmetria degli atomi mediante mezzi sicuri, rapidi, _piacevoli (cfr. Plinio il Vecchio, Nat. hist. XXVI, 7, 3 sgg.). Non è un caso, tuttavia, che Asclepiade, in epoca piu tarda, al tempo in cui anche in medicina prevalse la teoria 166    pneumatica, di chiara ispirazione stoica, sia stato detto un ciarlatano (Plinio, Galeno), e accomunato al suo discepolo Temisone di Laodicea, che abbandonata ogni teoria generale, dette avvio alla cosiddetta scuola dei metodisti, assumendo come metodo (donde il nome della scuola) l'osservazione, mediante cui determinare i caratteri propri a ciascuna malattia, e fondandosi sulla "tensione" dell'organismo rivelantesi at- traverso il battito del polso. Certo egli cercò soprattutto di compiacere alla sua ricca clientela, mentre i medici piu seri, da Eraclide di Taranto (principio del I a. C.) ad Apollonia di Cizio (metà del I a. C.), appar- tenuti ambedue alla scuola empirica, cercarono soprattutto di descri- vere le acquisizioni da essi fatte mediante la pratica e la somma delle loro esperienze, sottoposte a verifica, finché proprio al principio del I secolo d. C., poco dopo la pubblicazione dell'opera di Celso, avremo che anche la medicina si ispirerà, per lo stesso fondamento teorico dell'arte, per il fondamento della fisiologia e della patologia, al sistema stoico (la scuola pneumatica, rifacentesi ad uno scritto del Corpus hip- pocraticum, il De flatibus, fu fondata cla Ateneo di Attalia). Ad ogni modo, se, come pare, gli altri volumi dell'enciclopedia di Celso avevano gli stessi caratteri del volume dedicato alla medicina, seml:>ra esattamente confermato quanto sopra dicevamo. E ciò tanto piu risulta vero, quando pensiamo alla stessa attività degli scienziati tra il I a. C. e il principio del I d. C., che, sempre meno teorici, o meglio usando teorie già acquisite, appaiono soprattutto come dei tecnici, dei meccanici, degli ingegneri, dei pratici, che perfezionano strumenti e operano, a cominciare dai tecnici. di Alessandria (Ctesibio, Filone di Bisanzio) a finire ai tecnici romani, costruttori di strade militari, di monumenti, di porti, di fognature, di macchine belliche (cfr. l'Archi- tettura di Vitruvio), rispondenti alle esigenze politiche, militari, urba- nistiche di Roma (cfr. Prefazione di Vitruvio), al grande alessandrino Erone (vissuto nella seconda metà del I secolo d. C.), anche se man- tenendo quella visione d'insieme, quello sfondo culturale, quella cre- denza in un tutto ordinato e architettonico, quale anche si rivela nel celebre De architectura (del 25-23 a.C.) del grande tecnico e archi- tetto Vitruvio Pollione, vissuto tra il tempo di Cesare e di Augusto e a loro legato. Vitruvio era convinto che la misura delle costruzioni umane ("l'architettura è costituita: dall'ordinamento, che in greco si dice -r&~r.ç, e dalla disposizione che i greci dicono 8t&.&eatc;; e dal- l'euritmia, la simmetria, il decoro, la distribuzione detta in greco o[xovo!J.(ot, l'ordine"; l, 2, l), deve essere adeguata alla misura del tutto, espressione di una certa umana cultura e civiltà, di cui l'espres- sione è l'architettura (cfr. Prefazione e I libro cap. 1), d'onde, anche per Vitruvio, l'importanza di una cultura enciclopedica, non solo  167   perché l'architetto possa realizzare tecnicamente le proprie opere (per cui l'architetto deve avere cognizioni di geometria, di prospettiva, di disegno, di meccanica, dei materiali, dei climi, delle situazioni delle città, di storia, delle acque, e cosf via), ma perché tale cultura sta a fondamento di ogni scienza, s1 come di ogni consapevole opera umana. La scienza dell'architetto si accompagna a molteplici conoscenze e a istruzioni varie... Essa nasce dalla pratica e dal ragionamento (e.r fabrica et ratiocinatione). La pratica: è una continua e minuziosa meditazione dd- l'uso, che si ottiene mediante le mani, con l'aiuto di un q1,1alche genere di materia buona per essere plasmata. Quanto al ragionamento: è ciò che può dimostrare ed esplicare, mediante la penetrazione della ragione, le cose che si eseguiscono... Né l'ingegno senza la scienza, né la scienza senza l'inge- gno può fare un compiuto artefice. L'architetto deve essere letterato, abile nel disegno, istruito in geometria; deve conoscere le leggende, deve avere con zelo ascoltato i filosofi, sapere di musica, non essere ignorante di medicina, sapere le decisioni dei giureconsulti, conoscere l'astrologia e le leggi dd cielo... Potrà, forse, sembrare curioso agli inesperti che la natura possa approfondire e contenere nella memoria si gran numero di scienze. Ma quando si saranno resi conto che tutte le scienze hanno tra loro una connessione e uno scambio di contenuti, capiranno come ciò possa facil- mente avvenire. La scienza universale (encyclios disciplina), infatti come un sol corpo ~composta di queste membra. Cosi coloro che fin dalla tenera età vengono avviati a conoscenze molteplici, riconoscono in tutte le branche delle lettere gli stessi caratteri e le mutue relazioni di tutte le scienze, donde giungono piu facilmente alla nozione di tutte le cose (1, l, 1-2, 9, 44-45). Di Enesidemo sappiamo molto poco. Sappiamo che nacque a Cnosso, nell'isola di Creta (cfr. Diogene Laerzio, IX, 116) - secondo Fozio, Myriobiblon o Bibliotheca, 170a, sarebbe nato ad Egea;- che per un certo periodo insegnò ad Alessandria (Aristocle, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22) - il che può essere abbastanza interessante relativa- mente alla conoscenza che Filone di Alessandria poteva avere del- l'opera di Enesidemo; - che dapprima seguace dell'Accademia se ne sarebbe poi distaccato, ritenendo che in effetto i nuovi accademici piu che accademici fossero degli stoici (Fozio, cit.): il che fa pensare che, secondo anche la testimonianza di Sesto, Pyrrh. hipot., l, 235, il quale sostiene che Antioco di Ascalona aveva ridotto l'istanza scettica del- l'Accademia a un neo-stoicismo, la polemica di Enesidemo e il suo polemico prodamarsi pirroniano, per cui dette alla sua opera princi- pale il titolo Discorsi pi"oniani, fossero rivolti proprio contro l'equi- voca posizione di Antioco e la diffusione afilosofica del suo insegna- mento nella cultura romana. Secondo Fozio, Enesidemo avrebbe dedi- cato i Discorsi pirroniani "a un certo suo collega accademico, di nome Tuberone, romano di nascita, di famiglia illustre, che aveva avuto ma- gistrature civili non volgari" (Fozio, Myr., 169b). A parte un Tu- 2 Di Enesidemo sappiamo che nacque a Cnosso, nell'isola di Creta, che insegnò ad Alessandria, e che scrisse un'opera intitolata Discorsi pi"oniani, di cui abbiamo un sunto nel Myriobiblon (o Bibliotheca,Bt(3Àto~~x-~) di Fozio (Fozio dice Enesidemo na- tivo d.i Egea). Fozio dice anche che Enesidemo dedicò la sua opera a un certo Tuberone, uomo noto per famiglia e per cariche. Sulla questione dell'epoca in ctJi sarebbe vissuto Enesidemo (il 1 sec. a. C. o il 1 sec. d. C.) cfr. sopra nel testo. Altri titoli di opere perdute di Enesidemo sono: Contro la saggezza, Intorno alla ricerca, Schizzo introduttivo al pir- ronismo, Elementi, Prima introduzione. Si veda nel testo anche la questione dei disce- poli di Enesidemo (Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di Laodicea, Apelle), insieme al problema della loro cronologia ed a quella di Agrippa, di cui non abbiamo alcuna notizia biografica.  179   berone piu antico, della illustre famiglia conosciamo Lucio Elio Tu- berone, amico di Cicerone, legato di Q. Cicerone (proconsole in Asia nel 61-58), culturalmente vicino all'ambiente ciceroniano, e il figlio di Lucio, Quinto Elio Tuberone, che,' insieme con il padre, fu pompeiano e avversario di Cesare, ma che, riconciliatosì con Cesare, abbandonata la diretta vita politica, visse in Roma, occupandosi di studi storici, fin verso la fine del 1 secolo. Nulla vieta di pensare che il Tuberone cui fa cenno Fozio sia Quinto Elio, che, vissuto nel- l'ambiente ciceroniano, poteva benissimo essere considerato accademico, ma che poi, anche per influenza di Enesidemo, avrebbe potuto libe- rarsi dall'Accademia stessa, divenuta eccessivamente dogmatica e stoi- cheggiante. In effetto, dal lucido sunto che Fozio dà degli otto libri dei Discorsi pirroniani appare con chiarezza che la polemica di Enesi- demo è soprattutto volta contro i qeo-accademici, "stoici contro altri stoici" (Pozio, cit.), in un appello al pirronismo, quale termine ideale di un piu serio e consapevole modo di ~osofare, volto non tanto alla costruzione di una qualsivoglia concezione della realtà, ma alla com- prensione critica delle capacità e delle possibilità umane, in uno studio dei modi mediante cui l'uomo, ciascun uomo, a seconda della sua situazione (fisica e sociale), costituisce una certa concezione che viene poi spacciata per unica e vera. E di tale atteggiamento che, attraverso la polemica nei confronti della Nuova~Accademia, va oltre la Nuova- Accademia, in una radicale e sistematica discussione di ogni cultura conformisticamente cristallizzatasi, è testimonio anche Sesto Empirico, sulla fine del I I secolo d. C. (" Antioco introdusse la Stoà nell'Acca- demia, talché si disse di lui che nell'Accademia trattava la filosofia stoica" : Pyrrh. hypot., l, 235). Sesto Empirico, per altro, distinguendo tra scettici "piu antichi" e scettici "piu recenti" (Pyrrh. hypot., I, 36, 164), sostiene che spetta ai piu antichi di avere classificato dieci modi (tropi) mediante cui non si può nòn giungere alla "sospensione del giudizio" (cit., I, 36), mentre spetta ai piu recenti di averne clas- sificati cinque (cit., l, 164). E siccome altrove Sesto afferma (Adv. math., I, 345) di avere esposto nelle lpotiposi pirroniane i dieci tropi "secondo Enesidemo," si è di qui arguito che Sesto ponga Enesidemo tra gli scettici piu antichi. Una testimonianza di Aristocle (n sec. d. C.) pone, invece, Enesidemo tra i pensatori "recenti" (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22). Questo e la constatazione che Cicerone non citi Enesidemo (un testo del Lucullus, X, 32, tuttavia, è sembrato al Couissin, Le stoicisme de la nouvelle Académie, p. 263, un accenno, anche ·se sprezzante, alla posizione di Enesidemo) hanno messo in dubbio l'epoca in cui Enesidemo sarebbe vissuto (primo secolo avanti 180    o primo secolo d. C.?). Che Cicerone non citi Enesidemo è sembrato grave allo Zeller, il.quale sottolinea che Cicerone, molto vicino ai neoaccademici Filone di Larissa, Antioco di Ascalona e a Lucio Elio Tuberone, cui Enesidemo dedica i Discorsi, avrebbe dovuto discutere il pirronismo di Enesidemo, mentre invece afferma che il pirronismo era da tempo passato (De Oratore, III, 62). Si può, d'altra parte, far l'ipotesi che Cicerone, come non cita Lucrezio riducendolo al piu an- tico epicureismo, cosi si sgombri il terreno da Enesidemo che discute la validità scientifica del "probabilismo," mediante cui Cicerone ri- prendeva la concezione generale dello stoicismo, riducendo Enesidemo ai piu antichi pirroniani. Non solo, ma bisognerebbe essere sicuri che il Tuberone di cui parla Fozio sia Lucio Elio e non, invece, il figlio Quinto Elio (Fozio non precisa), perché in tal caso i Discorsi pirro- niani potrebbero essere stati scritti dopo la morte di Cicerone. Quanto, infine, al "recente" di Aristocle e all'"antico" di Sesto (ma, in fondo, quel "piu antichi" è molto generico e sta ad indicare la conclusione di un processo di sistemazione dei tropi scettici, rispetto ad altre piu recenti sistemazioni, tanto è vero che Sesto non fa nessun nome, mentre cita, Pyrrh. hypot., I, 180-181, Enesidemo per dire che suoi sono gli otto tropi mediante cui sovvertire i ragionamenti intesi a spie- gare le cause, su cui si fonda la superbia dei dogmatici), si è giusta· mente pensato che Enesidemo "avrebbe potuto apparire recente ad Aristocle che lo raffrontava con Pirrone e antico a Sesto che lo raf- frontava con filosofi a lui posteriori" (M. Dal Pra, Lo scetticismo greco, Milano, p. 278). I Discorsi pirroniani sembra, dunque, che siano stati scritti nella seconda metà del 1 secolo a. C. Essi rinnovano, in un'atmosfera cul- turale, adagiatasi, attraverso Antioco e Cicerone, in una generica con- cezione stoico-platonica, accettata dogmaticamente come sfondo di una cultura comune e conformisticamente scolastica, anche se posta da al- cuni come verità "probabile," una corrente scettica (come atteggia- mento critico che " a ogni ragione oppone una ragione di egual valore" : Sesto, Pyrrh. hypot., l, 8, "senza dogmatizzare, nel significato che altri dànno alla parola dogma, cioè assentire a qualcuna delle cose che sono oscure e formano oggetto di ricerca da parte delle scienze": Sesto, cit., I, 13), che non si sarebbe mai spenta é che, secondo Diogene Laerzio (IX, 115-116), dopo Timone di Fliunte, avrebbe avuto i suoi maggiori rappresentanti in Tolomeo di Cirene, Sarpedonte, Eraclide, dei quali in realtà non sappiamo nulla (Eraclide sarebbe stato maestro di Enesi- demo: ma quale Eraclide, il medico Eraclide di Taranto, il medico Eraclide di Eritrea?).  181   Ad ogni modo, ammesso ch'Enesidemo sia vissuto piu tardi, biso- gnerebbe allora sostenere che prima di Filone l'Ebreo già vi fosse stato un pensatore che ha ripreso e diffuso gli antichi argomenti di Pirrone e di Timone, in polemica contro i neoaccademici e lo stoicismo gene- rico, contro il diffuso dogmatismo scolastico. Egli,.tuttavia, traspor- tando questi elementi su di un piano gnoseologico e logico, piu vicino a Carneade e ad Arcesilao che non a Pirrone, avrebbe criticamente ordi- nato i tropi (dei cosiddetti tropi di Enesidemo in Filone ne rintrac- ciamo almeno otto), mediante cui mostrare la necessità della "sospen- sione del giudizio" (epochè), anche nei confronti del "probabilismo," forse praticamente e politicamente utile, ma teoreticamente e scienti- ficamente un compromesso, al servizio dello stesso stoicismo, tropi, che come furono ripresi da Filone l'Ebreo, sarebbero stati ripresi e organicamente sistemati da Enesidemo, anche se con un fine assai diverso. In effetto, sia attraverso Filone l'Ebreo, sia attraverso il sunto che degli otto libri dei Discorsi pirroniani dà Fozio, sia attraverso ciò che di Enesidemo dice Sesto Empirico (anche Diogene Laerzio), ricaviamo che sulla fine del I secolo a. C. e sul principio del I d. C., come da un lato si venivano compilando le "summe" del sapere stoico, platonico, aristotelico, o piu generici manuali ove si delineavano concezioni d'in- sieme, cosi, dall'altro lato, si vennero ordinando in un complesso orga- nico gli argomenti propri alla tradizione scettica, che, appunto, di con- tro alle evasioni ed alle acritiche costruzioni di certo stoicismo plato- nizzante e aristotelizzante, dimentico dei piu complessi e scientifici problemi di logica e di gnoseologia, rappresenta l'aspetto piu scientifico e validamente filosofico di quest'età. "In origine, lo Scetticismo mirava," ha scritto il Robin, "alla salute nella saggezza; ma ·a poco a poco la sua dialettica assunse un signi- ficato prevalentemente metodologico... Analisi rigorosa e infaticabil- mente esauriente di tutti gli aspetti di un problema; abilità dialettica senza pari; probità intrattabile di uno spirito ché rifiuta d'ingannarsi da sé; risoluta ostilità contro la teoria e gli apriorismi di qualsiasi genere; rispetto del fatto puro, insieme con la sollecitudine di notarne scrupolosamente le relazioni e di utilizzarlo per la pràtica... In origine il suo metodo era una discipìina morale, il cui fine era la tranquillità dell'animo; in seguito, fu anche, e soprattutto, una disciplina dello spi- rito scientifico. Mai si atteggiò a ribelle, né cercò lo scandalo; l'umiltà del suo quietismo gli fece accettare la vita qual è; il suo rispetto del fatto lo condusse a trattare i fatti collettivi, costumanze e leggi, alla stregua di fatti naturali. Di fronte all'intolleranza dottrinale ed alla 182    tirannide dei pregiudizi di scuola, il suo atteggiamento critico espresse uno sforzo audace per rendere autonoma la scienza, chiedendole di applicarsi soltanto a detèrminare con rigore i suoi procedimenti tecnici, in vista della pratica utile" (Robin, La pensée grecque et les origines de l'esprit scientifique, trad. it. Storia del pensiero greco, Milano, pp. 553, 554-55). Tale il nerbo delle argomentazioni di Enesidemo, che, di contro all'atteggiamento platonico-stoico, cui con Antioco di Ascalona si era risolta l'Accademia di Arcesilao e di Carneade, si appella al primo scetticismo pirroniano, anche se, in effetto, la sua istanza critica assume un ben diverso colorito svolgendosi sul piano dell'indagine critica delle condizioni che permettono il giudizio, in un'analisi del linguaggio filo- sofico e in una discussione della liceità del passaggio dal discorso umano (che può essere molteplice e di volta in volta diverso) al discorso dd tutto. Non a caso Enesidemo ripercorre criticamente le tappe su cui si fonda il "criterio" stoico. Innanzi tutto, pur ammesso che i dati del giudizio siano la presenza alla coscienza delle impressioni, proprio perché nulla giustifica l'affer- mazione che l'impressione, l'apparire (fenomeno) alla coscienza di qual- cosa corrisponda ad una presunta cosa in sé quale è in sé, né che l'una impressione sia piu vera dell'altra - ogni animale, ogni uomo può avere impressioni diverse, anche a seconda della sua costituzione fi- sica, -'- nulla giustifica che il giudizio, o come affermazione o nega- zione di una rappresentazione - tenendo presente che ogni rappre~ sentazione presa a sé non è un giudizio, per cui ciascuna non è né vera né falsa, - o come discorso fra le rappresentazioni, corrisponda all'oggetto che ci rappresentiamo o allo strutturarsi della realtà in rap- porti di inerenza. Di qui scaturisce la critica sia alla logica propo- sizionale di tipo stoico (in cui l'uso predicativo dell'essere sarebbe dovuto ad un rapporto di identità) sia all'analitica di tipo aristotelico (in cui l'uso predicativo dell'essere sarebbe dovuto ;~ un rapporto di inerenza). I celebri dieci. tropi, che sembrano elaborati da Enesidemo, sono diretti, appunto, a determinare che le impressioni in quanto tali non sono giudizi, che è dubbio corrispondano all'oggetto rappresentato, e che, pertanto, neppure servono come dati del discorso, né in senso aristotelico, perché dovremmo prima ammettere un rapporto di ine- renza reale tra il soggetto e il predicato, rispondenti a oggetti per sé, né in senso stoico perché dovremmo prima ammettere che, almeno nel· l'uomo, in tutti gli uomini, la rappresentazione a richiama sempre la rappresentazione b e cos1 via.  183   Dagli scettici piu antichi - scrive Sesto Empirico - sono comunemente tramandati i dieci modi [tropi], per mezzo <{ei quali pare effettuarsi la sospensione del giudizio [epochè], che chiamano anche, con vocaboli sino- nimi, regole [16goi] e figure [t6poi]. E si riferiscono: l) alla varietà che si nota negli animali; 2) alle differenze che si riscontrano negli uomini; 3) alle diverse costituzioni dei sensi; 4) alle circostanze; 5) alle posizioni, agl'intervalli, ai luoghi; 6) alle mescolanze; 7) alle quantità e composizioni degli oggetti; 8) alla relazione; 9) al verificarsi continuamente o di rado; IO) alle istituzioni, costumanze, leggi, credenze favolose e opinioni dogma- tiche. Accettiamo questa serie dandole un .valore convenzionale... Dicevamo essere la prima regola quella secondo la quale le stesse cose non producono le medesime rappresentazioni sensibili, in conseguenza della differenza degli animali. Questo lo deduciamo dal modo differente del loro generarsi e dalla differente costituzione dei loro corpi... Se le medesime cose appaiono dif- ferenti ai differenti animali, potremo, sf, dire quale noi percepiamo l'og- getto; ma quale esso sia in realà, ci asterremo dal giudicare (Pyrrh. hypot., I, 36-78; cfr. anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 170-171; Diogene Laerzio, IX, 79-80)... Il secondo modo, come dicevamo, riguarda le differenze che si riscontrano negli uomini. Infatti, anche se, per ipotesi, si ammette che gli uomini sono piu degni di fede degli anÌir'..ali, troveremo che si arriva alla sospensione del giudizio pure per quanto si riferisce alle differenze che sono tra di noi. Delle due parti di cui si dice che consta l'uomo, anima e corpo, per l'una e per l'altra· noi differiamo l'una dall'altro... Pertanto è necessario, anche in forza delle differenze che sono tra gli uomini, arrivare alla sospensione del giudizio (Pyrrh. hypot., l, 79-89; cfr. anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 175 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 80-81). Terzo modo è quello che dicevamo riferirsi alla diversità delle sensazioni. Che le sensa- zioni differiscano tra loro è manifesto... Ciascuno dei fenomeni sensibili impressiona variamente. i nostri sensi; cosi la mela ci si mostra liscia, profu- mata, dolce, gialla. t oscuto; pertanto, se essa possieda, effettivamente, que- ste sole qualità, o se possieda una qualità unica e .ci appaia differentemente in conformità della differente costituzione degli organi del senso, oppure se possiede piu qualità di quelle che app~ono, e alcune non cadano sotto i nostri sensi (Py"h. hypot., I, 9I-95; anche Diogene Laerzio, IX, 81)•.. Il quarto modo è quello che si denomina dalle circostanze (chiamiamo cir- costanze i diversi modi di essere). E diciamo ch'esso va considerato nel fatto di trovarci in uno stato naturale o innaturale, nell'essere svegli o addor- mentati, in rapporto all'età, all'essere in moto o in quiete, all'odiare o amare, al versare nell'indigenza o esser sazi, all'essere ubriachi o sobri, alle predisposizioni, all'essere coraggiosi o paurosi, addolorati o contenti... Noi assentiamo maggiormente a ciò che ci sta davanti e c'impressiona nel pre- sente, che a ciò che non ci sta davanti... t impossibile dirimere questa discre- panza di rappresentazioni. E invero, chi preferisce una rappresentazione a un'altra, una circostanza a un'altra, o lo fa senza giudicare e dimostrare, o giudicando e dimostrando. Ma non lo può fare n~ con l'intervento né senza l'intervento di un giudizio o di una dimostrazione: in questo secondo caso non sarebbe degno di fede. Se recherà un giudizio sulle rappresenta- zioni, lo farà, indubbiamente, sulla base di un criterio. Ora questo criterio egli dir~ che è vero o falso; se falso, egli non meriterà fede; se, invece, dirà che è vero, o affermerà che il criterio è vero senza recare una dimostra- zione, oppure lo sosterrà in base ad una dimostrazione. Se lo affermerà senza recare dimostrazione, non meriterà fede; se in base a una dimostra- zione, sar~ assoll'tamente necessario che anche la dimostrazione sia vera, se no, non meriter~ feè~. Ora dirà egli la vera dimostrazione assunta per la conferma del criterio, in seguito a un giudizio o senza di questo? Se senza, non meriterà fede; se in seguito a un giudizio, è manifesto ch'egli dir~ di aver giudicato in base ad un criterio, del quale criterio cercheremo la dimostrazione e il criterio di questa, poiché sempre la dimostrazione, per essere confermata, avrà bisogno di un criterio, e il criterio avrà bisogno di una dimostrazione, per essere dimostrato vero; né la dimostrazione può essere vera, se non è preceduta da un criterio vero, né il criterio può essere vero, se la dimostrazione non è riuscita, prima, a convincere. Cosi, criterio e dimostrazione cadono nel diallele, in cui si scopre che né l'uno né l'altra meritano fede: l'uno, infatti, attendendo conferma dall'altra, e questa da quello, resta che entrambi non meritino, ugualmente, fede. Se, pertanto, né senza dimostrazione e criterio, né in base a questi può uno preferire rap- presentazione a rappresentazione, non sarà possibile decidere tra le rappre- sentazioni sensibili, che sono differenti secondo le differenti disposizioni. Talché, anche per quanto si riferisce a questo modo, si arriva alla sospen- sione del giudizio sulla natura degli oggetti esteriori (Pyrrh. hypot., l, 100-117; anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 178 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 82). Il quinto modo è quello che si riferisce alle posizioni, agl'intervalli e ai luoghi; e invero, secondo ciascuno di questi, le stesse cose appaiono differenti... Ora, poiché tutti i fenomeni si percepiscono in un dato luogo, a una tale distanza, in data posizione, onde deriva una grande differenza nelle rispettive rappresentazioni sensibili..., necessariamente, anche per questo modo, riusciremo alla sospensione del giudizio (Pyrrh. hypot., l, 118 sgg.; anche Filone l'Ebreo, De ebriet., 181 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 85-86, che dà questo tropo come settimo)... Il sesto modo è quello che si riferisce alle mescolanze, per il quale si conclude che, poiché nessuno degli oggetti cade sotto i nostri sensi di per sé solo, ma insieme con qualche altra cosa, forse è possibile dire quale sia la mescolanza formata dall'oggetto esteriore e dall'altra cosa insieme a cui viene percepito, ma non potremo dire quale sia l'oggetto esteriore nella sua realtà pura ... A causa delle mescolanz_e, i sensi non percepiscono quali siano, esattamente, gli oggetti esteriori. E nemmeno l'intelletto, perché i sensi, sue guide, lo ingannano. Ma forse lo stesso intelletto effettua una sua propria mescolanza nell'intendere ciò che viene annunziato dai sensi (Pyrrh. hypot., l, 124-127; cfr. Diogene Laerzio, IX, 84-85, che dà questo tropo come sesto)... Il settimo modo è quello che si riferisce alla quantità e costituzione degli oggetti, intendendo comunemente per costituzione, la composizione. Che anche per questo modo si sia co- stretti a sospendere il giudizio intorno alla natura reale delle cose, è mani-  185   festo. Per esempio, la raschiatura di corno caprino, guardata cosi sem- plicemente, fuori del composto, appare bianca, guardata, invece, nel com- posto del corno appare nera... Il rapporto quantitativo e costitutivo confonde la percezione della realtà esteriore (Pyrrh. hY,pot., l, 129 sgg.; anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 189 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 86, che dà questo tropo come ottavo)... L'ottavo modo è quello della relazione, e per esso in- feriamo che, tutto essendo relativo, noi dovremo sospendere il giudizio sulla reale natura delle cose. Bisogna notare che anche qui, come altrove, noi adoperiamo la voce "è," in luogo di "appare," intendendo dire, appunto: "tutto appare in maniera relativa." Ora questa relatività si afferma in due modi: in un primo modo rìspetto al giudicante (poiché l'oggetto esterno e giuditato appare relativamente al giudicante), in un secondo modo rispetto a quello che si percepisce insieme con l'oggetto, come ciò che è a destra rispetto a ciò che è a sinistra. Come tutto sia relativo, ab- biamo discorso anche precedentemente; cosi, rispetto al giudicante, ab- biamo detto che ogni cosa appare cosi o cosi, relativamente a questo ani- male e a quest'uomo e a questo senso e· a quella tale circostanza. Rispetto a quello che si percepisce insieme con l'oggetto, abbiamo detto che ogni cosa appare cosi o cosi relativamente a questa mescolanza, a questo luogo, a questa composizione, a questa quantità e posizione. Ma anche con ragio- namento proprio si può concludere che tutto è relativo, in questa maniera. Ciò che è assoluto differisce da ciò che è relativo, oppure no? Se non differisce è anch'esso relativo; se differisce, poiché tutto ciò che differisce è relativo (si dice, infatti, che differisce relativamente a ciò da cui diffe- risce), anche l'assoluto è relativo... Tutto appare relativamente a qualche cosa. Ne segue che dobbiamo sospendere il giudizio intorno alla natura delle cose (Py"h. hypot., l, 135-140; Filone l'Ebreo, De ebrietate, 186 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 87-88, che dà questo tropo come decimo)... Il nono modo è quello che concerne gli incontri continui o rari di una cosa... Le cose rare paiono preziose, quelle abituali e abbondanti nient'affatto (Pyrrh. hypot., I, 141, 144; cfr. anche Diogene Laerzio, IX, 87, che dà questo tropo come nono)... Il decimo modo, che ha attinenza, specialmente, con i fatti morali, è quello che si riferisce agl'indirizzi, ai costumi, alle leggi, alle credenze favolose e alle opinioni dogmatiche... Opponiamo ciascuna di queste cose, ora a se stessa, ora a ciascuna delle altre. Per esempio, oppo- niamo costume a costume: alcuni Egiziani tatuano i bambini, noi, invece no... Opponiamo legge a legge: presso i Romani chi ha rinunciato alla sostanza paterna, non paga i debiti del padre, invèce presso i Rodiesi li deve assolutamente pagare... Opponiamo indirizzo a indirizzo (per indi- rizzo s'intende una scelta di vita o di altro) quando l'indirizzo di Diogene contrapponiamo a quello di Aristippo, o quello dei Laconi a quello degli ltalici. Opponiamo credenza favolosa a credenza favolosa, quando diciamo che talora è Zeus che è denominato il padre degli dèi e degli uomini, talora, invece, Oceano... Le opinioni dogmatiche (accoglimento di qualche cosa, che sembra essere confermata da un ragionamento o da una dimo- strazione) opponiamo le une alle altre, quando diciamo che, secondo alcuni, 186    uno solo è l'elemento delle cose, secondo altri, invece, infiniti sono gli ele- menti; che per gli uni l'anima è mortale, per gli altri immortale; ché per gli uni le cose umane sono governate dalla pro-. v1denza degli dèi, per gli altri questa provvidenza non esiste. [Si opp~ngono poi costumi a leggi; leggi a condotta; costumi a credenze favolose; costumi a opinioni dogma- tiche, e cosi via]... Se tanta discordanza v'è nelle cose, non potremo affer- mare quale sia nella su:~ rc::altà l'oggetto, ma solo quale esso appaia in rap- porto a questo indirizzo, a questa legge, a questo costume, e in rapporto a ciascuno degli altri fatti. Anche per questo è per noi necessario sospen- dere il giudizio... (Pyrrh. hypot., I, 145-163; anche Filone l'Ebreo, D~ ~bri~­ tate, 193 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 83-84, che dà questo tropo come quinto). Secondo Sesto Empirico i dieci tropi possono, in effetto, ridursi a tre ("ci sono tre modi che comprendono tutti questi: quello che di- pende dal giudicante - i primi quattro, poiché ciò che giudica è ani- male o uomo o sensazione o si trova in una qualche circostanza - quello che dipende dal giudicato - il settimo e il decimo, - e un terzo che dipende da entrambi- il quinto, il sesto, l'ottavo e il nono"), e, in ultima analisi, ad uno solo: "a loro volta questi tre si riducono a quello della relazione, talché questo sarebbe il piu generico: gli altri tre, invece, e i dieci, in questi compresi, specifici" (Pyrrh. hipot., I, 38-39). I tropi di Enesidemo non hanno alcuna pretesa positiva. "Abbiamo opposto ai dogmatici ragionamenti che paiono persuasivi, non per assi- curare che siano veri..., ma per condurre alla sospensione, col fare appa- rire l'uguale forza persuasiva di questi discorsi e di quelli dei dogma- tici" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 79). Attraverso essi Enesidemo constata che ogni costruzione e ogni discorso che presumono d'essere "veri" e, perciò, unici, basandosi su rappresentazioni, sempre relative e cangianti, e che, dunque, non sono giudizi, ma puri enunciati, non sono in sé né veri né falsi. Sono sempre costruzioni e discorsi, validi "storicamente," insignificanti e senza senso teoreticamente, donde l'im- possibilità di un sapere assoluto. Tutta la difficoltà - insormontabile - sta nel dubbio che la rappresentazione, o idea, che è tale in quanto sia "parola" significante un'affezione, corrisponda a ciò di cui è rappre- sentazione e parola, per cui, poi, lo stesso discorso, in quanto articola- zione di rappresentazioni, è dubbio che corrisponda al discorso della realtà, tanto piu che sia il "senso," fonte delle rappresentazioni, sia la "ragione" (l6gos), intesa come attività unificatrice e giudicatrice del complesso dei "veri" (enunciati), afferrante la "verità," dovrebbero prima giustificare se stessi, trovare cioè in sé il criterio per cui si può essere certi del "vero" e della "verità." E qui va tenuto presente che la polemica si rivolge al concetto che di "vero" era stato sostenuto dagli stoici, cioè nei confronti del Vi!'ro inteso come munciato (incor- poreo), distinto dalla verità, intesa come scienza avente in sé il com- plesso dei veri, e dovuta all'attività egemonica (razionale), che è cor- porea (cfr. Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 80-84). Resta, perciò, dubbia qualsiasi tesi sulla struttura della realtà, e, pur a.ttunessa una qualsivoglia realtà, resta in dubbio sia il vero sia la verità. L'uomo non ha altro mediante cui giudicare... se non il senso e l'intel- letto...: solo che i sensi non comprendono gli oggetti esterni, ma, se mai, solo le proprie af!ezioni, e la rappresentazione dunque sarà dell'af!ezione del senso, che differisce dall'oggetto. E poi i sensi sono impressionati i n modi opposti dagli oggetti: ora, ciò che è discorde e contrastante non è criterio, ma ha bisogno esso di un giudice... (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., II, 48, 73-74; Adv. math., VII, 346). E quanto all'intelletto: donde saprà se le af!ezioni del senso siano simili agli oggetti sentiti, non imbattendosi mai con oggetti esterni né rivelandogliene i sensi la natura, ma solo le proprie af!ezioni?... Non solo, ma se neppure vede se stesso esattamente, ma è in divergenza sulla propria essenza, il modo della generazione, il luogo in cui è, come potrebbe comprendere con esattezza alcun che d'altro?... Essendoci tante divergenze sull'intelletto..., se osiamo giudicare con u n intelletto... togliamo via l'oggetto·della ricerca: se con altro, non è piu vero che con l'intelletto s'abbiano a giudicare le cose (Pyrrh. hypot., II, 73-74, 57-60). Enesidemo, poi, propone anche le seguenti aporie. Se vi è qualcosa di vero o è sensibile (atla31yt6v) o intelligibile (vo'l)'t'6v), o intelligibile e sensibile, oppure né sensibile né intelligibile, né l'una cosa e l'altra ad un tempo... Che non vi sia il sensibile cosi lo argomentiamo: dei, sensibili alcune cose sono generi, altre, invece, aspetti singoli (c(3Tj); i generi sono qualità comuni inerenti ai singoli oggetti, si come certe qualità deij'uomo ineriscono ai singoli uomini e certe qualità del cavallo ai singoli cavalli; gli aspetti sono proprietà dei singoli, come di Dione, di Teone, di altri. Se, dunque, il sensibile è vero, ciò sarà af!atto comune ai molti, o insito in ciò che è proprio,dei singoli; solo che non può essere né comune né inerente alla proprietà, per cui il vero non è sc;nsibile. Inoltre, come ciò che è visibile può essere compreso con la visione, e l'udibile è conosciuto con l'udito, l'odorabile con l'odorato, cosi anche il sensibile si conosce con il senso. Il vero non si conosce comunemente con il senso: il senso è infatti arazionale (~Àoyo<;), e il vero non si conosce senza la ragione, onde il vero non è sensibile. Ma neppure è intelligibile, ché nulla sarà vero dei sensibili, il che è, di nuovo, un assurdo. Infatti, o l'intelligi- bile potrà essere percepito comunemente da tutti o individualmente da alcuni. Ma non può accadere che il vero sia percepito intelligibilmente da tutti in forma comune, né da alcuni individualmente: non può essere in nessun modo compreso da tutti comunemente e se compreso individual- mente da uno o da altri, ciò non è degno di fede ed è oggetto di contestazione. Il vero, dunque, non è intelligibile. Ma neppure è, ad un tempo, sensibile e intelligibile: il vero è o affatto sensibile e affatto intelligibile, o in parte sensibile e in parte intelligibile. Ma dire che il vero è affatto sen- sibile e affatto intelligibile, è cosa che non può avvenire: i sensibili sono, infatti, in contrasto con i sensibili, gl'intelligibili con gl'intelligibili, e, vice- versa, i sensibili con gl'intelligibili e gl'intelligibili con i sensibili, e sarà necessario se tutte le cose sono vere, che ogni cosa sia e non sia, sia vera e sia falsa, per cui, di nuovo, bisognerà ritenere che sia un'aporia affermare che parte del sensibile sia vero e che vero sia parte dell'intelligibile. Ci si domanda, infatti, se sia non contraddittorio dire che tutte le cose vere o tutte le cose false siano sensibili: sono ugualmente sensibili e non una di piu l'altra di meno. E, cosi, ugualmente intelligibili sono gl'intelligibili, e non uno piu l'altro di meno. Non solo, ma non tutti i sensibili possono essere detti veri, né tutti falsi. Non vi è, dunque, il vero... (Sesto Empi- rico, Adv. math., VIII, 40, 48). In altri termini, ogni definizione (enunciato) e ogni discorso, che presumano significare l'essenza e il discorso della realtà, sono, in e.ffetto, insignificanti, senza senso, sono cioè non giudizi (di qui la "sospen- sione," l'epochè). Da questa serie di argomentazioni (i dieci tropi, le aporie sul "vero"), che Fozio (cit.), nel suo sunto dei Discorsi pi"oniani, dice facevano parte dei primi tre libri, si vede bene come Enesidemo passi ad altre due serie di argomentazioni: le prime volte a mostrare l'im- possibilità di giungere alle cause per via indiretta, ossia mediante i segni, giungendo cioè a porre le cause attraverso i fenomeni significanti quelle cause stesse, ché non v'è criterio per cogliere la coincidenza tra significante e significato, ch'era, com'è noto (cfr. I vol.), un grosso pro- blema a lungo discusso nella scuola stoica ("nel quarto libro Enesi- demo mette in discussione i segni delle cose oscure...": Fozio, cit.); le seconde (che Sesto Empirico raccoglie in otto trop•) volte a sovvertire i ragionamenti intesi a spiegare le cause per via diretta ("nel quinto libro... propone argomenti per dubitare delle cause, dicendo che nes- suna cosa è causa dell'altra...": Fozio, cit.). Nell'una e nell'altra serie di argomentazioni è evidente la critica non solo al passaggio proprio degli stoici dal logico all'antico, ma anche il passaggio dal visibile all'invisibile proprio dell'ipotesi atomistica dell'epicureismo. Già in Crisippo la dottrina dei segni si prestava a una doppia inter- pretazione (cfr. I vol.). Posto che l'impressione non è un puro calco che direttamente stampa nell'anima l'immagine della cosa, ma che ogni rappresentazione è una modificazione, che ci a.fferra a seconda della sua evidenza, e a cui diamo l'assenso, non tanto perché corrisponde o meno all'oggetto (che già dovremmo conoscere per sapere se corrisponda o no all'impressione). ma in quanto fortemente presente, ogni rappresentazione è un segno, da un lato "rammemorante" una impres- sione, dall'altro lato "rammemorante," data quella rappresentazione, altra rappresentazione, che si lega alla prima (" rammemorativo è quel segno che, osservato già insieme con il significato, per esserci dato insieme con tutta evidenza... ci conduce al ricordo della cosa osservata insieme, che ora non ci si dia con evidenza, com'è del fumo e del fuoco, vedendo una ferita si dice che c'è stata una ferita": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 97-102). Sotto questo aspetto, la dottrina del segno poteva sfociare in una chiara " logica proposizionale" e scientificamente in una ricerca fondata, appunto, sui segni rammemorativi (come av- venne per l'indirizzo medico ~mpirico e metodico, ai quali, piu tardi, si rifecero proprio gli scettici), ove la veracità o meno del discorso non presume affatto significare il discorso stesso della realtà. Non possiamo dire se già in Crisippo (cfr. I vol.), ma; certo, subito dopo di lui, nella scuola stoica la rappresentazione venne interpretata in quanto segno indicativo dell'oggetto stesso, rispecchiante l'oggetto che ha provocato l'impressione; non solo, perciò, lo stesso discorso significherebbe il di- scorso della realtà, ma una impressione-rappresentazione verrebbe a significare, per analogia, una verità nascosta di cui non si è avuta im- pressione, una cosa oscura per natura, da cui, gradatamente si giunge a porre cause e principi primi ("indicativo, invece, dicono il segno non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, ma che per la propria natura e costituzione segnala ciò di cui è segno: cos~, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 101). È chiaro che la critica degli scettici piuttosto che all'interpretazione del "segno" come rammemorante, si rivolgesse al segno interpretato come indicativo e significante da un lato la cosa per sé, dall'altro lato la causa e la causa dèlla causa. Noi ~ dirà Sesto Empirico - non parliamo contro ogni segno, ma solo contro l'indicativo, come quello che sembra essere state inventato dai dogmatici (Pyrrh. hypot., Il, 102)... Il segno indicativo è inconcepibile, poiché dicono che è relativo al significato e-mdatore di esso. Se è rela- tivo deve assolutamente esser compreso insieme con il significato, come il sinistro con il destro, il sopra con il sotto, ecc. Se invece è rivelatore del significato, deve assolutamente esser compreso prima di esso, perché, conosciuto prima, possa poi condurci alla conoscenza della cosa resa nota da lui. Ma è impossibile conoscere una cosa, che non può essere conosciuta prima di quella, per mezzo della quale dovrebbe invece essere compresa: impossibile quindi concepire un relativo, che sia anche rivelatore della cosa relativamente alla quale si concepisce... Impossibile dunque concepire il segno indicativo... (Pyrrh. hypot., II, 118-120).. Sembra che questa già fosse stata la critica di Enesidemo, se Sesto Empirico (cfr. Adv. math., VIII, 49 sgg.) può sostenere che Enesidemo a coloro che affermavano che la causa si coglie non attraverso i sensi immediatamente, ma per analogia attraverso i segni indicativi, rispon- deva che ciò è contraddittorio, posto che la rappresentazione è dall'im- pressione, ché mai si può avere rappresentazione di ciò di cui non vi è impressione; poiché, d'altra parte, questa o quell'impressione non modifica tutti allo stesso modo, pur dando valore al segno rammemo- rativo, resta in dubbio la sua universalità, su cui si fonda la pretesa ch'esso segno indichi e significhi l'universalità oggettiva delle conse- cuzioni. In realtà - obbietta lo scettico - il segno è solo un fatto che ne ricorda un altro di cui è stato in passato il concomitante (passato) o ce ne fa aspettare un altro (futuro) (cfr. L. Robin, cit., p. 553), senza pretendere ad alcuna verità. Enesidemo, nel IV libro dei Discorsi pirroniani cosi dice: se le rappre- sentazioni delle cose [fenomeni] ugualmente appaiono a tutti coloro che sono stati ugualmente modificati e i segni indicano quelle attuali rappre- sentazioni, è necessario che anche i segni appaiano a tutti coloro che sono ugualmente modificati. Ma i segni non appaiono ugualmente a tutti coloro ugualmente modificati, per cui i segni non sono segni delle rappresenta- zioni (Sesto Empirico, A d v . math., VIII, 215 sgg.). La critica scettica si rivolge cosi all'illusione che l'argomentazione per analogia abbia validità scientifica sul piano della verità oggettiva, si rivolge cioè alla gratuita trasformazione di una constatata "conse- cuzione" in una concatenazione causale risalente a ipotetiche cause prime per sé, agenti e costituenti la realtà. Di qui gli otto tropi di Enesidemo mediante cui mettere in dubbio la possibilità di passare dai dati dell'esperienza alla loro causa di cui non si ha affatto espe- rienza, per, poi, viceversa dimostrare i dati mediante quelle cause. Come enunciamo i modi della SO)ipensione del giudizio, cosi, anche, alcuni espongono i · modi, per i quali, dubitando delle spiegazioni delle cause particolari, si arresta la superbia dei dogmatici, dovuta, particolar- mente, a queste spiegazioni. Enesidemo insegna a tal proposito otto modi, per i quali, confutando qualunque dogmatica spiegazione di cause, egli crede di farla apparire difettosa. E sono, secondo lui: l) quello per il quale il genere della spiegazione della causa, aggirandosi tra le cose che non cadono sotto i sensi, non ha una conferma palese dalle cose che cadono sotto i sensi; 2) quello per il quale, essendo largamente consentito di spie- gare in molte maniere la causa cercata, alcuni la spiegano in una maniera sola; 3) quello per il quale di fatti che accadono ~on un ordine, adducono cause che non ammettono ordine alcuno; 4) quello per il quale, percependo come accadono le cose sensibili, credono di aver percepito, anche, come accadano quelle che non cadono sotto i sensi, mentre le cose che non cadono sotto i sensi, forse, si compiono in modo uguale alle cose sensibili, e, forse, in modo non uguale, ma proprio e distinto; 5) quello per cui tutti, per cosf dire, spiegano le cause seguendo ce~e loro proprie ipotesi intorno agli elementi primi, piuttosto che una via comunemente ammessa e accettata; 6) quello per cui spesso accolgono quello che si spiega con le loro proprie ipotesi, tralasciando quello che è contrario ed ha la medesima forza di persuasione; 7) quello per cui spesso adducono delle cause che contrastano, non solo con i fenomeni, ma anche con le loro proprie ipotesi; 8) quello per cui spesso, essendo ugualmente incerto e quello che sembra· apparire in un dato modo e quello che è oggetto dell'indagine, sulla base di nozioni incerte costruiscono le loro dottrine ugualmente incerte. Soggiunge, poi, che non è impossibile che alcuni, nel rendere ·ragione delle cause, falliscano secondo altri modi misti, dipendenti da quelli che abbiamo enumerali (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 180-184). Se mediante gli otto tropi, riferiti da Sesto come propri di Enesi- demo, è messa in discussione la possibilità dell'inferenza dall'effetto alla causa - ed è evidente qui la polemica non solo contro gli Stoici, ma anche contro l'epicureismo e l'induzione aristotelica, - per cui si giunge alla sospensione del giudizio anche relativamente alle cause, tanto piu semplice diveniva ora la discussione che <;onduce al dubbio sulla possibilità di spiegare gli effetti, partendo da cause che pur si sono dimostrate puramente ipoteùche, di dimostrare che l'una causa possa pro- durre un effetto e che, alla fine, il rapporto di causa ed effetto sia proprio della stessa struttura della realtà e non dovuto ai rapporti ram- memorativi tra le impressioni ricevute. Anche queste sembrano argo- mentazioni svolte da Enesidemo, che Sesto Empirico, il quale appunto cita Enesidemo, approfondisce (Adv. math., IX, 218-266), insieme a tutta una serie di argomentazioni contro la sillogistica aristotelica e la dia- lettica stoica (cfr. Pyrrh. hypot., II, 113-118, 134-166, 199-197; Adv. math., VIII, 300-315, 367. sgg., 391-395; anche Dal Pra, op. cit., pp. 308-312). Veniva di qui, infine, entro i termini della sistemazione in un sol corpo delle argomentazioni degli scettici, la problematica delineata da Enesidemo sulla possibilità di definire l'essenza del Bene e delle con- dizioni che permettono una vita virtuosa (secondo Fozio, cit., del bene e delle virtu Enesidemo parlava negli ultimi libri, VI, VII e VIII, dei suoi Discorsi pirroniani). Secondo Sesto Empirico (Adv. math., X, 42) 192    Enesidemo avrebbe escluso l'esistenza del Bene, almeno nel senso di un bene per sé quale veniva definito dai dogmatici, sostenendo - come risulta da Diogene Laerzio, IX, 107, e da Aristocle, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 19, 4 - che il bene, non avendo una sua essenzialità, consiste in uno stato d'animo dovuto alla sospensione del giudizio (Diogene Laer- zio, cit.), che determina un certo piacere (Aristocle, cit.). Ipoteticamente possibile ogni discorso sull'essenza della realtà (tanto è possibile dire che il fondo della realtà è costituito di atomi, quanto dire che, al limite, sono da porre una materia passiva e un principio attivo), ipoteticamente possibile ogni discorso sull'essenza dd Bene, teoreticamente è da sospendere ogni giudizio sulla realtà e sul bene, cercando, piu umilmente, di non ingannare se stessi e gli altri, ricon- ducendo l'indagine sul piano umano, entro i limiti del mondo e del linguaggio umani. Le conclusioni di Enesidemo tendono a mostrare non tanto che l'una o l'altra concezione filosofica è falsa, ché, allora, si sarebbe dovuto delineare quale fosse la "verità,• ma che tutte le concezioni si dimostrano alla fine indimostrabili, cioè non giudicabili e perciò stesso senza senso, assurde, contraddittorie, qualora pretendano d'imporsi, l'una o l'altra, come "verità," e, quindi, su questo piano, inutili. Certo, entro questo quadro, è difficile vedere come Enesidemo abbia potuto affermare che l"'indirizzo scettico è una via che conduce alla filosofia eraclitea, in quanto," commenta Sesto, "l'apparire dei fatti con- trari circa lo stesso oggetto precede l'esistere di fatti contrari circa lo stesso oggetto, e gli Scettici dicono, appunto, che fatti contrari appaiono intorno allo stesso oggetto, mentre gli Eraclitei, partendo dall'appru;:ire, arrivano anche alloro esistere" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 210). Sesto, e si capisce, vede in questo una contraddizione da parte di Ene- sidemo ed esclude assolutamente che una posizione scettica p<)ssa sfo- ciare in una posizione di tipo eracliteo, che, proprio perché pone a fondamento dell'essere il divenire e i contrari, è anch'essa una posi- zione definitoria di una realtà non fenomenica e perciò è una posizione dogmatica. Né Fozio, che riassume i Discorsi pirroniani, né Diogene Laerzio, né Aristocle accennano a una fase eraclitea del pensiero di Enesidemo. Di una posizione dogmatica di Enesidemo (l'anima sepa- rata dal corpo e in esso infusa dopo la nascita, in senso stoico) parla Tertulliano (De anima, 25). Certo un riflesso dell'eraclitismo scettico si trova in Filone l'Ebreo, che sfrutta l'argomento dell'eraclitismo in funzione scettica, ricavandolo, sembra, da Enesidemo. In realtà, di un presunto eraclitismo di Enesidemo parla solo Sesto, che, nel testo sopra citato, dice solo che secondo Enesidemo l'indirizzo scettico poteva ribal- tarsi in una posizione dogmatica di tipo eracliteo, trovandovi un proprio fondamento ontico, e questo sembrerebbe avvenuto piu che in Enesidemo nei seguaci di Enesidemo ("se arrivassero all'asserzione che intorno allo stesso oggetto esistono fatti contrari, partendo da qualcuna delle espressioni scettiche, per esempio 'nessuna cosa si può compren- dere,' oppure, 'niente do per certo,' potrebbe essere vera la conclusione dei seguaci di Enesidemo. Solo che...": Sesto Emp., Py"h. hyp., l, 211). Tuttavia Sesto, in altri testi, anche se. per incidenza, dice come propria di Enesidemo una o altra tesi eraclitea (si veda, ad esempio, A.dv. math., V, 349-50: "segaendo Eraclito, Enesidemo affermava che la dianoia è fuori del corpo"; A.dv. math., X, 216-217: "seguendo Eraclito Enesi- demo disse che il tempo è corpo... Cosi nella Prima Introduzione..."; A.dv. math., X, 233: "Enesidemo dice che per Eraclito l'essere è aria"; cfr. anche IX, 337; VIII, 8), alcune delle quali risultano però piu vicine allo stoicismo·che all'eraclitismo, altre come piu proprie dei seguaci di Enesidemo. D'altra parte lo stesso Sesto non discute quelle tesi eraclitee come facenti parte dì un sol corpo di pensiero, ma, dicevamo, inciden- talmente, come testimonianze di quello che poteva essere l'eraclitismo di Enesidemo. Non solo, ma Sesto non dice mai che quelle tesi eraclitee fossero svolte da Enesidemo nei Discorsi pi"oniani, mentre una volta accenna a un'altra opera di Enesidemo, per noi perduta, la Prima Introduzione. Tutto ciò ha dato l'avviò a una lunga discussione sull'eraclitismo eli Enesidemo e a una molteplicità di ipotesi. C'è chi ha sostenuto che lo scetticismo di Enesidemo sarebbe sfociato in una posizione dogmatica di tipo eracliteo, o ch'egli avrebbe trovato nell'eraclitismo il fonda- mento dello scetticismo, e c'è chi ha sostenuto che Enesidemo sia pas- sato da una prima fase eraclitea, anch'essa rivelataglisi dogmatica a. una seconda fase accademica, per giungere infine a un accentuatC] scettici- smo, alla "sospensione" definitiva, riallacciandosi alla posizione car- neadiana. Certo, quest'ultima ipotesi (Sesto nelle lpotiposi pi"oniane, l, 210, non dice affatto che Enesidemo sia passato dallo scetticismo all'eraclitismo: cfr. sopra), sostenuta dal Dal Pra (op. cit., pp. 314-330, al quale rimandiamo anche per la minuta esposizione e discussione delle varie ipotesi sostenute: dal Saisset, allo Zeller, al Diels, al Pap- penheim, all'Arnim, allo Hirzel, al Natorp, al Patrick, al Goedeckemeyer, al Brochard, al Capone-Braga), è, forse, la piu probante. In effetto nulla vieta di pensare che certe tesi eraclitee siano state accettate da Enesidemo non nei Discorsi pi"oniani, ma in altra opera, come appare da Sesto, la quale potrebbe essere stata composta da Enesidemo in età giovanile. A parte l'episodio dell'eraclitismo, sembra; in realtà, ch'Enesidemo, nella sua polemica nei confronti dei "dogmatici," abbia raccolto e siste- 194    mato gli argomenti e i tròpi già delineatisi attraverso l'esposizione che della "sospensione del giudizio" aveva offerto Clitomaco, il discepolo di Carneade, andando sino in fondo, cioè evitando - per non cadere nel possibile dogmatismo della nuova Accademia - il "probabile" e l'"ipotesi"; o l'opzione, per rendere possibile l'azione e il discorso, di una qualche opinione, fondata sul criterio della "probabilità" (dr. s<r pra), Enesidemo cosi poteva dichiarare fallita ogni presunzione della filosofia, costretto, in effetto, a rimanere su tutto in silenzio (afasia), in un ritorno, davvero, all'originaria posizione di Pirrone, che, in realtà, veniva ad essere una critica ed un'analisi del linguaggio. Duplice è- l'interesse che presenta, storicamente, la posizione di Enesidemo: da un lato, sulla fine del 1 secolo a. C., egli, pienamente innestandosi nell'atmosfera_ culturale di quel tempo, viene sistemando in un corpo unico il complesso dei tropi, delle aporie, dei problemi, propri delle posizioni scettiche, che probabilmente s'erano'già venuti delineando con Tolomeo di Cirene, che avrebbe ripreso le-fila della posizione scettica rifacendosi ad Arcesilao (Diogene Laerziò, IX, 115); dall'altro lato, entro i termini di una certa cultura, oramai, cristallizza- tasi, divenuta patrimonio comune, comune concezione, dogmaticamente accettata, Enesidemo mette in crisi, proprio attraverso la sua stessa sistemazione, quella cultura, quella coni:ezione di fondo. Preso a sé Enesidemo non ha l'importanza che viene ad avere, se considerato entro i termini della cultura quale si er,a venut:t determinando tra la fine del 1 secolo a. C. e il principio del 1 d. C. E ciò tanto piu sembra esàtto. quando si tenga presente che Enesidemo non fu un fenomeno isolato. Innanzi ttttto sappiamo ch'egli ebbe dei seguaci (ai seguaci di Ene- sidemo, senza farne il nome, accenna anche Sesto Empirico). Di essi fa il nome Diogene Laerzio (Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di Laodicea: IX, 106, 116): non piu che il nome, perché per il resto Dio- gene li allinea tutti sul piano della posizione di Enesidemo, volti tutti, cioè, alla sistemazione dei tropi mediante cui giungere alla sospensione del giudizio, alla constatazione che ogni proposizione che presuma indicare un'essenza o un ne~so di essenze è un non-giudizio, basandosi soltanto sull'esperienza, o meglio sul fenomeno. ' Di Zeucsippo di Poli, nella Locride, non sappiamo nulla. Di Zeucsis, suo seguace, che avrebbe conosciuto l'opera di Enesidemo, Diogene Laerzio (IX, 106) dice che' scrisse un'opera intitolata Duplici discorsi (titolo significativo, già usato, non a caso, da un sofista del v secolo a.C.}, che testimonierebbe un'attività simile a quella di Enesidemo, in una raccolta di ragioni pro e contro questioni molteplici, mediante cui eli- mina~e ogni pretesa di giungere all'affermazione di un'unica verità, e che richiama la definizione data da Sesto Empirico dello scetticismo:  195   Lo scetticismo esplica il suo valore nd contrapporre i fenomeni c le percezioni intellettive in qualsiasi maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposte, arriviamo, anzitutto, alla sospen- sione del giudizio, quindi, all'imperturbabilità (Py"h: hypot., I, 8). Di Zeucsis fu, a sua volta, seguace Antioco di Laodicea e di lui un certo Apelle che avrebbe composto un libro, intitolato Agrippa ("Apdle, nd suo Agrippa, e Antioco di Laodicea, pongono solo i feno- meni": Diogene Laerzio, IX, 106). Sappiamo inoltre che la fonte da cui attinge Diogene Laerzio, per ricostruire il pensiero di Timone di Fliunte, fu il grammatico Apollonide di Nicea (dr. Diogene L., IX, 109), che compose un commento ai SiUi di Timone dedicato all'imperatore Tiberio. Anche questa è una notizia interessante, che dimostra la dif- fusione del rinnovato scetticismo sul principio dd I secolo d.C. e che può essere indicativa dd periodo in cui vissero e operarono i seguaci di Enesidemo. Come sembra (dr. A. Goedeckemeyer, Die Geschichte des griechischen S!(eptizismus, Lipsia, p. 137; anche Dal Pra, op. at., p. 333), Zeucsis e Antioco di Laodicea furono contemporanei di Apollonide di Nicea; infatti, da un lato, Diogene Laerzio (IX, 116) subito dopo Antioco cita Apelle autore di un'opera su Agrippa, e dice che seguace di Antioco di Laodicea fu Menodoto di Nicomedia, che, medico, rifacendosi allo scetticismo dette un fondamento scientifico e metodico alla medicina, in un atteggiamento strettamente empirico, riallacciandosi ai medici della tradizione empirica, vissuti, appunto, nel I secolo d. C., e dall'altro lato sappiamo anche che Menodoto visse tra 1'80 d.C. e il 150 circa. Cosi, evidentemente, Apelle dovrebbe avere scritto la sua opera entro queste date, per cui dovremmo, anche se approssimativa- mente, collocare l'attività di Agrippa (già noto e che deve avere avuto un'importanza di primo piano sul rinnovato scetticismo, se Apelle de- dicò al suo pensiero un'opera) sulla metà del I secolo d. C. Sesto Empirico non cita mai il nome di Agrippa, anche se ne rife- risce i cinque tropi, che sappiamo essere stati da lui formulati attraverso quanto ne dice Diogene Laerzio (IX, 88-89), che, per altro, attinge nel- l'esposizione dei cinque tropi, a Sesto Empirico. In realtà Agrippa - ddla cui vita, nascita, luogo di origine, insegnamento, nulla sap- piamo - non avrebbe aggiunto niente di nuovo alle linee fondamen- tali dell'atteggiamento scettico che tra Enesidemo e Agrippa si venne ordinando e, soprattutto, si venne costituendo in un appello alla criticità della ricerca, in un netto rifiuto della filosofia intesa come concezione universale, in una programmatica indagine mediante cui la filosofia viene intesa come metodologia delle condizioni che permettono un pos- sibile sapere. Sotto questo aspetto si capisce perché Sesto, pur esponendo i cinque modi di Agrippa, o meglio delineando i momenti mediante cui si sono venuti istituendo gli argomenti principali della posizione metodologica, non faccia il nome di Agrippa, e parli, invece, di scettici piu "recenti" rispetto ai "piu antichi," delineando l'arco entro il quale, da Enesidemo ad Agrippa, lo scetticismo ha assunto la sua fisionomia di empirismo critico-logico. I. cinque tropi di Agrippa prendono, in tal senso, un particolare rilievo, ché, con estrema chiarezza, riassumono e sistemano tutto il lavorio di precisazione dei modi con cui rimettere in discussione le conclusioni di una concezione, frutto di tutta una cultura e di una tradizione, con cui rimettere in discussione ogni soluzione metafisica. "Tali modi gli Scettici piu recenti espongono, non già perché respin- gano i dieci, ma per confutare, con maggior verità, con questi e con quelli, la temerità dei dogmatici" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., 1,177). Gli Scettici piu recenti tramandano questi cinque modi della sospen- sione del giudizio: l) quello che dipende dalla discordanza; 2) quello che rimanda all'infinito; 3) quello che dipende dalla relazione; 4) l'ipotetico; 5) il diallele. · Il modo che dipende dalla discordanza è quello per cui troviamo che intorno a una cosa proposta esiste una discordia insolubile, nella vita e nei filosofi; onde, non essendo in grado né di preferire né di resping::re nessuna opinione, finiamo col sospendere il giudizio. Il modo per il quale si cade nell'infinito, è quello in cui ciò che si reca a prova della cosa pro- posta, noi diciamo che ha bisogno, a sua volta, di prova, e questo~ a sua volta, di un'altra prova, all'infinito; si che non avendo noi da dove comin- ciare un'argomentazione, ne consegue la sospensione del giudizio. Il modo che dipende dalla relazione... è quello in cui diciamo che l'oggetto ci appare cosi o cosi, in rapporto al giudicante e al resto che insieme con esso oggetto viene. percepito, e ci asteniamo dal giudicare quale esso sia real- mente. Si ha il modo ipotetico, quando i dogrp.atici, rimandati all'infinito, cominciano da qualche cosa che essi non concludono per via di argomen- tazione, ma pretendono di assumere, cosi semplicemente, senza dimostra- zione, per una concessione. Nasce il diallele, quando ciò che deve con- fermare la cosa cercata, ha bisogno, a sua volta, di essere provato dalla cosa cercata: allora, non potendo assumere nessuno dei due per concludere l'altro, sospendiamo il giudizio intorno ad ambedue (Sesto J!.mpirico, Py"h. hypot., I, 164-169). Il commento piu pertinente sui cinque tropi di Agrippa è quello di Sesto Empirico, che merita il conto di riportare, insieme ai due tropi che Sesto dice elaborazione ultima dovuta sempre agli ~cettici piu recenti. Dice, dunque, il testo relativamente ai cinque tropi:  197   Che ogni ricerca si possa ricondUrre a questi tropi, lo dimostreremo brevemente cosi. La cosa proposta o è sensibile o è intelligibile: qualunque essa sia, v'è intorno ad essa discordanza. Infatti alcuni afferJBjllO che solo il sensibile è vero, altri, solo l'intelligibile, altri, in parte il "Sensibile, in parte l'intelligibile. Ora che si dice? che questa discordanza è solubile o insolubile? Se insolubile, affermiamo che bisogna sospendere il giudizio, ché intorno a ciò in cui v'è insolubile dissenso, è impossibile pronunciarsi. Se solubile, domandiamo sulla bl!se di che si risolverà. Cosi, per esempio, il sensibile... si giudicherà sulla base di un sensibile o di un intelligibile? Se sulla base di un sensibile, poiché appunto la nostra ricercà verte sui sensibili, anche questo avrà bisogno di altra cosa che lo comprovi. Se anche questa è seJ:lSibile, a sua volta, essa pure avrà bisogno di un'altra cosa che la comprovi, e cosi all'infinito. Che se il sensibile dovrà essere giudicato sulla base di un intelligibile, poiché anche sugl'intelligibili vi è discordanza, anche questo intelligibile avrà bisogno di giudiziQ e Ji prova. E sulla base di che sarà provato? Se sulla base di un intelligibile, si ricadrà, ugualmente, nell'infinito; se sulla base di un sensibile, poiché a prova di un sensibile è stato assunto un intelligibile, e a prova di Wl intelligibile è stato assunto un sensibile, si induce il diallele. Se, poi, colui che con noi disputa, per fuggire questa difficoltà, credesse di assumere, per concessione, e senza dimostrazione, qualche cosa, a dimostrazione di ciò che segue, farà capo al modo ipotetico, che non può dare risultato. E invero, se colui che suppone merita fede, noi, anche, supponendo il contrario, non saremo meno degni di fede. Se, poi, colui che suppone, suppone qualche cosa di vero, lo renderà sospetto assumendolo per ipotesi, senza accompagnarlo con una argomentazione; se qualche cosa di falso, il pun- tello dell'argomentazione sarà marcio. Che se il supporre giova in qualche modo per provare, supponga egli senz'altro ciò che è oggetto dell'indagine, e nòn qualche altra cosa, per mezzo della quale··argomenti quello su cui vette il discorso. Se; invece, è assurdo supporre quello che è oggetto d'in· dagine, sarà assurdo supporre, anche, ciò che lo trascende. Che poi tutti i sensibili siano, anche, relativi, è chiaro: sono, infatti, relativi al senziente. Dunque, è manifesto che qualunque cosa sensibile ci sia proposta, è facile ricondurla ai cinque modi. Alla stessa maniera si ragiona per l'intelligibile. Se si dice che la discordanza è irrisolvibile, ci si concederà che bisogna sospendere su di essa il giudizio. Se si tenterà di risolverla, e lo si farà in base a un intelligibile, spingeremo il ragionamento all'infinito; se in base a t:n sensibile, al diallele: poiché essendo, a sua volta, il sensibile oggetto di discordanza, né potendo esso in base· a un sensibile venir giu- dicato (ché, per tal modo, si cadrebbe nell'infinito), avrà bisogno di un intelligibile, come l'intelligibile di un sensibile. Chi, poi, in conseguenza di ciò, assumesse qualche cosa per ipotesi, metterà, nuovamente, capo all'as- surdo. Ma anche relativi sono gl'intelligibili: ché si dicono intelligibili relativamente all'intelligenza, e se fossero, in realtà, tali, quali si dicono, non ci sarebbe discordanza di opinioni. Dunque anche l'intelligibile è 198    stato ricondotto ai cinque modi. Perciò è necessario che assolutamente si sospenda il giudizio intorno alla cosa proposta... Tramandano anche due altri modi di sospensione. Perché, tutto ciò che si comprende, o pare essere compreso di per sé, o si comprende in base ad altro... Ora, che nulla si comprenda di per sé, dicono evidente dal disaccordo tra i fisici su tutte le cose sensibili e intelligibili: disaccordo indirimibile, non potendo noi valerci di criterio, né sensibile né intelli- gibile, per essere ciascuno, quale che pigliamo, non degno di fede, perché controverso. Perciò neppure da altro ammettono che si possa comprendere alcunché. Ché se l'altro, da cui si comprenda, abbisognerà sempre d'essere compreso da altro, si mette capo al diallele o all'infinito; se invece si volesse assumere alcunché come compreso di ·per sé, e da esso comprendere un altro, s'oppone il non poter nulla comprendersi di per sé, per le ragioni già dette (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 169-179). "Agrippa," scrive il Dal Pra, "nei confronti di Enesidemo, presta meno attenzione agli aspetti analitici della discordanza ed ha una mag- giore preoccupazione sistematica; egli è mosso principalmente da un intendimento di sintesi e, si direbbe, di deduzione. Muove dalla ricerca delle maniere tipiche fondamentali in cui può tentarsi la fondazione di un sistema dogmatico, nel tentativo non soltanto di abbracciare nella sua critica il maggior numero possibile di posizioni dogmatiche stori- camente definite, ma anche di includere quelle future e possibili. La sistematica della sospensione insomma obbedisce in Agrippa a criteri molto piu rigorosi e universali che non in Enesidemo. Agrippa ha anche conservato qualche cosa dei tropi di Enesidemo; ha infatti con- siderato la questione della discordanza esistente sia nella filosofia che nella vita (tropo primo da raffrontare col secondo di Enesidemo) come anche la questione della relatività (tropo terzo da raffrontare con l'ot- tavo di Enesidemo); già nella formulazione di questi tropi appare la maggiore vigoria di Agrippa, la maggiore incisività e comprensività della sua delineazione; entrambi i motivi conservati sono tali che di fronte ad essi si può essere già indotti alla sospensione; ma siamo qui soltanto ad un primo passo della considerazione sistematica della sospensione; bisogna vedere come i dogmatici, superando questo punto, si accingano alla costruzione dei loro sistemi e quali tipi di giustifica- zione essi siano soliti addurre di essi; bisogna vedere, anzi, in quante diverse maniere sia possibile a un dogmatico tentare la giustificazione del suo sistema. Ora queste maniere, secondo Agrippa, sono tre: o una giustificazione che risultando apparentemente autonoma, finisce per svolgersi in due direzioni: o verso un processo all'infinito o verso una ipotesi iniziale; oppure una giustificazione che, rinunciando all'auto- nomia, ricorre alla eteronomia, aprendosi inesorabilmente verso_ il dial-  199   lde. Se pertanto il dogmatico non vorrà accogliere il rilievo degli infi- niti contrasti che si verificano nella filosofia e ndla vita, e vorrà pro- cedere oltre, si troverà nella necessità di avviarsi per una di queste tre strade: processo all'infinito, ipotesi gratuita, diallde; ed ognuna di queste tre strade conduce alla sospensione dd giudizio. In tal modo Agrippa ha abbozzato una sistemazione delle condizioni formali del dogmatismo, in termini non empirici, ma universali. La paJ;"te forse piu importante dd suo discorso è quella che mostra il dogmatico, di- remo cosi, in azione, alla ricerca della strada su cui fondare il suo sistema: la pri!Da tappa è costituita dal riconoscimento eventuale che il contrasto, da cui si muove, non è dirimibile; la seconda tappa è costi- tuita dal tentativo di fondare il sensibile sul sensibile e l'intelligibile sull'intelligibile (processo all'infinito per la sostanziale omogeneità dei termini su cui si vorrebbe costruire la prova); la terza tappa è data dal tentativo di fondare il sensibile sull'intelligibile e l'intelligibile sul sensibile (diallele ed eterogeneità dei termini su ~ui si vorrebbe gio- care per la prova); la quarta tappa finalmente è data dal tentativo di uscire sia dal processo di rinvio omogeneo, sia da quello a. diallele, mediante l'assunzione, senza dimostrazione di una ipotesi; e questa quarta tappa si ricongiunge alla prima, in un circolo dal ·quale il dog- matico non ha via di uscita. Agrippa ha pertanto articolato la sua sfi- ducia nella costruzione dogmatica, prospettando tutte le forme fonda- mentali in cui essa poteva organiizarsi; tale sfiducia si è venuta cosi differenziando ed è diventata rispettivamente: affermazione del con- trasto, vanità dell'allargamento su terreno omogeneo a sfere sempre piu larghe d'un'affermazione che, allargandosi, non perde la sua arbi- trarietà; vanità del cosiddetto processo logico o dimostrativo, con la persuasione che esso non è mai altro che un circolo, senza alcun pro- gresso possibile; vanìtà dell'evidenza e sua relatività. L'istanza critica espressa in questi termini da .Agrippa risulta dunque piu ampia, pi6 forte, pi6 .organica e precisa di quella espressa da Enesidemo; Agrippa è riuscito a staccarsi con maggior sicurezza dalla considerazione con- tingente; di questa o quella posizione dogmatica, per inv.::stire pi6 diret- tamente il dogmatismo nella sua generalità" (op. cit., pp.. 339-41). Di non poca importanza è poi ricordare che, entro i termini Enesi- demo-Agrippa (seconda metà del I secolo a. C., prima metà del I d. C.), 1'indirizzo scettico che si viene costituendo in metodo, si incontra con l'indirizzo della medicina empirica. Certamente separati in principio (l'indirizzo medico teorico e l'indirizzo medico empirico, in contrasto tra di loro, risalgono a Ippocrate: sappiamo già il significato filosofico e metodologico che la medicina assunse proprio dai tempi di lppocrate: cfr. I vol.). Probabilmente la denominazione • medici teorici" (loghil(6t), 200    risale a un'opera in sei libri del medico Eraclide di Taranto, del I se- colo a. C., intitolata La scuola empirica. Eraclide di Taranto, che fu discepolo di Tolomeo di Cirene, con il quale, sembra, si sia, di contro all'Accademia, restaurato l'originario pirronismo, avrebbe metodologi- camente fondato l'indirizzo empirico della medicina, rifacendosi a Filino di Cos (metà del I I I sec. a. C.), Serapione di Alessandria (fine del III, inizio del n a. C.), Glaucia di Taranto e Apollonio il Vecchio (n sec. a. C.) (dr. I vol.). Serapione - scrive Celso - primo fra tutti professò che la medicina non ha nulla a che fare con la scienza razionale, ponendola soltanto nella pratica e nelle scienze sperimentali... Coloro che prendono il nome di em- pirici, a motivo dell'esperienza, tengono conto delle cagioni manifeste, come necessarie; e però sostengono essere ozioso disputare intorno alle cause occulte e alle funzioni •naturali, essendo la natUra incomprensibile. Non potersi poi comprendere è chiaro per le discordi opinioni di coloro che ne hanno discorso, non avendosi potuto ottenere consenso in tale que- stione, né tra filosofi, né tra gli stessi medici. Se si considerano le ragioni, tutte possono sembrare probabili; se si considera la cura, ciascuno vanta le sue guarigioni: non è perciò possibile negar fede alla disputa o all'au- torità di alcuno (Celso, De re medica, l, proemio). Anche se non possiamo dire se l'Eraclide, maestro di Enesidemo, di cui parla Diogene Laerzio (IX, 116), sia Eraclide di Taranto, certo è che dopo Eraclide ed Enesidemo l'indirizzo scettico e l'indirizzo della medicina empirica s'influenzarono vicendevolmente, finché con Meno- doto i due indirizzi confluirono in un unico metodo di ricerca scienti- fica. Sappiamo che dopo Eraclide di Taranto, proseguirono sulla sua linea, durante la prima metà del 1 secolo d. C., Diodoro che compose un'opera intitolata Questioni empiriche, Lico di Napoli, Zopyro di Alessandria, Archibio, Apollonio di Cizio e un certo Zeucsis. Il Robin (Pyrrhon et le scepticisme grec, Parigi, p. 188; anche Dal Pra, op. cit., pp. 354 sgg.), tenendo presente il sunto che dell'opera intito- lata Dictyaca di Dionigi di Egea, vissuto sulla fine del 1 secolo d. C., offre Fozio (Myriobiblion, 211, 168b, sgg.), in cui "dialetticamente," d4:e Fozio; su di una stessa: questione di medicina si avanzano cin- quanta argomenti pro e contra, e ricordando che Diogene Laerzio nel- l'elenco dei seguaci di Enesidemo (IX, 106, 116) pone uno Zeucsis, detto dai "piedi a squadra" (goni6pus), dicendolo autore di un'opera inti- tolata Duplici discorsi, in cui evidentemente si mettevano in discus- sione varie opinioni con il metodo dei pro e dei contra, suppone che lo Zeucsis medico sia da identificare con lo Zeucsis scettico. Non sa- premmo certo dire. Certo è che la vicinanza tra medici empirici e indi-  201   rizzo scettico, senza dubbio chiarissima in Menodoto, è indicativa dell'atteggiamento metodologico assunto nel I secolo d. C. dallo scet- ticismo, di contro alla filosofia verbosa, in una precisazione di quelli che sono i limiti e le possibilità della ricerca, che non può non svol- gersi, per essere utile e scientificamente valida, sç non sul piano umano, nella determinazione di nessi e rapporti che si possono cogliere solo entro i termini dei "segni rammemorativi," ragionando sui dati del- l'esperienza, donde i tre punti fondamentali del metodo empirico della medicina, del resto già presenti nel tripode empirico di Serapione di Alessandria: autopsia (osservazioni e ricerche del medico fatte in per- sona), historie (raccolta sistematica delle osservazioni fatte ~a altri medici), mimesi o, se vogliamo, semiotica (dall'un segno di una ma- lattia, simile ad altro segno, determinare volta per volta il quadro cli- nico della malattia e il rimedio pratico da adottare), indipendente- mente dallà ricerca di cause fondate sù concezioni generali e filosofiche (su cui si fondavano i medici dogmatici), per cui poteva servire la polemica e l'appello all'autonomia del discorso scientifico, mai chiuso in una dottrina definitiva, sempre aperto a nuova ricerca (sképsis), de- lineati dall'indirizzo del neo-scetticismo, che, pur per polemica rifa- cendosi al primo scetticismo di Pirrone e di Timone, assume di fronte alla cultura quale si era venuta configurando tra la fine del I secolo a. C. e il principio del I d. C~ ben altro atteggiamento piu strettamente logico-metodologico. La conclusione sull'insignificanza e l'illogicità di qualsiasi discorso, che voglia significare il discorso del reale (quale ch'esso si creda dimostrare che sia), poneva in·crisi tutta una cultura acquisita, la fiducia nei risultati di certe scienze (fisica, astronomia) e perciò stesso i fondamenti di un'educazione enciclopedica; si rivelav, inoltre, la presunzione di poter stabilire quella stessa educazione su basi precostituite, in un passaggio gratuito dal logico all'ontico, richiamando ad una consapevolezza critica che spezzasse ogni istitu- zionalizzazione del sapere. Certo, pur discusse criticamente le possibilità umane di cogliere (di là da ciò che si presenta nella rappresentazione dei sensi e della ragione e in ciò che mediante l'attività soggettiva si viene costruendo) l'essenza delle cose e la ragion d'essere del tutto, il discorso della realtà, negato che sul piano ontologico si possa dire il "vero," che perciò non esistono né il vero né la verità, proprio nella negazione di un qualsiasi passaggio dal logico all'ontico, restava fissata e presupposta l'esistenza di una realtà, ignota e oscura, oltre le possibilità dell'umano discorso e dell'umana comprensione, ma senza dubbio essa, in quanto realtà, se. afferrabile, fondamento della verità e della condotta della vita. Si sarebbe potuto, sul piano scettico, andare piu in là: una cosa è giun- 202    gere a negare la possibile conoscenza della realtà (il· che presuppone già una realtà: materia, anima, Dio), altra cosa, non presupponendo alcuna realtà, vedere come si pongono, discorrendo, le realtà. In altri termini, giunti alla sospensione del giudizio sulla realtà, si sarebbe po- tuto, rovesciando il discorso, fermi restando gli argomenti scettici nei confronti del dogmatismo, vedere come si costituisce la realtà attra- verso il giudizio stesso, come, attraverso il giudizio, e la storia dd giu- dizio, si costituisce questa o quella fisica, questa o quella matematica, questa o quella condotta di vita: non vere se si presuppone una realtà - sia pur ignota e acatalettica, -vere se si possono vedere, nel tempo, come costruzioni, in cui si annulla la dualità soggetto-oggetto. Di fatto ciò non avvenne. Di. fatto il richiamo, fondamentale, dello scet- ticismo a una piu approfondita consapevolezza critica, si risolveva, nelle sue conclusioni estreme, da un lato in un'esatta dimostrazione che ogni pretesa filosofica a significare la realtà è un non-giudizio, una proposizione senza senso, dall'altro lato in una assoluta "sospen- sio~e dd giudizio," ché, accantonando la realtà (e perciò presuppo- nendola) e negando verità e significanza a ogni giud,izio - proprio perché ritenuto sul piano della realtà, - portava alla negazione di qualsivoglia "fisica" o di qualsivoglia ipotesi che potesse rendere pen- sabile e costruibile la realtà (donde .anche la critica al cosiddetto dogmatismo dell'ipotesi epicurea), .e; per le stesse ragioni, l'accanto- namento, nell'imperturbabilità, raggiunta appunto con la "sospensione del giudizio," di ogni tipo dì condotta morale, onde l'accettazione, in una rinnovatasi pigra ratio, di qualsiasi costume storicamente de- terminatosi ("lo scettico, senza preconcetti dogmatici si attiene all'os- servanza della vita comune, e, perciò, nelle cose opinabili si mantiene impassibile, e in quelle che sono di necessità mediocremente patisce": Sesto Empirico, Py"h. hypot., III, 235). Tutto ciò non solo dimostra l'influenza del neoscetticismo, ma sembra anche spiegare in che senso, accantonata appunto la pretesa di cogliere mediante i sensi o la ragione l'essenza della realtà e la verità, ma sempre presupposta la realtà, si tentino altre vie che possano giustifi- care la presenza di quella realtà umanamente ignota e nascosta, che permettano, anche se su altro piano, di cogliere quella realtà, o di es- serne còlti; la realtà allora, sciolta da ogni razionalità, poteva benissimo essere intesa come assoluta trascendenza, oltre i sensi e la ragione, essa stessa fonte di razionalità, o come assoluta libertà e perciò assoluta persona, e su essa e per essa conformare la propria condotta· di vita (di qui il prevalere dell'esperienza detta religiosa). D'altra parte, le possibili vie imboccate, a cominciare da quella assunta da Filone l'Ebreo, che ebbe poi grandissi1,11a influenza, non si possono vedere bene, se non si tenga presente anche la storia di Roma e dei paesi assog- gettati a Roma, particolarmente dalla morte di Tiberio (!/ d.C.) ìn poi, soprattutto per ciò che riguarda la pOlitica individuale e assoluti- stica dei singoli imperatori e la situazione sociale, o, gia prima con Filone l'Ebreo, la situazione storica in cui, con l'avvento dell'Impero, s'era trovato; in Alessandria, n·"popolo ebreo.•l. Cultura e crisi politica al principio del l secolo d. C. Il corso dd 1 secolo d.C. presenta, evidente, una crisi morale, che, ad un tempo, risponde ad una piu profonda crisi politica e sociale. Se le strutture e la potenza dello Stato romano rimangono forti, se la sua cultura istituzionalizzatasi apparentemente risponde ai fini dd- l'Impero quale si era costituito con Augusto, in effetto, da Tiberio in poi, i contrasti interni si fecero sempre piu drammatici. Alcuni impe- ratori giustificarono il proprio potere assoluto mediante la propria pro- clamazione a divinità (onde la loro simpatia per certi culti e misteri orientali, dalle religioni di Iside e &rapide, a quelle di Cibele, di Attis, di Sabazia e di Mitra) ed il loro contrasto, in particolare, con lo Stoi- cismo, in cui si vedeva la concezione di uno Stato universale e di .un diritto, l'opzione per una condotta di vita e per una cultura che pote- vano minare la politica stessa dei singoli imperatori. Sono dati precisi. Già con Tiberio fu bandito da Roma lo stoico Attalo e messo a morte, perché repubblicano, Cremuzio Cordo ("egli lodava Bruto e diceva C. Cassio l'ultimo dei romani": Tacito, Annali, IV, 34 sgg.), mentre Caligola fece uccidere Giulio Cano, e Seneca, perseguitato da Claudio, fin! poi per uccidersi sotto Nerone, mentre venivano mandati a morte Trasea Peto, anch'egli ritenuto emulo di Bruto (Tacito, Ann., XVI, 22) e Rubellio Plauto, accusato, come riferisce Tacito (XVI, 57), d'esser seguace della "arrogante setta degli Stoici, che rende turbolenti e desi- derosi di disordini." Musonio Rufo e Cornuto vennero esiliati. Nel 71, sotto Vespasiano, tutti i filosofi vennero espulsi da Roma, mentre Dione Crisostomo, ancora insegnante di retorica, scriveva il Discorso con- tro i filosofi, "peste della città e dei governi," e, nel 93, Domiziano espulse di nuovo da Roma i cultori di filosofia preoccupato per gli effetti della retorica, qualora questa non rimanesse sul piano pura- mente scolastico, di esercitazione. Il potere, d'altra parte, si restrin-  229   geva sempre piu nelle mani di pochi, cultura e retorica dovevano servire ai funzionari dello Stato (e appunto per essi si apriranno in Roma e nei suoi domini le scuole, che verranno poi sempre in for~pa maggiore controllate dall'imperatore), le popolazioni divennero sempre piu povere e la schiavitu strumento economico, mentre in tutto l'Impero schiavi e militari circolano, provenienti dai paesi piu diversi, recando con sé esperienze, culti e culture, religioni diverse. Cosf, entro tale atmo- sfera generale, entro i diversi sostrati sociali in cui ci si muove, a seconda anche dell'imperatore e della sua corte entro la quale per sorte si vive, si capisce come la filosofia potesse soprattutto esser coltivata, da un lato come guida alla vita, rifugio, consolazione, dall'altro lato come rifles- sione su esperienze religiose, quale indice di salvazione, di liberazione dal guaio di esser nati uomini. Di qui, sempre, entro l'ambiente greco romano, fin dal principio del 1 secolo d. C., la ripresa di certi asP-C=tti dello stoicismo, del pitagorismo, del platonismo stoicheggiante, e, in altri sostrati sociali, il recupero di suggestioni magiche, teurgiche, oraco- lari, di certe posizioni che si configurano nel cosiddetto gnosticismo, il costituirsi, accanto al commento dei libri del passato (Platone, Aristotele), dei testi ermetici, orfici, il riapparire dei misteri, e, infine, non ultima, la suggestione del Cristianesimo. Sotto questo aspetto, la critica scettica, fin da Enesidemo, sembra abbia avuto una notevole influenza e funzione. Ad esempio, proprio rifacendosi a Enesidemo (o almeno ad argomentazioni scettiche che furono poi sostenute da Enesidemo), dando a lui ragione nei confronti dei superbi ed atei dogmatici, un Filone l'Ebreo poteva rimettere in discus-- sione il problema della verità, ma inserendosi, sotto tutt'altro aspetto, in tutt'altra esperienza e tradizione, delineando il motivo della "rivela- zione," mediante cui, poi, recuperare certi motivi della vecchia cultura. Per altra via, un Seneca, in una situazione politica cangiata, entro i ter- mini di una crisi di una cultilra, poteva, proprio riallacciandosi alla pole- mica scettica, trovare i fondamenti della condotta della vita in uno stoi- cismo, che, in realtà, non ha piu nulla a che fare con lo stoicismo della scuola. In certe esperienze religiose di origine orientale si cercò, di là dalla ricerca razionale, di fronte al suo fallimento, di trovare il fonda~ mento della vita e della propria salvazione. Pur accettando l'istanza scet- tica, pur convinti che inafferrabile è l'essenza e la struttura della realtà, si accantonava anche la via dell'ipotesi probabile, utile a determinare di volta in volta, non solo una possibile fisica, ma una possibile condotta di vita, cui convincere (com'era stato il caso di Filone di Larissa e di Cicerone), e per cui era necessaria una retorica in senso ciceroniano. Essa avrebbe avuto bisogno però di un foro, di una piazza, di un'assem- blea, Ove fosse stato possibile discutere e convincere, foro e piazza che 230    non esistevano piu (non si scordi che molti filosofi, un Seneca, ad esem- pio, sotto Caligola, un Giunio Rustico, sotto Domiziano, furono perse- guitati o condannati a morte, per certi loro discorsi pubblici). La retorica perciò si venne trasformando di nuovo in esercitazione o in tipo di inse- gnamento scolastico, come si vedrà bene in Quintiliano, il cui ciceronia- nesimo sarà estremamente istituzionale (non a caso l'autore del Dialogo degli oratori, attribuito a Tacito, ma certo contemporaneo di Quinti- liano, poteva sostenere che la verace efficacia della retorica si era venuta perdendo con il prevalere del dispotismo). E cos{ si capisce ché insieme alla retorica, entro l'ambito scolastico, .si sviluppassero discussioni di grammatica e di dialettica; da qui, soprattutto, il commento dei libri logici di. Aristotele, la cui applicazione poteva, poi, essere ben lontana dai contenuti aristotelici, tanto che il commento ai libri della logica aristotelica poteva incontrarsi, formalmente, con certi aspetti della logica stoica. Per altro verso, invece, si poteva far di nuovo viva l'istanza cinica e l'ultima retorica rimasta: la presentazione·di esempi, di modelli di vita. 2. Astronomia e astrologia al principio del l secolo d. C.: loro esiti. Manilio Particolare interesse assume ora, entro questi termini, il delinearsi della interpretazione, in chiave stoico-platonica, dei molti aspetti con cui erano penetrate nel mondo occidentale - fin da Platone con certezza - le concezioni astronomico-teologiche di origine orientale, ove non vanno scordati i nomi di Beroso, di Asclepiade Mirleano, l'opera dello pseudo Nechepso-Petosiride, attraverso i cui scritti sappiamo che circolarono già dal secondo secolo a. C., in ambiente alessandrino molti dei piu impres- sicmanti motivi magico-astrologici. Sul piano delle concezioni astrono- miche, è abbastanza facile scorgere, fino a:l principio del I secolo d. C., due grandi linee, che, por, nel corso del I secolo, vennero fondendosi, dando luogo a esiti piu strettamente magici. Da un lato vediamo Ia linea, scaturita dall'interpretazione dei movimenti, dei significati e fini delle stelle, che risale ai secondi pitagorici, al Timeo e all'Epinomide (in cui chiara appare la sostituzione del vecchio culto degli dèi olimpici con il nuovo culto degli astri, manifestazione dell'ordine e delle leggi della suprema ragione divina) e che prosegue con l'interpretazione clean- tea del logos spermatikos, che, fuoco supremo, si realizza attraverso i fuochi e le luci stellari (Inno a Zeus), con i Fenomeni di Arato e poi con i manuali di origine stoica sui segni celesti e sulle influenze delle stelle sulla terra. Dall'altro .lato vediamo la linea scaturita dallo sforzo di rendersi conto dei movimenti stellari in ter~ini razionali, "salvando i fenomeni," e che, se anche d'origine pitagorico-platonica, venne svolgen- dosi su di un altro piano, su di un piano fisico in traduzione geometrico- matematica, perché fossero possibili calcoli e misure, e in ipotesi che rendessero conto degli apparenti errori, indipendentemente dal ricercare supreme ed allotrie ragioni (e pensiamo qui ad Eudosso di Cnido, Era- clide Pontico, e poi ai grandi astronomi di Alessandria, fino a .Ipparco di Nicea e, almeno parzialmente, a Posidonio, nel suo tentativo di "fami- liarizzare l'universo"). Si capisce bene, d'altra parte, come a quella che dicevamo la linea platonico-stoica potessero servire i calcoli e le misure deil'altra linea, che determinando, appunto mediante i calcoli, la neces- sità dei movimenti, le risultanti dei loro rapporti e cosi via, razionaliz- zava e rendeva possibile la divinazione, giustificando la necessità entro cui si scandiscono il ritmo e l'ordine divini. Anche se indirettamente ed in forma alquanto sospetta, sappiamo che Posidonio (cfr. sopra) cercò di inquadrare certi risultati fisici e matema- tici entro i termini dell'ipotesi fisica dello stoicismo. Secondo Simplicio (In Phys Arist., Il, 2, p. 291, 34 sgg. Diels), che riprende un testo di Ge- mino (Epitome dei Meteorolog•), riportato da Alessandro Filopono, Posi- donio, occupandosi del sole e degli astri, ne avrebbe determinato il movi- mento, valendosi del metodo geometrico e matematico. Egli cioè avrebbe considerato pesi, grandezze e tempi di movimento, per formulare ipotesi che servissero a spiegare i fenomeni del cielo, ad esempio l'irregolarità del movimento del sole (cfr. Simplicio, Fisica di Arist., cit.). Sembra, anzi, che Posidonio per spiegare ed illustrare i moti degli astri abbia costruito una sfera. (cfr. Cicerone, De natura deorum, Il, 34, 88: "La sfera, che re- centemente ha costruito il nostro caro amico Posidonio, riproduce in ogni sua rivoluzione gli stessi fenomeni relativi al sole, alla luna e ai cinque pianeti che avvengono ogni giorno e notte in cielo: chi dubiterà, ve- dendo tale sfera, ch'essa è dotata di una ragione perfetta?"). D'altra parte, se la sfera rendeva conto delle apparenze e permetteva calcoli e misure, non permetteva di rendere ragione dei movimenti stessi. Biso- gnava per ciò, sostiene sempre Simplicio, rifacendosi a Posidonio, "muo- vere dai principt generali delle qualità del movimento, dal principio della 7tOL'Jj'rLX1j 8uvcx(Lr.t;, determinando l'essenza del cielo e degli astri" (Sìm- plicio, Fisic. Arist., cit.). Ora, accanto all'ipotesi stoica, probabilmente formulata da Cleante, secondo cui la ragion d'essere del tutto è un prin- cipio attivo, un fuoco vitale, ragione seminate che ovunque si diffonde, costituendo un tutto necessariaemnte ordinato, "ragione, unica di tutti, che si svolge e vive per l'eternità," "comune ragione che in tutti pene- tra, ugualmente toccando il grande [sole] e i minori lumi" (Inno a Zeus, 21 sgg., 16 sgg.), non vanno scordate le ipotesi aristotelica ed epi- 232    curea. Se da un lato Aristotele, nella sua sistemazione cosmologica, era ricorso all'ipotesi di un primo motore immobile, dall'altro lato Epicuro, di contro al teleologismo platonico-aristotelico, aveva sostenuto l'impos- sibilità, sul piano sperimentale, di formulare qualsiasi ipotesi generale, sottolineando, di contro all"'unica spiegazione," il valore delle "molte- plici spiegazioni." "I segni dei fenomeni celesti ce li forniscono i feno- meni che accadono presso di noi e che si vede bene come e dove acca- dono, e non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte maniere" (Epicuro, Lettera a Pitocle, 86, 8; 87, 8). Entro i termini di un meccanicismo casuale si eliminava ogni necessaria determinazione, ci si liberava dal concetto della provvidenza divina. "E non si chiami in causa la natura divina... Se non si farà cosi, ogni indagine sulle cause dei fenomeni celesti sarà vana, come è avvenuto a certuni che ignorando il metodo delle possibili spiegazioni caddero in vuote argomentazioni, perché credevano al metodo dell'unica spiegazione" (Epicuro, Lettera a Pitocle, 97, 4, 12). Proprio di contro alla tesi epicurea - di cui sappiamo le preoccu- •pazioni che suscitò per i suoi esiti politici, sganciando l'uomo e le cose da ordini precostituiti, da una ragion d'essere universale, per cui e cieli e mondi e uomini apparivano scaturiti a caso, onde si accusò Epi- curo di sragionevolezza e di empietà di contro a Epicuro, dunque, sembra che Posidonio abbia avanzato l'ipotesi del tutto animato e vi- vente, secondo la tesi della "simpatia universale." Egli si sarebbe cosi riallacciato, · relativamente agli ordini e ai movimenti stellari, a certi testi del Timeo e dell'Epinomide, interpretati mediante la concezione fisico-animistica di Cleante e di Arato, in una visione cosmologica in cui poteva rientrare anche la sistemazione aristotelica, una volta che il motore immobile, Dio, non fosse piu concepito come un concetto, una condizione logica, ma come forza attiva, l6gos spermatik6s, che non esiste se non nel suo manifestarsi, e di cui, fin dalle stelle, cominciando dal sole, tutte le cose sono aspetti e determinazioni. Si vede bene cosi come Achille Tazio, discutendo il significato dei Fenomeni di Arato, interpretasse la tesi posidoniana come l'unica ipo- tesi valida da potersi sostenere contro l'ipotesi degli Epicurei, secondo cui gli astri non sono affatto animati ("Posidonio polemizza con gli Epicurei, i quali negano che gli astri siano animati, perché racchiusi nei corpi. Secondo Posidonio non sono i corpi a racchi.udere le anime, ma le anime i corpi, ché le anime son come la colla che tiene unita se stessa e le cose di fuori": Achille Tazio, Isagoge in Phaen. Arati, 13, ed. Maas). Sotto questo aspetto, dando ad anima il significato di forza, di calore vitale, organizzante, sembra chiaro in che senso si potesse, sia pur analogicamente, spiegare il movimento in sé ponendo, al limite, un  233   princip10 di vita, una forza attiva, non a caso .detta fuoco, inesistente in sé se non appunto nella sua stessa estrinsecazione. I movimenti de~li astri costituiscono perciò ·gli stessi moti d,ell'intelligenza divina, e gli astri sono essi stessi fuoco (secondo Stolieo Posidonio scriveva che gli "astri sono a&JL« .&ei:ov, corpo divino, fatti di etere splendente e infuo- cato, mai in .quiete, ma sempre in movimento circolare": Stobeo, Ecl., I, 24, 5 W.), corpi divini, come fuoco è Dro, onde tutte le cose, avendo ciascuna la propria ragione seminale, il proprio fuoco, la propria luce, la propria anima, sono, sia pur ìn gradi sempre piu affievoliti, riper- cussioni e riflessioni dei fuochi, delle luci siderali. Già qui si saldano le due linee di cui sopra parlavamo, e..se da un lato ·si ren<;leva possibile lq sfruttamento. dei risultati geometrico-mate- matici, dall'altro lato si potevano rendere razionali le suggestioni di certa magia astrologica, di origine sacerdotale, che si era venuta dif- fondendo attraverso i cosiddetti Caldei, per cui, in fine, al vecchio impe- rativo "vivi secondo natura," si poteva sostituire l'imperativo "vivi secondo le stelle," secondo la tua stella, ché ciascuno, ·concepito' sotto il riflesso di un certo fuoco stellare, in una certa situazione e congiun- zione di stelle, assume per riflesso quel fuoco, quella figura siderale, ha il suo destino che è destino divino, comprensibile da parte di chi conosce l'ora (oroscopo) delta ct>ncezione e .Ja posizione delle stelle, e sa, seguendo il moto delle stelle, fare i giusti calcoli, prendere le giuste misure, ché l'istante della nascita determina quello della morte: "Na- scentes morimur, finisque ab origine pendet";. "Fata regunt orbem, certa stant omnia lege" (Manilio, Astronomicon, IV, 16, 14; cfr. F. Cu- mont, Les religions orienta/es, Parigi, pp. 196 sgg.). Da un lato, dunque, di contro alla libertà di Epicuro che fa l'uomo responsabile del suo morido, lanciato in una infinità·di mondi, si tende, "familiarizzando" l'universo, di ricondurre l'universo a una sola unità e a una sola legge, di cui, "microcosmo" nel "cosmo," l'uomo è parte in una cospirazione di parti in funzione del tutto ("simpatia"); dal- l'altro lato, entro i termini di questa concezione, si tende, recuperando calcoli e misure dell'astronomia, recuperando la simbolica dei numeri e la geometria dei pitagorici, a· razionalizzare il costituirsi e il destino di tutte le cose, compreso l'uomo. Si veniva cosi:· a delineare la possibi- lità di uria scienza della. natura e di una teologia scientifica, che risol- veva in sé l'aspetto pragmatico-magico di molte credenze astrologiche diffuse dai cosiddetti Caldei, ed ove si poteva considerare la stessa divi- nazione e predizione del futuro non solo rispetto all'universo, ma all'uomo, come frutto di una serie di conoscenze e' come vero e proprio possesso di un complesso di tecniche. Abbiamo di proposito lasciato nel vago l'apporto delle. credenze 234    astrologiche, delle pratiche magiche, delle superstizioni religiose, di certe concezioni e misteri, provenienti dall'Oriente, proprio perché tutto questo è estremamente vago, e perché, in realtà, non possediamo docu- mentazioni precise. Possiamo dire solo questo, che con il termine Caldei, sia in Roma sia in Grecia (in Grecia fin dal tempo di Platone) si sole- vano indicare quei sapienti, indipendentemente ormai dalla loro ori- gine, che soprattutto sfruttarono sul piano del sapere da un lato, almeno in principio, concezioni astronomiche di origine babilonese, dall'altro lato gli esiti che tali concezioni potevano avere sul piano della divina- zione e della previsione basate sui fenomeni celesti (cfr. Diodoro Siculo, Il, 29 sgg.). Che naturalmente molti di costoro, giuocando sulle superstizioni popolari, fossero rimasti quei tali mendicanti, sacerdoti imbroglioni e indovini di cui parla Platone (cfr. Repubblica, 364b), è certo, come risulta da non poche testimonianze. D'altra parte è senza dubbio vero che notevole, entro l'àmbito di tali ricerche astrologiche, fu l'influsso di certe religioni (pensiamo qui particolarmente al maz- deismo e al mitracismo) e di certe raccolte relative alle influenze delle piante, delle pietre, degli astri, di provenienza orientale (da Ostane, da Zarathustra), diffuse in Egitto da Petosiride (sembra di lui un'opera di astrologia del n secolo a. C.: cfr. Catai. codd. astrologorum graec., VII, 129-151) e da Beroso, sacerdote babilonese di Bel, autore di Babi- lonicà, dedicati ad Antioco I Sotèr (tra il 280 e il 260 a. C.), ad un tempo interprete di antiche teorie babilonesi. Ricordiamo qui, per la sua vicinanza con certe concezioni stoiche (e perché è un chiaro indice di come sia difficile distinguere provenienze e separazioni precise) la dottrina, di origine siriaca, dei grandi cicli annui che si scandiscono sulle rivoluzioni celesti dando luogo al concetto dell'eternità divina che, operando mediante le stelle e le loro influenze, è onnipotente su cose, uomini, popoli (cfr. Catai. codd. astro/. graec., V, l, p. 210). "Il primo postulato dell'astrologia caldea è che tutti i fenomeni e gli avve- nimenti di questo mondo sono necessariamente determinati dalle in- fluenze siderali. I cangiamenti della natura come le disposizioni degli uomini sono fatalmente soggetti alle energie divine che risiedono nel cielo. In altri termini, gli dèi sono onnipotenti; sono i padroni del Destino che sovranamente governa l'universo. Tale nozione della loro onnipotenza appare come lo sviluppo dell'antica autocrazia che si rico- nosceva ai Baal. Costoro erano concepiti ad immagine di un monarca asiatico, e la terminologia religiosa si compiaceva di sottolineare l'umiltà dei loro servitori rispetto ad essi. Non Si trova in Siria nulla d'analogo a ciò che esisteva in Egitto, ove il prete riteneva di poter costringere i suoi dèi ad agire ed osava perfino minacciarli" (F. Cumont, Les reli- gions orienta/es dans le paganisme romain, p. 155). Sotto questo aspetto,  non vanno dimenticate le suggestioni di certi rituali egiziani, che me- diante la precisione delle parole sacre incantano ed obbligano le potenze superiori, donde il valore dato alle parole evocatrici e a certi gesti dd rituante, di cui non pochi lasciti ritroviamo in quei testi che poi riflui- rono nel Jilorpo ermetico (cfr. Boll, Sphaera, p. 372; Cumont, cit., pp. 114 sgg.; Festugière, cit., vol. I), mentre per altra via si poté intra- vedere la possibilità d'inventare tecniche mediante cui operare su quella stessa fatalità astrologica, spezzandone la catena (donde, poi, nel n se- colo d. C., la teurgia e la magia scientifica). E cosi, entro quest'àmbito della astrologia, va ora sottolineata l'importanza che vengono assu- mendo, non pìu in senso mnemonico, non piu solo lasciti di totem e dì primordiali magie amuletiche, le figure delle stelle (la vergine, i gemelli e cosi via) e le figure delle stelle di provenienza persiana, in un insieme di animali fantastici (la cosiddetta "sfera barbarica"),-donde, poi, l'aspetto mimetico della magia, l'imitazione della figura e della ragione del proprio astro. Tutti questi aspetti, in principio senza dubbio separati, di prove- nienze diverse, operanti in ambienti sacerdotali, sulla fine del I se- colo a. C. vengono diffondendosi - non sembra un caso la polemica di Filone l'Ebreo nei confronti dei Caldei che riducono il divino al complesso delle stelle, s( come non è un .caso l'ironia degli scettici, già fin da Carneade, nei confronti delle pretese dell'oroscopia, - vengono laicizzandosi e, interpretati in chiave stoica, si risolvono in una vera e propria teologia razionale, scientifica, nel tentativo di una spiegazione della fatalità. Sotto questo aspetto si vede bene come l'astrologia sul principio del 1 secolo d. C. potesse penetrare e fosse accettata in Roma nell'ambiente stoicheggiante di Augusto e di Tiberio. Testimonianza precisa di questo incontro di tradizioni diverse astro- logiche, interpretate e sistemate entro i termini dello stoicismo, sembra essere il poema in cinque libri (Astronomicon) di Manilio,l composto l Nulla ~ stato tramandato della vita di M. Manilio. Ch'egli sia vissuto ed abbia composto il suo poema A.stronomicon, in 5 libri, tra Augusto e Tiberio lo si oonget- tusa da alcuni accenni che si ritrovano nella sua stessa opera. Nel proemio vi ~ un chiaro accenno ad Augusto, si come di Augusto anoora vivo Manilio parla nel libro II, 509, affermando che il Capricorno rifulse nel giorno in cui Augusto uaoque. t ricordata la disfatta di Varo, avvenuta nel 9 d. C., come avvenimento recente. Nel IV libro si accenna chiaramente a Tiberio come da poco succeduto ad Augusto (Au- gusto mori nel 14 d. C.). Nel V libro, infine, sembra si accenni all'incendio del teatro di Pompei, avvenuto nel 22 d. C. Poich~ il V libro appare chiaramente interrotto si ~supposto che Manilio sia morto, appunto, nel 22. A proposito degli interessi per un certo tipo di questioni astronomiche occorre qui fare il nome di C. Giulio Cesare Germanico, nato nel 15 a. C. da Nerone Claudio Druso ~anico e da Antonia Minore, adottato nel 4 d. C. da Tiberio contemporaneamente, a sua volta, adottato da Augusto, morto nel 19 d. C. Uomo di ampia cultusa, autore di contra il 9 e il 22 d. C., a Roma, in un riconoscimento, talvolta commosso e pieno di stupore di fronte alla fatalità del tutto, dell'architettura del- l'Universo e della sua razionalità (del cui scandirsi fatale incarnazione è l'imperatore: si vedano gli accenni ad Augusto, e a Tiberio), in una netta contrapposizione allo sconcertante e libero costituirsi degli infi- niti mondi epicurei, alla libera mater, feconda e libera materia da cui tutto liberamente si genera, di lucreziana memoria (non a caso alla struttura esterna del poema di Lucrezio si avvicina in antistrofe il poema di Manilio). Sorge ogni astro secondo la propria luce e osserva un ordine preciso nel suo nascere e nel suo tramontare. Nulla v'è di piu meraviglioso, in s1 gran massa, che questo razionale ordine e il fatto che ogni cosa obbedisce a leggi fisse... Chi potrebbe credere che tutto questo avvenga senza· uo nume e che il mondo sia stato creato da minime particelle [gli atomi], unite alla cieca? Non è opera del caso, questa, ma ordine che proviene da un nume possente (Manilio, I, 476-479, 492 sgg.). Difficile è dire, relativamente alla costruzione che dell'Universo offre Manilio, sia per l'aspetto piu propriamente geografico, sia per quello piu strettamente astronomico, quanto egli si sia servito delle opere di Posidonio - in par.ticolare, si è detto, delle Meteore, del Protreptico, dell'Oceano. - Certo, abbastanza evidentemente si rintraccia la linea che va dal Timeo, all'Epinomide, ai Fenomeni di Arato, in una inter- pretazione genericamente stoica, in chiave teologica. Ma v'è di piu: in Manilio è indubbia una traccia di motivi astrologici di origine orien- tale. In un codice Angelico (grec. 29, sec. xv, c. 120: cfr. Cumont, Cat. cod. astrol., VI, p. 188; F. Boll, Sphaera, p. 53), è esposta una dot- trina di Asclepiade Mirleano (del 1 sec. a.C.: cfr. B.A. Miiller, De Asclepiade Myrleano, p. 22) sulle costellazioni della sfera barbarica e sull'influsso che tali costellazioni hanno sugli uomini nati sotto di esse, dottrina che ritroviamo in Manilio (V, 262 sgg.); non solo, ma, se- condo Firmico Materno (Proemio, III libro, 4), alcuni motivi Manilio li avrebbe ripresi dagli scritti di Nechepso e Petosiride; in realtà in un frammento di Nechepso e Petosiride (Riess, 363) ritroviamo proprio gli stessi motivi trattati da Manilio (III, 190 sgg.) sulla Fortuna e l'oro- scopo, risolti mediante la disposizione dei segni siderali, i dodekate- moria, le sorti dei dodici luoghi. Ma ciò che piu colpisce è la sistema- medie in greco e di epi8fammi in latino e in 8fCCO, ottimo oratore, Germanico libera- mente rielaborò iJIOeDli di Arato: abbiamo 700 versi del rifacimento dei Fenomeni, modifi· c:ati in funzione delle nuove scoperte in campo astronomico; e circa 200 versi di un'oJ)era sempre di argomento astronomico, probabilmente un rifacimento di Prognostica da inclu- dere nei Fenomeni, a loro completamento.  237   zione del tutto entro i termini di un ordine razionale, di cui appunto tutto - dai cieli, alle influenze stellari, ai conflitti tra le costellazioni - è rivelazione, manifestazione di una unica ratio gubernans. In tal senso, già notevole come indicazione, è una pur breve traccia della struttura e del contenuto del poema, che, per la morte dell'autore (22 circa d. C.), rimase interrotto (il V libro è incompiuto): I libro: forma e origine del mondo, i quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra), posizione della terra nel cosmo; cielo, zodiaco, asse del mondo, stelle artiche, natura delle costellazioni, distanza tra lo zodiaco e la terra, grandezza delle dodici parti dell'eclittica, circoli paralleli, meridiani, oriz- zonte, eclittica, via lattea. - Il libro: dodici segni zodiacali (~cf>3tot) loro na- tura, loro posizione, loro subordinazione ai dodici dèi (Minerva, Venere, Apollo, Mercurio, Giove, Cerere, Vulcano, Marte, Diana, Vesta, Giunone, Nettuno), loro dominio sulle membra umane, rapporti reciproci tra di loro, amicizia e discordia nelle costellazioni, simile a quella che v'è sulla terra, influssi dei sidera cognata su chi è nato sotto di essi, dodel{atemoria, gli otto luoghi. - III libro: le dodici sorti, tra cui la Fortuna che determina le loro combinazioni coi dodici segni, oroscopia, i segni tropici (Cancro, Capricorno, Ariete, Leone). - IV libro: figurazioni dei segni zodiacali, a seconda delle quali si determinano i costumi, la condotta, il destino degli uomini, sistema geometrico dei decani, in una ripartizione ternaria dei segni zodiacali; sorgere dei segni, località ordinate sotto il potere dei do- dici segni (geografia astrologica), conflagrazione universale, cosmo e micro- cosmo (l'uomo). - V libro: sistema del sorgere degli astri (paranatéllonta), visione ordinata del tutto, anche nel conflitto degli astri, ché su tutto do- mina una piu profonda ragione, in un solo scandirsi, in cui l'universo appare fatto sul modello dello Stato augusteo. "Non è opera del caso, questo, ma ordine che proviene da un nume possente" (1, 492); "questo dico e questa ragione, che tutto governa, trae dalle eterne stelle gli esseri animati della terra" (Il, 82-83). E l'uomo, microcosmo nel cosmo, poiché l'anima umana emana dagli astri, essi stessi fuoco del divino fuoco, principio di vita del tutto, attra- verso la contemplazione dell'universo e delle sue leggi, dispiegamento del divino e della sua fatalità, l'uomo può, ripercorrendo le ragioni del tutto, accettare il proprio fato, serenamente. "Soltanto nell'uomo di- scende Dio e vi alita e vi ricerca se stesso. Chi potrebbe conoscere il cielo se non per dono del cielo? Chi potrebbe trovare Dio, se non chi è parte lui stesso, di Dio?" (II, 108 sgg.). Lo sforzo di Manilio appare consapevolmente rivolto a risolvere su di un piano razionale la fatalità, a far rientrare tutto nell'ordine, siste- mando in unità e ragione, in un unico impero, i diversi aspetti con cui era penetrata in Roma l'asttologia e l'oroscopia, ch'egli svuot~ del 238    suo mordente magico e operativo. Sotto questo aspetto non sembra un caso che il discorso intorno alle stelle e alla loro fatale influenza (se vo- gliamo astrologia) si risolva entro i termini di una descrizione delle "leggi" degli astri (astronomia), manifestazione del divino ordine e della divina ragione, non "nascosti," non "volontari," e sui quali per- ciò non v'è alcuna possibilità di operare, nessuna possibilità mediante evocazioni di modificarne la volontà, ché la divina ragione è tutta rive- lata a chi sappia contemplarla: Lo stesso Dio non vieta al mondo il volto del cielo e i suoi aspetti e il corpo svela, e sempre volgendosi s'imprime e si offre perché possa essere ben conosciuto, perché a chi contempla insegni come si muova e lo costringa ad osservare le sue leggi. Lo stesso mondo gli animi nostri chiama alle stelle, né soffre che i suoi legami rimangano nascosti, poiché svelati essi sono. Chi mai potrà credere ch'empio sia conoscere quello che ci è concesso di contemplare? Non disprezzare le tue forze perché sono in un piccolo corpo: ciò che vale è immenso. Sf come poche quantità d'oro valgono piu di molti cumuli di bronzo, sf come il diamante, un punto di pietra, è ancor piu prezioso dell'oro, sf come la piccola pupilla ha la capacità di abbracciare il cielo tutto, e minimo è ciò che gli occhi vedono, mentre guardano le massime cose; cosi la sede dell'animo, posta sotto il tenue cuore, domina per tutto il corpo da un angusto limite. Non chiedere la quantità della materia, ma considera le potenze che la ragione domina, non il peso: tutto la ragione vince - ratio omnia vincit (IV, 920-32). Fata regunt orbem, certa stant omnia lege (IV, 14). Divinità svelata il Tutto, il discorso sugli astri, incarnazioni delle leggi, diviene $Cienza, studio dellç. rifrazioni e riflessioni dei lumi stel- lari: la stessa oroscopia e divinazione divengono calcolo, studio di rapporti geometrici e matematici. Di qui il recupero di molti aspetti della sistemazione della cosmologia di origine pitagorica (con particolare rife- rimento al fuoco), che si vien componendo con la cosmologia della fisica stoica, in una strutturazione dell'universo che poteva essere benissimo quella offerta dal sistema aristotelico. In Manilio, effettivamente, c'è in forma quanto mai massiccia, l'esito di uno degli aspetti della fisica e della teologia stoiche, in una sistema- zione, manualistica, dei momenti con cui si erano venute determi- nando, in linee diverse, le ricerche astronomico-astrologiche. E tale esito è la matematizzazione del fatalismo in una coraggiosa consequenzialità - che sembra essere la novità che Manilio si gloria di introdurre in Roma, - che se toglieva ogni possibilità sia alle cose che agli uomini,  239   senza alcuna preoccupazione per i problemi impliciti nella soluzione di una universale casualità, cosi presenti e acuti· in Crisippo e ancora in Cicerone (cfr. De divinatione), giustificava,' per altro verso, il signi- ficato dell'impero di Augusto e di Tiberio, di quell'impero che appa- riva realizzazione della ragion d'essere del tutto, di quella ragione che il tutto ordina, fatalmente governando. Sotto questo aspetto di non poco momento sembrano i versi con cui si apre il poema maniliano: Mi accingo, in poesia, a derivare dal cosmo le divine arti e lç stelle consapevoli del fato che rendono diversi i casi degli uomini, secondo celeste ragione: e, primo, con nuovi carmi, commuovo l'Elicona e le selve che ondeggiano pei verdeggianti vertici, recando inconsueti sacri- fici da nessuno mai prima ricordati. Ma tu, Cesare, principe e padre della patria, che reggi questo mondo obbediente ad auguste leggi e che assumi la dignità di Dio in una terra che ti si è affidata come a un padre, dammi animo, dammi forze per cantare tema sf alto (1, 1-10). E, sempre sotto questo aspetto, altrettanto indicativi sembrano i versi, sottolineati dal Farrington (Scienza e politica nel mondo antico, cit., trad. it., pp. 200-201), che si trovano sulla fine del V libro, con cui s'interrompe il poema, ché, appunto, conclusasi la sistemazione del- l'universo in un ordine fatale, in cui ai gradi e alle gerarchie stellari corrispondono i gradi, le gerarchie, i privilegi della società terrena, Manilio esclama: Ma se fosse stata concessa al popolo che costttutsce la maggioranza, una forza proporzionata al suo numero, tutto l'universo sarebbe andato in fiamme (V, 742 sgg.). Entro i termini di tale necessità, di tale ferrea causalità, l'astrologia e la teologia scientifica, potevano da un lato risolvere io ìina disperata accettazione consapevole l'inesorabile situazione umana, in un'adeguazione, da parte di ciascuno, al giuoco delle proprie sorti; dall'altro lato esse sembravano, dal punto prospettico di chi aveva io mario il potere - essendo nato in una felice congiunzione stellare - giustificare agli occhi dei piu quel potere stesso, rompendo il quale si sarebbe rotto con- tro la medesima ragione divina. E non era, questo, argomento di per- suasione politica da scartare, mentre era ancora da scartare l'esito opposto alla fatalità, cioè la possibilità, presupposta una volonta nelle stdle e perciò stesso nella divinità, di operare mediante culti e simboli, rituali e tecniche su queste volontà, modificandole. Se, dunque, ancora al tempo di Augusto e di Tiberio si videro di malocchio, da parte della classe al potere, certi riti e culti d'origine 240    egiziana, si capisce, invece, l'importanza data all'astrologia caldea, in- terpretata in chiave stoico-platonica, l'importanza data alla divinazione, l'introduzione nelle corti degli astrologi, di chi, sapendo fare i calcoli, poteva giustificare certe azioni, anche una cèrta politica. È stato finemente sottolineato (Cumont, op. cit., pp. 217-18) che se un Destino irrevocabile s'impone, nessuna supplica può cangiarne la volontà; il culto è inefficace e le preghiere non sono altro, per riprendere un'espres- sione di Seneca, che le "consolazioni di un animo ammalato, ché irre- vocabilmente il fato consuma il proprio diritto [ius suum, ove assume un suo particolare significato il termine diritto], né può essere smosso da alcuna preghiera" (Nat. quaest., II, 35). "E, senza dubbio, alcuni adepti dell'astrologia, come l'imperatore Tiberio, accantonano le prà- tiche religiose, persuasi che la Fatalità governa tutte le cose ('circa deos ac religiones neglegentior, quippe addictus mathematicae plenu- sque persuasionis cuncta fato agi': Svetonio, Tiberio, 66) ...Si erige a dovere morale l'assoluta sottomissione alla sorte onnipotente, la gioiosa rassegnazione all'inevitabile, e ci si accontenta di venerare, senza chie- derle nulla, la superiore potenza che regge l'universo... Le masse, tut- tavia, non s'elevarono a quest'altezza di rinuncia" (Cumont, cit., p. 218). È vero, ma non bisogna schematizzare. In realtà qui si pone un problema meno semplice. L'altro aspetto dell'astrologia, la possibilità di operare sul destino e sulle cose, sugli dèi, anche se già da tempo presente in certi culti d'origine egiziana o in sistemazioni fisiche che, recuperando suggestioni magiche sul potere di piante, di pietre, di colori~ si muovevano sul piano dell'atomismo seminale (vedi sopra, Bolo di Mende), si viene diffondendo in forma laicizzata in epoca pio tarda, dalla seconda metà circa del n secolo d. C. in poi; e, sempre in epoca pio tarda (seconda metà del 1 secolo d. C.) si diffondono, di con- tro all'accettazione di un inesorabile fato, anche quei culti e riti egi- ziani, quei culti mitriaco-solari, che spezzavano la razionalità e la cau- salità, propagati proprio da certi imperatori (la cui politica e il cui fondamento di potere erano ben diversi da quelli di Augusto e ancora di Tiberio). E allora duplice diviene la questione, considerata storica- mènte. La magia e il suo diffondersi in ambienti popolari se dapprima può essere indicazione di una sia pur inconsapevole rivolta alla impo- sizione di un inesorabile fatalismo, viene poi accolta da certi imperatori proprio in contrasto con quella visione causale e necessaria di un tutto che limitava, e non poco, il loro assoluto ed arbitrario potere, onde certi ritorni ad un naturalismo razionalistico-teologico hanno il sapore di una ribellione a precise situazioni storiche, in un appello ad un tipo di moralità in contrapposizione ad altri, ove l'opzione per una certa concezione (la stoica, come sarà per Seneca) ripropone la possi-  241   bilità di una scelta entro un complesso di condizioni date, di mosse date, ma pur sempre possibili; mentre, per· altro verso, la razionalizza- zione di certe forme teurgiche, mimetiche, alchimistiche, la cui linea si vede bene da Plotino a Proclo, assume un significato in un tentativo scientifico di risolvere il rapporto uomo-necessità e fatalità del tutto, in un serio accantonamento della teurgia magica e irrazionale. Infine, se teniamo presente l'aspetto piu strettamente matematico-logico del- l'astrologia, in uno sforzo di risolvere in calcoli e misure i rapporti tra le stelle e delle stelle con la terra, donde la possibilità della divina- zione e dell'oroscopia in termini scientifici, per cui, liberata dal suo alone sacerdotale, l'astrologia assume il carattere di un'ipotesi fisico- matematica in termini causali, ci rendiamo conto del perché Vettio Valente (n sec. d. C.) dicesse che "l'astrologia è la regina delle scienze" (Anthologiarum libri, ed. Kroll, Berlino, p. 241), e perché, ancora una volta, astrologia e astronomia potessero risolversi in unità con Claudio Tolomeo (u sec. d. C.), il grande sistematore dei risultati del- l'astronomia (Almagesto) e dell'astrologia (Tetrabiblos). A tal proposito, anzi, come indicazione del significato scientifico dato allo studio degli astri, per determinarne le leggi e la loro influenza necessaria sul mondo e sugli uomini, mediante calcoli geometrico-mate- matici, sembra interessante riferire le seguenti parole del Cumont: "Se i teorici [da Carneade in poi, i cui argomenti furono ripresi, ripro- dotti e sviluppati sotto mille forme dai polemisti posteriori: gli uomini che muoiono insieme in una battaglia o in un naufragio sono tutti nati in uno stesso momento avendo avuto la stessa sorte?...] non giun- sero a dimostrare la falsità dottrinale dell'apostelesmatica, !~esperienza doveva provarne il vano sforzo. Senza dubbio numerosi hanno dovuto essere gli errori e provocare crudeli disillusioni. Avendo perduto un bambino di quattro anni, al quale era stato predetto un brillante de- stino, i ~uoi genitori "stigmatizzano nel suo epitaffio il 'matematico mentitore la cui gran fama ha preso in giro ambedue' (Corp. iscr. lat., VI, 27.140). Ma nessuno pensava di negare la possibilità di tali errori. Abbiamo dei testi in cui gli stessi facitori di oroscopi spiegano candi- damente e dottamente come si sono ingannati, per non aver tenuto conto di un dato del problema (cfr. Palco in Cat. codd. astr., I, 106-7), e, nel u secolo, Vettio Valente amaramente si lamenta dei detestabili imbroglioni, che, erigendosi a profeti senza una lunga preparazione necessaria, rendono odiosa o ridicola l'astrologia che osano invocare (Vettio Valente, V, 9: Cat. codd. astr., V, 2, p. 32, ed. Kroll). Bisogna ricordarsi che l'astrologia non era solo una scienza (~LO"t'ijtJ.TJ), ma anche una tecnica(~), come la medicina" (Cumont, cit., pp. 203-4). 242    3. Lo «stoicismo" nella prima metà del l secolo d. C. Seneca. La figura di Demetrio «cinico" Giunti a questo punto sembra difficile parlare in termini esatti di stoicismo, di platonismo, di pitagorismo, ché ognuna di queste conce- zioni, in effetto, serve oramai non piu che ad evocare certi principt isti- tuzionalizzati, certe scelte e opzioni in favore di problematiche e di esi- genze assai diverse, per cui veniamo ad avere, sia pur sotto il nome di Pitagora, di Platone, o di alcuni Stoici (anche se certi testi sono real- mente ricalcati da testi platonici o stoici) posizioni che, se davvero vo- gliamo rendercene conto, meglio sarebbe spogliare di quelle etichette, riferendoci volta a volta a questo o a quel Platone, a questo o a quello stoico (sottolineando quali testi di Platone o di stoici o di Aristotele o della tradizione pitagorica sono sfruttati) filtrati attraverso questa o quella figurazione storica. Non solo, ma ancora piu difficili appaiono tali schematizzazioni quando si pensa che in realtà, almeno dal prin- cipio del 1 secolo d. C., le stesse scuole (l'Accademia, il Liceo, la Stoà) sono venute meno, o sussistono per inerzia. Di scolarchi della Stoà, dopo Antipatro di Tiro (morto nel 45 a. C. circa) non abbiamo piu notizia, se non, sotto Adriano e Antonino Pio, di un certo Coponio Massimo; nel I I secolo d. C., di Aurelio Eraclide Euripide e di Giulio Zosimiano; nel m secolo di Ateneo, Miwnio, Calliete. Poi basta. Lo stoicismo con tutto il suo complesso dottrinario costituitosi nei secoli è divenuto altro. E cosi, dopo Teomnesto di Naucrati, fiorito nel 44 circa a. C., poco o nulla sappiamo di scolarchi veri e propri dell'Accademia (Ammonio di Egitto, vissuto sotto Nerone, maestro di Plutarco di Cheronea; Cal- visio Tauro, vissuto al tempo di Adriano e di Antonino Pio; Attico, vissuto sotto Marco Aurelio: il discorso si farà diverso per la scuola Alessandrino-romana, per quella Siriaca e di Pergamo, e per la scuola di Atene e di Alessandria). E lo stesso va ripetuto per il Peripato. Di non poca importanza è sotto questo aspetto la testimonianza dello stesso Seneca,2 che se da un lato denuncia il fatto che piu non 2 Nato a Corduba, in Spagna, nel 4-3 a. C., da Anneo Seneca, letterato di fama, retore, storico dell'eloquenza, e da Elvia, donna di cultura, particolarmente interessata di studi filosofici, Lucio Anneo Seneca, fu condotto a Roma, ancora bambino, da una zia materna, moglie di Vitrasio Pollione, che fu in seguito prefetto d'Egitto per sedici anni, dove soggiornò anche Seneca. Dei due fratelli di Seneca, il maggiore, Marco Anneo Novate, che adottato dal retore Giunio Gallione, ne prese il nome, percorse la carriera consolare e fu console e proconsole deii'Acaia (dopo la mone del fratello Lucio, al quale era legato da profondo affetto, si uccise: a lui Seneca aveva dedicato il De ira, il De vita beata e il perduto De remediis fortuitorum); il fratello minore, Mela, di cui Seneca parla poco, ebbe per figlio il poeta Lucano. Da giovinetto Lucio Anneo Seneca ebbe a soffrire non poco per la cagionevole salute, minacciata anche  243   esistono le vecchie scuole, dall'altro lato - sia pur riprendendo un motivo ciceroniano, ma per altro fine - confessa che egli, in realtà, non è né stoico, né platonico, né altro, in senso stretto. dalla sua continua applicazione negli studi. In Roma ascoltò dapprima Sozione di Alessandria e Sestio il Giovane, poi Attalo, Papirio Fabiano ~ il cinico Demetrio. Su consiglio del padre che temeva per la salute del figlio, che preso dagl'insegnamenti di Sozione si era dato ad una "vita pitagorica" eccessiva, e che temeva che il figlio fosse accusato di pratiche occulte, Lucio Ann~ Seneca si dedicò alla carriera oratoria ed a quella politica. Nominato questore nel 31 o 32 d. C., anche per aiuto della zia, Seneca entrò in Senato ove fu ammirato per la sua eloquenza e sapienza. Nel 39, una sua troppo libera orazione in Senato irritò l'imperatore Caligola, che avrebbe voluto sopprimerlo. Seneca · si salvò per intercessione di una favorita dell1mperatore, la quale sostenne eh'era inutile uccidere un uomo già vicino alla morte per malattia. Ritiratasi dalla vita politica attiva, Seneca rimase in contatto con la corte imperiale, godendo, come egli stesso confessa (Cons. aJ Hellliam, V, 4), di potenza, di onori, di denaro. Si legò allora di amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di Caligola. Fu proprio la sua amicizia per la dignitosa principessa, che mai volle adulare l'imperatrice Messalina, moglie dell'imperatore Claudio, che, nel 41, rovinò Seneca. Messalina, gelosa di Giulia, per l'influenza ch'ella aveva sull'imperatore Claudio, riuscl a far sospettare Giulia di adulterio, tanto da farla cacciare da corte e, poco dopo, da farla uccidere. Seneca fu coinvolto in ·questa losca faccenda. Forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia. Seneca fu da Claudio condannato al- l'esilio e relegato in Corsica. Nove anni durò l'esilio di Seneca. Egli ne fu richiamato nel 49, dopo la morte di Messalina, da Agrippina, figlia di Germanico, nuova impe- ratrice. Tornato a Roma, Seneca fu assunto da Agrippina in qualiti di precettore e, poi, di consigliere del figlio Domizio che Agrippina aveva avuto da un suo precedente matrimonio con Gn. Enobarbo. Domizio, fatto sposare ad Ottavia, figlia di Claudio c di Messalina, e adottato dall'imperatore Claudio, fu contrapposto dalla madre Agrip- pina, per la successione al trono, a Britannico, figlio legittimo di Claudio c di Messa- lina. Morto Claudio nel 54, avvelenato, a quanto sembra, da Agrippina, Domizio, col nome di Nerone, sal! al trono imperiale (nel 55 Nerone fece uccidere Britannico). Seneca, insieme a Burro, prefetto del pretorio, si sforzò, e in parte riusc!, d'indirizzare, su di un piano di onesti e di dirittura morale e politica, l'azione del giovane impe- ratore, sottraendolo all'infausto potere della madre. In effetto Seneca, tra il 55 e il 60, fu la reale guida della politica imperiale. Dopo la tragica fine di Agrippina, fatta uccidere dal figlio (59 d. C.), Nerone si sottrasse sempre di piu alla benefica influenza di Scneca, nel suo desiderio di un potere assoluto. Lo stesso Senato, d'altra parte, si oppose a molte delle propOste di riforma, tra cui una finanziaria a favore del popolo, avanzate da Seneca. G~ nel 58 Seneca era stato attaccato dai suoi nemici, attraverso Suillio che lo accusava di avere accumulato in quattro anni esose ricchezze, di essersi incamerate erediti estorte a vecchi incapaci, di avere usato usura sulle province c sull'intera Italia. Seneca riuscl a far esiliare Suillio nelle isole Baleari. Una chiara risposta a tali accuse l'abbiamo nel De vita beata. Dopo la morte di Burro, avvenuta nel 62 - c'è chi ha sospettato per veleno propinatogll da Nerone, - Scneca, avendo compreso che ogni suo tentativo sarebbe ormai fallito, che la sua stessa vita era in pericolo, offerte le sue ricchezze all'imperatore, gli chiese, ad un tempo, di abbandonare la corte. Nerone rifiutll sia le ricchezze sia le dimissioni di Seneca, che, ruttavia, si ritirò a vita·allatto privata, accantonando ogni lusso e fasto e vivendo, soprattutto in campagna, dedito solo agli srudi e a scri- vere. Dopo la morte di Burro e l'allontanamento di Seneca, sempre piu scellerato c terribile divenne il governo di Nerone'. Si ordi allora una congiura, di cui a capo fu il nobile Calpurnio Pisone. Vi aderirono cavalieri, senatori, soldati, donne, tra cui l'eroica liberta Epicari. Sembra che Seneca, sia pur conoscendo la cosa, non abbia avuto alcuna parte attiva nella congiura. I congiurati avevano intenzione di liberani di Nerone e di nominare in sua vece Pisone. Ci fu anche chi pensò a Scneca come 244    I rami della grande famiglia filosofica si appassiscono per mancanza di polloni. Le due Accademie, l'antica e la nuova, non hanno piu pontefice che le continui. In chi ritrovare la·tradizione e la dottrina pirroniane? L'illustre, possibile imperatore. Scoperta la congiura, molti dei suoi aderenti furono condannati a morte: tra essi Calpurnio Pisone e Plauzio Laterano. Anche Sencca accusato di segreti accordi con Pisone - fu condannato a morte. La sua morte fu esempio di grandezza morale, l'ultimo appello di Sencca. Era l'anno 65 d. C. Anche se molte, non tutte le opere di Sencca sono pervenute. Alcune sono andate perse (Ad Gallionem fratrem de remediis fortuitorum, ricordato da Tertulliano, di cui, nel Medioevo, si fece una rielaborazione dallo stesso titolo; De matrimomo, di cui si serv{ San Girolamo 'per comporre l'epistola Ad /ouinianum; Villl paJris; Edortationes e De officiis di cui fece uso nel VI secolo Martino di Brancara per la sua Formula honestae vitae o De quattuor virtutibus); di altre abbiamo frammenti o parti (orazioni fatte in lode di Messalina, per Plauzio Laterano; discorsi composti per Nerone ai pretoriani, al Senato, in onore di Claudio, forse anche quello al Senato per giustificare la morte di Agrippina; poesie, epigrammi; De immtllura morte, Quomodo amicitia continenda sit, De superstitione dialogus; probabilmente i Mora/es libri philosophiae non sono un'opera a si: andata persa, ma una citazione per indicare il complesso delle opere morali; De motu terrarum, De situ lndiae, De situ et sacris Aegyptiorum, ' De forma mundi). Nel Medioevo andarono sotto il nome di Seneca florilegi e raceoolte di sentenze (De copia verborum, ricavato dal De officiis e dalle Lettere a Lucilio; Monita Senecae, Liber de moribus, Proverbia Senecae, ricavati dalle opere morali di Sencca; in reald i Proverbia, costituiti di 149 sentenze in ordine alfabetico da N a Q, derivano dal Liber de moribus, e furono redatte per proseguire le Sentenze, in ordine alfabetico· da A a N, di Publio Siro). Quintiliano divide le opere di Seneca in Orationes, Poemllla, Epistulae, Dialogi. Nei Oialogi Quintiliano faceva rientrare tutte le opere filosofiche, anche quelle non a carat- tere dialogico, tranne le Epistulae ad Lucilium. La tradizione manoscritta, invece, ha raccolto sotto il titolo di Dialogi i seguenti scritti: De prouidentia, De constantia sapientis, De ira libri tres, A d Marciam de consolatione, D e uitll bealll, De otio, De tranquillitllle animi, De brevitllle uitae, Ad Polybir<m de consolatione, Ad Helviam matrem de consollllione. Conosciuta gi~ da San Girolamo e da S. Agostino, senza dubbio apocrifa ~ la corrispondenza tra Seneca e San Paolo, composta da un cristiano; come apocrife sono le Notae Senecae. ln ordine approssimativamente cronologico le opere di Seneca pervenute sono: Consolatio ad Marciam (certo posteriore ·all'avvento al trono di Caligola, sembra. sia stata composta tra il 37 e il 40; 'è scritta per consolare Marcia, figlia dello stoico Cremuzio Cocdo, che, accusato da Sciano di lesa maesd per avere parlato nei suoi Annali con troppa libem, per sfuggire alla condanna, si suicidò; Marcia ottenne da Caligola di pubblicare gli Annali del padre, epurati delle parti pericolose; madre di due figlie e di due figli, Marcia restò profondamente depressa per la morte dei due maschi, particolarmente del secondo, Metilio; la Consolatio è composta, appunto, per dare conforto a Marcia colpita dalla sventura della morte di Metilio); De ira (com- posto certo sotto Caligola, sembra che lo serino, in tre libri, mutilo dell'inizio del primo, dedicato al fratello Anneo Novato, sia stato pubblicato subito dopo la morte di Cali- gola, verso il 41; è un'analisi minuta e precisa delle umane passioni, di cui la piu funesta è l'ira); Comolatio ad Helviam (probabilmente del 42 o 43, per consolare la madre, rimasta vedova, dal dolore per l'esilio del figlio in Corsica); Consolatio ad Polybium (mutila del principio, composta tra il 43 e il 44, in Corsica, per conso- lare il potente liberto di Claudio, Polibio, che avrebbe potuto farlo tornare dall'esilio, del dolore per la morte di un fratello); Epigrammi (alcuni scritti durante l'esilio in Corsica); De bretJitate vitae (sembra del 49, al ritorno dall'esilio; dedicato a Paolino, prefetto dell'annona, forse il padre di Pomponia Paolina che sar~ la seconda moglie di Seneca;· il tema fondamentale dello serino è la "tesi che a torto gli uonini si  245   ma impopolare, scuola di Pitagora non ha ti'Ovato rappresentante alcuno. Quella .dei Sesti, che la rinnovava con un vigore tutto romano, seguita alla sua nascita con entusiasmo, è già morta. Di contro, quale cura, quali sforzi perché il nome di un sia pur minimo pantomimo non vada per- duto! (Nat. quaest., VII, 32). Chi ci ha preceduto non dev'essere nostro padrone, ma nostra guida. La verità è aperta a tutti e non è possesso di nessuno: molto n'è rimasto ancora per i futuri (Epist., 33, 11). Che male c'è a utilizzare· i filosofi lagnano della brevità della vita, perch~ sono essi che la rendono tale sciupandola con una prodigalità insensata in occupazioni vuote e inutili, ivi comprese per alcuni le ricerche erudite, e nel compiacere alle loro passioni e ai loro vizi"); De elementi~~ (indi- rizzato a Nerone da poco imperatore, sembra sia stato scritto tra il 55 e il 56; secondo il Pr~c, poco coovincentemente, sarebbe stato composto nel 54-55: l'opera è stata divisa in 2 libri; nella prima parte si discute il valore della clemenza, particolar- mente opportuna per un sovrano; nella seconda parte - pervenuta mutila - si defi- nisce la clemenza, distinguendola dalla misericordia, compassione, e dalla venia, per- dono); De constantia sapientis (dedicato ad Anneo Sereno, prefetto tligilum; non si sa esattamente quando sia stato scritto, certo tra il 55 e il 58; vi si dimostra che il saggio non può ricevere n~ in;,.;a n~ eontumeli{l); De beata t1ita (sembra del 58, perché nella risposta ali"accusa che i filosofi non conformano la propria vita alle teorie sostenute, si è veduta una risposta alle accuse rivolte da Suillio contro Seneca; è giunto mutilo dell'ultima parte; vi si disegna il ritratto del saggio ideale ed il conflitto mocale, proprio del saggio reale); De otio (scritto nel 62 circa, è giunto mutilo della prima e dell'ultima parte; vi si difende la tesi dell'opportunità di riti- rarsi dalla vita politica attiva, qualora i casi lo .rendano necessario); De wanquillitate animi (dedicato a Sereno, fu composto nel 62 o nel 63; è una precisa disamina dell'uomo conBitto morale, e del conflitto tra vita attiva e vita contemplativa, tra otium e negotium); De twotlidentia (certo ·dell'ultimo periodo, fu forse scritto nel 62 o nel 63; è dedicato a Lucilio, scrittore, probabilmente autore del poemetto Aetna; Seneca, abbandonàta la questione che il mondo non sottostà al caso ma è retto dalla Provvidenza, qui tenta dimostrare che il corso del tutto è retto da una legge eterna, per rispondere meglio alla domanda di Lucilio perché se il mondo è retto dalla Prov- videnza, tanti guai càpitano agli uomini buoni; il centro dello scritto s'impernia sulla tesi che non vi sarebbe vita morale senza conBitto e senza ostacoli); De bene/ieiis (dedicato ad Ebuzio Liberale, in 7 libri, è dell'ultimo periodo della vita di Seneca, probabilmente del 62 i libri I-IV, del 63-64 i libri V-VI e il VII, che è chiaramente un completamento; vi si discute a fondo, attrave~so l'esame di chi davvero sia bene- ficante e chi beneficiato, il rapporto servo-padrone); Natfll'ales ()uaestiones (ne sono rimasti 7 libri degli 8 che doveva contenere; sono dedicate a Lucilio e furQno com- poste tra il 62 e il 64, il libro VI certo dopo il 63 perché vi si ricorda il terremO(o di Pompei avvenuto in quell'anno; accanto a una descrizione dei fenomeni naturali non poche volte Seneca cerca d'inquadrare l'opera mediante riflessioni morali); Epi- stulae morales ad Lueilium (sono 124 lettere, divise ora in 20 libri, scritte all'amico Lucilio tra il 60-62 e il 65; rappresentano forse la piu alta opera di filosofia morale del pensiero romano). Notissime sono le tragedie· di Seneca: Hercules, Troades (o Hecuba), Phoenissae ( o Thebais), Medea, Phaedra (o Hippolytus), Oedipus, Agamennon, Thyestes, Her- cules Oetaeus. Citiamo infine il Ludus de morte Claudii, da Dione chiamato Apol(oloeynthosis, l'inzueeamento di Claudio, ossia la consacrazione della zucca (alla deificazione, apo- theosis, di Claudio, decretata dal Senato, Seneca, in questa sua satira· menippea, com-. posta in prosa e· in versi, rispondeva che, in effetti, era quella la deificazione di una zucca: lo scritto è del 54 circa). 246    delle altre scuole nella misura in cui sono nostri? (De ira, l, 65). - Non mi lego ~ nessuno dei maestri stoici: ho anch'io diritto di giudicare (De vita beata, III, 2). - Non mi sono dato la legge di non far nulla contro il detto di Zenone o di Crisippo..., ed eco possiamo farci dei comandi di Epicuro in mezzo al campo di Zenone (De otio, III, l; I, 4).- Possiamo discutere con Socrate, dubitare con Carneade; riposarci con Epicuro, vin- cere l'umana natura con gli Stoici, oltrepassarla con i Cinici (De brev. vit., XIV, 2). - Non mi sono alienato nessuno: di nessuno io porto il nome (Epist., 45, 4). - Non parlo con te la lingua stoica...; permettimi di usare parole comuni (Ep., 13, 4; 59, 1). - Le anime piu celebri costituiscono una vera e propria famiglia; scegli quella in cui vuoi entrare (De brev. vit., XV, 3). In realtà l'opzione di Seneca per certi aspetti dello Stoicismo, il suo gusto per commosse rievocazioni di esempi di uomini, vissuti e morti da uomini, per la delineazione di certe figure di pensatori, le cui con- cezioni siano state coerentemente vissute (Epicuro, Demetrio cinico), assumono un senso ed un significato di validità, qualora se ne veda la genesi in certe situazioni precise entro i termini della tormentata vita di Seneca, che ha vissuto e operato in un periodo e in un ambiente estremamente tormentato e drammatico. Sembra cosi di potersi rendere contò del significato dato da Seneca alla "filosofia," intesa non come "concezione" o scienza per sé, ma come cultura, come riflessione cri- cica, formatrice, attraverso la stessa attività del pensiero, della persona umana - diremmo non come "filosofia teoretica" né come "filosofia della morale," ma essa stessa filosofia come moralità - educatrice e, perciò, liberatrice, consolatoria. "La filosofia non sta nelle parole, sta negli atti: forma e plasma l'anima, dispone la vita, regola le azio9i; ... senza di lei nessuno pu~ vivere intrepidamente, nessuno senz'affanni" (Ep. a Luc., 16, 3). "Pur concedendo a Posidonio d'aver portato un gran contributo alla filosofia, non posso ammettergli che la filosofia abbia trovato le arti di uso co- mune, né saprei darle la gloria dei mestieri fabbrili ... La sapienza sta piu in alto, non delle mani maestra, ma delle anime" (Ep. a Luc., 90, 7, 25-26). Il pensiero di Seneca e, in conclusione, il suo àppello a una vita ra- gionevole (non eroica - gli eroi si ammirano e si presentano come esempi, - non puramente passionale, cioè non riflessa) non è scaturito né da un'esercitazione scolastica anche in filosofia ci perdiamo in cose inutili, impariamo per la scuola anzi che per la vita (Ep. a Luc., 106, 12) - né dal gusto per una costruzione non contraddittoria, o perfettamente corrispondente ad analisi logiche e linguistiche, ma da  una continua riflessione su esperienze di vita : dalla presenza, nella vita, del dolore, della paura, da una o da altra precisa situazione umana, in un certo ambiente, in una certa ora, dalla riflessione sulla propria vi- gliaccheria, dall'esperienza - vivissima in Seneca - che l'uomo è non un tutt'uno, ma un insieme di linee spezzate, contraddittorie. Di qui l'impossibilità di presentare la concezione di Seneca sul tutto e sulla realtà come rispondente o meno a una precostituita • filosofia>" estraendo dalle opere di lui - ognuna delle quali risponde a situazioni precise e individuabili nel tempo, onde andrebbero lette cronologicamente - una specie di sentenziario morale, unico e valido sempre. Tutta questa folla che litiga nel foro - scriveva Seneca in una delle sue prime opere, la Consolazione a Marcia, - che si (diverte] nei teatri e prega nei templi, cammina verso la morte a passi piu o meno· rapidi: un solo cenere eguaglierà le cose che ami e che veneri e quelle che disprezzi. Questo significa il famoso detto che figura tra gli oracoli pitici: "Conosci te stesso." Che cosa è l'uomo? Un fragjle vaso che si può rompere a qual- siasi scossa, a qualsiasi colpo: non è necessaria una grave tempesta per distruggerti: dovunque andrai a sbattere ti infrangerai. Che cosa è l'uomo? Un corpo debole, fragile, nudo, senza difese naturali, bisognoso del soc- corso altrui, esposto a tutte le ingiurie della sorte... Da quando vediamo la prima volta la luce, entriamo nel cammino della morte e ci andiamo avvicinando alla mèta fatale... Niente è piu fallace della vita umana, niente è piu insidioso: nessuno sarebbe disposto ad accettarla, se non gli venisse data quando non è ancora in grado di capire... (Cons. a Marcia, 11, 2-3; 21, 6; 22, 3). E che? Pretendo di essere un saggio - esclama Seneca in un'altra delle sue prime opere, la Consolazione alla madre Elvia;- nient'af- fatto. Se avessi il diritto di professarmi tale direi che non sono infelice... (5, 2). Io non sono un saggio - dirà ancora Seneca ne La vita felice, venti anni dopo circa - e non lo sarò. Esigi dunque da me non che stia alla pari con i migliori, ma che sia il migliore dei malvagi: a me basta togliere qual- cosa ogni giorno dai miei vizi e rimprover~rmi i miei errori. Non sono giunto alla perfetta sanità morale e neppure vi giungerò...: io vivo spro- fondato in difetti di ogni genere (De vita beata, 17, 3-4). La riflessione di Seneca si muove, sempre, da si.tuazioni singolari e precise, da fatti di esperienza o da determinate impressioni e condizioni psicologiche: dal tentativo di consolare una madre per la perdita del suo bambino (Ctmsolatio ati Marciam, composta tra il 37 e il 41 circa) a quello di consolare sua madre Elvia per il dolore ch'essa prova per l'esilio cui, per avvenimenti politici, è stato costretto, lui, Seneca (Ctm- solatio ad Helviam, del 42 o 43); dal compromesso di aecattivarsi Po- libio - liberto di Claudio - che può farlo rientrare dall'esilio in Cor- 248    sica, consolandolo per la morte di un suo fratello (Ccmsolatio ad Po- lybium, del 43 o 44); alla riflessione sull'assurdità dell'ira (De ira, com- posta, contro Caligola, certo dopo la morte di lui, 41, in cui Seneca, denunciando la disumanità dell'ira, vede in essa gran parte dei mali della storia, il velen~ che spezza i rapporti umani e scioglie la società: "finché viviamo tra gli uomini rispettiamo l'umanità!": III, 43, 5); alla riflessione sulla brevità della vita {De brevitate vitae, del 49 circa, dopo il ritorno a Roma dall'esilio) e su quella che può essere una vita compiuta (De vita beata, posteriore all'esilio, quando ancora Seneca esercitava la sua funzione di consigliere di Nerone, del 58 circa); al tentativo di delineare per Nerone lo schema di una ideale condotta di vita politica in nome della società umana (De clementia, del 55, poco dopo l'avvento di Nerone); alla riflessione sul proprio fallimento poli- tico che lo ha costretto a ritirarsi dalla vita politica attiva {De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi, De beneficiis, De provvi- dentia, opere scritte tutte tra il 59 e il 61); all'ultima meditazione sulla natura e sul divino (Natura/es quaesticmes, in VII o VIII libri, composti tra il 62 e il 64); in un continuo approfondimento e colloquio di sé con sé che diviene educazione, costruzione di sé, liberazione e perciò stesso discorso con altre anime, educazione e liberazione degli altri: insieme; ogni volta ricominciando da capo, discendendo ogni volta agli inferi della propria coscienza, in un ·sempre aperto conflitto morale (di qui la stessa forma dialogica di alcune opere di Seneca - Ccmsolatio ad Marciam, Ccmsolatio ad Polybium, Consolatio ad Helviam, De provi- dentia, De constantia sapientis, De vita beata, De otio, De tranquillitate animae, De brevitate vitae, De ira, - che non è solo artificio retorico, e che assume il suo significato piu alto, di ragionamento insieme e di avviamento, nelle bellissime Lettere a Lucilio, composte tra il 63 e il 65, l'anno della morte di Seneca). Seneca, certo, non fu un predicatore. L'opera sua è l'opera di un ~orno tormentato e tormentante, vissuto in un'epoca tormentata, in mezzo a gente (la corte di Caligola e di Claudio prima, di Nerone poi) estre- mamente complicata, di là dal bene e dal male, almeno secondo i vecchi parametri. Sotto questo aspetto Seneca rappresenta davvero la coscienza di una certa situazione storica, la crisi di un certo complesso di valori, dando voce, appunto, e senso a tutta un'epoca, anche se, di volta in volta, egli ha preso le mosse da particolari situazioni, da singolari com- promessi e dubbi. Parlando in termini di retorica, diremmo che le "tesi" di Seneca sono la conclusione delle "ipotesi" ch'egli, di volta in volta, ha posto in discussione. Non va intanto scordato che Lucio Anneo Seneca era  249   figlio di un celebre uomo di lettere, oratore, storico dell'oratoria, Anneo Seneca di Cordova. Oratore era anche un suo fratello, Marco Anneo Novato,(adottato dal senatore Giunio Gallione, ne assunse il nome), che fu console e proconsole dell'Acaia (a lui Seneca dedicò il De ira, il De vita beata, il De remediis fortuitorum, perso, citato da Tertulliano, Apol., 50). La madre di Seneca, Elvia, fu donna di cultura, particolar- mente interessata alla filosofia. Ella avviò il figlio a tali studi. Seneca, da bambino, giunto a Roma dalla Spagna - dov'era nato nel 34 a. C., a Cordova - insieme a una zia materna, moglie di Vitrasio Pollione - prefetto per sedici anni dell'Egitto, dove per un certo periodo fu anche Seneca, - se da un lato s'interessò vivamente per gl'insegnamenti prima di Sozione di Alessandrja e di Sestio il giovane e poi di Attalo, di Papirio Fabiano e di Demetrio cinico, dall'altro lato, spintovi soprat- tutto dal padre - che temeva per·la salute cagionevole del figlio, il quale preso dagl'insegnamenti del pitagorico Sozione conduceva un'ec- cessiva morigerata "vita pitagorica," e per i pericoli che in quel tempo correvano i pitagorici, sospetti di pratiche occulte, - si dedicò alla car- riera oratoria ed a quella politica. Nominato questore, nel 31 o 32, anche per aiuto della zia ("dalle -sue braccia fui condotto a Roma, per le sue affettuose e materne cure ritornai alla salutè dopo una lunga malattia, per la mia elezione a questore ella usò la sua influenza, e lei, che non trovava neanche l'ardire di· parlare e salutare ad alta voce, per amor mio vinse la sua timidezza; né la sua vita ritirata, né il suo riserbo campagnolo in mezzo a tanta sfrontatezza femminil!!, né l'indole sua pacifica e solitaria, l'arrestarono: e per me essa divenne ambitiosa": Cons. ad Helv., 19, 2), Seneca entrò in Senato, ove fu ammirato per le sue capacità oratorie. "Narra Dione Cassio che nell'anno 39 d. C. Seneca, 'uomo che i romani tutti del suo tempo ed altri molti superava per sapienza,' corse pericolo di morte non per alcuna sua colpa, ma perché in Senato, al cospetto di Cesare (Gaio, detto Caligola), aveva pronunziato una bella orazione. Ma il principe, pur avendone decisa la morte, lo risparmiò cedendo ai consigli di una favorita la quale assicurava che Seneca, preso da consunzione, sarebbe morto fra poco (cfr. Dione Cassio, LIX, 19, 7). L'aneddoto di Dione è oscuro: ma esso nasconde una qualche dignitosa azione del giovane senatore, che invano chiederemmo quale sia stata alla meschina e acri- moniosa testimonianza di quello storico. [La principale testimonianza sulla vita di Seneca è quella di Tacito: Tacito parla di Seneca con piu avveduto criterio, senza predilezione, con un certo studioso riguardo delle fonti piu ostili e con la sospettosità propria della sua indole. La narrazione di Dione è inquinata dalla palese avversione che egli nutre per Seneca e dalla meditata ed infida malignità delle fonti cui attinge. Perdute sono le Storie civili di Plinio, nemicissimo a Seneca, ed è per- duta l'opera di Fabio Rustico, che Tacito ricorda come lo storico a Seneca piu favorevole, Annali, XIII, 20; poche notizie si ricavano da Svetonio]. Sarebbe infantile credere che una condanna a morte fosse solo dovuta al malumore invidioso di Gaio per una bella orazione di Seneca; un imperatore di Roma, fosse anche Caligola, non può condan- nare a morte un senatore per un successo oratorio, quando questo non sia pure un successo politico; e Seneca dovette allora parlare molto, anzi troppo liberamente in quel consesso a cui invano piu tardi cercò di restituire la perduta e mai piu ripresa dignità. Seneca si vendicò inesorabilmente di Caligola che in tutte le opere ci presenta come il tipo del piu miserabile e bestiale tiranno (cfr. De ira, I, 20; III, 18-20; Ad Helv., 10, 4; Ad Polyb., 17, 3; De tranq. an., XIV; De brev. tlitae, XVIII; De const. sap., XVIII; De benef., IV, 31; Nat. quaest., IV, pref., 17)" (C. Marchesi, Seneca, Messina, pp. 10-12, 3). Seneca, allora, abbandonò l'azione diretta, mediante l'avvocatura, e abbandonò la pubblica carriera politica, sia per il pericolo corso, sia perché si rese conto che molto piu efficace sarebbe stata in quella certa si- tuazione politica la sua azione, mediante altro tipo di convinzione. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che .senso si possa dire, che, in realtà, Seneca non abbandonò né la vita politica né l'oratoria. Ogni sua opera, anzi, fu un'intelligentissima e abilissima orazione, in un'ana- lisi minuta e concreta delle passioni umane, nel tentativo di indirizzare, entro i termini di una precisa concezione dell'uomo e della natura umana, coloro cui si rivolgeva, fosse pure se stesso, ad essere uomini sul serio tra uomini, sapendo, d'altra parte, sia per esperienza personale sia conoscendo a fondo uomini e cose del suo tempo, quanto complicato, difficile, non umano ---conflitto di passioni, spezzato, non tutto un blocco - sia l'uomo. Vicinissimo a Cicerone, soprattutto nell'intenzione di operare mediante la parola su di un certo gruppo di uomini in fun- zione di un certo ideale politico e di un certo ideale di uomo, nel ri- tenere la filosofia cultura con cui formare l'uomo, liberarlo dalle sue paure, dal timor della morte, renderlo uomo (si veda, ad esempio, il topos della filosofia salvatrice, della filosofia senza di cui nessuno può vivere da uomo, senza affanni, senza il terrore della morte: Cicerone, Tusculanae disp., V, 2, 5-6; Seneca, Ep. a Luc., 16, 3; da cui anche il topos della consolatio), in uno sforzo e in una fatica con cui l'uomo costituisce sé razionalmente, volta a volta, in una conquista personale (donde l'avvicinamento di Seneca ad Epicuro); Seneca è da Cicerone lontanissimo nel modo di intendere la funzione retorica dena filosofia,  ché altra è venuta ad essere la situazione .politica, l'ambiente, gli uo- mini su cui operare, altro l'impegno. Sottilissimo studioso delle passioni umane, Seneca che, su sua con- fessione, aveva sentito profondamente la lezione di Sestio il Giovane, di Sozione, di Fabiano Papirio, di Demetrio, che vide attraverso Cali- gola e Claudio far lentamente naufragio quella respublica, delineata da Cicerone, apparentemente realizzata da Augusto, per ciò che gli fu possibile, tentò di formare sé e gli altri come uomini: uomini che po- tessero, in un reciproco rispetto costituire una verace res-publica, in una misura ed armonia, poste come dover essere. Di qui i due motivi su cui s'intreccia tutta la meditazione di Seneca: da un lato una descri- zione dell'uomo - triste, infelice, combattuto, impaurito degli altri, e perciò desideroso di prevalere sugli altri, ma che anche fugge da se stesso; - dall'altro lato l'uomo quale dovrebbe essere, vincitore di ~ in quanto conflitto di passioni, "con-vinzione" di passioni, in una mi- sura che dovrebbe essere la stessa razionalità, in ciò eguale agli altri uomini, ciascuno a suo modo, in un'armonia e ordine che ci trascende dal di dentro, che si pone come dovere da realizzare, e che trova il suo fondamento in una ideale razionalità del tutto. Già in tal senso si ve- dano le prime due opere di Seneca, la Consolatio ad Marciam, del 39, e il De ira del 41 circa, dedicata al fratello Novato. Scrive Seneca nella Consolatio ad Marciam (XXXI, 6): "A ciascuno viene dato ciò che gli era stato promesso: i fati seguono il loro corso e non aggiungono né tolgono mai nulla a quanto una volta per tutte hanno stabilito ... Da quando vediamo per la prima volta la luce, entriamo nel cam1nino della morte. I destini compiono la loro opera"; e nel De ira (III, 43, l, 5): "Perché non mettere ordine in codesta tua breve vita e renderla tranquilla per te e per gli altri? [L'uomo irato è un folle, chi non sa porre ordine in sé, chi non scopre sé in quanto ragione, cioè misura, è uomo rotto nelle passioni, è in realtà non uonto] ...Fin tanto che respiriamo, finché viviamo tra gli uomini, rispettiamo l'umanità." Di qui, anche, due altri motivi dell'atteggiamento senechiano. Una qual certa contraddizione tra l'ordine del tutto stoicamente scandentesi in una necessità fatale, che fa si che ogni aspetto della realtà sia là dove è bene che sia, in un'adeguazione della ragion d'essere di cia- scuna cosa alla ragione d'essere, all'egemonico del tutto, e la possibi- lità da parte umana di adeguarsi volontariamente a quell'ordine. Posto che tutto è fatale, che tutto è come deve essere, anche le passioni, anche l'uomo disarticolato e spezzato nella sua molteplicità, non possono es- sere, nell'ordine, se non come sono. Non si vede bene perciò come l'uomo possa - se già nell'ordine non è scritto - da folle, da sragio- 252    nevole, da groviglio di passioni, passare all'ordine, rendersi conto, rea- lizzarsi secondo ragione, come cioè possa passare dal male al bene; e anche come, la società rotta, ove predominano queste o quelle passioni, dove predominano questi o quegli uomini, possa trasformarsi in società, come riconoscimento dell'eguale per tutti ordine sociale, fatto a mo- dello del presunto ordine sociale del tutto. 2) Un conflitto sempre presente in Seneca, tra quel mondo assoluto e come posto dietro le spalle, tra un dovere assoluto, per cui è esclusa ogni possibilità d'azione onde il "saggio" stoico resta avulso da ogni società umana, fuori di qualsiasi sfera d'azione, - è esclusa ogni possibilità di convinzione, di educazione, è escluso lo stesso conflitto morale; e quello stesso ordine e misura, quella uguaglianza, cui si giunge, non in quanto data, e in quanto ad essa ci si adegui per via puramente conoscitiva, ma in quanto essa si scopre, si pone attraverso lo stesso conflitto morale, nell'atto in cui ciascuno oltrepassa _la lotta delle passioni, componendo le pas: si~ni stesse, in un ordine che non c'era prima, ma che, appunto, si troya "nuovo," attraverso la stessa riflessione. La filosofia perciò non è filosofia della morale, ma filosofia morale, che prospetta, non piu dietro le spalle, ma dinanzi agli occhi, termine di realizzazione, l'ordine e la razionalità della stessa natura. Tale razionalità, dunque, non è piu un dato, ma una "invenzione," che permette sia la comprensiòne delle oscillazioni e dei conflitti, sia, attraverso il dialogo e la riflessione comune, la composizione della plu- ralità delle ragioni, l'avviamento, la possibilità della convinzione, in una sempre rinnovantesi apertura. Entro un certo tipo di cultura - l a koiné culturale stoico-platonica, di cui abbiamo parlato, ancora vi- vissima in Roma al tempo della giovinezza di Seneca, tra Augusto e Tiberio, - entro i termini di una precisa situazione sociale,· quale si era determinata tra la fine dell'impero di Tiberio e il periodo in cui ebbero in mano le sorti di Roma Caligola, Claudio e quella terribile donna che fu Agrippina, in tale conflitto stanno il mordente e il signi- ficato della morale senechiana. Non solo, ma anche sembrano emergere di qui molte delle oscilla- zioni di Seneca, sia entro i limiti della sua concezione, sia, per altro verso, relativamente all'ambiente e agli uomini per i quali Seneca ha scritto, fino, pare, a giungere, talvolta, ai piu gravi compromessi in funzione, certo, del tentativo di modificare se stesso e gli altri. E quando si dice altri, bisogna pensare non ad astratti altri, ma a questo o quel- l'amico, in questa o quella situazione: al fratello Novato, cui sono dedicati i l D e ira, i l D e vita beata; a Sereno, cui sono dedicati i l De constantia sapientis, il De otio, il De tranquillitate animi; a Paolino,  cui è dedicato il De brevitate vitae; a Ebuzio Liberale, cui è dedicato il De beneficiis; a Lucilio, cui sono dedicati gli Epistolarum moralium libri e le Natura/es quaestiones; e, per altro verso, soprattutto quando Seneca fu maestro e consigliere di Nerone, a Nerone per il quale Seneca scrisse il De clementia, l'anno dopo l'avvento di Nerone al potere, dal quale dipendevano quegli altri. Non a caso nel Proemio del De Clementia (1,2), Seneca fa dire a Nerone: "Sono io che decido della vita e della morte delle genti; il destino e la condi- zione di tutti sono nelle mie mani; quel che la. Fortuna spartisce a ciascun mortale, lo fa conoscere per, bocca mia; al mio responso è subordinata la letizia delle città e dei popoli; nessuna regione è prospera se non per mia volontà, se non per mio favore ... Caduta e nascita delle città si decidono nel mio tribunale." Sapendo usare certe tecniche, co- noscendo la psicologia di Nerone, si tentava di realizzare in altro modo quello Stato e quella società entro la quale e per la quale Seneca operava. Certo, ogni situazione implica dei compromessi e delle tecniche d'azione diverse, pur di realizzare, anche approssimativamente, certi fini. Di qui, nel tentativo di educare all'ideale "saggio" stoico, il trasfor- marsi del rigidismo della morale stoica, posta, appunto, non piu come dato, ma come "inventio," dovuta alla stessa capacità (propria del- l'uomo) di costituirsi come ordine razionale, per cui ciascuno può, co· gliendo i propri limiti, le proprie condizioni, senza dubbio dati, entro questi, realizzare se stesso, conoscendo la propria natura, volta a volta scegliere le proprie mosse, anche se esseJ nelle loro possibilità, sono date. Se chi latra contro la filosofia, dirà come il solito: "Perché parli da forte piu di quanto da forte tu non viva? Perché fai la voce sommessa davanti al piu potente e stimi il denaro uno strumento necessario o ti turbi per un danno ricevuto e piangi alla notizia che ti è morta la moglie o l'amico, e ti preoccupi del tuo buon nome e ti offendi delle chiacchiere malevole? Perché i tuoi fondi sono coltivati piu di quanto non richiedano le necessità naturali? Perché non ceni conforme alle regole che predichi? Perché le tue suppellettili sono cosi eleganti? Perché in casa tua si beve del vino che ha piu anni di te?... Perché hai fatto piantare alberi che da- ranno solo ombra? Perché tua moglie porta alle orecchie il reddito di un ricco casato? Perché i tuoi giovani servi sono vestiti di abiti preziosi? Per- ché in casa tua è un'arte quella di servire a tavola e l'argenteria non è disposta come viene a caso, ma il servizio è cos{ accurato, e ha persino uno scalco specializzato?..." Se vuoi rincarerò la dose dei rimproveri e mi muoverò piu rimbrotti di quel che immagini: ma per ora ti rispondo: "lo non sono un .saggio e non lo sarò. Esigi dunque da me non che stia alla pari con i migliori, ma che sia migliore dei malvagi: a me basta togliere qualcosa ogni giorno dai miei vizi e rimproverarmi i miei errori..." "Però," 254    tu dirai, "in un modo parli e in un altro vivi." Questo rimprovero, o mali- gni, o nemici dei piu virtuosi, fu già mosso a Platone, a Epicuro, a Zenone: tutti quelli predicavano di vivere non come essi stessi vivevano, ma come avrebbero dovuto vivere. Parlo della virtU, non di me, e quando mi scaglio contro i vizi, comincio dai miei: quando potrò, vivrò come dovrei. Continuerò a lodare non la vita che conduco, ma quella che so che bisognerebbe condurre; continuerò ad adorare la virtU e a seguirla, se pure arrancando a una bella distanza... (De vita beata, XVII-XVIII). Di qui anche un'altra apparente oscillazione di Seneca: da un lato l'esigenza propria del "saggio" stoico di ritirarsi dalla.,vita mondana, dall'altro lato l'esigenza, anche a costo di venir meno alla rigidezza del- l'unica virtu stoica, di operare nel mondo, di modificare, attraverso la parola, l'esempio, anche il compromesso, la societa di fatto. Nella sua altezza, nella sua comprensione che tutto è come deve essere, che tutto è bene e che perciò non vi è nulla da fare, il "saggio" da tutto mona- sticamente si ritira, non piu uomo tra uomini. Solo che cosi: egli viene, alla fine, a disprezzare tutti, nell'orgogliosa affermazione che, tranne il saggio, il resto dell'umanità è folle, sragionevole. In un'evasione da questo mondo, per il "saggio" tutto' è indifferente. Ma era qui implicita una grave contraddizione, di cui Seneca chiaramente si rende conto. Il pericolo della "vita stoica" è ch'essa: si risolve in una "pigra ratio," e che nel riconoscimento che tutto è indifferente, che il solo saggio è razionale, di là dalle passioni, in realta, alla fine, non si com- prende piu che tutto, proprio perché è come deve essere, perché è na- tura, è bene (o meglio, in sé né bene né male), e, perciò, che nulla è disprezzabile, nulla indifferente. Se Tizio o Caio, io stesso, siamo piu presi dall'una cosa che dall'altra, patiamo (amiamo o odiamo) una per- sona piu di un'altra, spezzati in tante ragioni o passioni, ché le pas- ~ioni sono, per cosi dire, ragioni in libertà - saremo avari o eccessiva- mente generosi,.irosi, violenti, vili, ecc. - in modi esclusivi ed univoci; :erto, su di un piano polemico, possiamo dire a Tizio o a Caio, a me >tesso, che quelli che si ritengono beni, quell'esclusiva ricchezza, quel- l'esclusivo amore o odio, sono indifferenti. Eppure quei beni che in sé non sono né beni né mali, neppure sono indifferenti se considerati sul piano del conflitto morale. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Seneca possa dire che il bene e il male stanno in noi e tocchi a ciascuno di comporre se stesso in unità. Non solo, ma un altro peri- colo, proprio dello stoicismo è che il richiamo a vivere secondo la ra- gione universale, venga, in conclusione, ad annullare l'affermazione, sempre stoica, che; ciascuno viva secondo la sua ragione, cioè secondo ciò che, sia pur nell'ordine totale, a ciascuno compete. L'annullamento della propria ragione nella ragione universale porta a non vivere piu secondo una ragione, a non comprendere piu alcuna ragione, e, perciò, al di- sprezzo per cose e uomini, in un atteggiamentò piu cinico che stoico. In realtà, per Seneca, comprendere cose e uomini, comprendere che ciaseun uomo nasce in una certa condizione e situazione che non dipen- dono da noi, comprendere che l'uomo è non unità, ma molteplicità, implica non una mèra contemplazione di un ordine astratto, ma la volontà di un ordine che si scopre attraverso la stessa riflessione, at- traverso il faticoso tentativo di porre in sé misura, di volta in volta, cogliendo la propria misura entro i nostri limiti e le nostre condizioni, per cui quell'ordine si rifà nuovo ogni volta come termine di realizza- zione, per ciascuno, entro le proprie condizioni e limiti, diverso. Di qui l'esigenza senechiana di agire, di inserirsi, almeno finché ciò è possibile, è utile, non controproducente, in una certa situazione umana, scegliendo di volta in volta i propri mezzi di azione, per avvicinare sé e gli altri, ciascuno per ciò che gli compete, a quell'armonia sociale, specchio della ragion d'essere del tutto, entro cui, una volta rovesciati i terriùni, ognuno non perde se stesso, in un ideale reciproco rispetto, in cui consiste la virtU, cioè l'eccellente realizzazione di ciascuno in quanto uomo, e perciò la piu genuina tranquillitas, onde, appunto, la virtu, insiste Seneca, è premio a se stessa (recte facti fecisse merces est: Ep. a L., 81, 19; cfr. anche De clementia, I, 1). L'appello di Seneca ad essere se stesso, a non essere presi dalle sin- gole passionì univocamente, a costituire sé e a scoprire sé razionalità, implica l'allontanamento dalla folla, dalla massa degli uomini, ché vi- vere la vita degli altri, della folla, significa perdere se medesimi, vivere ancora una volta secondo passione, in un annullamento nell'anonimo, entro i termini di un'abitudine, significa non vivere socialmente (e folla può anche voler dire un ristretto gruppo di gente). Il che non significa affatto ritirarsi nel deserto: significa anzi, per quel che è possibile, per quel che le circostanze e il destino concedono, tentare di sciogliere gli altri in persone, essere utili agli altri, quando gli altri ne abbiano bi- sogno, senza di cui, in realtà,· non c'è verace società, poiché fin quando v'è folla, v'è solitudine assoluta. Non solo, ma l'appello ad essere se stessi significa anche tentare di realizzare un'autèntica vita associata, nel reciproco rispetto, ché ogni uomo, pur diverso dall'altro, quanto piu è se stesso, è uguale all'altro in quanto uomo (per cui, sotto questo aspetto, non vi sono né servi né padroni); significa, finché è possibile, agire e modificare, attraverso il consiglio e la parola, su ·chi abbia in mano il potere per avviare lo Stato terreno ad uniformarsi alla Città celeste (De otio, IV). Altrimenti, quando tale azione può diventare inutile e controproducente, lo stesso ritirarsi da:lla vita politica in atto insieme agli amici può essere l'indicazione del modello di un'auten- tica vita politica. Ritirati in te stesso quanto puoi l - esclama Seneca, scrivendo a Lucilio, negli anni del suo costretto abbandono della vita politica diretta. - Tratta coloro che ti potranno fare migliore, accogli coloro che tu puoi fare migliori; sono vantaggi reciproci codesti, e gli uomini mentre insegnano, imparano. Il desiderio vanitoso di fare brillare il tuo ingegno non ti porti in mezzo al pubblico per leggere e dissertare. Ti consiglierei di farlo se tu avessi merce degna di codesta gente; non vi è nessuno che ti possa intendere: uno, forse, o due. Ma, dirai, per chi allora ho imparate tante cose? Non temere, non hai perduto l'opera tua se le hai imparate per te stesso '(Ep. a Luc., 7, 8-9). Chi non ha sollecitudine per alcuna cosa, sa vivere per se tesso. Ma chi ha fuggito gli uomini e gli affari, che le delusioni hanno allontanato dal mondo, chi non ha saputo resistere alla vista degli altri pio felici, chi come animale timido e inerte si è nascosto per paura, costui non vive per sé, ma, turpitudine suprema, per il ventre, il sonno, la libidine: non vivere per nessuno è non vivere neppure per sé (Ep. a Luc., 55, 4-5). E quando Seneca sperava, forse, ancora di potere attwamente agire, cos{ scriveva nel De tranquillitate animi: Ecco quale deve essere la condotta del saggio: quando la fortuna pre- vale e gli toglie la possibilità di agire, non volga subito le spalle e non fugga senza le armi cercando un nascondiglio, quasi ci fosse un luogo in cui la fortuna n~tn·possa raggiungerlo, ma si dia ai pubblici affari con maggior misura e scelga un'occupazione nella quale possa ancora essere utile alla città. Non può fare il soldato: aspiri alle cariche civili. Deve vivere da privato: faccia l'oratore. Gli è stato imposto il silenzio: giovi ai cittadini con la muta assistenza. È pericoloso persino entrare nel foro: in casa, agli spettacoli, nei banchetti, si comporti da buon compagno, da fedele amico, da convitato temperante. Gli sono inibiti i doveri del cittadino: adempia quelli dell'uomo. Per questo, noi [stoici], con animo grande, non ci siamo rinchiusi dentro le mura di una sola città, ma uscimmo al con- tatto dell'orbe intero, e dichiarammo nostra patria il mondo, per potere dare alla virto uri can:tpo pio vasto d'azione. Ti è stato precluso il tribu- nale e ti si interdicono i rostri e i comizi? Volgiti a guardare quale distesa di ampi spazi si allarghi dietro di te, e quanta folla di popoli: per grande che sia la porzione che ti precluderanno, te ne rimarrà sempre una pio grande... Combatti con la voce, con l'incitamento, con l'esempio, con l'anima. Anche con le mani tagliate trova modo di soccorrere i suoi chi 1 ~siste e aiuta con il grido. Tu fai qualcosa di simile: se la sorte ti ha allont-.'lato dalle prime posizioni della vita pubblica, tieni duro lo stesso e aiuta cvn  la tua voce, e se qualcuno ti comprime la gola, resisti ancora e aiuta col silenzio. Non è mai inutile l'opera di un buon cittadino. Lo si ode, lo si vede. Con lo sguardo, con il cenno, con la costanza silenziosa, con l'ince- dere stesso egli serve... Credi poco utile anche l'esempio di colui che vive bene nel proprio ritiro? La cosa di gran lunga migliore è, anzi, alternare il riposo con gli affari, ogniqualvolta la vita attiva sia preclusa o da circo- stanze fortuite o dalle condizioni della città. Tutte le vie non saranno mai sbarrate al punto che non vi sia spazio per un'azione onesta. Puoi forse trovare una città piu misera di Atene quando i Trenta Tiranni la stra- ziavano?... Eppure là, tra il popolo, c'era Socrate, e consolava i padri pian- genti ed esortava coloro che disperavano della repubblica e minacciava ai ricchi, timorosi per i loro beni, il lontano castigo della loro perniciosa ava- rizia, e offriva un grande esempio a· quanti lo volevano imitare, cammi- nando libero tra i trenta despoti. Tuttavia Atene stessa uecise in carcere quell'uomo, e la libertà non seppe sopportare la libertà di colui che aveva impunemente sfidato una schiera di tiranni. ·Questo perché tu sappia che, anche quando lo Stato è oppresso, l'uomo saggio ha occasione di mostrarsi, ma anche quando è prospero e felice poiché regnano la crudeltà, l'invidia e mille altri vizi. A seconda dunque della situazione politica, nel modo che la fortuna lo consentirà, o ci espanderemo o ci raccoglieremo in noi stessi, ma comunque ci muoverc;mo, e non ci intorpidiremo, paralizzati dal timore. ·Anzi, sarà vero uomo colui che, quando i pericoli lo minacciano da ogdi parte, e le armi e le catene gli risuonano d'intorno, non lascerà spezzare dall'urto la sua virtU e non la celerà: seppellirsi non è salvarsi. Diceva bene, mi sembra, Curio Dentato, quando affermava che preferiva essere morto che vivere da morto: il peggio dei mali è togliersi dal numero dei vivi prima di morire. Ma, se ti imbatterai in un momento della vita pubblica meno facile, dovrai fare in modo di rivendicare piu tempo al ritiro e agli studi e, come durante una navigazione pericolosa, ti dirigerai subito a un porto, e, senza aspettare che gli affari ti congedino, te ne staccherai spon- taneamente. Dovremmo poi esaminare anzitutto noi stessi, quindi i compiti cui stiamo per accingerci, infine le persone per le quali e con le quali li svolgeremo. Per prima cosa è necessario valutare noi stessi, perché quasi sempre ci sembra di potere piu di quello che in realtà possiamo (De tran- quillitate animi, IV, 2 sgg., V, VI, 1-2). Non a caso, di qui, quando davvero fu preclusa a Seneca l'azione diretta negli affari ddlo Stato, l'avvicinamento ad Epicuro, l'appello di Epicuro all'amicizia, di contro alla falsa politica in atto, a quell'Epi- curo di cui Seneca dice (Ep. a Luc., 6, 6) che piu che la dottrina fu il suo contubernium a educare gli epicurei, in una comunità di amici il "cui acooi:do tra loro era simile a quello che deve regnare in una repubblica bene ordinata" (Numenio, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 5, 4); e va sottolineato che sempre piu spesso ritorna il nome di Epicuro nelle 258    opere scritte, appunto, al tempo del suo forzato ritiro (De oiio; De bre- vitate vitae, Epistole a Lucilio). Ancora da. vecchio, Sen;:ca ricordava i suoi primi maestri, confes- _sando l'enornit: impressione che i loro discorsi, la loro vita, il loro esempio, avevano fatto su di lui fanciullo e giovinetto. Quando udivo Attalo parlare .:ontro i vizi, contro gli errori, contro i mali della vita, spesso sentivo compassione dell'umano genere e stimavo sublime quel filosofo, piu alto di ogni altez~a umana. Egli si proclamava re, ma piu che re egli mi sembrava:! Egli che poteva chiamare i re a dar conto della loro condotta. Quando poi cominciava a raccomandare la po- vertà, e·a dimostrare che, tutto quello che va oltre il nostro bisogno, è un peso inutile a portarsi, spesso avrei voluto uscire povero dalla scuola. Quando cominciava a schernire i piaceri, a lodare la castità, la sobrietà, la purezza .della mente che si astiene non solo dagli illeciti, ma anche dagli inutili piaceri, veniva la voglia di mettere un limite alle esigenze della gola e del ventre. In me, caro Lucilio, qualcosa è rimasta, poiché a tutti quegli inse- gnamenti ero andato con grande entusiasmo; senonché, tornato alla vita cittadina, poco rimase di tanti bei propositi... Poiché ho cominciato a dirti con quanto maggiore entusiasmo comin- ciai da giovane lo studio della filosofia che non lo continuai da vecchio, non mi'vergognerò di confes5àrti quale amore mi abbia ispirato Pitagora. Sozione diceva per quale ragione Pitagora si astenesse dalle carni e per quale ragione poi se ne astenne ·Sestio. I motivi di tale astensione sono diversi per l'uno e per l'altro, ma per l'uno e per !;altro degni di ammira- zione. Sestio credeva che per alimentarci ne abbiamo abbastanza, anche senza ricorrere a versare sangue e che l'uccisione delle bestie volta alla sod- disfazione dei nostri gusti, diventa una scuola di crudeltà.'.. Pitagora, invece, parlava ·di una parentela esistente tra tutte le cose e dei rapporti delle anime trasmigranti da una in un'altra forma. Secondo lui, nessun'anima si an- nienta... Sozione, dopo aver esposto queste dottrine con ampiezza di argo- menti, "non credi," soggiungeva, "che le a~ime sono distribuite in diversi corpi, e che quella da noi chiamata morte altro non è che un'emigrazione? Non credi che in questi animali domestici o selvaggi o abitanti nelle acque viva un'anima, che altra volta appartenne a un uomo? Non credi che nulla va distrutto in questo mondo e che si tratta solo di un cambiamento di luogo? e che non solo i corpi celesti si volgono per determinate orbite, ma anche gli animali vanno soggetti alle loro vicende, e che le anime sono spinte per i loro cieli? Questa fede l'hanno avuta uomini grandi. Pertanto sospendi il tuo giudizio e lascia indeciso tutto il problema. Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti sarai serbato innocente, se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a prestarvi fede? Ti avrò tolto il cibo dei leoni e degli avvoltoi?". Spinto da questi discorsi, incominciai ad aste- nermi dalle carni e dopo un anno non solo non trovavo difficolt~ in. questa oratica, ma Ci sentivo gusto. Mi pareva di ave!e la mente piu svelta, seb-  259   bene oggi non saprei dirti se tale fosse realmente. Vuoi sapere come fu ch'io smisi quest'uso? la mia gioventu cadde nei primi anni dell'impero di Tiberio, quando i culti stranieri erano oggetto di persecuzione e l'astinenza dalle carni di alcuni animali era considerata come indizio di partecipazione a quelle superstizioni (Ep. a Luc., 108, 13-15, 17-22). Di Fabiano Papirio, oratore e giurista, vissuto sotto Augusto e Tiberio, sempre attraverso Seneca sappiamo che dalla retorica passò alla filosofia pitagorica, interpretata in chiave stoica (Ep. a Luc.; 58, 6; 100, 8 sgg.), che famoso per vita et scientia (Ep. a Luc., 40, 12), condusse una vita da vero "stoico," ritenendo che piu alta di ogni erudizione (De brevi- tale vitae, XIII, 9) fosse l'educazione dell'anima, cui serve da un lato l'esempio della propria vita, dall'altrouna sobria eloquenza (Ep. a Luc., 100, 10-11), cht non deve trasformarsi in insegnamento di tipo profes- sorale, ma determinarsi in una persuasione psicologica e morale. Egli non fu, esclama Seneca (De brevit. vie., X, l) "f;losofo cattedratico, ma vero filosofo all'antica." Attraverso la figurazione che ne dà Seneca - non abbiamo altre fonti, - di Fabiano Papirio, di Sozione di Alessandria, di Attalo è dif. ficile dire se siano stati pitagorici o stoici. In realtà, ora, il termine stoico sta ad indicare piu un atteggiamento di vita che non una dot- trina; atteggiamento di vita che si fonda su di una concezione generale che assume pochi principi, facili a raggiungere analogicamente, e che potevano essere desunti da certe volgarizzate posizioni, ch'erano state effettivamente ela~rate entro la scuola stoica: un principio attivo e pas- sivo (Dio e la materia), dalla cui tensione scaturisce l'articolarsi e il co- stituirsi in ordine di tutta la realtà, di cui ogni aspetto è un momento dd divino IOgos (si confronti sopra la silloge di Ario Didimo). In tal senso, comunque, potevano essere interpretate anche certe pagine di Platone e di Aristotde (cfr. in tal senso Ep. a Luc., 58 e 65). Non solo, ma entro questi termini, poco importava essere platonici, o aristotelici, o stoici in senso stretto; o meglio, lo si era, per quel che il termine stoicismo, pitagorismo, platonismo evoca in funzione di un tipo di vita da contrapporre al comune modo di vivere irriflesso. Tipico esempio di tale atteggiamento fu l'amico di Seneca, Demetrio, del quale Seneca non poco senti l'influenza. Demetrio, vissuto nd 1 sec. d. C., contemporaneo di Seneca, fu detto • Cinico." ~ stato soste- nuto ch'egli piu che cinico sarebbe stato stoico, per la sua fede in un or- dine provvìdenziale, a cui, abbandonando le cose di questo mondo (indifferenti tutte), l'uomo ha da adeguarsi, in una lieta sopportazione del dolore e delle avversità. Per ciò che in realtà si può ricostruire del pensiero di Demetrio, attraverso le uniche fonti che abbiamo su di lui, 260    cioè Seneca (De beneficiis, VII, l, 3; 8, Ì; 11; Epi.rt. a Luc., 20, 9; 67, 14; 91, 19; De providentia, 3, 3; 5, 5) ed Epitteto (Dissert., I, 25, 22), possiamo dire che Demetrio fu "cinico" nel senso in cui, portando alle conseguenze estreme la logica di Zenone di Cizio, "cinico" era stato Aristone di Chio (cfr. I vol.). In altri termini, Demetrio, proprio attraverso lo studio della logica stoica, si rese conto dell'impossibilità del passaggio dal discorso umano ad un presunto discors~della realtà, per cui la realtà, presa in sé, resta sempre al di fuori di. noi, e per cui unica realtà è quella umana, o meglio quell'ordine che scaturisce dall'egemonia delle passioni e per mezzo di cui l'uomo si libera dalle passioni stesse; egli, perciò, poteva, ma.solo su di un piano indicativo, postulare, simile all'ordine che la ragione stessa costituisce, un ordine supremo é provvidenziale, presen- tando se stesso, di volta in volta, come esempio di saggio, di uomo libero, appunto, dalle passioni, dalle adulazioni di quella ch'era la quo- tidiana vita della Roma._di Caligola, di Claudio e di Nerone. La natura ha fatto nascere Demetrio in questi nostri· tempi per dimo- strare ch'egli non può essere corrotto da noi, mentre noi non possiamo essere educati da lui, uomo perfetto nella sua saggezza, anche s'egli per primo lo nega, assolutamente coerente nel suo modo d'agire, di un'elo- quenza adeguata ai piu forti pensieri, senza ornamenti, senza faticosa ricerca d'espressione, ma che con superba fieqezza, nella foga della ispirazione, persegue l'esposizione di idee personali. Se a Demetrio la Provvidenza ha dato simile costume e talento, lo ha fatto perché alla nostra generazione non mancassero: il modello né rudi lezioni. Se un qualche dio offrisse a Demetrio i nostri beni in assoluta proprietà, ma a condizioni che non ne potesse far dono, egli, certo, li ripudierebbe, dicendo: "No, non mi lego ad un simile peso, di ;c.."ui non potrei sbarazzarmi, né l;lscio che il mio essere, da tutto s~a'nciato, affondi nel profondo pantano delle ricchezze. Perché offrirmi il male di tutti? Che neppure accetterei per farne dono, ché molte cose vedo le quali sarebbe ingiusto dare... Lasciami libero, lascia ch'io prenda queste altre ricchezze,' le mie •vere ricchezze: il regno ch'io conQsco è il regno della sapienza, grande, sicuro; io, cosf tutto posseggo, tutto ciò che anche gli altri possono avere..." (De benefieiis, VII, 8, 2-9; 10, 6). Quando C. Cesare gli volle far dono di 200.000 sesterzi, li rifiutò ridendo... In tale occasione Demetrio ebbe una parola· di sublime grandezza, parola dettata dalla sorpresà allorché vide Gaio [Caligola] abbastanza pazzo da credere di potere a tal ·pre~zo cambiare un'anitna come la sua. "Se era deciso a provarmi," disse, "non sarebbe stato affatto di troppo per simile esperienza, l'offerta dell'impero" (De benefieiis, VII, 11). Demetrio, i l migliore degli uomini, si accompagna sempre a me, ed io, trascurando la compagnia dei grandi porporati, converso pieno di ammirazione per quel seminudo. E come non ammirarlo? Mi sono accorto che nulla gli manca. Qualcuno può disprezzare tutto; invece ad avere tutto nessuno ci riesce.  261   La via piu breve per arrivare alla ricchezza è quella di disprezzarla. Quanto al nostro Demetrio, egli vive, non come chi disprezza ogni cosa, ma come chi ne lascia ad altri il possesso (Epist. a L., 63, 3). Non a caso, sotto questo aspetto, furono ritenuti "stoici;" e tali si proclamarono, uomini come Trasea Peto ed Elvidio Prisco, difensori del Senato, assertori della libertas della Res-publica, tantò che l'uno, Trasea Peto, sotto Nerone, l'altro, Elvidio Prisco, sotto Vespasiano, ci rimisero la vita. L'accusa contro Trasea Peto fu ch'egli faceva parte di "quella setta che ha generato un tempo i Tuberone e i Favonio, nomi odiosi anche all'antica repubblica; essi vogliono la libertà per sovver- tire gli ordinamenti dell'impero. Invano avrai tolto di mezzo Cassio, se sopporterai di vedere crescere in potenza gli emuli dei Bruti ... Egli non ha mai fatto sacrifici propiziatori per la salute del principe o per la sua divina voce; da tre anni non ha piu posto piede nella Curia ... Egli non attende ormai che agli affari dei suoi clienti ... Un tale atteg- giamento è già un'opposizione nel nome di un partito: secessio iam id et pars est (Tacito, Annali, XVI, 22). E Tacito, narrando il momento della morte di Trasea, alla presenza di Demetrio, cosi dice: Trasea, allora, esortò i presenti, che si abbandonavano a pianti e a lamenti, a ritirarsi in gran fretta per non correre il pericolo di compro- mettere la propria sorte con quella d'un condannato... Come il sangue sprizzò fuori, Trasea, spargendolo sul terreno, fece avvicinare il questore e "libiamo," disse, "a Giove liberatore. Tu, o giovane, guarda e fai che gli dèi tengano lontano da te l'infausto presagio. Sei, per altro, nato. in tempi l).ei quali è pur necessario rinvigorire lo spirito con esempi di fermo corag- gio." Dette queste parole, poiché la lentezza della morte gli recava atroci tormenti, volse gli occhi a Demetrio... (Annali, XVI, 34-35). Da Attalo a Fabiano Papirio, da Demetrio a Trasea Peto, si vede bene l'arco del significato assunto dal termine "stoicismo": esempio di vita ordinata e misurata, adeguantesi ad una postulata ragio!l d'essere, ad un postulato ordine del tutto, ancora al principio dell'Impero, oppo- sizione politica, esempio di una vita libera, da Caligola in poi. Entro i termini estremi di quest'arco si muove lo "stoicismo epicureo" di Seneca. Se egli, appunto, da un lato attraverso Sozione, Attalo, Fabiano Papirio, e per altro verso attraverso Demetrio poteva delineare quella che avrebbe dovuto essere la vita ideale dell'uomo, in una particolare accezione (non teoretica) dello stoicismo, dall'altro lato, rendendosi conto che ogni concezione vale per quello che essa ha di successo, in certe ben precise situazioni, cercò, finché gli fu possibile, di convincçre a quell'ideale, operando su amici, e, soprattutto, ripetiamo, su Nerone. 262    Formatosi entro i termini di un generico "stoicismo" di sfondo, Seneca si servi di tale concezione per formulare quello che avrebbe do- vuto essere l'"uomo ideale" e, per altra via, lo Stato e la società ideali, indipendentemente dai piu gravi problemi teoretici, impliciti nei vari aspetti assunti dalla posizione stoica. Se altra fosse stata la prima edu- cazione di Seneca, egli avrebbe potuto benissimo accogliere, in funzione della sua polemica morale, anche l'ipotesi epicurea. In realtà Seneca non si preoccupa affatto di quella che sia la struttura in sé della realtà, rendendosi conto anzi - vicinissimo in questo a Demetrio - di come tale questione, dibattuta nelle scuole, sia divenuta una questione logico- grammaticale, e come proprio le analisi logiche, in gran parte condotte proprio dagli stoici e dagli scettici, abbiano portato a dimostrare l'im- possibilità di ogni passaggio dalle parole alle cose. Ora, puntando sulla scolastica distinzione della filosofia in fisica, logica, etica, Seneca taglia via la fisica come scienza a sé - su questo piano egli si riduce a una pura descrizione dei fenomeni fisici e delle opinioni : cfr. N aturales quaestiones - assumendo quella "fisica" che poteva apparire meno contraddittoria quale fondamento di una certa etica, fondandosi su di una logica che rendesse conto che lo stesso ben pensare è ben vivere, per cui vita etica è ad un tempo vita logica. Seneca rifiutava cosi quella logica che tutto risolvendo in sé, in una mèra realtà di parole, si pre- cludeva ad ogni significato e senso delle cose, sofisticamente. Di qui, sembra, la polemica di Seneca nei confronti del diffuso neo-pirronismo e dello stesso stoicismo logico, che davvero potevano finire nel silenzio e nell'inazione, anche se, su di un piano conoscitivo, egli accettava la sospensione del giudizio sui fondamenti primi (decreta) della realtà, se non quando questi potevano servire alla formazione di una vita misu- rata. e razionale, a determinare certi modi di vivere (praecepta). Sia pur detto fra parentesi, non sembra senza interesse che Seneca, con linguag- gio giuridico, chiami decreta i principi stessi su cui legalmente si costi- tuisce la realtà, e praecepta, appunto, le norme del vivere, i cui limiti sono determinati dai decreta (cfr. Ep. a L., 95). Cosi, ad esempio, dopo avere a lungo discusso, molto acutamente e con molta precisione, sul significato di -rò ISv, tradotto in latino con essentia e con quod est, e su come si debbono assumere i termini genere e specie, e dopo aver fatto vedere il significato di genere, specie, quod est, idea, idos, in Platone, in Aristotele, in alcuni Stoici (cfr. Ep. a Luc., 58), cosi esclama Seneca, rivolgendosi a Lucilio: Dirai: "A cosa possono giovarmi codeste sottigliezze?" Se lo chiedi a me, nulla. Ma come un cesellatore distrae e solleva gli occhi a lungo intenti e affaticati, e, come si suole dire, li ristora, cosf noi dobbiamo di quando in  263   quando concedere riposo al nostro animo e dargli nuove. forze con 't!ualche .divertimento. Ma pur questi divertimenti non siano ozio: anch'essi, se saprai profittarne, potranno offrirti qualche utilid... çhe còsa meno con- tribuisce alla trasformazione dei costumi, .::be i problemi avanti trattati? Come mi possono rendere migliore le idee platoniche? .Che posso cavare da esse, per infrenare le mie passioni? Eppure basta anche questo,. che Pla- tone nega la realt~ di tutto ciò che ·è soggetto ai nostri sensi, e ci infiamma e ci attira. Dunque noi abbiamo da fare con fantasmi, che solo per qualche tempo offrono una certa apearenza, ma non hanno né stabilita né solidiù... Rivolgiamo l'animo a auello che è ~erno..; (Ep. a Lue., 58, 25 sgg.). E ancora, nella lettera 65 a Lucilio, dopo avere discusso il motivo delle cause, esponendo la tesi degli Stoici,· Seneca afferma: • Dicono gli Stoici che nella natura due sono gli elementi, da cUi nascono tutte le cose, la causa e la materia; la materia è inerte, pronta a tutto ciò che se ne '-:uol fare, immobile se nessuno la muove: la causa, invece, cioè la ragione, dà forma alla materia, la elabora a suo piacere e ne trae le opere sue; bisogna, dunque; che vi sia· il principio onde una cosa è fatta e il principio che la fa, questo è la. causà, quello la materia; ... le cose tutte sono il risultato dell'elemento.paziente e della forza ·agente; per gli Stoici l'uniça causa è la. forza agente" (Ep. .. U4C., 65, 2-4); discutendo Aristotele dichiara che quattro sono le cause per Aristo- tele: la materiale, l'efficiente, la formale, la finale (id., 65, 4-7); di Pla- tone, poi, dtce che: • aDe quattro cause Platone ne aggiunge una quinta, che chiama idea, ed il modello che l'artefice ha tenuto di fronte a sé nell'eseguire l'opera, che aveva deliberato di fare; non ha importànza poi se questo modello egli l'abbia avuto sotto gli occhi fuori. di sé, oppure concepito nella suà immaginazione e tenuto cos{ presente: que- sti esemplari di tutte le cose Dio li ha in se .stesso, e di tutte le cote che deve fare abbraccia il numero e la misura: egli è pieno di tutte queste misure, da Platone chiamate idee, iJlUilOitali~ immutabili, instan- cabili; cinque sono dunque, come dice Platone, le ç.ause: quella di che, quella da che, quella in che, quella su che, queU::"pr.r· che; fi.òalmente quella che da tutte queste deriva" (id., f5, t-.ill). Seneca, dopo aver concluso che pio semplice è ridurre tutta la folla -delle cause ad t-..na sola, a ciò senza di cui nulla è, causa prima pc:l ciò ed oi>erante, Dio, • poiché quelle che avete messo innanzi non sono molte e singole caUse, ma dipendono insieme da una sola, da quella che opera" (id., 65, 12), cosi, alla fine dice: Ed ora pronuncia la tua sentenza, o, co~'è piu comodo in simili. pro- blemi, di' pure che non ci vedi chiaro e rimandaci a nuove indagini. Mi dirai: "Che gusto è il tuo ·a perdere il tempo in siffatli problemi, che no~ 264    ti liberano da nessuna passione, che non scacciano dal tuo animo nessuna cupidigia?• lo, in verità, dò la preferenza a quei problemi che rendono tranquillo l'animo e all'esame di me stesso e soltanto dopo mi occupo di questo Universo. Neppur ora io sciupo, come credi, il mio tempo; poiché tutte le discussioni di tal genere, se non sono spezzettate, se non si disper- dono in queste vane sottigliezze, innalzano e sollevano l'animo... E la filo- sofia conforta l'anima con la contemplazione della natura, innalzandola dalla terra alle regioni celesti... Tale contemplazione non poco contribuisce a liberare l'animo: sicuramente l'Universo consta della materia e di Dio, il quale stando in mezzo ad esso lo governa come signore e come guida.•. Quel posto che tiene Dio nel mondo, lo tiene nell'uomo l'anima... Siamo perciò forti contro i casi della sorte... Che è la morte? O la fine o un paS- saggio. Di non esistere piu non temo, perché è lo stesso che non aver comin- ciato ad esistere; né di passare altrove, perché in nessun luogo potrò stare cos( a disagio (Ep. a Lue., 65, 15 sgg.). Le Lettere a Ludlio sono tarde, di quando già Seneca era stato cO- stretto ad abbandonare la vita politica e sempre pi6 profonda in lui s'era fatta, è stato detto, la "nausea dd secolo,• ma, certo, ancora qui, l'opzione per una divinità reggitrice del tutto, l'ipotesi che tutto pro- venga daii'Uno (Dio), uno Che non è se non nel suo realizzarsi in atto nell'ordine dell'Universo, in una interpretazione stoica del Timeo di Platone ("Dio è la mente dell'Universo, è tutto ciò che vediamo e tutto ciò che non vediamo: egli solo è tutte le cose•: Natur. quaest., l, praef., 13), per cui Dio non è nessuna cosa, ma essendo la ragion d'es- sere di tutte, tutte le trascende, avendo in sé tutte le forme, unità e molteplicità ad un tempo, Uno e intelletto e anima (sotto questo aspetto si può parlare, accanto a uno stoicismo epicureo di Seneca, di un suo stoicismo neoplatonico); ancora nelle tarde Lettere a Ludlio e nelle tarde Questioni naturali, tale ipotesi resta consapevolmente tale, ipotesi: cioè. credibile in quanto utile a vivere da uomini, speranza e non con- clusione scientifica, ché su tale piano, in realtà, l'analisi della logica e del linguaggio, dovrebbero anzi portare a SQSpendere ogni giudizio. Anche gli uomini piu grandi ci lasciarono opinioni, non soluzioni defi- nitive, ma problemi da risolvere... Certo perdettero molto tempo in chiacchiere e cavilli e in sottigliezze sofistiche, inutili esercizi dell'ingegno. Noi facciamo dei nodi, intrecciamo parole a doppio significato per darne poi la soluzione. Abbiamo poi tanto tempo da impiegare? Sappiamo morire? Bisogna attendere con tutte le forze della nostra mente a guardarci dalle insidie non delle parole, ma delle cose. Che mi vai facendo distinzione tra vocaboli affini, che possono trarre in inganno soltanto in una disputa? Il nostro errore è intorno alle cose e su queste mi devi illuminare (Ep. a L., 45, 5). Non filologia è la filosofia (Ep. a Luc., 108, 24), non cavilli di parole,  265   capziose dispute, di cui se arrivo a scoprire il segreto del giuoco, non mi ci diverto piu (Ep. a Luc., 45, 8). Nessuno pnò vivere felice, se guarda solo a se stesso, se tutto fa convergere al proprio vantaggio: bisogna tu viva per il tuo vicino, se vuoi vivere per te. Questo vincolo sociale, che unisce gli uomini tra di loro e che attesta esservi una legge che abbraccia tutto il genere umano, se è osservato con diligenza scrupolosa, giova mol- tissi~o anche a mantenere quella piu stretta società, che è l'amicizia, e della quale ti parlavo. Colui che sente di avere molte cose in comune con un altro, solo perché questi è un uomo, avrà tutto in comune con l'amico. Questo, ottimo Lucilio, vorrei che sapessero insegnarti codesti cavillatori: quali sono i miei doveri verso un amico, quali verso un uomo qualunque, anziché in quanti modi possa esprimersi il concetto di amico e quanti signi- ficati abbia la parola uomo... Invece mi si storce il senso delle parole e mi si dànno delle sillabe staccate. Ah sf, se non avrò costruiti arguti sillogismi e raccolto entro una falsa conclusione una menzogna scaturente da una premessa vera, non potrò distinguere quello che devo seguire da. quello .che devo sfuggire. Mi vergogno, a questa età, di divertirmi a scherzare in ma- teria cosf grave! Mus (topo) è una sillaba; il topo (mus) rode il formaggio; dunque la sillaba rode il formaggio. Ammettiamo ch'io non riesca a scio- gliere questo nodo: qual pericolo mi sovrasta da simile ignoranza? Senza dubbio c'è da temere che qualche volta prenda due sillabe nella trappola o che, se sarò trascurato, un libro mi mangi il formaggio, a meno che non sia piu ingegnoso quest'altro sillogismo: mus (il topo) è una sillaba: la sillaba non mangia il formaggio: dunque il topo (mus) non mangia li formaggio (Ep. a Luc., 48, 2~. Si può, certo, dire per il I secolo ciò che, acutamente è stato detto per il xv secolo - senza dubbio, per alcuni aspetti e situazioni storiche vicino al I d. C. - essere falso che la filosofia vada cercata nelle opere dei suoi maestri ufficiali, ossia nei commenti di Aristotele e non nei dialoghi morali, nei trattati politici, nelle discussioni sulla poesia e cosi di seguito. In realtà, "la ricerca filosofica delle scuole era giunta al limite di un tecnicismo esasperante, ·che attraverso una raffinatezza estrema arrivava si a un culmine, ma senza possibilità di sortl!. La per- fezione di una logica che sostituiva i suoi calcoli e i suoi segni alla realtà dell'esperienza si esauriva in una conclusione. E quando la via è chiusa, il ritorno alle origini, ai principt, e la ricerca di altre dire- zioni, si impongono... Il rivolgersi a campi diversi da quello logico e fisico, ossia al mondo dell'esperienza morale e artistica; il ritorno dalle esasperazioni teologiche - di una teologia ridotta a dialettica - alla ricchezza della carità, dell'amore come diretto contatto con Dio: ecco le caratteristiche di un momento culturale ben definito" (E. Garin, Cultura filosofica toscana e veneta del secolo X V , "Rinascimento," Seconda Serie Vol. Il, Firenze, p. 65). Tale, mutando quel che è da mutare, l'esperienza di Seneca, assai vicino, per altra via, di fronte alle chiusure del diffuso scetticismo, nella ricerca di nuove direzioni, che premevano, alla problematica di Filone l'Ebreo, e a quella che, già dal tempo di Seneca, si delinea in una ripresa di certi motivi platonici, pitagorici e stoici, anche se diverse furono le conclusioni di Seneca. <:;ondannato, fin dalla nascita, alla morte, disperso nei suoi fantasmi, che sono, nell'immediatezza, le cose e le passioni, preso da questo o da quel fantasma, s1 come un folle che si fissa su una o altra delle infinite immagini che lo costituiscono, sempre perciò deluso, sempre nel terrore d'essere sopravanzato da altri, chiuso nelle sue stesse parole, dolore, disperato, determinato dalla nascita a una o ad altra situazione, schiavo dei propr~ fantasmi, re o servo che sia, tutti schiavi, illusione tutto, l'uomo, per chi appunto si sia reso conto ch'egli è nulla di fronte al tutto ("chiunque esso sia, o dio possente tra tutti o ragione incor- porea, artefice di tante meraviglie, o divino spirito diffuso con uguale intensità per tutte le cose, le piu grandi come le piu piccole, o infine fato e immutabile concatenazione di cause tra loro connesse": Conso- latio ad Helviam, VIII, 3), l'uomo desta un'infinita pietà. Ma proprio questa uguaglianza universale degli uomini, molteplici e diversi, per quanto molteplici, diverse, disarticolate sono le umane passioni e gli umani fantasmi, è il fondamento comune· per cui, attraverso l'educa- zione di sé (la filosofia in senso senechiano, che non è sapienza), sco- prendo sé come ragione, cioè come capacità di con-vincere la passione, l'uomo si libera da sé, costruendo se stesso uomo ("difendi il posto che ti ha assegnato la natura; quale chiederai: quello di uomo": De constantia sapientis, XIX, 4), in un rapporto articolato con gli altri uomini, costituendo una societas, che rivela e postula ad un tempo l'or- dine razionale del tutto, in una comune razionalità, che rende tutti - quanto piu ciascuno è se stesso, quanto piu misuratamente, cioè razionalmente, compie ciò che gli è proprio - uguali, per cui alla pietà si sostituisce il rispetto, che è rispetto dell'altro, non tanto per ciò che egli è, ma per quello che può essere. Cosa sacra è l'uomo all'uomo. Come comportarci con gli uomini? Quali precetti daremo? Di non spargere il sangue umano? quanto poco è non nuocere a chi dovresti giovare! porgere la mano al naufrago, mostrare la via allo sperduto, dividere il pane con l'affamato? Per dire tutto ciò che va fatto ed evitato..., eccoti una formula del compito dell'uomo: tutto quel che vedi, che contiene il divino e l'umano, è tutt'uno; noi siamo tutti mem- bra di un grande corpo. La natura ci generò parenti, dandoci una stessa origine e uno stesso fine. Essa ci ingenerò un mutuo amore e ci fece socie- voli... E quel verso: "Son uomo, nulla di umano ritengo estraneo a me"  26i   (Terenzio, Heautantimorumenus, l, 54], ci sia nel cuore e sul labbro. Abbia- molo in comune: siamo tutti nati. La nostra società è tale quale una volta di pietre, che cadrà, se le pietre non si appoggiano a vicenda e cosf si sosten- gano (Ep. a L., 95, 33, 51-53}. La riflessione su se stesso, sul proprio dolore,. sull'uomo conflitto di passioni, disperso in una molteplicità di se stessi e di fantasmi, se da un lato porta alla pietà, dall'altro lato, attravero questa, porta a com- prendere che l'uomo, mediante se stesso, in quanto capacità di realiz- zarsi secondo ragione - cioè in una misura che è conquista e libera- zione, - si libera da sé essendo davvero sé. Tra i molti magnifici detti del nostro Demetrio, questo... mi risuona e vibra tuttora nell'orecchio: niente -dice -m i pare piu infelice, che colui cui nessuna avversità mai sia capitata; poiché non ebbe modo di provare se stesso (De provitlmlia, III, 3). Hai passato la vita senza lotta: nessuno saprà mai quel che avresti potuto. Neppure tu stesso. Occorre la prova per conoscersi (De prov., IV, 3-7). Per non adirarti con i singoli individui, a tutti devi perdonare, all'intero genere umano concedere indulgenza... n saggio sa che nessuno nasce saggio, ma tale diventa... Pertanto il saggio, sereno ed equo verso gli errori, non è nemico, ma correttore dei colpevoli... Non è da uomo di senno odiare chi erra, altrimenti odierebbe se stesso... Quanto è piu vasta la norma morale che q11ella giuridica? Quante cose non esigono la pietà, l'umanità, la liberalità, la giustizia, la fede, che restano tutte fuori della legge?... Piu misurati ci farà il guardare dentro di noi, se ci chiederemo: non ho forse io stesso fatto alcun che di simile? Non ho mai peceato? Posso io condannare codeste colpe? (De ira, II, 10, 14, ~8). Solo attraverso il peceato si giunge all'innocenza (De clemmlia, l, 6). Chi è passato attraverso questa esperienza, chi ha coscienza che l'uomo può realizzare sé non piu in forma dispersa, ma coerentemente, sa che il suo ufficio, il suo dovere è di consolare, attraverso la medita- zione sul dolore, sulle passioni, sulle sitlgole esperienze, sulle illusioni, l'uomo disperato (cfr. le Consolaziont) e di avviare sé e gli altri, pro- spettando quale dovrebbe essere il saggio, a tale saggezza, agendo, entro i limiti delle proprie possibilità, perché si realizzi quella societtu che libera e fa dell'uomo un uomo rispettoso ~ell'altro, della comune ragione, specchio della postulata universale ragione di essere, mediante cui si costituisce la res-puhlica cosmica, il cosmico Impero. Di qui la distinzione senechiana tra sapienza e filosofia: la sapienza è un ideale, la filosofia uno strumento, riflessione sulle proprie espe- rienze di vita e, ad un tempo, per ciò, liberazione dalle proprie unila- teralità, convinzione e persuasione, retorica verace e consolazione, imVC- 268    gno sociale, da distinguere nettamente dalle arti dette liberali, utili, ma nella loro unilateralita, non tali da formare l'uomo virtuoso (cfr. Ep. a L., 88). Sembra chiaro, ora, in che senso da un lato Seneca descriva l'uomo qual è di fatto, in questo mondo, in questa situazione politica, e, dal- l'altro lato, accanto alle indicazioni mediante cui l'uomo può liberarsi da questo suo attuale non essere uomo, prospetti l'uomo quale dovrebbe essere, di volta in volta disegni il ritratto del saggio, del sapiente, dd- l'uomo consapevole di sé, misura, coerenza di sé con sé (constantia tra- duce Seneca l'homologhla zenoniana), e prospetti l'ideale rod~, l'ideale impero universale, che, a sua volta, si scopre adeguato alla postulata ragion d'essere del tutto, per cui, infine, accanto all'uomo quale dovrebbe essere, si pone la divinita qual è, in quanto termine di realizzazione, dovere e impegno. In ogni suo scritto Seneca, o per accenni o rievocando l'esempio di celebri figure o di proposito, disegna e prospetta il ritratto di quello che deve essere l'uomo, il "saggio" - anche nelle Tragedie, in cui il personaggio di Ercole assume la funzione dell'eroe stoico (cfr. R. Che- vallier, Le milieu .rtoiden à Rome au r siècle après J.-Ch., in "Bulletin de l'Association Budé," Suppl. Lettres d'humanité, XIX, 1960, p. 547). Basti qui ricordare alcuni passi del De con.rtantia sapientir ed una pagina della Lettera 66 che sembra riepilogare i peculiari tratti del sapiente. Gli Stoici, che hanno scelto la via piu degna per un uomo, non si curano che essa sembri piacevole a coloro che la iniziano, ma che al piu presto li liberi e li conduca sull'alta vetta, che si innàlza al di sopra di qualsiasi tiro d'arco e domina persino la fortuna... Libertà è sollevare l'animo al di sopra delle ingiurie, rendersi capaci di ricavare solo da noi stessi le nostre gioie, e staccarsi dalle cose esteriori, per non passare la vita nell'inquietudine come fa l'uomo che teme il riso e la lingua di tutti (De constantia sap., l, l; XIX, 3). Tale il saggio: un animo, che vede il vero, esperto nd conoscere quello che si deve fuggire e quello che si deve cercare, che delle cose fa stima non secondo l'opinione generale, ma secondo il loro valore intrinseco, che osserva tutto l'Universo e ne fa oggetto delle sue meditazioni, sentinella vigile dei propri pensieri e dei propri atti, grande e impetuoso nella giu- stizia, sordo ugualmente alle minacce e alle adulazioni, inconcusso nella buona come nell'avversa fortuna, superiore a tutte le contingenze e a tutti gli accidenti, ~issimo e ben regolato nella sua compostezza e nella sua forza, sano e semplice, imperturbato e intrepido, che non si piega per vio- lenza, che non si inorgoglisce e non si abbassa per vicende di fortuna: un tale animo è la virtU in persona; questo sarebbe il suo volto, se si presen- tasse sotto un'unica forma e in un insieme tutta intera si mostrasse. Del  269   resto essa offre molti aspetti, che si manifestano secondo i diversi casi della vita e le diverse attività. Il som,mo bene non può decrescere, né alla virtu è concesso andare indietro; ma assume qualità' diverse secondo la natura degli atti che sta per compiere (Ep. a L., 66, 6). E non dire, come dici di solito, che questo nostro sapiente non lo si trova in nessun luogo. Noi non ci foggiamo una gloria vana per l'ingegno_ umano e neanche vagheg- giamo il fantasma ideale di un essere inesistente: come lo descriviamo, cosf l'abbiamo prodotto e lo produrremo, di rado forse e uno solo a lunghi "inter- valli di tempo: del resto io mi domando se Marco Catone [uticense]... non superi addirittura il nostro modello... (De constantia sap., VII, 1). Ora, come Seneca delinea due uomini, l'uomo qual è e l'uomo quale dovrebbe essere (donde, per altro verso, si costituisce il conflitto della vita umana), cosi egli, per la prima volta chiaramente, parla di due Stati, di due res publicae, la Città degli uomini quali sono e la Città degli uomini quali dovrebbero essere, in una prospettiva dello Stato universale, specchio, appunto, dello Stato cosmico, per il quale il saggio deve lavorare, in nome del diritto naturale c che può costituire un saggio e giusto cosmo statale. Convinciamoci che esistono due res publicae: l'una grande e veramente publica, che comprende gli dèi e gli uomini, e nella quale non siamo con- finati in questo o in quell'angolo, ma misuriamo con il sole i confini della nostra città; l'altra è la res publica a cui ci ha iscritto la condizione della nostra nascita (potrà essere quella di Atene o di Cartagine o di qualsiasi altra città) e non abbraccia tutti gli uomini, ma solo determinati uomini. Taluni lavorano contemporaneamente per ambedue gli Stati, il grande e il piccolo, altri solo per il piccolo, altri infine solo per il grande. Questo Stato piu grande possiamo servirlo anche vivendo ritirati, e forse anche meglio, ricercando che cosa sia la virtu; se una sola o parecchie; se siano la natura o lo studio a rendere buoni gli uomini; se questo insieme di terre, di mari e di tutto ciò che sta tra i mari e le terre, sia unico, o se la divinità ne abbia disseminati altri del genere nell'Universo; se la materia da cui nascono tutte le cose, sia una sola e compatta, oppure diffusa e con parti di vuoto mescolate alle solide; dove risieda la divinità; se contempli inerte o muova la sua opera; se l'avvolga dal di fuori o sia immanente al tutto; se il mondo sia immortale o da considerare tra le cose caduche e nate solo per un certo tempo. Chi riflette su questi problemi, quale servizio rende alla divinità? Evita che la sua opera rimanga senza testimoni. Noi siamo soliti dire che il sommo bene consiste nel vivere secondo natura. La natura ci ha generati per ambedue i compiti: per contemplare e per agire,. (De otio, IV, 1-2). Senza l'azione non esiste contemplazione (De otio, V, 8). Di qui, per una via pio universale e meno legata all'esistenza di una certa classe che non quella di Cicerone, di coptro alla tirannide, di contro al conformismo dettato dalla paura, il richiamo di Seneca al motivo del cosmopolitismo stoico e al diritto naturale, fondamenti di una res publica umana, e, nei confronti dell 'imperatore, alla concezione stoico-platonica del monarca filantropo, per cui l'essere imperatore è un dovere. Ma di qui anche il delinearsi del motivo del tirannicidio; con il conseguente richiamo a Cassio, e del suicidio politico, donde la sempre maggiore esaltazione della figura di Catone Uticense, e su di un piano di diritto naturale, se non di diritto positivo, la proclamazione dell'abolizione della schiavitu. Poche righe prima del testo del De otio sulle due Repubbliche - ricordiamo che il De otio, insieme al De constantia sapientis e al ·De tranquillitate animi, è dedicato ad Anneo Sereno, che dalle Lettère a Luci/io, composte tra il 62 e il 64, sappiamo essere morto da non moltissimo tempo, Lettera 63, per cui si pensa che le tre operette siano del 61-62 circa: degli anni in cui Seneca fu costretto ad abbandonare la sua diretta influenza su Nerone, - Seneca scriveva: Epicuro dice: "il saggio non si accosterà alla vita pubblica a meno che non intervenga una situazione particolare." Zenone dice: "egli si accosterà allaita pubblica se non interverrà qualcosa ad impedirglielo." - Qui seguirò il parere degli stoici... perché la questione di per se stessa vuole che io segua la loro opinione: seguire sempre il parere di uno solo è proprio della fazione, non del Senato [nel momento in cui Seneca scriveva il De otio è questa una frecciata abbastanza indicativa]. - Epicuro, dunque, vuole l'otium di proposito, Zenone, se interviene un motivo [è anche questo un richiamo assai significativo alla posizione di Seneca]. E i motivi possono essere molti: se lo Stato è troppo corrotto perché ci si possa trovare rimedio, o se è oppresso dai mali, il sapiente non si sforzerà inutilmente e non spre- cherà se stesso senza poter servire a nulla. Se avrà poca autorità e poca forza e lo Stato lo respingerà, se la salute gli sarà di ostacolo, come non metterebbe in mare una nave in avaria, come non si arruolerebbe essendo infermo, cosi non intraprenderà un cammino che sa già impraticabile. Cosi anche colui che è ancora nuovo di esperienza e non si è ancora esposto alle tempeste, può rimanere al riparo e darsi subito allo studio... In realtà ciò che si esige dall'uomo è che serva agli uomini: se è possibile a molti, altri- menti a pochi, altrimenti ancora a se stesso. Infatti, rendendosi utile agli altri, egli agisce nell'interesse comune: come chi si rende peggiore non nuoce solo a sé, ma anche a tutti coloro che avrebbe potuto giovare essendo mi- gliore, cosi chiunque fa del bene a se stesso giova per ciò solo anche agli altri, perché viene costruendo un essere che potrà riuscir loro di giovamento (De otio, III, 2, l, 3-5). È questo un testo piuttosto importante, perché chiarisce ancora una volta il senso con cui Seneca assume certe posizioni stoiche, il  significato dato da Seneca alla filosofia come riflessione sulle proprie esperienze, attraverso cui ci modifichiamo e ci costruiamo uomini, pro- spettando Ja possibilità di realizzare l'uomo quale dovrebbe essere in rapporto con gli altri uomini, in funzione di una res publica hominum, cui giovano, a seconda delle istituzioni e per esse, modi diversi di azione, sia pure il ritiro dall'azione, o la presentazione di certi esempi di vita; ma anche perché in esso è molto chiaramente indicata la vita morale come problematica, come conflitto, COII}e dilacerazione della coe- renza stessa, ché talvolta la coerenza sta nell'incoerenza, e perché qui, molto chiaramente, Seneca presenta il proprio caso, la sua stessa espe- rienza e problematica, come la problematica dell'uomo, quale che sia la situazione in cui ciascuno, sempre, viene· a trovarsi: ciascuno, sempre, in una sua certa situazione storica diversa. Già dal tempo della questura e dei suoi primi discorsi in Senato, Seneca fu tenuto in conto di pensatore e di parlatore di razza, il maggior uomo di cultura che avesse Roma in quel tempo. Dopo il pericolo corso per la sua libera orazione in Senato, salvatosi per intervento di una favo- rita di Caligola, Seneca dovette certo comportarsi con molta prudenza e tatto (dirà piu tardi nel De constantia sapientis: "Talvolta anche, per sdegno contro i potenti, sveliamo i nostri sentimenti con eccesso di libertà! Ma non è libertà il non tollerare nulla: questo anzi è un errore" : XIX, 3), se riusc{ a mantenere un posto di non poca importanza presso la corte, particolarmente legato di amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di Caligola. Egli allora godette, senza dubbio, come lui stesso confessa nella Consolatio .alla madre Elvia (V, 4), di potenza, di onori, di danaro. Ma fu proprio la sua amicizia per la dignitosa principessa, che mai volle adulare l'imperatrice Messa- lina, che, nel41, rovinò Seneca. Messalina, gelosa della bellezza di Giulia, e dell'influenza che Giulia aveva sull'imperatore Claudio, riusc{ a fare sospettare di adulterio Giulia, tanto da farla cacciare da corte, e, poco dopo, da farla condannare a morte. Seneca fu coinvolto in questa losca montatura: forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia. Certo è .-:he Seneca, a causa di Messalina, fu condannato all'esilio e venne rele- gato in Corsica (•Non frutti di autunno né spighe d'estate né ulivo d'inverno; mai di primavera l'ombroso ristoro di un ramo: non pane né un sorso d'acqua né il fuoco per l'ultimo ufficio. Due cose sole son qui: l'esilio e l'esule": Epigramma, II, Haase). Fu durante l'esilio che Seneca scrisse la Consolatio alla madre Elvia, che è, ad un tempo una consolatio a se stesso, e la Consolatio a Polibio, in cui Seneca, con molta dignità, fa il tentativo di farsi richiamare. Uccisa Messalina, nel 48, assurse a potenza Agrippina, figlia di Germanico, che da un suo matri- monio con Gn. Enobarbo aveva avuto un figlio, Domizio. Agrippina, mediante sporche trame, riusd, morta Messalina, a farsi sposare, nel 49, dall'imperatore Claudio, suo zio. Agrippina, allora, fece revocare l'esilio di Seneca, per farlo tornare a Roma, in qualità di precettore del figlio Domizio. :t storia nota. Agrippina riusd, dopo loschi delitti, a far spo- sare il figlio Domizio con Ottavia figlia di Claudio e di Messalina, e, quindi, a fare adottare da Claudio Domizio, divenuto suo genero, con- trapponendo, per la successione al trono, Domizio a Britannico, figlio legittimo di Claudio e di Messalina. Con il nome di Nerone, Domizio passava a far parte della gente Claudia. Nel 51, fu data a Nerone, che non aveva ancora compiuti quattordici anni, la toga virile. Agrippina aveva richiamato Seneca dall'esilio, in parte per fare cosa grata al pub- blico che riteneva ingiustamente condannato da Messalina un uomo di gran valore, in parte perché sperava, legandolo a sé, di averlo consigliere delle sue trame politiche e perché educasse il figlio a seconda dei suoi intenti. Nota è la fine di Claudio, fatto, forse, avvelenare in segreto da Agrippina e note la proclamazione di Nerone a imperatore (nel 54, a 17 anni) e la fine di Britannico, nel 55, fatto uccidere da Nerone. ~Seneca fu lontano da tali intrighi. Tacito che non si arresta, non che dinanzi alle colpe, dinanzi <?-i sospetti delle colpe, non ne fa menzione: ed egli attinge con preferenza alle fonti storiche piu ostili a Seneca. Seneca, che Agrippina revocò dall'esilio per averlo consigliere delle sue trame poli- tiche e maestro di Nerone, restò maestro di Nerone; consigliere di Agrippina era un uomo in tutto degno di lei, il liberto Pallante. Quale fosse in quelle circostanze il contegno di Seneca non sappiamo. Sappiamo però che piu tardi, morto Claudio e proclamato Nerone imperatore, Agrippina, che già si credeva sovrana assoluta dell'Impero, dovette su- bito accorgersi che il suo ambizioso edificio era crollato: chi l'aveva abbattuto era Seneca" (Marchesi, cit., p. 30). Non pare si possa essere cosf ottimisti come il Marchesi, ma certo è che furono quelli, gli anni in cui Seneca, godendo di un certo ascendente sull'animo del giovanis- simo Nerone (d'altra parte invidioso dello strapotere della madre), avendo cosf, insieme ad Anneo Burro, prefetto del pretorio, uomo misu- rato ed essenzialmente onesto, in mano la possibilità di dirigere in un certo senso lo Stato, si adoperò a migliorarne le condizioni, ad avviare Nerone ad essere principe nel senso stoico di moderatore, di guida, di egemonico di una res puhlica hominum. Sotto questo aspetto assumono un loro preciso significato le pagine violentissime di Seneca contro il tiranno (particolarmente Caligola, già chiaramente discusso nel De ira) e l'operetta, morto Claudio, contro il principe inetto, burattino, strumento di macchinazioni (Claudio, ap- punto, cosf sarcasticamente e comicamente descritto nel Ludus de morte Claudii, da Dione chiamato Apokolocynthosis, l'inzuccamento di Claudio, cioè la consacrazione della Zucca: alla deificazione, apotheosis, di Claudio, decretata dal Senato, Seneca rispondeva che, in effetto, era quella la deificazione di una zucca). Se le pagine, sparse in tutta l'opera di Seneca, contro Caligola e lo scritto contro lo sciocco e inetto Claudio, tendono a dimostrare quello che un imperatore non deve essere, il De cle- mentia, scritto per Nerone, l'anno dopo la sua assunzione all'Impero, quando era consigliere politico e ministro, rappresenta da un lato il tentativo di delineare quello che l'imperatore deve essere, dall'altro lato, com'è stato detto (Marchesi, cit., p. 59), "il programma postivo di un vero uomo di Stato." Ben consapevole di precise situazioni, di non trascurabili ostacoli, di condizioni, in cui "si fanno cose che ottengono approvazione e che poi vengono punite" (De clementia, l, 4}, in cui "una persona non può andare a un pranzo con animo lieto, sapendo che persino nel brindare ha bisogno di controllare ogni parola" (De clem., l, 36}, nel De clementia Seneca opera con estrema cautela, ma sempre in funzione di realizzare, entro i limiti del possibile, uno Stato armonico, ove vada salvo il rispetto umano, la possibilità di costituire una res-publica hominum, mediante l'opera politica e riformatrice, interna ed estera, di Nerone ("Un saggio non farà l'elemosina s1 come la maggior parte di coloro che vogliono passare per compassionevoli; ma tutto ciò che darà lo darà come uomo che fa parte agli altri di beni comuni a tutti" : De clementia, II, 4, 2). Ciò che piu ha colpito del De clementia è stato in genere il suo aspetto formale, l'apparente adulazione di Seneca che presenta un Nerone potentissimo autocrate che, consapevole della sua enorme potenza, sa usarla a fin di bene, per costituire una società ordinata, e che consapevole della sua funzione di principe - in senso augusteo - in cui si assomma la nostra comune umanità, opera secondo il principio del monarca filan- tropo (cfr. sopra), con demenza, che Seneca chiaramerite distingue dalla misericordia (compassione) e dalla venia (perdono}, identificandola con la giustizia sociale. In realtà bisogna tener presente che il De clementia fu scritto quando Nerone aveva diciotto anni appena e che molti dei delitti, fino allora avvenuti, erano stati opera di Agrippina. Presentare Nerone sotto la veste del principe giusto e filantropo clemente (quando ancora vivissimo era il ricordo in Roma della ip.clemenza di Caligola e di Claudio, e il timore per Agrippina), dell'uomo consapevole del suo dovere di sovrano in funzione di una giustizia sociale, fu, proprio nei confronti del giovane e ambizioso Nerone, una mossa politico-retorica estremamente abile, un impegnare Nerone ad un'azione che fosse in contrasto con la pericolosissima linea seguita da Agrippina. In effetto Nerone, nei primi cinque anni del suo regno, si dimostrò clemente, moderatore degli abusi, accortissimo in politica finanziaria, 274    nel tentativo di sollevare le classi meno ricche limitando gli abusi fiscali, fino a giungere alla proposta dell'abolizione di tutte le imposte dirette (proposta che fu bocciata dal Senato : una delle poche volte che il Senato seppe opporsi, rivendicando, per timore di perdere le proprie ricchezze, la sua libertà). Non solo, ma Nerone si dimostrò rispettoso delle pre- rogative del Senato e delle procedure giudiziarie, mentre cercò di risol- vere, in favore dei libecci, il problema della schiavitu. "Intorno a quel tempo (56), si discusse in Senato"- scrive Tacito- "circa l'arroganza dei libecci e si insistette nel chiedere che fosse data ai patroni la facoltà di revocare la libertà a coloro che si erano resi colpevoli di ingratitudine. Non mancavano i fautori di questo provvedimento, ma i consoli non osarono prenderne l'iniziativa all'insaputa del principe, al quale, tut- tavia, notificarono il consensodel Senato a tale disposizione. Nerone era incerto se dovesse farsi promotore di questa proposta, poiché discordi erano i pareri dei pochi intorno a lui; alcuni si indignavano perché l'irriverenza accresciuta con la libertà si era scatenata a tal punto che ormai i liberti godevano gli stessi diritti dei patroni, ne discutevano da pari a pari le opinioni... [Ci fu chi fece la proposta di revocare a tutti i liberti la libertà]... Altri, invece, pensavano che la colpa dei pochi dovesse esser di rovina soltanto a loro e che non era il caso di meno- mare i diritti di tutti, poiché era evidente che la classe dei liberti era ormai diffusissima. Da essa in gran parte venivano le tribu urbane, le decurie, i dipendenti delle magistrature e dei sacerdozi, ed anche le coorti arruolate in Roma; non diversa origine avevano moltissimi cava- lieri e parecchi senatori, tanto che, se si fossero posti a parte i liberti, sarebbe stata manifesta la scarsezza di uomini liberi. Ben a ragione gli antichi, pur ponendo una gerarchia di ordini sociali, avevano conside- rato la libertà come un bene di tutti... Poiché prevalsero tali opinioni, Cesare rispose per scritto al Senato, ordinando di dar corso ai processi contro i liberti caso per caso..., ma che non si prendesse alcun provvedi- mento generale di deroga..." (Tacito, Annali, XIII, 26-ll). Tacito non fa il nome di chi sostenne di rispettare la libertà dei libecci, sottintendendo che per natura siamo tutti schiavi e tutti liberi. Certamente il consigliere che decise Nerone a favore dei liberti fu Seneca, ché alcune espressioni riferite da Tacito sono molto vicine a quelle sene- chiane, che leggiamo sia nel De beneficiis sia nella Lettera 47 a Lucilio. Ho provato molto piacere a sentire da quelli che vengono di costf che tu tratti i tuoi schiavi molto familiarmente, e ciò conviene alla tua saggezza e alla tua educazione. Sono schiavi? Uomini sono. Schiavi? Sono compagni di tetto. Schiavi? Umili amici. Schiavi? Compagni di servitu, se consideri che la Fortuna ha ubTUale potere su di essi e su di noi... Quanti di questi  275   schiavi non hanno alla loro mercé il padrone di una volta... Va ora a disprezzare un uomo di tale fortuna, quando .tu stesso potresti cadere in quello stato, nel momento stesso che lo disprezzi! Non voglio cacciarmi in un argomento troppo vasto e venire a ragionare intorno ~ modo come si debbono trattare gli schiavi, verso cui ci mostriamo tanto superbi, crudeli, arroganti, Tuttavia in poche parole ti dico: "Comportati verso gli umili come vorresti che si comportassero i grandi verso di te..." Ti sbagli, se credi che io sia per respingere alcuni perché sono a piu vile opera addetti, come per esempio quel mulattiere o quel bifolco: non li giudicherò dal loro mestiere, ma dai loro costumi. I costumi ognuno se li dà egli stesso, i mestieri li distribuisce il caso... Quel che di servile può aver loro attaccato il commercio con persone volgari, sarà corretto con la compagnia di persone piu educate. L'amico, caro Lucilìo, non cercarlo solo nel foro o nel senato... Ma è uno schiavo! Che importa, forse è libera l'anima sua._ Mostrami chi non sia schiavo: uno lo è della libidine, l'altro dell'avarizia, l'altro dell'am- bizione, tutti della paura... Nessuna schiavit6 è piu spregevole di quella che si abbraccia volontariamente... Qualcuno dirà ora che eccito gli schiavi alla rivolta e tento d'intl~bolire l'autorità dei padroni per aver detto: nutrano per i padroni piu reverenza che paura... (Ep. a Luc., 47). In queste ultime parole sembra di rintracciare l'eco del ricordo della seduta del 56. Senza dubbio piu preciso è il ricordo di quella seduta e l'approfondimento della questione nel De benefiçiis. Nel De beneficiis, scritto nel 56 circa, l'anno, appunto, in cui Seneca nel Consiglio di Corte difese i liberti di contro agli interessi del Senato e di contro a chi soste- neva che lo schiavo essendo tale per natura non pu~ acquistare alcun diritto verso il padrone né alcun titolo di benemerenza, Seneca dice: Sostenere che uno schiavo non può in nessun caso esser benefattore del padrone, significa ignorare il diritto umano. Ciò che importa è il senti- mento, non la condizione giuridica di colui che dà. A nessuno è preclusa la virtU: a tutti è accessibile, tutti ammette, tutti invita, liberi, liberti, schiavi, re, esiliati: essa non ha preferenze né per case né per censi, si contenta dell'uomo nella sua nudità... t un errore credere che la servit6 penetri in tutto l'uomo: la parte migliore ne è intatta. L'anima è interamente libera. La fortuna ha consegnato al padrone solo il corpo (De beneficii$., III, 19-20). Noi abbiamo tutti la stessa ~rigine. Nessuno è piu nobile di un altro, se non chi abbia ingegno piu retto e piu adatto alle buone arti. Coloro che espongono nel vestibolo le immagini degli antenati e gli alberi genealogici sono piuttosto noti che nobili. Per gradini, o splendidi o oscuri, ciascuno di noi risale a una sola origine... Chi oserà chiamare schiavo qualcuno quando egli stesso è schiavo della libidine o della gola, anzi servo comune di tutte le femmine adultere?... (De beneficiis, III, 28). [E nella lettera 31, 11, ancora Seneca scriverà: "Esser virtuoso è possibile tanto ad un cava- liere romano, quanto a un liberto, quanto a uno schiavo." "Ma che signi- 276    fica cavaliere, liberto, schiavo? Sono parole nate o dall'ambizione o dal- l'ingiustizia. Da ogni angolo della terra è possibile slanciarsi verso il cielo" j. L'appello di Seneca al sovrano, finché gli fu possibile, e la sua influenza diretta - entro i termini di un'abile convinzione, per riuscire ad un qualche successo - si mossero nel tentativo di determinare una· giustizia civile- obbedienza formale alle leggi. stabilite nel tempo dalle città terrene, - valida nella misura in cui sia capace di far proprio il contenuto di fraterna uguaglianza e di comunione umana che è proprio della giustizia naturale (cfr. E. Garin, Giustizia, in "Revue internati~ naie de philosophie," 41, 1957, pp. 282-283). A parte le reali intenzioni di Nerone .e i compromessi, cui, volta a volta, possa essere addivenuto Seneca, certo è che il motivo fondamen; tale di Seneca è stato quello di rendere gli uomini consapevoli di sé, esseri razionali, ove per "ragione" si intende non un dato, ma la capa- cità comune a tutti, che ci fa tutti uguali, di riflettere sulle proprie esperienze umane, attraverso cui essere ciascuno se stesso in rapporto agli altri, non piu passioni unilaterali, ma articolazione e società, ché tale è l'uomo in quanto razionalità. E questo, per Seneca, deve essere l'impegno dell'uomo, di ciascuno per quanto a ciascuno compete, cia- scuno consapevole dei propd limiti e perciò, entro questi, delle proprie possibilità. Se sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Seneca interpreti l'affermazione stoica, che la virtU consiste nel "vivere secondo ragione" e •coerentemente," altrettanto chiara appare la dialettica senechiana tra la tesi che l'uomo è tale in quanto viva socialmente e la tesi che l'uomo è tale in quanto fugga la folla, donde, per altro aspetto, deriva la dialettica tra l'affermazione che siamo tutti schiavi e l'affermazione che sianlo tutti liberi; in conseguenza, se da un lato, sia pure come· estrema ratio politica, come esempio, quando non sia piu possibile vivere da uomini, né avviare - anche attraverso i pio gravi compr~ messi, sacrificando se stesso, ad essere liberi - è valido il suicidio, dall'altro lato suprema forma di viltà è il suicidio in quanto fuga dal proprio impegno umano, dal proprio essere sociale, atto unilaterale, e, ·perciò, irrazionale. Infelice, sei schiavo degli uomini, schiavo delle cose, schiavo della vita: una servitU è la vita, se manca la virtU del morire (Ep. a Luc., 77, 15). Pen- sare alla morte: chi dice questo, comanda di pensare alla libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire: è al di sopra di ogni potere, certo al di fuori. Quale carcere, guardia o catenaccio c'è piu per lui? ha libera la porta (Ep. a Luc., 26, 10). Chiedi quale sia la via alla libertà? Qualsiasi vena del tuo corpo (De ira, V, 15).  277   Ma anche quando la ragione induca a farla finita, non si deve prendere la spinta all'impazzata e di corsa. L'uomo forte e saggio non deve fuggir... dalla vita, ma uscirne. E soprattutto eviterà quella passione troppo comune..., l'inconsulta inclinazione a morire, che spesso prende anche uomini generosi e di fiera indole, spesso gl'ignavi e gli abbattuti; gli uni disprezzano la vita, gli altri non ne reggono il peso (Ep. a Luc., 24, 24-25). Talora, anche se vi siano cause incalzanti, bisogna, sia pur con tormento, richiamarsi alla vita per amore degli altri... È grandezza d'animo riattaccarsi alla vita per amore degli altri, e spesso i magnanimi l'hanno fatto... Chi non tenga conto della moglie o dell'amico, per restare ancora in vita..., non è un forte (Ep. a Luc., 104, 3-4). Alcune delle proposte di riforma sociale, suggerite da Seneca, ebbero successo, altre no. Non sappiamo esattamente quale sia stata la parteci- pazione di Seneca nella drammatica lotta per il potere tra Agrippina e Nerone, culminata, com'è noto, con l'uccisione, ordinata da Nerone, di Agrippina (59). Certo è che dopo la morte di Agrippina, Nerone ascoltò sempre di meno Seneca, e dopo la morte di Burro - fatto avvelenare, sembra, da Nerone,- sostituito con l'inetto Fenio Rufo e con il terri- bile Tigellino, Seneca non ebbe piu alcuna voce e fu costretto a ritirarsi, anche se ufficialmente Nerone respinse le sue dimissioni e non volle che Seneca gli facesse dono delle sue ricchezze (si confronti il colloquio tra Seneca e Nerone riferito da Tacito: Annali, XIV, 53-56). "La morte di Burro rese vano ogni influsso di Seneca, perché i piu saggi consigli non avevano piu lo stesso potere, ora ch'era venuta meno, per cosi dire, l'altra guida del principe e Nerone era spinto dalla sua inclinazione verso i peggiori elementi. Costoro cominciarono subito ad attaccare con varie accuse Seneca, affermando che voleva aumentare ancora le sue ricchezze, che aveva già accumulato in modo eccessivo per un privato, e dicendo che faceva di tutto per attirare a sé le sim- patie dei concittadini, osando quasi primeggiare di fronte al principe... e sostenendo che le cose buone dell'lmpero.erano dovute a lui..." (Tacito, Annali, XIV, 52). "Seneca si allontanò dalla vita politica, facendo rare apparizioni in città, come se fosse trattenuto in casa a causa della salute cagionevole, o perché occupato negli studi di filosofia" (Tacito, Ann., XIV, 56). Furono questi gli anni del De otio, del D~ tranquillitate animi, del De prQtlidentia, del De beneficiis, delle Naturales quaestiones, e delle Epistulae mora/es ad Lucilium. In realtà Seneca, attraverso la sua opera, proponendo se .stesso come esempio di problematica morale e di dubbio (conloquor tecum, unQ scrutabimur: Ep. a L., 67, 2), proponendo la vita come conflitto e dia· lettica, sia pur per altra via proseguiva nel suo insegnamento. "Anche quando lo Stato è oppresso, l'uomo saggio ha occasione di mostrarsi. A seconda della situazione politica, nel modo che la fortuna lo consen- tirà, o ci espanderemo o ci raccoglieremo in noi stessi, ma comunque ci muoveremo e non c'intorpidiremo, paralizzati dal timore" (De tran- quillitate animi, V, 3-4). Ciò che si esige dall'uomo è che serva agli uomini: se è possibile a molti, altrimenti a pochi, altrimenti ancora a se stesso" (De otio, III, 2, l, 4). Particolare interesse assumono ora, anche relativamente alla situa- zione e allo stato d'animo di Seneca in quest'epoca, le Naturales quae- stiones. Chi vada ripercorrendo i vari motivi della riflessione senechiana, senza volere costruire un ben ordinato sistema di Seneca, si rende sem- pre meglio conto che la ricerca di lui si muove tutta entro l'àmbito del mondo degli uomini: da un lato nel riconoscimento che l'uomo è limite, dolore, disperazione, groviglio di unilaterali passioni, molteplicità; dal- l'altro lato nel riconoscimento che l'uomo si rivela a se stesso, attraverso la riflessione sulle passioni, sui propd fantasmi, su se medesimo, capa- cità di rendersi consapevole di sé, di costituire sé come ragione, cioè come possibilità di con-vinzione delle passioni, in un ordine che è misura e coerenza, di volta in volta, misura e coerenza sociali, per cui la rifles- sione medesima (filosofia) costituisce l'uomo come misura, istituisce un costume (mos) che è, ad un tempo, costume sociale, come rispetto e dovere, consapevolezza del proprio compito, entro i propd limiti (mora- lità). Sotto questo aspetto si vede bene perché, in fondo, a Seneca non interessasse chiudersi in una o altra sistemazione apparentemente scien- tifica, in una o altra ben definita e definitiva concezione dell'Universo e della Natura- una avrebbe potuto essere l'ipotesi epicurea,- se non perciò che l'uno o l'altro aspetto di una o di altra concezione potevano servire a rendere conto della formazione morale e sociale dell'uomo. Cosi, l'opzione di Seneca per l'aspetto piu semplice di certo stoicismo di scuola - tutta la realtà scaturisce quale deve essere dalla tensione del principio attivo e di quello passivo, costituendosi in un ordine, per cui ciascuna cosa assume un suo perché, una sua ragione entro i termini della ragion d'essere universale, la natura naturante- si determina non come dato a priori, ma come scoperta, attraverSQ la stessa scoperta (mediante la riflessione su se stessi) dell'uomo come razionalità. In tal senso la ragion d'essere del tutto si pone piu come ipotesi che come dato, come termine che si coglie attraverso noi stessi e che, perciò, ci trascende dal di dentro. E qui, in realtà, il discorso si fa diverso da quello stoico - se mai piu vicino, forse, a quello di Panezio e di Posidonio, - anche se ven- gono riprese certe argomentazioni, certi t6poi stoici, che, poi, non solo sono degli stoici (ad esempio, accanto alla riflessione su se stessi, la  279   riflessione sul tutto che si rivela ordinato e scandito in leggi, da cui l'ipotesi di una suprema legge che provvede a tutto); e il discorso si fa quello di alcuni stoici, nel senso che quell'ordine, quella legge del tutto, quella stessa provvidenza non sono posti su di un piano antico, ma, ripetiamo, su di un piano etico, cioè si rivelano e si scoprono attraverso la stessa riflessione etica, divenendo termini di speranza, non di dimo- strazione scientifica. Altro è perciò il piano della fisica, altro quello della logica. E se da un lato la riflessione etica prospetta l'uomo come razionalità, mediante cui l'uomo si libera da se stesso passioni, frantumi e fantasmi; dall'altro lato rende consapevole l'uomo dei suoi stessi limiti, della sua condizione estremamente infelice e determinata, consapevo- lezza senza di cui, comunque, non vi sarebbe moralità, ma ancora una volta passione e tracotanza. Compromettere la realtà ad un ordine già dato e necessario, sostenere che tutto è già fatalmente costituito, sarebbe stato negare la stessa possibilità della vita morale, la possibilità di ren- dersi consapevoli di sé, di educarsi e di correggersi; si come sarebbe stato un negare la moralità, la stessa esperienza umana, sostenere la libertà, la mancanza di un qualsivoglia limite, di una qualsivoglia con- dizione. Non a caso su di un piano ontico e fisico, anche relativamente all'immortalità o no dell'anima, Seneca non conclude mai, sospende il giudizio, ponendo le varie tesi come ipotesi; mentre sul piano di una quotidiana esperienza chiarisce che Jòuomo è limite, è chiusura, è nulla di fronte all'immensità dell'infinito Universo; solo che, appunto, tale sentirsi nulla, tale riflessione sulla propria miseria, sulla infinita natura che circonda e schiaccia l'uomo, fa sorgere nell'uomo - e anche questa è un'esperienza- la consapevolezza di sé come capacità, entro i propri limiti, di costituirsi razionalmente, cioè moralmente. Se da un lato, dunque, poteva scrivere in una delle sue prime opere (Consolatio ad Marciam, 19, 5): '"Liberazione di ogni ambascia è la morte: piu in là non si estende l'umano dolore. Essa ci ripone in quella pace nella quale fummo prima di nascere_, La morte non è né bene né male: quello può esser bene o male che è qualche cosa; ciò che per se stesso è nulla e ogni cosa riduce in nulla non ci rimette a fortuna: non può esser misero chi è nulla"; se ancora molto dopo scriveva: '"Non v'è differenza alcuna tra il non nascere e il morire; ché uno è l'effetto: non essere" (lAt. a Luc., 54, 5); '"l'anima lascia questa vita per una vita migliore, destinata a rimanere nella calma luminosa delle cose divine; oppure esente da ogni incomodo, si ricongiungerà alla sua natura e ritor- nerà nel gran tutto" (lAt. a Luc., 61, 16); dall'altro lato, posto che la realtà della vita umana ha i suoi termini tra la nascita e la morte, giunto alla fine della sua vita, Seneca scrive: '"Mi compiacevo l'altro giorno di pensare, anzi di cr~d"~ all'immortalità dell'anima, e credevo volentieri 280    alla opinione dei grandi uomini che di una cosa tanto consolatrice ci danno piuttosto la promessa che non la prova: e mi abbandonavo a tanta speranza, dabam me spei tantam" (Lett. a Luc., 102, 1-2). Entro questi stessi termini, l'indagine sulla natura non ~ per Seneca un'indagine mediante cui determinare principi che rendono pensabile, cioè scientificamente conoscibile, la realtà, ma è meditazione sulla natura; mediante cui liberarsi dalle umane distrazioni e dispersioni, mediante c;UÌ rendersi conto di quanto misero, nullo, piccolo, sia l'uomo quoti- diano, tutto preso dalle sue passioni, dai suoi fantasmi. E, ancora una volta, tale visione della natura, infinita, ordinata nelle sue leggi, che smaga l'animo dell'uomo, avvia l'uomo a scoprire sé come ragione, a postulare che tutto sia retto da un'infinita ragione, passando analogi- camente dal noto all'ignoto. Se ti vuoi persuadere che la natura ha voluto essere contemplata e non solo guardata, pensa al luogo che ci ha assegnato: ci ha posti nel suo centro, offrendoci la visione completa dell'universo; e, per rendergli agevole la contemplazione, non solo ha creato l'uomo eretto, ma perché potesse seguire gli astri dal loro sorgere al loro tramontare ·e volgere il suo viso a seconda del moto dell'universo, gli ha dato un capo rivolto verso il cielo e un collo flessibile. Poi, facendo ruotare i segni zodiacali (sei durante il giorno e sei durante la notte), ha dispiegato dinanzi all'uomo tutta se stessa, per ispi- rargli, attraverso la visione delle cose che gli offre, il desiderio di contem- plare anche le altre. Infatti noi non scorgiamo tutte le cose né le vediamo nella loro giusta grandezza, ma il nostro sguardo si apre la via all'investi- gazione e· riesce a gettare le fondamenta del vero, cos{ che la ricerca può passare dal noto all'ignoto e concepire qualcosa di piu antico ancora del mondo... (De otio, V, 4-5). E anche questa è una spertmza e un'esperienza. Una speranza in quanto l'ordine e la razionalità si pongono come un bene da realizzare; una esperienza in quanto la scoperta della presenza in sé della propria razionalità, la capacità di porre in sé misura e armonia ~ tanto lontano dall'essere un fatto umano, che si rivela come presenza di un valore super umano. Tale il Dio di Seneca: da un lato la ragion d'essere del tutto, del tutto nella sua totalità razionale e ordinata, in senso stoico; dall'altro lato, la possibilità nell'uomo di costituirsi razionalmente, lo stesso sorgere della coscienza come consapevolezza di sé, dei propri limiti ed entro questi del proprio impegno. Di qui, da una parte, U rifiuto dell'ipotel!i fisica di Epicuro, che smarrisce l'uomo nel caso, dal- l'altro lato l'appello epicureo ad un annullamento dell'uomo nell'eterno riposo del nulla. Certo, a tale concezione di Dio, immanente e trascendente a un  281   tempo, Seneca chiaramente giunse nell'ultimo periodo della sua medi- tazione, anche se fin dal principio poneva come ipotesi la tesi stoica di un tutto frutto della tensione del Logos (Dio), principio attivo, e della materia (quantità, principio passivo). Nelle ultime opere, dal De bene- ficii.r alle Lettere a Lucilio alle Questioni naturali, sempre piu Seneca insiste sull'esperienza del divino in noi, inteso come la stessa coscienza, e sulla meditazione intorno ai fenomeni della natura (donde le Quae- .rtione.r natura/es, che per il resto sono una descrizione di fenomeni) che, di là dalla nullità dell'uomo, rivelano la presenza di una suprema e provvidente divinità. ~ sembrato cosi che in Seneca vi sia un'oscillazione tra due conce- zioni di Dio: un Dio inteso come natura naturan.r, mente dell'Universo, tutto ciò che si vede e non si vede, rettore e custode dell'Universo, signore e artefice di quest'opera, al quale ogni nome conviene (cfr. Nat. quae.rt., l, praef. 13, 14; Il, 45), sempre in atto ed entro cui si svolgono in pro- cesso circolare tutte le vicende delle cose, il nascere e il perire, neces- sariamente; e un Dio trascendente, esigenza e speranza, posto oltre la natura. Certo è che la meditazione su Dio di Seneca non è una teologia, né una rivelazione da .parte di Dio come lo sarà nel çristia- nesimo. Si capisce, comunque, in che senso Seneca abbia avuto un'enorme influenza sui pensatori cristiani, tanto che di lui essi potranno dire, Seneca .raepe no.rter; mentre, per altra via, si scrisse, tra il IV e il v secolo, una serie di lettere che si finse essere un epistolario tra Seneca e San Paolo. "Tra la filosofia di Seneca e la religione di S. Paolo," ha scritto il Marchesi, "è un abisso; per Seneca l'uomo redime se stesso con l'opera della ragione, per San Paolo si lascia redimere da Dio nell'abbandono della fede; nel Cristianesimo Dio è il salvatore degli uomini, nella dot- trina di Seneca l'uomo è il salvatore di se stesso... Per Seneca è la .rapientia che distrugge ogni culto positivo, vale a dire ogni supersti- zione, con lo spietato· esercizio della ragione. Dicono che Seneca sia tanto vicino al Cristianesimo coloro che, dimenticando del Cristianesimo l'essenza positivamente religiosa, giudicano soltanto attraverso alcune formule vaghe di moralità e di umanità... [Chi sa quale sarebbe stato] il giudizio di Seneca, se accanto al seggio di suo fratello Gallione in Corinto [che doveva giudicare Paolo] avesse sentito annunciare da San Paolo che Gesu era il Cristo morto e risuscitato per affrancare gli uomini dalla legge del peccato e della morte" (Marchesi, cit., p. 420). In realtà la problematica senechiana sul divino è un altro aspetto della meditazione di Seneca sull'esperienza morale dell'uomo. Su questa linea sembrano particolarmente interessanti e indicativi due testi di Seneca: l'uno relativo all'indagine scientifica, in cui chia- ramente appare come Seneca, nettamente distingua il tipo della ricerca scientifica dal tipo della: ricerca filosofica (il tipo della ricerca scientifica .si fonda sull'ipotesi e sulla descrizione del fenomeno, lasciando aperta la possibilità di altre ipotesi, di altre ulteriori ricerche; la ricerca filo- Sofica, invece, si fonda sulla meditazione di se stessi, ed è strumento per costruire se stessi, attraverso la meditazione stessa, per cui, appunto, la filosofia non è né la fisica né la logica, né la matematica, ma è da un lato moralità e dall'altro lato consolatio, o, sotto questo aspetto, con- vinzione, cioè retorica e politica); l'altro testo relativo alla meditazione sulla natura come capace di liberare l'uomo dalle sue ostinate illusioni, in una rivelazione a sé del divino come esigenza e presenza di una mancanza, che è la scoperta della stessa consapevolezza e della razio- nalità, della possibilità umana della constantia. Nel primo testo, che si trova nelle Naturales quaestiones, discu- tendo sulla natura delle comete, dopo aver esposto l'ipotesi di Epigene, seguace di Aristotele, secondo il quale le comete si formano come una specie di fuoco trascinato in alto da un vortice, e l'ipotesi di Apollonio di Mindo, suo contemporaneo, secondo cui le comete sono astri sepa- rati come il sole e la luna, e dopo aver rifiutato l'ipotesi di certi stoici secondo i quali le comete son fiamme improvvise, Seneca, che in parte propende per l'ipotesi di Apollonio di Mindo, cosi conclude: Perché dovremmo sorprenderei se un fenomeno cosmico tanto raro come quello delle comete non può venire inquadrato nell'àmbito di leggi regolari, e se non ne possiamo conoscere né l'inizio né la fine, poiché esse compaiono a intervalli di tempo tanto grandi?... Giorno verrà che le cose ancor celate a noi trarrà alla luce il tempo e la diligenza di piu lungo corso di secoli; a cosf grande ricerca non basta una sola età... Molte cose ignote a noi sapranno le genti delle età future... (Nat. quaest., VII, 25, 30-31). Nel secondo testo, cui àlludevamo, dice, invece, Seneca: Quando ci saremo sollevati alla vera grandezza [la grandezza della natura], quante volte vedremo marciare degli eserciti a vessilli spiegati, e la cavalleria, come fosse gran cosa, ora lanciarsi in esplorazione all'avan- guardia, ora riversarsi alle ali, potremo ripetere volentieri: "Va il nero sciame pei campi" [Virgilio, Eneide, IV, 404]; evoluzioni di formiche sono le nostre: nessuna differenza è fra esse e noi, tolta l'estrema esiguità del loro corpo. Su di un solo punto noi navighiamo e combattiamo e stabiliamo i nostri imperi, minimi imperi, anche se avessero per limite i due oceani; sopra di noi sono gli spazi grandi, che l'anima solo può possedere. t tanto l'errore dei mortali che alcuni di essi guardano il mondo, questo miracolo di bellezza, di armonia e di bontà, come un prodotto fortuito, in balla del caso, e perciò tumultuoso in mezzo ai fulmini, alle nubi, alle tempeste e a tutti gli sconvolgimenti della terra e dell'atmosfera: e non è solo pazzia  283   dd volgo codesta, ma di uomini che hanno professato la sapienza. Alcuni, pure ammettendo l'esistenZa di un'anima umana previdente e moderatrice, credono che questo grande tutto, del quale anche noi siamo parte, è privo di intdligenza ed è mosso dal caso o dalla natura ignara di· quello che fa [ove è evidente i l rifiuto ddl'ipotesi fisica dell'epicureismo] ... Osservare queste cose [se vi sia un dio che abbia fatta la materia o se l'abbia soltanto adoperata, se l'idea preceda la materia o la materia l'idea, se Dio fa tutto ciò che vuole, oppure no, se dalle nubi del grande artefice escano opere difettose non per difetto dell'arte ma della materia ribelle all'arte e cos{ via], osservare. queste cose, studiarle, vegliare su di esse, è oltrepassare i limiti della mortalità e trasferirsi a pi6 alto destino; e se nessun altro frutto rica· veremo da codesti studi, ci basterà soltanto sapere che tutto è angusto allor- ché avremo misurato Dio (Natura/es quaest., I, praef., 10-17). E cos{ Seneca esclama in una Lettera a Luci/io (41, 1-2): Non c'è bisogno d'innalzare le mani al cielo, né pregare il custode dd tempio che ci lasci accostare alle orecchie del simulacro, perché meglio ci esaudisca: vicino a te è Dio, con te, dentro di te... Un sacro spirito risiede entro di noi, osservatore e custode della nostra malvagità e bontà; e nella Lettera 73, 16: Ti meravigli che un uomo vada verso gli dèi? .Dio va verso gli uomini, anzi, pi6 propriamente, viene negli uomini: nessun'anima senza Dio è vir- tuosa. Semi divini sono diffusi negli umani corpi (Miraris hominem ad deos ire? Deus ad homines venit, immo quod est propius, in homines ve- nit: nulla sine deo mens bona est. Semina in corporibus humanis divina dispersa sunt...). Dopo la morte di Burro (62 d. C.) e l'allontanamento di Seneca, sempre piu scellerato e terribile divenne il governo di Nerone. Le ucci- sioni e i delitti si susseguirono alle uccisioni e ai delitti. Si ordf allora una congiura. Capo di essa ne fu Calpurnio Pisone. Vi aderirono "a gara senatori, cavalieri, soldati e anche donne, tanto accesi da odio contro Nerone, quanto da simpatia per C. Pisone" (Tacito, Ann., XV, 48). La delazione di un liberto e la debolezza di due congiurati che non seppero resistere allo spavento delle torture - mentre la liberta Epicari, torturata, eroicamente si uccise piuttosto che parlare - fece scoprire la congiura. Ci fu chi rivelò che capo della congiura era Pisone - si pensava anzi, se la cosa fosse andata, di proclamare Pisone impe- ratore - e si aggiunse anche il nome di Seneca, "forse per procurarsi il favore di Nerone che odiava Seneca e che cercava ogni mezzo per sopprimerlo" (Tacito, Ann., l.c.). Sembra, comunque, che una parte dei congiurati avesse realmente pensato a Seneca piuttosto che a Pisone come possibile imperatore. Non sappiamo niente di un'azione diretta di Seneca. Di fatto sappiamo che Seneca, accusato di accordi con Pisone, fu condannato a morte, come a morte furono condannati Calpurnio Pisone e Plauzio Laterano. Era l'anno 65 d. C. Nerone comandò di andare da Seneca con l'ordine di morire... Seneca, impavido, chiese che gli portassero le tavole del testamento e, poiché il centurione rifiutò, si volse agli amici dichiarando che, dal momento che gli si impediva di dimostrare la sua gratudine, lasciava a loro la sola cosa che possedeva e la piu bella, l'esempio della sua vita. Se avessero di questa con- servato ricordo, avrebbero conseguito la gloria della virtU come compenso di amicizia fedele. Frenava, intanto, le lacrime dei presenti ora col sem- plice ragionamento, ora parlando con maggior energia e, richiaD'laJI.dO gli amici alla fortezza dell'animo, chiedeva loro dove fossero i precetti della saggezza, e dove quelle meditazioni che la ragione aveva dettato per tanti anni contro la fatalità della sorte. A chi mai, infatti, era stata ignota la ferocia di Nerone? Non gli rimaneva ormai piu, dopo avere ucciso madre e fratello, che aggiungere l'assassinio del suo educatore e maestro. Come ebbe rivolto a tutti queste parole ed altre dello stesso tenore, abbracciò la moglie e, un po' commosso dinanzi alla sorte che in quel momento si com- piva, la pregò e la scongiurò di placare il suo dolore e di non lasciarsi per l'avvenire abbattere da esso, ma di trovare nel ricordo della sua vita vir- tuosa dignitoso aiuto a sopportare l'accorato rimpianto del marito perduto. La moglie dichiarò, invece, che anche a lei era stata destinata la morte, e chiese la mano del carnefice. Allora Seneca, sia che non volesse opporsi alla gloria della moglie, sia che ,fosse mosso dal timore di lasciare esposta alle offese di Nerone colei che era unicamente diletta al suo cuore: "Io ti avevo mostrato," disse, "come alleviare il dolore della tua vita, tu, invece, hai preferito l'onore della morte: non sarò io a distoglierti dall'offrire un tale esempio. Il coraggio di questa fine intrepida sarà uguale per me e per te, ma lo splendore della fama sarà maggiore nella tua morte." Dette queste parole, da un solo colpo ebbero recise le vene del braccio. Seneca, poiché il suo corpo vecchio e indebolito dal poco cibo offriva una lenta uscita del sangue, si recise anche le vene delle gambe e delle ginocchia, e abbattuto da crudeli sofferenze, per non fiaccare il coraggio della moglie e per non essere trascinato egli stesso a cedere di fronte ai tormenti di lei, la indusse a passare in un'altra stanza. Anche negli estremi momenti non essendogli venuta meno l'eloquenza, chiamati gli scrivani, dettò molte pagine, che testualmente divulgate tralascio di riferire con altre parole. Pertanto Nerone, non avendo alcun rancore personale contro Paolina, moglie di Seneca, dette l'ordine d'impedirne la morte perché non si accre- scesse l'odiosità della sua ferocia. All'imposizione dei soldati, i servi e i liberti legando le braccia trattennero il sangue a lei che non sappiamo se di tutto ciò avesse o no la sensibilità... Visse ancora pochi anni, conservando  sacra memoria del marito, nel volto e nel corpo bianco di quel pallore che era segno palese della vitalità perduta. Seneca, frattanto, protraendosi la morte lenta, pregò Anneo Stazio da lungo tempo amico suo e famoso per l'arte medica, di propinargli quel veleno [cicuta] già da tempo provveduto, col quale si facevano morire gli Ateniesi condannati i~ pubblico giudizio. Avutolo, lo trangugiò invano perché il gelo aveva già invaso le membra e il corpo era ormai refrattario all'azione del veleno. Alla fine, entrò in una vasca piena d'acqua, spruzzandone i servi piu vicini a lui\~ dicendo di fare con quel liquido libazione a Giove liberatore. Fu portato poi in un bagno a vapore dove mori soffocato. Fu cremato senza alcuna solenne cerimonia funebre, come aveva prescritto nel suo testamento, quando ancora nel pieno della ricchezza e della potenza aveva dato disposizioni intorno alle sue ultime volontà (Tacito, Annali, XV, 61-64). E non molto tempo prima della sua condanna, certo dopo la sua caduta in disgrazia, quando si era ritirato da quella vita politica che non era piu politica e per la quale non c'era piu nulla da fare, se non con l'esempio di una verace vita ragionevole e perciò stesso, per altro verso, di una verace vita politica, cosi scriveva Seneca a Lucilio (Lett. 26), quasi concludendo il suo discorso, la sua riflessione in cui consiste la stessa moralità: Vicino al momento della prova, vtcmo a quell'ultimo giorno che deci- derà di tutti i miei anni, cosf veglio su me stesso e mi parlo. Fino a oggi, dico, non ho fatto nulla di sicuro né con gli atti né con le parole, indizi lievi e ingannevoli dell'animo. Alla morte affiderò il mio profitto. Pertanto io mi preparo coraggiosamente a quel giorno in cui, messo da parte ogni artificio, giudicherò di me stesso, e farò vedere se il mio coraggio era nel cuore o sulle labbra, se fu simulazione o commedia la mia sfida gettata alla fortuna. Non conta nulla la stima degli uomini: essa è sempre dubbiosa ed è accordata tanto al vizio quanto alla virtu; non contano gli studi di tutta la vita: la morte sola è il giudice nostro. Le dispute filosofiche, le dotte conversazioni, i precetti della sapienza non dimostrano la vera forza dell'animo: anche gli uomini piu vili hanno linguaggio da ero~. Le opere tue appariranno solo all'ultimo tuo sospiro. Accetto questa condizione: non temo il tribunale della morte (Lett., 26, 4-7).  Le componenti culturali tra il I e il lL secolo d. C. l. "Platonismo," "pitagorismo" e "stoicismo" tra il I e il Il secolo Per chi non si affidi a semplicistiche e nette distinzioni manuali- stiche nel delineare la formazione della cultura nell'arco di tempo che va dalla seconda metà del I secolo agli inizi del m secolo d. C., sembra difficile insistere su precise posizioni, diverse le une dalle altre, chiara- mente distinguibili per èaratteristiche proprie. Parlare di "neopitago- rismo, " di platonismo medio, di stoicismo cinicheggiante, di gnosticismo, di ermetismo e cosi via, come di blocchi avulsi da un comune terreno e da comuni reciproche influenze, che non si scandi- scono nel tempo e non rispondono a comuni esigenze, è falsare il signi- ficato di una viva cultura, di problemi concreti, niente affatto cristallizzati, quali, invece, appaiono a noi nella noia di una tradizione scola- sticizzatasi. Non solo, ma altrettanto fuorvianti sono le stesse denomi- nazioni indicative: platonismo, stoicismo, pitagorismo. Tali denominazioni non indicano nulla: se mai possono evocare uno o altro aspetto di uno o altro platonismo o stoicismo o pitagorismo determina- tisi storicamente. Sappiamo che se già in Platone vi sono molti Platone, se già in Aristotele vi sono molti Aristotele, molti sono stati poi, dopo Platone e dopo Aristotele, i platonismi e gli aristotelismi, s1 come molti, nel tempo, sono stati gli stoicismi, per non parlare dei modi diversi con cui ha giuocato la leggenda di Pitagora. Dopo Platone e dopo Aristotele, di Platone e di Aristotele si sono andati riprendendo, volta a volta, quegli aspetti che piu rispondevano a certe esigenze e problematiche, in funzione di concezioni che con Platone e Aristotele, considerati sto- ricamente, non avevano piu nulla di comune. Abbiamo veduto quale Platone e quale Aristotele abbiano potuto tener presenti certi stoici e come quegli stessi aspetti di Platone o di Aristotele si siano potuti trasfigurare, in interpretazioni che a loro volta  sono venute trasfigurando le originarie posizioni stoiche (si ricordi, ad esempio, la storia dell'Accademia profilata da Filone di Larissa ·e la storia dell'Accademia profilata invece da Antioco di Ascalona: cfr. sopra). Abbiamo cos1 veduto come sul piano del tentativo - d'altra parte già implicito nell'ultimo Platone - di rendere pensabile l'Essere, costitUito dal mondo delle idee, si sia sciolto l'Essere stesso in quantità misurabile e traducibile in termini numerici: di qui, pio tardi, si è potuto rico- struire tutta la realtà scandendola in numeri e figure geometriche. E se questo, per un verso, è stato detto • pitagorismo," per altro .verso quello stesSo pitagorismo, nel suo tradurre le leggi del tutto in numeri, ha potuto servire sia all'astronomia di. tipo stoico sia allo stesso stoicismo, nella sua interpretazione fisico-matematica del Timeo di Platone (si cfr., per esempio, già èicerone, Rep,ubblica, I, 15). Per altra via, la critica acuta e inesorabile delle condizioni, che rendono possibile il ragionare umano, portava a mettere in dubbio l'adeguazione dell'intelletto e della cosa - condizione prima perché sia possibile la conoscenza delle strut- ture ddla realtà in quello che la realtà è, e ch'era stata, sia pur in via ipotetica, la tesi prima di Platone, - in una precisa dimostrazione che ogni concezione del tutto è opinabile e controvertibile. Non si scordi, qui, la linea che va da Arcesilao a Carneade, i quali, non a caso, inter- pretano il platonismo nel suo aspetto problematico e aporetico, socrauco; e piu ancora la linea che va da Enesidemo ad Agrippa tra il I a. C. e il I d. C. Poiché, in fondo, gli stessi scettici presuppongono l'esistenza di una realtà per sé, oltre le possibilità umane, si vede bene di qui, in oppo- sizione al neo-pirronismo che finiva con l'estraneare l'uomo dalla realtà, involgendolo in un puro giuoco di parole, dove tutto è giuoco di parole, la ripresa di certi motivi platonici, pitagorici, aristotelici. Cos(, renden- dosi conto della validità ddla critica scettica, si accetta quella realtà presupposta, giungendovi, per analogia, in termini logici, cioè optando per quelle concezioni che appaiono meno contraddittorie e piu capaci di dare una • forma" e un senso alla vita (da Antioèo di Ascalona ad Ario Didimo a Seneca, che hanno potuto essere a un sempò stoici e platonici). Oppure, sempre entro i termini di un platonismo e di uno stoicismo di sfondo, che accetta la concezione di un tutto ordinato e scandentesi in ben fisse e precise leggi, la v~sione degli astri e dei mondi regolati da leggi e cos1 via, che è oramai un t&pos, cui poteva servire certo primo Aristotele ç> certo Aristotele fisico, interpretato in chiave stoica (si ricordi lo pseudo aristotelico De mundo, composto appunto nel I secolo d.C.), si poteva sostenere che, proprio perché l'uomo è incapace e limite, proprio perché l'umana ragione resta sul piano umano, è quella stessa verità trascendente che scende all'uomo, che all'uomo si rivela (si pensi a Filone l'Ebreo e, per altro verso, ancora a Seneca). 288    Oppure, ancora - certo in ambienti piu popolari, meno intellettual- mente scaltriti - abbiamo il recupero di Pitagora mago e taumaturgo, di quello che il Dodds ha detto il Pitagora sciamano, egli stesso consi- derato piu che anima in senso greco (forza vitale e unifiéatrice), anima divina, personale, trascendente, che si incarna di volta in volta in uo- mini che, esprimendo perciò il verbo di Pitagora, essi medesimi novelli Pitagora, si presentano come salvatori, facitori di miracoli, profeti. D'altra parte va sottolineato che entro questi termini, entro questa esigenza comune, non è neppure un solo aspetto dell'interpretazione di Platone né un solo aspetto dell'interpretazione del pitagorismo né di Aristotele che vengono assunti. A seconda delle difficoltà, nel tenta- tivo di spiegarsi la realtà e il suo significato in funzione dell'umano vi- vere e della umana condizione, a seconda degli stessi ambienti nei quali e per i quali si cerca di operare, delle tradizioni, delle polemiche in ari ci si viene a trovare, ci si appella a uno o altro aspetto delle inter- pretazioni di Pitagora, o di Platone o di Aristotele. O ci si rifà all'ul- timo Platone dialettico (Teeteto, Parmmide, Sofista, Filebo), puntando su di una certa interpretazione dell'Essere Uno che si costituisce in una molteplicità; o al Plat~me interpretabile come avente posto una relazione con l'Uno, con il divino in termini intuitiv~, mistici. O ci si appella al pitagorismo pi6 strettamente matematico,· capace di rendere conto in ter- mini numerici e di misure (in ciò razionali) della stessa visione plato- nico-stoica di un universo uno e inolteplice a un tempo, sia esso poi do- vuto all'atto proprio di un Dio trascendente e che tale resta o di un Dio che tale si costituisce e si riconosce nello stesso costituirsi della realtà tutta; oppure ci si rifà a un pitagorismo interpretabile come spiegazione della stessa "platonica" unione mistica mediante il motivo della purifi- cazione delle anime divine, distinte e altre dai corpi, dalla materia, in un conflitto fra .i due principi del Bene e del Male, dal quale si sfugge se, ele.tti dal dio, si compiono certi esercizi (ascen), si· conduce una certa vita ("vita pitagorica"), cos1 che non poco suggestivi divengono certi misteri orientali e l'interpretazione in questa chiave dei misteri greci (dionisismo e orfismo) e di quelli egiziani, insieme agli aspetti cultuali operativi dell'astrologia. Di qui la presentazione di esempi di "vita pi- tagorica," di esempi di vita ascetica, oppure di uomini che sostengono di essert Pitagora reincarnato, che compiono miracoli e cos{ via. Ma anche, di qui, in ambienti a pi6 alti livelli, attraverso la ripresa del pita- gorismo matematico-geometrico, del platonismo dialettico, dell'Aristo- tele protrettico e di certe parti piu platoniche della Fisica e della Meta- fisica, ma anche degli aspetti piu formali della logica (Categorie, Topici, Primi tmaliticr), che, innestandosi ad alcune parti della logica stoica, po- tevano servire da esercizio e introduzione, da avviamento alla visione  289   platonico-stoica, insieme agli aspetti piu teologici e ontici della fisica stoica, si fa il tentativo di oltrepassare il mondo umano, per giustificare proprio quel mondo umano che le correnti critico-scettiche ed epicuree abbandonavano a se stesso: le une chiudendo l'uomo nelle sue stesse parole, negandogli ogni contatto e senso della realtà e della vita; le altre dando all'uomo una responsabilità paurosa, in una rivolta al di- vino ch'era, pur sempre, una rivolta alle autorità costituite, in un am- biente, in cui, di fatto, non v'era un popolo, in quanto mancava il concetto e la coscienza della sua realtà, o meglio altra n'era la coscienza. Sono, questi, motivi assai diffusi, tra il I e il 11 secolo d. C., che si intrecciano e si trovano talvolta giustapposti in uno stesso autore. Non solo, ma di essi già chiara traccia si ha, come abbiamo veduto, in Filone l'Ebreo, che certo sfruttava una tradizione interpretativa ormai cristal- lizzatasi; in certi testi magico-astrologici e magico-alchimistici di ori- gine egiziana; in testi che costituiranno poi il corpus ermetico; nell'in- segnamento della Scuola romana dei Sestii (tra pitagorica e stoica); nel diffuso metodo allegorico, nella diffusissima simbolica dei numeri e nelle molte pratiche magico-terapeutiche (cfr. sopra). In altra sede sarebbe ora il caso di riportare tutta una serie di testi (da Cicerone, da Ario Didimo, da Manilio,. da Filone, da Seneca, da passi astrologici e chimici certamente del I a. C.) per confrontarli con tutta un'altra serie di testi ripresi da Moderato di Gade (I d. C.), da Nicomaco di Gerasa (I d. C.), dall'autore dei Theologumma (I d. C.), dalla Tavola di Cebete (I d. C.: opera attribuita al pitagorico Cebete di Tebe, scolaro di Socrate, in cui si dà un'interpretazione allegorico- simbolica di tono pitagorico-stoico delle raffigurazioni dipmte in un quadro), da Apuleio (n d. C.), da Plutarco (n d. C.), da Numenio di Apamea (11 d.C.). Vedremmo coincidenze impressionanti, ma soprat- tutto ci renderemmo conto di come una certa tradizione culturale, par- ticolarmente formatasi tra il 11 e il I secolo a. C. (vedi sopra), sfruttando e ritagliando testi pio antichi (Platone, Aristotele, il •pitagorismo" pla- tonico-matematico, lo stoicismo di tipo Cleante - si veda in tal senso Antioco di Ascalona), giuochi ora, tra il I e il 11 secolo d. C., in fun- zione di una comune esigenza, ma in un approfondimento e sviluppo dell'uno e dell'altro motivo, a seconda non solo dei livelli sociali, ma anche della formazione culturale dell'uno o dell'altro autore e dell'am- biente in cui ciascuno si _è venuto a muovere. Entro questi limiti si possono, forse, riprendere i termini pitagorismo e stoicism in senso molto lato,- qualora con l'uno e l'altro termine ci si riferisca a pio motivi, confluenti, ad ogni modo, in una comune concezione, diversificantesi relativamente ai modi di intendere lo strutturarsi della realtà. Cos( possiamo anche dire pitagori••anli e 290    platonizzanti quelle posizioni che, nel tentativ(\ di rendere pensabile la intuita ragion d'essere del tutto, sulla scia della antica interpretazione di Speusippo e di Senocrate, traducono il discorso del reale in termini numerici e geometrici, donde tutta una simbolica di numeri. Solo che in tal caso, ed è molto indicativo, in realtà non ci si riferisce diretta- mente alla figura di Pitagora, ma al Pitagora quale avrebbe risuonato in Filolao ed Archita, da cui avrebbe, a sua volta, ripreso Platone (par- ticolarmente il Platone del Timeo) e da Platone poi certe posizioni stoiche e lo stesso Aristotele. Non a caso già dal 1 secolo a. C., a parte la notevole diffusione ch'ebbe il Timeo, erano circolati testi sotto il nome di Archita di Taranto (De mundo, De principio, De ente, De intel- lectu et sensu, De sapientia: cfr. framm. in Stobeo, Ecl., I, 41,2 e 5, 48,6; Il, 2, 4 W.; Giamblico, Protr., 3), di Onato di Crotone (De deo et divino: cfr. fr. in Stobeo, Bel., l, l, 39 W.), e un opuscolo Sull'anima del mondo, attribuito a Timeo di Locri, che è, senza dubbio, un'inter- pretazione stoica del Timeo di Platone, e molte altre opere andate sotto il nome di Pitagorici antichi, che vennero raccolte dal re Giuba II di Numidia (50 a. C.-23 d. C.) (si confronti Cicerone, Rep., l, 15 e la sin- tesi di Antioco di Ascalona). Si vede bene come, in questa direzione "pitagorismo," "platonismo," "stoicismo," potevano servire a rendere conto di una visione ordinata e armonica della realtà, tale, appunto, in quanto possibile d'essere mi- surata (razionalizzata) e per cui. i numeri divenivano i simboli stessi delle cose, la ragion d'essere della realtà, e dove assumeva un suo si- gnificato scientifico l'astrologia e la divinazione, lo studio delle rifrazioni dei lumi stellari (da cui anche gli studi di ottica e di diottrica), lo studio di tecniche, mediante cui operare su quei numeri stessi, sulle anime- n!Jmeri, sui dèmoni-numeri, interpretati come leggi intermedie tra la suprema ragion d'essere (la monade) e il costituirsi delle cose sensibili, in un ordinamento (di diade in diade) della informe materia (appunto perché informe, essa non numero, non ragione, non essenza). E qui si ripresentava il grosso problema dell'eternità del mondo uno nell'unità di Dio sempre in atto, ove i cangiamenti sono interni a ciascuna realtà nell'ordine del tutto -per cui in effetto nulla cangia, - o del mondo le cui qualità si scandiscono nel tempo attraverso la·tensione qualificante del principio primo, che agisce, mediante il realizzarsi dei modelli in atto in lui, sulla informe materia, da cui il processo del mondo e una degradazione del mondo fino al limite materia, l'ostacolo che resta e su cui, perciò, si può operare. Entro questi termini ci si rende conto della polemica tra coloro che sostengono l'interpretazione del tutto in chiave stoico-aristotelica (ove forse giuocava ancora una certa tesi di Panezin) e coloro che sostengono la tesi del mondo che ha una realtà  291   temporale, in un conflitto tra il principio attivo e la materia informe e pura quantità dalla cui tensione si costituiscono in gradi le qualità, pensabili in quanto numerabili, numeri che divengono le stesse leggi dell'esserci fisico, geometrico delle cose, oppure in quanto costituirsi di cose, rifrazioni del principio divino, anime divine, in una graduazione fino al limite materia (stoicismo interpretato in chiave platonico-pitago- rica: forse con influenze di Posidonio). Sotto questo secondo aspetto sembrano evidenti il significato e l'im- portanza dati alla magia operativa da un lato e, dall'altro lato, interme- diario il filosofo, che in sé rivive l'anima di Pitagora, egli dèmone, l'im- portanza data all'insegnamento purificatorio, incantatorio, terapeutico, in funzione degli incolti, sui quali piu facile è, mediante certe tecniche, operare una purificazione, sapendo giuocare sulle forze occulte, nervose (demoniache e divine), o sulle diete e abitudini di vita, sulle incanta- gioni musicali, danzatorie, e cultuali. E si badi che in questo secondo caso, invece di rifarsi al pitagorismo razionale, a un modo d'interpretare il Timeo, risalendo ad Archita e a Filolao, ci si rifà direttamente a Pitagora, o meglio al Pitagora della leggenda (che sembra già risalire alla perduta Vita di Pitagora di Aristotele), alla "Vita di Pitagora," di Pitagora "sciamano," anima personale che s'incarna di volta in volta, che si allontana per certi periodi dai oorpi, che compie miracoli, di Pitagora, in realtà, medico e iatrosofista, sr come lo fu Empedocle, a cui, appunto, ora, Pitagora viene avvicinato (cfr. I vol.). Non a caso - sotto questo secondo aspetto - fino dal I secolo a. C. erano circolati un De Pythagora, un De IIÌrtute e un De pietate attribuiti a Theano (d. SudoJ, Stobeo), la leggendaria sc6lara di Pitagora/ mentre si scri- vevano versi, sostenendo ch'erano dello stesso Pitagora. Basti, qui, rileg- gere i 71 versi dei Detti aurei (Xpua« ~). : Onora anzitutto gli dèi, come vuole la legge e rispetta il giuramento. Onora quindi gli eroi gloriosi e i geni terrestri, agendo in conformità delle leggi. Abbi rispetto per i tuoi genitori e per quanti maggiormente ti sono legati da parentela. Fatti amico di chi è migliore di te per virt6... La Potenza abita vicino alla Necessità. Sappi ciò e abituati a dominare le seguenti pas- sioni: il ventre, il sonno, la lussuria, l'ira... Sii giusto nell'agire e nel par- lare... Non ti comportare sconsideratamente. Sappi che è destino di tutti 1 Ricordiamo qui anche un De virtulibus del 1 sec. d. C.,. scritto sotto l'inftucnza di Antioco di Ascalona, attribuito a Theagcs (cfr. in Stobco, Ecl., III, l, 117, W.); un De pnulenlia et felicilllte (cfr. in Stobeo, D, 8, 24), attribuito a Critone; un De animi lrtmquillilllte attribuito a lpparco (Stobco, Ed., IV, 44, 81); un De virt~~~e, attri- buito a Mctopo di Sibari (Stobeo, Ed., III, l, 115); un De re publica c un De feli- CÌIIIte (Stobeo, Ecl., IV, 39, 26; IV, l, 93-95; IV, 34, 71) attribuiti a Ippodamo di Turii; un De vita (Stobeo, Ecl., IV, 39, 27) attribuito a Eurifamo. 292    morire. Le riccb,ezze sappi ora acquistarle, ora perderle••• Non si deve tra- scurare la salute del corpo, ma bisogna essere moderati nel bere, nel man- giare, negli esercizi. Chiama misura quella che non ti nuocer~. Abituati a una vita semplice... Ottima è la moderazione... [Attraverso una vita ordi- nata e misurata ci si colloca] sulle orme della divina vimi: sf, per colui che alla nostra anima rivelò la tetraJc.tys, fonte dell'eterna natura... Cono- scerai che in tutto c'è una uguale natura, s{ che nulla tu speri d'impossibile e nulla ti sfugga... Saprai che gli uomini soffrono per mali ch'essi stessi si procurano: infelici, che avendo vicini i beni, non li vedono e non li odono. e pochi sanno come liberarsi dai mali... Oh padre Zeus, ceno tu potresti libe- rare tutti da molti mali, se a tutti mostrassi qual è il loro Dèmone [la pro- pria condizione]. Ma tu stai di buon animo, perché divina è la stirpe degli uomini, ai quali la natura, svelando i suoi misteri, mostra ogni cosa. E se tu in pane apprenderai queste cose, conseguirai ciò che io ti prescrivo, e guarirai e libererai l'anima da questi travagli. Astienti dai cibi di cui -ti parlai; nelle purificazioni e nella liberazione dell'anima agendo con giwti- zia, e considera ogni cosa ponendo in alto la ragione, ottima guida. Che se, lasciato il corpo; giungerai al libero etere, sarai ·un dio immonale e incorruttibile, non piu un mortale. Cosi, d'altra parte, apriva il suo Commmto ai D~ti aurei Ierocle di Alessandria (metà del v secolo): "La filosofia è purificazione e perfe- zione della vita umana; purificazione dalle affezioni della bruta ma- teria e del corpo monale; perfezione in quanto restituisce all'uomo la beatitudine propria della vita e lo riconduce a farsi simile alla divinità (7tpbç ~v .k(«V 6tJ.o(6>atV~" Sembra, infine, interessante ricordare che questo secondo aspetto della ripresa pitagorica, in funzione educativa e precettistica, a cui poteva servire anche la CII vita platonica" e CII stoica" - interpretata in senso purificatorio-terapeutico, - soprattutto lo troviamo nelle aree, di- remmo, culturalmente depresse, piu che nella vecchia Grecia, in quei paesi ove la cultura si manteneva ai livelli delle classi superiori. 2. Tra platonismo e pitagorismo. Da Alessandro Poliistore allo pseudo- OC'ello. Moderato di Gades e NiC'oma&o di Gerasa Rintracciamo, cosi, una netta linea che risale al I secolo a. C. circa, a carattere piu strettamente razionalistico-matematico, in una inter- pretazione di motivi platonico-stoici, in funzione di una comprensione logica del tutto, dell'unica divinità. Tale linea - a parte il fiorire dd complesso di trattatelli pseudo pitagorici cui abbiamo fatto cenno - si scandisce dal pitagorico Alessandro Poliistore di Mileto, vissuto nel  293   I secolo a. C., che compose un'opera sui Simboli pitagorici é una Suc- cessione dei filosofi (sfruttata da Diogene Laerzio), al trattatello Sulla natura del Tutto (mpl Tijç -rou 1tor.vròç cpoaewc;); opera senza dubbio di scuola, certo composta nel I secolo d. C., attribuita al pitagorico Ocello lucano, i cui scritti sarebbero stati conosciuti da Platone attra- verso Acchita (è dimostrato che le lettere che Platone e Acchita si sarebbero scambiate e da _cui si rileva la notizia dell'interesse di Pla- tone per Ocello, furono messe in circolazione proprio tra il I a. C. e il I d. C.; e che non senza significato è il voluto accostamento tra Pla- tone e i pitagorici Archita e Ocello). L'operetta dello pseudo-Ocello si può, per altro verso, avvicinare al De mundo dello pseudo-Aristo- tele. In ambedue le opere troviamo lo stesso sforzo di risolvere in ter- mini razionali l'unità e molteplicità dell'Universo in una sola unità in cui giuocano - come abbiamo già veduto per il De mundo - motivi stoici, aristotelici, platonici. Opera divulgativa, il trattatello Sulla natura del Tutto riproponeva in termini drastici la questione dell'Uno tutto, tutto in atto, aristotelicamente, o l'altra questione dell'Universo tempo e gradualità. Entro questi termini si svolgerà la linea del "pita- gorismo platonico" e del "pitagorismo aristotelico," in realtà tra di loro molto piu vicini, nel comune sfondo stoico, di quanto possa sem- brare a prima vista, anche se talvolta di contro all'unità che tutto risolve in sé si opporrà una realtà ribelle, una materia, che spieghi di contro al razionale e al comprensibile, e per ciò stesso Bene, l'irra- zionale, l'incomprensibile, cioè l'assurdo, il Male, portando ad estreme conseguenze il rapporto Intelligenza-Necessità del Timeo platonico e la morale tensione stoica tra azione e passione, in cui consiste la virtu come fatica e pena, ed ove è senza dubbio presente una certa ispira- zione del dualismo iranico (cfr. poi Plutarco). Dice, dunque, Alessandro Poliistore, secondo quanto riferisce Dio- gene Laerzio: Alessandro, nelle Successioni dei filosofi afferma di aver trovato anche queste cose nelle Memorie pitagoriche. Principio di tutte le cose è la mo- nade: dalla monade nasce la diade infinita, che sottostà come materia alla monade che è causa; dalla monade e dalla diade infinita nascono i numeri; dai numeri i punti; da questi le linee, da cui le figure piane; dalle figure piane le figure solide; da queste i corpi sensibili, i cui elementi sono quat- tro: fuoco, acqua, terra, aria che mutano e si svolgono per il tutto, e da questi risulta il cosmo animato, intelligente, rotondo che contiene al centro la terra anch'essa rotonda e abitata... Nel cosmo v'è luce e tenebra in parti uguali, e caldo e freddo, e secco e umido; quando prevale il caldo v'è l'estate, quando il freddo l'inverno (quando il seeco la primavera e quando l'umido l'autunno); se il freddo e il caldo sono in equilibrio si hanno le 294    parti piu belle dell'anno... L'aria che è intorno alla terra è immobile e mal- sana e tutto quanto è in essa è mortale; ma l'aria altissima è in eterno moto e pura e salubre e tutto quanto è in essa è immortale e perciò divino. n sole e la luna e gli altri astri sono divinità, ché in essi prevale il caldo che è causa di vita. Vi è affinità tra uomini e dèi, per il fatto che l'uomo partecipa del caldo; ed è questa la ragione per cui la divinità è nostra provvidenza. Il fato governa il tutto e le parti... Tutta l'aria è piena di anime, ritenute dèmoni ed eroi, da cui sono mandati agli uomini i sogni e i segni di malat- tia e di salute e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e a tutte le altre bestie. E per essi si fanno le purificaziorii e i sacrifici apotropaici e ogni specie di divinazione e vaticini e simili... La virtu, la sanità fisica, ogni bene e la divinità sono armonia; perciò anche l'universo è costituito secondo armonia. Anche l'amicizia è uguaglianza armonica... La purità si consegue con i riti della purificazione (Diogene Laerzio, VIII, 24-33). Nell'opuscolo Sulla natura del Tutto dello pseudo-Ocello si pone che il tutto è sempre in atto e che il nascere e il perire delle cose è interno all'ingenerato ordine dell'Universo, in una trasmutazione degli elementi. Tutto è perciò calcolabile e riducibile a leggi che co- stituiscono la stessa espressione in atto della Legge suprema, in una tensione tra principio attivo e passivo, che molto chiaramente indica l'ispirazione stoica di origine paneziano-aristoi:elica, risolta in termini pitagorici : A me sembra che il tutto non sia stato prodotto e che sia ingenerato... Chiamo complesso (6Àov) ciò che viene detto tutto ('rò 1tiv). l'ordine nella sua totalicl (-rò x6cr(J.OV)... Esso è l'insieme compiuto e perfetto della na- tura e di tutte le essenze. Nulla è al di fuori di lui. Se qualcosa esiste, esiste in lui· e con lui. Comprende tutti gli esseri diversi, gli uni come parti, gli altri come produzioni accidentali. Ne segue che le cose contenute nel mondo hanno afli.nicl e accordo con lui. Il mondo, invece, non ha alcuna aflinità e alcun accordo con se stesso; tutte le altre cose sussistono, avendo una natura non perfetta in sé, avendo ancora bisogno di legame con le cose che esistono fuori di loro, come gli animali con la respirazione, la vista con la luce... t nel tutto o nell'universo che ha luogo la generazione e la causa della generazione... [Entro l'Uno tutto, monade, si distinguono le diaài, le quali si risolvono neWuno stesso, costituendo comunque le parti dell'uni- verso e la loro opposizioneJ•.. Tutto ciò che è, sarà, ché la natura è sempre da un lato attiva e in moto, e, sempre, dall'altro lato, passiva e in riposo; sempre da un lato governa, sempre, dall'altro, è governata... [Entro tale universoJl'uomo, in ciò che lo riguarda, deve essere considerato come avente un rapporto diretto con la struttura dell'Universo stesso, sf ch'essendo parte di una famiglia, di una città, e soprattutto del mondo, deve supplire a ciò che sta per venire meno, se vuole adeguarsi alla società, alla politica  295   e alla divinità... [Di qui, in tale adeguazione alla politèia cosmica, ove tutto è armonia e misura, la virtU intesa come rapporto sociale, misura e armonia] (Ocello, I, 2 sgg., ed. Harder). Entro questi termini assumono un particolare inteiesse le pagine di Sesto Empirico (Adv. math., X, 260-284) sul significato del numero, ove, certo, Sesto si riferisce alla corrente platonico-pitagorica di que- st'epoca, tesa a interpretare in termini numerici (razionali) i termini componenti la realtà e la ragion d'essere del tutto, per cui era neces- sario postulare l'identità tra quelli che sono i modi di funzionare della ragione umana (anima) e le leggi (traducibili in numeri), ragion d'essere delle cose, a loro volta risolventisi nella ragion d'essere dd tutto (l'uno o divinità), per cui l'uomo, avendo in sé il divino numero dell'anima, può ricostruire e percorrere il discorso matematico della realtà, fino a identificarsi, intuitivamente, con quell'uno tutto che è il divino, divenendo appunto simile a Dio, nel suo tendere all'ugua- glianza divina (7tpÒç ~v &&tcxv 6!Lo(waLv). Tale sembra, attraverso i frammenti che possediamo dei suoi Com- menti pit;agorici (ITu&otyopLxotl axoÀot(), in undici libri (in Porfirio, Vita Pythagorae, 48-51; in Simplicio, In Phys; Arist., p. 230, 41-231, 25 Diels; in Stobeo, Ecl., l, 49, 32 W.), la posizione di Moderato,2 nato a Gades (Cadice), vissuto nel 1 secolo d. C., parente di Giunio Moderato Columella, il celebre autore del De rustica. Molto finemente Moderato di Gades pot~va rendere pensabile il rapporto stoico, principio attivo (spirito) e principio passivo (materia), risolvendo i due principt fisici (forze) in principi aritmetico-geometrici. Egli cosr interpretava la ma- teria (certo aveva presente il Timeo di Platone) non come realtà per sé, ma come spazio, .cioè come indefinita estensione logica, condizione perché sia pensabile ogni possibile costruzione, la cui altra condizione è la qualificazione, la misurabilità, ci~ la numerabilità. Si vede bene cosr come per Moderato sia possibile il discorso intorno all'ineffabile Uno tutto, solo se esso viene simbolicamente indicato come un· numero, matrice di tutto il numerabile, esso di là dall'essere e dall'essenza, per cui esso è potenzialmente tutto. Tale, anche secondo Moderato di Gades che raccolse in undici libri i plaeita dei Pitagorici, il significato della dottrina dei numeri... Poiché, con li Iberico, nato a Gades (Cadice}, vissuto nel 1 secolo d.C., Moderato, parente di Giunio Modetato Columella, autore del De re rustica, visse a Roma. Scrisse in greco un'opera in undici libri, intitolata Commenti Pitagorid (Ilu&cxyopucotl axo>.cd), di cui sono rimasti alcuni frammenti in Porfirio (Vita Pytllag.}, Simplicio (In Pllyt.}, Stobeo (Ed.). 296    il discorso, è impossibile spiegare con chiarezza i principi primi, difficilissimi sia ad essere compresi sia ad essere espressi, ci si rifugiò nei numeri per rendere piu esplicita la tesi pitagorica. Si imitarono cosi gli studiosi di geo- metria e i grammatici. I grammatici, infatti; per esprimere gli elementi e le loro possibilità ricorrono ai segni e sostengono che questi sono i primi elementi dell'apprendere. Eppure essi dicono, poi, che quei segni non sono gli elementi, ma che mediante quei segni si possono conoscere i veri ele- menti. Lo stesso fanno gli studiosi di geometria: incapaci di esprimere con parole le forme incorporee, si valgono delle figure disegnate. Essi dicono, ad esempio, che questo che disegnano è un triangolo, solo che non intendono questo triangolo qui, che si vede con l'occhio fisico, ma quello espresso da questa figura, concepibile mediante essa, e mediante cui la mente può rap-. presentarsi il concetto del triangolo. IIl medesimo esempio si trova nella pagina sopra citata di Sesto Empirico, Adv. Math., X, 249, 259-260.] Lo stesso fecero i Pitagorici in relazione alle forme prime... Non potendo espri- mere in parole le forme incorporee e i principi primi, fecero appello alla dimostrazione mediante i numeri. Essi cosi chiamarono uno il concetto di unità, identità, uguaglianza, causa della cospirazione delle cose, della loro simpatia e conservazione dell'universo, che si comporta sempre nel mede- simo modo, secondo ·una stessa legge. Uno è, difatti, ciò che si trova nei particolari e che esiste in quanto unità e cospirazione delle parti, parteci- pando della causa prima (Porfirio, Vita di Pitagora, 48 sgg.). D'altra parte, l'unità o identità o uguaglianza (simbolicamente in- dicate con uno), senza di cui non potremmo parlare di nulla (ciascuna cosa è tale in quanto è una), non sarebbero senza l'alterità, la differenza, la distinzione (simbolicamente indicate con due), per cui ciascuna cosa è una (non potremmo dirla una, se non la opponessimo ad altra). Chiamiamo, invece, due i l dualistico concetto di diversità, disugua- glianza, divisibilità, mutabilità, cangiamento. E tale è, appunto, la natura della dualità nelle cose particolari... Infine, poiché esiste in natura qualcosa che è fornito di principio, di mezzo e di fine, che è uno e due, a tali forme e nature attribuirono il numero tre, per cui qualsiasi cosa avesse un ter- mine medio veniva detto triforme, tre, ovverossia perfetto (Porfirio, Vita di Pitagora, 50-51). Poiché, dunque, l'uno non è senza il due, e la dialettica dei due termini è il tre, l'Unità (Monade), proprio in quanto potenzialmente tutto, non è se non in atto, cioè se non si pone come altro da sé, di fronte a sé (diade), per cui entro l'Unità si pone - in immagine sotto l'Unità che la contiene- la monade seconda, l'Unità della molteplicità, il mondo delle forme intelligibili, delle Idee. In sé non reali né l'uno né il due, le due Monadi sono in quanto presenti all'anima, terza  297   unità che logicamente segue dalla prima e dalla seconda monade, e che, perciò, partecipa della Unità prima e della unità-molteplicità (intelli- gibili). Termine medio l'Anima, iQ essa s'incentra l'Universo: volta da un lato verso le specie e attraverso queste verso l'Uno tutto, dal- l'altro lato, davvero coglie l'Unità prima, in quanto m'Scorre l'Uno mediante le forme, cioè in quanto si volge alla molteplicità che, co- stituendo il discorso delle forme, è la sensibilità, la figurazione, la cui condizione è lo spazio informe, l'estensione pura, la materia, essa stessa dunque essenziale in quanto nell'intelligibile, esistente non per sé, ma come riflesso (ombra) della materia che è ndl'intelligibile. Anche se filtrata attraverso Porfirio, sembra ora di notevole inte- resse la testimonianza di Simplicio sul motivo dell'Uno-Intelletto-Anima- Materia, secondo Moderato di Gades. Moderato, seguendo i Pitagorici, dichiara che l'Unità (1tpé;)-rov lv) è al di sopra dell'Essere (-rò c!vatt) e di ogni essenza (1t«aatV oùatatV), mentre il secondo uno (-rò 3è 3e:U-rcpov lv), in cui consiste ciò che è [che è in quanto è definito] e l'intelligibile (&tep l<JTt -rò ~V't'c.>ç ~v xatl VO'Yj't'6v), dice essere la specie (-ra ct3YJ); il terzo uno, infine, egli sostiene consistere nel principio vitale (-rò ljiuxtx6v), che partecipa dell'uno e della specie, mentre la natura che viene dopo questa, costituita dai sensibili non parte- cipa piu dell'uno e degli intelligibili, ma, per dire cos{, di essi si adorna, ombra riflessa della materia che è negli intelligibili, materia ch'essendo del primo non essere è solo quantità, per cui si trova ancora pi6 in basso (~a xat-r' l!Lql«atv ixctv(J)v xcxoa!Llja&ott, Tljt; lv atÙ't'o'Lç GÀYJt; -rou IL~ ~not; 7tp6>-r(J)t; lv -réj) 1toaéj) ~not; oGaY)t; axtata!L« xatl frt ~ov ~(X­ ~YJxutatt; xatl ci1tò -roU-rou). Anche Porfirio, nel secondo libro de La materia, riproponendo la tesi di Moderato, ha scritto che "volendo la ragione mona- dica (6 b.ltati:ot; Myot;), come dice Platone, costituire da se stessa la genera- zione degli esseri, stabiH la quantità di tutte le cose (-rljv 1tOa6't'YJ't'at 1tM(J)V), come privazione di se stessa, privandola appunto della sua razionalità e intelligibilità. Moderato ha chiamato ciò quantità amorfa, indistinta, senza figura, atta a ricevere forma, distinzione, qualità, e cos{ via. Sembra, egli dice, che Platone abbia dato piu nomi a questa quantità, dicendola ricetta- colo informe e invisibile e 'riluttante al massimo a partecipare dell'intelli- gibile,' afferrabile a stento 'con un regionamento bastardo' e cos{ di se- guito. Tale quantità, dice Moderato, e tale specie (c!3ot;), intuite come pri- vazione della ragione monadica, di ciò che abbraccia in sé tutte le ragioni degli esseri che sono, è ,esempio della materia dei corpi, che, diceva Mode- rato, i Pitagorici e Platone chiamavano quantità, ma che in effetto non va intesa come quantità intelligibile (-rò 6>t; c!3ot; 1toa6v), ma come priva- zione, dispersione, estensione e cos( via, come deviazione dell'essere e, perciò, male, in quanto fugge dal bene..." (Simplicio, In Phys., p. 230, 41-231, 25, Diels). In realtà tutto sempre in atto, logicamente l'Unità vivente è affer- rabile entro i termini di una Unità-alterità in cui ripercorrere i mo- menti logici, che si possono scambiare in simboli numerico-geometrici: unità (uno), alterità (due), unità dell'alterità, anima (tre), numerabilità che implica l'indefinita quantità, l'idea dell'estensione non definita (ir- razionale), perché sia possibile la misurazmne (materia-spazio), cioè i termini geometrici, costituenti, mediante i loro rapporti, figure piane e solide, i corpi, che possono dunque cangiare, comporsi e ricomporsi, ma le cui essenze restano sempre i numeri. \ Sembra ora opportuno sottolineare il significato di due motivi, che si ricavano da Moderato, il cui sviluppo avrà grande importanza nella storia dell'interpretazione da un lato del rapporto Essere-Uno e Intel- ligibili, dall'altro .Jato della materia. Posto che l'Essere, in quanto fon- damento e ragione (causa) di tutto non può non essere che Uno, l'Uno in quanto tale è al di là dell'esistere e delle essenze, egli causa delle essenze e delle esistenze. L'Uno perciò ha in sé tutte le possibilità. Entro questi termini, riprendendo il concetto della monade pitagorica e il discorso delle idee-numeri di Speusippo e di Senocrate, sembrava potersi risolvere l'aporia del Parmenide di Platone. Certo, dopo il Parmenide e il Teeteto, anche Platone (Sofista, Filebo) suggerisce la possibilità di interpretare l'Essere non piu come una massiccia realtà, ma come unità dialettica, cm:Ìle pensiero uno che è tale in quanto discorso esplicantesi, per cui le stesse idee tutte potenzialmente nel- l'uno-pensiero, sono in quanto guise (e proprio per questo non piu idee nel senso, ad esempio, del Pedone), leggi - traducibili perciò in numeri - della esplicazione stessa del Pensiero. Una simile interpreta- zione del Parmenide - Teeteto - Sofista - Filebo, filtrata attraverso il motivo della monade-diade, sviluppato dai pitagorici del I secolo a. C., e il motivo del l&gos spermatik6s stoico, rendeva pensabile la ragion d'essere del tutto, il divino uno che ha potenzialmente in sé, se cosr vogliamo dire, il mondo intelligibile (mondo delle idee, perciò non piu inteso come a sé, idee qualità accanto a idee qualità, indiscorribili). Le idee, dunque, appunto perché tutte nell'Uno, nell'Uno-pensiero, nel- l'Uno-pensiero sono- qualora si assuma logicamente l'Uno come a sé, condizione prima - indiscernibili. Proprio perché capacità di dare forma, sono, nell'Uno, informi. Esse sono solo in quanto esplicazione dell'Uno, che non è se non in quanto esplicazione, se non in quanto alterità. Sotto questo aspetto sembra esatta la tesi del Dodds secondo cui con Moderato di Gades si avrebbe una prima interpretazione neo- pitagorica del Parmenide. di Platone, della quale vi sarebbero tracce in una correzione che Eudoro di Alessandria (fine del I secolo a.C.: cfr. sopra) fece di un passo di Aristotele (Metafisica, l, 988a, 10-11)  299   discutendo delle cause di Platone. Dice Aristotele: "le specie sono cause delle altre cose,. s1 come delle specie è causa l'uno" (-rcì: ycì:p d31) 't'OU -n m'" othr.ot 't'O~ ~or.ç, 't'O~ 3'et3ea'v 't'Ò l.v). Secondo Alessan- dro di Afrodisia (In Metaphis., pp. 58, 31-59, 8, ed. Hayduck), Eu- doro avrebbe corretto cos1: "delle specie e della materia cau,sa è l'Uilo" ('ro~ 3'e:t3eaLv -rò lv X«l 't'7j 6>..n). Il Dodds, concludendo, vede nel- l'Uno di Moderato di Gades l'origine dell'"Uno" neoplatonico (Dodds, The Parmenides of Plato and the. origin of the Neoplatonic ((One," in "Class. Quart.," pp. 129-142). Bisogna qui aggiungere che una volta risolto l'Uno platonico nell'assoluta monade che ha in sé tutte le possibilità (il mondo intelligibile), la stessa interpretazione della ma- teria quale si trova nel Timeo, si imposta su di un piano diverso: anche la materia cioè poteva non piu essere considerata come realtà a sé informe, ma come uno degli intelligibili dell'Uno. L'essenza materia si poteva considerare come l'idea estensione, la forma dell'informe, condizione della realizzabilità delle forme, la cui esistenza diviene l'om- bra riflessa dell'idea materia. Che tale interpretazione del rapporto Uno-mondo delle idee di Pla- tone fosse interpretazione diffusa, o almeno una delle possibili inter- pretazioni che circolavano nel 1 secolo d. C., è testimoniato, oltre che da Filone l'Ebreo, da Seneca, che, proprio perché la riferisce con un . semplice accenno, accanto ad altre interpretazioni, la fa intendere come tesi abbastanza nota. Dice Seneca: il mondo delle idee è "il modello che ha avuto l'artefice davanti a sé nell'eseguire l'opera, che aveva deliberato di fare. Non ha importanza poi se egli questo mo- dello l'abbia avuto sotto gli occhi fuori di sé, oppure concepito nella sua immaginazione e tenuto cosi presente. Questi esemplari di tutte le cose Dio li ha in se stesso, e di tutte le cose che deve fare abbraccia il numero e.la misura: egli è pieno di tutte queste figure, da Platone chiamate idee, immortali, immutabili, instancabili" (Lett. a Ludlio, 65, 7). Non solo, ma sempre in Seneca troviamo anche la possibile in- terpretazione della materia intesa non come realtà a sé, bens1 come realtà dovuta allo stesso Dio (cfr. Natura/es quaestion~s, l, Praej., 16) motivo, d'altra parte, presente in Filone l'Ebreo, come già abbiamc veduto, anche se in Filone sia il mondo intelligiliile sia la materia sonc dovuti ad un atto di volontà di Dio persona. E allora, la testimonianu di Simplicio, che riferisce la testimonianza di Porfirio sulla materia quale è intesa da Moderato di Gades, assume una sua prospettiva sto- rica abbastanza notevole e sembra chiaro in che senso Moderato possa dire che la materia esistente non è realtà per sé, non partecipa in quanto assunta per sé né dell'uno né degli intelligibili, ma è ombra ri- flessa della materia che è negli inteUigibili, e in che senso Eudoro cor-  300   regga la frase aristotelica, affermando che l'uno è causa degli intelli- gibili e della materia. Entro questi termini si trasforma qui sia il concetto platonico di materia amorfa, di puro ricettacolo a sé, di madre che accoglie in sé tutte le cose (cfr. Timeo, 50 b-à), sia il concetto aristotelico di materia intesa come soggetto (u7toXE((Uvov) (Fisica, l, 9, 192 a, 31; Metaf., VIII, l, 1042a, Zl), o anche come potenza (dr. Platone, Timeo, 50 b; Aristotele, Metaf., VII, 7, 1032a, 20), sia il concetto stoico di materia sostanza prima (dr. Diogene Laerzio, VII, 150) intesa come quantità passiva (Diogene L., VII, 134) su cui si esplica l'azione qualificatrice del principio attivo;. o meglio, pur mantenendosi il concetto di materia soggetto, potenza, quantità, essa in quanto pensabile (non con un ragionamento bastardo), cioè in quanto avente essere, non può non essere che risolta nell'uno stesso, divenendo materia intelligibile, idea di estensione, condizione, insieme agli altri intelligibili, dell'uno, che non è tale se non nella sua stessa esplicazione e discorso (Uno--Intelletto- Anima-Materia), per cui non c'è piu bisogno di prendere la materia come realtà per sé, come ente irrazionale opposto all'ente razionale. Vera e propria introduzione a una teoria dei numeri, nei termini di quelli che erano stati i risultati della matematica greca è l'Introdu- zione aritmetica, •ApL&(L7JTLX~ &taqwylj, dell'arabo Nicomaco di Ge- rasa,8 vissuto a cavallo del I-II secolo d. c. (Nicomaco nel suo Ma- nuale di armonia cita Trasillo, scrittore di cose musicali vissuto sotto Tibcrio, mentre Cassiodoro nel De artibus ac disciplinis liberalium lil- terarum, c. IV, Migne Patr. lat., vol. 70, p. 1208, afferma che Apuleio di Madaura, vissuto nel n secolo, tradusse in latino la diligente espo- sizione della disciplina aritmetica di Nicomaco di Gerasa). L'intento di Nicomaco di Gerasa è volto a determinare su di un piano logico le condizioni che permettono l'arte di combinare i numeri (non a caso il titolo della sua opera fondamentale, di cui pos- sediamo due libri, è intitolata •ApL&(L7JTLX~ Elacxywylj, cioè lntrodu- ?:ione alfarte dei numen). Come Euclide definisce il punto, quale con- dizione e termine di qualsivoglia costruzione geometrica, cos1, indipen- dentemente da ogni raffigurazione geometrica (sensibile), Nicomaco, definito il numero, deduce tutte le ·possibili combinazioni dei numeri da quell'unica definizione di numero ("numero è molteplicità rac- BDiNicomaco,v~nellasecondametàdel1secolo,natoaGerasa,sappiamo molto poco. Della sua lntroduaio arithmetic11 sono rimasti due libri; intero è perve- nuto il MtmUIIle di amioni11; delle sue altre opere (Theologi11 arithmetic11, lntrodUt:tio lfeometl'i~~e, lntrodUt:tio 111tronomi~~e) non sono rimasti che frammenti. Nicomaco scrisse anche una Vitti di PiiiiKor•, una Vitti di Apollonia di TilltJII e un trattatello Sui riti egisitmi.  301   chiusa entro term1ru, o un ms1eme di unità, o un flusso, X,U!J.«, di quantità, costituito di unità; la prima divisione del numero è il pari e il dispari": lntr. an"tm., l, VII). Tale deduzione, o meglio ex-plica- zione della molteplicità implicita nell'unità si determina in un perfetto giuoco di combinazioni e separazioni di numeri, di rapporti e propor- zioni, per giungere, infine, attraverso tale costruzione, risultante dd discorso logico tradotto in simboli numerici, a ricostruire la realtà entro questi stessi termini, ove i principt, impliciti nell'unico principio (unità), divengono, appunto, gli stessi principi logici, simbolicamente assunti come numeri. L'importanza storica di Nicomaco di Gerasa consiste da un lato nella sistemazione, in un sol corpo dottrinario, dei risultati, sparsi nel tempo, del sapere aritmetico - di qui lo sfruttamento deÌle sco- perte matematiche da Archita a Filolao e via di seguito, entro la linea dei cosiddetti pitagorici, per essi intendendosi, in fondo, i matematici;- dall'altro lato nel non indifferente sforzo di presentare un possibile tipo di ragionamento, un tipa di logica (matematica) che poteva, in via ipotetica e simbolica spiegare - indipendentemente dal ricorrere alle figurazioni geometriche - le essenze non corporee, cioè le leggi su cui si scandisce il ritmo della realtà. Nicomaco risolveva in tal modo le aporie implicite nell'Unità posta dal Parmenide di Platone, in un discorso aritmologico che spiegava, per altro, ·1o stesso snodarsi dal- l'Uno del discorso del tutto in termini geometrici (sensibili), svelando cosi il mito del Timeo (1, 2, l; II, 18, 4), puntando sul significato dato al numero nell'Epinomide (1, 3, 5; dove si cita Epinomide 991d: "ogni figura, ogni sistema numerico, ogni composizione armonica, sf come l'accordo di tutte le rivoluzioni astrali, necessariamente rivelano, a chi apprende tutto questo seguendo il vero metodo, la loro unità, e tale unità si manifesterà quando rettamente si apprenda, mai per- dendo di vista l'unità medesima: a chi rifletta apparirà, infatti, che un solo naturale vincolo articola tutti i fenomeni; chi altrimenti intra- prende tali studi dovrà invocare la fortuna..."). Non solo, ma per altra via, posta la possibilità della predicazione qualora appunto si risol- vano in numeri le condizioni stesse del pensare, Nicomaco poteva, come chiaramente risulta dal primo paragrafo del I libro della Intro- duzione aritmetica (I, l, 3, ove gli elementi immutabili si avvicinano non poco, nell'esser presentati come una lista di categorie, alle categorie di Aristotele), interpretare numericamente le categorie di Aristotele, identificandole con le stesse condizioni del discorso aritmetico dd tutto. E ciò tanto pio è chiaro quando .si tenga conto che le dieci categorie si potevano assumere come l'interpretazione logico-discorsiva della de- cade o tetrakt'Ys (quaternaria) pitagorica (cfr. I volume), in un giuoco 302    di proporzioni, mediante cui riannodare le dieci condizioni su cm s1 svolge l'universo (cfr. II, 22 e 1-22). La tetrak.t'Ys veniva rappresentata in una figura avente 10 punti messi in forma di triangolo che ha quattro punti per lato .-:\ , la cui somma l + 2 + 3 + 4 è uguale a 10. La tetrak_t'Ys cosf, racchiudendo in sé i numeri delle tre propor- zioni musicali (ottava 2 : l ; quinta 3 : 2; quarta 4 : 3) e delle quattro specie di enti geometrici (punto =l; linea= 2; superficie= 3; solido= 4), veniva ad essere la condizione di tutte le cose (non si scordi che in questo periodo circolava un libro sulle categorie che si diceva scritto da Archita. Su tutto questo si veda F. E. Robbins e L. Ch. Karpinski, in Nicomachus of Gerasa, Introduction to Arithmetic, Nuova York, 1926, pp. 94-5). L'aspetto della traduzione in termini sensibili-formali delle essenze numeriche-incorporee dei loro rapporti e combinazioni, sembra, per quel poco che ne sappiamo, che Nicomaco l'abbia studiato nella sua Introduzione geometrica (cosf almeno appare da una citazione dello stesso Nicomaco, in Intr. aritmetica, Il, 6, 1). Se da un lato, dunque, Nicomaco di Gerasa, nell'Introduzion~ aritmetica, ha determinato le condizioni di un discorso della realtà in termini di essenze puramente intelligibili, nell'Introduzione geometrica avrebbe determinato le condi- zioni perché ·sia possibile il discorso della realtà sensibile. Ci rendiamo conto in tal modo di come Nicomaco di Gerasa potesse identificare {sin dalla prefazione alla Introduzione aritmetica, I, cc. 1-6) il divino - per Dio s'intende ciò senza di cui nulla è - con il numero. Se nel numero, in quanto unità (monade) sono implicite tutte le possi- bilità (forme), l'uno è suprema ricchezza, onnipotenza, da cui tutto si dispiega (cfr. l, 16, 8; Il, 8, 3; 9, 2), esso fondamento e causa di tutte le forme della realtà, dei loro rapporti e proporzioni. In tale senso, dunque, Dio e numero-unità coincidono, sf come coincidono l'unità del pensiero che si dispiega nel suo discorso matematico-numerico e l'unità divina che si dispiega nel discorso della realtà. D'altra parte, in un testo dei Theologumena arithmeticae - se non è di Nicomaco, sembra al- meno derivare da lui, - si sostiene che Dio è come un "seme che ha in sé la possibilità di tutte le cose" (xatl 6·n "t'Òv 3e6v q>Y)aLV 6 N'XO!LatXoç .qj ~~oov<XS'!q>otp!J.O~e,v,mtep!Lat"t'U(Wçmt<XpxoV"t'atn<XVTat"t'eXh .qjq>6ae'6V"t'at•••: Theol. arithm., ed. Ast, p. 4), sf come la monade, l'uno o seme di tutta la possibile costruzione logica della realtà. Sembra, cos{, che se da un lato mediante il discorso aritmologico e il discorso geometrico, Nico- maco tendeva a risolvere su di un piano puramente logico l'Uno del Parmenide e il mito del Timeo, dall'altro lato poteva rientrare entro la medesima spiegazione la tesi stoica del logos spermatik_os. Il divino  303   principio attivo, da cui tutto deriva, poteva benissimo assumere il signi- ficato dell'unità potenza, perdendo, certo, nella traduzione in numero- unità, il suo valore di forza (spirito) fisica e spontanea (donde, poi, da parte di alcuni interpreti di Platone la polemica contro il materialismo degli stoici, con il conseguente problema della materia, principio oppo- sto, dunque, all'immateriale Uno divino). In realtà, platonismo (Parmenide, Timeo, Epinomide), pitagorismo (aritmologia e geometria), stoicismo (il principio che ha in sé tutte le possibilità che portava a interpretare il mondo delle idee platoniche come forme potenzialmente tutte presenti in Dio, in quanto ragion d'essere), si venivano ad incon- trare in unico sistema, nella possibilità di una teologia logico-aritmo- logica (Theologumma arithmeticae) cui servivano da introduzione, ma anche da dimostrazione, la teoria aritmetico-geometrica, la teoria musi- cale (abbiamo un Manuale di armonia di Nicomaco), lo studio dei rapporti delle leggi stellari (possediamo di Nicomaco alcuni frammenti di una Introduzione alrAstronomia). In altri termini, le vecchie disci- pline platoniche in funzione dell'educazione del filosofo: geometria (piana e solida), aritmetica, teoria musicale, astronomia, venivano siste- mate, dando la precedenza all'aritmetica, entro cui sono implicite la teoria musicale, la geometria e l'astronomia, quale avviamento alla comprensione scientifica del divino, cui, per altro, potevano servire, sul piano pratico, dei rapporti umarii, della propaganda e convinzione, la grammatica, ·la dialettica e la retorica. Pitagora- scrive Nicomaco nella prefazione all'Introduzione aritmetica- definisce la sapienza conoscenza e scienza della verità implicita nella realtà, concependo la scienza, sicura e immutabile comprensione di ciò che sta a fondamento (,moxe;(!U'/OV) e di ciò che nell'Universo permane sempre identico a sé e non cessa mai d'essere, neppure per poco. Tali sarebbero gli immateriali (!u>.at), quelli cioè per la cui partecipazione ciascuna cosa omo- nima, e perciò nominabile, è detta, assumendo per questo una sua realtà (-r63c n) (l, 1-2) ... Poich~, dunque, della quantità (7t6aov) un aspetto è veduto in se stesso, non avendo alcuna relazione ad altro, come pari, dispari, numero perfetto·e cosf via, e un altro aspetto è concepibile in fun- zione di altro e in relazione ad altro, come doppio, maggiore, minore, uno e mezzo, uno e un terzo e cosf via, evidentemente due dovranno essere i metodi scientifici mediante cui esaminare a fondo la quantità: il metodo aritmetico che ha per oggetto la quantità in se stessa, e la teoria musicale che ha per oggetto la quantità relativa. Ancora: quanto alla grandezza (7tYJÀ(xov), poiché l'una è in quiete e immobile e l'altra in un movimento di translazione, di conseguenza due sono le scienze che studieranno con esattezza la grandezza: la geometria ciò che è immobile e quieto; l'astro- nomia (atpa.LpLx-lj, sfairiché), ciò che si muove circolarmente. Senza queste 304    è impossibile trattare con esattezza le forme dell'essere o scoprire la verità nelle cose, nella cui conoscenza consiste la sapienza. Senza di queste, insomma, è impossibile filosofare rettamente. "Come il disegno contribuisce con la tecnica alla retta teoria, cosi le linee, i numeri, ·gli intervalli armonici e le rivoluzioni dei cieli, coadiuvano l'apprendimento del ragionamento scien- tifico (A6yov aocp6v)," come dice il pitagorico Androcide [autore di uno scritto Sui simboli, come risulta dai Theologumena arithm., ed. Ast, p. 40. Sono quindi citati Archita, Sull'Armonia, in Diels, I, 330 sgg.; e 1'Epino- mide, 991 d sgg.] ... Tali studi [geometria, aritmetica. astronomia, teoria musicale] è chiaro che assomigliano a scale e a ponti che consentono alla mente umana il passaggio dai sensibili e dagli opinabili agli intelligibili e agli scibili, e da quelli che sono i primi consueti nutrimenti infantili, fisici e sensoriali, ci permettono il passaggio aWinconsueto e a ciò che è estraneo ai sensi (1, 3, 1-6).•• Orbene, quale delle quattro discipline metodologiche è necessario apprendere per prima? Quella che per natura precede le altre, evidentemente è per diritto principio e fondamento e ha, rispetto alle altre, la funzione di madre. E questa è l'arte dei numeri [aritmetica], e non solo perché... preesisteva nella mente del Dio archetipo come ordine cosmico ed esemplare, mirando al quale, come a un disegno e a un archetipo, il demiurgo dell'universo ordina le opere materiali e fa in modo ch'esse realizzino i propri fini; ma anche perché è prima per natura in quanto implica in sé le altre discipline, senza esserne implicata (I, 4, 1-2). Pitagorismo, educazione e retorica. Apollonio di Tiana nella rico- struzione di Filostrato di Lemno e il trattato su "Il Sublime" Gia entro questi termini, se passiamo all'aspetto predicatorio-tera- peutico, usato piu che in funzione scolastica in funzione educativa, si vede bene l'importanza data alle figure e alle leggendarie vite di Pita- gora e di Platone, e alla presentazione di esempi di vita (non a caso lo stesso Nicomaco di Gerasa scrisse una Vita di Pitagora e una Vita di Apollonio di Tiana, insieme ad un trattato sui Riti egiziam). In realtà, e ce n'è buon testimonio Seneca, già con Nigidio Figulo (cfr. sopra) e poi, soprattutto, con la Scuola dei Sestii (cfr. sopra), certe suggestioni pitagoriche - almeno in Roma - erano usate in funzione educativa. Basti ricordare che Sozione di Alessandria, della Scuola dei Sestii, dopo avere cercato di mostrare, per incitare alla frugalità e a una vita misurata, che l'anima è immortale, che essa imparenta tutti, uomini e animali, per cui nulla va distrutto, che non si tratta che di cambiamento di luogo, riprendendo i vecchi t&poi pitagorici della trasmigrazione delle anime e quelli platonico- stoici, per cui non solo i corpi celesti si volgono per determinate orbite,  305   ma anche gli animali vanno soggetti alle loro vicende e che le anime sono spinte per i loro cieli, concludeva: "Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti sarai serbato innocente, se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a prestarvi fede?" (Seneca, Lett. a Luc., 108). E qui viene spontaneo il richiamo ai Versì aurei dello pseudo-Pitagora (cfr. sopra), o ai Sacri discorsi (r a. C.), o all'Inno al numero (anch'esso del I a. C.). Assunta una certa dottrina - e particolarmente suggestiva per la sua sacralità e misteriosità poteva essere l'ipotesi pitagorica della po- tenza del numero, chiara agli iniziati, cioè a chi vi si era introdotto mediante la geometria, l'aritmetica, ·la musica, l'astronomia, - essa serviva, mediante appunto suggestioni, sacri discorsi, tecniche terapeu- tiche, sapientemente usate (magiche agli occhi dei piu) ad avviare i piu ad una certa condotta di vita, cui potevano servire certi riti e certa liturgia.~ in tal senso assai indicativa la difesa che Apuleio (n sec. d. C.) fece di se stesso contro l'accusa d'essere un mago. Mago si:, egli dirà, se per mago si intende sacerdote, chi abbia studiato, chi, conoscendo le leggi e la ragion d'essere degli avvenimenti, sappia a fondo le leggi del rito, le regole dei sacrifici, le teorie del culto. Mago no, se per mago si intende "in senso volgare (more vulgan) chi abbia commer- cio con gli dèi immortali, e mediante l'incredibile forza dei suoi incan- tesimi sappia fare tutto ciò che vuole" (Apuleio, Apologia, 26). Certo, agli occhi del volgo, un uomo che, conoscendo certe tecniche, riesca, ad esempio, a far ri.tornare in sé chi sia caduto in catalessi, evidente- mente viene preso per un uomo soprannaturale, per risuscitatore di morti. Entro questi termini va considerata, almeno nel I e ancora al principio del n secolo d. C., la linea di coloro che si appellano al nome e alla figura di Pitagora, come è il caso di Apollonio di Tiana. Ma in funzione educativa, nel tentativo di curare le anime, di dare una forma e un senso alla disperata vita degli uomini, tutti uguali per natura, ci si poteva anche appellare ad altre concezioni - la stoica, ad esempio, in modo assai generico, - prospettando, difronte all'impossi- bilità umana di oltrepassare i limiti e le costruzioni della propria ra- gione, la fede nell'imperscrutabile mistero di una divinità che tutto ordina per il bene. E qui, come di fatto fu, potevano incontrarsi sia pitagorici come Apollonia di Tiana, sia cinici come Demetrio (non a caso Demetrio, oltre che di Seneca, fu amico di Apollonia), sia stoici come Musonio Rufo ed Epitteto (di cui è celebre la vena cinica, ravvi- cinabile al cinismo stoico di un Aristone di Chio), in una comune oppo- sizione sia nei confronti della quotidiana vita unilaterale e passionale del volgo, sia nei confronti del modo di vita delle classi superiori e degli imperatori, che concepiscono il potere in modo personale e indi~ 306    viduale. Il discorso si farà diverso da Nerva (imperatore dal 96 al 98) a Marco Aurelio (imperatore dal 161 al 180), con il quale sembrò realizzarsi l'antico ideale stoico del re filosofo. La presentazione della vita di Apollonia • vissuto nel I secolo d. C., nato a Tiana, in Cappadocia, educato a Tarso, scolaro, sembra, di Eutidemo di Fenicia e di Eusseno di Eraclea, la dobbiamo alla Vita, in otto libri, che di lui scrisse, nel m secolo d. C., Flavio Filostrato di Lemno, su invito dell'imperatrice Giulia Domna, moglie di Set- timio Severo, alla cui corte Filostrato, dopo avere insegnato ad Atene sulla linea neo-sofistica, venne accolto. Non va scordato che Filostrato di Lemno, su sua stessa confessione, si pone tra i neo-sofisti - si deve anzi a lui la distinzione tra sofistica antica e "nuova sofistica," che Filostrato, autore di una Vita dei Sofisti, fa cominciare nel I secolo d. C. con Dione di Prusa. - Filostrato per "sofistica" intendeva la capacità di suscitare, attraverso la conoscenza delle tecniche retoriche e del pub- blico cui si doveva parlare, certi affetti e di sopirne altri, indipenden- temente da qualsiasi contenuto, in una precisa coscienza del valore tera- peutico della parola e della sapiente descrizione della vita di certi per- sonaggi, che possano incantare e meravigliare, e servano da avviamento, rispondendo a esigenze proprie di certe mentalità, ambienti, situazioni. Se, come è oramai chiaro, la Vita di Apollonia rientra nel genere del romanzo biografico ellenistico, essa, d'altra parte, mutando quel che è da mutare, cioè la mentalità dei possibili lettori, le loro mutate esi- genze, vuol essere un saggio di alta retorica, un encomio del tipo del- l'Encamio di Elena di gorgiana memoria. Filostrato insiste con forza nel sostenere che Apollonia non fu un mago, nel senso volgare, che le sue doti taumaturgiche, i suoi miracoli, l'avere egli guarito e resusci- tato, le sue previsioni e cosi via, perfino il suo essere riapparso dopo morto a un tale, in sogno, per dimostrargli che l'anima è immortale, non sono frutto di magia operativa, ma della sua "sapienza," si come di sapienza e· non di magia furono frutto le azioni miracolose com- piute da Pitagora, da Anassagora, da Democrito, da Empedocle, sa- pienza che rivela il divino, o meglio la possibilità dell'uomo che vivendo puro fa si che la propria anima, scintilla divina, appunto perché divina, conosca le leggi e le ragioni della divinità. Apollonio - scrive Filostrato - entrò nella via battuta da Pitagora, ma nella sua ricerca della sapienza vi è un carattere ancora piu divino, ed egli si 4 La Suda attribuisce ad Apollonia di Tiana una Vita di Pitagora (dr. anche Porfirio e Giainblico: cfr. "Rhein. Mus.," 1879, p. 554; 1880, p. 23), un Inno a Mnemosine, un Testamento, lni•iazioni, Sacrifici (cfr. Eusebio, Praep. ev., IV, 12·13), Oracoli, Lettere.  307   è sollevato ben al di sopra dei re del suo tempo [non si scordi che anche Se- neca, parlando di Attalo, sottolineava - Lett. a Luc., 108, 13 sgg. - ch'egli era al di sopra di qualsiasi re, e cosf, sempre parlando di cinici, dirà Epitteto - Diatribe, III, 22, 53]. Nonostante egli sia vissuto in un'epoca né troppo lontana né troppo vicina alla nostra, in realtà non si conosce ancora quale sia stata la stia filosofia... Alcuni, avendo egli avuto rapporti con i maghi di Babilonia, i Brahamani dell'India e i Gimnosofisti dell'Egitto, pensano che sia stato un mago, e che la sua saggezza non sarebbe stata che una forma di violenza. :a. una calunnia che deriva dal fatto ch'egli è mal conosciuto. Empedocle, Pitagora stesso, Democrito, hanno frequentato i maghi, hanno detto molte cose divine, eppure non se n'è fatto ancora degli adepti della magia. Platone fece un viaggio in Egitto, riprese molto dai sacerdoti e dagli indovini di quel paese, se ne servi come un pittore che dopo aver preso un abbozzo vi mette di suo ricchi colori, é tuttavia non si è fatto di Platone un mago, sebbene nessun uomo sia stato come lui, a causa della sua sapienza, oggetto d'invidia. Anche se Apollonia ha presentito e previsto piu di un avvenimento, non lo si può accusare d'essersi dato alla magia, altrimenti bisogna rivolgere la stessa accusa a Socrate, al quale il suo dèmone ha fatto spesso prevedere l'avvenire, ad Anassagora di cui si rife- riscono parecchie predizioni... Tutto ciò che ha fatto Anassagora non v'è difficoltà ad attribuirlo alla sua alta sapienza. Per Apollonia, invece, non si vuole che le sue predizioni siano effetto della sua sapienza, e si sostiene .-:be tutto quello che ha fatto, l'ha fatto per magia. Non posso sopportare tale errore, divenuto volgare. Ecco perché mi sono proposto di dare qui dettagli precisi sull'uomo, sui momenti in cui ha pronunciato certe parole o ha fatto certe azioni, infine sul genere di vita che ha valso a questo sapiente la famadi un essere al di sopra dell'umanità, di un essere divino (Vita tli Apollonio, I, 2). - "Vivrò da pitagorico," disse Apollonia, ancora giovinetto al suo maestro Eusseno. "Grande impresa," rispose Eusseno, "ma da dove comincerai? ". "Farò come i medici," disse Apollonia, "la loro prima cura è di purgare: prevengono cosf le malattie o le guariscono." A partire da quel momento non si nutri piu con carni..., si nutrf di verdure e·di frutta, dicendo che tutto qò che dà la terra è puro... Camminò a piedi nudi, non si vesti che con abiti di lino..., si lasciò crescere i capelli... e divenne assiste-nte dd medico Esculapio... (Vita tli Ap., I, 7-8). Filostrato di Lemno ha certo tenuti presenti alcuni dati reali della vita di Apollonio: la sua educazione a Tarso, il suo soggiorno a Ege presso il tempio di Esculapio, la sua vita e il suo insegnamento itine- ranti. Apollonio avrebbe soggiornato in Babilonia, poi in India presso i Brahamani, quindi in Ionia, in Grecia, a Roma, al tempo delle per- secuzioni di Nerone contro i filosofi, poi in Spagna, ancora in Grecia, in Egitto, dove si sarebbe incontrato con l'imperatore Vespasiano, in Etiopia, dove avrebbe conosciuto i gimnosofisti. Allontanato da Roma per ordine di Tigellino, perseguitato da Domiziano, sarebbe sparito sotto Nerva. Abilmente giuocando su questi dati, sui racconti dei miracoli operati da Apollonia, sulle sue previsioni, sulle conoscenze ch'egli avrebbe avuto dei vari tipi di religione orientali e occidentali, sui suoi presunti contatti con tutti i re dei paesi visitati - in Babilonia con il re Vardano; in India con il re Fraote; presso i Brahamani con il loro supremo sacerdote !arca; in occidente, sotto Nerone, con Tigel- lino e con Domiziano il tiranno da cui venne perseguitato: assai indi- cativo sembra che, invece, con Vespasiano e con Tito sarebbe entrato in relazione di maestro e di iniziatore, - Filostrato ha costruito la vita semplice di un saggio, di un curatore e guaritore di anime, di un uomo a contatto col divino per la sua purezza di vita. "Egli ha voluto," cosf Filostrato conclude la Vita di Apollonia, "che, conoscendo la nostra natura, lietamente si vada verso il fine che ci hanno fissato le Parche" (VIII, 31). Non va per altro scordato che la Vita è stata scritta da un retore del m secolo, preoccupato di far colpo su di un certo ambiente, su cui Filostrato sapeva quanto poteva giuocare il meraviglioso e il sublime. Entro i termini delle discussioni sulle tec- niche retoriche tra la fine del I secolo a. C. e il I secolo d. C. si era avuto uno spostamento dalla retorica intesa come dimostrazione e fondata soltanto sui fatti e sulle argomentazioni credibili (n(a-rEtt;), come fu il caso della retorica oSOstenuta da Apollodoro di Pergamo (ancora con Cecilio di Calatte e il suo contemporaneo Dionigi di Alicarnasso, si proclamava soprattutto l'importanza della disposizione e dell'armonia délle parole, della metafora, in stretta osservanza e imi- tazione dei classici), alla retorica affettiva, per cui si sa giuocare sulle passioni, convincendo non mediante argomentazioni razionali, ma con l'entusiasmo, la passione, l'emozione, suscitando la meraviglia, come fu il caso .della retorica proclamata dall'avversario di Apollodoro di Pergamo, Teodoro di Gadara. Entro l'àmbito culturale e sociale, entro i termini di diffuse esigenze morali e religiose, proprie del I e del n secolo, si capisce come al di fuori delle scuole e dell'insegnamento ufficiale della retorica (rappresentato in forma istituzionalizzata e scle- rotizzata da Quintiliano) abbia prevalso l'insegnamento e la tesi di Teodoro di Gadara. Di un discepolo di Teodoro, Ermagora di Temno, sembra che sia il trattatello Sul sublime (nepl G~J~ouç), un tempo attri- buito a Cassio Longino (retore del m secolo d. C.) e a Dionigi di Alicarnasso (in un codice vaticano si scoprf che già gli antichi non sapevano se fosse di Dionigi o di Longino: mentre prima si era letto che Il sublime era di Dionisio Longino, nel codice vaticano si legge di Dionisio o di Longino; sulla vessata questione dell'attribuzione si veda ora anche D. A. Russell, Introd. a Loginus, On the sublime, Oxford). Contro la tradizione della retorica in senso aristotelico (rappresen-  309   tata ancora da Cecilia di Calatte) il Sublime insiste sul pathos, si come, di contro alla retorica intesa come avviamento all'ordine sociale e poli- tico in senso stoico (si pensi a Diogene di Babilonia), all'utile morale, il Sublime insiste sullo straordinario, il meraviglioso, il sublime ap- punto. "Veramente ammirevole è .rempre, per gli uomini, lo straordi- nario" (35, 5). "Il fine della fantasia poetica è la sorpresa, mentre quello dell'oratoria è l'evidenza: entrambe comunque ricercano il pate- tico e il concitato" (15, 2), insieme alla grandezza del discorso. E l'evidenza, in campo oratorio, la si ottiene non "a capriccio, procedendo anzi con metodo" (2,.2), usando certe tecniche da cui far scaturire il sublime (già definito da Teofrasto come uno dei possibili stili retorici). Bisogna su~citare grandi pensieri, facendo innamorare di ciò di cui si vuol persuadere. Di qui l'importanza data alla passirme e all'entusia- smo. Grandi pensieri e passioni si suscitano mediante certe appropriate figure del pensiero e dell'espressione, mediante l'altezza dell'elocu- zirme e la scelta di un argomento tale da costituire una composizirme ( crov&eatt.;), che, ispirando i piu alti pensieri, vada oltre il quoti- diano vivere, creando mondi di superiore grandezza (sublimi), velando cosi gli artifici retorici. Se il Sublime dello pseudo-Longino rispose all'esigenza di certi retori posti· difronte a un certo pubblico, la Vita di Apollrmio di Filo- strato risponde esattamente all'esigenza di altri argomenti mediante cui, suscitando il meraviglioso e il sublime, trasportare il lettore in una vita sublime, sospesa tra la realtà e il mistero. E qui bisogna ricordare che Filostrato scrisse anche gli Eroici, un dialogo sui geni e le ombre della guerra di Troia, in cui ancora piu scoperto è il gusto per lo "straordinario," e dove, per altro verso, si presentano gli eroi del passato, si come nella Vita di Apollonia si presenta la figura di Apollonia. Non solo, ma è altrettanto interessante sottolineare che l'autore del Sublime, nel 1 secolo, d'accordo con l'autore del Dialogus de oratorihus (forse Tacito) e con Seneca, sostiene che la decadenza della oratoria.e della letteratura, il prevalere in certi ambienti della pura imitazione, l'aver ridotto l'eloquenza all'applicazione di fredde regole, è frutto della situazione politica attuale, della perdita della libertà, del conformismo generale e della mancanza di alti e nobili ideali per ·i quali battersi. "Allo stesso modo che - se è vero quel che si dice - le gabbie in cui si allevano i Pigmei, chiamati nani, non solo impediscono ai rinchiusi la crescita, ma anche contraggòno loro la lingua per la museruola posta intorno alla bocca, cosi anche la ~chiavitu, sia pur la piu legit- tima, potrebbe qualificarsi gabbia dell'anima e comune prigione di tutti" (44, 5). Di qui, non solo l'importanza data al "sublime" come stile, ma all'arte come capacità di chi altamente senta, di suscitare 310    mediante immagini, di là da argomentazioni logico-matematiche, rap- presentazioni di cose e di persone che riescano a convincere pio di ogni ragionamento. Se entro quest'àmbito si vede bene nel giro di un secolo e mezzo, in mutate condizioni d'animo, la funzione assunta dalla retorica di certi neosofisti, intesa al "sublime," .rompendo contro la vita quotidiana, mediante il miracoloso e il meraviglioso, si capiscono gli intenti della esercitazione retorica e romanzesca della Vita di Apollonio scritta nel III secolo da Filostrato di Lemno. Non a caso, perciò, Filostrato di Lemno deve avere scelto la vita di Apol- lonio di Tiana. Anche se molte cose sono state da lui inventate, certo una qualche tradizione popolare, giuocando sui dati reali e sulle reali azioni di Apollonio, doveva avere trasmesso, idealizzata, la figura reale del Tianeo. In effetto, un'attenta lettura della Vita di Apollonio ci presenta un Apollonio non tanto filosofo di professione, quanto maestro di vìta, maestro itinerante, che, assunto a modello Pitagora, del quale sembra che abbia scritto una Vita, ed Empedocle - iatrosofisti e medici - esperto di tecniche mediche e incantatorie, di certi tipi di religioni orientali, con le sue parole, con i suoi atti " sublimi," presenta se stesso in "stile sublime," dando agli altri, ai piu che vivono o entro i ter- mini di una conformistica morale corrente o entro i termini di una religiosità fatta di superstizioni, di sacrifici, la "purga" adatta, per prevenire o curare i pio dalla loro malattia morale-religiosa. Sotto que- sto aspetto sembrano non poco interessanti da un ·Iato i continui rap- porti che, si dice, Apollonio avrebbe avuto con re e signori dì paesi, fino allo scontro con Nerone e Domiziano, e, dall'altro lato, l'acco- stamento con figure come quella di un Demetrio cinico, e il'suo insi- st~re, come risulta anche da fonti diverse da quelle di Filostrato, con- tro la superstizione, contro la religiosità ridotta a sacrifici e a puri rituali, il che, d'altra parte, era stato, nella stessa epoca circa, uno dei maggiori punti d'impegno dell'insegnamento di Seneca. Secondo Euse- bio, Apollonio di Tiana cosf scriveva in una sua opera tramandata sotto il titolo Sui sacrifici: lo credo che si osservi il culto conveniente alla divinità, e che solo cos{ all'uomo è concesso averla propizia e benevola in qualsiasi circostanza, se al Dio che diciamo Primo e che è Uno e separato da tutte le cose e che dobbiamo riconoscere superiore a tutti gli aii.ri, non si immolino vittime, non si accendano lampade, non si consacri alcuna delle cose sensibili. Dio non ha bisogno di alcuna .cosa... Con lui adopera solo la parola migliore, cioè quella che non esce dalle labbra, e da lui, che è il migliore degli esseri, invoca i beni mediante ciò che in noi v'è di migliore: l'intelletto, che non ha bisogno di nessun organo... (Eusebio, Praep. evan., IV, 13).  311   E in una lettera, che, tra le molte apocrife, sembra proprio di Apol- lonia, si legge: Se gli dèi non hanno bisogno di vittime, cosa si dovrà fare per avere i loro favori? Credo si debba avere l'animo ben disposto a beneficare gli uomini, per quanto è possibile, secondo i loro meriti... (Ep., 26).. Su piani diversi, ma in situazioni simili, Seneca, Demetrio, Musonio Rufo, Apollonia di Tiana (il nuovo Pitagora) potevano "benissimo incontrarsi. E cosi non è un caso che piu tardi, quando la figura del Cristo si era oramai cristallizzata, nel IV secolo, !erode Sossiano di Biti- nia potesse sostenere che Filostrato, nella sua Vita di Apoll~nio, aveva voluto mostrare come accanto ai Vangeli era possibile fare l'encomio della tradizione che aveva costruito la figura di Apollonio, e come accanto all'encomio di Cristo si poteva scrivere l'encomio di Apollonio (il "Cristo pagano"), l'uno e l'altro vicini nelle stesse intenzioni puri- ficatorie popolari · (Porfirio, anzi, giunse, nella sua opera Contro i Cristiani, ad opporre la figura di Apollonio a quella di Cristo, soste- nendo che Apollonio rappresentava il vero Salvatore), mentre altri, i cristiani, potevano tentare di recuperare Seneca - arrivando a co- struire un epistolario tra lui e San Paolo,. - ed Epitteto, di cui non poche volte fu detto ch'era cristiano. 4. Lo Stoicismo a Roma nel l secolo d. C. Lucio Anneo Cornuto. Musonio Rufo. Epitteto Interessantissima è la narrazione, da parte di Filostrato, dell'am- biente e dell'atmosfera politica, della corruzione morale e religiosa, in Roma, al tempo di Nerone, quando, si dice, vi fu anche Apollonia (libro IV, 35-47). D~ questa narrazione viene fuori un Apollonia moderatore di co- stumi, che propone se stesso quale esempio di vita misurata e saggia, simile alla figura e all'atteggiamento di Demetrio, quale risulta anche da Seneca. E ne viene fuori pure una delineazione della "filosofia" intesa come riflessione morale, come avviamento a restituire l'uomo a se stesso, alla propria dignità e libertà, alla propria razionalità, cJoè al divino, in opposizione alla corruzione imperante, in gran parte dovuta all'atteggiamento dell'imperatore. Entro questi termini, anzi, lo stesso Filostrato spiega la paura che l'imperatore e i suoi accoliti sentivano nei confronti della "filosofia": un controllo coraggioso del loro ope- 312    rato, un'azione seducente sul Senato da un lato e sul popolo dall'altro lato, e quindi un'attività antipolitica, antistatale, antireligiosa. A parte Seneca, abbiamo già accennato a illustri vittime della poli- tica imperiale, e alla preoccupazione da parte del governo romano nei confronti di certe prese di posizione, ritenute, a torto o a ragione, frutto di tesi filosofiche interpretate o come magico-demoniache e distruggitrici dei culti religiosi correnti, o, nel richiamo, particolar- mente da parte stoica, all'antico concetto della res-publica romana in senso scipionico-ciceroniano, come estremamente pericolose per la isti- tuzione imperiale, a carattere assolutistico-personale. Entro questi ter- mini, in una ancor forte oscillazione sul concetto d'impero, al suo fondamento giuridico, e al fondamento giuridico-istituzionale del po- tere - se l'imperatore debba essere tale per discendenza o per elezione, se il potere sia sempre del Senato e del Popolo romano facenti capo all'Augusto, o se l'Augusto è egli lo Stato, il re divino in senso orien- tale - si vede bene lo scontro tra il lento e faticoso costituirsi della istituzione imperiale e, di volta in volta, anche a seconda dell'impera- tore, del ·suo contrasto con il Senato, certe nette prese di posizione, rappresentate da certe concezioni, o cinico-popolari o stoico-senatoriali. E se con "filosofi" s'intese indicare maghi e indovini e cinici, con "filosofi" s'intese anche indicare coloro che per un verso o per l'altro si opposero alla politica imperiale, soprattutto con il loro atteggia- mento, con l'esempio della loro condotta; e questi, lo fossero o no, vennero indicati con il nome di stoici, e furono soprattutto personalità romane, uomini politici, gente di governo. Ricordiamo qui, ancora una volta, i casi clamorosi di Trasea Peto (condannato a morte da Nerone nel 67 d. C.; cfr. sopra) e di Elvidio Prisco, genero di Trasea Peto: Elvidio Prisco, questore dell'Acaia nel 51, tribuno della plebe nel 56, per il suo atteggiamento apertamente antimperiale, fu bandito da Roma nel 66; rientrato in Roma sotto Gaiba, accusò il delatore di Trasea Peto; fatto pretore nel 70, fortemente si oppose alla politica di Vespasiano, per cui venne di nuovo esiliato e, poi, condannato a morte nel 70. Ma, entro questa linea, non vanno scordati i casi di Rubellio Plauto (33 circa-62 d. C.), che, per la sua opposizione al governo di Nerone, venne condannato a morte, accusato da Tigellino "di far parte dell'arrogante setta degli stoici, che rende turbolenti e desiderosi di disordini" (Tacito, A nn., XIV, 57); di Borea Sorano (console designato nel 52, proconsole d'Asia prima del 63), che venne accusato presso Nerone perché amico di Rubellio Plauto, e che fu condannato a morte insieme alla figlia Servilia accusata di pratiche magiche; di Egnazio Celere, condannato a morte nel 69, da Vespa- siano. E cosf non è poco indicativo che Vespasiano, dopo la condanna  313   di Elvidio Prisco, abbia nel 71 bandito da Roma tutti i filosofi, tranne Musonio Rufo, a suo tempo cacciato da Nerone, insieme a Cornuto, fatto rientrare da Gaiba; e che nell'85 Domiziano abbia fatto uccidere Materno per le sue coraggiose parole contro i tiranni, Giunio Rustico perché aveva composto un elogio di Trasea Peto da lui ritenuto un santo (t&p6v) e di Elvidio Prisco, e lo stesso figlio di Elvidio, allonta- nando di nuovo da Roma tutti i filosofi, mentre nel 93 circa mandava a morte Erennio Senecione, perché aveva scritto una vita di Elvidio Prisco. Fu, anzi, dopo tali avvenimenti - ed anche questo è indica- tivo - che il retore Dione di l>rusa (30-117), detto Crisostomo (dal- l'aurea bocca), che pur aveva detto i filosofi "peste della città e dei governi," si converti alla filosofia, con particolar propensione per la tesi stoico-platonica e cinica, mentre Plinio il giovane riconosceva il valore della opposizione da parte dei filosofi, ammirandone il coraggio (cfr. Epist., l, 10; III, 11, 3). Tale sembra, in effetto, la funzione assunta dalla "filosofia" nel 1 secolo d.C., particolarmente a Roma e nel mondo dominato da Roma, soprattutto dal tempo di Nerone a quello di Domiziano, quale che poi fosse la dottrina di 'Sfondo scelta a fondazione di una certa attività moralizzatrice: la stoica, la platonica, la pitagorica, la cinica; o meglio, nessuna delle quattro come tali, ma l'una o l'altra entro l'accezione che abbiamo visto sopra, indipendentemente da scuole e tradizioni precise. Sembra chiaro, allora, l'appello di tutti, da Seneca ad Apollonio, da Demetrio a Musonio Rufo a Epitteto, alla fraternità, alla benevolenza, l'appello all'abbandono della vita dispersa e di ciò che era divenuta la vita politica, il richiamo a conoscere se stessi, il continuo ricordo di Socrate (si veda,' ad esempio, Seneca, De tranquilli- late animi, VI, 1-2). Entro questa atmosfera a'Ssumono un loro particolare significato l'insegnamento di Musonio Rufo, tutto volto - sul piano di un gene- rico stoicismo di sfondo - a formare l'uomo virtuoso, e la robusta, coraggiosa personalità e la problematica morale di Epitteto. A tale proposito, per meglio intendere quella che fu una conce- zione stoica di sfondo, merita il conto ricordare Lucio Anneo Cornuto, nato a Leptis, vissuto a Roma, contemporaneo e amico di Musonio, maestro di Persio Fiacco (34-62), dopo la morte del quale si fece edi- tore delle Satire di lui, e di M. Anneo Lucano, nipote di Seneca, nato nel 39 (fatto uccidere da Nerone nel 65), che, nella Farsalia, non poche volte rivela motivi stoici. Cornuto, insieme a Musonio, fu esi- liato da Nerone nel 65. Sappiamo ch'egli fu uomo di cultura, che scrisse in greco e in latino opere letterarie, tra cui famose alcune sue interpretazioni di Virgilio, insieme a un De figuris sententiarum e 314    a un De enuntiati011e vel de ortographia, e opere di retorica precetti- stica, tra cui una dal titolo Arti retoriche (TéxvocL pYJ-rOptxoc(). Egli scrisse anche un'opera contro le categorie di Aristotele e un Escurso di teologia greca {'E7tt8po!J.1J -rwv xoc-rclt ~v 'EJJ..'I)vtx~v 8-eoÀoylocv 7totpoc8e:8o(Lévwv), l'unica opera di lui conservatasi. Nel suo complesso assai prolissa, monotona e, certo, di non aÌto significato, l'Epidramè ha un suo particolare valore come documento, da un lato, proprio nel suo essere un manuale divulgativo e un com- pendio di opere precedenti sulle divinità del pantheon greco - allego- ricamente interpretate entro i termini della teologia fisica stoica, - della diffusione di quella che dicevamo la generica concezione stoica di sfondo (certa terminologia cristallizzata è molto indicativa); dal- l'altro lato, del modo in cui venivano recuperate le antiche divinità m funzione della ratio physica stoica. Basti un esempio: Il cielo tutto intorno avvolge la terra e il mare e tutto quel che si trova sulla terra e nel mare... Come noi siamo governati dall'anima, cosi lo è l'Universo; anche l'Universo ha un'anima che lo avvolge, e questa viene detta Zeus, soprattutto perché egli vive nel tutto, ed è causa di vita ai viventi; per questo si dice anche che Zeus su tutto regna, sf come si po- trebbe dire che pure in noi l'anima e la natura ci governano... (Epidromè, l, 1-3; 2, 1-7, ed. Lang). Da quel poco che conosciamo di Musonio Rufo,5 ricaviamo ch'egli soprattutto si volse all'insegnamento, inteso come preparazione al ben vivere, come cura per i malati dell'anima, come formazione dell'uomo G Discendente di una famiglia equestre, ongtnaria di Volsini (Bolsena), C. Mu- sonio Rufo nacque intorno al 30 d. C. Nel 60 circa lo troviamo in Asia Minore, dove aveva seguito Rubellio Plauto, ch'egli assisté quando Rubellio Plauto fu eostretto a togliersi la vita per ordine- dell'imperatore. Rientrato in Roma, nel 65-66, fu, in seguito alla congiura di Pisone, condannato all'esilio, insieme al suo amico Cornuto, c confinato nell'isola di Gyaros (Cicladi). Richiamato a Roma da Gaiba, visse abbastanza serenamente sotto Vespasiano. Espulso anche da Vespasiano, che pur lo aveva risparmiato da una precedente espul- sione, avvenuta nel 71, Tito lo richiamò in Roma dove sembra che sia morto non piu tardi del 102. Soprattutto dedito all'insegnamento, pare che Musonio non abbia lasciato alcuno scritto. Del suo insegnamento orale restano appunti e frammenti: apoftegmi, brevi trattazioni filosofiche (cfr. Plutarco, Aulo Gellio, Epitteto in Arriano, Stobeo); lezioni vere e proprie (Stobeo) (si vedano ora raccolte da Hense, M: Rufi Reliquiae). Sembra che la fonte comune da cui sono state tratte le citazioni da Musonio, sia un volume di lezioni di lui, composto da un certo Lucio, e le citazioni che di Musonio fece nel suo insegnamento orale, il discepolo di Musonio, Epitteto (Arriano raccolse l'inse- gnamento di Epitteto). Di un'opera intitolata Memorabili tli Musonio, composta, a quanto pare da Valerio Pollione di Alessandria, del tempo di Adriano, non resta alcuna traccia. Falsa è ritenuta una lettera di Musonio indirizzata a Pancratide.  315   onesto (k.alol(agathos), la cui cultura e riflessione morale lo rende misurato e rispettoso di se stesso e degli altri: "in realtà, pratica di virtuosità è la filosofia, e non altro" (tpù.oaotp(cx xatÀox&:ycx3-~ 4CM"tv bt~'t"')3euatç xcxt oòa~ l'"pov) (M. Rufi Reliquiae, IV, 10, ed. Hense). Dedito al solo insegnamento, sembra che Musoruo non abbia scritto niente. Di lui possediamo apoftegmi, brevi trattazioni filosofiche, brevi lezioni: alcuni apoftegmi sono riportati da Arriano che li avrebbe ripresi dalle parole di Epitteto; altri, insieme a vere lezioni, si tro- vano in Aulo Gellio, in Plutarco, in Stobeo. La fonte principale di tali citazioni - particolarmente lunghe quelle. riferite da Stobeo - sembra sia uno scritto di un certo Lucio, fiorito sotto Adriano, seguace di Musonio, che ne avrebbe ripreso e sistemato le lezioni. Nessun ricordo resta di un libro intitolato Memorabili di Musonio, scritto da un certo Pollione, dell'età di Adriano. Grande fu l'influenza dell'insegnamento di Musonio Rufo sui con- temporanei, particolarmente su alcuni uomini della classe superiore di Roma, cui lo stesso Rufo apparteneva, che, dall'insegnamento di Musonio, traevano il fondamento ideologico alla loro opposizione poli- tica, come fu per Rubellio Plauto (Musonio fu presente alla sua morte nel 60), Borea Sorano, Minucio Fundano. E se per l'aspetto etico- sociale molto risenti lo schiavo Epitteto dell'insegnamento di Musonio, per la concezione del sovrano ideale, da opporre al sovrano attuale, quale, ad esempio, Domiziano, molto risenti dell'insegnamento di Musonio l'oratore Dione di Prusa, mentre profonda fu l'influenza di Musonio nel tratteggiare l'ideale del saggio (uomo o donna), misu- rato, di buone maniere, dal tratto signorile, in un sapiente distacco, come almeno ci è presentato da Plinio il giovane, che descrive il saggio atteggiamento del suo maestro Artemidoro, genero di Musonio, e dello stoico Eufrate di Tiro (cfr. Plinio, Epist., III, ·u; l, 10). Tante sono - scrive Plinio - le qualità che primeggiano e rifulgono in Eufrate, da essere notate e ammirate anche da gente mediocremente colta. Egli discute con sottigliezza, solidità, bella forma e sovente raggiunge quell'elevatezza e pienezza di espressione che sono proprie di Platone. Ricco, vario, soprattutto persuasivo, è· il suo parlare: si aggiunga un'alta persona, un nobile aspetto, capelli abbondanti, una candida barba fluente, le quali cose se possono essere considl."rate casuali e di poco conto, gli conciliano tuttavia grande venerazione. Nessuna rozzezza nel modo di vestire, nessuna durezza nel tratto, una grande serietà; trattare con lui ispira rispetto, non timore. Una grande purezza di vita e pari affabilità: egli persegue i difetti, non gli uomini, e coloro che sbagliano non li punisce, ma cerca di correg- gerli... (I, 10). 316    Senza dubbio ritrattino di maniera - divenuto oramai un t&pos - esso sembra, comunque, riflettere abbastanza bene quale fosse l'ideale dell'uomo per bene, per una società per bene, in un mondo piuttosto per male. Musonio Rufo, cavaliere romano, discendente da una famiglia equestre di Volsini (Bolsena), nacque nel 30 circa. Nel 65-66, all'indo- mani della congiura di Pisone, venn!! da Nerone mandato in esilio a Gyaros (piccola e impervia isola delle Cicladi). Tacito annota: "Lo splendore del nome fu la ragione perché fossero banditi Verginio Flavo e Musonio Rufo, l'uno perché affascinava i giovani con l'elo- quenza, l'altro con i precetti della filosofia" (Ann., XV, 71). La breve annotazione di Tacito è assai indicativa. Essa conferma che l'insegna- mento di Musonio, per quanto dato con molta misura, in particolare ai giovani, poteva da un lato apparire, nella sua concezione di quello che ha da essere l'uomo, un rimprovero continuo all'imperatore, e dall'altro lato nella delineazione di quello che deve essere il sovrano, non tale se non è a un tempo uomo sul serio, cioè filosofo, una ripresa del vecchio ideale stoico dello Stato, da opporre allo Stato attualt;. L'estremo conservatorismo e i precetti di Musonio, ispirantisi, come dicevamo, a un originario e vago stoicismo di sfondo (uno l'universo, manifestazione della divina ragion d'essere," per cui tutto si trova là dove è bene che sia in una necessaria catena, fatalmente scandentesi), il suo continuo invito alla purezza della vita, all'amore reciproco, per- fino al rispetto di norme igieniche (in tal senso vanno · presi certi suoi inviti alla frugalità, all'astensione dalle carni e cosi: via, che· hanno fatto parlare di un suo pitagorismo, o, per certa sua rigidità, di ci- nismo), assumono un loro mordente e una loro portata di rivolta, qua- lora si consideri l'ambiente e gli uomini in mezzo ai quali e per i quali Musonio ha operato. Posto che "filosofia" è cultura e consapevolezza di sé, dei propri limiti e perciò stesso delle proprie possibilità entro quei limiti, e che dunque essere filosofo significa attuare pienamente la propria nai;Ura di uomo, in forma eccellente, esser filosofo vuol dire essere virtuoso, per cui tutti, in quanto tutti siamo uomini, siamo cioè esseri che hanno la capacità di essere ragionevoli, tutti abbiamo per natura, cia- scuno per ciò che gli compete, la possibilità di essere virtuosi, il seme della virtu, O"ltép!J.ot &.pe:rijt; (II, 7-8, Hense). Dovere dell'uomo è, quindi, ragionare, cioè sviluppare tale .~eme, che a tutti è ugalmente comune, onde tutti hanno il dovere d'essere "filosofi," gli uomini come le donne (III), i poveri come i ricchi, i sudditi come i sovrani (VIII). Avviare gli altri a filosofare, tale il dovere del saggio, di fronte a chi, preso dall'immediatezza sensibile, preso dall'una o dall'altra cosa, vive  317   nella passione, è disperso, non è se stesso. E per questo, per avviare gli altri a pensare, a rendersi chiare le prPPrie idee, Musonio riteneva non necessari né molti discorsi né molte dottrine, ma, soprattutto, l'esempio da un lato, e, dall'altro lato, l'esercizio (VI), cioè l'insegnare e l'imparare a ragionare (logica), mediante cui ci si forma uomini (I e II). Di qui la tesi fondamentale di Musonio, che venne poi sviluppata e approfondita, in un richiamo all'antico stoicismo, tipo quello di Ze- none di Cizio e di Aristone di Chio, da Epitteto. Posto che, entro i termini della tradizione stoica - in un'accettazione piu dommatica che riflessa - in natura tutto è bene, ché tutto è momento necessario del realizzarsi dell'unica ragione, il problema grosso consiste, allora, nel risolvere il rapporto necessità universale e capacità, nell'uomo, in quanto ha in sé un seme di ragione, di adeguarsi o meno, liberamente, a quell'ordine e a quella necessità. Ancora una volta si ripresentava il vecchio problema implicito in una coerente posizione stoica: il pro- blema del fato e, quindi, di conseguenza, il problema ·se all'uomo è dato, almeno entro certi limiti, il potere di agire, se v'è una zona su cui potere operare, anche se tale possibilità, rendendosene consapevoli (e sarebbe già questa un'attività propria), consiste nell'accettare lieta- mente l'ordine stesso del tutto, tutto ciò che avviene. La virtu (bene) consisterebbe, dunque, nel sapere usare. la ragione, il vizio (male) nell'esser preso dalle cose, nel dare alle cose e ai sentimenti un valore unilaterale, disordinato, nello sragionare, per cui tutte le cose sono indifferenti, considerate dal punto prospettico della ragione, in rela- zione a ciò che nel vizio è detto bene, che nel vizio fa piacere. Ne deriverebbe perciò, entro i termini del piu antico stoicismo, che ogni azione essendo positiva, la differenza tra virtu e vizio sta non in ciò che facciamo, ma nel come agiamo, o meglio nel come accettiamo, nell'intenzione (vedi I vol.: Zenone, Cleante, Crisippo). Si ammetta che tutta la realtà si costituisce mediante la ragion d'essere del tutto secondo una necessità, e che, perciò, tutto è bene, o meglio come deve essere, in sé né bene né male e che tale è la natura; si ammetta anche, come dato di esperienza, che l'uomo da un lato è passione, cioè è di volta in volta preso da questa o da quella rappresentazione, che si accavallano in lui, trascinandolo indifferentemente, in opposte dire- zioni, per cui l'uomo è incoerente, e non da lui dipendono le cose, e che dall'altro lato, invece, ha la capacità di coordinare quelle passioni, di non essere piu preso da questa o da quella, ma di costituire sé in unità e coerenza, valutando le stesse rappresentazioni in un ordine per cui ciascuna nel discorso si colloca dove è bene che sia; ne segue che non incoerentemente si può concludere che la libertà umana con- siste, appunto, in questa sperimentata capacità di vivere secondo ra- 318    gione, o meglio in questa esperienza di una capacità di scelta tra l'essere preso da questa o quella rappresentazione, e l'agire, pur sempre entro i medesimi dati, rendendosi conto, attraverso il discorso e un retto ragionare, delle stesse passioni, che, in quanto comprese, ricollo- cate nel loro giusto posto, cessano di essere passioni, in un'unica vita secondo ragione. In tale direzione sembra si debba interpretare l'ap- pello alla r~gione e al vivere filosoficamente da parte di Musonio, e, soprattutto, un frammento - va detto che è un testo ricavato da un'opera Sull'amicizia di Epitteto, andata perduta, - in cui Musonio sostiene che bisogna saper distinguere tra ciò che è in potere nostro (~q/ ~fL'i:v) e ciò che non lo è (oùx ~q:/ ~fL'ì:v)(cfr. XXXVIII, Hense). In nostro potere è il sapere usare le rappresentazioni, da cui la giusta valutazione delle cose, e perciò la liberazione dalle passioni, dalla vita dispersa, dall'amore unilaterale per questa o per quella cosa, che, in questo senso, rimanendo incomprese e, dunque, altre da noi, restano non in nostro potere. Sembra cosf chiaro perché per Musonio, onori cariche e cosf via non siano beni, perché non siano beni i piaceri immediati, tutto ciò che è dovuto alla vita dispersa, esteriorizzata, ma che l'unico bene in cui consiste l'unica libertà possibile, e perciò l'unica virtu e felicità, stia in ciò che dipende da noi, cioè nel saper pensare, nel vivere secondo ragione, nel nostro modo di atteggiarsi nei con- fronti della realtà, nel cui atteggiamento consiste l'esperienza della volontà come-intenzione. Se in tale interiorizzazione della realtà e degli avvenimenti, se in tale capacità di valutare rettamente cose e avvenimenti, consiste la comprensione, il vivere filosoficamente, virtuosamente, l'insegnare agli altri a sviluppare la razionalità, quel seme di virtu che è proprio a tutti per natura, è dovere del saggio, dell'uomo. In questo senso Musonio indirizzò tutta la sua vita, in questo sentire l'insegnamento come dovere, sia nei confronti dei giovani, sia degli adulti, che in quanto presi dalle passioni, in realtà sono non uomini, sono come ammalati che hanno bisogno di cure. E in un mondo quale fu quello di Roma tra Caligola, Nerone e Domiziano, si capisce che Musonio vedesse ovunque amma- lati gravi, per i quali erano necessarie drastiche medicine, per avviarli ad essere razionali. Di qui il suo appello al bene comune, al rispetto per l'uomo in quanto possibilità d'essere razionale. Per ciò egli sotto- linea l'importanza che gli ·schiavi siano trattati non come cose ma come uomini, che come cose e strumenti di piacere non siano considerate le donne, bensf come "uomini," e·che quindi il matrimonio non sia solo un contratto, ma anche un valore (XIIIh-XIV), da cui la condanna dell'uso di abbandonare i figli non desiderati ("meglio tanti fratelli che tanto denaro," esclama una volta). Se tali debbono essere gli uo-  319   mini, se non v'è società senza reciproco rispetto, fondato sul ricono- scimento di una.possibile comune razionalità, tanto piu dovrà essere virtuoso, cioè "filosofo," chi ha in mano il governo dello Stato, l"'uomo regio" (~cxaLÀLxÒç &vl)p), sosteneva Musonio, come appare da una sua lezione andata sotto il titolo Anche i re debbono studiare filo- sofia (VIII). Per Musonio non si tratta tanto di delineare quale debba essere il sapere proprio dei sovrani, nel senso in cui tale questione è trattata nel Politico di Platone, quanto di mostrare che il sovrano giusto è il sovrano che sia "filosofo," cioè .virtuoso sf come tutti gli altri uomini. "Ammesso che funzione dell'uomo regale è di sapere reggere bene le nazioni o le città e d'essere degno di governare gli uomini, chi, chiediamo, piu del filosofo saprebbe reggere bene una città, o chi piu di lui sarebbe degno di governare gli uomini? Poiché, se veramente è filosofo, sarà saggio, misurato, magnanimo, capace di rendersi conto di ciò che è giusto e di ciò che conviene, di effettuare le sue decisioni e di reggere a dure fatiche" (VIII). Dopo la morte di Nerone (68 d. C.), Musonio, che anche durante l'esilio nell'isola di Gyaros aveva continuato il suo insegnamento rivolto a tutti coloro (e furono molti), che attirati dalla sua fama erano andati a trovarlo, fu richiamato a Roma dall'imperatore Gaiba. Dopo gli effimeri governi di Gaiba, Otone, Vitellio (68-69 d. C.), è noto che Vespasiano (70-79), nel tentativo di riportare l'impero alla pace, s'ispirò a un governo simile a quello di Augusto. Se cosf dapprima non vide di malocchio soprattutto certe posizioni stoiche, di cui sembra che par- ticolarmente apprezzasse quella di Musonio, in un secondo momento, allorché l'opposizione di Elvidio Prisco, che pur sempre vedeva nel- l'Imperatore non il princeps, ma il tiranno, un governo personale, parve ispirarsi proprio a tesi stoiche e ciniche, Vespasiano, ritenendo estrema- mente pericolosi gl'insegnamenti stoici per l'unità dell'Impero, nel 71 bandf tutti i filosofi tranne Musonio, che, tuttavia, allontanò pi6 tardi, nel 75. Sotto Tito (79-81), che riprese la politica pacificatrice del padre, cercando di dare all'Impero anche un fondamento ideologico, Musonio venne richiamato a Roma. Altre notizie di lui non si hanno. Proba- bilmente morf prima del bando dei filosofi, ordinato nel 94 dal fratello e successore di Tito, Domiziano (81-96), che deCisamente si volse ad un ~ccentramento di tutto il potere nelle proprie mani. Tra i pensatori e i maestri che nel 94 furono costretti ad abbandonare Roma, vi fu il piu intelligente e solido discepolo di Musonio, Epitteto.., il Diflicile è precisare le date della vita di Epitteto. Se nella Suda si legge che Epitteto visse lino all'avvento di Marco Aurelio (161 d.C.), la aonologia del suo editore Arriano porterebbe a spostarne la nascita in epoca un po' piu antica. Nato nel 320    Egli non si spostò molto né dalla concezione né dal tipo di insegna- mento di Musonio. Epitteto, come Musonio, non pretese mai di dare ).m'esposizione sistematico-scolastica di una certa dottrina. Di volta in volta, prendendo spunto da domande di discepoli o da quesiti posti da chi si recava da lui, dal saggio, per averne consigli, si intratteneva in discussioni brevi e serrate, ove ogni volta, sia pur da punti di vista diversi, si ripresentano gli stessi motivi - alcuni àei quali riprendono, portati alle estreme conseguenze, quelli prospettati da Musonio - approfonditi nelle loro varie facce, in un atteggiamento rocratico, al quale non poche volte Epitteto si richiama. Specchio fedele delle con- versazioni di Epitteto, di questo suo modo di insegnare attraverso la rappresentazione viva della formazione di un certo ragionamento, at- traverso il dialogo e la discussione, in situazioni precise, in un concreto e vivo rapporto di uomini vivi tra uomini vivi, è il complesso degli appunti che un seguace di Epitteto, il ·generale romano Arriano di Nicomedia, ha raccolto e, poi, pubblicato (sembra che Arriano abbia, di volta in volta, stenografato le conversazioni del maestro). Dice lo stesso Arriano nella lettera prefatoria alla sua raccolta, dedicata a Lucio Gellio : Non ho redatto i discorsi (Myo') di Epitteto come si potrebbe redigere materia di tal genere e neppure li· ho pubblicati, io che dico di non averli redatti. Ma tutto quello che ho sentito dire da lui, trascrivendolo, per quanto fosse possibile con le stesse parole, ho cercato di serbarmelo per il futuro a ricordo (~o!Lvi)!L«-rct) del suo pensiero e dd suo libero parlare. Quindi, com'è naturale, tali note hanno l'andamento di quel che uno dice all'altro per bisogno spontaneo e non di quel che si potrebbe redigere per destinarlo in futuro a lettori. In tale forma, dunque, io non so come, contro la mia volontà e a mia insaputa, capitarono in pubblico. Per me, certo, non ha im- 50 circa, a Jerapoli, nella Frigia meridionale, schiavo, forse figlio di schiavi, giovane fu condotto a Roma, dove fu servo di Epa&odito, liberto di Nerone. Ancor prima d'essere liberato da Epa&odito, Epitteto ebbe il permesso di ascoltare le lezioni di Musonio Rufo, probabilmente dopo il secondo ritorno di Musonio dall'esilio, al tempo dell'imperatore Tito. Epitteto ricordò sempre Musonio come suo unico maestro. Sembra che dall'SO in poi Epitteto, ormai libero, abbia tenuto in Roma le sue lezioni, finché nel 94 fu espulso da Roma su decreto di Domiziano, insieme a tutti i filosofi, matematici e astrologi. Epitteto si ritirò a Nicopoli, in Epiro, dove prosegui il suo insegnameuto, fino alla morte, avvenuta tra il 125 e il 130. Epitteto non scrisse nulla. Le sue lezioni, dialoghi, discorsi, consigli, commenti di testi, trascritti da Arriano di Nicomedia, suo discepolo, al tempo di Nicopoli, furono poi pubblicati da Arriano subito dopo la morte di Epitteto, in un complesso di libri andati sotto il nome di Diatrib~. Arriano compone anche una specie di summa delle massime capitali di Epitteto, andata sotto il nome di Enchiridion o Manuale. Frammenti ci sono pervenuti per opera di Auto Gellio (2), di Marco Aurelio (3), di Arnobio (1), di Stobeo (23). Sulla questione delle Diatribe sulle altre possibili raccolt e dilezioni di Epitteto confronta sopra il testo. ] portanza se apparirò un redattore incapace; per Epitteto, poi, ancora meno, se taluno avrà a disdegno il suo linguaggio, giacché si vedeva chiaramente che, anche parlando, niente altro cercava se non di eccitare al meglio i suoi ascoltatori. Se, quindi, per lo meno a tal fine riuscissero questi discorsi (>.Oyo~), otterrebbero, io penso, quel che debbono ottenere i discorsi dei filo- sofi: altrimenti, sappiano quelli, nelle cui mani essi giungono, che, quando Epitteto li profferiva, l'uditore di necessità provava i sentimenti ch'egli voleva fargli provare. Se poi da sé non riescono a tal fine, forse ne sono io la causa, forse è destino che sia cosf. Addio. Non sappiamo quale titolo abbia dato Arriano alla sua raccolta. Egli nella lettera citata usa due termini: Discorsi (l6got) e Memorie (Hypamnimata). La tradizione ha dato all'opera il titolo di Diatribe (à~or.-rp~~or.(). Solo che molti autori antichi che parlano di Diatribe di Epitteto, parlano anche di Dissertationes (dialécseis), di Hypam- némata, di Omilie, di Apomnemoneuta, di Scholai (cfr. Aulo Gd- lio, l, 2, 17, 19; Marco Aurelio, Ricordi, l, 7; Fozio, Bibl., in Comm. Enchiridion, ed. Schenkl, test. VI; Simplicio, Comm. Enchir., ed. Scenkl, test. III; Damascio, ed. Schenkl, test. IV). Fozio sostiene, inoltre, che Arriano avrebbe scritto otto libri di Diatribe di Epitteto e dodici libri di Omilie (conversazioni). Senza dubbio la raccolta di Arriano (dia- tribe) quale è giunta (in 4 libri) è mutila. Aulo Gellio (XIX, l, 14-15) parla di un quinto libro; l'Enchiridion o il Manuale (l'altra opera di Arriano, che è una specie di summa dei motivi fondamentali delle Diatribe) contiene molti passi e motivi che non hanno riscontro nei quattro libri che leggiamo, cos{ come un frammento di Stobeo (fr. l, in Stobeo, Ecl., Il, l, 31 W.), testo certamente estratto dalle Diatribe, non corrisponde a nessun passo dei nostri quattro libri. Posto, dunque, che l'opera originaria di Arriano fosse in piu di quattro libri (otto o do- dici), ci si è chiesti se gli autori antichi indicassero con gli altri titoli (Omilie, Hypomnimata, Apomnemoneuta, ecc.) altre opere o redazioni diverse, o le stesse Diatribe. Non abbiamo una documentazione tale da poter essere certi. Si resta sempre nel campo delle ipotesi (per le varie discussioni e ipotesi, cfr. J. Souilhé, Introduzione a Epict~te, Entretiens, coli. "Belles Lettres," Parigi). L'opinione, oggi, maggiormente diffusa - già sostenuta nel 1741 da J. Upton, Epicteti quae supersunt Dissertationes, II, Londra, p. 4, - è che sotto i numerosi titoli riferiti dalla tradizione ~i indicas- sero non opere diverse di Arriano, ma sempre la raccolta che ha poi assunto il titolo di Diatribe. "Se si pensa alla libertà con cui gli antichi citavano le loro fonti, non ci stupiremo che una sola raccolta sia stata indicata in tanti modi, tenendo inoltre presente che molte copie erano 322    già circolate prima che l'autore ne consentisse lui stesso la pub- blicazione... D'altra parte, i termini 8Lcx-tpL~-Ij, ax_oì..1j,.8L<Xì..e!;Lt;, O(LLÀ(cx hanno significati molto prossimi e sono spesso usati come sinonimi" (Souilhé, cit., p. XVIII). Il dubbio resta, se mai, per i dodici libri delle Omilie, citati da Fozio, accanto agli otto libri delle Diatribe e all'En- chiridion. Certo i frammenti che troviamo in Stobeo dovevano far parte dei libri perduti delle Diatribe. Ad ogni modo è molto indica- tivo, in quanto è già un'interpretazione del significato del pensiero di Epitteto, del suo modo e del fine d'insegnare, che abbia prevalso il titolo Diatribe. Il termine diatriba, che in origine era sinonimo di dialogo o di discorso, in senso educativo (cfr. già in Platone il termine usato per indicare i discorsi di Socrate ai suoi concittadini: Apologia, 37d; Clitofonte, 406a), si allargò poi a significare tanto dialogo, trat- tato morale non dialogico, lezione, dissertazione su argomenti diversi (di retorica, di musica, .di matematica, di fisica), quanto predica e soprattutto predica di tipo popolare (in questo senso, con i cinici, il termine assume un significato tecnico). Ad ogni modo, sia che con diatriba s'intendesse la discussione e il dialogo in senso socratico, sia la dissertazione e la lezione su argomenti diversi, sia la predica popo- lare, la diatriba ha sempre indicato un rapporto diretto e concreto tra maestro e discepoli, indipendentemente da qualsiasi forma di insegna- mento professorale, sistematico, in organizzazione scolastica. In altre parole con diatriba s'intendevano le riunioni - e quindi, poi, anche il luogo di tali riunioni, in questo senso detto schola- presso un qualche pensatore dal quale ci si recava come da maestro e consigliere, capace di dirigere il dibattito, di far pensare, di formare la personalità, in un libero rapporto, anche se, naturalmente, il maestro indirizzava a una sua certa concezione, ma non appunto esponendo in forma sistema- tica e dogmatica una precisa dottrina. Sotto questo aspetto, relativa- mente alla raccolta degli insegnamenti di Epitteto, riferiti da Arriano (anche la divisione in libri è accidentale, estrinseca, ché in ogni libro, anche se da punti di vista diversi, ritornano gli stessi motivi, facenti tutti perno su due fondamentali: quel che dipende e quel che non di- pende da noi; e la problematica della libertà), il titolo che ha prevalso, Diatribe, è esatto. Esso sta già ad indicare ciò che, in effetto, Epitteto intendeva con filosofia: capacità, attraverso un retto insegnamento, di sviluppare in forma corretta la comune ragione, mediante cui l'uomo forma se stesso uomo, per cui sapiente è chi sa pensare, e poiché saper pensare significa ad un tempo saper vivere, la filosofia non è tanto descrizione della realtà, o scienza, ma moralità; la filosofia perciò non è normativa, ma formatrice nel suo determinarsi come appello, che non dà contenuti, ma si richiama al vivere secondo ragione, mediante  323   certe tecniche retoriche che 5<: da un lato si rifanno ·ai dialogo socr~ tico, ·dall'altro lato si determinano in una dis'cussione che finge il dibat- tito giudiziario o conflitti di idee tra personaggi di un dramma (il che era proprio della diatriba popolare). Quando nel 94, costretto ad allontanarsi da Roma per decreto di Domiziano, che bandiva tutti i filosofi, matematici astrologi, giunse a Nicopoli (la città della vittoria,. in Epiro, fondata da Augusto in ricordo della vittoriosa battaglia di Azio), ove apri una nuova scuola, divenuta presto un centro di discussioni ("diatriba"), dove moltissimi si recavano per avere consigli o sciogliere dubbi morali (le Diatribe e il Manuale rispecchiano questo periodo del suo insegnamento), Epit- teto aveva quarantaquattro anni circa. Già uomo nel pieno della ma- turità, portava con sé sia l'esperienza del mondo di Roma tra Nerone e Domiziano ("non è troppo sicura l'occupazione del filosofo, special- mente ora, a Roma" : Diatribe, Il, 12, 17), sia l'approfondimento e il ripensamento dell'insegnamento del suo maestro Musonio Rufo. Epit- teto era nato intorno al 50, ad Jerapoli, la città santa, centro della religione di Cibele, nella Frigia meridionale. Schiavo - c'è chi ha sostenuto che il s~o stesso nome, epitteto, indicasse la sua condizione di schiavo, - figlio di schiavi, almeno secondo un'antica iscrizione (in Schenkl, Epict. Diss., p. VII, test. XIX), Epitteto fu condotto a Roma ancora giovanetto e comperato da Epafrodito, liberto di Nerone, che faceva parte delle guardie del corpo dell'Imperatore, e che aiutò Nerone a suicidarsi (Svetonio, Nerone, 49, 5; Domiziano, 14, 2). Rimaniamo incerti sulle diverse notizie trasmesseci intorno ai rapporti tra Epitteto ed Epafrodito. Prepotente nei confronti dei propri schiavi, Epafrodito si sarebbe divertito a tormentare anche Epitteto. Si narra (Celso, Ori- gene, Gregorio Nazianzeno) che giunse un giorno a spezzargli una gamba. "Questa gamba si spezzerà," avrebbe commentato Epitteto, mentre Epafrodito lo tormentava: " T e l'avevo detto che si sarebbe spezzata," avrebbe concluso Epitteto, còme se non si trattasse del proprio arto, ma di urta dimostrazione sulla causa e l'effetto (cfr. Celso, in Origene, Contro Celso, VII, 53). Troppo stoico-cinico è questo aneddoto per non avere il sapore di ricostruzione a posteriori, per delineare la figura di Epitteto stoico, che si sapeva zoppo fin dalla gioventu (cfr. Simplicio, in Schenkl, cit., p. VII, test. XLVII). La Suda, invece, molto meno pittorescamente, riferisce che l'infermità di Epitteto era dovuta ai reumatismi. Certa resta, invece, l'importanza ch'ebbe per Epitteto l'esperienza del rapporto servo-padrone, in un'ap- profondita meditazione sul significato della libertà e su ciò che dipende o no dall'uomo. Entro questi termini va veduto il rapporto Epitteto- Epafrodito. E, forse, anche l'aneddoto della gamba spezzata e della impassibilità di Epitteto tende ad interpretare tale rapporto, non su di un piano personale, ma, prendendo le mosse da un'esperienza con- creta (il fatto d'essere schiavo), su di un piano etico-metafisico. In effetto, sul rapporto necessità-libertà, realtà .che è quella che è, ineso- rabile, da cui dipendiamo - e che per ciò ci è estranea e, qualora la si comprenda, indifferente - e riflessione sulla umana capacità, nella consapevolezza dei nostri limiti e della nostra non libertà, di poter determinare un nostro modo di vita che dipende da noi, qualora si sappia ragionare, non facendosi prendere dai fantasmi, onde tutti siamo ad un tempo servi e padroni, a seconda dell'atteggiamento che assumiamo nei confronti delle cose, su tale rapporto si è svolto e approfondito il pensiero di Epitteto. E, probabilmente, proprio queste prime discussioni, che Epitteto ebbe con Epafrodito (e traccia di esse è, appunto, l'aneddoto della gamba), spinsero Epafrodito a permettere ad Epitteto, ancor prima di concedergli la libertà, di frequentare Mu- sonio Rufo. Senza dubbio, nell'insegnamento di Musonio, Epitteto trovò chiarita gran parte della sua problematica umana. "Quando Musonio parlava - dirà ancora a distanza di tempo Epitteto, - noi, seduti accanto a lui, credevamo davvero, ognuno per sé, che qual- cuno gli avesse parlato· dei nostri difetti : cosf fortemente egli era legato alla realtà, cosf vividamente poneva davanti agli occhi di ciascuno le sue debolezze. ~ una clinica, uomini, la scuola di un filosofo: non si deve uscirne gioiosi, ma pieni di dolori..." (Diatrib~, III, 23, 29-30). E fu a Musonio ch'egli dovette l'impostazione stoica della sua medita- zione, tenendo soprattutto conto da un lato di Zenone di Cizio (l'indagine sul retto pensare che è, ad un tempo, retto vivere), e, dall'altro lato, di Crisippo (il problema del rapporto fato-libertà), che lo ripor- tavano all'altro aspetto del problema logico e del problema della li- bertà (essere se stesso), impostato dai cinico-socratici (Antistene, Ari- stone di Chio, ove.di Aristone non va dimenticata la tesi del giuoco delle parti). Basta scorrere le Diatrib~ per rendersi conto che tra gli au- tori pio citati sono Zenone di Cizio e Crisippo, che di Cleante si citano i versi sul Fato, che non si accenna affatto a Boeto, a Panezio, a Posidonio, che si sorvola su Archedemo e Antipatro, mentre non poche volte è citato Diogene di Sinope, Socrate, Antistene, Platone socratico, Senofonte. Sembra, anzi, che accanto alle discussioni, ai con- sigli, ai dialoghi con i.suoi uditori, suscitati di volta in volta da singole domande, da singole questioni poste sul tappeto (Diatrib~), Epitteto svolgesse nella sua scuola, a Nicopoli, vere e proprie "lezioni," ch'egli cioè leggesse e commentasse testi, di Zenone e particolarmente di Cri- sippo (dice il BonhOffer, Di~ Ethik d~s Stoikers Epicta, p. 2, che il •libro sacro," heiliger Kod~:c, di Epitteto era l'opera di Crisippo,  325   mentre il Bruns, De schola Epicteti, pp. 3 sgg., finemente sottolinea contro la tesi dello Zahn, Der Stoìk_er Epik_tet u. sein V erhaltnis zum Christentum, p. 37, secondo cui Epitteto avrebbe tenuto solo conferenze e dialoghi, che i termini OCVotyLyv6laxe:LV e OCv<iyvCliO"!J.ot, piu volte usati nelle Diatribe per indicare un modo di insegnamento, non sono sinonimi di 3~a3otL, ma significano, mantenendo il loro valore originario, la lezione, la lettura o prelezione e l'esplicazione dei testi). Sulla linea, dunque, dello soicismo cinico piu che su quella dello soicismo in chiave platonica, Epitteto svolse il suo insegnamento in un impegno essenzialmente educativo. Probabilmente sviluppo di un motivo proprio di Musonio, è l'insi- stere di Epitteto sull'educazione come formazione dell'uomo, me- diante l'educazione a sapere correttamente pensare, che lo riporta, appunto, a Zenone di Cizio e a Crisippo. Tutti gli uomini, in quanto animali razionali, hanno una comune ragione, hanno le stesse guise, gli stessi modi, che, formalmente, sono condizioni del comune pen- sare. Tali modi, tali guise o principi, su cui si fondano i discorsi, tali prenozioni {7tpoÀ~IjieLç, prolép,seis) o idee prime, proprie di tutti, e su cui tutti siamo d'accordo, e sulle quali non siamo in contraddizione, sono, in quanto non contraddittorie, rappresentazioni sempre vere. La contraddizione, il falso, e perciò il disaccordo, nascono nell'applica- zione delle "prenozioni" ai casi particolari. Le prenozidni sono comuni a tutti gli uomini, e prenozione non con- traddice a prenozione. Chi di noi in realtà non ammette che il bene è utile, e anche desiderabile, e che in ogni circostanza si deve ricercarlo e seguirlo? Chi di noi non ammette che il giusto è bello e conveniente? Allora, quando sorge la contraddizione? Nell'applicare le prenozioni ai casi particolari: quando uno dice: "Ha agito bene, è valoroso" e l'altro "No, ma è dissennato. Ecco in che modo gli uomini si contraddicono tra loro. Certo Giudei, Siri, Egiziani e Romani, non si contraddicono sul fatto che la santid va sti- mata sopra tutto e perseguita in ogni occasione, ma sulla questione se è conforme a santid o no cibarsi di carne suina... L'educazione filosofica con- siste nell'apprendere ad applicare le prenozioni naturali ai casi particolari in maniera congruente a natura e, per il resto, nel distinguere tra le cose, quelle che dipendono da noi e quelle che non dipendono da noi (Diatr. l, 22, 1-4, 9-10): Né vere né false le rappresentazioni prese a sé (ogni oggetto si determina e assume realtà nella rappresentazione, e, perciò, nel suo esser detto, donde l'importanza di tener sempre conto dei nomi, s{ che l'un nome non evochi altra rappresentazione, e non derivino al discorso la contraddizione, l'equivoco e il paralogismo sofistico), rap- 326    presentazioni anche le nozioni morali, il vero e il falso stanno nel discorso, cioè nel giudizio. D'accordo, sotto questo aspetto, con i cinici (Antistene) e con gli scettici, ma entro i termini della soluzione della logica di Zenone di Cizio (che permette la predicazione: logica pro- posizionate), Epitteto può sostenere che la "ragione" è un "sistema di rappresentazioni diverse" (Diatr., l, 20, 5-6). "Per questo," aggiunge Epitteto, "compito del filosofo, il piu importante e il primo, è sag- giare le rappresentazioni e distinguerle e nessuna accogliere che non sia stata saggiata" (Diatr., l, 20, 7). "Cominciamo con la logica allo stesso modo che, per misurare il grano, cominciamo con l'esaminare la misura. Se, infatti, non determiniamo dapprima che cosa è il moggio, se non determiniamo dapprima che cosa è la bilancia, come potremo piu misurare o pesare qualcosa? E nel nostro caso, se non conosciamo con esattezza e precisione il criterio delle altre cose, criterio grazie al quale le conosciamo, ne potremo conoscere qualcuna con esattezza e precisione? Com'è possibile? ... Compito della logica è discernere ed esaminare il resto, e, si potrebbe dire, il misurarlo e pesarlo. Chi l'afferma? Solo Crisippo, Zenone e Cleante? E Antistene non l'afferma? Chi ha scritto che l'osservazione dei termini è l'inizio dell'educazione filosofica? [cfr. Diogene L., VI, 3] E Socrate non l'afferma? Di chi scrive Senofonte [Mem., IV, 6, l] che incominciava dall'osservazione dei termini, quale fosse il significato di ognuno?" (Diatr., l, 17, 6-12). Irragionevole e folle, e, dunque, passionale, schiavo, è chi vien preso, di volta in volta, da questa o da quella r!lppresentazione, chi non sa connetterle, rendendosi conto delle proprie rappresentazioni, e obbiet- tivarle in un discorso vero, dominando cosf le rappresentazioni stesse. Su questa linea, perciò, si capisce come Epitteto ritenga incoerenti anche gli scettici, i quali per negare valore di obbiettività a qualsiasi ragio- namento (tutti, sul piano del vero, possibili perché arbitrari, nessuno piu vero dell'altro, oò3~ (LWOV: Il, 11, 15), ricorrono ad un ragionamento che può convincere della loro tesi in quanto non viene meno alle co- muni condizioni che rendono verace un ragionamento, e gli epicurei, relativamente alla loro tesi che l'uomo è felice qualora viva non so- cialmente, ché, anche essi, per sostenere questo si servono di ciò che vogliono togliere (la socialità, cioè il discorso stesso) (cfr. Il, 20). "Le proposizioni vere ed evidenti," sottolinea Epitteto, "le adoperano di necessità anche quelli che le contraddicono: anzi la prova piu grande dell'evidenza di un'affermazione .è, si può dire, il fatto che sia trovata necessaria e utilizzata da quello stesso che la contraddice" (Diatr., II, 20, 1). Se formalmente, dunque, vi sono delle condizioni comuni e neces- sarie (prenoziom) che permettono il discorso, il discorso verace e quel discorso che, trovando il suo contenuto nelle rappresental:ioni, connette l'una all'altra le rappresentazioni in un sistema, ove le une e le altre rappresentazioni si articolano in 11:on contraddizione con le condizioni stesse. Sapere pensare, dunque~ e a questo deve avviare l'educazione filosofica, consiste da un lato nel ricercare e sistemare le prenozioni, dall'altro lato nel sapere usare le proprie rappresen- tazioni (xpljar.<; cpcxvrcxat&v ) , mediante cui ci liberiamo dalla pas- sione e dalla unilateralità, in una obbiettivazione che ci dà la misura e il valore delle cose, indipendentemente da come esse apparivano nella prima immediata rappresentazione (opinione). La particolare struttura dell'intelletto ci mette .in grado di non ricevere le impronte delle cose, soggiacendo ai sensibili, ma anche di fare una scelta di esse, di sottrarre, di aggiungere, di comporne altre da noi, di passare dalle une alle altre che in qualche modo sono affini (Diatr., I, 6, 10). E se tutti gli animali hanno rappresentazioni, la differenza tra l'animale irrazionale e l'animale razionale (l'uomo) è che mentre l'ani- male irrazionale usa le rappresentazioni che lo attraggono e lo spin- gono ad agire (mangiare, bere, riposare, accoppiarsi, compiere ciascuno quante altre cose rientrano nell'ambito del proprio agire: Diatr., I, 6, 13-14), l'uomo non solo usa le rappresentazioni, ma ha anche la capa- cità di rendersene conto, di comprenderne l'uso, liberandosene e, perciò, sapendo agire razionalmente. Il che non significa, che, dunque, l'uomo non deve mangiare, bere, riposarsi, accoppiarsi e cosi via, ma che deve rendersene conto, collocando ogni rappresentazione e affezione al suo giusto posto, sapendo quello che ciascuna vale. E se l'animale irrazio- nale realizza pienamente sé in quanto vive secondo le sue rappresen- tazioni-passioni, l'uomo realizza sé, vive secondo natura, in quanto comprendendo l'uso delle rappresentazioni, costituisce sé razionalmente e, perciò, comprende sé e gli altri, ponendo sé e gli altri e le cose al loro giusto posto, nòn facendosi prendere piu dall'una che dall'altra cosa, piu dall'uno istinto che dall'altro. Questa è quella ch'Epitteto chiama contemplazione (8-Ec.>p(cx), che consiste, appunto, nella com- prensione, in una visione (&ec.>p(cx) obbiettiv.a di un sistema di rap- presentazioni, che è "intelligenza (1tcxpcxxoÀoò&eau;) e tenore di vita conforme a natura: badate dunque a non morire senza aver contem- plato queste realtà" (Diatr., l, 6, 21-22). ("Filosofare consiste nell'esa- minare e nel considerare le norme" che permettono il pensare verace e per ciò necessario e universale, ·comune a tutti gli esseri razionali: "usare tali norme, una volta conosciute, è dovere dell'uomo dabbene" : Diatr., II, 11, 24.) 3Z8    Certo, il modo come si costituiscono le rappresentazioni, com'esse vengono sussunte dalle "prenozioni," se le prenozioni, sia pur for- malmente, siano vere e proprie idee innate, quali siano i modi con cui si articolano correttamente tra di loro le rappresentazioni, tutto questo è appena accennato da Epitteto. Probabilmente, per quel che sappiamo, tali questioni egli le doveva approfondire ed esporre nelle "lezioni," e poiché, per sua stessa testimonianza, sappiamo che leggeva testi di Zenone e di Crisippo, diremmo che tecnicamente Epitteto doveva esporre la logica entro i termini di Antistene-Zenone-Crisippo. D'altra parte ciò che piu interessava Epitteto era, mediante la logica, avviare gli altri ad essere uomini, a non vivere unilateralmente e pas- sionalmente. E questo fu soprattutto il compito delle diatribe. E cos( dalle diatribe non riusciamo a sapere quale fosse la concezione epitte- tiana dell'Universo, se non ch'egli analogicamente, tenendo presente il fatto che la ragione è attività unificatrice che costituisce il tutto in un unico discorso, riprendendo l'ipotesi dello stoicismo antico - ancora qui Zenone e Crisippo - sosteneva che il tutto è come un unico di- scorso, retto da un'unica ragione, s( come fosse una "città sola." Questo mondo è una città sola, come pure la sostanza di cui è stato composto, e cosi una sola è la necessità di un movimento periodico e di un ritirarsi di alcune cose dinanzi alle altre: queste si disperdono, quelle spuntano, queste rimangono nello stesso posto, quelle si muovono. Tutte le cose sono piene di amici, in primo luogo di dèi, poi di uomini intima- mente uniti per natura tra loro: e bisogna che alcuni rimangano insieme tra loro, che altri se ne vadano, che alcuni godano di chi rimane con essi, che gli altri non si addolorino di chi se ne va (Diatr., III, 24, 9-11). Tutte le cose formano un'unità... (Diatr., I, 14, 2). Uomo sono, parte del tutto, come l'ora è parte della giornata. Debbo giungere come l'ora, e, come l'ora, scomparire (Diatr., II, 5, 13). In questo senso Epitteto è molto preciso: uno l'universo nella sua totalità, una la ragion d'essere del tutto e la sua sostanza, il cangia- mento, il nascere e il morire, avvengono entro la stessa unità del tutto. Mietere le spighe significa la distruzione delle spighe, non dell'Universo, si come il cader delle foglie, o il seccarsi del fico e l'appassirsi dell'uva. Si tratta, in tutti questi casi, di mutamenti da uno stato precedente in uno diverso: non distruzione ma ordinata disposizione e amministrazione. Quale è l'andar via dal proprio paese, un piccolo mutamento, tale è la morte, un mutamento piu grande, ma non da ciò che è al presente, verso il nulla, ma verso ciò che al presente non è. "Non sarò piu allora?" No: ma sarai una cosa diversa da quella di cui al presente il mondo ha bisogno. Perché anche tu nascesti non quando hai voluto, ma quando il mondo ebbe bi-  329   sogno (Ditur., III, 24, 91-94). "Vai!" dove? Non in luoghi terrificanti, ma là donde sei venuto, verso amici e parenti, verso gli dementi naturali. Quanto fuoco era in te, ritornerà in fuoco, quanto era terra in terra, quanto aria in aria, quanto acqua in acqua. Non c'è Ade, non Acheronte, non Cocito, non Piriflegetonte, ma tutto è pieno di dèi e di potenze divine. E chi è in grado di riflettere su ciò e guardare il sole, la luna, gli astri e prendere diletto dalla terra e dal mare non è abbandonato piu di quaDJ:o sia senza aiuto... (Diatr., III, 13, 14-16). Dalla constatazione che la ragione è attività unificatrice e sistema di rappresentazioni-oggetti, Epittéto passa a poter sostenere che, dunque, la stessa struttura su cui si titma la realtà è attività unificatrice, me- diante cui tutto ha un suo posto, tutto avviene come deve avvenire, fatalmente, ma, perciò stesso, provvidenzialmente ("di ogni cosa che accade nel mondo è facile lodare la provvidenza, purché si abbiano queste due qualità, la capacità di vedere nel loro insieme i singoli av- venimenti e il sentimento della riconoscenza ... Dalla struttura dei ~ari prodotti siamo soliti riconoscere che sono indubbiamente opere di un artista, e non costruite a caso e gli oggetti visibili, e la visione e la ·luce non lo rivelano( ... E la particolare struttura dell'universo che ci mette in grado di non ricevere semplicemente le impronte delle cose soggiacendo ai sensibili, ma anche di fare una scelta tra esse ... Tutto questo non fa pensare ad un supremo artista?": Diatr., l, 6, 7-11). Tutto, dÙnque, nel suo esserci, nel suo nascere e perire, nella sua sostanza, è come parte di un organismo vivente, ha una sua funzione e una sua ragione. Si capisce, cosi, come Epitteto possa identificare la divinità (ancora una volta intesa come ciò senza di cui nulla è, la condizione del tutto) con la ragione, dandone la stessa definizione: quale è la natura di Dio? è intelligenza, scienza, retta ragione. Solo qua, dunque, assolutamente, èerca l'essenza del bene" (Diatr., II, 8, 2-3). Ora, se la ragione era stata definita "sistema di rappresentazioni diverse," e se le rappresentazioni sono impressioni che in quanto com- prese si costituiscono come abbietti, non in una semplice recezione delle impronte, ma mediante l'intelletto in una scelta, sottrazione, somma, composizione di esse, Dio, in quanto ragione e intelligenza, si costituisce come "sistema di oggetti diversi," e perciò come attività unificatrice che sceglie, somma, sottrae, compone, per cui tutto deriva da lui, tutto in lui ha la sua funzione, e tanto piu l'uomo che scopre sé come ragione, come capacità non solo di usare le rappresentazioni, ma di saperle usare ("ti abbiamo dato una parte di noi," fa dire Epitteto a Zeus, "questa facoltà impulsiva e repulsiva, desiderativa e avversativa, in una parola la facoltà che sa usare le rappresentazioni ... 330    Solo quel che è piu importante di tutto, e che domina il resto, gli dèi l'hanno fatto dipendere da noi, e, cioè, il retto uso delle rappresenta- zioni:. le altre cose non le hanno fatte dipendere da noi": Diatr., l, l, 12 e 6-8). Qui, sembra, la chiave per intendere, relativamente all'uomo, da un lato la concezione di Epitteto su ciò che non dipende e su ciò che dipende da noi (dr. particolarmente Diatribe, I, l e Manuale, 1), dal- l'altro lato sul fato, sul tutto, che è quello che è, e sulla libertà; sul non comprendere, sull'essere presi dai dati, dalle impressioni, asistemati- camente (irrazionalmente), per cui siamo schiavi, soggetti, e, non in- tendendo, non sapendo usare, scegliere le rappresentazioni, applicare correttamente le prenozioni, siamo scelti; e sulla comprensione che è libertà, liberazione dall'errore, accantonamento di ciò che non di- pende da noi, avvicinamento a Dio, scelta. E se pur tutto resta quello che è, se pur ciascuno resta quello che è, l'uomo, almeno, per sua natura, in quanto •ragione," pur rimanendo quello che è, può essere scelto o scegliere, può essere padrone o schiavo: "quel che è piu importante di tutto, e che domina il resto, gli dèi l'hanno fatto dipendere da· noi, e, cioè, il retto uso delle rappresentazioni" (Diatr., I, l, 6-8); e tale è il fine dell'uomo: l'uomo deve terminare là dove termina nei nostri riguardi la natura, ed essa termina nella teoria e nell'intelligenza e in un tenore divita conforme alla natura" (Diatr., 1; 6, 20-21}. Bada, dunque, alle rappresentazioni, vigila su di esse. Non è poco ciò che va custodito: si tratta del rispetto, della lealtà, della tranquillità, d'una condizione d'animo scevra da passioni, da dolori, da timori, da turbamenti, in breve, della libertà... Sono libero e amico di Dio, s{ che gli obbedisco spontaneamente. Niente di tutto il resto devo acquistare, non il corpo, non gli averi, non le cariche, non la reputazione, in una parola, niente. E Dio, poi, neppure vuole che io l'acquisti. Se voleva, quei beni li avrebbe fatti per me: ora, invece, non li ha fatti... Custodisci il bene che è tuo in ogni occasione: il bene di tutto il resto, secondo quanto t'è concesso, nei limiti voluti dalla ragione, e di questo solo contèntati. Se no, sarai infelice, di- sgraziato, soggetto a impedimenti e a ostacoli... (Diatr., IV, 3, 7-12). Epitteto prende le mosse da una constatazione: se da un lato è vero che l'uomo è un complesso di rapprc.sentazioni, dall'altro lato è altrettanto vero che l'uomo ragionando scopre sé come ràgione, che ha in se stesso, nel suo stesso svolgersi, il criterio della propria vali- dità - "la sola facoltà raziocinante, prendendo se stessa a oggetto di studio, comprende se stessa, la natura, la potenza, il valore che ha venendo in noi": Diatr., I, l, 3-4, - e scopre sé come capacità di ob- biettivare e articolare e sistemare le sue stesse rappresentazioni; finché  331   è solo un insieme disordinato di rappresentazioni-impressioni, l'uomo è passivo e dominato; allorché, ragionando, ordina e sistema è egli a dominare, rendendosi conto del valore di ogni cosa, che tutto ha nel discorso un suo posto, che alcune cose sono in nostro dominio e altre no. Le cose sono di due maniere; alcune in poter nostro, altre no. Sono in poter nostro l'opinione, il movimento dell'animo, l'appetizione, l'avver- sione, in breve tutte quelle cose che sono nostri propri atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la riputazione, i magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri atti. Le cose poste in nostro potere sono di natura libere, non possono essere impedite né attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e per ultimo sono cose altrui. Ricordati che se tu reputerai per libere quelle cose eh sono di natura schiave, e per proprie quelle che sono altrui, t'interverrà di trovare quando un osta- colo quando un altro, essere affiitto, turbato, dolerti degli uomini e degli dèi... Per tanto, a ciascuna apparenza che ti occorrerà nella vita, innanzi a ogni altra cosa avvezzati a dire: questa è un'apparenza, e non è punto quello che mostra di essere. Di poi togli· ad esaminarla e farne saggio con quegli espedienti chè tu sai, e prima e massimamente vedere se appartiene alle cose che sono in nostra facoltà, ovvero a quelle che non sono... (Manuale, 1). Gli uomini sono agitati e turbati non dalle cose, ma dalle opinioni ch'essi hanno delle cose... t da uomo, non addottrinato nella filo- sofia l'addossare agli altri la colpa dei travagli suoi e propri, da mezzo addottrinato l'addossarla a se stesso, da addottrinato non darla né a se stesso né agli altri (Manuale, IV). Evidente è, per Epitteto, che tale duplice modo d'essere dell'uomo, irrazionale e razionale, dominato e dominante, che tale situazione tragica dell'uomo - "cosa altro sono le tragedie se non la narrazione in verso epico di quel che provano uomini affascinati dagli oggetti esterni? Diatr., I, 4, 26- è dovuta, per natura- ed è un'esperienza- alla possibilità stessa dell'uomo di voler ragionare oppure no, ad un'opzione dell'uomo, possibile certo solo allorché l'uomo si rende conto ch'egli è ragione, cioè giudizio (ma è, appunto, in tale rendersi conto, che non è una deduzione, che consiste la libertà; di qui per Epitteto l'importanza dell'insegnamento della logica e della dialettica e la·sua repugnanza contro coloro che imparano filosofia per ornamento o per professione). In altri termini, ogni uomo, in quanto scopre sé come ragione, può scegliere tra l'essere schiavo o l'essere padrone, tra vivere passionalmente (contro natura) o vivere secondo ragione, in un'armonia e giudizio delle passioni stesse (secondo natura). In tale senso Epitteto sostiene che la stessa ragione, in quanto discorso è or- dine, è scelta, o, se vogliamo, volontà (7tpo1X(p&atc;, proairesis), si come, analogicamente posto Dio come ragione del tutto, Dio è volontà in 332    quanto ragione, cwe m quanto giudizio, e non come persona (libertà assoluta) in senso cristiano, si come talvolta si è voluta interpretare la divinità epittetiana. È il tuo giudizio che ti determina necessariamente, e cioè la scelta (pro- airest) che forza la proairesi. Se Dio avesse assoggettato a impedimento o necessità, o da parte sua o da parte di altri, il frammento del suo essere che ha staccato da sé per dare a noi, non sarebbe piu Dio né piu si prenderebbe cura di noi, come deve... Se vuoi sei libero; se vuoi, non bia- simerai alcuno, non accuserai alcuno, tutto accadrà secondo la volontà tua e, insieme, di Dio (Diatr., l, 17, 26-28). Nessuno può credere che una cosa gli sia utile senza sceglierla? No. E com'è che [Medea] dice: "SI, bene intendo quali mali sto per fare, ma il mio corruccio supera la mia ragione"? (Euripide, Medea, 1078-79]. Perché proprio indulgere al suo corruccio e vendicarsi dello sposo ella ritiene piu utile che salvare i figli. Ma si è in- gannata! Mostrale chiaramente che si è ingannata e non lo farà: ma fino a quando non glielo mostri, che cosa può seguire se non le apparenze? Niente. Perché allora irritarti con lei, se si è sviata, l'infelice... (Diatr., I, 28, 6-8). L'essenza del bene ["nell'intelligenza, nella scienza, nella retta ragione... cerca l'essenza del bene": Diatr., II, 8, 2-3] consiste in una qual certa proairesi [in un certo qual modo di atteggiarsi], il male in una qual certa proairesi. Che sono, allora, le cose esterne? Oggetti coi quali venendo a contatto la persona morale realizzerà il proprio bene o il ·proprio male. Come realizzerà il bene? Se non dà importanza agli oggetti. Perché, se i giudizi sugli oggetti sono retti, fanno la persona morale buona, se storti e stravolti, cattiva (Diatr., l, 29, 1-3). La libertà e la scelta o volontà di Epitteto non è né arbitrio né li- bertà in senso assoluto, ma atto razionale che in quanto tale, in quanto giudizio e obbiettivamente, è, appunto, proairesis. D'altra parte, proprio il fatto che l'uomo può scoprire sé come ragione, che, a sua volta, tale si scopre e si giudica ragionando (cfr. Diatr., l, l, 3-4), fa si che si possa porre come in atto una ragione che ci trascende dal di dentro, sempre in atto compiuta in se stessa (Dio). Perfetto dunque Dio in quanto ragione, la ragione umana, aspetto o frammento di quella divina, non è perfetta come la divina, per cui mentre tutto è in possesso di Dio, non tutto è 'in possesso dell'uomo, se non il rendersi ragione, il comprendere ("si deve organizzare il meglio possibile quel che dipende da noi e di tutte le altre cose usare come esige la loro natura; come esige la loro natura? come Dio vuole": Diatr., l, l, 17), che, distaccando l'uomo dalle sue stesse rappresentazioni immediate e unilaterali, gli fa intendere e valutare da un lato ciò che è in suo possesso (il pensare che è ad un tempo scelta e volontà) e, dall'altro lato, ciò che non è in suo possesso (il nascere e il morire, avere questo o quel corpo, esser nato maschio o femmina, da questi o da quei genitori, servo o libero, storpio o diritto, in questo secolo o in altro, ricco o povero e cos( via). E allora, quelle ste~se cose che non sono in nostro possesso, a cui tendiamo finché re- stano rappresentazioni asistemate, in libertà (alogiéhe), onde appaiono beni, per cui le desideriamo o da esse rifuggiamo (passioni), nell'atto che le intendiamo divengono mali se desiderate, ma, in quanto com- prese per ciò che sono, né beni né mali (indifferentt). Questo, sembra, il significato, riallacciandosi a Zenone, a Crisippo, ad Aristone di Chio, dell'aspetto "cinico" dello "stoicismo" di Epit- teto. Va qui, d'altra parte, tenuta presente l'affermazione di Giovenale, secondo cui la diffidenza, in quest'epoca, tra cinicj e stoici, consiste in una differenza di classe sociale, in una distinzione di "tunica" piu che di modo di atteggiarsi: "Stoica dogmata ... a Cynicis tunica distantia" (Satire, XIII, 121-122); e va tenuto presente un capitolo (22) del III libro delle Diatribe, in cui si delinea quella che dev'essere la figura ideale del saggio, del cinico (dell'uomo che per nascita non ha nessuna posizione sociale o che riconosce che la sua unica posizic;>ne è appunto quella del "saggio"), ma non interpretato secondo il clichl del cinico giullare, di quelle molte figurine di filosofi popolari di cui parla efficacemente Dione Crisostomo ("dei cosiddetti Cinici v'è gran numero nella città; ... ai crocevia, negli angiporti, all'ingresso dei templi, questi uomini radunano e traviano schiavi e marinai ed altra simile gente, snocciolando scherzi e grande varietà di pettegolezzi e di arguzie volgari: in realtà essi non fanno alcun bene, ma gran male• : Dione, Oraz., 32, 10). In effetto, il "cinico" che ha presente Epitteto (forse Demetrio: dr. sopra) è lo stoico di stretta osservanza, l'uomo che, consapevole di non avere una sua qual certa. posizione sociale - come, ad esempio, fu il caso di Epitteto, - realizza veramente se stesso, ché altro egli non possiede, in quanto mostra agli altri, anche col suo modo esteriore di vivere, che è un simbolo (privo di tutti quelli che si dicono beni: casa, famiglia, affetti), cosa significa essere libero, ai ricchi e ai poveri, ai potenti e ai deboli, indicando a tutti, e in ciò consiste la sua parte - il che non significa che ~utti debbano assumere la·sua parte,- che tutti, essendo ciascuno a suo modo, possono essere liberi in quanto accettino, comprendendola, la propria parte. Nella comprensione razionale che tutto - uomini e c~e - è quale dev'essere, ciascuno al suo posto, il cinico non propende piu per una cosa o una persona piu di un'altra, onde, sotto tale prospettiva, tutto è per il cinico indifferente, tutto e tutti vanno né condannati né esaltati, ma compresi. Sotto questa prospettiva si vede bene come Epitteto potesse dire. Abbi cura di ricordare a te medesimo il vero essere di ciascheduna cosa che ti diletta o che tu ami o che ti serve ad alcun uso, incominciando dalle piu piccole. Se tu ami una pentola, dirai a te stesso: io amo una pentola; perciocché se ella si spezzerà, tu non avrai però l'animo alterato. Se tu bacerai per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai teco stesso: io bacio un mortale; acciocché morendoti quella donna o· quel fanciullino, tu non abbi però a turbarti (Man., III). Chiunque avverte in maniera evi- dente che per l'uomo misura di ogni azione è l'apparenza... non si adirerà con nessuno, non si irriterà con nessuno, non ingiurierà .nessuno, non bià- simerà nessuno, non odierà né offenderà nessuno (Diatr., I, 28, 10). Chi 'vuole divenire cinico non basta si metta la "divisa" del cinico (mantello corto, bisaccia e mazza), ma deve "purificare la parte ege- monica dell'anima e disporre una tale linea di condotta: ora la ma- teria con cui ho da fare è la mia mente, come il falegname ha il legno, come il calzolaio ha il cuoio: mio compito è il retto uso delle rappresentazioni. Il povero corpo non ha nessun rapporto con me: le sue parti neppure. La morte? Venga quando vuole, sia di tutto il corpo, sia di una parte. L'esilio? E dove mi possono cacciare? Fuori del mondo, no davvero. E dovunque andrò H c'è il sole, H la luna, H le stelle, i sogni, i presagi, i colloqui con gli dèi. Però, pur avendo raggiunto tale perfezione, il vero cinico non se ne può con- tentare, ma deve sapere d'essere stato inviato da Dio, in qualità di messaggero, _per mostrare agli uomini, che, in rapporto al bene e al male si ingannano e cercano l'essenza del bene e del male là dove non è, e non badano dove è ... In realtà il cinico è esploratore di cosa è amico agli uomini, di cosa nemico, e, quindi, condotta un'esplorazione accurata, deve venire ad annunciare la veri~, senza essere sbigottito dalla paura ... Perciò, all'occorrenza, egli deve potersi levare in piedi e, salito sulla scena tragica, pronunciare le parole di Socrate [Platone, Clitofonte, 407 a-h]: 'Ohimé, uomini, dove vi lasciate trascinare?'; che fate, disgraziati? V'aggirate, come ciechi, di su e di giu; v'incam- minate per un'altra strada dopo avere abbandonato la vera, cercate altrove ciò che rasserena e rende felici, dove non esiste, e non prestate fede a un altro che ve lo mostra. Perché cercarlo nelle cose esterne? ... Dov'è che siamo liberi? Nel giudizio ... Coltivate allora questa cosa, prendetevi cura di essa, cercate qui il bene. E come è possibile che viva sereno chi non possiede niente, chi è nudo, senza casa, senza focolare, sordido, senza schiavi, senza città? Ecco, Dio vi ha mandato uno che, a fatti, ve ne dimostri la possibilità. 'Guardatemi: sono senza casa, senza città, senza beni, senza schiavi: il mio giaciglio è la terra: non ho moglie, non figli, non una casetta, ma la terra soltanto e il  335   cielo e un solo mantelletto. Eppure, che mi manca? Non sono senza dolori? non sono senza timori? Non sono libero? Quando uno di voi mi ha visto fallire nei miei desideri, quando cadere nelle mie avver- sioni? Quando ho biasimato Dio o uomo, quando ho rimproverato qualcuno? Forse uno di voi mi ha visto accigliato? Come tratto quelli che vi mettono paura o meraviglia? Non come schiavi? Chi, veden- domi, non ritiene di vedere il suo re e il suo padrone?' Ecco le parole degne di un cinico, eccone il carattere, eccone il proposito" (Diatr., III, 22, 19-49). Se la delineazione dell'atteggiamento del cinico è la delineazione di una figura ideale di uomo, che giuoca la sua parte, compiendo il suo dovere, ciascuno, ·ognuno rimanendo al posto che natura gli ha dato, può, entro i suoi limiti, attuare se stesso, compiere il suo dovere, non unilateralmente (nell'esclusiva, ad esempio, maniera cinica), per cui su di un piano piu largo, l'aspetto cinico di Epitteto si risolve di nuovo entro i termini della morale e della misura stoiche. Deriva di qui un altro motivo fondamentale del pensiero di Epitteto, quello della libertà, su cui, accanto al motivo del saper usare le rappresenta- zioni e al motivo della conseguente distinzione tra ciò che dipende da noi e ciò che non dipende, Epitteto ha piu insistito (nelle Diatribe il termine "libero" e il termine "libertà" sono usati ben 130 volte: cfr. Oldfather, Epiktctus, I, p. XVII), in una precisa determinazione della libertà come libertà da e non COII)e libertà di. Mediante la logica e l'appello ad esercitarsi nello studio di come funziona la ragione ("ai piu sfugge che Io studio dei ragionamenti amfibologici e ipotetici, e ancora di quelli che procedono mediante in- terrogazione, e, in una parola, di tutti i ragionamenti ·di questa ma- niera, è in relazione al dovere": Diatr., I, 7, 1), da un lato la raziona- lità scopre il tutto come un ordinamento e un sistema di rappresenta- zioni e, dall'altro lato, la razionalità, in quanto ci trascende dal di dentro, si pone come ordine e sistema del tutto, onde tutto è come deve essere, tutto è parte in funzione di un fine che è la stessa razio- nalità (la divinità). Posto, dunque, che in questo tutto l'uomo, sco- prendo sé come razionalità, e, perciò, come figlio di Dio, avente sempre in sé un aspetto della divinità, può scegliere tra il vivere preso dalle sue rappresentazioni e passioni, indiscriminatamente, e il vivere se- condo la sua stessa natura (che è, dunque, un dovere), cioè razional- mente, ne deriva la doppia considerazione epittetiana della realtà e della condizione umana. Se uno riuscisse a compenetrarsi in modo convenìente di questo pensiero, che veniamo da Dio tutti, e tra i primi, e che Dio ~ padre degli uomini e degli dèi, credo che nulla di ignobile o di meschino sarà desiderato da lui... Ma poiché al momento della generazione sono mescolati insieme questi due elementi, il corpo comune con gli animali, la ragione e conoscenza comune con gli dèi, altri inclinano a quella parentela infelice e mortale, pochi a questa divina e beata... Che sono, infine? Un misero omuncolo e miserabile è il mio corpo. Ma pur essendo miserabile hai un elemento superiore al miserabile corpo. Perché, dunque, allontanando tal cosa ti at- tacchi a questo? (Diatr., I, 3, l, 3-6). Non sai che piccola parte sei rispetto al tutto? Questo secondo il corpo; mentre secondo la ragione non sei peg- giore né migliore degli dèi: che la grandezza della ragione non si misura in lunghezza né in profondità, ma in pensieri. Non vuoi, dunque, dove sei uguale agli dèi, ivi porre il bene? (Diatr., I, 12, 26). Guarda chi sei. Innanzi tutto un uomo, cioè· un uomo che non possiede niente piu impor- tante della proairesi, ma a lei subordina il resto, e tale volontà possiede libera da schiavitU e da soggezione. Osserva, dunque, da chi ti distingui per la ragione.·Ti distingui dalle bestie selvagge, ti distingui dalle pecore. Non solo, ma sei cittadino del mondo e parte di questo mondo, non delle ultime ma delle prime, perché puoi comprendere il governo divino e riflettere sulle conseguenze. Quale allora è la funzione del cittadino? Di non avere nessun interesse personale, di non prendere decisioni su nessuna cosa quasi fosse isolato, bensf di agire come la mano o il piede, che se ragionassero e com- prendessero l'ordine naturale, giammai altrimenti si muoverebbero o desi- dererebbero o si contrapporrebbero al tutto. Per ciò ben dicono i filosofi che se l'uo~o virtuoso prevedesse il futuro, coopererebbe alle malattie, alla morte, alle mutilazioni, perché si renderebbe conto che tutto questo gli è stato asse- gnato dall'ordinamento universale e che è piu importante il tutto della parte, la città del cittadino... (Diatr., II, 10, 1-5). Di fatto l'uomo, come tutte le cose, come ogni avvenimento è quello che è, né buono né cattivo; ognuno, come ogni cosa, nell'economia dell'Universo, nel giudizio divino, riceve una sua parte, piccola o grande che sia, è passivo, è apparentemente un'isola abbandonata a se stessa, tirato di qua e di là dalle passioni, per cui tutto è vano, tutto, sotto questa prospettiva, disprezzabile (in tale rappresentazione della realtà e dell'uomo il linguaggio di Epitteto è senza dubbio quello cinico; tutto è già dato, nulla è da fare, onde cade ogni speranza, la capacità di sperare che le cose possano essere diverse da quello che sono, libere; mondo senza poesia, donde la tristitia stoica). Solo che, per altro verso, se attraverso la ragione, la cui scoperta è non una deduzione, ma un'esperienza viva che si rivela mediante lo stesso ragionare, l'uomo ha la capacità di giudicare, cioè di scegliere, ordi- nando e obbiettivando, cogliendo ogni rappresentazione-oggetto per quella che è, l'uomo si libera dalle passioni, dall'errore, dall'assumere una rappresentazione per quello ch'essa non è. Sotto quest'altra prospettiva, quella stessa realtà che fino a che resta estranea, incompresa, è male, disordinata, irrazionale, si trasfigura in una realtà buona, desiderabile, amata, in un amore ordinato, nell'unico amore per l'unità di Dio, rimanendo perciò indifferenti tutte quelle rappresentazioni" che condurrebbero ad una vita unilaterale, dominata da questa o da quella rappresentazione (interessi esclusivi per gli onori, per la salute, il corpo, per la vita dei nostri cari e degli altri uomini, dimenticando ch'essi sono mortali, sf come rompibile è una pentola di coccio, e cosf via), che, appunto, per ciò, seguitano a non dipendere da noi. In realtà, per Epitteto non si tratta tanto di due modi di essere, ma di due modi prospettici di considerare la stessa realtà. Nel primo caso, pur facendo e considerando le stesse cose siamo determinati, agiamo fatalmente, siamo agiti (irrazionalità); nel secondo caso, pur facendo e considerando le stesse cose, siamo, non subiamo. Nel primo caso non ci solleviamo dalla vita di cose tra cose, nel secondo caso, obbiettando e scegliendo, giudicando, ci solleviamo alla vita razionale, alla vita divina. Da un lato tutto è necessario, dall'altro lato, pur rimanendo tutto necessario abbiamo la possibilità (e in questa possibilità consiste la libertà) di valutare quella. stessa necessità, per cui non la subiamo, ma riconoscendola la vogliamo. "Tu non devi cercare che le cose pro- cedano a modo tuo, ma volere che vadano cosf come fanno, e bene starà" (Manuale, VIII). "Se vuoi, sei libero; se vuoi non biasimerai alcuno, non accuserai alcuno, tutto accadrà secondo la volontà tua e, insieme, di Dio" (Diatr., l, 17, 29). Si capisce allora come, sotto que- sto aspetto, per Epitteto ragionare sia volere, libera accettazione di una realtà che è quella che è, voluta dalla stessa razionalità in cui consiste la divinità (sulla libertà in particolare si confronti la piu lunga delle diatribe, la prima del IV libro). Gli uomini sono agitati e turbati non dalle cose, ma dalle .opinioni che hanno delle cose (Man., IV). - L'essere zoppo s{ è impaccio della gamba, ma non della disposizione dell'animo (Man., IX).- Quando tu vedi qualcuno che pianga o per la morte di alcun suo congiunto o per la lontananza di un figliuolo o perdita della roba, guarda che l'apparenza non ti trasporti in guisa che tu pensi che questo tale, a cagione delle cose estrinseche, patisca alcun male vero. Ma tu distinguerai teco stesso subitamente e dirai: questo è tribolato e afflitto, non dall'accaduto, poiché questo medesimo non dà niuna tribolazione a un altro, ma dal concetto ch'egli ha dell'accaduto (Man., XVI). Ricordati che colui che rampogna o percuote, non offende esso, ma l'opinione che si ha che ·questi cotali offendano. Sicché quando tu ti senti montare la collera contro uno, pensa che la tua propria immagi- nazione è quella che ti sprona all'ira, e non altri (Man., XX). Sopporta e astienti (framm. X, in Aulo Gellio, Noct. Att., XVII, 19). 338    Si chiarisce cosi la dottrina epittetiana della "apparenza" (fantasia) (cfr. Man., 1), mediante cui Epitteto sottolinea cosa significhi la distin- zione tra ciò che dipende e ciò che non dipende da noi. In altri ter- mini, la nostra lnancanza di libertà dipende da una comprensione inadeguata delle cose, da ricondursi ad una nostra comprensione imprecisa. Possiamo avere una cognizione delle cose che è una cognizione fantastica, apparente. Se, per esempio, si stabilisce un errato rapporto causale, la nostra stessa attività, tesa a ottenere certe risonanze, in rela- zione a quell'apparenza si svolgerà in maniera errata e infelice (cfr., ad esempio, Diatribe, IV, l, 43-50), per un errore che è un errore pro- spettico. Si vede bene, di qui, come la distinzione tra esteriorità (ciò che non dipende da noi) è interiorità (pensiero, volontà e cosi via) consiste nel non comprendere e nel comprendere. Se, come sostiene Epitteto, il vero sta nel giudizio, in una scelta per cui tutto si costi- tuisce in un sistema di rappresentazioni, l'essere delle cose, l'essere di tutto è nel giudizio, e quindi nello stesso discorso, in noi, e, qui, esten- sivamente e per analogia, in Dio. L'esteriorità, ciò che non dipende da noi, sta nell'incomprensione, in qualcosa che resta per sé, sganciato, no~ giudicato (irrazionale) e che, dunque, ci domina. Non si tratta di due realtà, ma: di due nostri modi diversi di atteggiarsi nei confronti della stessa realtà. Le cose comprese, proprio in quanto com- prese, divengono nostre, anche se, appunto perché comprese, ci ren- diamo conto che non dipendono da noi (l'avere questo o quel corpo, l'essere bello o brutto, maschio o femmina, ecc.). E allora, compren- dendo, sappiamo anche quale, nella grande commedia del tutto il cui supremo regista è Dio, è la nostra parte (grande o piccola), realiz- zando bene la quale, tutti, ciascuno per ciò che gli compete (ed in questo consiste la nostra libertà: cfr. Diatr., IV, 1), siamo uguali, schiavi o re, uomini o donne, grandi o piccoli uomini, socraticamente, rendendoci con ciò davvero utili agli altri e a sé. E cosi quanto piu si ama se stessi, cioè la razionalità, tanto piu si amano gli altri, si vuole sé e gli altri come fini. Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un medico, studia di rappresentarla acconcia- mente. Il simile se ti è assegnata la persona di uno zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentare bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene ad un altro (Man., XVII). Se il pilota ti chiama, corri tosto alla nave senza voltarti, lasciata stare ogni cosa (Man., VII).  339   Questi i motivi fondamentali del pensiero di Epitteto (e questi sono i motivi che in breve, in forma gnomica, Arriano ha riepilogato e sistemato nel Manuale, riprendendoli dall'opera maggiore, le Dia- tribe). Di qui, d'altra parte, l'importanza data da Epitteto all'insegna- mento, inteso come insegnamento a· saper ragionare, mediante cui liberare gli uomini dal loro vivere da schiavi, delineando, infine, un vero e proprio processo attraverso il quale, dallo studio della logica e dalla scoperta del modo di funzionare della ragione, si giunga con essa - in cui, dunque sta il bene - a quella misura e dominio delle passioni in cui consiste l'uomo verace, simile a Dio (cfr. Diatr., Il, 17, 29-34; III, 2; 12; 26, 14; IV, 10, 13; l, 12, 24 sgg.). Innanzi tutto, per Epitteto, la funzione della ragione è di calcolare i nostr.i desideri, s( da distinguere quelli che davvero lo sono, in quanto dipendono da noi, da quelli che ci attirano in quanto abbiamo calco- lato male, scambiando ciò che non dipende da noi per ciò che dipende da noi (in realtà, questi ultimi, compresi, cessano di essere desideri, divenendo i loro oggetti indifferenti, ché nessuna cosa la quale non dipenda da noi, che sia, cl1tpoadpnov - aproaireton, - può essere de- siderata). In secondo luogo, obbiettivati i desideri, che consistono nel- l'esigenza di realizzare ciò che dipende da noi, la ragione, mediante l'educazione filosofica, ordinando e scegliendo, determina quale delle nostre inclinazioni (6p!L-IJ), o delle nostre repulsioni '(clfOP!LiJ) è con- veniente o meno; indicando di volta in volta ciò che conviene, quali sono perciò i nostri doveri (xoc.&;;xov), onde sappiamo come agire, come realizzare bene la nostra parte, sia nei confronti degli altri che di se stessi ("da uomo pio, da figlio, da fratello, da padre, da citta- dino": Diatr., III, 2, 4). In terzo luogo, infine, la ragione sarà capace, dominati i desideri o le avversioni, le inclinazioni o le repulsioni, indi- rizzando s{ che ciascuno giuochi come deve la propria parte, di vedere sé come sistema di "rappresentazioni," in una comprensione del tutto, che è visione (teoria) pacata del tutto; in una accettazione in cui con- siste la piu profonda religiosità (in tale tripartizione della filosofia il maggiore storico di Epitteto, il Bonhoffer, ha veduto l'aspetto piu originale di lui, che non si trova né negli stoici antecedenti, né in Musonio, né nei cinici: Epictet u. die Stoa, p. 27; cfr. anche Souilhé cit., pp. LII sgg.). Non dovremmo, mèntre vanghiamo, o ariamo, o JÌlangiamo, cantare l'inno a Dio? "Grande è Dio, percM ci ha largito strumenti adatti a lavo- rare la terra: grande è Dio, perché ci ha dato le mani, la gola, il '\lentre, perché ci fa crescere senza che ce ne accorgiamo, perché ci fa respirare mentre dormiamo." Questo bisognerebbe cantare in ogni occasione e can- 340    tare l'inno piu sublime e piu divino che, cioè, egli ci ha dato la facoltà di comprendere tali cose e la via retta per usarle. Ebbene? Poiché la maggior parte di voi è cieca, non era necessario che ci fosse chi tenesse questo posto e in nome di tutti cantasse l'inno a Dio? E che cos'altro posso io, vecchio storpio, se non inneggiare a Dio?· se fossi un usignolo, compirei la mia parte di usignolo, se cigno, quella di cigno. E invece sono un essere ragionevole: devo inneggiare a Dio. Ecco la mia parte: io la compio e non diserto il mio posto, per quanto mi è concesso, e anche voi esorto a cantare questo stesso canto (Diatr., I, 16, 16-21). - Mi basta poter levare le mani a Dio e dirgli: "le facoltà che ho ricevuto da te per comprendere il tuo governo e seguirlo non le ho trascurate: non ti ho disonorato, per parte mia. Guarda come ho usato i sensi, come le prenozioni. Ti ho mai biasimato? sono stato scontento di qualche avvenimento o l'ho desiderato altrimenti? ho mancato alle mie relazioni con gli altri? Ti ringrazio di avermi fatto na- scere, ti ringrazio di quanto mi hai dato: il tempo che ho usato le tue cose mi basta. Riprendile e assegnami il posto che vuoi: perché erano tutte tue. tu me le hai date" (Diatr., IV, 10, 14-16). Epitteto mori nel 125-130 circa, a Nicopoli, da cui non si era piu mosso dal giorno del suo arrivo, esiliato da Roma (94). A Nicopoli, ove visse_ solo, tutto dedito all'insegnamento, egli godette di gran fama, rispettato e onorato da tutti. Solamente da vecchio avrebbe preso con sé una donna, perché lo aiutasse ad all~vare un orfano che aveva adot- tato (Simplicio, In Epicteti Enchiridion, Schenkl, test. LII). Che il suo insegnamento sia stato un insegnamento di vita - basato, certo, su di una precisa concezione - e non un insegnamento strettamente scolastico, è dimostrato anche dal fatto che dei suoi moltissimi disce- poli e ascoltatori - a parte Arriano che fu con lui per molti anni a Nicopoli, e che probabilmente pubblicò le Diatribe e il Manuale subito dopo la morte di Epitteto - nessuno fece professione di filosofo, se non un certo Jerocle stoico, autore di un'Etica e di Filosofumena (se ne vedano i frammenti in Stobeo, Ed.). Va, d'altra parte, osservato che dopo l'uccisione (96 d.C.) di Domiziano, la politica dei principi, relativa al fondamento del potere dell'Impero, venne cangiando, tanto che si delineò la possibilità di assumere a fondamento ideologico la tesi politica dello stoicismo, sia sul piano politico sia sul piano piu strettamente giuridico. Già questo vediamo con l'imperatore Cocceio Nerva (96-98), il quale cercò di riaccattivarsi il Senato e con i suoi successori Traiano (98-117) e Adriano (117-136), che con l'istituzione ufficiale del Consilium principis svuotò gran parte del potere del Senato, avviando l'Impero ad una vera e propria unità statale, non piu esclusivamente personale. Sembra perciò non un caso che anche l'imperatore Adriano si sia recato a Nicopoli a chiedere consigli al celebre "saggio" Epitteto (cfr. Spartiano, Vita Hadriani, 16, 10).Difficile è dire se Dione di Prusa 1 in Bitinia, detto dall"' aurea bocca" (crisostomo), nato nel 40 circa, morto poco dopo il 114, sia stato uno stoico, un cinico, un platonico. Egli fu, senza dubbio, un grande retore, il primo e, forse, il maggior rappresentante di quella corrente che Filostrato di Lemno definirà neo-sofistica. Uomo di cul- tura, aggiornato nelle varie correnti di pensiero del suo tempo, seppe, di volta in volta, sfruttare i motivi piu vari e le piu varie tesi, in fun- zione di un suo principio, che chiaramente traspare da tutte le sue Orazioni: la cultura come elevazione morale, attraverso cui in un con- sapevole distacco dalle "verità," -in una misura faticosamente raggiunta, e perciò in una comprensione delle "ragioni" umane, determinare nella vita sociale e nella stessa pratica di governo le norme riconosciute come virtu nella vita privata: quella misura, appunto, che, di volta l Nato a Prosa, in Bitinia, nel 40 d. C., ricco e intelligente, colto in filosofia e in retorica, Dione, detto per la sua eloquenza "crisostomo" (dall'aurea bocca), venne presto a Roma. Esiliato da Roma, su decreto di Domiziano, nell'82, proibitogli anche il sog· giorno in Bitinia, condusse fino al 97, morte di Domiziano, vita oscura e peregrina. Reintegrato nei suoi diritti, Dione dapprima soggiornò nella sua patria, poi tornò in Roma. Fu in rappono e contatto diretto con Traiano e con gli uomini della sua eone, servendo come meglio poté gl'interessi di Prosa, ove piu e piu volte si recò. Nel 110-111, come risulta da una lettera di Plinio il Giovane a Traiano (ad Traian., 81), Dione era a Prosa. Poi ne sappiamo piu niente. Mori, probaoilmente, cittadino romano, con il cognome di Cocceiano, nel 114. Tutta la sua opera è raccolta in un insieme di 80 orazioni (l.6yoL), comprendente discorsi realmente pronunziati, trattati morali, filosofici, politici, in forma di discorsi. Fuori della raccolta rimangono un'opera Sui Geti, una In favore di Omero contro Plalone, e due scritti di critica: Contro i filosofi e A Musonio. Particolarmente interes- santi sono le cosiddette orazioni diogeniche (VIII-X), le quattro Sul regno (I-IV), la XXXII (Agli Alessandrim), le due Tarsiche (XXXIII, XXXIV), l'Olimpica (XII), la Boristmica (XXXVI) e l'Euboica {Vll). 7    in volta, si concreta come cortesia e generosità, benevolenza e perdono, rispetto per la verità e l'onestà (cfr. Sinclair, cit., p. 420). Discendente da una famiglia di elevata condizione, Dione, quando ancora viveva a Prusa, partecipò alla vita politica del suo paese, usando la sua eloquenza e la sua arte in aiuto dei propri amici (cfr. Oraz., 46, 8).. A Roma, dove giunse ancora giovane, si legò di amicizia con gli uomini piu in vista della città e, sembra, anche con l'imperatore Tito. Dato il suo modo di intendere la cultura e il conseguente modo di intendere la politica e la vita sociale come misura e intelligente equi- librio, si capisce, in principio, il disprezzo di Dione, in Roma, per i "filosofi" cinici e stoici in particolare, per il loro atteggiamento di opposizione nei confronti del governo, ch'egli doveva vedere come rottura di quell'ideale vita sociale, libera e spregiudicata, ch'egli, nella sua posizione ellenistica, riteneva di potere attuare entro i termini delle antiche poleis greche. In realtà, Dione non poteva sopportare, com'egli stesso dice, i cosiddetti cinici, quei perdigiorno della filosofia, che si trovano ovunque nella Città ("ai crocevia, negli angiporti, all'in- gresso dei templi, questi. uomini radunano e traviano schiavi e marinai e altra simile gente, snocciolando scherzi e grande varietà di pettegolezzi e di volgari arguzie. In tal modo essi non fanno alcunché di bene, anzi un gran male": Oraz., 32, 9). Ma quando, su decreto di Domiziano, fu colpito, come tanti altri filosofi, accu- sati di complotto contro lo Stato, dalla relegatio in perpetuum, e per quindici anni (dall'82 al 96, morte di Domiziano) dovette, in esilio, girovagare, senza potere neppure mettere piede nella natia Bitinia (il p'restigio da lui goduto in Bitinia avrebbe potuto essere pericoloso per Domiziano), travestendosi, assumendo falsi nomi, pur di proseguire nel suo insegnamento e di tentare la pacificazione tra le città in lotta tra di loro, e venne scambiato per quei tali "filosofi" ch'egli aveva di- sprezzato e nei quali aveva veduto la peste per l'armonia delle città, Dione nella sua lotta contro il tiranno, comprese il significato sia del- l'opposizione cinica sia dell'opposizione stoica al governo, rendendosi sempre meglio conto che proprio il sistema di governo tipo quello di Domiziano, da Dione accomunato a quello di Nerone e·di Caligola, spezzava ogni possibilità di vita politica e sociale. È stato detto che Dione si converti: allora alla filosofia. In effetto Dione rimase quel grande avvocato ch'egli era. Approfondile proprie idee circa le condizioni che possono permettere una vita comune, sia tra privati cittadini, sia tra città e città, sia tra città e città e il governo centrale - e in tal senso, entro i termini della nuova situazione politico-sociale, Dione è davvero ravvicinabile ai sofisti antichi, - cercando di determinare il significato 8    di cosa voglia dire vivere bene (il bene) e cosa vivere male (il male), proponendosi conseguentemente il vecchio problema se l'esilio sia dav- vero un male o se il male consista nel non saper vivere razionalmente. E cosi egli si trovò sulla linea, sullo axii!J.IX,delle discussioni proprie degli stoici e dei cinici suoi contemporanei (cfr. Oraz., 13). Nella tormentosa strutturazione e costituzionalizzazione dell'Im- pero, che soffriva, relativamente alla fondazione del suo potere di fronte al Senato e al popolo di Roma, dell'equivoco con cui, con Augusto, era nato, la grave esperienza di Domiziano portò i suoi successori, già con Cocceio Nerva (96-98), piu sensibilmente con Traiano (98-117) e con Adriano (117-136), in maniera ancora piu approfondita con An- tonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180), a definire - se non il grosso problema dell'ereditarietà o dell'elezione; in questo periodo risoltosi con l'adozione, che fu, in fondo, un compromesso - la fun- zione del principe e la funzione stessa dello Stato, in un assolutismo in cui l'imperatore non è né un tiranno né un padrone, né un monarca di tipo orientale, ma il supremo magistrato dell'imper9. Di qui, sia pure per ragioni politiche, la sempre piu ampia provincializzazione, lo slargamento della cittadinanza, l'apertura del Senato, che perde sempre di piu il suo potere di classe di una Città-Stato, a uomini di origini diverse - per cui il Senato assume sempre piu la forma di un organo consultivo, - fino alla logica conseguenza della constitutio anto- niniana (con Caracalla nel 212). È stato detto che "la provincializza- zione - e quel che è stato spesso chiamato 'imbarbarimento' dell'im- pero - non sono conseguenze di una poco avveduta politica di Adriano e dei suoi successori, ma piuttosto il necessario effetto dell'inclusione in uno stato unitario, sotto il governo dell'Urbs, di genti di varia cul- tura. Nel vasto organismo dell'impero si è svolto uno scambio di ele- menti etnici e culturali, nel quale le civiltà superiori hanno assimilato forme diverse di cultura e nello stesso tempo si sono trapiantate in altre sedi, arricchendosi e rinvigorendosi di nuove energie. Il processo iniziatosi nell'età ellenistica prosegue su scala maggiore, favorito dal- l'unità politica e amministrativa. E diventa quindi sempre meno soste- nibile il principio augusteo della preminenza dell'Italia sulle provincie: già Cesare aveva decisamente impostato una politica intesa· ad assimi- lare i sudditi ai cittadini. Piu conservatore - per principio o per pru- denza politica - e meno aperto allo spirito cosmopolitico ellenistico, Augusto ha svolto una politica contraria al livellamento; ma ha pure avvertito che un ampliamento dell'impero avrebbe di necessità compro- messo il sistema gerarchico da lui fondato. Non solo le vicende mili- tari, ma già le esigenze della vita economica suggeriscono ai suoi sue- 9    cessori una diversa politica, qual era del resto segnata dagli ideali filosofici del tempo e dai sempre piu intensi scambi culturali nell'àrn- bito dell'impero" (G. Pugliese-Carratelli, La crisi dell'impero nell'età di Galliena, in "La Parola del Passato," IV, 1947, pp. 52-3). Sotto questo aspetto, già con Traiano, sembra chiaro in che senso gli imperatori del n secolo abbiano ascolato soprattutto le voci dell'op- posizione stoica, che potevano dare loro le condizioni che ne giustifi- cassero il potere. "La maggioranza di ·coloro che avevano avversato il governo dei Flavii non erano ostili al principato in sé, ma il loro atteggiamento nei riguardi di esso corrispondeva piuttosto a quello di Tacito. Essi lo accettavano, ma desideravano che fosse il piu pos-sibil- mente vicino alla ~atarJ..e:(at stoica e il piu possibilmente diverso dalla tirannide, identificata con la tirannide militare di Caligola e di Nerone in particolare e con quella di Domiziano. Con l'ascensione di Nerva e di Traiano si concluse la pace tra la massa della popolazione dell'im- pero, e specialmente le classi colte della borghesia cittadina, e il potere imperiale ... Ciò che avvenne fu un nuovo adattamento del potere im- periale alle condizioni reali, non una riduzione di esso" (M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'Impero romano, Firenze, pp. 140-141). Non fu, perciò, un caso che, poco dopo la morte violenta di Do- miziano, Dione di Prusa sia stato reintegrato nei suoi diritti civili e che, dopo aver soggiornato qualche tempo nella sua città, ove par- tecipò attivamente alla vita politica di quella municipalità, sia rientrato in Roma chiamatovi dall'imperatore Traiano, divenendo alla fine cit- tadino romano e consigliere e propagandista delle idee politiche del- l'imperatore, soprattutto nei paesi greco-orientali, dividendosi tra Roma e Prusa (100-110). Dione, attentissimo alla situazione politica del suo tempo, si rese conto che per rendere possibile la c@nvivenza (d'altra parte necessaria) tra le esigenze di libertà e di autonomia delle antiche "p6leis" greche (che Dione sempre difese: cfr. le Orazicmi bitiniche) e la città di Roma, bisognava che da un lato le città greche accettassero il potere di Roma e che, dall'altro lato, Roma fondasse il suo impero, non sul potere personale e tirannico di una città sulle altre, ma su di un potere capace di rendere uno lo Stato, in un'armonia di "nazioni," mediante cui ciascuna si articoli all'altra, a somiglianza dell'ordine co- smico, retto in unità per sua stessa natura da un unico principio, ragion d'essere del tutto (e tale avrebbe dovuto essere, sia pure per analogia, l'imperatore). Di qui il passo a prospettare come possibile Stato, rispondente alla natura, e perciò vero e divino, la "politèia regale" di tipo stoico, eia- 10    baratasi tra la fine del 1 secolo a. C. e il 1 d. C., era breve e tale che poteva servire ai nuovi intenti politici e giuridici di.Traiano. Padre e benefattore (1tcx-rljp xcxt e:ùe:pyé't"rjt; ), non padrone ( 8e:<m6't"rjt; ) dei suoi governati, l'imperatore, scelto in quanto uomo di ragione e perciò non dio, ma simile al dio supremo, ragione d'essere del tutto, egli opera in accordo col Dio, assumendo il suo potere come un dovere, in un'attività che è fatica (7tovot;) e non piacere (~8ov-lj), realizzando in armonia i diversi compiti cui ciascuna città, ciascuna classe, ciascun cittadino - che non va perciò ritenuto schiavo, ma libero - sono chiamati, circondato da amici e consiglieri (il Senato), da uomini virtuosi, che partecipino alla cura degli affari dello Stato (cfr. Sul regno, orazz. 1-3). Un "sapiens," un "filosofo" dovrebbe essere il vero uomo di governo, personificazione della ragione vivente del tutto, ma poiché ciò accade di rado, un sapiens sia almeno chi consiglia il principe (cfr. Oraz., 49, 4), a meno che - e sa- rebbe ideale - il principe non si circondi, per legge e non a suo ar- bitrio, di un organismo permanente di filosofi, costituenti un consiglio del principe (cfr. Or'az., 49, 7-9). Senza dubbio Dione riprese il motivo del re filantropo, e non solo certe tesi stoiche, che nella delineazione di uno Stato ideale egli poteva sostenere ispirarsi al discorso platonico (l'unica costituzione perfetta, ove ragione e legge sono tutt'uno, è la politèia degli dèi del cielo, in cui ciascuno fa bene Ciò che gli compete e a modo suo, senza interferire nell'attività àltrui in una reciproca collaborazione in funzione del tutto: cfr. Oraz., 36, Boristenica, ma anche la concezione di sfondo, genericamente stoica, di cui abbiamo par- lato, quale, ad esempio, appare dallo pseudo-aristotelico De mundo che Dione sembra abbia avuto presente (cfr. Sinclair, cit., p. 422): un dio unico, ragion d'essere o natura che ha la potenza (86vcxJ.Lr.ç) di costituire il tutto in un cosmo, in un ordine, avendo nell'una mano sole, luna, stelle, e, nell'altra, aria, acqua, terra e fuoco, ponerìdo equilibrio tra le forze contrastanti, si che ciascuna cosa attui ciò che le è proprio, in una equa distribuzione delle parti (laoJ.LoLpt~), e, per ciò stesso, in un equo governo (6J.L6voL~), specchio di quello che, dunque, ha da essere un impero universale, retto da un'unica potenza razionale. Tale, per analogia - e che di analogia si tratti lo dichiara lo stesso Dione: cfr. Oraz., 36, - deve essere lo Stato degli uomini ov~ ~imile sia l'im- peratore a quella che nell'universo è la divinità, e ove ciascuno - e in ciò tutti sono uguali - sia libero di attuare pienamente ciò che gli compete, in una reciproca collaborazione, in funzione del tutto, che non sarebbe senza la giusta distribuzione. delle parti, s{ che appunto l'impero somigli al cosmo, sia un'eucosmia. •Questa," racconta ai suoi concittadini Dione, riferendo un suo discorso ai Boristeni, abitanti 11    presso il Mar Morto, "questa è la teoria dei filosofi. Essa indica una buona e amichevole comunità di dèi e di uomini; essa chiama a par- tecipare alla legislazione e alla cittadinanza non tutte indiscriminata- mente le creature viventi, ma coloro che posseggono ragione e intel- letto. Essa offre un'organizzazione sociale di gran lunga migliore e piu giusta di quella stabilita dagli Spartani, secondo la quale non è permesso agli Iloti diventare cittadini di Sparta: naturale motivo per cui essi sono sempre pronti a ribellarsi" (Oraz., 36, 38). Tutto ciò non è nuovo. La novità è che tutto ciò divenga ora la base su cui si viene fondando ideologicamente l'impero da Traiano a Marco Aurelio, e che ciò abbia voluto e approva.to Traiano. E questo risulta non solo dalle Orazioni l e 11 di Dione (non a caso egli scri- vendo intorno al104, pur non nominando Traiano, dice: "Della divina e benedetta costituzione che ora vige, conviene che io parli con il mas- simo rispetto"), ma anche dal fatto che queste orazioni, dette dinanzi a Traiano, sembra che per ordine di Traiano siano state piu volte ripe- tute da Dione nelle maggiori città dell'Oriente, e che in gran parte esse coincidano con il Panegirico di Traiano scritto da Plinio; in quegli stessi anni circa. Nel mutamento di indirizw governativo, da parte imperiale, in un'adeguazione alle reali esigenze soprattutto delle ZQOe greco-orien- tali, e in un venire incontro all'opposizione, ch'era poi un rafforza- mento del potere imperiale, nella trasformazione dell'Impero in Stato unitaiio e in una sempre maggiore esautorazione del Senato, che non è piu il Senato-classe, quale poteva essere ancora al tempo di Augusto, Dione Crisostomo ebbe, certo, non poca importanza. 'E la sua impor- tanza sta soprattutto nell'avere, riprendendo motivi sparsi, coordinato quei motivi e delineato il tipo di Stato upitario e universale, che se da un lato poteva servire alla politica di Roma, dall'altro lato salvava certe autonomie e libertà dei paesi soggetti, dando, ad un tempo, un significato e un fondamento giuridico al potere e alla figura dell'Impe- ratore. Come il divino regge il tutto in unità, secondo legge, per cui re è stato detto il tutto (lo si personifichi in Zeus, o sia chia- mato Uno), ché tutto, secondo ragione e per sua stessa natura, distri- buisce come è bene che sia, cosi uno è l'imperatore, reggitore, che tutto distribuisce, secondo legge, come è bene che sia, non despota privato, ma, egli incarnazione della stessa ragion d'essere dell'impero, non uomo privato, ma egli stesso Io Stato, per il quale deve sacrificare i propri interessi individuali, per cui la vita dell'imperatore ed ogni sua azione è fatica e dovere. Tutto questo, certo, può suonare assai retorico, ma fu questa, senza dubbio, la linea su cui si posero gli imperatori da 12    Traiano ad Adriano, da Antonino Pio a Marco Aurelio. E ciò risulta non solo dal Pan~girico di Plinio, ma anche, sulla via indicata da Dione, dalla celebre Orazion~ ai Romani di Elio Aristide (originario della Misia, nato nel 117, morto nel 190 circa), che, due ger.erazioni piu t:r'rdi, non scrive piu dell'imperatore regnante, ma abilmente cerca di mostrare il valore di tutto il sistema politico di Roma, oramai affer- matosi, che concilia il prinCipio della Città-Stato classica con il prin- cipio dell'imperialismo. "Vostra scoperta (~~pov dlp1J(J.Ct) è stato il sistema politico dell'impero" (A Roma, 51); "Tutti coloro che vivono sotto il vostro impero, e con ciò io intendo l'intero mondo ('quello che era noto come il confine della terra, quello stesso è ora semplicemente il muro del vostro giardino': 26), voi li avete divisi in due gruppi: i governanti e i governati. Tutti coloro, in qualsiasi località, che sono piu colti, di migliore famiglia, piu influenti, voi li avete fatti vostri pari per cittadinanza e perfino per parentela, e gli altri li avete assog- gettati a loro. Né .il mare né alcuna vasta distesa di terra possono impe- dire a uno di diventare cittadino romano; nessuna distinzione c'è in questo tra Europa e Asia; tutto è alla portata di tutti. Nessuno che sia idoneo a una carica e in cui si possa avere fiducia è straniero. Si è stabilita una universale democrazia mondiale sotto un unico e ottimo dominatore e organizzatore, e tutti confluiscono come a un comune luogo di raduno cittadino nel venire a ottenere soddisfazione alle loro varie richieste" (A Roma, 59-60). Tutto ciò proveniva da parte imperiale e rappresentava la propa- ganda dell'Impero, in una trasformazione dello Stato delineatosi con Augusto, in uno Stato imperialistico. E non pochi, certo, furono coloro che seguitarono a vedere in Roma la conquistatrice (fa dire Tacito a Galcaco, nella Vita di Agricola, 30: questi romani, questi "raptores orbis," dove fanno piazza pulita, "ubi solitudinem faciunt," questa chiamano pace, "pacem appellant") e molti furono gli stessi romani che pur riconoscendo la "missione del loro impero nella diffusione del buon ordine, sentivano duramente quanto profondo fosse il divario tra quanto proclamavano di fare ~ quanto facevano in realtà" (H. Fuchs, Der geistig~ Widerstand g~g~n Rom, Berlino, 1938, p. 18; cfr. anche Sinclair, rit., pp. 434-36). Ciò non toglie che la nuova politica impe- riale, abilmente propagandata, se da un lato ha subito l'influenza di una certa concezione, anche nel modo di vita e di condotta degli impe- ratori, che - per politica· o per intima convinzione - hanno saputo giuocare la propria parte (pensiamo ad Adriano, a Antonino Pio e in particolare a Marco Aurelio), abbia, dall'altro lato, fortemente influen- zato alcuni aspetti della stessa cultura quale" si viene configurando nel u secolo. 13    Entro quest'àmbito, se ci rendiamo conto del significato politico della cessazione da parte degli imperatori delle persecuzioni .nei con- fronti dei filosofi, sembra anche chiaro perché gli imperatori si siano adoperati per aprire, sia in Roma sia nei maggiori centri culturali del- l'Impero, scuole pubbliche, ove i maestri erano stipendiati dallo Stato. Già Vespasiano aveva, per primo, istituito, in Roma, due cattedre "ufficiali, una di retorica latina [il cui primo titolare fu Quintiliano], l'altra di retorica greca, alle quali era annesso uno stipendio annuale di centomila sesterzi, prelevati dal fisco imperiale" (Svetonio, Vesp., 18); Adriano, su consiglio della madre Plotina, che sembra avesse simpatie per l'epicureismo, dette facilitazioni legali alla comunità epicurea di Atene (lscr. Gr., 2, 11, 1099); Marco Aurelio, infine, istitu( ad Atene con sovvenzioni prelevate dal fisco imperiale, cinque cattedre: una di retorica, una di filosofia platonica, una di filosofia stoica, una di filo- sofia aristotelica e una di filosofia epicurea (lo stipendio dei filosofi era di sessantamila sesterzi all'anno, quello del retore di quaranta- mila). Dal terzo secolo in poi, ·il controllo da parte imperiale sulle scuole, non solo su quelle istituite dallo Stato, ma anche su quelle municipali, si fece sempre piu pressante. Con Giuliano "questo inter- vento fin( col divenire regola generale; egli decide che nessuno potrà insegnare, se non dopo essere stato approvato da un decreto emesso dal consiglio municipale e debitamente ratificato dall'autorità dell'impera- tore (Cod. Theodos., 13, 3, 11); il quale si assumeva cos( un diritto di vigilanza sull'insegnamento in tutto l'Impero... La decisione si colle- gava a tutta una politica religiosa; ma, privata del suo spirito anti- cristiano, conservò il suo vigore sotto i successori di Giuliano, come testimonia la sua inserzione nel Codice Teodosiano; soltanto con Giu- stiniano sarà soppressa, come inutile, l'esigenza della sanzione impe- riale - Cod. Just., 10, 537" (Marrou, cit., p. 403). - Intanto, tra la fine del 1 e il 11 secolo, anche per la maggiore possi- bilità concessa alle varie tendenze, sia pure nell'istituzione di cattedre che avevano il compito di preparare, mediante la diffusione della cul- tura sia in Occidente che in Oriente, i futuri funzionari dell'Impero, in una comune concezione e fede in un ordine universale - comunque poi si ritenesse che a quella visione si potesse giungere, - si è cercato, per un verso o per l'altro, recuperando certe tradizioni piuttosto che altre - ove non vanno dimenticati i luoghi di origine e la formazione dei singoli autori, - di sistemare in unità motivi molteplici e diversi, esperienze e concezioni e culture. greche, orientali, romane, in funzione di una cultura, anch'essa davvero imperiale. 14    2. Plutarco di Cheronea Un'analisi delle opere di Plutarco di Cheronea,2 in Beozia, vissuto tra il 46 circa e il 125 d. C., volte contro gli stoici (Le contraddizioni degli stoici, Sulle nozioni comuni: contro gli stoici, Gli stoici si espri- 2 Nato a Cheronea, in Beozia, nel 46 circa, da una facoltosa e severa famiglia, Plutarco, compiuti i primi studi in patria, si recò ad Atene dove ebbe a maestro Ammonio di Alessandria, vissuto sotto Nerone e Vespasiano, che lo avviò al plato- nismo, all'aristotelismo e, sembra, all'interesse per i misteri egiziani e greci. Nella sua piena maturità Plutarco farà di Ammonio l'interlocutore principale della E di Delfi, riferendo una conversazione avvenuta nel 67, l'anno in cui Nerone venne in Grecia (E di Del/i, 385b). Dopo il suo soggiorno ad Atene, Plutarco fu ad Alessandria, in Asia, certo piu volte a Roma, dove entrò in contatto con le maggiori personalità della poli- tica e della cultura (tra il 75 e il 90) e dove fu particolarmente benvoluto dall'impe- ratore Vespasiano. A lui si legarono di amicizia e in parte ne seguirono la concezione, Q. Soccio Senecione, console nel 99 e nel 107, che molto contribui alla vittoria di Traiano sui Daci (a lui Plutarco dedicò le Vite parallele, il De profectibus in virtute, le Quaestiones conviviales); C. Minucio Fundano, senatore, console nel 107, proconsole d'Asia al tempo di Adriano (124-25), uomo di cultura, con particolari simpatie per il platonismo e il pitagorismo (Piutarco ne fece il maggiore interlocutore del De cohibenda ira); Favorino d'Arles (cfr. dopo), a cui P1utarco dedicò il De primo frigido, facendolo inoltre interlocutore delle Quaestiones conviviales. Come suo scolaro Plutarco ricorda anche un certo Lucio Tirreno pitagorico. Rientrato presto in patria visse tra Cheronea e Delfi. Ebbe missioni politiche, fu arconte di Cheronea, e dal 95 in poi sacerdote delfico. Fu nominato cittadino onorario di Atene. Celebre, Plutarco mori nel 125 circa. Il catalogo di Lamprias (detto cosi perché attribuito al figlio di Plutarco, il cui nome, come quello del nonno era Lamprias; in realtà il catalogo ~ del m-rv secolo) enumera 200 opere di lui: molte di esse non sono autentiche, mentre altre, riconosciute auten- tiche non vi sono comprese. Con il tempo le opere di Plutarco sono state divise in due gruppi: Le Vite parallele (46 biografie accoppiate di un greco e di un romano, piu 4 isolate); Opere morali (vi ~ raccolto, impropriamente, tutto il resto della produzione di Plutarco, dagli scritti a carattere filosofico morale a quelli filosofico religiosi, pole- mici, critici, filologici, pedagogici). Essendo impossibile enumerare gli scritti contenuti nelle Opere morali in ordine cronologico, seguiamo qui l'ordine tradizionale, mettendo tra parentesi le opere di cui si discute l'autenticità o che sono certamente apocrife e che vanno oggi sotto la denominazione di scritti dello Pseudo Plutarco: De educatione puerorum libellus, De audiendis poetis, De recta audienda ratione, De adulatore et amico, De profectibus in virtute, De inimicorum utilitate, De amicorum multitudine, De fortuna, De virtute et vitio, Consolatio ad Apol/onium, De sanitate praecepta, Coniugalia praecepta, Septem sapientium convivium, De superstitione, Regum et imperatorum apophthegmata, Apophthegmata laconica, Antiqua instituta laconica, Lacaenarum apophthegmata, De mulierum virtutibus, Quaestiones romanae, Quaestiones graecae, (Collecta parallela graeca et romana), De fortuna Romanorum, De Ale:randri Magni fortuna aut virtute, De gloria Atheniensium, De lside et Osiride, De E delphico, De Pythiae oracu/is, De defectu oraculorum, Virtutem noceri poue, De virtute morali, De cohibenda ira, De tranquillitate animi, De fraterno amore, De amore probis, Animine an corporis affectiones sint peiores, An vitiositas ad infelieitatem, sulficiat, De garrulitate, De curiositate, De cupiditate divitiarum, De vitioso pudore, De invidia et odio, De se ipsum citra invidiam laudando, De sera numinis vindit'ta, De fato, De genio SOt"ratis, De e:rilio, Consolatio ad u:rorem, Convivalium disputationum libri not'em, Amatorius liber, Amatoriae narrationes, Cum principibus philosophandum esse, A d prineipem ineru- ditt~m, Anseni Res pub lit ' agerenda sit, Pra e u p t agerenda e Rei publicae , De u n i 1 1 s in Repubblit'a dominatione, populari statu et paut"orum imperio, De vitando aere alieno, (Deum oratorum vitae), De comparatione Aristophanis et Menandri Epitome, De 15    mono in maniera piu assurda dei poat) e contro gli epicurei (Contro Colote, Non potersi t1it1ere gioiosamente secondo Epicuro, Del t1it1ere nascosto), chiarisce, meglio di una lettura diretta e isolata delle sue opere piu celebri, il significato del platonismo e del pitagorismo di Plutarco, la sua interpretazione di un aspetto di Platone, formatasi entro i termini di una precisa atmosfera culturale. Troppo spesso una lettura isolata, e ritagliata da tutto un contesto, delle opere piu note di Plutarco ha dato luogo a retoriche ricostruzioni di un Plutarco che rivive in un ultimo canto del cigno il significato piu profondo del misti- cismo e della teologia dell'antica Grecia, in una consapevole malinconia per la sua prossima fine e per cui non a caso ci si sofferma sulla famosa narrazione plutarchea ove viene drammaticamente annunciato: Il gran dio Pan è morto! (De dt:fectu oraculorum, 419a-c). I due gruppi di opere polemiche di Plutarco nei confronti dello stoicismo e dell'epicureismo sembra siano state composte al tempo della prima formazione di lui ad Atene, sotto la guida di Ammonio di Ales- sandria, maestro all'Accademia, al tempo di ~erone (di Ammonio non altro sappiamo se non ciò che dice lo stesso Plutarco, cioè ch'egli dava di Platone un'interpretazione molto "plutarchea,"· in funzione di una coerente costruzione religiosa). È già questo un dato assai indicativo e i due gruppi di opere vanno storicamente esaminati non solo per ricavarne una serie di preziòsissime testimonianze sul pensiero stoico e su testi e concezioni di singoli stoici, s{ come sul pensiero epicureo, ma anche perché, attraverso esse, da un lato si rileva un metodo di indagine e di discussione e, dall'altro lato, quale fosse l'intenzione e quali fossero alcune soluzioni di Plutarco. A tali soluzioni, anzi, egli giunse attraverso la di~ussione delle varie testi stoiche cd epicuree, di cui, volta a volta, cerca mostrare la contraddittorietà interna c perciò stesso la non vcracità c la necessità di assumere altra posizione, vera perché non contraddittoria, che è per lui quella platonico-pitagorica. Il che, per altro, non 'gl'impedisce di recuperare qùci motivi stoici cd epicurei cd aristotelici che non sembrano in contraddizione nell'àmbito di un platonismo, interpretato in chiave religiosa c tale da spiegare esperienze c credenze religiose di origine orientale (egiziana e iranica), Herodoli mtdipilale, Quaestiones tlllhlrales, De facie in orbe lutu~e, De primo frigido, Aqu " " ipis sit ulilior, De solenia ammalium, Brwu ralione fili, De carnium esu, Plt#onicae quaesliones, De animae procrealiotte in Timaeo Plt#onis, De re/1f'BfUUIIÌU stoicorum, Stoicos absurdiora poni~ dicere, De commumbw notims advvnu Stoicos, Non posse suviter vivi secundum Epiewri decreta, Advernu Colotna, De lt#enta vivendo, De musica. Alquanti frammenti di opere perdute sono pervenuti (cfr. in vol. Vll Moralia, ed. Bernardakis, Lipsia, 1896). Certamente apocrifi sono l'lruiÌif4tio Traiam, il De fluviis, il De vita et poesia Homm e il De placitis philosophorum libri quinque. 16    riconducendole ad una VISione unitaria, nei termini della patria religione delfica, della paidèia greca, per riprendere le parole dell'Epino- mide platonica, a proposito dell'assunzione nel sistema platonico delle scoperte in campo astronomico degli studiosi di oriente. Senza dubbio Plutarco ignora le posizioni stoiche piu recenti e il loro significato politico, mentre nella sua polemica si serve particolar- mente delle piu note tesi stoiche ed epicuree, divenute, ormai, entro l'àmbito delle scuole di Atene, t6poi di esercitazioni, discussi secondo il metodo proprio della media e della nuova Accademia (sappiamo, per altro, che nell'Accademia si erano compilate antologie di passi stoici, raccolti come testi di discussioni : ma, certo, come risulta da altre opere di lui, Plutarco conosceva direttamente i testi dei grandi Stoici'). Si tralascino pure le piu minute discussioni attraverso cui Plutarco vuoi dimostrare che ogni tesi stoica è in contraddizione con se stessa e che perçiò è .assurda, contro il senso comune, pur se pronunciata in nome delle "comuni nozioni," che assurda, ad esempio, è la tesi stoica che una è la realtà e ad un tempo molteplice, che l'Uno dio, spirito vivente, è ad un tempo ciò che dà individualità e qualità a tutte le cose, per cui il divino non è ed è tutte le cose, onde dio è ad un tempo immor- tale in quanto dio e mortale in quanto cose, che tutte si distrugge- ranno nella conflagrazione universale e cosi via; si tralasci anche la discussione antiepicurea, che si fonda sul vecchio luogo comune che inaccettabile è la tesi epicurea perché spiega la nascita della realtà da un atto assolutamente libero, cioè non razionale e perciò inspiegabile; ad ogni modo ciò che piu colpisce della confutazione plutarchea, in particolar modo nei confronti degli stoici, è ch'egli, accantonando l'aspetto piu fine dello stoicismo, cioè il motivo del t6nos che su di un piano strettamente logico risolve in unità la dialetticità della natura - e, per ciò stesso, non tenendo conto che su di un piano altrettanto razionale, l'altra soluzione possibile era l'ipotesi epicurea - vede come contraddittorio il tentativo stoico di mediare nell'unità della natura gli aspetti molteplici della natura stessa, là risolvendo il bene e il male, che io realtà non sono che errori di prospettiva, gli istinti e la ragione, come ragion d'essere degli istinti stessi. Ciò che Plutarco viene accan- tonando, e che gli scettici mettono, invece, in primo piano, è che le due concezioni, l'epicurea (effettivamente antiplatonica, antiaristotelica e antistoica) e la stoica (non a caso, dopo l'ipotesi di Cleante, passibile d'essere interpretata come un'interpretazione naturalistica della conce- zione platonica, o come un approfondimento dd!'Aristotele interprete di Platone) si potevano considerare, in realtà, come le due tesi piu convincenti, l'una e l'altra razionali, anche se su due piani diversi. Di qui si poteva giuocare tra le due posizioni (la platonico-aristotelico-    stoica e la epicurea) contrapponendole tra di loro, contrapponendo -come dirà Sesto Empirico: Ipotiposi Pirr., I, 8..:.... ragioni a ragioni, o in una sospensione del giudizio sul piano metafisico, o in una assunzione del probabile in funzione retorico-politica. Plutarco, invece, punta sulla presunta contraddittorietà di mediare i due piani, senza con ciò annullare la divinità una nella molteplicità, e senza fare della molteplicità altrettanti momenti- dell'unica forza divina, riducendosi cosf il divino a fisicità e a tempo, e risolvendo con ciò il male nel bene, o facendo sf che il male altro non sia che un errore logico e che tutto avvenga e sia come deve avvenire e come deve essere. Egli cosf ritiene di poter risolvere la questione, mantenendo la dualità, in una interpretazione - attraverso il mistero egiziano di Osiride-lside-Tifone e il dualismo zoroastriano, intesi allegoricamente di certi testi di Platone, non a caso i piu equivoci del Timeo e alcuni delle Leggi su l'anima buona e l'anima malvagia, che ancora oggi sono stati avvici- nati al dualismo iranico. Sincero o meno, certo si è che Plutarco ha teso ad assumere entro i termini dell'antica paidèia religiosa dell'ari- stocratico Apollo Delfico i motivi e le esperienze religiose orientali (egi- ziane e iraniche), rimaste, se non ignote (tutt'altro!), non risolte in una concezione pacificante. Plutarco, cosf, sfruttando le prime pagin_e del Timeo sull'antica sacerdotale sapienza egiziana, delle Leggi sulla dualità tra principio del bene e principio del male, dell'Epinomide sulla ripresa delle scoperte astronomiche dei barbari, ìn funzione della reli- gione delfica, riprende e lancia la leggenda del Platone egiziano e del Platone orientale, che avrebbe risolto in termini razionali gli aspetti piu oscuri della religiosità, donde, per altro, attraverso Platone, l'in- terpretazione simbolico-allegorica dei riti e dei culti dei misteri egi- ziani, in un continuo riferimento ai misteri e alla mitologia dei greci (cfr. particolarmente De Iside), per cui potev~ servire anche gràn parte della simbolica dei numeri di origine pitagorico-alessandrina, e, nel- l'interpretazione del significato degli dèi e dei loro nomi, l'allegorismo di origine stoica. Bastino alcuni esempi: Gli stoici asseriscono che lo spirito che feconda e alimenta è Dioniso, quello che percuote e distrugge è Heracles, quello che riceve è Ammon, quello che pervade la terra e i suoi frutti è Demetra e Kore, quello che pervade il mare è Posidone. Gli Egizi, combinando con queste interpreta- zioni naturalistiche taluni elementi dottrinali derivati dall'astronomia, cre- dono che Tifone significhi il mondo solare, e Osiride quello lunare... Al diciassette del mese cade la morte di Osiride, secondo il mito egi- ziano, cioè quando il plenilunio si rivela nella massima compiutezza. Perciò i Pitagorici chiamano questo giorno "barriera" e, in generale, hanno un 18    aborrimento estremo per questo numero, perché il numero diciassette si frappone tra il sedici, quadrato, e il diciotto, rettangolo, oblungo non equi- latero - alle quali figure soltanto accade di avere i perimetri uguali in valore numerico alle superfici ~ pone una barriera tra l'uno e l'altro, e li distingue tra loro e, precisamente, rompe la proporzione di uno e un ottavo, diviso come è in disuguali intervalli... I Pitagorici esprimono le loro cate- gorie con una grande varietà di termini: per essi il Bene è l'Uno, il De- terminato, il Costante, il Diritto, l'Impari, il Quadrato, l'Uguale, il Destro, il Luminoso; il cattivo invecè è la Diade, l'Indefinito, il Movimento, il Curvo, il Pari, l'Oblungo, il Disuguale, il Sinistro, l'Oscuro. - Inoltre i Pitagorici adornarono anche numeri e figure con denominazioni di dèi. Chiamarono, i~fatti, il triangolo equilatero col nome di Atena, nata dal vertice [capo di Zeus], e Tritogenia, poiché esso è diviso da tre perpendicolari tirate dai suoi angoli. Il numero uno lo chiamano Apollo... Il due lo chiamano contesa e audacia; il tre giustizia... La cosiddetta "tetraktys," cioè il trentasei, costi- tuisce, com'è fama diffusa, il "piu alto giuramento" e ha ricevuto il nome di "mondo," poiché è formato dai primi quattro numeri pari e dai primi quattro numeri dispari sommati insieme... (De lside, 367 c, e-f; 370 e, 381 f-382 a). Sotto questo aspetto, nel tentativo di conciliare in una sola reli- gione delfico--apollinea la religione ellenica con certi aspetti delle reli- gioni di oriente (non va, per altro, scordato che Plutarco dal 95 circa in poi fu, in Cheronea, sacerdote a vita del tempio dell'Apollo delfico e che certi tentativi di pacificazioni religiose in una coinè potevano, tra l'altro, essere anche un servizio reso al nuovo indirizzo della poli- tica imperiale: indicativo è che Plutarco sia stato onorato da impera- tori quali Traiano e Adriano), sembra che Plutarco abbia, in funzione di tale accordo, ricostruito e allegoricamente interpretato da un lato la religione egiziana di lside e Osiride (De lside), dall'altro lato abbia cercato di mostrare il significato riposto dell'Apollo delfico (De E apud Delphos), degli oracoli (De Pythiae oraculis; De d4ectu oraculorum), ed abbia, in tale chiave, interpretato, come dicevamo, certi testi del Timeo (De animae procreatione in Timaeo) e delle Leggi, accanto alla ricostruzione di un Platone sacerdote-filosofo della religione delfica. Sembra ora non poco indicativo, a testimonianza di quanto sopra abbiamo detto, sottolineare il ·seguente passo del De lside: "Questo nostro trattato è inteso a conciliare appunto la credenza religiosa degli Egizi con questa nostra filosofia." (37la). Plutarco ha ricostruito il mito egiziano di Osiride-Iside-Tifone, insistendo nell'affermazione che il mito egizio va assunto in maniera allegorico-simbolica, si come gli aspetti cultuali e rituali in cui sono impegnati i suoi sacerdoti. 19    Iside è dea eletta per sapienza e davvero amante di sapienza - filosofa, - come il nome stesso vuole perfino indicare, dea alla quale intelligenza e conoscenza si addicono nel piu alto grado. A dir vero, lside è parola ellenica e parimente Tifone; costui è nemico alla dea, gonfio e borioso, come il ·suo nome stesso esprime, per ignoranza e illwione; riduce a brandelli e disperde la sacra scrittura, che la dea invece raccoglie e ricompone e affida agli ini- ziati, poiché il processo di divinizzazione, che avviene mediante un tenore di vita costantemente saggio... avvezza a sopportare gli inflessibili rigori dei riti liturgici nel tempio. Finalità di tali liturgie è la conoscenza di Colui che è Primo, è signore, è realtà intelligibile, di colui che la dea ci invita a cercare, poiché egli è accanto a lei, in intima comunione. Il nome stesso del tempio promette apertamente conoscenza e intelligenza dell'essere; ri· sponde al nome di Iseion, a indicare che noi sapremo la verità dell'essere allorché ci accosteremo, con atteggiamento di ragione e di pietà, ai riti sacri della dea... (351 f-352 a). · Allorché, dunque, ascolterai i miti che gli Egizi narrano sugli dèi - vagabondaggi, smembramenti e tante altre vi· cende del genere - tu, o Clea [sacerdotessa a Delfi, cui Plutarco dedica il De lside; a Clea è dedicato anche il Mulierum virtutes], devi ricordare quanto siamo venuti dicendo e non credere che il fatto cos{ raccontato sia realmente avvenuto nella maniera in cui viene tramandato... (355 b). Tali, a un di presso, sono i punti capitali del mito... Ecco, qui c'è qualcosa che non ho bisogno di menzionarti: se gli Egiziani hannò tali opinioni e rife- riscono tali racconti su ciò che per natura è bea~o e incorruttibile (in accordo con il quale dev'essere conformato il nostro concetto del divino), nella con· vinzione che si tratti di fatti e di eventi realmente accaduti, oh, allora "bisognerebbe davvero sputare e tergersi la bocca" [in Trag. graec. fragm., 354], per usare la parola di Eschilo. E, in verità, tu stessa detesti tali per· sone che serbano ancora opinioni cosi abnormi e barbariche sugli dèi. Che però tali miti non somiglino affatto a quelle vaghe fantasticherie e.a quelle vane favole, quali gli scrittori di versi e di prosa traggono da se stessi a guisa di ragni, tessendo e stendendo le loro malferme primizie letterarie, e che al contrario serrino in sé esposizione di dubbi e di esperienze, .tu lo capirai da te stessa. Proprio come gli scienziati dicono che l'iride risulta dal fenomeno di riBessione del sole e deve le sue varie gradazioni di colore al nostro sguardo, che si ritira dal sole e si volge alla nube, cos{, parimenti, il mito, per noi di quaggiu, non è altro che riBesso di una verità superiore, che torce il pensiero umano in una direzione sensibile. Tanto accennano velatamente i loro sacrifici (358 f-359 a). Il mito egizio, perciò, va compreso come contrapposizione tra il divino principio dell'ordine e del bene (nella coppia Osiride-lside), l'Apollo delfico, e il principio del male e del disordine (Tifone), l'ele- mento titanico, e in una salvazione dell'anima allorché essa, vincendo il male, e conoscendo il divino, come Iside raccoglie in sé e conserva l'unità dispersa del Dio, in un'aspirazione da parte del sacerdote d'Iside 20    (il filosofo) alla sapienza di Iside e al suo amor femminile ad essere posseduta dal Dio (Osiride) e al suo desiderio di raccogliere in unità Osiride spezzato e frantumato dal male. Plutarco, quindi, dopo avere avvicinato tale significato del mito egiziano alla mitologia iranico- caldea e a certi testi - distaccati dai loro contesti - della filosofia greca, particolarmente si rifà a due passi di Platone, la pagina 35 a del Timeo e la pagina 896d delle Leggi: Platone, in piu luoghi, quasi nascondendo e velando il suo pensiero, chiama i due principi antagonistici "Identità" e "Alterità" [Timeo, 35a]; ma nelle Leggi [896 d], allorché era già molto avanti negli anni, si espresse non piu per enimmi e per simboli, ma concretamente, con termini precisi, affermando che il mondo non è mosso in virtu di una sola anima, ma, pro- babilmente, ad opera di piu anime e, in tutti i casi, da non meno di due: delle quali una è quella che produce il bene, e l'altra, antagonista alla prima, è artefice di tutto ciò che è t:ontrario; egli lascia, altresf, sussistere anche una terza, che è una natura in certo senso intermedia, la quale non è priva di anima, di ragione, di moto spontaneo, come alcuni credono, ma dipende ed è sospesa ad entrambe, e aspira all'anima migliore, perennemente, e la brama e la persegue. Dimostrerà tutto questo il seguito del nostro trattato, inteso a conciliare appunto la credenza religiosa (teologia) degli Egizi con questa nostra filosofia. t un fatto che il divenire e la composizione di questo nostro universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiéhe, che non sono, però, equi- librate esattamente,· perché la prevalenza appartiene alla forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che la torza del male perisca del tutto, dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo, e, pure in gran parte, nell'anima dell'universo, in un duello perenne con la potenza del bene. Ebbene, nell'anima intelligenza e ragione, vale a dire ciò che fa da guida e signoreggia su tutto quanto si ha di meglio, si identifica con Osiride. Cosf nella terra, nel vento, nell'acqua, nel cielo, negli astri, ciò che è ordinato, stabilito, sano, come si rivela attraverso le stagioni, le temperature, e i cieli, tutto questo è emanazione di Osiride e immagine riBessa di lui. Tifone, per contro, è la parte dell'anima soggetta a passioni, è l'elemento titanico, e irra- zionale e volubile; ed è la parte dell'elemento corporeo che è mortale e mor- bosa e torbida, come si rivela attraverso le cattive stagioni e le intemperie e gli oscuramenti di sole e le scomparse di luna; cos{ si manifestano le esplo- sioni e le turbolenti rivolte di Tifone. Tutto ciò è espresso altres{ dal nome con cui chiamano Tifone: Seth, che significa: ciò che tiranneggia, ciò che violenta (370 f-371 b). Se, dunque, secondo Plutarco t. ripugnante alla ragione risolvere tutta la molteplicità nell'unità del principio attivo che implica una pas- sività su cui operare, la quale passività deve perciò essere senza forma (materia), per cui, alla fine, si nega sia il divino principio sia la realtà 21    molteplice, ché, pres1 m sé, vengono a non essere piu né il pnnc1p10 attivo e qualificante né l'informe pura quantità; e se altrettanto ripu- gnante è l'ipotesi epicurea che spiega la nascita degli infiniti mondi, l'esistere, mediante un principio inspiegabile, irrazionale; l'unica pos- sibilità è porre a fondamento del tutto da un lato si un principio attivo, l'essere uno, come condizione della pensabilità del reale, ma dall'altro lato anche una materia che non sia senza forma, poiché altrimenti essa sarebbe nulla e lo stesso dio sarebbe perciò causa di nulla, oppure dando egli forma e qualità alle cose che sono, tra cui è anche il male, dio, per definizione essere e perfezione, sarebbe causa del male. In verità, le origini dell'universo non vanno poste nei C<?rpi inanimati, come vogliono Democrito ed Epicuro. E neppure fanno da artefice di una materia non qualificata e non differenziata, come vogliono gli stoici, un'unica ragione e un'unica provvidenza superna, esercitante il dominio su tutte le creature. Fatto sta che è impossibile che qualcosa cattiva, per piccola che sia, entri nell'esistenza, là dove Dio è causa di tutto; ed è ugualmente impossibile che qualcosa di buono, là dove Dio è causa di nulla... Di qui, ancora, questa antichissima sentenza, che da teologi e legislatori trapassa in poeti e filosofi, senza che se ne sappia la prima fonte; essa ha con sé una fede ferma e indelebile e non solo nella storia e nelle tradizioni, si anche nei riti e nei sacrifici, diffusa dappertutto tra i b:rrbari e tra i Greci: che, cioè, l'universo non è già librato, per sola virtU meccanica, di per se stesso, senza un intel- letto, senza una ragione, senza un pilota; né poi v'è una sola ragione che domina e regge, per cosi dire, con timone e con docili redini. No. Al con- trario, la natura ci offre tante esperienze, e tutte miste di mali e di beni, o, meglio, essa in una parola, non ci dà nulla, quaggiu, che sia "puro"; né, d'altra parte, c'è un custode di due grandi vasi che, alla maniera di una dispensiera, distribuisca a noi i nostri scacchi e i nostri successi in mistura; ma è accaduto - quasi risultato di due opposti principi e di due forze antagonistiche, una delle quali ci guida lungo un diritto cammino a destra, mentre l'altra ci fa girare alla rovescia e indietro - che la nostra vita. sia complessa, e cosi pure l'universo... Perché quèsta è la legge di natura, che nulla entri nell'esistenza senza una causa, e, se il bene non può fornire una causa per il male, allora segue che la natura debba avere in se stessa la fonte e l'origine particolare, distinta, del male, proprio come ne ha una, tutta sua, del bene. Tale è il pensiero dell'umanità e dei suoi piu nobili sa- pienti. Questi, infatti, credono che vi siano due principi divini, quasi rivali tra loro: l'uno artefice dei beni, l'altro dei mali. E c'.è chi chiama il primo, migliore, dio; e l'altro, dèmone; cosi per esempio, il mago ZOroastro, di cui si narra che vivesse cinquemila anni prima della guerra di Troia. Ebbene, questi chiamava il primo Horomazes, l'altro Arimanios; e spiegava, poi, che l'uno rassomigliava, nel campo sensibile, alla luce piu che ad altro elemento; e l'altro, per contro, alle tenebre e all'ignoranza; e che tra l'uno e l'altro, intermedio, era Mitra, chiamato perciò dai Persiani "Mediatore"... 22    I Persiani poi moltiplicano racconti favolosi sui loro dèi... I Caldei dichia- rano che, tra i pianeti ch'essi chiamano dèi tutelari della stirpe, due sono benefici, due malefici, e gli altri tre, intermedi, sono buoni e cattivi ad un tempo. Le credenze dei Greci in proposito sono ben note a tutti... (De Iside, 369 a-370 d). Le citazioni e le pezze di appoggio di Plutarco sono molto indica- tive, molto ben collocate e fatte al momento opportuno. Si capisce cosi come, per altro verso, egli, nel suo tentativo di far rientrare le religioni egiziana e persiana - in un'interpretazione simbolico-allegorica dei loro miti e delle loro credenze, simile sotto parecchi aspetti a quella operata sui testi ebraici da Filone l'Ebreo - entro i termini della reli- gione delfica, puntasse, si come Filone, su Platone interpretato in chiave teologico-religiosa. Non solo, ma nella chiara esigenza di Plu- tarco di costituire una possibile pace culturale nella convinzione di un'unica sacerdotale pia philosophia, di contro al naturalismo stoico e di contro a quella che sembra, per chi assuma a fondamento della realtà un principio razionale e intelligente, l'irreligiosità e l'assurdità degli epicurei (simili, alla fine, nel loro ateismo, o meglio nel loro credere gli dèi indifferenti, a coloro che, per ignoranza, in una loro volgare religiosità, temono il divino e i dèmoni, ove va sottolineato che il ter- mine tradotto con "superstizione" è in greco timore della divinità, 3etat30tt!Lov(cx: cfr. Plutarco, De superstitione), si capisce anche come egli si riferisse da un lato al concetto piu generale ed elastico del divino di Platone e dall'altro lato, invece, a certi singoli testi di Platone tratti dal Filebo, dal Timeo, dalle Leggi. Tali testi, interpretati a ritroso, cioè entro· una linea costituitasi dopo Platone, potevano servire, ap- punto, all'intento di Plutarco, dando un fondamento filosofico, cioè convincente in quanto razionale, a quello che Io stesso Plutarco dice il buon senso, il comune senso religioso di tutti gli uomini, che, se non educato, degenera o nell'ateismo o nella superstizione (cfr. De superstitione). Non dobbiamo pensare che gli dèi siano diversi tra loro, da popolo a' popolo; che siano, cioè, dèi barbari e dèi greci o dèi australi e dèi settentrio- nali. No, ma come il sole e la luna e il cielo e il mare· sono comuni a tutti, mentre sono chiamati da chi in un modo e da chi in un altro; cosf, pari- menti, le fhrme del culto e le denominazioni, diverse le une dalle altre, a seconda delle varie costumanze, sono, pur sempre, espressione di un'unica razionalità, che le ha tutte nobilmente ordinate, e di un'unica Provvidenza, che veglia su di esse, e di potenze ancillari preordinate su tutte. Di piu, gli uomini si avvalgono di simboli consacrati- e chi ricorre a simboli oscuri e chi ricorre a simboli piu trasparenti - guidando il pensiero sulla strada 23    pcrigliosa che conduce al divino. Alcuni, infatti, vanno completamente fuori strada c s'ingolfano nella superstizione (3etat30ttjLOV(at); altri sfuggono, per cosf dire, da quel pantano che ~ la superstizione, ma .piombano, d'altro canto, come in un dirupo scosceso: l'ateismo. Ecco pcrch~, in questa ma- teria, occorre soprattutto che noi adottiamo, come guida sacra in tali misteri, le ragioni che derivano dalla filosofia c consideriamo santamente, ad una ad una, le tradizioni c le liturgie; sf che... non erriamo interpretando in un differente spirito quel che i costumi religiosi stabilirono nobilmente sui sacrifici e le feste. [Tutti, comunque, ammettono che bisogna far risalire ogni cosa a una ragione] (De /siJe, 337/-378 b). Solo che, rifiutata l'interpretazione stoica della materia, Plutarco si ritrova di fronte alla difficoltà di opporre' all'essere che è, un essere che in quanto opposto all'essere o è essere come l'essere, uno con esso, o è non essere, cioè non è. A meno che, di nuovo, non si ricorra, in un'interpretazione del Timeo, a porre come condizioni logiche, da un lato il divino, principio ordinatore, e, dall'altro lato, una quantità neu- tra (materia) come possibilità di assumere tutte le forme, non logica- mente deducibile e di cui, per riprendere l'espressione platonica, non si può discorrere se non con un "ragionamento bastardo." ·Plutarco cosi viene accostando testi platonici assai equivoci, in cui Platone sa benissimo di avanzare delle ipotesi, tanto è vero ch'egli imposta la questione su di un piano "'descrittivo," cioè mediante il mito, e in Pla- tone rispondenti a momenti diversi e a p~oblematiche diverse, e li risolve in una sola interpretazione. Si delinea cosi l'interpretazione di Platone da parte di Plutarco e la sua costruzione: l. Il divino principio, l'essere che è, il bene (l'Apollo delfico, luce e armonia, corrispondente all'Osiride egiziano e all'Horomazes zoroastriano) : Errano i nostri sensi, per ignoranza dell'essere reale, a· dar essere a ciò che appare soltanto. Ma allora che ~ l'essere reale? L'eterno. Ciò che non nasce. Ciò che non muore. Ciò in cui neppure un attimo di tempo può introdurre cambiamento. Qualcosa che si muove e che appare simultaneo con la materia in movimento, qualcosa che scorre perpetuamente c irresistibil- mente come un vaso di nascita c di morte: ceco il tempo! Persino le parole consuete, il "poi," il "prima," il "sarà," l'"accadc" sono la spontanea con- fessione del suo non-essere. Infatti, ~ ingenuo e assurdo dire "~" di qualcosa che non ~ entrato ancora nell'essere, o di qualcosa che ha già cessato di essere... Di contro, dire dell'Essere che ~. "Esso fu" o "Esso sarà" ~ quasi un sacrilegio. Tali determinazioni, invero, SQno flessioni e alterazioni di ciò che non nacque per durare nell'essere. Ma il dio -occorre dirlo? - "~"; ~. dico, non già secondo il ritmo del tempo, ma nell'eterno, che ~ senza moto, senza tempo, senza vicenda; e non ammette ~~ prima n~ dopo, né futuro né passato, né età di vecchiezza o di giovinezza. Egli è uno e nell'unità del presente riempie il "sempre": ciò che in questo senso esiste realmente, quello "è" unicamente: non avvenne, non sarà, non cominciò, non finirà. Occorre, allora, che nel modo ora spiegato i fedeli rivolgano al dio il saluto e l'invocazione: "Tu sei" (d,e~), o anche, per Zeus, Ct>me alcuni antichi dicevano: "Sei Uno" [Tu sei,. ei: tale l'interpretazione che Plu- tarco dà dell'epsilon, della "e," iscritta sul frontone del tempio delfico, dopo avere, d'altra parte, sottolineato le possibili interpretazioni che, giuocando in chiave platonico-pitagorica si possono dare di epsilon, inteso come la let- tera, indicante in greco, il numero cinque: i cinque accordi dell'armonia; i cinque intervalli melodici; i cinque mondi - terra, acqua, aria, fuoco, etere; - la pentade - punto, linea, superficie, altezza = tetrade o solido, piu anima = pentade o essere vivente; - i cinque generi del Sofista: l'ente l'identico, l'altro, il movimento e la stabilità: "Taluno, a quanto sembra, precorse Platone nello scrutare tali cose e quindi consacrò al dio la ~:;, segno e simbolo del numero che esprime la. realtà. Del resto, Platone aveva ben compreso che persino il Bene si rivelava in cinque forme (nel Filebo): prima è la moderazione; seconda, la proporzione; terza, l'intelligenza; quarta, le conoscenze, le arti, le opinioni vere sull'anima; quinta, il piacere, ove mai esista, puro e immune da ogni mescolanza con il dolore." Sintesi di tutto ciò, la E sembra simbolizzare per Plutarco l'Essere Uno del dio; il solo dio è, tu sei: cfr. De E Delph., 389 c-392 a]. "Sei Uno," poiché la divinità non è moltitudine, come ognuno di noi, congerie svariata e intruglio di infinite ibride passioni. Al contrario, l'Ente vuoi essere uno, come l'Uno vuoi essere ente. Se l'es~re ammettesse un altro, questi, naturalmente, differirebbe dal primo, e pertanto entrerebbe nel divenire, cioè nel non essere: perciò sta bene al dio il primo dei nomi e éosl pure il secondo e il terzo: Apollo, in- fatti, per cosi dire, rifiuta la pluralità e nega la molteplicità; leios vuoi dire .che è uno e solo; quanto a Febo, è certo che cosi gli antichi chiamavano tutto ciò che fosse puro e casto... (De E Delph., 392 e-393 c). - Ma Osiride, il dio, in se stesso, è lontanissimo dalla terra, incontaminato, incorruttibile, puro da ogni materia che soggiaccia alla distruzione e alla morte. Alle anime umane, fino a che, quaggiu, sono imprigionate dai corpi e dalle pas- sioni, non è dato partecipare del dio, se non rispettando quel limite in cui sia dato loro giungere a un'oscura visione di lui, .per via di pensiero, attraverso la filosofia (De lside, 382 f); 2. La materia, neutra in quanto potenza (la nutrice platonica; l'Iside egiziana). Il principio attivo come disordine (non materia, in sé né buona né cattiva), bens1 attiva (l'anima malvagia delle Leggi di Pla- tone; Tifone egizio; l'Arimanios wroastriano): Iside, in verità, è il principio femminile della natura ed è suscettibile di ricevere ogni forma di generazione, in quanto è chiamata da Platone "nutrice 25    e ricettacolo comune" [Timeo, 49e-5la], e da molti altri è chiamata con una infinità di nomi, per il fatto ch'essa, in virtu della ragione,' volge e rivolge se stessa, accogliendo ogni tipo di forma e di idea. Essa ha un innato Eros verso colui che è il primo e supremo signore di tutte le cose, il quale si identifica con il Bene, e lo brama e lo persegue [Osiride]. Fugge, invece, e respinge la porzione che deriva dal male, perché essa, serve, si, a entrambi qualç spazio e materia, ma inclina sempre piu facilmente verso l'essere mi- gliore e offre a lui la possibilità di generare da lei stessa, e di impregnarla di effiuvi e di somiglianze, di cui ella gioisce e si rallegra, fecondata com'è e fatta pregna di tali generazioni. Generazione, infatti, non è altro che l'im- magine dell'essere nella materia; e il divenire è un'imitazione dell'essere. Ecco perché il loro mito non è fuori strada, allorché narra che l'anima di Osiride è eterna e che il suo corpo fu molte volte smembrato e annientato a opera di Tifone, e che lside andò errando e ne fece ricerca e riuscf ,di nuovo a ricomporlo... (De lside, 372e-373a). Platone chiama la materia con il nome di Penuria, bisognosa com'è, di per se stessa, del bene e pregna di lui ed eternamente bramosa e partecipe di lui... Allorché, dunque, diciamo "materia," non dobbiamo essere tratti dalle opinioni di alcuni filosofi [gli stoici] e pensare a un certo corpo inanimato e indifferenziato, inerte e inattivo di per se stesso. Fatto sta che noi chiamiamo l'olio "materia del pro- fumo," l'oro "materia della statua"; e questi non sono privi di ogni difie- renziazione. Persino riferendoci all'anima e al pensiero dell'uomo, noi Ii consegniamo, quale materia di conoscenza e di virt6, alla ragione affinché li .adorni e li armonizzi; e taluni hanno dichiarato che l'intelletto è la sede delle idee [cfr. Aristotele, De anima, 429a, 27] e, quasi, la massa, in cui si esprime una immagine•della realtà intelligibile [cfr. sopra Moderato di Gades; oltre, Albino, Epitomè: "L'idea è in rapporto a Dio il suo atto intel- lettivo," IX, 1]... lside gode di una eterna partecipazione del dio primor- diale e gli è vincolata nell'amore di tutto ciò che in lui è buono e bello, e che, pertanto, non gli resiste..., e perciò essa è sempre attaccata strettamente a lui e sta costantemente intorno a lui, piena e pregna delle sue parti piu nobili e pure (De lside, 374d-375a). Le vesti di lside son di colore screziato, perché la potenza di lei riguarda la materia, la quale si trasforma in ogni cosa e tutto accoglie, luce e oscurità, giorno e notte, fuoco e acqua, vita e morte, principio e fine. La veste di Osiride, invece, non ha sfumatura di ombre, né screziatura di colori, ma solamente un llllico fondo, tutto sem- plice, la pura luminosità. Infatti il principio non ronosce combinazione; e il primordiale e l'intelligibile sono privi di mescolanze (De Iside, 382c). Il principio, l'Essere, che è, dunque, nella sua iafinita ricchezza e pienezza tutta in atto, non si depaupera né si risolve nella realtà ordinata e qualificata che da lui si genera, si come, secondo Plutarco, avviene per il dio stoico. Plutarco, perciò - e di qui deriva la sua interpretazione del Timeo, - doveva sostenere che la materia non ~ pura quantità, assolutamente passiva, ma è esistenza, potenzialità di 26    assumere forme e qualita, e in tal senso è povertà e desiderio, essa come la donna che si trasforma nelle sue generazioni, nelle quali tut- tavia non si esaurisce né si risolve il "padre," che, preso in sé, resta altrettanto ricco e fecondo, privo di mescolanze. Dio da un lato (Padre), materia dall'altro (Madre), il mondo e i mondi (Plutarco sostiene che possono essere cinque: cfr. De defectu oraculorum, 423c-424h, 428f-43la; De E Delph:, 389f-390a) sono il figlio. "La migliore e piu divina natura consiste di tre parti: l'intelligibile, la materia e il risultato di entrambi, che gli Elleni chiamano cosmo. Orbene, Platone fu solito chiamare la parte intelligibile con il nome di idea o modello esemplare o anche 'padre'; la parte materiale con il nome di 'madre' e 'nutrice,' e anche 'sede' e 'posto' di generazione; e il risultato di entrambi 'prole' e generazione [Timeo, 50c-d]" (De lside, 373f). Solo che, posta cosi la questione, e spiegati certi miti religiosi con altri miti e immagini; desctittivamente posti il divino essere e accanto, ab aeterno, la corporeità, il materiale su cui si opera la generazione; ammesso pure che i due termini siano aristotelicamente le condizioni della nascita del mondo che è generazione (tempo); posto che il divino, in quanto per- fezione è bene e che la materia in quanto mancanza e neutralità non è né bene né male; o si ammette che tutto in quanto generazione dovuta al principio divino è bene, che pur non risolvendosi nelle cose, essendo le cose simiglianti a lui, resta .il termine cui tutto aspira, in un unico amore;·oppure, poiché la presenza del male è inspiegabile (ché nel momento in cui si spiega il male, trovandone la ragione è anch'esso bene), va posto, accanto alla pura intelligibilità e alla pura corporeità, un terzo principio, un'attività inspiegabile e perciò irrazio- nale, fonte appunto del male. È meglio dire con Platone che la sostanza, la materia di cui il mondo è composto, non è stata prodotta, ma era da ~mpre sottoposta al Demiurgo affinché questi la disponesse e ordinasse a propria simiglianza entro i limiti che alla materia sono possibili... Dio non ha generato né la tangibilità e la resistenza dei corpi, né la façoltà immaginativa e motrice delle anime, ma, avendo trovato i due principt, quello oscuro e tenebroso (materia) e quello agitato e i"azionale, ambedue indeterminati e privi della perfezione con- veniente, li ordinò, li regolò, li armonizzò, producendo il piu bello e il piu perfetto degli esseri viventi... Coloro che attribuiscono alla .materia e non all'anima quella "necessità" di cui si parla nel Timeo [48a, 56c, 68e] e quella "infinitezza" e "incommensurabilità" di piu e di meno, di difetto e di eccesso, di cui si parla nel Filebo [24a], come intenderanno poi ciò che Platone asserisce, cioè che la·materia è senza forma e senza figura, priva di ogni qualità e di potenza propria, simile a quegli olt inodori che i profumieri adoperano per le· tinture? È impossibile che Platone postuli 27    come causa e principio del male ciò che in se stesso è inqualificato, inerte, indeterminato e che lo chiami "infinitezza brutta e malefica" e anche "ne- cessità spesso ribelle e riluttante a Dio..." Si tratta bensf di un principio disordinato e infinito che si muove da sé e muove e che Platone in molte occasioni ha chiamato "necessità" e nelle Leggi [X, 896 e-897 d] decisa- mente, "anima sregolata e malvagia (De animae procreatione in Timaeo, 1014 b-1015 a)... Bisogna dunque rendersi conto che l'una anima non è stata fatta da Dio e non è l'anima del mondo, ma una potenza di movimento spontaneo e perpetuo di cui l'impulso e lo slancio, senza proporzione né regola, sono sottomessi all'immaginazione e all'opinione; e che la s~conda Dio stesso l'ha armonizzata mediante i numeri e le proporzioni convenienti e, una volta costituita, l'ha elevata al grado di reggente del mondo generato... (1017a-b). L'anima, dunque, non è tutta opera di Dio, ma porta in sé, innata, la parte del male... (1027a). Là dove Tifone piomba ad impadronirsi delle piaghe estreme, ivi dobbiamo figurarci lside in atteggiamento di suprema tristezza e in espressione luttuosa, alla ricerca dei resti e delle membra sbranate di Osiridi:: ella li compone e serra al petto e nasconde tali reliquie, dalle quali essa porta alla luce di nuovo le cose nasciture e le fa sorgere da se stessa (De lside, 375a-b). Il timore di Plutarco a risolvere stoicamente la divinità nel costi- tuirsi dello stesso universo, lo porta, interpretando certi passi plato- nici, a porre la divinità come il complesso in atto e compiuto (perfetto), e perciò senza divenire e mancanze (incorporeo) di tutto ciò che ha essere, cioè che ha forma, per cui, appunto, il divino è essere: il divino, dunque, pura intelligibilità, è in atto tutte le forme (idee), in quanto la sua intellezione - egli intellezione in atto - è tutte le passibili forme. Se tale è l'essere che è, esso, in quanto eterno e perfetto, è oltre l'esistere ("Pure si va cianciando di emanazioni del dio e di trasfor- mazioni tali che il dio si risolverebbe in fuoco con l'universo intero e poi, di nuovo, si contrarrebbe, quaggiu, e si distenderebbe via via in terra e mare e vento e animali ed entrerebbe nelle forme paurose di viventi e delle piante; tutto questo, anche a udirlo, è empietà!"- chiara è l'allusione agli stoici -: "Al contrario, di ciò che entrò, comunque, nell'esistenza cosmica Dio serra insieme la compagine e domina la naturale debolezza corporea, che è volta, di per sé, all;l distruzione... Per dio non si dà mai scardinamento dall'essere e trapasso": De E Delph., 393e-394a). L'esistenza è, accanto all'essere (coeterna dell'es- sere, in quanto come l'essere condizione del reale) la materia - la éor- poreità come indefinita potenzialità, - che, tuttavia, non assume essere, non assume forme, se non si definisce, se non presuppone l'essere, se non ha, quindi, per sua natura desiderio di ciò che le manca; essa perciò tende all'essere, ad assumere forme, per cui il divino, egli rima- 28    nendo esso stesso immobile e in atto, è ad un tempo presupposto e termine dell'aspirazione del tutto. Evidentemente, dunque, rifiutando la tesi stoica della materia pura passività e ·senza qualità, bisognava porre, accanto all'essere - principio e fine - e all'esistere - materia- potenza - una terza condizione, un principio vitale, senza di cui la materia sarebbe restata pura passività. L'anima come vitalità è, dun- que, una terza condizione, che se da un lato spiega la tendenza del- l'esistere ad assumere essere, costituendosi come anima del mondo in quanto si modella sull'intellegibile (razionalità), dall'altro lato può ren- dere conto dell'affermazione di sé come individualità, che aspirando a sé e non all'essere uno, che serra insieme il tutto intelligibile al divino, si determina come non-essere, come ribellione a Dio, come frantumazione dello stesso Essere che è uno, ordine e bene, si deter- mina cioè come irrazionalità (male). Il divino, dunque, come pura intelligibilità e come essere è, ad un tempo, principio e fine, mentre la materia, esistente e vivente, è da un lato tendenza all'essere, al bene, e, dall'altro lato, nella stessa affermazione di sé, negazione dell'essere, conflitto, male, in una serie di gradi viventi, che, posto appunto il divino come termine ultimo di aspirazione, vanno all'infinito in una serie che si scandisce da una minor somiglianza al dio (mondo ter- restre e sublunare) a una sempre maggior somiglianza a lui (mondo celeste, dèmoni buoni), per approssimazione e in un perenne conflitto.· È un fatto che il divenire e la composizione di questo nostro universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiche, che non sono, però, equi- librate esattamente, perché la prevalenza appartiene alla forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che la forza del male perisca del tutto, dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo, e, pure in gran parte, nell'anima dell'universo, in un duello perenne con la potenza del bene. Ebbene, nell'anima, intelligenza e ragione, vale a dire ciò che fa da guida e signoreggia tutto quanto vi ha di meglio, s'identifica con Osiride [il divino)... Tifone, per contro, è la parte dell'anima soggetta a passioni, è l'elemento titanico, e irrazionale e volubile... (De lside, 37Ia-b). Certa- mente, H, nel cielo e negli astri perseverarono immobili le ragioni supreme delle cose e le forme e tutto ciò che proviene dal dio; per contro, quaggiu, quel che è disseminato tra gli elementi soggetti alle leggi fenomeniche - terra, mare, piante, viventi in generale - si dissolve, si corrompe, va perfino sotterra... (De ]side, 375b). Il principio della fecondità e della con- servazione della natura è attratto verso di lui e verso l'essere, mentre il principio dell'annientamento e della distruzione è dissolto da lui, verso il non essere. Perciò, essi chiamano lside con un nome che deriva da "slan- ciarsi" (hlestaz) con sapienza e dall"'essere mosso," appunto perché essa consiste in un movimento animato e sapiente... (De lside, 375c). È bene esigere che nessuna cosa inanimata si:t superiore a ciò che è animato e 29    nessuna cosa priva di sensibilità sia superiore al senziente... Non nei colori, né nelle forDie esteriori, né in levigati pannelli è presente il divino: tutto ciò che non partecipa né può, di sua natura, partecipare alla vita ha una porzione di onore, inferiore a quella dei morti. Per contro, la natura, che vive e vede e ha da se stessa la sorgente del movimento e una conoscenza tale da saper distinguere quel che è suo e quel che le è estraneo, ha saputo attrarre su di sé un etBuvio e una poézione di bellezza da parte di colui che è saggezza, "in virtU del quale è governato l'universo," secondo l'espres- sione di Eraclito (De lside, 382b). Entro questi termini sembra chiaro come Plutarco - nel suo ten- tativo di giustificare sotto il segno di un'unica concezione religioso- filosofica gli aspetti diversi delle credenze religiose' ellenistiche ed orien- tali, le quali ultime. egli vede sintetizzate da un lato nei misteri egizi di Osiride-lside, dall'altro lato nella teologia zoroastriana - possa riprendere e giustificare, nel quadro della sua teologia e cosmologia, le credenze nei dèmoni, nelle capacità divinatrici e profetiche delle anime, in una, infine, descrizione di quella che è, nell'universo, la posizione dell'uomo, e di quale ha da essere il suo fine. Uno l'universo nella sua totalità, posti come ter~ni estremi l'Essere e la materia e tra l'uno e l'altro, nell'aspirazione della materia all'essere, la genera- zione - unica realtà effettuale, la cui durata costituisce il tempo - dalle forme piu basse - all'infinito - e inanimate, alle forme piu alte - al- l'infinito, verso l'Essere, termine ultimo - ve animate, nel perenne conflitto della vitalità, che in quanto tale è tensione ad essere e nel suo determinarsi e affermarsi è negazione dell'essere; entro l'universo uno, si.viene ad avere un'infinita scala di generazioni, di forme viventi, di anime, per un lato volte al limite, all'oscurità, alla corporeità, per l'al- tro lato volte all'essere, alla luminosità, al divino. Di qui l'afferma~ zione plutarchea che entro l'Uno universo, piu di uno possono essere i mondi, piu di una le condizioni delle anime, da anime-limiti, oscure - corporei~à, tra cui l'uomo nella sua condizione terrestre - ad anime piu luminose, meno limitate, ma non per questo meno reali, viventi, operanti, i cosiddetti dèmoni, ad esempio, e oltre ancora gli dèi, fino alla purezza assoluta del divino. Coloro che sostengono che Platone, avendo ammesso un elemento come substrato delle qualità sensibili che noi chiamiamo materia o natura, ha liberato i filosofi da molte e gravi difficoltà, dicono una cosa giusta: allo stesso modo mi sembra che difficoltà ancora piu numerose e gravi siano state superate da coloro che pongono tra dèi e uomini, la specie dei dèmoni, ritrovando cosi in certo modo un legame che ci congiunga e ci unisca a Dio. E poco importa che questa dottrina provenga dai Magi della setta di 30    Zoroastro, o con Orfeo dalla Tracia, o dall'Egitto, o dalla Frigia (De defectu oraculorum, 414f-415a). C'è chi ammette il trapasso, sia da corpo a corpo, sia da anima a anima: cosi, per esempio, la terra diventa acqua; l'acqua aria; e l'aria, nell'ascen- sione propria della sua natura, si tramuta in fuoco; allo stesso modo, nel .:ampo delle anime elette, è ammesso il passaggio da uomini a eroi; da eroi a dèmoni. Tuttavia, solo poche anime appartenenti al grado demo- nico, purificate dopo lungo volgere di tempo, mediante la virtu, riescono a partecipare completamente della divinità. Al contrario, talune, non riu- scendo a dominare se stesse, scendono dal grado superiore e indossano di nuovo corpi mortali e traggono una vita senza luce e fievole come un'esa- lazione... In realtà, piu lungo o piu corto che sia il tempo determinato o non, in tutti i casi si avrà sempre la dimostrazione voluta, attraverso testi- monianze sapienti e antiche, che esistono, cioè, alcuni esseri, quasi al con- fine tra gli dèi e gli uomini, i quali sono soggetti alle passioni mortali e alle mutazioni fatali. È giusto, secondo il costume dei padri, che noi con- sideriamo costoro dèmoni e li veneriamo con questo nome. Senocrate, amico di Platone, propose a simboli di questa concezione le figure dei triangoli. Al divino confrontò, per immagine, l'equilatero; al mortale lo scaleno; l'iso- sede, infine, al demoniaco. Il primo è uguale in tutto e per tutto; il secondo, del tutto disuguale; l'ultimo, uguale per un verso, disuguale per l'altro: proprio come la natura dei dèmoni, che partecipa a un tempo della passione del mortale e della virtu del dio. Ma la natura stessa offerse immagtru e simiglianze visibili: cioè degli dèi, con il sole e con gli astri; dei mortali, con le meteore, le comete e le stelle cadenti...; natura mista e figura di dèmone è essenzialmente la luna, la cui rivoluzione concorda con questo genere demoniaco, in quanto essa si mostra ora calante, ora crescente, ora cangiante... Figuratevi, ora, di sottrarre e portar via l'aria ch'è in mezzo tra la terra e la luna: naturalmente l'unità e la coesione del tutto risulte- rebbe spezzata dal fatto che ci sarebbe, nell'intervallo, uno spazio vuoto e slegato. Allo stesso modo, chi non ammette la categoria demonica toglie ogni continuità e relazione tra il mondo degli dèi e quello degli uomini, elimina gli esseri che, al dire di Platone, esercitano una funzione di inter- preti e di ministri; ovvero essi ci co~ringeranno a sconvolgere e a turbare ogni cosa, facendo entrare il dio nelle passioni e nelle cose umane e traen- dolo alle loro necessità... Noi, invece, non vogliamo dar retta per nulla a coloro che negano la divina ispirazione agli oracoli e la divina compia- cenza .per le cerimonie e i riti; ma neppure vogliamo credere che, in tali cose, il dio si giri e rigiri e si presenti direttamente e si affaccendi lui stesso. Piuttosto, facciamo risalire tali riti oracolari a coloro ai quali giustamente la cosa compete, voglio dire ai ministri degli dèi, che sono, per cosf dire, i loro famuli e segretari; noi crediamo che il mondo tutto sia percorso da dèmoni, alcuni volti a sorvegliare i sacrifici agli dèi e i riti misterici, altri in funzione di vendicatori di tracotanze e di crimini [ed è su questo motivo che si svolge, di contro alla provvidenza stoica, la provvidenza plutarchea: cfr. De sera numinis vindicta]•.. Certo, come tra gli uomini, anche tra i 31    dèmoni esistono differenze di valore, perché in alcuni l'elemento passio- nale e irrazionale ha lasciato, come un residuo, un avanzo ancora fievole e indistinto, in altri invece persiste in dose considerevole e inconsumabile (De defectu oraculorum, 415b-416c, 417b). Se da un lato la soluzione del significato da dare ai dèmoni chia- risce quanto sopra dicevamo, e cioè la concezione plutarchea di una realtà vivente, che, in un conflitto di forze, si scandisce in gradi, fino a ordinarsi, sempre pio razionalmente, a imitazione dell'Essere su- ,premo, puro intelligibile, presupposto e fine; dall'altro lato, i testi sui dèmoni e sulla loro funzione, hanno un notevole interesse storico. Sono una testimonianza precisa non s~lo della presenza di credenze oracolari, astrologiche, magiche, quali si erano venute diffondendo, in particolare dall'Egitto, fin!> dal 11-1 secolo a. C., e alle quali abbiamo già sopra accennato, ma anche del tentativo che ora si fa di rendere conto delle stesse esperienze vitali che stanno a fondamento di quelle credenze. La teoria plutarchea dei dèmoni non è nuova: già ne tro- viamo tracce in Alessandro Poliistore, nei Physik,à kài Mystikà dello pseudo-Democrito, nelle Rivelazioni di Nechepso e Petosiride (cfr. so- pra), in alcuni testi alchimistici che rifluiscono nei testi del corpo erme- tico (certo su Plutarco, come testimonia anche il suo interesse per Osiride-Iside, ha avuto una forte influenza il motivo ermetico di Thot-Ermes, lo scriba e interprete di Osiride: non a caso Plutarco si fa interprete del significato riposto dei sacri riti e miti egiziani e persiani). Ciò che, tuttavia, interessa sottolineare è l'interpretazione di Plutarco, il suo risolvere le forze occulte in forze naturali, reali, in conflitto, ponendo il divino (la razionalità) come termine ultimo di aspirazione. E allora, come da quel conflitto si determina la scala degli esistenti, dalle prime qualificazioni oscure (corporeità) alle meno oscure (corpi viventi, animati, di cui l'uomo è il piu alto)., agli astri, alle piu luminose anime incorporee, maggiormente vicine al divino (i dèmoni: reali, tanto quanto reali sono il corpo, l'anima umana e via di seguito); cosi si giunge all'uomo, aspetto della realtà, in cui si sperimenta la presenza dello stesso conflitto, l'urto delle stesse forze vitali, lo stesSo determinarsi e costituirsi da un lato in corpo e vitalità (anima) e dal- l'altro lato in razionalità, in aspirazione all'ordine e .al divino (perciò l'anima non muore con il corpo, perché la morte può essere interpre- tata come eliminazione dell'oscurità). E allora il conflitto e la capacità di equilibrare il conflitto medesimo, se da un lato spiegano la divi- nazione, i sogni profetici ela possibilità, mediante certi riti (tecniche), di entrare in rapporto con gli spiriti, con le anime che sono i dèmoni, dall'altro lato spiegano come quei dèmoni stessi siano presenti, com'essi 32    operino, come servano di mediazione tra l'uomo e la divinità. Non solo, ma, per altro verso, v'è in Plutarco, di contro al fatalismo stoico, per il quale diviene impossibile da parte umana operare sui dèmoni, e di contro a certe forme magico-popolari secondo cui si può diretta- mente operare sulle divinità, indicata, sia pur in un solo accenno, la via, che verrà sviluppata in ambiente neoplatonico e nel commento agli oracoli caldaici, la quale rende possibile, attraverso il conflitto delle forze, la tensione tra le anime, la razionalizzazione di se stessi. Di qui anche, in un rapporto tra le anime, simili tra loro, l'azione sulle forze demoniache, e, mediante certi riti e tecniche, che Plutarco non a caso lascia ai competenti ("facciamo risalire tali riti oracolari a coloro ai quali giustamente la cosa compete": De def. orac., 417b), l'evocazione degli spiriti, e, quindi, l'avvicinamento al divino, in una salvazione che consiste nella "conoscenza" ed in cui sta per Plutarco la religiosità che non sia "superstizione" (e qui sono senza dubbio presenti, accanto a motivi ermetici, motivi che possiamo dire gnostici, se è vero che si può parlare, ad esempio per Filone l'Ebreo, di gnosti- Cismo giudaico). La nostra natura morale inaridisce e invecchia nell'attività dell'igno- ranza. Un riposo muto, una vita inerte dedicata all'ozio consumano non soltanto i corpi, ma anche le anime... Le facoltà naturali degli· uomini che ntm si muovono... appassiscono e invecchiano innanzi tempo... Credo che gli antichi abbiano dato all'uomo il nome di "phos" (luce), poiché è insito in ciascuno di noi, per analogia alla !uce, un intenso desiderio di conoscere e di essere conosciuto. Alcuni filosofi sostengono che la luce abbia una sostanza identica a quella dell'anima [Filone l'Ebreo?: cfr. sopra], e tra le altre argomentazioni adducono che niente l'anima rifugge piu dell'igno- ranza, e che essa respinge tutto ciò che è oscuro e che rimane turbata dalle tenebre, in cui trova timore e inquietudine, ma che la luce è per lei cos{ dolce e desiderabile, che di nessuna cosa ch'essa naturalmente ama può godere quando sia nell'oscurità, lontana dalla luce... (De latenter vivendo, 1129d-1130a). L'accenno alla sostanza dell'anima come luce, è, purtroppo, un solo accenno, che, se piu ampio avrebbe potuto chiarire molte questioni sull'origine della metafisica della luce e sulla conseguente discussione relativa all'influenza delle luci stellari, a loro volta riflessi della lumi- nosità divina. Ad ogni modo, entro l'àmbito di una ricostruzione del pensiero di Plutarco, l'accenno alla luce è interessante in quanto serve a meglio comprendere la posizione che viene ad assumere l'uomo, nei gradi in cui si scandisce la realtà nella sua aspirazione all'Essere, non a caso detto, con un'immagine, pura luminosità: "Le vesti di lside sono 33    di colore screziato, perché la potenza di lei riguarda la materia, la quale si trasforma in ogni cosa e tutto accoglie, luce e oscurità... La veste di Osiride [del divino], invece, non ha sfumature di ombre, né screziature di colori, ma solamente un unico fondo, tutto semplice, la pura luminosità" (Dc lsidc, 382c). La divinità, dunque, è rappresen- tata come pura luminosità senza ombre e colori, mentre la realtà è tale, esistente, visibile, in quanto non è né pura tenebra (il nulla) né pura luminosità (altrettanto invisibile, accecante), ma ombra e luce, in una serie di gradi che vanno al limite dalla tenebra e dall'oscurità (corporeità) alla luminosità pura (divinità), scandendosi in un com- plesso di oscurità (corporeità) e di luce (anima). E perciò l'uomo, di fatto corpo e vitalità (anima), da un lato affermazione di sé per esi- stere, ma, dall'altro lato, nel suo stesso affermarsi, negazione dell'essere, l'uomo, in tale sua tensione e, perciò, in tale sua aspirazione all'essere come pienezza, alla luce, viene ad essere come lo specchio - in pic- colo - dell'universo stesso. Si ripete cosi: in lui il conflitto tra luce e oscurità, tra sé come corporeità e animalità (anima) e sé come capacità di ordinarsi, di porre equilibrio, di costituirsi come razionalità. Anzi, è proprio nell'atto in cui l'uomo scopre sé come razionalità, che si rivela e si coglie, intuitivamente, la razionalità divina, la pura lumi- nosità. Aspirazione al divino, la capacità intellettiva e razionale si sco- pre in noi - oltre l'anima - come la presenza del divino, e, perciò, da un lato come possibilità di ordinare e.guidare le nostre forze vitali e, dall'altro lato, come esigenza di perdersi nella sua unità, in un amore per Dio (entusiasmo), che scaccia da sé ogni timore per lui (superstizione) o ogni indifferenza nel rimanere chiusi nella propria individualità (ateismo, epicureismo): "Quando l'anima crede e pre- sume che il dio sia presente, respinge via da sé dolori, timori, inquie- tudini e con la gioia si eleva sino all'ebbrezza, al riso e all'esaltazione" (Non pom: suaviter vivi..., llOlc-f; si confronti anche il motivo del- l'cbbrictà di Filone l'Ebreo: Dc cbrictatc). Molti sostengono giustamente che l'uomo è un essere composto, ma hanno torto quando pensano che sia composto soltanto di due principi: difatti quando considerano l'intelletto (vouc;) come una parte dell'anima, errano non meno di coloro che ritengono l'anima una parte del corpo. Di quanto l'anima è superiore al corpo, di tanto l'intelletto è migliore e piu divino dell'anima. L'unione dell'anima e del corpo produce la facoltà irra- zionale e passionale, quella dell'intelletto e dell'anima produce la ragione; la facoltà irrazionale e passionale è principio di piacere e di dolore, quella dell'intelletto e dell'anima di virtU e di vizio. Di queste tre parti, la terra forma il corpo, la luna forma l'anima, il sole dà origine all'intelletto (Dc 34    facie in orbe lunae, 943a). Le anime posseggono sempre i loro poteri, ma li posseggono piu deboli quando sono mescolate ai corpi...; tuttavia alcune anime talora fioriscono e riacquistano quella loro potenza nei sogni e al momento della morte, sia perché allora il corpo si purifica o subisce una modificazione favorevole, sia perché l'anima, essendo la parte razionale e meditativa liberata e svincolata dalle cose presenti, si dirige con la parte irrazionale e immaginativa verso le cose future... (De defectu oraculorum, 43lf-432c). Anche se molte sono le oscillazioni del pensiero di Plutarco, se molte volte egli è equivoco relativamente al concetto del divino e sul rapporto tra il divino e la realtà, vivente nel conflitto tra le due forze, nella tensione tra la forza disgregatrice, individualizzante e la forza organizzatrice e ordinatrice, certo l'aspetto piu appariscente del suo pensiero, accanto a quello di conciliare in una sola religiosità razionale (delfica) le molte esperienze religiose, vive e operanti al suo tempo, è il suo rovesciamento dello stoicismo, che spiega anche il significato e il limite della trascendenza del divino plutarcheo. Posto, di contro allo stoicismo, che il divino non si risolve nella molteplicità del reale, ma che il divino si pone come il presupposto dell'ordine e della razio- nalità co.ndizione dunque dell'essere delle cose, esso metaforicamente è il "padre"; e posto, perciò, che la materia e la corporeità, viventi per la tensione di forze vitali (anime), tendono all'essere, Plutarco poteva - ed in questo. consiste il rovesciamento dello stoicismo e il suo ap- pello a Platone - da un lato prospettare il divino come termine di realizzazione (in tal senso trascendente) di tutta la realtà, non annul- lando l'essere nella esistenza, dall'altro lato poteva sostenere che dalla tensione tra le _due forze si realizza, o può realizzarsi, un ordine, in cui si rivela per imitazione la presenza del divino. Plutarco cos(, di contro al fatalismo stoico e al casualismo epicureo, poteva sostenere, sul piano umano, un qual certo volontarismo e dinamismo, fonda- mento della vita morale, che non avrebbe luogo senza conflitto e se l'uomo e il resto non fossero altro che momenti della necessaria manifestazione della divinità. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Plutarco ponga l'intelletto non come una parte dell'anima, ma come rivelazione della presenza del divino in quanto razionalità, cioè in quanto capacità ordinatrice e unificatrice, che si pone come dovere e come bene, che si coglie,- attraverso il conflitto stesso. Tale la ragione per cui Plutarco, interpretando un passo della Vll lettera di Platone (344b), afferma che l'intelligibile si coglie attraverso il con- flitto, nell'atto in cui scoprendo sé come razionalità, si scopre sé come pensiero, cioè come unità di discorso e come dominio in unità di noi 35    stessi, m quanto molteplicità di passioni. "L'intuizione di ciò che è intelligibile, luminoso e puro è come un lampo che brilla, e l'anima può coglierlo e vederlo una volta sola. Perciò Platone [Convito, 210a] e Aristotele [Alex., VII, 668a] chiamano con il nome di epoptica questa parte della filosofia, poiché coloro che mediante la ragione hanno oltrepassato le varie_opinioni di ogni specie, si elevano di colpo a quel Principio primo, semplice e immateriale _e toccando direttamente la verità pura che irraggia da esso raggiungono, come in una iniziazione, il fine della filosofia" (De lside, 382e). L'unità del discorso in cui si scandisce il ritmo della realtà, che assume essere in quanto si adegua all'unità dell'Essere, per cui l'Essere trascende la realtà, appunto perché ragion d'essere in atto del tutto, unità in atto del tutto, unità in atto delle forme - metaforicamente luminosità senza ombre, non discorribile - si coglie intuitivamente e, perciò, subito si perde - non a caso Plutarco dice che è come un lampo e che si vede una volta sola; - esso, dunque, resta da un lato .:ome ricordo, e, dall'altro lato, come desiderio, come termine cui si aspira, oggetto d'intelletto, pura intelligibilità. E allora, non risolta la realtà nella manifestazione dell'essere, l'essere si pone come condizione dell'esserci e come dover esser, per cui, colto l'essere, attra- verso l'educazione e l'esercitazione del pensiero, esso diviene il bene, e poiché la realtà, e l'uomo, momenti dell'aspirazione all'essere, nel conflitto tra la forza organizzatrice e la forza disgregatrice, sono sgan- ciati dall'essere stesso, nell'uomo, in quanto centro del conflitto, nel- l'atto che intuitivamente coglie l'essere, si postula la possibilità di rea- lizzarsi da un lato come capacità (virtu) di vedere la ragion d'essere delle cose, cogliendole in ciò che esse sono nel loro ordinarsi secondo il modello divino, indipendentemente dalla relazione ch'esse hanno con l'uomo stesso (l6gos teoretico, la cui corrispondente virtu è la "sapienza," sofia), dall'altro lato come capacità di realizzarsi, tenendo presente il modello divino, armonizzando e ordinando in unità (ragio- nevolmente) le passioni e gli istinti (ragione pratica, la cui virtu è la "prudenza," fr6nesis). L'uomo, cioè, in quanto intuizione di sè come ragione, che lo trascende dal di dentro e che si pone come valore da rea- lizzare, da un lato coglie sé come capacità di contemplare (vita teoretica, scienza), dall'altro lato come capacità, mediante la ragione, di ordinare e di indirizzare la propria animalità (anima vegetatìva e anima sen- sitiva, corrispondenti all'anima "concupiscibile" di Platone; anima irascibile), il proprio aspetto irrazionale (se stesso cioè come conflitto e frantumazione) di volta in volta sapendo comportarsi giustamente, secondo una giusta misura (giusto mezzo), in un'armonia e medietà di passioni, non in una negaziDne delle passioni, in cui consistono le 36    virtu etiche (vita pratica). "La virtu morale differisce dalla virtu con- templativa in questo: ch'essa ha per materia le affezioni dell'anima e per forma la ragione" (De virtute morali, 1). Anche sul piano etico, coerentemente, la posizione di Plutarco e il suo rifarsi da un lato a Platone e dall'altro lato ad Aristotele, è in funzione antistoica, o meglio in funzione di una interpretazione di Platone e di Arsitotele, diversa da quella stoica, e tale che gli permetta di mostrare che la virtu è insegnabile (cfr. Virtutem doceri posse) e che la moralità non consiste solo in un corretto uso della ragione. Vi sono alcuni filosofi [Zenone di Cizio, Crisippo] che si trovano d'ac- cordo nel considerare la virtu come un'affezione, come un abito della parte superiore dell'anima, prodotto dalla ragione, o piuttosto come la ragione stessa, invariabilmente fissa ai suoi retti principi. Essi non credono che in noi sia una facoltà sensitiva e irrazionale, diversa per natura dalla ragione. Questa parte dell'anima, ch'essi chiamano egemonica e intelligenza, diviene, dicono, vizio o virtu, a Seconda delle modificazioni che prova nelle sue affe- zioni ed abiti. Essa non ha nulla di irrazionale... Essi sostengono che la passione stessa sia ragione, ma corrotta e depravata dai giudizi falsi e per- versi che la trascinano fuori di sé. Questi filosofi sembrano aver tutti igno- rato che ciascuno di noi è in realtà un essere doppio e composto. O meglio essi parlano di una sola duplicità, di una sola composizione; quella che risulta dall'unione dell'anima con il corpo; ma non si sono accorti che la stessa anima è in qualche modo composta di due nature diverse; che la sua parte irrazionale è come un secondo corpo unito alla ragione, da intimi e necessari legami. Pitagora, invece, sembra aver conosciuto questa seconda composizione... Platone ha veduto con la massima evidenza che l'anima del mondo non è un essere semplice, uno per natura, senza composizione; ma ch'essa è un mescolarsi del principio dell'identico e di quello dell'altro [in un conflitto tra l'anima buona e l'anima malvagia]. L'anima umana che altro non è che una porzione di quella del mondo, formata su numeri e propor- zioni uguali a quelli dell'anima cosmica, non è né semplice né senza affe- zioni. Essa ha due facoltà: una che si adegua al ragionevole ed all'intelli- genza, per sua natura atta a dominare l'uomo ed a governarlo; l'altra, irr'azionale, sregolata, sede delle passioni e degli errori, ha bisogno d'essere retta da una facoltà superiore. [La parte irrazionale si divide in concupi- scibile e irascibile]... Aristotele ha fano un grande uso di questi principi, soprattutto della distinzione tra razionale e irrazionale... Orbene, i costumi, per darne qui un'idea, sono una qualità della parte irrazionale; e si chiamano cosi perché questa qualità, impressa dalla ragione in questa parte dell'anima, è dovuta· all'abitudine. La ragione non vuole distruggere interamente le passioni, il che non sarebbe né possibile né utile, ma solo infrenarle entro giusti limiti, dando cosf luogo alle virtu morali, che non operano affatto l'annientamento totale delle passioni (apatia) ma 37    le regolano e le moderano. Tali virtu sono il frutto della prudenza (jr6- nesis), che riconduce ad una disposizione equilibrata e giustamente misu- rata l'attività naturale delle passioni (De virtute morali, 3, 4). L'appello di Plutarco all'aspetto formale dell'etica aristotelica, il suo puntare sulla moralità come conflitto, sul bene e sul male come capacità di sapere o meno, di volta in volta, costituirsi secondo misura oppure no, nettamente respingendo sia l'accettazione passiva di ciò che avviene, riconducendo ogni avvenimento ad una superiore ragione da cui tutto dipende (fatalismo stoico), sia l'esigenza, in un mondo ove tutto avviene a caso, di ritirarsi in conventicole di amici (epicurei- smo: cfr. De latenter vivendo), sembra rendere esattamente conto del modo con cui Plutarco si è rifatto a Platone, dandone un'interpreta- zione dinamica, sottolineando, appunto, tutti quei motivi da cui pare che Platone intenda il mondo dell'Essere non come un dato, ma come un dovere essere. Si capisce cos( perché Plutarco perfino sul piano cosmologico - non a caso egli punta sulla natura come potenzialità - interpreti il Timeo in termini rovesciati rispetto all'interpretazione stoica, sottolineando che, sia pur posto il divino quale condizione dell'essere del tutto, delle forme delle cose, non è il divino che si tra- duce ed è nell'esistenza del mondo, ma è il mondo che, vivente di forze opposte, si adegua e tende, ascende, dai gradi piu oscuri ai piu luminosi, al divino, pura intelligibilità, pura luminosità. In tale stoicismo rovesciato, indipendentemente dal divino, che resta a sé, termine di realizzazione e di amore, e in tale insistenza sulla vita- lità della natura e sull'esigenza dell'uomo (la quale, per l'uomo, intuito il divino, diviene un dovere) di dominare se stesso, di costituirsi come ordine e misura, a simiglianza di Dip, molti dei motivi relativi alla natura restano quelli stoici (il motivo della simpatia, il motivo della tensione tra un principio attivo e un principio passivo, donde si genera e si costituisce il ritmo in cui si scandisce la realtà). Sul piano umano resta, particolarmente, il motivo della filantropia e, conseguentemente, i motivi del piu recente stoicismo, come da parte del saggio l'impegno a operare sempre in funzione di una pacificazione politica, in nome di una superiore armonia, di un superiore equilibrio delle "ragioni" mediante cui le società si adeguano alla misura divina, e l'aspirazione plutarchea a che gli stessi governanti e sovrani siano consigliati e ammaestrati dai saggi (cfr. Mu.sonio, Anche i re debbono studiare filosofia). Di qui anche l'importanza data alla cultura mediante cui sviluppare quei semi .di virtu che sono propri di ogni anima (cfr. sopra Musonio; Plutarco, De educatione puerorum), cultura che, entro i limiti del possibile e delle varie condizioni economiche, Plutarco vor- 38    rebbe fosse data a tutti ("Tutti i genitori debbono sforzarsi di dare ai propri figliuoli la piu perfetta educazione; coloro che non sono sufficientemente liberi si limiteranno a ciò che la loro fortuna permet- terà di fare. De educ. puer., 11). Cos(, anche sul piano politico, l'ap- pello di Plutarco è un appello a una possibile pacificazione, mediante la cultura e la conoscenza, simile alla pacificazione da lui sostenuta relativamente alle religioni, una possibilità d'incontro tra le tradizioni delle antiche p6leis e la realtà di fatto che è l'Impero di Roma. Entro quest'àmbito Plutarco si muove con molta cautela. Egli riconosce la supremazia di Roma ("in questi tempi moderni, ogni guerra ellenica, ogni guerra esterna è fuggita e svanita di mezzo a noi; le nazioni hanno solo tanta indipendenza quanta ne concedono i nostri padroni": Precetti politici, 824c) e come estremamente limitata sia oramai la pos- sibilità di usare l'arte politica per i cittadini delle provincie elleniche ("ai nostri giorni, quando non è piu compito delle città condurre guerre o abbattere tiranni o negoziare alleanze, quali funzioni politiche restano e quali modi di eccellere nello Stato?": Id., 850a). Entro questi limiti, tuttavia, Plutarco tende a mostrare la funzione che può ancora avere, sul piano di una socialità ed eticità intesa ari- stotelicamente, e che perfettamente s'inquadra nei termini della sua concezione religiosa e della sua interpretazione di Platone, una doppia azione politica, mediante cui attuare ·la natura umana (sembra chiaro in che senso Plutarco sottolinei l'antico ideale dell'uomo, tale non in quanto individuo, ma in quanto animale politico: cfr. Se un vecchio debba governare lo Stato, 791c), da un lato in modo tale che ciascuno attui, per ~iò che gli compete, il suo dovere politico entro i limiti della propria Città e, dall'altro lato, in relazione con il governo di Roma, salvaguardando nell'armonia dell'Impero le libertà delle proprie p61eis. "Quali funzioni politiche restano, dungue, nei nostri Stati? Restano gli affari civili da istruire nei tribunali, le missioni presso l'imperatore, tutte cose che richiedono un uomo attivo e ad un tempo fermo e pru- dente; in una città vi sono poi molte istituzioni utili, ma obliate, che conviene rimettere in piedi; e poi si possono suggerire e attuare riforme (Precetti politici, 805a). N o n solo, ma, anche, attraverso il proprio esempio, .si deve mostrare cosa voglia dire essere uomo dav- vero, oltrepassando i singoli nazionalismi, per indicare come in r.-altà si tratti non di istituzioni o di regimi politici, ma di uomini ("Bene- volenza e collaborazione: sono questi i principi che Plutarco apprez- zava di piu. Lo stesso ordinamento a coppie dato da lui alle sue Vite parallele, ponendo accanto quella di un Greco e quella di un Romano, mostra ch'egli voleva che i due popoli fossero considerati comple- mentari l'uno dell'altro, non avversi, e che teneva a sottolineare come entrambi avessero prodotto uomini famosi nella storia": Sinclair, op. cit., p. 431). Non di istituzioni o di regimi politici si tratta, appunto, ma di volgere l'uomo, attraverso l'educazione e la filosofia, a farsi simile a Dio, s1 che l'uomo salvandosi mediante la conoscenza, si pre- pari a ritrovare la propria patria, sollevandosi dalla terra al cielo, fin da questa terra che è, in effetto, terra d'esilio: •esiliato sulla terra, io stesso vado errando in questo luogo di miseria; quando Empedocle parla cos1, non è per sé solo, ma per nòi tutti che afferma essere noi esiliati e stranieri nel mondo" (De ezilio, 17). Retorica e scetticismo. Favorino di Arles e Licinio Sura. La « scepsi" e le scienze. Le •questioni." Medicina e metodo da Menodoto f l Sesto Empzrico Già con Dione Crisostomo si vede bene il significato del delinearsi di una corrente sofistico-retorica che, avendo centro in Roma, politica- mente si irradia nei paesi greco-orientali dell'Impero. Sia pur ora in una situazione politica mutata, rispetto a quella che sta a .cavallo tra la seconda metà del I secolo a. C. e il principio del I secolo d. C., ma sempre tesa a una giustificazione dell'Impero, ci rendiamo conto di come s; po- tesse, su di un piano scettico, assumeado·posizioni pirroniane, rifarsi al significato politico di posizioni simili a quella di Cicerone, o, meglio, di un Filone di Larissa, in una dialettica discussione dei pro e dei contra, onde, discutendo ogni posizione, giungere ad optare per quella meno incoerente, piu verosimile, politicamente piu utile e adatta alla vita. Sulla linea di Dione Crisostomo, del quale sembra sia stato discepolo, tale atteggiamento fu particolarmente assunto da Favorino Arletano (nato ad Arles, nell'S0-90 circa, morto tra il 143 e il 1.76).8 A Roma fin dal principio del n secolo, dove fu iscrittò all'ordine equestre, in rela- zione con i maggiori centri di cultura (fu ad Atene, a Corinto, in Asia Minore, dove tenne discorsi e conferenze), amico di Plutarco, che gli. dedicò il De primo frigido e lo fece interlocutore delle Quaestiones con- viviales, am;co di Frontone e di Aulo Gellio, Favorino si preoccupò soprattutto di rimettere in discussione la coerenza dei vari sistemi filo- sofici, da un lato chiarendone il significato, dall'altro ponendoli l'uno all'altro di fronte in dialettica opposizione. Egli, cos1, sembra - dei suoi moltissimi scritti, tutti in greco, non rimangono che alcune ora- zioni e diatribe, e pochi frammenti, di cui uno, recentemente scoperto, 8 Sulla vita di Favorino di Arles, vissuto tra 1'80-90 e il 143-176, non abbiamo altre notizie se non quelle date sopra nel testo. Si confronti oltre la Bibliofl'afia. 40    abbastanza esteso sull'Esilio, - nelle sue opere si proponeva di esporre gli aspetti piu salienti delle varie tesi filosofiche, in forma divulgativa, dando, inoltre, gli strumenti perché fosse possibile, difesa l'una e l'altra posizione, dimostrarne la contraddittorietà interna.·Di qui, accanto ai Memorabili, in 5 libri, alla Storia varia, in 24 libri (come appare dai frammenti che ne possediamo, nei Memorabili, da cui ha ripreso anche Diogene Laerzio, Favorino riferiva gli aneddoti fioriti, nel tempo, sui principali filosofi del VI-IV secolo a. C.; nella Storia varia gli aspetti piu appariscenti delle tradizioni culturali: il titolo di due frammenti con- servati è già abbastanza indicativo: I. filosofi che hanno fatto qualche scoperta importante per la storia della cultura; Gli accusatori dei filo- sofz), ed accanto ad alcuni scritti divulgativi e polemici (Sulle idee, La filosofia di Omero, Su Platone, Su Socrate e la sua arte erotica, Sul modo di vivere dei filosofi, Su Plutarco e lo stato d'animo delfAcca- demico, Alcibiade, Contro Epitteto) ed eruditi (Un compendio di Pam- file: compendio di uno scritto grammaticale, composto da una certa Pamfile), le opere fondamentali di Favorino: una in 10 libri, su l tropi pirroniani (in cui, appunto, si davano gli strumenti, i modi o tropi me- diante i quali dimostrare l'incoerenza delle varie filosofie, in una ri- presa dei tropi di Enesidemo), l'altra in 3 libri su la La fantasia cata- lettica, in cui si rimetteva ancora una volta in discussione. la possibilità, sostenuta dagli stoici e su cui si fondava la loro gnoseologia, del pas- saggio dalle strutture della ragione alle strutture della realtà, ed in cui Favorino sosteneva che nulla è afférrabile (xa."fCXÀ'1)m6v) in sé, ma che ogni rappresentazione è sempre una nostra rappresentazione. Pirroniano dunque, Favorino accoglieva, su di un piano retorico la tesi neo-acca- demica di Cicerone, mediante cui, discutendo i pro e i contra, determi- nare alla scelta della tesi piu verosimile, piu probabile, praticamente utile, che, sembra, consisteva, secondo Favorino, nell'ipotesi aristotelica sul piano fisico e logico (scientifico) e in quella stoico-platonica sul piano etico-politico. Che la posizione scettica, presa come metodo, potesse assumere un suo particolare significato sul piano retorico, in funzione politica, me- diante cui convincere a una certa concezione, sia pur assunta come ipo- tesi, è chiaro. Ma è altrettanto chiaro in che sen:so lo scetticismo meto- dologico abbia avuto una funzione preponderante, durante il u secolo, nel processo dell'indagine scientifica. Se da un lato, entro i termini della retorica, la discussione di· tutte le concezioni di sfondo poteva ser- vire per determinare una certa visione (sia essa la stoica, la platonica, l'aristotelica, o meglio nessuna di esse presa in sé) e a quella convin- cere in un abile uso delle tecniche retoriche; dall'altro lato, entro i ter- mini di un effettivo sapere (e tale è il significato di scienza, già molto 41    bene indicato da Seneca: cfr. sopra), la scepsi, intesa come ricerca cri- tica, costituiva le basi delle possibili ipotesi, non contraddittorie e perciò veraci, mediante cui spiegare i fenomeni naturali. In altri termini, anche in questo campo, si presentano innanzi tutto descrittivamente le varie ipotesi che sui fenomeni naturali si sono avute nel tempo, insieme a una descrizione dei fenomeni stessi, per poi, contrapponendo l'una ipo- tesi all'altra, vedendo di ciascuna i pro e i contra, dare la soluzione piu probabile, determinandone le ragioni (cause) non contraddittorie. C'è, a tale proposito, una testimonianza assai indicativa di Plinio il Giovane in due sue lettere a Licinio Sura. Di Licinio Sura sappiamo che nacque in Spagna nel 56 circa e che mori non molto dopo il 110, che fu amico di Marziale, che fu tre volte console, vicinissimo all'imperatore Traiano, per il quale scrisse discorsi e che ebbe grande autorità. Sappiamo, inoltre, che, uomo di notevole cultura, interessato ai piu vari movimenti cultu- rali del suo tempo si preoccupò, da un lato di rendere conto di quei movimenti nella loro funzione politica, dall'altro lato, in uno studio comparativo delle varie ipotesi sui fenomeni naturali, di discutere i pro e i contra di ciascuna soluzione. Plinio, appunto, scrivendo a Licinio Sura, nella prima lettera (Lettere familiari, IV, 30), gli descrive il feno- meno dell'abbassamento e dell'alzamento dell'acqua che tre volte al giorno regolarmente avviene nel corso di una corrente che si getta, dalla parte della sponda orientale, nel ramo comasco del Lario .("ti porto dalla mia terra natale, a mo' di regaluccio, un problema degno della tua ben nota, profonda erudizione") e dopo avere avanzato cinque ipo- tesi che servono a spiegare il fenomeno, ne lascia a Licinio Sura la di- scussione e la possibile soluzione ("esamina tu le cause, tu lo puoi, che producono un effetto cosi strano"). Nella seconda lettera (Lett. fam., VII, 27), Plinio chiede all'amico Licinio Sura se ritiene che i fantasmi esistano oppure no ("vorrei sapere se gli spettri esistano e se tu ritenga abbiano una propria fattezza e una potenza divina, oppure siano senza consistenza e realtà e ricevano apparenza solo dalla nostra paura") e gli riferisce una serie di racconti intorno a storie di fantasmi. Partico- larmente interessante - anche come testimonianza su di un certo tipo di credenze e come indicazione di fatti che su altri piani si tentava di spiegare - è l'aneddoto sulla bella e comoda casa di Atene nella quale nessuno voleva piu abitare perché la notte ci si sentiva - "nel mezzo del silenzio della notte si udiva un suon di ferraglia e... uno strepito di catene da lontano prima, poi piu da vicino, quindi appariva uno spettro..." - e sulla quale il proprietario mise un affittasi in cui si offriva la casa a modico prezzo, nel caso "qualcuno, ignorando cosi gran guaio, volesse affittarla o acquistarla"; .la casa fu presa dal filosofo Atenodoro, che, messo in avviso dal modico prezzo, informatosi, aveva saputo del 42    fantasma; Atenodoro, pur cercando di distrarsi, assorbendosi tutto nello studio, senti ugualmente il rumor di catene e vide lo spettro, ma, senza farsi prendere dal terrore, gli andò dietro finché, nel cortile, il fantasma improvvisamente svani; segnato il punto, Atenodoro il giorno dopo fece scavare, su ordine dei magistrati, nel luogo ove il fantasma era sparito: là trovarono ossa e catene: raccolte le ossa e sepolte a spese della città, "la casa non fu piu visitata dai Mani, sepolti, secondo i riti." Plinio cosi conclude la lettera: "Ti prego perciò di volere aguzzare l'ingegno. L'ar- gomento è degno che a lungo e a fondo tu l'esamini: e neppure sono io indegno che tu mi apra i tesori della tua scienza. E anche se tu, .come sci solito, esaminerai il pro c il contro, vedi però di giungere a una conclusione piu decisiva, per nop lasciarmi in sospeso e nell'incertezza, poiché la ragione del mio consulto fu il desiderio che cessasse ogni dubbio." Le due lettere di Plinio hanno un valore documentario di non poca importanza. Molto chiaramente mostrano le due facce di un unico me- todo di lavoro: a) descrizione di fenomeni quali si sono registrati ed esposizione delle varie ipotesi esplicative, indipendentemente da discus- sioni: a tale esigenza di aggiornamento e di conoscer.za delle varie ipo- tesi, base da un lato per una preparazione culturale generale e, dal- l'altro lato, per una discussione che portasse oltre e proponesse ulteriori e piu convincenti ipotesi, hanno risposto, in quest'epoca, le molte storie e oucstioni naturali, in cui è raccolto di tutto, e anche le storie delle v2.rie concezioni, insieme alle isagogc, alle vite dei filosofi, agli aneddoti fioriti su di loro, in un ordinamento per questioni, per scuole, per di: scendenze (lavori tutti, sotto questo aspetto, estremamente oggettivi, la cui funzione storiografica è chiarissima e il cui maggior monumento sono Le vite,.le opinioni, gli apoftegmi dci filosofi celebri di Diogene Laerzio, che scrisse sul principio del m secolo); b) sulla base dei dati reperiti - sia mediante il lavoro storiografico sia per nuove esperienze dirette e personali - confronti e discussioni delle varie ipotesi, da cui si determinano nuove ipotesi. Entro quest'àmbito, entro i termini di tale ricerca metodologica, che ha le sue piu lontane origini nel tipo di ricerca proprio della scuola di Aristotele, si assumono a contenuto di indagine i diversi piani di feno- meni: dai fenomeni naturali e dalla possibilità di una loro calcolabilità (fisica, astronomia, astrologia, matematica) ai fenomeni piu strettamente appartenenti alla natura umana (esperienza religiosa, ivi compresi i fatti extralogici, miracolosi e straordinari; psicologia; e via di seguito). E poiché sia per l'una ricerca che per l'altra, sul piano della discussione delle varie ipotesi avanzate, nella determinazione dei pro e dei contra, si trattava di precisare le condizioni che permettono una discriminazione e perciò la possibilità o meno di un giudizio, l'indagine stessa di- viene, innanzi tutto, studio del giudizio, cioè ·"logica." Di qui, sul piano scientifico, si vennero chiaramente determinando due vie, a seconda che l'indagine sulla capacità del giudizio sfociasse o nell'impossibilità di qualsivoglia giudizio - si pensi alla corrente della medicina empirica, che trovò il suo fondamento nella tesi piu stret- tamente scettico-pirroniana da Menodoto a Sesto Empirico, - oppure, rifacendosi alla scuola peripatetica, fiorita in Alessandria, assumesse come veraci quei principi che per la loro non contraddittorietà permet- tessero un discorso non contraddittorio, entro cui sistemare e ordinare tutto il sapere relativo a certi contenuti (si pensi all'opera medica di Galeno e all'astronomia e astrologia di Tolomeo). Ma di qui anche, su di un piano piu strettamente scolastico e culturale, la discussione delle tesi e delle soluzioni presentatesi nel tempo sulle singole questioni, rag- gruppate in questioni di logica (dialettica e retorica), di fisica, di etica, e in questioni relative al fondamento del tutto (teologia), accettate o re- spinte a seconda se ritenute logicamente giustificabili. Si vede bene, cosi:, come i maestri si volgessero, in tale presentazione delle varie tesi e so- luzioni al commento e all'interpretazione di testi di Platone, di Aristo- tele, degli Stoici, degli Epicurei e usassero in funzione dell'una e del- l'altra interpretazione, nella discussione dei pro e dei contra, nel deter- minare venice l'una ipotesi piuttosto che l'altra, soluzioni e strumenti non poche volte accolti dalle stesse posizioni che vengono criticate e re- spinte, cercando di spiegare entro questi termini anche esperienze nuove, visioni e concezioni che provenivano non dalla tradizione greco-romana, ma dalle esperienze religiose dei paesi orientali, in particolare dal- l'Egitto, dagli ebrei come dai cristiani, dalla Siria. Entro questi termini sembra chiaro anche come si sia formata da un lato quella soluzione che va sotto il nome di gnosi e dall'altro lato si sia venuto costituendo il complesso dei libri ermetici, insieme, per altro verso, alle sintesi che pro- vengono dai commentatori di Platone, e alle interpretazioni di una certa logica intesa come strumento e introduzione, che proviene da al- cuni commentatori della logica di Aristotele e degli Stoici, il piu delle volte usata come introduzione a intendere il fondamento ultimo del tutto interpretato in termini platonici (e qui ha principio la formazione del medievale "Platone teologo" e "Aristotele logico"). Giova, d'altra parte, ricordare ora che già dalla fine del 1 secolo a. C., .con Enesidemo, lo scetticismo si era delineato, di contro ad ogni assun- zione dogmatica, come atteggiamento critico-metodologico, in un'analisi precisa, da un lato dei modi o tropi argomentativi, dall'altro lato delle condizioni e dei limiti del discorso, e che nell'arco di tempo che va da 44    Enesidemo ad Agrippa (metà del I secolo d. C.), l'indirizzo scettico si era venuto incontrando con l'indirizzo della medicina empirica, finché con Menodoto di Nicomedia, vissuto tra 1'80 e ir 160 d. C., i due indirizzi confluirono in un unico metodo di ricerca scientifica (da Enesidemo ad Agrippa e Zeucsis; per essi e per i tre momenti fondamentali del me- todo della medicina empirica, autopsia, historie, mimesis, che ebbero non poca influenza sul modo della ricerca in generale, si confronti sopra). È noto che nel campo della medicina si sono determinati tre indi- rizzi fondamentali: l) l'indirizzo dei medici teorici (Xoyutot), fin dal m secolo a. C., tra cui con Ateneo di Attalia, vissuto sotto Ner0ne, e i suoi discepoli Agatino di Sparta e Archigene di Apamea, vanno posti i cosiddetti "pneumatici" (cfr. sopra); 2) l'indirizzo dei me- dici "metodici," che, iniziatosi con Temisone di Laodicea (seconda metà del I sec. a. C.), e il celebre Asclepiade di Prusa (o di Bitinia), è proseguito con Tessalo di Tralle (vissuto sotto Nerone), e Sorano di Efeso (vissuto nel n secolo, sotto Traiano e Adriano); 3) l'indirizzo dei medici empirici, che, ufficialmente iniziatosi con Filino di Cos (m sec. a. C.), prosegui, in una sempre maggiore precisazione dell'in- dagine metodologica, con Serapione di Alessandria (n sec. a. C.), Apol- lonia il Vecchio (n a. C.), Glaucia di Taranto (n a. C.), Eraélide di Ta- ranto (prima metà del I sec. a. C.) e nel I sec. d. C., con il celebre oculista Demostene Filalete, con Diodoro, Lico di Napoli, Zopyro di Alessandria, Archibio, Apollonia di Cizio, Zeucsis, Dionigi di Egea, Antioco di Laodicea, e tra il I e il u secolo, con Menodoto di Nico- media. I "teorici" fondavano la loro filosofia e patologia entro il quadro della concezione stoica, rifacendosi al "pneuma"; i "metodici", invece, pur rifacendosi all'esperienza, sostenevano esser necessario, per non trovarsi di fronte a una infinita serie di dati muti, collegare quei dati stessi ragionevolmente: tale tesi fu sostenuta da Asclepiade di Prusa e da Sorano di Efeso, il piu grande ginecologo dell'antichità, autore di un trattato Sulle malattie delle donne e sulle malattie acute e croniche, insieme agli altri due medici piu famosi prima di Galeno, Rufo d'Efeso, specialista in anatomia - Sui nomi delle parti del corpo umano -, studioso della circolazione sul sangue - Sul polso -, della patologia delle vie urinarie - Malattie dei reni e della vescica - e Areteo di Cappadocia, sintomatologo e patologo - Sulle cause e i segni delle malattie acute e croniche. Nella polemica contro i "teorici" e contro i "metodici," con Menodoto la medicina empirica trovò nella meto- dologia scettica il suo fondamento teorico. Senza dubbio l'atteggia- mento di Menodoto fu soprattutto polemico nei confronti degli altr: due indirizzi medici, forse anche per ragioni di supremazia profes· sionale, come malignamente fa intravedere Galeno (De subf. emp., 63-64, in Deichgraeber, Die griechische Empirill_erschule) parlando di lui e della sua fama. E fu, appunto, per dimostrare che i "dogmatici" erano nel falso e che nel falso erano anche i "metodici," il cui atteggiamento nei confronti della pura empiria, sostenuta dagli "empirici," era effettivamente assai convincente (la raccolta dei soli dati, se non ragionati e connessi e perciò discriminati, implica l'inutilità e il silenzio dei dati stessi), che Menodoto assunse le argo- mentazioni degli scettici, respingendo di essi la soluzione "probabi- lista," ch'era in fondo la soluzione dei "metodici," mediante cui far vedere che relativamente ad ogni ipotesi di spiegazione generale è necessario sospendere ogni giudizio, anche sulle possibili ipotesi che i metodici traggono dall'analisi dei dati, costituendo dei quadri clinici entro cui determinare volta a volta le cause delle malattie. In realtà la polemica di Menodoto è volta a dimostrare l'illecità, sul piano scientifico, del passaggio dai dati e dall'analisi e. confronti di essi (o direttamente osservati dal medico, ciascuno in sé e in relazione ad altri dati e feno- meni, in cui consiste l'autopsia; o, data l'impossibilità che un solo me- dico possa osservare da sé un gran numero di dati, normali e eccezio- nali, raccolti dalle osservazioni di altri medici, quali si sono svolte nel tempo, in cui consiste l'historie) alle ·ragioni, cui, oltrepassando i dati, si giunge, per via analogica, usando poi le ragioni per spiegare i dati. Menodoto si rendeva finemente conto che cosi si vengono ad avere due piani, distinti e non interdipen<)enti, il piano delle esperienze e il piano delle ragioni, per cui le stesse "ipote~i" dei metodici divengono alla fine simili a quelle dei "teorici," e altrettanto aprioristiche. Il fervore polemico di Menodoto contro le posizioni dei "teorici" - c h e trovano il loro fondamento oltre l'esperienza nelle concezioni del tutto di tipo platonico, stoico, aristotelico - e contro le posizioni dei "metodici" - che si fondavano sul motivo del "probabile," in maniera altrettanto dogmatica, - sembra abbia condotto Menodoto fino alla di- struzione della medicina come scienza (paradossalmente, ma coerente- mente, egli giungeva fino a negare che il medico abbia un fine, anche quello che Ippocrate e Diocle di Caristo sostenevano essere il movente del vero medico, l'amore per l'uomo, la filantropia) (cfr. in K. Deich- graeber, Die griechische Empirikerschule: eine Sammlung der Frag- mente und Darstellung der Lehre, Berlino, 1930, n. 293). In effetto Me- nodoto, rifacendosi alle istanze della scepsi pirroniano-enesidemiana, e rifiutando ogni teorizzazione, riconduceva con chiarezza l'indagine umana entro i suoi limiti leciti, l'esperienza, senza con questo, come ri- sulta dallo stesso Galeno - che pur non aveva grandi simpatie per Me- nodoto, ma che lo usa per riferire sul metodo della medicina empirica: cfr. Galeno, Sulle sette, De subfiguratione empirièa; anche Deichgraeber, op.cit., n. 10 b, p. 72-90,- rimaner fermo a una mèra enumerazione di fatti o di casi. Se da un lato lavoro serio e proficuo è non uscir fuori dal- l'esperienza, non ricorrere all'analogia, dall'altro lato esperienza significa non raccolta di dati accanto a dati, non enumerazione all'infinito, ma confronto di dati, osservazione del loro ripetersi, secondo una certa co- stanza, oppure no, si che sulla base di dati-rappresentazioni, segni "ram- memorativi" e non "indicativi" di strutture in sé o di cause segrete (accanto all'autopsia e all'historie, si pone in tal modo la cosiddetta mimesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di simiglianze e dissimiglianze, determinare una certa sintomatologia, in una "descri- zione" (schizzo, ipotiposi) di un complesso di fenomeni, che non pre- sume affatto di essere una definizione. Che tale sia stato il metodo della medicina empirica e che il problema grosso sia stato quello di giustifi- care la validità dell'esperienza, di contro a chi sosteneva che l'esperienza si annulla in se stessa, in un ammasso di fatti che non dicono nulla, per cui lo stesso empirismo finisce in dogmatismo, è testimoniato da Cassio - da non identificare con il Cassio medico di Tiberio, - scettico, particolarmente antistoico, contemporaneo di Menodoto, il quale si rife- risce a Menodoto nella critica al principio dell'" analogia" (cfr. Diogene Laerzio, VII, 32-34; Galeno, De subfigur. emp., 40, 13), e da un con- discepolo di Menodoto, Teoda di Laodicea (Diogene Laerzio, IX, 116). Teoda ràccolse le Tesi capitali della medicina empirica, scrivendo inoltre un libro su Le sei parti della medicina e una Introduzione alla medicina, sostenendo che l'esperienza non è affatto una mèra raccolta di dati, ma è un metodo, che non implica affato l'oltrepassamento dell'esperienza stessa, né un pàssaggio, per analogia, dal noto all'ignoto, ma un pas- saggio, nel ricordo, dal simile al simile, ché i fatti stessi non sono noti in sé, presi ciascuno per sé, ma si fan noti mediante il ricordo di altri fatti-impressioni, in un discorso coerente per sé, ma che non presume affatto alla verità (cfr. Galeno, De subfig. empir., 40, 15). In tal senso, evidentemente, l'indirizzo della medicina metodica si poteva identificare con l'indirizzo della medicina empirica, rimanendo valida l'abbiezione dei "metodici" nei confronti dei puri empirici, e· definitivamente assu- mendo l'indirizzo "metodico-empirico" l'istanza metodologica e logico- linguistica dello scetticismo, come ben si vede attraverso Sesto Empi- rico, vissuto tra la fine del II e il principio del m· secolo, discepolo del medico Erodoto di Tarso, che, secondo Diogene Laerzio (IX, 116), era successo a Menodoto, ed era stato in rapporto con Teoda e Teodosio, autore, sembra, di un Commento alle Tesi Capita/t' di Teoda e di Capitoli scettici, del quale non sappiamo altro se non che fu medico empirico e di poco piu giovane di Teoda (cfr. Diogene L., IX, 70; Suda, s. v.). Scrive, dunque, Sesto: 47    Poiché alcuni affermano che la setta dei medici empirici s'identifica con la filosofia scettica, è bene sapere che, se quella setta empirica afferma reci- samente la incomprennbilità dei fatti oscuri [~ questo un dogma] né è identica allo Scetticismo, né sarebbe consentaneo per lo Scettico accogliere quell'indirizzo. Piuttosto, secondo me, potrebbe seguire quello che si chiama metodico: quest'unico, infatti, tra gli indirizzi medici, sembra non affermi nulla temerariamente intorno ai fatti oscuri, ma, senza presumere di dire se siano o non siano compensibili, segue i fenomeni, e da questi prende ciò che sembra giovare, conformandosi alla maniera degli Scenici... Tutto ciò, credo, che viene detto dai metodici si può ridurre alla necessità delle affezioni, quelle che sono secondo natura e quelle che sono contro natura. (Diciamo che lo scettico non dogmatizza, non nel senso in cui prendono ·questa parola alcuni, per i quali, comunemente, è dogma il consentire a una cosa qualunque, poiché alle affezioni che conseguono necessariamente alle rappresentazioni sensibili assente lo scettico: lpolip, Pi"·• l, 13). Si aggiunga che comune ai due indirizzi è anche la mancanza di dogmi e l'in- differenza nell'uso delle parole (diciamo, ad esempio, "valore" senza annet- tere a questa parola nessun sottile significato, nel suo senso semplice in rapporto al verbo "valere": l, 9; e cosi lo scenico non dice "tutte le cose sono false" perché insieme con la falsità di tutto il resto affermerebbe che falsa è anche la propria affermazione... Nelle sue espressioni, lo scettico esprime quello che a lui appare, e rivela la propria affezione senza osser- vazioni dogmatiche, nulla categoricamente affermando circa le cose che sono fuori di lui: l, 14-15). E invero, come lo Scenico adopera, senza pre- sunzione dogmatica, la espressione "nulla.dò per certo," e l'altra "nulla comprendo," come ·si è detto, cosi anche il "metodico" dice • comunanza," "si riferisce" e simili, cosi semplicemente. Cosi, anche, assume la parola "indicazione," senza presunzione dogmatica, in luogo di "guida," verso quelli che sembrano essere i provvedimenti consentanei, sulla base di quelle che appaiono essere affezioni secondo o contro natura... Congetturando da questi e altri fatti simili, si deve dire che l'indirizzo medico metodico ha, piu che gli altri indirizzi medici, una certa affinità con lo Scetticismo, s'in- tende, comparativamente agli altri, non in modo assoluto (lpotip. Pi"·• l, 236-241). 4. Inurpretazioni di Platone e di Aristotele nel II secolo a) Platonismo, pitagorismo e aristotelismo. Gaio, Albino, Apuleio. Attraverso Plutarco si delinea abbastanza bene una certa esigenza e uno dei possibili modi di interpretare alcuni testi di Platone, anche per dare una forma e un fine all'azione dell'uomo, che, nel conflitto delle forze che lo agitano, una volta sganciato dall'Essere, il quale si pone teoreticamente come condizione dell'esistere, praticamente come modello da realizzare, è libero di adeguarsi all'Essere, o, rimanendo dilacerato 48    nel conflitto, di restare nella molteplicità, frantumato nelle proprie pas- sioni, succubo dell'anima malvagia. Plutarco, certo, ha ritagliato dai molti e complessi testi di Platone, un aspetto preciso, senza dubbio pos- sibile, qualora quegli stessi testi vengano isolati da altri, e cioè quel- l'aspetto che può appunto interpretarsi in senso etico-religioso, nel senso che l'Essere, ciò che dà forma, ragione e significato alla realtà, si pone come dover essere, come termine di realizzazione della realtà tutta. Se l'appello a Platone si delinea nella confutazione contro l'aspetto natu- ralistico e fatalistico dello stoicismo e contro l'aspetto rinunciatario del- l'epicureismo, certi motivi aristotelici potevano, invece, essere ripresi come una approfondita interpretazione, sul piano logico-metodologico, dello stesso Platone (il mondo delle idee tutto in atto in Dio, forma delle forme, condizione e principio, causa prima e, ad un tempo, fine ul- timo, motore immobile, donde l'affermazione che, in realtà, per Platone il mondo delle idee è tutto presente nell'intellezione sempre in atto di Dio; oppure i due aspetti della realtà fisica, il mondo celeste e intelligente :: il mondo sublunare, che si potevano interpretare come i due termini in tensione dell'ascesa al divino; oppure ancora l'aspetto formale del- l'etica aristotelica; o, infine, la teoria delle sostanze seconde senza di cui non sarebbero gl'individui, che in realtà si risolvono e si perdono in =tuelle forme universali). D'altra parte, poiché, come sappiamo, Aristotele non si esaurisce in questo, e poiché, p\,lntando su una o altra opera di lui, si poteva interpretare Aristotele come il filosofo che nega la prov- •idenza, lo stesso dio, pura condizione logica, l'immortalità dell'anima e ma sua sostanzialità, e, conseguentemente, i dèmoni e gli oracoli, il 3losofo che risolve il fine dell'uomo entro i termini della stessa uma- lità, che .al filosofare come impegno etico-religioso, mediante cui dare una forma alla propria vita, sostituisce il filosofare come studio delle :ondizioni che permettono di pensare la realtà e le possibili forme di vita, in una raccolta di dati (historle); l'appello a Platone, entro i ter- mini che abbiamo veduto, portava a confutare e a rifiutare questi ul- timi aspetti dell'aristotelismo. Se l'appello a Platone e all'uomo socratico, impegnato nella ricerca di sé e perciò nel fare i conti con l'essere, risponde, nella crisi di una cultura, all'esigenza di prospettare un complesso di valori (in quanto valori, non dati di natura) per i quali merita vivere, la rilettura di Pla- tone, il commento, nelle scuole, dei suoi testi, portava da un lato, a seconda della confutazione nei confronti dello stoicismo e dell'epicu- reismo, a sottolineare certi aspetti delle opere di Platone piuttosto che altri, respingendo ad un tempo quei motivi di Aristotele a cui abbiamo sopra fatto cenno; dall'altro lato, all'esigenza scolastica di presentare in un sistema compiuto e coerente il pensiero di Platone, suddiviso nei 49    capitoli divenuti oramai canonici: teologia, fisica, -logica, etica, politica. Di tali lavori scolastici d'insieme (introduzione a una lettura di Pla- tone ed esposizione del suo sistema ricavato da un sapiente ritaglio di testi dei dialoghi, ove maggiormente viene usato il Timeo, che appa- riva come il piu sistematico e l'opera di Platone in cui Platone aveva risolto le aporie del Parmenide e del Teeteto, attraverso il Sofista e il Filebo) non restano che poche tracce, se non per l'Epitomè o Didasca- lico di Albino di Smirne, per l'anonimo commentario del Teeteto e per la Dottrina di Platone di Apuleio di Madaura. L'Epitomè di Albino e la Dottrina di Platone di Apuleio + sono due 4 Albino, vissuto nel 11 secolo, fu scolaro, a Pergamo, del platonico Gaio. Di Gaio, che pur dovette avere una notevole autorità, sappiamo pochissimo, se non le scarse notizie trasmesseci dai suoi discepoli Albino, Apuleio, e l'autore del Commento al Teeteto. Le lezioni platoniche di Gaio sembra che siano state pubblicate da Albino, in nove libri, sotto il titolo Schizzi della dottrina di Platone. Tornato a Smirne, sua patria, Albino vi tenne scuola dal 151-152 in poi. Autore di un Prologo a Platone (E~yc.>~ ctç TOU I!MTc.>YOç f)lf)Àov: cfr. il testo a cura del Freudenthal, in "Hel- lenist. Studien," III) e di una Epitom~ o Didascalico della filosofia platonica, Albino ebbe grande influenza nell'interpretazione del Platonismo. L'Epitomè fu attribuita ad un certo Alkinoo. In realtà ciò fu dovuto ad un errore di lettura paleografica, a causa della confusione che in scrittura minuscola v'~ tra {3 e x. Si è oramai convinti che Albino e Alkinoo siano la stessa persona. L'Epitomè si divide in tre parti: Introduzione (cc. I-lll); La dialettica (cc. IV-VI); Teoria e contemplazione dell'Essere, fisica (cc. VII- XXVI); Morale (cc. XXVII-XXXIV); Conclusione (cc. XXXV-XXXVI). Diverso per famiglia, formazione, carriera (non maestro di scuola) fu l'altro disce- polo di Gaio, Apuleio. Apuleio, di cui ~ incerto il prenome Lucio, nacque a Madaura, nel dipartimento di Costantina, nel 125 d. C. circa. Compiuti i primi studi a Madaura, Apuleio si ·recò a Cartagine ove frequentò le scuole di grammatica e di retorica. Venne -quindi ad Atene dove coltivò le scienze filosofiche. Forse a Pergamo ascoltò Gaio. Certo sub{ l'influenza di Albino (molte sono le concordanze tra il suo De Platone eiusque dogmate e l'Epitomè di Albino). Durante il suo soggiorno in Grecia si fece iniziare a molte religioni di mistero, studiando a un tempo poesia, musica, astronomia, scienze naturali. Per queste ultime, in particolare, tenne presente le relative opere di Aristotele e della scuola aristotelica, che non a caso rielaborò in l:itino. Dopo avere a lungo viag- giato in Asia Minore, Apuleio si recò a Roma dove svolse attività di avvocato, difen- dendo, con successo, molte cause. Tornato in patria, durante un viaggio da Madaura ad Alessandria, si ammalò ad Oea (Tripoli), dove fu costretto a trattenersi. Ad Oea entrò in dimestichezza con Lolliano Avito, proconsole d'Africa e là ritrovò un giovane amico conosciuto ad Atene, Sicinio Ponziano. Sicinio Ponziano era il figlio maggiore di Pudentilla, vedova da molti anni di Sicinio Amico. Secondo lo stesso Apuleio, Sicinio Ponziano lo convinse a sposare la madre, che desiderava rifarsi una famiglia. La donna era di una diecina di anni piu anziana di Apuleio, di circa quaranta anni, non 6ella, ma assai ricca. Ebbe allora nemici i parenti del primo marito· di Pudentilla, i quali avevano pensato di spartirsi i beni della vedova. Dimostratasi falsa l'accusa che Apuleio avesse ucciso Ponziano, ch'era nel frattempo morto a Cartagine, i parenti del secondo figlio giovinetto di Pudentilla, Sicinio Pudente, accusarono Apuleio di avere costretto la donna al matrimonio usando filtri e incantesimi magici. Apuleio, trascinato in tri- bunale, davanti al proconsole romano Claudio Massimo, energicamente si difese, con successo, dall'accusa di magia. La difesa, pronunciata, nel 158 circa, ~ giunta a noi - certo dallo stesso Apuleio rielaborata e sviluppata - sotto il titolo Apologia ossia Pro se de magia liber. Prosciolto da ogni aceusa di magia, Apuleio si ritirò a Cartagine, dove, per la sua eloquenza, per le sue brillanti conferenze, per la sua capacità di parlare 50    opere di grande importanza per una ricostruzione storica del plato- nismo nel u secolo: se da un lato indicano un preciso modo di inter- pretare Platone, dall'altro lato chiariscono non solo un metodo di la- voro, ma spiegano anche come per presentare un pensiero di Platone - nel suo complesso interiormente coerente - che abbraccia tutti i rami del sapere (filòsofìa), si sia potuto, per alcune parti (la logica in parti- colare) ricorrere a certi aspetti della logica di Aristotele, reinterpretata attraverso l'elaborazione formale-linguistica della logica del primo stoi- cismo, in un recupero di Aristotele in funzione platonica. Scrive Albino, aprendo la sua Epitomè: Ecco quale potrebbe essere l'esposizione delle principali dottrine di Platone (rc";)v xup~Cù't'CXTCùV ll:>..IX't'Cùvoc; 30"(!J.tX't'CùV 't'OL«U't"7j 't'~ &v 3~ataxotÀ(« yivo~'t'o). La filosofia è un'aspirazione [cfr. Platone, Definizioni, 414b; Buti- demo, 275a] alla sàpienza (l>pEç~ aocp(atc;), o, se si vuole, lo scioglimento dell'anima che si allontana dal corpo, quando ci volgiamo all'intelligibile e alla verità [cfr. Pedone, 67d, BOe; Rep., 521c]; la sapienza (O'ocp(«) è la scienza (br~OTf)!Ll))delle divine e delle umane cose... (Epitomè, l, l). E cosf conclude l'opera Albino: Queste nostre delineazioni bastano per servire di introduzione (daatyeù"'{'fj) allo studio della dottrina di Platone (dc;· TY)v llM't'Cùvoc; 30"(!J.«'t'01toLL«V e:tp-i'ja.&at~)Alcune si presentano, forse, bene articolate, altre invece mancano di ordine c di articolazione logica; ad ·ogni modo questa nostra esposizione permetterà di esaminare le altre dottrine di Platone e di trovarne la spie- gazione (Epitomè, XXXVI). E dopo avere delineato la vita di Platone e la sua formazione, scrive Apuleio: In questo nostro trattato cerchiamo di far conoscere le meditazioni, o, come si direbbe in greco, i dogmi formulati da questo grande filosofo, per indifferentemente in latino c in greco, saÌl in grandissima fama, tanto che ancora vivente gli furono erette statue, c fu nominato oratore ufficiale della città. Mori a Cartagine nel 180 circa. Delle molte opere di Apuleio sono rimaste: i Florida (un'antologia di discorsi, (XIm- posta di ventitré pezzi), l'Apolo6ia (Pro se de ma6ia), il De deo Socratis, il De Platone eituque dogmatis (in tre libri), il De mundo (riclaborazione del De mundo dello pscudo- Aristotclc), le Metamorphoses l. XI (il capolavoro di Apulcio: un romanzo in cui si narrano le avventure di un giovane, un ceno Lucio, greco, che trasformato in asino per magia, ritorna uomo con l'aiuto della dèa Isidc). Degli scritti perduti si ricordano i seguenti titoli: De arboribus, De re rustica, Medicinalia, Astronomica, De arithmetica, De musica, Quaestionn conviviales, De Republica, Eroticos, Epitome historitlrum, Herma- goras. Sembra, infine, che Apuleio abbia tradotto in latino il Pedone cd alcune opere di Aristotele. . 51    utilità del genere umano, in fisica, in morale, in dialettica. Cosf, com'egli giunse per primo a coordinare tra di loro le tre parti costitutive della filo- sofia, anche noi parleremo separatamente di ciascuna di esse, cominciando da quella parte della filosofia che ha per oggetto la natura (Apuleio, La Dot- trina di Platon~, I, 5, 190). Se l'intento estrinseco di Albino e di Apuleio è evidente (presenta- zione in un ordine sistematico delle fondamentali dottrine di Platone, che serva da introduzione, isagoge, allo studio del pensiero platonico), altrettanto evidente è il loro intento intrinseco nello scrivere una "mono- grafia" su Platone: avviamento, attraverso Platone, ad una filosofia si- stematica, tale che non contraddittoriamente renda conto, in un solo sapere, dei limiti e dei fini dell'uomo, in funzione di un'unica visione pacificante, ove ciascuno, consapevole di sé, socraticamente, attuando se stesso, realizzando sé si possa salvare facendosi simile al divino. "La vi- sione contemplativa (.&ewp(at)è l'attività della mente (!vtpyeLOt -rou vou)," dice Albino con termini aristotelici, "che concepisce gl'intelligibili; l'azione è l'atto di un'anima ragionevole (>.oyLxlj) che agisce, interme- diario il corpo. L'anima contemplante (&wpouaat) il divino e le nozioni a lui relative si dice essere un'anima ben disposta, e tale modo d'essere dell'anima è quel che si è chiamato pensiero (q~p6V1Jau;), che, si potrebbe dire, non in altro -consiste se non nel farsi ·simile al divino (oòx ~upov et7toL &.v TL<;; e!vat~ njç 7tpÒç TÒ &L"ov Ò!J.oL6>a&:wç)" (Epitom~,II, 2). Ed Apuleio scrive: "La filosofia fino. al tempo di Platone divisa in tre sezioni, fu da lui riunita in un sol corpo. Egli dimostrò che queste di- verse parti erano mutualmente indispensabili l'una all'altra; e che non solo esse non erano in contrasto, ma che, anzi, l'una serviva all'altra. Infatti, benché avesse attinto a diverse scuole questi elementi della scienza filosofica, e cioè: quel che riguarda la natura ad Eraclito, la logica a Pitagora, là morale a Socrate; di tutti questi membri distaccati egli seppe tuttavia fare un sol corpo, ed appunto in questo consiste la sua originalità ... Orbene, tale visione sistematica ha una grande utilitl per il genere umano (1, 3, 187). Vogliate scuotere e agitare Platone: ciascuno, onorandosi di appli- carlo a se stesso, lo trae dalla parte che vuole" (Montaigne, II, 12). Nelle parole di Montaigne è implicita un'osservazione storica di primo piano, e cioè che, appunto, non esiste un "platonismo," ma tanti "platonismi," ciascuno, almeno in parte, effettivamente platonico, ciascuno avendo assunto a Platone, uno o altro aspetto, a seconda della propria esigenza. Ad ogni modo, entro i termini di una comune problematica, l'impo- stazione delle opere platoniche di Albino e di Apuleio, serve non poco ad illuminare le tracce che abbiamo delle altre opere su Platone, degli 52    altri commenti ai dialoghi platonici che fiorirono lungo il II secolo, e, ad un tempo, a chiarire, per altro verso, il significato dei commenti a certe opere precise di Arislotele,·da parte dei peripatetici del I secolo d. C. fino ad Alessandro di Afrodisia (seconda metà del II secolo). Innanzi tutto sembra chiaro che, quali che siano le interpretazioni del pensiero platonico e, di volta in volta, la funzione data all'esposi~ zione e sistemazione in un unico corpo dottrinario della filosofia di lui, il primo lavoro sul complesso dei dialoghi platonici e sulle "filosofie" scaturite dalle molteplici interpretazioni del pensiero platonico (da quelle di Speusippo e Senocrate a quella di Aristotele, da quella di Arcesilao e di Carneade a quelle di certi stoici, di Antioco di Ascalona, di Cice- rone e di Eudoro) sia stato, appunto, un lavoro di sistemazione e di enucleazione, simile al lavoro che si svolgeva per le altre filosofie, per presentare dell'una o dell'~ltra un corpo dottrinario coerente e compiuto. Come durante il I e il n secolo d.C., vediamo, ad esempio, una serie di lavori che raccolgono insieme, in un sol corpo, le argomenta- zioni degli scettici, culminanti nella grande opera di Sesto Empirico, le Ipotiposi pi"()fliane, e come c'incontriamo in una serie di sillogi del pensiero stoico, particolarment-e difficili, dati i tanti tipi di .stoicismo da Zenone in poi, per cui tali sillogi del pensiero stoico il piu delle volte presentano un corpo dottrinario stoico che non ha piu nulla a che fare col pensiero dell'uno o dell'altro stoico, come si vede bene nella presentazione che dello stoicismo farà Diogene Laerzio nel VII libro delle Vite; cosi avviene per Platone, per il corpo platonico e per il com- plesso delle interpretazioni di. lui, ove, puntando su di uno piuttosto che su di un altro dei molti aspetti del platonismo, ciascuno dei quali poteva rispondere ad una piuttosto che ad altra esigenza, si poteva cavarne un tipo di filosofia piuttosto che un altro, pur usando, ritagliati, testi tratti da tutti i dialoghi, in una ripresa o in un rifiuto dell'interpretazione che di Platone avevano dato Aristotele o gli stoici. Se ricordiamo ora il significato che, ad esempio, nel campo medico avevano assunto le raccolte delle ipotesi e delle tesi, in un tutt'uno che costituisse il com- plesso del sapere medico, ed a cui, nella descrizione di un certo com- plesso di fenome~i, raccolti sotto un sol quadro clinico, si dava il nome di ipotiposi, schema di un qualche sapere (il che presuppone un corpo di dottrine sparse, un insieme di libri, ove è depositato un certo sapere, dal cui commento e dalla cui discussione, trarre il "libro"), sembra chiaro non solo l'intento scolastico di queste opere e commenti plato- nici, ma anche il loro intento filosofico, l'importanza da essi data al- l'auctoritas. E ciò, ad esempio, è denunciato non solo dalle opere di Al- bino e di Apuleio, ma anche dal titolo che fu dato a un corso di lezioni su Platone (opera·, andata perdut~), tenuto da Gaio a Pergamo, che, 53    raccolto e pubblicato in 9 libri da Albino, che di Gaio fu discepolo, ebbe appunto il titolo di lpotiposi delle dottrine platoniche (l'1to-ru1twaeLc; 7tÀ«'r6>VLx&v 3oy(.UX-r6>v; ove va sottolineato che non è forse un caso che si dica platoniche e non di Platone). Gaio, vissuto nella prima metà del I I secolo, insegnò a Pergamo, dove ebbe scolari Albino (metà n secolo), Apuleio (nato nel 125 circa, morto nel 180) e l'anonimo autore del Commentario al Teeteto. Attraverso il Prologo a Platone (probabilmente un estratto di un'opera maggiore: cfr. J. Freudenthal, Hell. Stud., 3, Berlino, 1879) e l'Epitomè o Didascalico di Albino (l'Epitomè fu ritenuta un tempo opera di un certo Alkinoo: si è oggi dimostrato che Alkinoo non è mai esistito, e che al posto di Alkinoo va letto Albino; l'equivoco fu dovuto a un errore materiale, alla confusione in scrittura minuscola tra ~ e x, risalente al IX secolo: cfr. Freudenthal, op. cit.; P: Louis, lntroduction à l'Epitomè di Albino, Parigi, 1945, p. xm), ed attraverso La dottrina di Platone di Apuleio sembra si possa precisare, facendolo risalire a Gaio, un certo tipo di interpretazione e di sistemazione di Platone. A parte la riduzione del pensiero platonico ai tre aspetti divenuti canonici della filosofia: teoria (contemplazione dell'essere: della. teoria, la parte che si occupa delle cause prime e immobili, di tutte le cose divine si chiama teologia; quella che studia il movimento degli astri, le loro rivoluzioni e ritorni periodici, e il costituirsi del cosmo, è la fisica; quella che utilizza la geometria e le altre scienze analoghe è la matematica: cfr. Albino, Epìt., III, 4); pratica (studio di quali debbano essere le regole dei costumi, l'amministrazione di una casa, il modo di governare e sal- vare lo Stato: la prima di queste attività si chiama etica, la seconda economica, la terza politica: cfr. Albino, Epit., III, 3); logica (analisi dei ragionamenti, detta dialettica, in quanto studio di come è che si deve ragionare; cfr. Albino, Epit., III, l); ciò che piu colpisce, nell'in- terpretazione del pensiero di Platone sulla linea indicata da Gaio è lo sforzo continuo di rendere non contraddittorie, cioè dimostrabili, e per- ciò razionalmente accettabili, con metodo aristotelico (l'Aristotele dei Topici, dei Secondi Analitici e del De lnterpretatione: cfr. sopra I volume) le tesi platoniche esposte in funzione di una visione uni- taria del tutto (il piu delle volte mettendo in forma, sillogizzando, testi effettivamente di Platone, ricavate, ad un tempo, in un sapiente montaggio, da dialoghi diversi). Sembra chiaro cosi perché l'esposi~ zione di quella parte della filosofia platonica il cui oggetto è lo studio di quale debba essere un corretto pensare, venga strutturata con il linguaggio e nei termini di alcuni dei libri logici di Aristotele. Per Albino, anzi, lo studio del retto pensare (ch'egli ricava da Aristotele) sarebbe stato il punto di partenza di Platone, per avviare a compren- 54    dere da un lato i principi e le cause prime del tutto, dall'altro lato il posto che nell'ordine del tutto ha da assumere l'uomo, nei confronti di quel tutto e nei confronti degli altri uomini. E per altro verso Apuleio, dopo avere esposto nel I libro della sua Dottrina di Platone la "filosofia naturale" e nel II la "filosofia morale," dedica il III alla logica ricavando tutto ciò che dice- perfino gli esempi- dal De lnter- pretatione di Aristotele, tanto che si è dubitato che il libro III sia davvero di Apuleio. La questione, forse, si fa piu chiara quando si pensa a quello che fu il lavoro di Aristotele nei confronti dell'ultimo Platone. Quali che siano state le soluzioni di Aristotele, certo è che quella di Aristotele fu, almeno in principio, una delle possibili inter- pretazioni della tematica platonica, che - prendendo le mosse dal- l'interpretazione metodologica del Platone del Teeteto, del Parmenide e del Sofista - tendeva a risolvere le aporie platoniche - essere uno e idee, idee separate, rapporto tra l'uno e i molti, tra l'impossibilità di pensare le forme senza contenuti, e i contenuti senza forme - in uno studio sistematico di quelle che sono le condizioni logiche che permet- tendo un tipo di discorso non contraddittorio risolvessero quelle aporie stesse, assumendo come vera quell'ipotesi che non fosse piu oppugna- bile. Aristotele giunse dove giunse, ma intanto il suo metodo d'inter- pretazione e di discussione dialettica delle ipotesi, per determinare i principi non piu discutibili da cui trarre discorsivamente ciò che in essi è implicato, poteva servire all'analisi delle tesi platoniche per ren- dere giustificabile, cioè razionalmente deducibile, e per ciò stesso con- vincente, quello che sembrava l'intento fondamentale di Platone ed in particolare il punto cruciale e piu equivoco del pensiero platonico, il rapporto essere-idee, unità-molteplicità, che, assunto in termini aristo- telici, si poteva ritener risolto da Platone nel Timeo. b) l commentatori di Aristotele: Alessandro di Ege, Aspasia, Adra- sto di Afrodisia, So'Sigene, Ermino, Aristocle di Messene. A tale propo- sito, anzi, non va dimenticata qui l'influenza che tra il I e il 11 secolo, aveva avuto l'edizione del corpus aristotelicum dovuta ad Andronico di Rodi,6 che dette luogo, in un progressivo accantonamento delle prime opere di Aristotele, ad una serie di commenti e di. introduzioni ad una lettura di Aristotele. Purtroppo dei commentatori del 1 secolo e di alcuni 6 Su Andronico di Rodi si veda sopra. Ad Andronico di Rodi, che, successo a Erimneo, fu scolarca del Liceo, in Atene, tra il 70 e il 60 a. C., successero: sul 45 circa, Cratippo di Pergamo; sotto Augusto, Xenarco di Seleucia, che insegnò anche ad Ales- sandria e a Roma; nel 1 secolo d. C., Menefilo; tra il 120 e il 160 circa d. C., Aspasio, Ermino, Alessandro di Damasco, Aristocle di Messene, Sosigene. Della loro vita non sappiamo niente di preciso. 55    del n non sono rimaste che testimonianze e la precisazione di quali opere di Aristotele hanno commentato. Ma sono già indicazioni assai interessanti. Di Alessandro di Ege, vissuto nel I secolo, che sembra sia stato tra i precettori di Nerone (cfr. Suda, s.v.), sappiamo che compose un commento alle Categorie di Aristotele, in cui ne sosteneva il signi- ficato formale linguistico, assumendole quali condizioni di possibili giudizi e fondamenti logici della po~sibilità del reale, determinando la struttura dell'universo (e in tal senso sembra abbia commentato il De coelo). Di Aspasio - vissuto presumibilmente nella seconda metà del I s e c o l o - sappiamo che commentò le Categorie, i l D e lnterpretatione, il De coelo, parti della Metafisica e l'Etica Nicomachea (di quest'ul- timo commento è rimasto un frammento: in Commenl. in Arin. graeca, XXIX, I, Berlino, 1889). Di Adrasto di Afrodisia, fiorito, come sembra, nella prima metà del n secolo,. ritenuto dagli antichi uno dei maggiori interpreti di Aristotele, sappiamo che scrisse un'opera per delineare quale doveva essere l'Ordine degli scritti di Arinotele (cfr. Galeno, XIX, 42 sgg. in Gercke, Pauly-Wissowa, R.E.) e che sosteneva doversi porre al principio di tali scritti, a mo' di introduzione e quale condizione me- diante cui comprendere la via metodologico-logica attraverso cui Aristo- tele giunge a determinare la propria posizione, le Categorie e i Topici, mentre, per altro verso, usando il metodo di Aristotele commentava il Timeo di Platone (cfr. Porfirio, In Ptol. harm., ed. Wallis, Opera malh., III, 270) e dava un quadro generale, entro questi termini, del sapere astro- nomico fino a Ipparco di Nicea (cfr. Teone di Smirne, Conoscenze mate- matiche utili a una lettura di Platone, III). Di Sosigene, vissuto nel II secolo, sappiazpo che commentò la logica di Aristotele, cercando, a quanto pare, di renderne conto in termini matematico-formali, risolvendo quindi in termini geometrici la teoria delle sfere e della visione. Anche Erminio, vissuto nel u secolo, discepolo di Aspasio, com- mentò particolarmente i libri logici (Categorie, De lnterpretatione, Analitici primi, Topia), sostenendone il valore formale. Cosi, sembra, sottolineando la contraddizione che v'è nel porre Dio motore immo- bile e il movimento dato da esso al tutto, Erminio interpretava, nel suo commento alla Fisica, il dio aristotelico come condizione logica, l'atto primo cui tutto aspira, per cui bisogna supporre non Dio che muove, ma la realtà tutta che si muove, in quanto ha in sé un'anima: ed Erminio sosteneva che tale era il significato dell'anima mundi del Timeo di Platone. 56    Su questa linea non sembra perciò un caso che il siciliano Aristocle di Messane (u secolo) potesse sostenere, come appare dai frammenti (in Eusebio, Praep. ev., Xl, 2,6; XIV, 17-19; XV, 1,13 e 14, l sgg.) rima- stici dalla sua Storia della filos_qfia, che tra Platone e Aristotele v'era un perfetto accordo (cfr. Alessandro di Afrodisia, De anima, Il, 110, 5-113 ed. Bruns), e che l'aristotelismo si poteva delineare come l'in- terpretazione logica del platonismo (del resto, pare, tesi già soste- nuta fin dal I secolo a.C. sulla scia di Antioco di Ascalona, e in chiave stoica, da Eudoro, da Ario Didimo, da Aristone di Aless;m- dria, che commentò gli Analitici e le Categorie e da Alessandro di Ege, del I secolo d. C., anch'egli commentatore delle Categorie). Cos{, anche gli aristotelici del 1 e della prima metà del II secolo tendono a una interpretazione e familiarizzazione dell'universo, in una visione unica del tutto, a cui doveva servire la filosofia, intesa, ora, come scienza delle scienze, avente il suo criterio nell'analisi dei discorsi, per cui non a caso al complesso dei libri logici di Aristotele fu dato il nome di "stru- mento" (6rganon). E ciò, per quel che ne sappiamo, è denundato dall'in- teresse per certi libri logici (Topici, Categorie, Secondi analitiet) e per la Fisica e il De coelo di Aristotele, messi accanto al 'fimeo dì Platone. At- traverso lo studio dei "luoghi" argomentativi si cercava di determinare le possibilità del discorso scientifico - indipendentemente da uno o altro contenuto - che poteva dar luogo a deduzioni, linguisticamente cor- rette (donde la ripresa della genesi del discorso qual'era stata formu- lata dai primi stoici, per rendere possibile la predicazione), sulla strut- tura e l'ordinamento del tutto, che si poteva, perciò, interpretare in chiave stoica (vedi De mundo dello pseudo:Aristotele) e in chiave pla- tonica, risolvendo il mondo delle idee - il punto piu problematico di Platone - in intellezioni in atto della stessa sostanza una, cioè del divino, il quale non è in quanto sia qualcosa, ma in quanto ragion d'essere in atto del tutto, cui tutto per esistere deve conformarsi, per cui l'essere è presente nelle cose in quanto forme e tutte le trascende m quanto forma delle forme (ed è perciò incorporeo). c) Il «platonismo11 di Albino. Teone di Smirne. Entro questi ter- mini si fa chiara la soluzione dell'aporia platonic~ uno-idee, idee-cose molteplici, di cui già troviamo traccia fin dal I secolo a.C., ma che nell'Epitomè di Albino6 ha la sua formulazione piu esatta, e nella maniera che diverrà poi tipica di una certa tradizione platonica. Dopo avere discusso gli elementi e le funzioni della dialettica, distinguendone le varie parti (divisione, definizione, analisi, induzione e sillogismo, 6 Sulla vita di Albino vedi sopra.  57   significato del linguaggio), e, dopo aver determinato attraverso essa le condizioni delle singole scienze (aritmetica, geo~etria, stereometria, astronomia, musica) mediante cui giungere ai primi principi e cause, condizioni non piu dialetticamente oppugnabili, da cui dedurre tutta la struttura e il costituirsi dell'universo, dice, dunque, Albino: Dopo di che, seguendo il nostro piano, bisogna parlare dei principi e dei precetti della Teologia. Prendendo le mosse da questi primi problemi, passeremo ad esaminare l'origine del mondo e di qui giungeremo all'origine e alla natura dell'uomo. Parliamo innanzi tutto della materia [{));'): il ter- mine è ripreso chiaramente da Aristotele]. Platone le dà i nomi di "porta- impressioni" (èx!l4yei:ov), "ricettacolo universale," "nutrice," "madre;· "spazio," (xwpat), sostrato incapace di sentire e che non è afferrabile se non con un ragionamento bastardo [cfr. Timeo, 50c, 5Ia, 49a, 52d, 88d, 50d, 5Ia, 52a-d]. La sua funzione propria è di ricevere i frutti di ogni nascimento e di avere il compito di una nutrice che tutti li accoglie nel suo seno e ne prende tutte le forme, nonostante essa, per sua natura, sia senza figura, senza qualità e senza forma... [appunto per poter ricevere tutte le forme]. La materia perciò non è né corporea né incorporea: essa è un corpo solo virtualmente, sf come si può dire del bronzo che è virtualmente una statua, poiché non ha che da ricevere una certa forma per essere una statua [evidente riferimento ad Aristotele: Metafis., IV, 2; Fisica, Il, 3] (Epitomè, VIII). Oltre alla materia, che costituisce un primo· principio, Platone ne ammette altri: uno consiste nei paradigmi, cioè nelle idee, l'altro nel padre e causa di tutte le cose, cioè Dio. L'idea, in rapporto a Dio, è l'intellezione di lui stesso (la·n 8è ~ t8éat 6>c; (Ùv 7tpÒç .8-eòv v61jatc; otÙ-rou); in rapporto a noi è il primo intelligibile; in rapporto alla materia, la misura; al mondo sensi- bile, il paradigma; relativamente a se medesima, allorché si esamina, è l'essenza (oùa(ot)....Le Idee sono le operazioni eterne e perfette in sé della intellezione divina. E che le idee siano lo si può stabilire cosi: posto che Dio è una mente o un essere pensante, egli l}a dei pensieri e tali pensieri sono eterni e immutabili: se còsf è, le Idee sono. D'altra parte, se la materia non può misurarsi da sé, è necessario ch'essa trovi tale misura altrove, in qualcosa di piu eccellente, e di non materiale: ammesso l'antecedente ha da esserci il conseguente: le idee dunque esistono e sono misure immateriali. Non solo, ma se il mondo quale è non esiste in virtu di una causa fortuita, è stato fatto non solo di un qualcosa, ma anche da qualcosa e mediante qualcosa. E ciò mediante cui è stato fatto, cosa è se non l'Idea? Le Idee dunque esistono. ... Di qui anche il terzo principio che Platone considera come quasi inesprimibile. Noi possiamo tuttavia afferrarlo grazie al seguente ragionamento: se gli intelligibili sono e se non cadono sotto i sensi né par- tecipano del mondo sensibile, ma ai primi intelligibili, i primi intelligibili sono in senso assolutlo, sf come sono i prirlli sensibili. Ammesso questo, si deve ammettere anche tutto ciò che ne consegue. Dato che gli uomini sono un complesso di impressioni sensibili tanto che perfino quando si propon- 58    gono di concepire l'intelligibile, vi mescolano qualche apparenza sensibile, come l'idea di grandezza, di figura o di colore che essi spesso vi aggiun- gono, è loro impossibile concepire con purezza l'intelligibile: gli dèi invece si liberano dal sensibile e concepiscono l'intelligibile in forma pura e sem- plice. D'altra parte, poiché l'intelletto è superiore all'anima e al di sopra dell'intelletto in potenza (!v 3uvoc(Ut) si trova l'intelletto in atto (xcx-r' hépy&Lotv) ed è sempre in attività, poiché piu grande ancora è la bellezza di ciò che ne è la causa e che è superiore a tutto il resto, ecco il primo dio, il motore che fa agire senza interruzione l'intelletto del cielo intero... Tale primo intelletto deve, dunque, concepire sempre se stesso ad un tempo concependo i propd pensieri, ed è in tale attività dell'intelletto che con- siste l'Idea. Il primo Dio, dunque, è eterno, indicibile, perfetto in sé, cioè sertza bisogni, sempre in sé compiuto, cioè perfetto in tutti i tempi, ovunque perfetto, cioè perfetto in tutti i luoghi. Esso è la divinità, la sostanzialità, la verità, la proporzione, il bene. E non dico q'lesti termini per separarli, ma per far concepire, mediante la loro unione ch'esso è un tutto unico... Dio è indici- bile ed afferrabile solo con l'intelletto, come abbiamo detto, poiché egli non è né genere, né specie, né differenza specifica e neppure può subire acci- denti... Egli non è qualità, perché è estraneo ad una qualità e la sua perfe- zione non è dovuta a una qualificazione; non è assenza di qualità, poiché non manca delle qualità che possono essergli proprie; non è parte di qual- cosa né un tutto che abbia parti, non è identico a una o ad altra cosa... esso infine non dà né riceve movimento. Attraverso queste successive costruzioni si avrà una prima idea di Dio, come si giunge a concepire il punto facendo astrazione dal sensibile, muovendo dall'idea di superficie, poi da quella di linea, per giungere infine al punto. Ancora:. ci possiamo fare un'idea di Dio procedendo per analogia...: come il sole non è la vista, ma permette alla vista di vedere e agli oggetti d'esser veduti, cosi il primo intelletto non è l'intelletto dell'anima, ma dà all'intelletto dell'anima la facoltà di conce- pire e agli oggetti intelligibili d'essere concepiti, illuminando la verità ch'essi contengono. Esiste un terzo modo di farsi un'idea di Dio: [dalla contem- plazione del bello che risiede nei corpi, passare alla bellezza dell'anima e di qui al bello che è nei costumi e nelle leggi, per risalire infine al vasto oceano del bello... ] (Epitomè, VIII- X). Il testo di Albino è certo molto chiaro per renderei conto di un tipo di interpretazione della problematica di Platone relativa al rap- porto Uno-idee, idee-cose, problematica che si risolve attraverso uno degli aspetti della logica aristotelica. Eliminando via via le contrad- dizioni si giunge a porre come· condizioni non contraddittorie della pensabilità del reale da un lato l'informe, dall'altro l'intelligibile in atto, l'essere come pensiero in atto; il cui discorso è la stessa realtà, ripercorrendo la quale si arriva a cogliere l'atto pensante, appunto in sé indicibile, perché sempre in atto discorso intiero, ma da cui si ridi- scende a tUtti i nf'ssi che costituiscono la trama e il ritmo su cui si 59    scandisce la realtà, sempre in atto allorché s'intende l'Uno pensiero, e perciò eterna, processo e tempo, in quanto se ne ripercorrono le trame su cui appunto la realtà si costituisce. In tal!= senso Dio, la prima essenza, il ciò senza di cui nulla è (causa, per cui grammaticalmente il verbo, l'è, la sostanza è la condizione della predicabilità), viene a porsi, in chiave aristotelica, come la condizione logica che rende pen- sabile la realtà, e, appunto perciò, pensiero di pensiero, intellezione in atto e, dunque, sempre in atto aggettivazione (e, per questo, idee sono dette le aggettivazioni dell'intelletto in atto, del primo intelletto), onde incorporeo, cioè non cosa è Dio, non forza fisica, ma pura intel- ligibilità. Assume qui un suo particolare significato l'opera di Teone di Smirne,T vissuto nella prima metà del n secolo (egli cita a lungo Adra- sto, si serve del suo commentario al Timeo e delle sue teorie astro- nomiche, ma non cita Claudio Tolomeo), intitolata TC>v xct-r« -ro !J4&1liJ4-rLxllv lP7JcniL(a)V dc; -rljv llM-r(a)voc; clvtiyv(a)aLv (Conoscenze matematiche utili alla lettura di Platone). L'opera di Teone di Smirne, giuntaci quasi intera, si muove, per l'intento e per i risultati, entro l'àmbito del pensiero di Gaio e di Albino. È anch'essa una introdu- zione a Platone, per giungere, attraverso un certo modo di leggere Platone, a farsi simili alla divinità (npllc; -rllv &ellv 61Lo((a)aLt;), sapendo rendersi familiari a sé e al mondo, come già Gaio diceva, riprendendo u n termine stoico (otxe((a)ar.t;, oichéiosis). Sotto quest'angolo visuale, Teone, rifacendosi alle cinque scienze da Platone indicate come fon- damentali per la formazione del filosofo (ma si veda anche Nicomaco di Gerasa), fa un'ampia esposizione in forma sistematica delle varie teorie svoltesi nel tempo, costituenti, insieme, l'aritmetica, la geome- tria piana, la stereometria (geometria solida), l'astronomia e la teo- ria musicale. Nel timore che coloro, che non hanno avuto la possibilità di coltivare le matematiche e che tuttavia desiderano conoscere gli scritti di Platone, non siano costretti a rinunciarvi, daremo qui un sommario e un riassunto delle conoscenze necessarie e la tradizione dei teoremi matematici piu utili sul- l'aritmetica, la musica, la geometria, la stereometria e l'astronomia, scienze senza le quali è impossibile essere perfettamente felici, come Platone dice [Epinomide, 992a], dopo avere a lungo dimostrato che non si debbono tra- scurare le matematiche (l). L'opera di Teone, preziosissima per una ricostruzione della storia delle singole scienze trattate, particolarmente per l'astronomia, è pre- T Quasi nulla sappiamo ddla vita di Teone di Smirne 60    ziosissima anche come indicazione della traduzione sul piano scientifico della teoria platonica in termini aristotelici, in una sistemazione del- l'universo che permetta calcoli e misure, e che, riprendendo e ordi- nando in un unico sapere le varie tesi, susseguitesi nel tempo, da Ari- stotele a Ipparco di Nicea e Adrasto, è l'indice di quello che sarà poco tempo dopo il grande lavoro di Claudio Tolomeo. Ad ogni modo, entro la linea di questi platonici (Gaio. Albino, Teone), sembra chiara la loro opposizione alla riduzione stoica del divino a forza egemonica, annullante il divino nello stesso processo del mondo, anche se sul piano del mondo e della organizzazione e qualificazione del reale, della funzione dinamica dell'"anima mundi," del tutto vivente, il discorso poteva essere talvolta simile a quello di certi stoici e del loro modo di interpretare il Tim~o (cfr. Ario Didimo, ad esempio, che fu tenuto presente da Albino: si veda il principio del XII capitolo dell'Epitome?· ricalcato da Ario Didimo, in Eusebio, Pra~p. ~v., XI, 23; e, per altro, il D~ mundo di Apuleio, ricalcato sul De mundo dello pseudo-Aristotele). d) Il « platonismo" antiaristotelico di Calvisio Tauro e di Attico. Nicostrato. Arpocrazione. Oltre all'opposizione nei confronti dello stoi- cismo ontologico, da quanto è stato sopra detto si delinea anche l'oppo- sizione ad un certo Aristotele, che chiaramente possiamo notare in un altro gruppo di commentatori di Platone,8 facente capo a Calvisio Tauro (il quale resse, in Atene, l'Accademia al tempo di Adriano e di Antonino), e proseguitosi con Attico - fiorito nella seconda metà del II secolo, autore di un commento al Fedro e al Timeo: Proclo, In Tim., 315a,- successo, pare, a Calvisio Tauro, ç con Nicostrato- fio- rito tra il 160 e il 170. - Se il fenicio Calvisio Tauro, nato a Berita, sembra che abbia, per quelle poche testimonianze che abbiamo su di lui, non solo opposto Platone agli Stoici (Discrepanze della Stoà ri- spetto a Platone: cfr. Aulo Gellio, XII, 5, 5), ma anche Platone ad Aristotele, in una sua opera (perduta) intitolata ·TratttftO sulla diffe- renza delle scuole di Platone e di Aristotele (Aulo Gellio, XII, 5, 5), tale opposizione risulta certa dai frammenti che Eusebio (Praep. ev., XI, 1-2; XV, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 12, 13) ci ha conservati delle opere di Attico. Anche se troppo frammentari sono i testi riportati da Eusebio per poter ricostruire il pensiero di Attico, senza dubbio essi indicano, tuttavia,. che l'opposizione di questi platonici ad Aristotele si svolgeva sull'inter- 8 Poco o nulla sappiamo della vita dei platonici di Atene, Calvisio Tauro, Attico, Arpocrazione, cui ~ legato N"~eostrato. Calvisio Tauro e Attico, di cui fu discepolo Arpocrazione, furono scolarchi dell'Accademia, ad Atene, tra Adriano e Marco Aurelio. 61    pretazione ch'essi davano da un lato delle categorie e dall'altro lato dei libri fisici di Aristotele, entro i termini dell'ultimo Aristotele. Se invece di puntare sulle Categorie in senso formale e grammaticale, si punta sulle Categorie, supponendo la teoria della sostanza in senso aristotelico (come fece Nicostrato, che, sembra, seguendo l'opera di un certo Lucio suo contemporaneo, violento critico delle categorie ari- stoteliche, vedeva nelle categorie di Aristotele la negazione del trascen- dente platonico: cfr. Simplicio, In Categ., I, 19 sgg. 73, 15 sgg. 76, 14 sgg.), si capisce come si potessero interpretare certe conclusioni aristoteliche quali negatrici di una provvidenza, di una distinzione tra intelligibile e sensibile, dell'immortalità dell'anima, di una divinità autrice del mondo, per cui si poteva sostenere, di contro alla religiosità platonica, che Aristotele è ateo sf come lo sono gli Epicurei, o che Aristotele risolve il divino nell'attualità del tutto, facendo di Dio un termine puramente logico. "Platone," esclama Attico, "per non privare il mondo della Provvidenza, dichiarò che questo mondo non è ingene- rato. Ora, noi esortiamo quei platonici che sostengono che il mondo, secondo l'insegnamento di Platone, non è stato generato, a non met- terei nelle difficoltà... A tale tesi li ha indotti Aristotele..., per il quale il mondo è ingenerato [e· quindi uno in Dio], e pér cui è neces- sario che ciò che ha avuto un'origine perisca e che imperituro è solo ciò che non è stato generato, ond'egli non concede a Dio neppure il potere di fare il bene..." (in Eusebio, Praep. ev., XV, 6). "Aristotele cosi annulla la speranza dell'anima e distrugge anche la pietà verso gli esseri superiori... e la fede nella Provvidenza, guida per la vita umana... e supponendo quindi che per l'uomo dopo la sua morte U.:':to sarà morto con lui, eccita gli uomini a soddisfare i proprt appetiti... Se egli, dunque, non ammette nulla al di fuori del mondo, ed esclude gli dèi da ogni relazione con gli avvenimenti della terra, è necessario che si professi decisamente ateo o che difenda la sincerità del suo atei- smo relegando gli dèi dove li ha posti. Epicuro, da parte sua, quando nega la provvidenza degli dèi dicendo che non hanno rapporti con il mondo, sembra voler giustificare con questo il suo ateismo..." (in Euse- bio, Praep. ev., XV, 5, 3 sgg.). Di qui, secondo le testimonianze di Proclo (In Tim., 41d), la tesi di Attico, per il quale Platone avrebbe da un lato posto una materia informe, agitata e resa viva da una potenza irrazionale e, dall'altro lato, il Bene, il divino tutto in atto nel Demiurgo, che dà ordine e misura alla materia. Termini intermedt tra il divino, causa e principio primo (padre) e la corporeità, intesa come limite e dispersione e perciò come radice 62    del male, avrebbe posto Arpocrazione di Argo - commentatore del Timeo, del Pedone, dell'Alcibiade Maggiore, e autore di un'antologia di massime di Platone, - discepolo di Attico (Proclo, In Tim., 93c). Egli, cioè, tra il Padre, causa prima e immobile, e il corpo (informità e limite), avrebbe posto una seconda divinità, il facitore, il poietès, mediante cui si realizza nell'ordine il k6smos; ordine che egli - volto da un lato al Padre, dall'altro alla materia - dà alla corporeità, riflet- tendovi le idee. Il cosmo cosi viene ad essere un terzo ente divino, in quanto idea di mondo presente alla mente del poietès (cfr. Proclo, In Tim., 93b; Giamblico, De anima, in Stobeo, Ecl., I, 49, 37: ed. Wach., I, p. 375,15, e 380, 14). Anche se solo in forma indicativa, è sembrato opportuno sottoli- neare le molte venature con cui si presenta nel corso del n secolo ·il cosiddetto "platonismo medio." Emerge cosi l'opposizione tra due in- terpretazioni del pensiero platonico. L'una, determinandone la non contraddittorietà, punta, mediante il metodo aristotelico, sul dio di Aristotele, inteso come attualità in atto di tutta la realtà, condizione logica (e in tal senso trascendente e incorporeo) e finalità, cui tutta la realtà, che·presuppone l'altra condizione logica della materia come potenzialità, tende (onde immobile e motore è la divinità), realizzando in sé gl'intelligibili, le forme; l'altra, viceversa, vede nèlla possibile tesi aristotelica, anche se in termini diversi, un'interpretazione di tipo stoico, annullante, appunto, il divino nelle stesse categorie, e, perciò, nello stesso ritmo in cui si scandisce la realtà. Tale contrasto, se da un lato sembra chiarire il significato dell'appello a Platone e dell'interesse per la logica aristotelica, dall'altro lato è fondamentale per capire sia gli sviluppi di un certo approfondimento nell'interpretazione di Ari- stotele (Alessandro di Afrodisia), sia gli sviluppì, sul piano dei com- menti a Platone e ad Aristotele, di una certa interpretazione di Platone (da Numenio di Apamea a Platino), ove fin da ora va detto che viva rimase la questione del come interpretare le categorie di Aristotele (ricordiamo, su tale piano, la discussione tra Platino e il suo discepolo Porfirio; Platino, VI, Enn., l sgg., nega il valore delle Categorie, dei generi sommi, di Aristotele, annullando l'Uno platonico; Porfirio le riprenderà dando ad esse un valore formale linguistico e non antico), proponendo, per altro, il platonismo come l'unica ipotesi non contrad- dittoria per spiegare la realtà in tutto il suo complesso (non a caso Platino, in nome della tradizione razionalistica greca, scriverà finis- sime pagine Contro gli gnostici, in Enn., 2, 9, respingendo ogni tipo di "rivelazioni speciali"). 63    e) Alessandro di Afrodisia, il "secondo Aristotele.» Nel conflitto dell'interpretazione di Aristotele sembra .essersi posto Alessandro di Afrodisia,8 vissuto nel 11 secolo, discepolo di· Sosigene, di Ermino e di Aristocle di Messene (cfr. sopra), che tennero lo scolarcato del Liceo, in Atene, tra il 150 e il 190, e a cui nel 190 circa successe Alessandro. Alessandro commentò tutti i libri logici di Aristotele (sono rimasti i commentari agli Analitici primi, ai Topici, agli Elenchi sofistici: in "Commentaria in Arist. graeca," II, Berlino, 1883-98), la Metafisica, il De coelo, il De generatione, la Meteorologia e il De sensu (sono rimasti i commentari alla Metafisica, in "Comm. graec.," l, 1891; al De sensu e al Meteor., in "Comm. grae'c.," III, 1899-1901), e, oltre che nei commenti, chiari la propria interpretuione in un Trattato sulfanima (in 2 libri) (De anima liber cum mantissa), nel De fato, nel De mixtione e nei quattro libri delle Questioni controverse e solu- zioni sulla fisica e sulla morale (in "Supplementum arist.," Il, 1892). L'interpretazione che Alessandro dà di Aristotele è netta e precisa; sempre fondandosi sui testi, muovendo dalla tesi basilare di Aristo- tele, che discorso scientifico è possibile solo muovendo da principi" posti non contraddittoriamente, Alessandro respinge ogni soluzione che nello spiegare la ragion d'essere, il perché delle cose, ricorra a salti, o a inter- venti extrarazionali. Sotto questo aspetto egli respinge l'interpretazione aristotelica in chiave platonica, per sottolineare dell'aristotelismo da un lato l'aspetto piu strettamente metodologico della ricerca in una chiara determina- zione del retto uso dei termini (essenziali~, causa, forma, materia, sinolo, potenza, atto: cfr. sopra I vol.), e attraverso tale retto uso, dal- l'altro lato, l'aspetto piu decisamente - se cosi vogliamo dire - • natu- ralistico logico" dell'ultimo Aristotele (cfr. I vol.), pu~1tando sul motivo della "essenzialità" come "sinolo," delle forme che sono tali in quanto "forme di," ove, perciò, l'attualità è.posta come presupposto logico, e fine ultimo, ma per ciascuna essenzialità nella sua specie, onde reali sono gli individui, in senso aristotelico (cfr. I vol.), e le forme, in' quanto separate, sono reali per sé solo come termini mentali, cioè come astrazioni presenti al pensiero, sf come, presa a sé lo è la "materia," e, alla fine, lo stesso Dio, condizione logica dell'attualità in atto di tutta la realtà (cfr. I vol.). Entro questi termini, appare chiaro il filo seguito da Alessandro nella lettura dei testi aristotelici. Per esso, e per non ripeterei, rimandiamo a una parte dell'esposizione già fatta di Aristo- tele (cfr. vol. I), mentre va detto come al lume di questa interpreta- 8 Alessandro nacque ad A&odisia, in Caria, sulla prima metl del n secolo. Visse ad Atene, dove entrò al Liceo, di cui divenne scolarca alla morte di Sosigene. 64    zione, sembra abbastanza chiara la celebre soluzione data da Ales- sandro alla questione del rapporto intelletto agente e intelletto passivo. Posto, con Aristotele, che l'anima è "entelechia prima di un corpo naturale che ha la vita in potenza, cioè di un corpo chè- sia organico," per cui l'anima, nelle sue tre funzioni (vegetat~va, sensitiva, intellet- tiva} non è separabile dal corpo, e ripercorso con Aristotele il processo per cui dal sentire si passa all'intendere, e posto il fatto che l'uomo è attività intellettiva, Alessandro puntando sull'intelletto come funzione, per cui si può sostenere che non è mescolato al corpo, ma è condizione, possibilità naturale dell'intendere, afferma che l'intelletto, appunto in quanto possibilità e dunque materia di tutte le forme, potenzialmente, è intelletto "naturale" o "materiale" (fisico o ilico, ÙÀLx6c;) (cfr. De anima, I, pp. 81~84, ed. Bruns). D'altra parte, sempre in termini aristo- telici, la facoltà d'intendere se da un lato si pone come condizione o materià dell'intellezione, dall'altro lato implica, attraverso una serie di atti intellettivi, non solo la potenzialità naturale d'intendere (tutti gli uomini, ad esempio, in quanto tali possono imparare a scrivere, per cui la scrittura in questo senso è una capacità naturale, materiale dell'uomo}, ma l'abito d'intendere, per cui, accanto all'intelletto "ilico," Alessandro pone l'intelletto in abito, o acquisito (xcr:r'!~Lv, ~1t(xu-toc;) (chi non ha imparato a scrivere resta capace di scrivere in potenza, ma chi ha imparato e ora non scrive ha, tuttavia, l'abito dello scrivere, è capacità di scrivere per abito o per acquisizione). Se l'intelletto ilico e l'intelletto epittetico sono due aspetti·dell'unico intelletto umano, il suo realizzarsi nelle intellezioni, in questa o quella intellezione, di que- sto o quell'uomo, implica un'altra condizione, e cioè l'intelletto agente (vouc; 7tOL1)'t'Lx6c;), la forma dell'intendere, ciò che fa sf che l'intelletto (ilico-epittetico) divenga gl'intelligibili. Potenziale l'intelletto, potenziali gl'intelligibili, l'intellezione, implica l'attualità dell'intendere, che, ap- punto, in quanto tale (non essendo né questa né quella intellezione dovuta a questo o a quell'individuo, ma la forma dell'intendere) è sepa- rata, nel senso che " separato," in quanto attualità degli atti, è Dio per cui, Alessandro, seguendo il testo di Aristotele del De generatione animalium (II, 736b, 27-28), in cui Aristotele sostiene che l'intelletto attivo viene dal di fuori (&Upor.3&V) e che esso solo è divino, sostiene che l'intelletto poietico è divino. Si capisce cosf come sia da parte platonica sia da parte stoica si è affermato che Alessandro non solo ha negato la realtà di Dio, posto solo come condizione logica, ma anche la realtà dell'anima non solo di quella individuale e dell'intelletto ilico ed epittetico, dipendenti dalla sensibilità, ma anche dell'intelletto agente che non essendo affatto proprio dell'uomo si annulla nell'attualità di Dio, pensiero di pensiero, anch'esso a sua volta riducentesi a una pura astrazione mentale, in una 65    definitiva negazione della realtà dell'anima. Ma proprio questo rende chiaro il senso della polemica di Alessandro sia nei confronti dei plato- nici sia nei confronti degli stoici, i quali, dogmaticamente, cioè se_nza una deduzione da principi veraci perché non contraddittori, rifacendosi gli uni e gli altri al pitagorismo, sostengono la realtà di una sostanza spirituale e di essa un aspetto negli individui (realtà delle anime). In tal senso assume un particolare interesse la polemica di Alessandro contro coloro che ritengono esservi la sostanz~ dell'anima. Di qui anche la pole- mica di Alessandro contro la Provvidenza degli stoici e dei platonici, che ammettendo un continuo intervento del divino, non solo sostanzia- lizzano e antropomorfizzano dio, il che è logicamente contraddittorio, ché Dio, attualità degli atti, e forma delle forme, in atto tutte le possi- bilità, è al di là del bene e del male, è termine ideale dell'attuarsi in ciascuna specie della propria perfezione, onde esso è indifferente rispetto a ciascuna realtà, ma anche negano quella stessa spontaneità e vitalità che sul piano del mondo animale, nel fenomeno umano indica alla fine l'azione non determinata e, quindi, la deliberazione. Quella che i plato- nici chiamano Provvidenza e azione diretta di Dio, sottolinea Alessan- dro, è non altro, in realtà (sia sul piano dei cieli e dei movimenti per- fetti, sia sul piano del mondo sublunare) se non un rapporto di causa ed effetto. f) Severo, Apuleio, Albino, Celso, Numenio di Apamea. Se in Arpo- crazione si vede bene il tentativo di mediare l'antiaristotelismo dei plato- nici tipo Calvisio Tauro e Attico (in polemica forse nei confronti dell'ari- stotelismo tipo Alessandro di Afrodisia) con il platonismo aristotelico tipo Albino (forse quei tali "platonici" che Attico dice sedotti da Aristotele), tanto meglio tale tentativo si fa chiaro, da un lato con l'interpretazione' data da Severo delle categorie stoiche, dall'altro lato, con il significato, in uno sviluppo della simbolica pitagorica in termini di logica (e rifa- cendosi a Moderato di Cadice), dato ai tre aspetti con cui si presenta la realtà (Dio, Demiurgo, Mondo), da Numenio di Apamea. Di Severo, della cui vita non abbiamo alcuna notizia, ma che sembra vissuto sulla metà del n secolo, sappiamo che avrebbe composto un commento del Timeo (Proclo, In Tim., 63a-h), e che soprattutto si sarebbe occupato del problema dell'anima (cfr. Stobeo, Ecl., l, 49, 32 W.; un lungo frammento di un'opera intitolata Dell'anima è riportato da Eusebio, Praep. ev., XIII, 17; si è pensato anche che sia una parte del commento al Timeo). Dalle scarse testimonianze che abbiamo su Severo è impossibile ricostruirne con .certezza il pensiero. Possiamo tuttavia dire con una qualche sicurezza che Severo ritenne di poter risolvere in senso plato- nico la categoria della sostanza aristotelica, condizione della pensabi- 66    lità e perciò della predicabilità del reale, ricorrendo alla categoria stoica del "qualcosa" (t(, tf), inteso come "il tutto" ('rò 1tiiv, tò p4n). Se è vero che non possiamo pensare e perciò predicare; niente senza l'essere, la con- dizione stessa del pensare è l'essere, che, in quanto possibilità di tutte le predicazioni, è indefinibile, e in tal senso è un qualcosa, un T(, donde si definisce l'essere e il divenire, esso né essere né non essere, bens{ l'uno e l'altro, unità e alterità, corporeità e incorporeità, indivisibilità (il punto) e divisibilità (estensione alterità). Di qui, di deduzione in deduzione, si rintraccia da un lato l'esserci dell'indivisibile, dell'identico e incorporeo, geometricamente definibile come punto, e del divisibile, del corporeo, la cui condizione geometrica è la estensione, ove termine medio tra l'uno e l'~ltro aspetto opposti della realtà, una nel Tutto, è l'anima cosmica. Severo, interpretando cos{ il celebre ~asso del Timeo sulla funzione del- l'anima del mondo ("Dell'essenza indivisibile, e che è sempre identica a se stessa e di ciò che è divisibile, e che si genera nei corpi, di tutte e due formò, .mescolandole insieme, una terza specie di essenza inter- media, che partecipa della natura del medesimo e di quella dell'altro e cos{ la pose in mezzo tra l'essenza indivisibile e quella divisibile in corpi... E l'anima, diffusa dal centro in tutte le direzioni, dal centro fino al- l'estremo cielo, il cielo stesso, esternamente avvolse tutto intorno, e, in se medesima rivolgendosi, dette luogo ad un divino principio d'inces- sante e intelligente vita per tutta la durata dei tempi...": Timeo, 35a, 36e), poteva sostenere da un lato che l'anima, in quanto misura del tutto in cui il tutto s'incentra è numero, e, dall'altro lato, in quanto termine medio tra l'essere e il divenire, l'unità e l'alterità, essa, nesso del tutto, è immagine di Dio, del T(, trascendente e immanente ad un tempo. Uno, dunque, il mondo, nel T(, nel tutto che lo trascende e che n'è condizione, nel suo scandirsi in opposti, in una serie di gradi, incentran- tisi nell'anima termine medio e unificante, il mondo è per un verso eterno nell'Uno tutto, nel T(, e, per altro verso, in quanto considerato nel suo scandirsi ed opporsi nel T(, è processo e divenire. Una l'anima umana e non distinta - sottolinea Severo - come avrebbe voluto Platone in parti, ma piuttosto aristotelicamente in aspetti, l'anima umana, specchio dell'anima cosmica, in quanto razionalità, l6gos, unificando in unità dialettica i due momenti in cui si distingue il tutto, identità e alte- rità, unità-dualità, afferra in sé il T( intuitivamente, cogliendo sé cerniera tra il mondo intelligibile e il mondo sensibile (cfr. Eusebio, Praep. ev., XIII, 17). Non poco indicativo sembra adesso, per renderei conto del signifi- cato che si dà ora al termine "pitagorismo," il passo di Apuleio10 in 10 Sulla vita e le opere di Apuleio vedi sopra.  67   cui si afferma che Platone avrebbe ripreso dai pitagorici la scienza • in- tellettuale" (" nam quamvis de diversis officiis haec ei essent philosophiae membra suscepta, ... intdlectualis a Pythagoreis": De dogm. Plat., l, 3, 187). In altri termini, come chiaro risulta da tutti i testi (si confronti ancora Moderato di Cadice, Nicomaco di Gerasa, Teone di Smirne), se per "pitagorismo" si intendeva lo studio della teoria matematica (e quindi non solo dell'aritmetica e della geometria, ma anche dell'astro- nomia e della musica), quale si era venuto determinando nei vari tempi, "pitagorismo" stava anche ad indicare uno dei possibili esiti del- l'interpretazione di Platone in chiave logico-matematica, per cui non a caso il Platone di cui ora particolarmente si discute è il Platone ultimo. In realtà, come già abbiamo detto (cfr. I vol.), nel Sofista sembra che si precisi il significato delle idee che non sono Essere, ma, appunto, forme, o meglio generi dell'Essere, che non è nessuno dei generi, ma ciò per cui l'uno o l'altro sono e sono comunicabili e ad un tempo limitati, cioè numerabili, onde la dialettica è capacità di ripercorrere i nessi e le ar- ticolazioni del tutto, che si esprime nel discorso verace in quanto con- nessione (symploch!), cioè in quanto grammatica e sintassi, di cui i nomi sono simboli dell'articolarsi grammaticale e sintattico dell'Essere (non si scordi l'importanza data al Sòfista e al Cratilo da Albino). Si vede cosl come uno e molti possano mescolarsi, soprattutto quando si tenga presente l'ulteriore passo fatto nel Filebo, che, riprendendo il tema del Sofista, chiarifica il rapporto uno-molti con i nuovi concetti di illimitato (indefinito) e limitato (ciò che ordina e definisce) per cui la realtà ap- pare come un'infinitudine (quantità, ciò che è suscettibile di piu e di meno) e come finitudine. (misurabilità e dunque numerabilità), cioè come proporzione, convenienza e misura, per cui di ogni cosa si coglie l'essenza quando se ne sia colta la forma (id~), o meglio il numero, la sua definizione in rapporto ad altra definizione. Evidentemente i due termini illimitato (quantità) e limitato (numerabilità e qualificazione) sono i due termini astratti di una realtà che è in quanto si costituisce come limite dell'illimitato, cioè come proporzione e misura, per cui ogni cosa assume il suo perché, il suo essere, ossia la sua intelligenza, che è la causa stessa della mescolanza. Lo stesso Bene, allora, diviene misura e convenienza, e misura e proporzione il Bello e il Vero. Si capisce, dunque, come su questo piano (donde la concezione fisico-geometrica dell'universo quale si delinea nel Timeo), posto l'Essere come pensiero e dialetticità (e perciò non corporeo), esso sia visibile, cioè intelligibile (colto dall'occhio dell'intelletto), solo in quanto tradotto in termini ma- tematici. L6gos ed Essere, dunque, in quanto intelligenza e attività ar- ticolante, unità e molteplicità ad un tempo, sono incorporei. La realtà, invece, quale appare alla sensibilità, si manifesta molteplice, disartico- 68    lata, divisibile e perciò corporea e indefinita, nel suo substrato informe. I due termini, allora, in quanto distinti restano impensabili, che lo stesso essere in quanto discorso e ordinamento e misura non è tale se non è discorso, ordinamento, misura di qualcosa, s1 come la quantità in sé, divisi- bile e indefinibile, senza forma è impensabile se non in relazione alla mi- sura e alla' qualificazione, se non per quel tanto che sfuggendo alla pos- sibilità della misura resta al di fuori come appunto impensabile, e, dunque, irrazionale, casuale, fortuito, forza ribelle e malvagia. Sotto questo aspetto è chiaro in che senso- sulla linea di Albino suo condiscepolo - Apuleio potesse interpretare ed esporre, in forma piu de- scrittiva che non Albino, la concezione "platonica," entro cui, per altri rispetti, far rientrare le piu varie esperienze filosofiche e religiose ("io," esclama Apuleio nella sua Apologia, scritta per difendersi dalla accusa pubblica di magia, "ho conosciuto per amore della verità e per pietà verso gli dèi, in Grecia, culti di ogni specie e riti numerosi e cerimonie varie" : Ap., 55}, e potesse sostenere the per Platone esistono tre princip~ (" initia rerum esse tria arbitrabatur Plato": D~ dogm. Pl., I, 5, 190): Dio, la materia e le forme delle cose. Presi a sé essi sono indefinibili: non a caso di Dio dice che è incorporeo, incommensurabile (aperlm~tros), indicibile (arretos}; che la materia non è né fuoco· né acqua né altro demento semplice, ma è informe, infinita, in sé né corporea né incor- porea; che le stesse idee o forme sono non in atto - inabsolutas, in- formes, nulla specie nec qualitatis significatione distinctas: l, 5, 190; - mentre un po' piu sotto, considerando che la realtà scaturisce dalla tensione tra Dio e la corporeità, intermediarie le idee, realizzazione di Dio, che in sé resta oltre, dice che le idee sono i modelli di tutte le cose, s~mplici, eterne, incorporee, appunto in quanto guise del discorso divino, in sé uno come il pensiero (cfr. De dogm. Pl., l, 6, 192). Si capisce cosi come Apuleio potesse sostenere isoltre che secondo Platone due sono le essenze, le oòaEctL, dalla cui unione si genera il mondo: la prima è la condizione logica che permette di pensare la realtà, e che, perciò, dice Apuleio, è intelligibile, visibile solo all'occhio dell'intel- letto, e come tale, in quanto principio, è sempre identica a sé, e senza di cui nulla sarebbe (perciò essa è costituita da Dio, dalla materia, dalle forme delle cose o idee e dall'anima: "et primae quidem substantiae ve! essentiae primum Deum est et materiem, formasque rerum et animam": D~ dogm. Pl., l, 6, 193); la seconda, condizione della corporeità è l'estensione, intesa come il ciò che è definibile, che. trae il suo esistere da uno dei principi, la materia, e a cui crediamo perché sensibile ("la seconda sostanza non è in qualche modo che l'ombra e l'immagine della precedente," la visione fisica dell'intelli- gibile). In effetto, perciò, pur rimanendo Dio, in quanto causa delle 69    cause, princ1p10 e fine, logicamente trascendente, la realtà è ciò che scaturisce dai due termini, il limitarsi dell'illimitato, l'ordine, possi- bile a comprendersi in quanto tràducibile in termini numerici e geo- metrici. Per il resto il discorso di Apuleio conseguentemente si svolge, nella ricostruzione dell'universo e nella posizione che nell'universo ha l'uomo, sulla linea di Albino, in un commento del Timeo. Certo, la ricostruzione matematico-geometrica dell'Universo, non esclude entro i termini logici di tale ricostruzione (si veda sopra Moderato di Gades e Nicomaco di Gerasa), che, su altro piano, l'Universo, considerato nella sua esistenza, appaia come un complesso di forze, come vivente organismo tendente alla sua perfezione, al modello divino che lo tra- scende, in senso stoico-aristotelico .(donde il De mundo di Apuleio), dalla corporeità oscura, limitante, dispersione e male, al divino Uno, in una infinita serie di gradi intermed1, sempre piu puri e incorporei, anime demoniche. Esistono certe divine potenze intermedie che abitano gli aerei spazi fra la suprema volta del cielo e le infime regioni della terra, e per loro mezzo i nostri desideri e i nostri meriti arrivano sino agli dèi. I Greci li chiamano dèmoni... Essi, come dice Platone nel Convito, presiedono a tutte le rivela- zioni, ai diversi miracoli dei maghi e ai ·presagi di ogni specie... Non è fun- zione dei numi altissimi scendere in basso tra noi. Ciò spetta in sorte alle divinità. intermedie che abitano nelle aeree regioni contigue e alla terra e al cielo (De deo Socratis, 6). Io credo, sulla fede di Platone, che tra gli dèi e gli uomini si trovino certe potenze divine, intermediarie per loro natura e per loro posizione, e che mediante loro vengano operate tutte le divinazioni e i miracoli della magia. Dico inoltre che l'anima umana, specialmente quella semplice di un fanciullo, può, sotto l'azione di certi canti o di delicati pro- fumi, cadere assopita ed uscire da sé a tal punto da dimenticare la realtà presente, perdere per un momento la memoria del proprio corpo ed essere ricondotta alla propria natura, che è immortale e divina, e in questa con- dizione, come in una specie di sonno, predire il futuro... (Apologia, 43). La credenza nei dèmoni, entro i termini di una ormai lunga tra- dizione, l'interpretazione del motivo del dèmone s~ratico (si ricordi in tal senso anche il D~mone di Socrate di Plutarco), la fede nell'anima sostanza divina per sé, nel senso del Pitagora "sciamano," che tende a tornare alla patria celeste donde è venuta, quando, attraverso l'ini- ziazione si purifica dal suo imbestiamento nei corpi (cfr. Metamorfosi o Asino d'oro), sono tutti aspetti della faccia retorico-divulgativa di Apuleio. Il discorso di Apuleio si svolge in realtà, a due diversi livelli di discorso: uno piu strettamente filosofico, mediante cui egli delinea una sua certa concezione, seguendc il platonismo di Gaio, di Albino, 70    di Teone di Smirne (cfr. De Platone et eius dogmate; De mundo); l'altro retorico, entro i termini di quella concezione (cfr. Pro se de magia liber o Apologia; Metamorphoseon libri XI; Florida). Su questo secondo piano, Apuleio, che, dopo una profonda formazione retorica, ricevuta a Cartagine, ascoltato ad Atene Gaio, assunse quale propria concezione di sfondo il "platonismo," curioso di ogni aspetto culturale, scientifico e religioso del suo tempo, di ogni tipo di civiltà, ch'egli cercò sempre di ricondurre a quella sua concezione e fede, facendo uso di miti, di credenze, descrivendo riti e culti, in funzione simbo- lica, sottolineando che la magia, di cui lo si accusò, è una filosofia sacerdotale, ricorrendo ai misteri, forme religiose di purificazione; Apu- leio si mosse costantemente entro l'àmbito di quel suo "platonismo," di quella sua visione di sfondo, valida a spiegare un'unica esigenza religiosa, dispiegantesi in tempi diversi, in regioni diverse, in parti- colari credenze, riti, culti, misteri. Senza dubbio, la stessa polemica tra i platonici del n secolo, rela- tiva all'interpretazione del divino di Platone, l'interpretazione in chiave aristotelica, o quella in chiave "pitagorica," l'accettazione di certi aspetti dello stoicismo sul piano del mondo concreto, e la negazione dello stoicismo sul piano di Dio, rivelano un'esigenza comune: la pos- sibilità, o meno, appoggiandosi a Platone, di determinare la trascen- denza del divino, in forma convincente, cioè razionale, senza ricorrere a "rivelazioni speciali." Ora, relativamente a Dio, un punto appare chiaro in tutti. Tutti hanno presente da un lato il celebre testo della Repubblica (VI, 509 b, 8) in cui si sostiene che il Bene, il divino non è idea accanto alle altre idee, ma la ragion d'essere delle idee, non è un'essenza, ma qualcosa oltre l'essenza, condizione delle essenze e perciÒ superessente per maestà e potenza (oòx. oòa(~ l>V1'oc; -rou aycx&ou, ~'l-rt héx.e:tvcx njc; oua(~ 7tpe:a~E:Ltf x.od 8uvci!J.e:L u7te:péx.ov-roc;); e, dal- l'altro lato, i testi platonici in cui si dice che, perciò, quell'essenza è indicibile (&pp'r)-roc;: cfr. V I I lettera, 341), indiscorribile (n.oyoc;: cfr. T eeteto, 202 b, 6) e inconoscibile (&yvwa-roc;: cfr. T eeteto, 202 b, 6}, nel senso del conoscere proprio delle altre scienze (cfr. VII lettera, 341 c); e quei testi in cui l'uno appare non come una unità massiccia, ma unità vivente, si come il pensiero, il cui discorso, traducibile in termini mate- matico-geometrici, è lo stesso discorso della realtà, per cui quell'unità è trascendente il discorso stesso (l6gos, >..6yoc;), ma, attraverso il di- scorso, afferrabile intuitivamente, con un atto intellettivo (nus,vouc;)(cfr. Repubblica, Sofista, Filebo, Timeo, VII lettera). Sostiene Albino, e, insieme ad Albino, Apuleio di Madaura, che tre sono i principi: Dio, la materia e le idee; e tanto Albino quanto 71    Apuleio proseguono affermando che Dio, in atto tutti gli intelligibili, è indicibile (ilpptroç), inconunensurabile (cioè indefinibile: Apuleio), e perciò perfetto (atÙ't'o-rù•IJç, autotelès; e cULUÀ~ç, aeitelès) e tutto in sé compiuto (nar.vrù..~ç, pantelès), Padre, in quanto causa di tutte le cose, incorporeo e immobile. E Severo afferma che il divino, in quanto condizione che rende pensabile tutta la realtà e tutti gli aspetti della realtà, ed è perciò non questo o quello, _ma un 't'( (ti), un quid, è il tutto ('t'Ò n«v, tò pan). E cos{ ripete Massimo di Tiro (XI, 9, ed. Hobein), Arpocrazione (vedi sopra), Celso (VI, 62-66). A parte le polemiche, i· contrasti, le venature diverse, ciò che sembra comune a tutti i "platonici" del n secolo (oltre l'avversità allo stoi- cismo, relativa alla concezione del divino, non a quella del mondo), è da un lato l'aver posto che la condizione, perché sia possibile pen- sare la realtà, appunto perché tale (la si dica Dio, uno, essere, superes- senza, "ti," Bene), è di là da ogni determinazione, definizione, proprio in quanto renda possibile determinare il genere prossimo e la diffe- renza specifica, e che tale condizione è, dunque, ciò mediante cui si può dire è e non è; e che, dall'altro lato, postulato il divino come con- dizione di tutte le possibilità, come il prius logico, ad esso gnoseologica- mente si giunge passando dalla molteplicità, passando dalle molte im- pressioni sensibili, all'unità di quelle mediante il discorso, unità che è tale nell'anima, nel pensiero, per, alla ·fine, cogliere che quell'unità è lo stesso pensiero in atto, che è in quanto discorso (>.Oyoç, l&gos) ma discorso che è uno, onde l'unità è a fondamento del discorso mede- simo, e, metaforicamente, lo trascende, per cui lo si coglie intuitiva- mente, con l'intelletto (vouç, nus), come unità vivente. In altri termini, il prius logico senza di cui neppure si può pensare la molteplicità, l'unità del tutto, si coglie gnoseologicamente poi, attraverso il discorso, avendo incentrato nel pensiero la moltepliçità della immediata espe- rienza, oltrepassando il discorso, ed afferrando, mediante il nus (vouç) la postulata unità, per questo indiscorribile, indicibile, non conoscibile come conoscibili sono gli altri aspetti della realtà, incommensurabile, non afferrabile mediante ill6gos, ma, attraverso esso, con il nus, l'intelletto. In tale senso Albino è molto chiaro. Egli dice: ilpp'rj't'oç 3'la·rl xar.l véj) (LOVCjl ÀYj1t't'Ot;, ml olSn yévoç lO"t'lV om e:taot; om 3Lat~op«... ("esso è indicibile e afferrabile solo mediante l'intelletto, poiché non è né genere né specie né differenza specifica: Epit()mè, X, 4). E altrettanto chiaro è un seguace di Albino, Celso,11 vissuto nel 1 1 Della vita di Celso, vissuto, sembra, i n Egitto, nel u secolo, non sappiamo nulla. Conosciamo di lui larghi estratti di una sua opera intitolata Il vero discorso ('A>.c&ij~;).6-yoç), conservatici da Origene (185 circa-253-54), in un'opera (COtJtrtJ 72    II secolo, noto attraverso alcuni testi di lui riportati da Origene (Contra Celsum ), e, soprattutto, per la sua polemica contro I"' assurdit~" della concezione cristiana di Dio e del suo rapporto con l'uomo (cfr. sopra). Tale polemica è, per altro verso, un indice senza dubbio evidente del modo in cui, appunto, sulla linea Gaio, Albino, Severo, va inteso il "platonismo" di Celso. Dice, dunque, Celso: Dio non ha né bocca, né voce, né alcuna delle qualità da noi conosciute. Dio non ha fatto l'uomo a sua immagine, ché egli non è quale l'uomo, né assomiglia ad alcun'altra forma. Dio non partecipa né alla figura, né al colore, né al movimento, né all'essenza. E se, in realtà, tutte le cose seguono da lui, egli, evidentemente, non seJP!e se non da se stesso. Di lui non si può .dire nulla, egli non ha nome toù8è ì..6ycp Èqmc:r6t; Ècnw o .:h:6c; où8' bvO!J.ot<n6c;), poiché non riceve alcuno degli accidenti che si afferrano e si fissano con un nome (bv6!J.ot't"L xcx-r!XÀ7j7t't6v). In effetto Dio è al di fuori di ogni accidente... Come, dunque, conoscere Dio? Come apprendere la via che conduce a lui, tanto in alto? Ché, per ora almeno, è tenebra che mi getti dinanzi agli occhi, e nulla vedo distintamente. - Bisogna rispondere: Chi dalle tenebre viene condotto alla luce non può resistere al fulgore dei raggi [cfr. Repubblica di Platone, VII, 515c sgg.]... Solo quando si sia chiusa la porta dei sensi, solo quando si sia dato le spalle alla carne, e abbiate guardato in alto media~te l'intelletto (&vcx~À~~"rj'n: vcj)), solo allora vedrete Dio (in Origene, Il vero discorso, VI, 62-66, ed. Glokner)... Egli Celsum), in cui si viene sistematicamente confutalldo il Vero disc-orso. Nel Vero disc-orso, composto, sembra, tra il 178 e il 180, al tempo in cui Marco Aurelio aveva preso misure anticristiane, vedendo nei cristiani un pericolo per l'unità dello Stato (non a ca.so il Vero discorso si chiude con l'affermazione che i Cristiani verraDJlo tollerati se si deci- deranno a venire in aiuto dell'Impero). Celso mette in discussione il Cristianesimo; egli sostiene ch'esso non ha nulla a che fare con la filosofia, dimostrando, per altro, che, se mai, sul piano religioso molto piu convincente c filosofica ~ la tesi platonica, mentre illogica ed assurda ~ quella cristiana, in particolar modo la fede in un Dio che s'incarna nell'uomo e in una visione che pretende d'essere l'unica vera. Estremamente fini sono gli argomenti di Celso nel confutare le tesi cristiane. Egli dimostra una buona conosc:enza del vecchio e del nuovo Testamento e, senza dubbio, i primi tentativi di una formulazione filosofica dell'espe- rienza cristiana (primi apologisti), filosofia ch'egli decisamente nega essere tale. Che Celso stesso sia stato un platonico, non sappiamo. Certo, egli vuoi dimostrare, come dicevamo, che tra le filosofie religiose la piu convincente ·e razionalmente (non per superstizione) accettabile ~ la platonica (nell'accezione che il platonismo aveva assunto nella corrente Gaio-Albino). Niente vieta, quindi, di supporre, su testimonianza dello stesso Origene (Contra Celsum, I, 8, IO, 21; II, 60; IV, 54, 75; V, 3), che personal- mente Celso fosse un epicureo, e che al Celso del Vero discorso fosse indirizzata la dedica (a Celso epicureo) dell'.dlessandro o i l falso profeta d i Luciano, che ~ del 181 circa, e in cui Luciano, come già ne La morte di Pellrgrino, violentemente critica il Cristianesimo. Per atteggiamenti critici nei confronti del Cristianesimo, in forma retorica e non in termini filosofici e logici come ~ il ca.so di Celso, vaDJlo ricordati, oltre Luciano, Frontone (Contro i Cristiani) e Crescente (cfr. Giustino, .dpol. Il, 3; Taziano, Contra Graecos, 19). non è né intelletto, né intellezione, né scienza, ma la causa per la quale l'intelletto conosce e l'intellezione si compie, la scienza si forma e tutti gli intelligibili e la verità stessa e la stessa sostanza hanno l'essere loro: eppure egli è al di là di tutte queste cose ed è intelligibile in maniera ineffabile (ik., VII, 45). Se teniamo presente il concetto base del Dio cnsuano (unico, per- sona, volontà, creatore ex nihilo, che s'incarna in Cristo, in un uomo, venuto a salvare non il mondo, ma l'uomo nella sua interezza, la cui anima non è né mortale né immortale, ma immortale perché cosi vuole Dio, che tutto è dovuto ad un atto gratuito di Dio, non riducibìle a razionalità) si vede bene in che senso Celso vedesse nella concezione cristiana una concezione assurda, irrazionale, seducente uomini ignoranti e incolti, ma, in realtà, niente affatto convincente, anzi irreligiosa e atea. Per altro verso, comunque, l'idea di un Dio trascendente e Padre, per- fetto e oltre l'essere, spogliato da quelli che sembravano essere attributi antropomorfici, usati popolarmente in funzione simbolica, poteva essere ripresa entro i termini del linguaggio "platonico," insieme ad altre con- cezioni del divino, egiziane, ebraiche, siriache, in funzione di una teo- logia razionale, e, perciò, universale, che trovava i suoi termini nell'àm- bito della rielaborazione in sistema dovuta ai platonici e ai pitagorici del n secolo. Non a caso, sotto questo aspetto, Numenio,12 di Apamea, in Siria, vissuto nella seconda metà del n secolo, di origine semitica, forse ebreo, poteva da un lato sostenere che, sia pur in termini diversi, v'era un perfetto accordo tra la concezione di Platone - il Mosè che parla in attico, com'egli lo chiamò: cfr. Suda, s.v.; anche Clemente 12 Di Apamca, in Siria, Numcnio visse nella seconda mctl del n secolo. Pochis- sime c discutibili le notizie intorno a lui. Si è detto che, semita di origine, egli fosse ebreo. ~ un'ipotesi basata sul fatto che Numenio cita testi biblici e che conosce Filone l'Ebreo. Ciò non vuoi dir nulla: in questa stessa epoca la cultura ebraica, i testi biblici, ccc., erano largamente noti e citati. E poi bisogna non scordare che Numenio era di Apamea c che là testi gnostici, ebraici, della gnosi ebraica circolavano, e non solo là (cfr. Dodds, Numenius and Ammonius, in "'Enuetiens" V della Fondazione Hardt, Ginevra, 1960, p. 6).·Le testimonianze piu antiche, puntando sull'aspetto gno- seologico di Numenio, indicano Nurnenio come "pitagorico" (Clemente Alessandrino, Origene, Porfirio), le piu recenti lo indicano come "platonico" (Giamblico, Proclo). La maggior parte delle testimonianze e dei frammenti del ITcpl Tciyel&o\i (De bono) di Numenio provengono da Eusebio (Praep. ev., XI, 10, 18, 22; Xlll, 5; XIV,. 4, 5; XV, 17). Fondamentali sono anche le testimonianze di Proclo (in Tim., I, p. 303, 304; 11, p. 103). Nella sua ediZione dei .frammenti c delle testimonianze di Numcnio, il Lecmans ha cercato di ricostruire il piano del De bono, disponendo i frammenti secondo il posto che probabilmente essi avevano nei 6 libri in cui si divideva l'opera (E. A. Lec- mans, Numeniur van Apamea met Uitgave der Fragmenten, in "Mémoircs dc l'Acad. roy. dc Bclgique," classe cles lcttres, XXXVII, 2, 1937; si veda inoltre bibliografia). Oltre il De bono, Numenio avrebbe scritto: Del dissenso degli Accademici da Platone, Delle dottrine segrete in Pltllone, Del luogo, Dell'incorruttibilità dell'anima, Upupa, Sui numeri. Alessandrino, Str., l, 22 - e la sapienza mosaica - senza dubbio Nu- menio teneva presente Filone l'Ebreo,- e, dall'altro lato, che alla stessa concezione ebraico-platonica era possibile riportare - come aveva fatto Plutarco - sia la simbolica dei pitagorici, usata in funzione logico-ma- tematica, sia i riti, i culti, i misteri delle religioni egiziane e dei Brachmani, sia certi aspetti del Cristianesimo (sembra che nella vita di Cristo vedesse un simbolo del rapporto uno-mondo, cfr. Origene, Contra Celsum, IV, 51), come certi motivi dello gnosticismo e del- l'ermetismo. Occorrerà che chi ha trattato di questo argomento [del Bene] e si è espresso con le testimonianze di Platone, rimonti indietro e si ricolleghi ai 'l6goi di Pitagora; faccia inoltre appello ai popoli che salirono in fama, ripor- tandone le cerimonie, le leggi, i sacrifici culturali, compiuti in conformità con Platone, quali stabilirono Brachmani, Giudei, Magi, Egizi (De bono, in Eusebio, Praep. 'ev., IX, 7, l; fr. 9 ed. Leemans, Bruxelles, 1937). Delle molte opere di Numenio (Del dissenso degli Accademici da Platone, Delle dottrine segrete di Platone, Del Bene, Del luogo, Del- l'inco"uttibilità delfanima, Upupa, Dei numen) sono rimasti alcuni frammenti del De bono (in Eusebio, Praep. ev., XI e XV) ed alcune testimonianze e brevi testi interpretati .da Prodo, da Calcidio, da Por- firio, da Giamblico, da Macrobio (per la ricostruzione del De bono, ne:pl T4yot&ou, e pèr la raccolta delle testimonianze e dei frammenti si veda l'edizione di E. A. Leemans, in "Méin. de l'Acad. roy. de Belgique," classe cles lettres, XXXVII, 2, Bruxelles, 1937). Ciò va tenuto presente, perché condiziona il ~odo con cui è possibile ricostruire il pensiero di Numenio, relativo, appunto, alla discussione di lui sul Bene. Numenio teneva presente, come risulta dai frammenti, da un lato il testo di Pla- tone (Repubblica, 509 b) in ·cui si dice che il Bene non è idea accanto alle altre idee, ma la condizione delle essenze, dall'altro lato la tesi pla- tonica del costituirsi dell'universo per opera del Demiurgo (Timeo). Riallacciandosi al Platone e al Pitagora quali si erano venuti configu- rando nel corso del I-II secolo, in contrapposizione al Platone proble- matico e scettico qual era stato interpretato dalla media Accademia (da Arcesilao a Filone di Larissa), Numenio fa tesoro dell'impostazione teologico-allegorica di Filone l'Ebreo, e reinterpreta in questa chiave le "religioni dei popoli che salirono in fama," Brachmani, Giudei, Magi, Egizi, e motivi gnostici e ermetici (in realtà, poi, il metodo argomen- tativo di Numenio è. quello proprio dei platonici razionalisti del 11 se- colo). Numenio particolarmente si travaglia intorno al problema del rapporto tra l'uno, condizione della pensabilità del reale, condizione 75    dell'esserci delle cose, esso Uno ed Ente e Monade perciò di là da ogni determinazione, e, dunque, ineffabile, indiscorribile, invisibile al pen- siero e in tal senso incorporeo, immobile, "inattivo" (argos, «pyoc;: fr. 21 L), increato e increante, e il mondo della generazione che, a sua volta, implica un facitore (un poièta), un principio che dia movimento e che perciò non può piu essere lo stesso primo essere perfetto che, se si muove, e tende a realizzare qualcosa, vorrebbe dire che è mancante, imperfetto. A tale concetto del Bene, ad un tempo ragion d'essere del tutto, per cui esso non è nessuna delle singole essenze, delle idee, nessuna delle cose (e in tale senso Numenio, sulla scia della tradizione plato- nica, rifacendosi al Timeo, lo chiama "padre," il "primo dio"), Nu- menio sostiene che non si giunge attraverso un salto rivelazionistico, ma di grado in grado, dall'immediata esperienza sensibile, per via ne- gativa. Non a caso cosi Numenio, alla domanda: che cosa è ciò che è ('r( 8-1) lcr·n -rò !Sv: fr. 12 L)? risponde che l'è, l'ente (!Sv) non può essere nessuno dei quattro elementi, ma neppure la comune stoffa di cui gli elementi son fatti, la materia (fr. 12), ché la materia in quanto inde- finibile (!Àoyoc;) e, perciò, inconoscibile (&yv(J)cr"t"oc;), non la si può sup- porre che come un fluire, un disordine, in ciò opposta all'essere, in realtà un non-essere, che assume essere in quanto definita {ordinata) dal- l'essere. L'essere, perciò, non è né materia definita (corpo) né materia indefinita. Né corpo, né materia l'essere: senza l'essere non sarebbero né la materia, né i corpi, ché gli stessi corpi non sarebbero se non ve- nissero definiti, se di essi cioè non si dicesse che sono, se non subissero l'essere. L'essere perciò è l'incorporeo (-rò «cr&~!J4-rov), ciò mediante cui i corpi si determinano, assumono forma, cioè esistono. Poiché dunque i corpi per esserci hanno bisogno di un principio che li determini (-roti xiX&~oV't"oc; IXÙ-ro~c; l8e:t: fr. 13), tale principio non può essere corpo, altrimenti avrebbe esso stesso bisogno di un qualcosa che lo determina (di un xot-rix.ov). L'essere, dunque, è incorporeo, immobile, non si accresce né diminuisce {fr. 13), è eterno, stabile, identico a se stesso («&t XIX't"CÌ 't"IXÙ-ro) (fr. 14). Condizione perché la realtà sia, l'essere è perciò da un lato la categoria delle categorie, dall'altro lato principio assoluto, assolutamente ricco, come punto luminoso che ha in sé tutte le possibilità, come fuoco che dà fuoco senza esaurirsi nei nuovi fuochi ("un lume, acceso da altro lume, ha luce senza toglierla al precedente, ché dal fuoco di quello è accesa la materia che è in esso": Eusebio, Praep ev., XI, 18), assolutamente perfetto e perciò non avente biso- gno di nulla, immobile, "inattivo" (cfr. frr. 14-15, 21). Indiscorribile, dunque, l'Essere, esso non è visibile se non all'occhio dell'intelletto, onde di lui si può dire che è intelligibile (vol)-r6v, noetòn) (fr. 16-17). lntelligibile perché condizione degli stessi intelligibili e dei visibili, esso è, appunto, come l'intelletto, condizione del discorso e unità del discorso, trascendente il discorso medesimo e afferrabile attraverso il discorso, intuitivamente. Se dell'Essere, dunque, si può dire - sia pur per analogia - che è Intelletto e Intelligibile (il primo Intelletto e il primo Intelligibile), si può anche affermare, sulla scia di Albino, ch'esso è in atto tutte le intellezioni, ciò che dà essere, forma, a tutta la realtà, o meglio ciò per cui tutta la realtà esiste (e in tal senso esso è Bene, fonte di Bene), onde l'Essere è oltre il discorso, oltre tutto, ma avente in sé tutto. E ha in sé tutto, a cominciare dal primo sdoppiamento di sé in intel- letto e intelligibile, ove tale secondo intelletto è, metaforicamente, da un lato volto all'uno-intelletto, dall'altro lato all'obbiettivazione di sé come intelligibili determinantisi, che dànno cioè essere, forme alle cose, in una obbiettivazione .visibile, figurata, presupponente perciò l'idea estensione, la materia intelligibile. Di qui, sempre nell'Essere - pur non essendo l'Essere, che in sé, intelligibilmente, resta immobile e tutto in atto, - un terzo intelligibile, il mondo nel suo esserci, che, in quanto proiezione del secondo intelletto, intermedio tra l'intelletto in atto e tutto in sé comp~uto e la materia come fluidità, è da Numenio detto "intelletto pensato" (vouç 3totVOOO(J.€VOç, nus dianooumenos: Proclo, In Tim., 268 a-b; fr. 25 L.). In una interpolazione di testi platonici (Repubblica, Parmenide, Timeo) e in una ricostruzione del platonismo in sistema, sulla linea Gaio-Albino, veniamo cosf ad avere: l) L'intelletto in atto, luogo metafisica di tutte le idee, l'essere as- soluto e tutto in sé compiuto (Padre o Primo Dio), in cui, nella sua perfezione, non si distingue pensante e pensato, esso condizione prima del discorso, della distinzione in pensante e pensato (la superessenza della Repubblica}, afferrabile solo come principio intelligibile, come il ciò senza di cui, al quale si giunge, passando attraverso il discorso (>.6yoç), con un atto puramente mentale (vouç). "In verità non facile, ma divina via occorre per esso, e la migliore è disprezzare le sose sensibili, volgersi con vigore alle scienze, considerare i numeri, e cosf meditare questa nozione: che cosa è l'uno" (in Eusebio, Praep. ev., Xl, 22: fr. 11 L.); "gli esseri che partecipano al primo Dio, al Bene, non vi par- tecipano in nessun altro modo che con l'atto del pensare: lv (L6Vc,>.-rlj) tppovci:v " (fr. 28 L.); 2) L'intelletto secondo, ossia, entro l'inteiletto in atto, la distin- zione pensante (uno)-pensato (intelligibili), ove, appunto, gli intelligibili sono le ohbiettivazioni del pensiero, l~ forme che d~nno essere alla fluidità della materia idea opposta (il "secondo Dio," il Demiurgo buono e attivo del Timeo, nell'interpretazione del Timeo); 3) Il "pensato," ossia il mondo quale appare nel suo ordine e nelle sue leggi, obbiettivazioni dell'intelletto secondo, frutto del Demiurgo, del secondo Dio, presente alla mente, appunto, come pensato: anch'esso, dunque, terzo Dio, nell'intelletto secondo, a sua volta nell'intelletto primo. "Averndo affermato che vi sono tre dèi, Numenio chiama il primo Padre, il secondo Poieta, il terzo Poema: poiché il mondo, secondo lui, è il terzo dio. Nella sua dottrina vi sono dunque due Demiurghi, il primo dio e il secondo, e il terzo dio. è il mondo frutto dell'attività demiurgica (-rò 3l)!L~oupyoo(UVOV). È meglio infatti esprimersi cosi, che parlare come lui, in un esagerato stile tragico, di nonno(1tchrnov), di figlio (~yyovov) e di nipote (&.n6yovov)" (Proclo, In Tim., 93 a-b). Proclo, quindi, andando avanti nell'esporre le varie interpretazioni (di Numenio, di Arpocrazione, di Attico) della pagina 28c del Timeo ("noi diciamo che tutto ciò che è nato è necessariamente nato in quanto frutto di una certa causa; ma questo è difficile, trovare chi sia padre e poieta di questo universo, e quando si sia trovato è difficile esprimerlo a tutti": Timeo, 28c), sostiene che, per quanto almeno riguarda il Timeo, è ingiustificata la distinzioné fatta da Numenio tra Padre e Poieta. Proclo ha ragione, solo che, senza dubbio, Numenio, accanto al testo del Timeo teneva presente l'altro della Repubblica sopra citato, tanto è vero che proprio alludendo a 28c del Timeo, nel De bono, afferma: "Platone dice che il primo Dio è inconoscibile, e questo dice perché sa che gli uomini conoscono solo il Demiurgo, e che, di contro, il primo Intelletto, che è chiamato l'Essere stesso è a loro totalmente ignoto. ~ come se si dicesse: 'Uomini, colui che ritenete essere un Intelletto non è il primo, ma un altro ne esiste, prima di lui, piu augu-. sto e divino"' (in Eusebio, Praep. ev., XI, 18, 10-11, fr. 26L.). In effetto, per Numenio, uno solo è il mondo, il mondo nella sua realtà concreta (non a caso in un frammento, accanto ai tre dèi, Dio- Demiurgo-Mondo pensato, egli pone il mondo visibile: in Eusebio, Praep. ev., Xl, 22). Tale mondo, per chi rimane preso nell'immedia- tezza sensibile appare molteplice e disordinato. Invece, attraverso lo studio del pensiero e di come funziona il pensiero (di qui l'importanza data agli studi sul numero), il mondo appare, nel suo esserci, come dovuto all'esplicazione dell'intelletto, in cui la molteplicità si raccoglie nell'unità del discorso, e dove ciò che rimane al margine, che non è determinabile entro .i termini dell'intelligibilità, e che perciò appare irrazionale, è detto il male, l'anima malvagia, l'indefinibile materia causa del male (fr. 30 L.). In tal modo, le condizioni dell'esserci del mondo sono da un lato la materia fluida, dall'altro lato l'essere avente 78    in sé tutte le forme e termine medio l'intelletto demiurgico, uno e molteplice a un tempo, che è pensiero in quanto pensa, o~de i suoi pensieri sono l'obbiettivarsi della sua unità nella molteplicità delle idee, che si costituiscono secondo un ordine e tornano all'unità in quanto presenti all'intelletto stesso, e, perciò, in fine, allo stesso Dio primo. Esso, dunque, nella sua totalità è natura ingenerata e ingenerante, entro cui si scandisce il ritmo della natura che è generata e che genera (Intelletto secondo; pensiero-pensato) e la natura che è generata e che non genera (il mondo pensato) e la stessa materia che rimane come lo sfondo su cui si disegnano le forme intelligibili, dando luogo ai corpi, traducibili in termini di figure geometriche, mentre per quel tanto che sfugge alla determinazione e definizione non piu riferibile all'intel- letto, per cui non è obbietto pensato, diviene causa di disordine, e, dunque, male. "Dio, come anche sembra a Platone, è principio e causa dei beni, la silva [materia] dei mali" (Calcidio, In Tim., 296: test. 30 L.). Tale sembra anche il significato da dare a quei pochi frammenti della lncorruttibilità delfanima rimastici, in cui Numenio sottolinea che non vi sono, nell'uomo, due parti dell'anima o tre, ma che due sono le anime, una razionale (di origine divina), l'altra irrazionale e che perciò l'uomo nell'ordine del tutto ha una posizione mediana, riflesso di quella che è la posizione dell'Intelletto secondo, per cui all'uomo è dato, in quanto intelletto, risolvere in sé la molteplicità del mondo che nell'intellètto s'incentra e attraverso questo risalire alla con- templazione mistica del primo Intelletto, dell'Uno (cfr. Calcidio, In Tim., 197 sgg.; Porfirio in Stobeo, Ecl., l, 49, 25 a W.; Giamblico in Stobeo, l, 49, 37; l, 49, 40 W.; Proclo, In Rep., vol. Il, p. 128, ed. Kroll). In questa processione dall'Uno ai molti entro l'Uno stesso nella sua totalità, che perciò trascende i momenti stessi del suo scandirsi, per cui, ad un tempo, v'è la molteplicità, il limite, il divenire, il mondo concreto, la dualità, la razionalità e l'oscurità, l'irrazionalità, e l'unità condizione prima e termine ultimo, già gli antichi avevano veduto una delle piu ampie fonti della concezione di Plotino, tanto è vero che non poche volte Plotino fu accusato di avere plagiato Numenio (cfr. Porfirio, Vita Platini, 17). Comunque sia, Numenio insieme ad Albino (detto da Proclo, In Rep., II, 96 K., uno dei "corifei" del pla- tonismo) ebbero, com'è testimoniato dalle posteriori citazioni, una note- vole influenza nelle ulteriori sistemazioni del sapere in chiave platonica e pitagorica, e l'uno e l'altro furono ritenuti autorità incontestabili nel campo dell'esegesi platonica e pitagorica (per Albino cfr. Galeno, Sulle proprie opere, II; Tertulliano, De anima, 28, 19; Stobeo, Ecl., I, 49,37 W.; Eusebio, Hist. eccl., VI, 19, 8; per Numenio, cfr. sopra le testimo- nianze citate).    S. li Gnosi," li Scritti ermetici" e "Oracoli caldaici" a) La "gnosi." Su Numenio di Apamea si è molto discusso, non :rolo come fonte di Plotino, ma anche sul suo "orientalismo," sulla que- stione se egli fosse in realtà uno "gnostico" e sull'influenza ch'egli avrebbe avuto sulla composizione degli Oracoli caldaici. Senza dubbio lo stato assai frammentario dei testi da .lui trasmessici e, in particolar modo, certo suo linguaggio, le sue metafore, immagini, allegorie, il suo stile "tragico," come dice Proclo (In Tim., 93a sgg.), lasciano lo storico in non poche difficoltà. La questione dell'" orientalismo" di Numenio fu soprattutto impostata dal Norden (Agnostos Theos, Lipsia, 1913), il quale, puntando sul testo di Numenio, in cui si dice che Dio è totalmente inconoscibile (7tetV't'tX7tctow &yvoou!Wioç), sosteneva che Numenio fu un saggio "fortemente penetrato di orientalismo" (Agn. Th., p. 72), che si sarebbe appoggiato su appelli soteriologici di profeti orientali ambulanti al servizio della propagazione della vera gnosi di Dio, attestati anche presso gli Gnostici (Norden, cit.). Studi piu appro- fonditi sia sul piano della tradizione platonico-razionalista (Gaio-Albino- Apuleio), sia sul piano della gnosi, dell'ermetismo, degli oracoli caldaici, hanno chiarito come, almenò per quest'epoca, sia difficile operare un taglio netto tra motivi cosiddetti occidentali e motivi cosiddetti orientali (comunque riferibili solo al mondo egiziano, ebraico, persiano). In effetto ci troviamo di fronte ad una reciprocità di scambi, che costi- tuisce alla fine una sola e comune base culturale, ove le differenze stanno piuttosto nell'un modo o nell'altro di risolvere il rapporto tra il divino e il mondo, nella capacità, o meno, di cogliere l'Essere supremo. In tal senso sembra che lo gnosticismo sia pit,l diffuso di quel che si riteneva allorché si parlava di uno gnosticismo cristiano, eretico nei con- fronti del cristianesimo autentico, anch'esso, in realtà, un tipo di gnosti- cismo, diverso, certo, da altri gnosticismi, si come lo gnosticismo di Numenio è diverso da quello di Platino, a sua volta critico di un tipo di gnosi. Sotto questo aspetto sembra esatta la polemica del Festugière contro gli "orieotalisti." "Non vedo nulla qui che confermi l'opinione di Norden, secondo il quale la nozione 'orientale' del Dio totalmente inconoscibile degli gnostici, di Numenio, e piu tardi di Proclo, si oppor- rebbe alla nozione platonica di un Dio !pplj't'ot; xcxt v<;> (.L6VCf> >.1)'7t'T6cx (afferrabile solo con l'intelletto) secondo la formula di Albino (Epi- tomè, 10). Nessuna differenza, secondo me, su questo punto, tra Albino e Numeoio. Albino insegna, per giungere a Dio, il metodo d' &q>«Epca~ ('Il primo modo di concepire il punto astraendolo dal sensibile, avendo prima concepito la superficie, poi la linea, infine il punto': Albino, Epi- tomè, 10). Questo stesso metodo è implicito nel tema dell' lP"J(.L(ç 80    (eremla: solitudine) in Numenio: Dio è lpl)!J.Oc; (éremos) nel senso che sfugge ad ogni determinazione, che nessun concetto finito per- mette di avvicinarlo: non vi è nulla che gli somigli o gli si avvicini: egli abita il deserto dello spirito. E allora, poiché non lo si può né definire, né nominare, Dio sfugge alla conoscenza razionale [discor- siva]. Ma al di sopra del Myoc; (l6gos) vi è il vouc; (nus), che, preci- samente, in tutta la tradizione platonica, è una facoltà soprarazionale che permette di vedere, di toccare il divino" (Festugière, La révélation d'Hermès Trismégiste, IV, pp. 132-133, Parigi, 1954). Se il Festugière ha ragione - e sulla sua stessa via si è posto il Dodds: N umenius, in Les sources de Plotin, "Entretiens sur l'antiquité classique," t. V, 1957, Ginevra, 1960, pp. l sgg. - nel riportare Numenio sulla linea di Albino, può essere altrettanto pericoloso, storicamente, sostenere la non influenza di certi motivi orientali, perché si viene cosi ad opporre sem- pre la concezione orientale (come se esistesse in blocco una concezione orientale) a quella platonica, come se davvero l'interpretazione di Antioco di Ascalona e poi quella di Gaio, di Albino, e cosi via, sia l'unica e vera interpretazione di Platone, e non si dia il caso che quelle interpretazioni di Platone siano dovute a precise esigenze, precisabili storicamente, simili, almeno entro una diversa atmosfera culturale, alle esigenze che hanno dato luogo alle soluzioni gnostiche, ermetiche, ora- colari, magiche, cristiane. Il Dodds ha ora, nella sua magistrale rela- zione su Numenio, tenuta agli ~Entretiens sur l'antiquité classique" del 1957, chiarito molto acutamente tutte le difficoltà e le possibili solu- zioni relative a Numenio, riproponendosi anche il problema dei rap- porti di Numenio con lo gnosticismo e della sua possibile influenza sul- l'autore degli Oracoli Caldaici. Il Puech, storico dello gnosticismo, e che un tempo, nel 1934 (Mélanges Bidez), sulla scia del Norden, soste- neva l'orientalismo di Numenio, ha finemente detto, nel corso della discussione sulla relazione. del Dodds: "Quanto a Numenio, bisogna dire, credo, che vi è in lui, in partenza, uno sforzo di sistemazione del pla.tonismo, come, del resto, già indicavo nel mio articolo delle Mllan- ges Bidez... Senza dubbio parlai allora, nel 1934, impressionato dal- I'Agnostos Theos del Norden, di influenze orientali: non si sfugge al proprio tempo. Oggi mi sembra questione piu delicata definire ciò che esattamente ricoprono, nell'epoca considerata, i termini 'Oriente' e 'Occidente.' Eppure bisogna porsi il problema: cosa ha condotto Nume- nio a distinguere un primo e un secondo Dio? ~questo che differenzia il suo atteggiamento da quello del platonismo medio? Il primo Dio, per il platonismo è un Demiurgo. Si può derivare l'opposizione tra il Demiurgo e il Bene da una interpretazione sistematica del platonismo, 81    riallacciare esclusivamente l'una all'altra mediante una specie di conti- nuità dialettica? Si sottolinei che simile opposizione può prendere, e prende, nello gnosticismo, forme varie, distinte da quelle che ha in Marcione... Ad ogni modo, non v'è negli gnostici e in Numenio un problema analogo? Problema, d'altra parte, legato a quello della Mate- ria come male assoluto e a quello della condizione umana: si tratta di scaricare Dio dalla responsabilità del Male. Conseguentemente si imma- ginano degli intermediari tra il Bene supremo, o il Dio sommamente buono, e la Materia, o il mondo: delle ipostasi, degli arconti, degli angeli il cui capo sarà alla fine assimilato a Yavè, il dio della Genesi e della Legge. Quali erano, infatti, le entità suscettibili di assumere la responsabilità della creazione? Necessariamente, o il Dio della Bib- bia ebraica (ad un tempo de~iurgo e iegislatore), o il demiurgo del Timeo. In Numenio e negli gnostici v'è la stessa concatenazione di pro- blemi. Plotino, attaccando gli gnostici, attacca, sembra, ad un tempo Numenio. Al principio del trattato II 9, al capitolo l, se la prende~.come ha mostrato Dodds, con il vou~ lv i)aux_(qr: (l'intelletto in quiete), con il vou~ o con il .&eb~ &pyo~ (l'intelletto, o il dio inattivo, o 'pigro') di Numenio, ma la sua critica è volta anche, e insieme, contro gli gno- stici... Evidentemente, il problema dell'influenza che la gnosi ha potuto esercitare su Numenio è, come quello dello gnosticismo stesso, piu facile a trattare fenomenologicamente che storicamente" (Puech, in Les Sour- ces de Plotin, Entretiens, cit., pp. 36-38). Il Puech si rifà qui alla tesi oggi particolarmente sostenuta sullo "gnosticismo" e da lui stesso chiaramente espressa (cfr. H. Cb. Puech, La Gnose et les temps, "Eranos-Jahrbuch," 1951, B. XX, Mensch u. Zeit, Zurigo, 1952). Gli studiosi si sono oggi resi conto che lo "gno- sticismo" non può piu essere compreso solo,come un'eresia del cristia- nesimo (posteriore e interna al cristianesimo), come si riteneva basan- dosi sui testi gnostici trasmessici dai cristiani (Clemente di Alessandria, Origene, lreneo per gli gnostici Basilide e Valentino; Tertulliano per Marcione), in polemica con l'interpretazione gnostica del cristianesimo, ma che esso fu un movimento, un fenomeno religioso, molto piu com- plesso ed esteso, certo anteriore al cristianesimo, un modo di intendere, un tipo di esperienza religiosa che investf di sé sia tradizioni, misteri, miti greci, sia certe filosofie ellenistiche (in particolare il "platonismo"), sia la religione ebraica e poi la cristiana, sia miti e religioni di Oriente, diversificandosi a seconda, appunto, di quale fu l'ambiente e la cultura in cui venne operando. Oggi, dunque, non si vede piu nello "gnosti- cismo" né una "ellenizzazione del cristianesimo" (cfr. Harnack, Lehr- buch d. Dogmengeschichte, 1886; Buonaiuti, Lo gnosticismo, Roma, 82    1907; De Faye, Gnostiques et gnosticisme, Parigi, 1925; Burkitt, Cliurch and Gnosis, Cambridge, 1932), né, di contro, un'assoluta derivazione dalla religione egiziana, da quella iraniana e dai miti babilonesi (cfr. W. Bousset, Hauptprobleme der Gnosis, che ritiene il complesso delle figure gnostiche, Dio ignoto, arconti subordinati, il mondo male, e cosi via, di origine persiano-babilonese; Reitzenstein, che nel Piman- dro, Lipsia, 1904, ritiene lo gnosticismo di origine egiziana, rintrac- ciando forti affinità con l'ermetismo, e che nel Das iranische Erlosungs- mysterium, Bonn, 1921, sostiene la derivazione iraniana dello gnosti- cismo). Ma neppure, infine, si vede nello gnosticismo un mèro sincre- tismo, come hanno sostenuto W. Hohler (Die Gnosis, Berlino, 1911) e H. Leisegang (Die Gnosis, Lipsia), aspramente combattuti da H Jonas (Gnosis und Spatantiker Geist, Gottinga, 1934-1954). "Il termine gnosticismo," scrive il Puech, "è usato in senso molto piu lato, e il problema gnostico si pone oggi in un modo nuovo. Lo gnosticismo appare ormai come un fenomeno generale della storia delle religioni la cui larghezza oltrepassa infinitamente i limiti e il terreno del cristianesimo, queste non sono eresie immanenti al cristianesimo, ma i risultati di un incontro e di un congiungimento tra la nuova reli- gione e uno gnosticismo che esisteva prima .di essa, che era inizialmente ad essa estraneo. Lo gnosticismo ha rivestito in alcuni casi forme cri- stiane o forme che, con il trascorrere del tempo, si sono sempre piu profondamente cristianizzate, al modo stesso che in altri casi ha preso forme pagane adattandosi alle mitologie orientali, ai culti dei misteri, alla filosofia greca, o alle scienze e arti occulte. Per quanto queste forme nelle quali si è manifestato storicamente lo gnosticismo siano state di- verse, esso dev'essere considerato un fenomeno specifico, una categoria o un tipo distinto del pensiero filosofico religioso: si tratta di un atteg- giamento che ha un andamento, una struttura, leggi proprie che l'ana- lisi, pervenuta· alla comparazione, può ritrovare sostanzialmente iden- tiche e con le medesime articolazioni alla base di tutti i diversi sistemi che noi possiamo, proprio in ragione di questo fondamento o 'stile' comune, raggruppare sotto una stessa etichet1:a chiamandoli sistemi gnostici" (Puech, La Gnose et le temps, cii:., p. 79). Si è cercato cosi di vedere lo "gnosticismo" come un tipo di espe- rienza religiosa, mediante cui, di volta in volta, a seconda degli ambienti, delle religioni o delle filosofie, si sarebbero riportati quei miti, quelle religioni,- quelle filosofie a quell'unico tipo di "gnosi" (conoscenza), in una trasformazione di quelle stesse filosofie, religioni, miti: fossero questi ultimi originari del mondo greco-orientale (misteri) o propri dell'Egitto o dell'Iran. Presi da queste considerazioni bisogna; per altro, 83    non vedere, ovunque, influenze gnostiche - o, per lo meno, di un certo gnosticismo - tenendo presente che, nonostante le scoperte piU, recenti di alcuni testi gnostici (lo "gnosticismo" prima era conosciuto solo attraverso i testi riportati dagli autori cristiani in polemica), le posizioni gnostiche da noi conosciute sono piuttosto tarde e risalenti al solo periodo del primo cristianesimo (1-n sec. d. C.) ed in relazione con esso. In realtà, sia i manoscritti manichei scoperti a Medinet Madi (Egitto), nel 1930, sia i tredici papiri contenenti 48 libri gnostici tra- dotti in copto dal greco, scoperti a Nag Hammadi (Egitto), nel 1946, piu che allargare nel tempo le nostre conoscenze sullo gnosticismo, hanno da un lato confermato l'esattezza delle citazioni di testi gnostici da· parte dei cristiani, dall'altro lato (in particolare gli scritti di Nag Hammadi che appartengono alla setta dei Setiani) lo stretto rapporto tra i Setiani e la Palestina e i Setiani e certi aspetti dell'ermetismo di Alessandria. Non solo, ma ritrovati tra questi ultimi testi tre dei libri ricordati da Porfirio contro i quali Plotino scrisse il suo trattato contro lo gnosticismo (Il, 9), meglio si vedono le ragioni che mossero sia un platonico-razionalista tipo Plotino, sia una posizione come quella cri- stiana a respingere la concezione gnostica come assurda, l'uno vedendo nello gnosticismo l'assoluta impossibilità di una deduzione logica del- l'universo - che per altro verso lo portò anche a polemizzare contro la concezione cristiana di Dio - , l'altra vedendo nello gnosticismo e nella sua interpretazione della figura del Cristo, un'ellenizzazione della pro- pria visione, riduttrice dd nuovo a vecchie posizioni, annullanti la storicità di Gesu. Per meglio intendere come si venne delineando nel I I - I I I secolo da un lato la "filosofia cristiana" in senso stretto, dall'altro lato il movi- mento neoplatonico, interessa ora brevemente e schematicamente - con ciò perdendo le molte sfumature - esporre la posizione degli gnostici. Innanzi tutto va precisato il significato assunto dal termine "gnosi" (conoscenza), entro l'àmbito delle sette gnostiche fiorite nel II secolo. Pur mantenendosi il significato originario e comune di "conoscenza," il termine è usato per indicare un particolare tipo di conoscenza. Non si tratta né di una conoscenza cui si giunge mediante il discorso, le normali vie della ragione, né di un atto intuitivo della mente, che rivela un principio discorsivamente analizzabile, bens( di un'improvvisa illu- minazione con cui ciò che si crede per fede viene, appunto, conosciuto e mediante cui si salvano l'uomo e le cose, per loro natura, in quanto esistenti, radicalmente ammalati, in preda al male. Si tratta, dunque, di una conoscenza soterica (salvificante), assolutamente gratuita, riser- vata ai soli eletti, agli iniziati, a chi abbia avuto, appunto, rivelata la 84    "gnosi," agli "gnostici," ai "pneumatikòi" (spirituali: in chi t: passato il "soffio," lo pneuma divino), come dirà Valentino, per natura supe- riori agli "psichici" (coloro che hanno SI un'anima, ma non lo spirito, per i quali è valido il co~flitto morale e la "fede") e agli "hylici" (i materiali: coloro che sono per natura presi dal corpo e dalla materia, dal male). Solo tale tipo di "gnosi," salvando, risolvendo in sé la fede, svela "chi fummo, che cosa siamo diventati, dove eravamo, da che cosa siamo riscattati, cosa ela rigenerazione" (in Clemente Alessandrino, Excerpta Theodoti, 78, 2, ed. Sagnard, 1947). In secondo luogo va detto che tale significato dato alla "gnosi" fun- ziona quando si tenga presente il radicale pessimismo che emerge da tutti i testi gnostici da noi conosciuti. Se solo l'Essere (Dio) in quanto Essere è perfetto e tutto in sé compiuto e perciò Bene, il mondo, tutto ciò che esiste non può essere l'Essere, ché altrimenti si identificherebbe con lui; il mondo, d'altra parte cosi pieno di mali ("avendo assistito a cose cosi orribili, cominciai a domandarmi quale ne fosse la causa, quale il principio, chi in tal modo tramasse contro gli uomini... No, certo, Dio": Valentino, in Contra Marcionitas, in Patrol. graeca, VII), non può essere frutto di Dio né sua emanazione, ma la manifestazione di un altro principio, ·di un principio decaduto da Dio, ribelle a Dio, e perciò opposto a Dio e che, dunque, è il Male. Esso, in quanto si rivela, plasma il mondo, il quale mondo è perciò male. Dio, dunque, è al di là del mondo, non ha prodotto il mondo, non è il reggitore del mondo, e, dunque, non può essere conosciuto né dal mondo, né attra- verso il mondo. Attraverso il mondo, opera del male, si coglie piuttosto il male che Dio, il facitore del mondo, il principe delle tenebre, che imprigiona nel suo costituirsi tutta la realtà in leggi meccaniche e neces- sarie, da quelle che regolano il firmamento e i corpi celesti, a quelle stesse che, a loro volta, determinano i destini terreni, i fati umani. "La regolarità appare allo gnostico come una ripetizione monotona e opprimente; l'ordine e la legge (il n6mos fisico e morale) come un giogo insopportabile... Il firmamento, i corpi celesti, in particolare i pianeti che presiedono al Destino, alla fatalità, sono esseri malvagi, sono la sede di entità inferiori, come il Demiurgo e gli angeli creatori o di dominatori demoniaci dalle forme bestiali: gli 'Arconti.' In una parola l'universo visibile, da divino che era, diviene diabolico. L'uomo vi soffoca come in una prigione, e, lungi dall'essere la manifestazione del vero Dio, porta il marchio della sua infermità e della sua perversa origine" (Puech, cit., p. 85). Si vede bene, allora, come solo la "gnosi" spezzi la .catena della necessità e del fato, liberi, salvi dal male, affranchi da ogni legge 85    (morale e fisica), congiungendo l'uomo a Dio, e come solo gli "gno- stici," coloro che sono stati eletti, possano essere maestri di conoscenza e siano la "potenza di Dio," il quale Dio, dunque, resta di là da ogni normale conoscenza, è "ignoto," "nascosto," "straniero," "abisso," "statico," "ozioso" (non nel senso che è indiscorribile e inattivo il Dio di certi platonici); solo gli gnostici, dunque, lo vedono, di una visione che è rivelazione (gnosi). Essi, dunque, potranno insegnare agli altri come si è strutturato il mondo, in che consista il male, quali pos- sano essere le pratiche per salvarsi, come l'anima possa riaffiorare a Dio. Entro i termini di una concezione religiosa, nella ricostruzione del tutto, si poteva benissimo, sia pur in un rovesciamento del concetto di ordine e del mondo, rivelazione del divino, usare, rotti dai loro contesti, frasi e passi di Platone, degli stoici, dei misteri, dei pitagorici, delle tradizioni magico astrologiche di origine iranica, degli allegorismi ebraici, di certe interpretazioni ermetiche dell'universo, reinterpretati in funzione di tale concezione. Si veniva a costituire, cosi, insieme a quella visione religiosa, a quella "gnosi," una religione, un complesso di riti e di culti, mediante cui gli eletti, gli gnostici, i pneumatici, si fanno salvatori, hanno capacità di agire sugli dèi e sui dèmoni, sugli spiriti del male, sugli astri demoniaci che stringono gli uomini nei loro destini (magia e teurgia), che dominano il mondo, per asservirli a se stessi, rompendo la catena del mondo. Fenomeno assai diffuso, certo la "gnosi" non si riduce a questo; dal n secolo in poi, veniamo ad avere una serie di sette, di forme diverse di "gnosi," difficilissime ad individuarsi e che soprattutto inte- ressano lo storico delle religioni. Ma, ancora, _va sottolineato un aspetto, quale chiaramente risulta dai documenti che abbiamo, e cioè come, almeno in principio, il Cristianesimo nel suo incontrarsi con gente che gnosticamente sentiva sé come portatrice della "potenza di Dio," po- tesse benissimo essere assunto come una delle posizioni gnostiche e potesse essere interpretato in chiave gnostica, si come, per altra via, poteva essere interpretato entro i termini della concezione di Filone l'Ebreo. E qui pensiamo allo sviluppo di una corrente del pensiero gno- stico, quale si rivela chiaramente attraverso ciò che ci è detto di Simon Mago, di Menandro e di Saturnilo di Antiochia, e dei loro presumibili successori, Basilide, Valentino, Marcione, forse Bardesane, da cui, pro- seguendo fin verso il vn secolo, si vennero costituendo gruppi diversi e molteplici (Ofiti o Naasseni, ossia "serpentini" in greco e in ebraico, "gnostici" veri e propri, Setiani, Arcontici, Audiani, e Basilidiani, Va- lentiniani, Marcioniti, Bardesaniti e cosi via). Particolarmente interessante è a questo proposito il racconto di 86    Simon Mago/3 riferito dagli Atti degli Apostoli. Il diacono Filippo "arrivato alla città di Samaria predicava loro Cristo. E la moltitudine concordemente prestava attenzione a quello che diceva Filippo, ascol- tandolo e vedendo i miracoli che faceva, poiché da molti, che avevano spiriti immondi, questi uscivano, gridando ad alta voce. E molti para- litici e zoppi furono sanati. Per la qual cosa fu grande allegrezza in quella città. Ma un certo uomo chiamato Simone stava già da tempo in quella città, esercitando la magia, e seduceva la gente di Samaria, spac- ciandosi per qualche cosa di grande: e tutti gli davano retta, dal piu piccolo al piu grande, e dicevano: questo uomo è la potenza di Dio [non va qui scordato che nel Vangelo di Luca l'angelo dice a Maria: 'Lo spirito santo scenderà sopra di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra': Luca, l, 35],·la potenza di Dio che si chiama grande. E lo ubbidivano perché da molto tempo li aveva ammaliati con le sue magie. Ma quando ebbero creduto a Filippo, che evangelizzava loro il regno di Dio, uomini e donne si battezzarono nel nome di Gesu Cristo. Allora anche Simone credette, e battezzatosi divenne intimo di Filippo. E osservando i segni e i miracoli grandi che seguivano, usciva fuori di sé per lo stupore" (Atti degli Apostoli, VIII, 5-13). Venuti, poi, da Gerusalemme a Samaria Pietro e Giovanni, inviati dagli Apostoli a far discendere in quei di Samaria lo Spirito Santo con l'imposizione delle mani, Simone offerse agli Apostoli denaro dicendo: "Date anche a me questo potere, che a chiunque imporrò le mani riceva lo Spirito Santo." Pietro gli disse: "Il tuo denaro perisca con te, poiché hai giu- dicato che si acquisti con il denaro il dono di Dio" (Atti Apostr, id.). 13 Di Simone,. detto Mago, nato a Gitton, in Samaria, vissuto nel 1 secolo d. C., non sappiamo se non ciò che dicono i primi scrittori cristiani. Secondo le Omelie pseudo clementine Simone avrebbe studiato in Alessandria, dove anche avrebbe appreso le arti della magia e si sarebbe accostato alle interpretazioni di Filone l'Ebreo ("la menzione di Alessandria, il centro della scienza e della filosofia greche di quest'epoca, vtiol certo sottolineare le intime relazioni con la saggezza greca e con la scienza giudeo-ellenistica": Leisegang, cit., p. 49). Secondo le Ricognizioni, Simone, tornato in Samaria, avrebbe aderito alla setta che Dositea vi aveva fondato dopo l'esecuzione di Giovanni Battista, setta costituita di trenta discepoli (uno per ogni giorno del mese) e di una donna, chia- mata Luna o Elena; su tutti presiedeva Dositea, detto l'hestòs, il supremo, rappresentante• di Dio. Secondo Giustino (Apol. l, 26), Simone si sarebbe recato a Roma al tempo del- l'imperatore Claudio: "Aiutato dai dèmoni, fece prodigi di magia. Fu preso per un Dio e, come a un Dio, gli fu eretta una statua, nell'isola tiberina, tra i due ponti con la seguente iscrizione latina: Simoni deo sancto; quasi tutti i Samaritani e alcuni di altre nazioni lo riconoscono e lo adorano come loro prima divinià; una certa Elena, che lo accompagnava in tutti i suoi viaggi, e ch'era prima vissuta in un postribolo, passa per essere la sua prima Ennoia..." Di una sua opera, La grande rivelazione, lppolito ha con- servato alcuni testi (lppolito, Philosoph., VI, 7 sgg.). Poco o nulla sappiamo dei due discepoli diretti di Simone, Menandro della Samaria (cfr. Giustino, Apol. l, 26; Ireneo, Haeres., I, 23, 5) e Saturnilo (cfr. Ireneo, Haeres., 24, 1-2; Ippolito, Philos., VII, 28; Epifanio, Panar., 23, 1-2; Tertulli"ano, De anima, 23; Filastrici, Haeres., 31). Dopo il pentimento di Simone, gli Apostoli tornarono a Gerusalemme. Il racconto è molto indicativo. Simone è un uomo, che, prima dell'in- contro con i Cristiani, ha già in sé la "potènza di Dio," che incen- tratosi con gli "inviati" del Signore, si sente loro vicino, anche se da essi respinto, e si fa cristiano. ~ stato detto che questo "racconto riflette in piccolo la storia della gnosi eretica. Essa esisteva prima del Cristia- nesimo, si è fatta cristiana, i cristiani l'hanno respinta, ma essa pretende rimanere cristiana e passare per tale" ( H : Leisegang, La gnose, trad. frane., Parigi, 1951, p. 49). E ciò, si può aggiungere, era possibile per il fatto che lo stesso Cristianesimo appariva come un tipo di "gnosi," par- ticolarmente negli ambienti della "gnosi" ebraica e dell'ebraismo elle- nizzato di Alessandria (si veda sempre Simon Mago e la sua vicinanza, nell'interpretazione allegorica del Vecchio Testamento, a Filone l'Ebreo). Simon Mago e, sulla sua scia, Menandro e Saturnilo, vedono nella rive- lazione del Cristo la "gnosi," per cui cercano di innestare il Cristo, ve- nuto a salvare l'uomo, entro i limiti della visione "gnostica" dell'Uni- verso, ove la redenzione umana di Cristo si trasforma in redenzione cosmica, e dove accanto agli elementi dell'interpretazione allegorica della Bibbia, giuocano non pochi elementi tratti dalle filosofie elleni- stiche (platonismo, pitagorismo), dai misteri greci, egizi, iranici, anche se, come abbiamo visto, se ne rovescia il significato, per ciò che riguarda il rapporto Dio-mondo, Dio-anima, particolarmente impostato dalle filo- sofie e dai misteri greci. Per Simon Mago la radice del grande albero dell'Essere, veduto in sogno da Nabuccodonosor (Daniele, IV, 7 sgg.), è il "divorante fuoco" del Deuteronomio, "tesoro del visibile e dell'intelligibile," esso Dio Padre, Yavè. Da tale "fuoco," uno e in sé conchiuso, si genera una serie di coppie. Essendo esso pensiero e parola, le prime coppie, enti a Dio coeterni (eom), sono Intelletto (N'iis) e Riflessione (eplnoia), e, quindi, voce e nome, ragienamento (loghism&s) ed esigenza (enthy- mesis). Da essi scaturisce il pensiero buono (èunoia) del padre, che, a sua volta, produce gli Angeli che dànno realtà a tutte le cose. Solo che gli Angeli, affermandosi, si distaccano dall'Uno padre, facendo, allegoricamente, prigioniera tunoia, la quale si determina in un corpo di donna, subendo una serie di trasformazioni (è stata Elena di Sparta e infine una prostituta siriana). Il corpo, dunque, la materia sono il frutto dell'orgoglio degli Angeli, del pensiero distaccatosi dalla radice prima. Il Padre, allora, per recuperare e liberare tunoia si manifesta in nuove forme, in Gesu, nello Spirito Santo e in Simone stesso, me- diante cui si salvano coloro che il Padre ha scelto (gli eletti), indipen- dentemente dalle opere e dalle azioni umane, tutte in sé malvage e 88    ribelli. Dio, attraverso Gesu, lo Spirito Santo e Simone, è venuto a salvare il Pensiero, non l'uomo, la realtà molteplice, che ritorna una nel pensiero uno di Dio, nell'unità del fuoco primo e ultimo (per lo scritto, La grande rivelazione, attribuito a Simone, e per i frammenti da cui si è ricavato quanto sopra cfr. Ippolito, Philosophumena, VI, 9 sgg.; lreneo, Adv. haeres.; Ricognizioni, Il, 7 sgg.; Omelie pseudo Clementine, II, 22 sgg.; San Giustino, Apologia prima, 26). Cosi, anche per Menandro e Saturnilo di Antiochia, seguaci di Simone, non del Dio ignoto e tutto in sé compiuto (donde sono scaturiti gli angeli, gli arcangeli, le potenze e le. dominazioni) sono frutto il mondo e gli uomini, ma degli angeli che, oramai lontani da Dio e dalla sua imma- gine, hanno, affermando se stessi e quindi ribellandosi a Dio, costituito malamente le cose e gli uomini, che sono quindi in parte buoni e in parte cattivi e demoniaci, e che non si salverebbero senza la gnosi dovuta al Cr!sto, il quale, ingenerato e incorporeo non si è manife- stato .come un uomo, ma come il /Ogos. "Gli angeli hanno fatto due specie di uomini, i buoni e i cattivi: poiché i dèmoni aiutano i malvagi, il Salvatore si è manifestato per annientare cattivi e dèmoni e salvare i buoni. Il matrimonio e la generazione [cioè la moltiplicazione degli uomini] sono opera del diavolo..., il quale, l'ultimo degli angeli, è il nemico incarnato dei precedenti- angeli e del Dio degli Ebrei" (Ireneo, Adv. haereses, I, 24, 2). Piu a un dramma cosmico, che non di persone, come era per Satur- nilo, tornano Basilide e il piu notevole dei cosiddetti gnostici eretici del n secolo, Valentino. Basilide di Alessandria,14 morto nel 138 circa (avrebbe scritto 23 o 24 libri di Esegesi al Vangelo, Incantagioni, un proprio Vangelo), invocate le rivelazioni di ignoti profeti, come Ham e Barcabba, rifacendosi a Pitagora e al mitico Ferecide, pone al principio un Dio ignoto, unico, invisibile, incomprensibile e innominabile, che ha in sé tutte le possi- bilità, i semi di tutto (lo Yavè degli ebrei, il Crono degli Orfici). Pura luminosità Dio, da lui in principio prolificano tre figli: il primo figlio, che, come raggio di luce che si riflette nella fonte luminosa da cui proviene, rimane in Dio; i l secondo figlio, che illumina le altre H Forse discepolo di Menandro (vedi sopra), Basilide insegnò ad Alessandria tra il 120 e il 138 circa, sotto Adriano e Antonino Pio. Secondo i basilidiani egli avrebbe rice- vuto la sua dottrina da un certo Glaucia, interprete di San Pietro. L'insegnamento di Basilide fu proseguito dal figlio lsidoro. Di un Vangelo di Basilide e dei suoi Commen- tari (in 23 o 24 libri) restano alcune citazioni; avrebbe composto delle Odi. Per i fram- menti di Basilide dr. Acta Arche/ai et Manetis, c. 55; Clemente Alessandrino, Stromala, IV, 12, 83, 88; III, l, 1-3; cfr. anche l'esposizione del pensiero di Basilide ad opera di lppolito, Philor., VII, 20 sgg.; Ireheo, Han-er., I, 24, 6. 89    semenze, ritornando quindi in Dio; il terzo figlio .che rimane a fof\damento delle semenze. Dio e le sue tre filiazioni costituiscono un tutt'uno, la potenza di tutto, rimanendo Dio sempre tutto in atto, per cui tra Dio e il resto della realtà vi è come un limite, un passaggio proibito, un orizzonte invalicabile, detto da Basilide "sfera solida" (steréoma). L'universo non è Cf?Stituito da Dio, ma da un nuovo essere 'scaturito da uno degli infiniti semi di Dio, il "grande Arconte," inferiore ai tre primi figli, ma simile al Padre per potenza, onde egli diviene principio di una serie di filiazioni intermedie tra la "sfera solida" e la sfera della luna; l'ultima di queste divinità è il Dio degli Ebrei che ha sede, appunto, nella lulfa. Egli quindi, avendo in sé il riflesso della potenza divina, trovandosi al limite della materia caotica, al di sotto della luna, ha costituito questo mondo e l'uomo. L'orgoglio del primo Arconte, che, separato da Dio a causa della "sfera solida," afferma se stesso, opponendosi a Dio, si riflette su tutta la sua filiazione fino al Dio degli Ebrei, che proclama sé unico e vero Dio. Il primo figlio di Dio, allora, l'unico che ha la conoscenza ("gnosis") autentica di Dio, si rivela al primo Arconte, che, convinto dell'errore, in cui era caduto per ignoranza, conoscendo il vero Dio, riflette a tutti i cieli e alla sua filiazione tale rivelazione, e tutti rientrano nell'ordine, finché un nuovo figlio di Dio, parola di Dio, come Dio eterno (eone), il Cristo, riscatta, rivelando la vera "gnosi" alla terra e all'uomo, l'opera del Dio degli Ebrei, abrogando la vecchia legge, e mediante sé e la "gnosi," condu- cendo l'uomo al Dio primo. Tale, sembra - le fonti, polemiche e in gran parte discordi, non permettono, in realtà, una ricostruzione esatta -, la visione di Basilide. Valentino/5 originario dell'Egitto, formatosi nell'ambiente religioso 15 Originario dell'Egitto, Valentino stesso sostiene d'esSere stato discepolo di un certo Teoda, diretto ascoltatore di San Paolo. Dopo aver predicato in Egitto, sappiamo che Valentino fu in Roma, prima sotto il vescovo Igino, poi sotto il vescovo Aniceto (dal 135 al 160 circa). Dopo aver rotto con la Chiesa, dalla quale fu cacciato, Valentino si ritirò in Cipro dove fondò una propria scuola. Di lui si citano lettere, omelie, salmi, e due opere Le tre tlature e il Vangelo della verità. Sulle fonti per ricostruire il sistema di Valentino, cfr. sopra, il testo. Dopo Valentino la sua scuola si sparse in tutto l'im- pero. . Tra i valentiniani orientali si citano: Marco, che insegnava in Asia Minore verso il 180, e di cui sappiamo qualcosa attraverso Ireneo; Teodoto, di cui abbiamo riferiti alcuni testi in Clemente Alessandrino, Excerpta ex scriptis Theodoti; Bardesane, nato ad Edessa nel !54, dove morl nel 222 circa, autore, sembra, di centocinquanta salmi con relative melodie, e di un libro Sul .destino (ritrovato in siriaco: cfr. ediz. F. Nau, in Patrologia syriaca), che, in realtà, fu composto da un suo discepolo, Filippo, in cui si vuoi dimostrare che gli astri non negano affatto la libertà degli uomini; Armonio, figlio di Bardesane. Tra i valentiniani che avrebbero predicato in occidente, si citano: Secondo, Eracleone (il miglior discepolo di Valentino, fiorito tra il 155 e il 180, e di cui si con- servano una quarantina di frammenti, estratti da un suo commentario a San Giovanni), 90    di Alessandria al tempo dell'imperatore Adriano (117-138 d. C.), cri· stiano dapprima, dopo il suo soggiorno a Roma (136-166), ruppe con la Chiesa. Visse, quindi, in Oriente e fondò a Cipro una propria scuola. A parte pochi frammenti, tratti da sue omelie, inni, lettere e i titoli di due sue opere, Le tre nature e il Vangelo della verità, nulla resta che si possa con certezza attribuire a Valentino. Una rielaborazione, forse, della concezione di Valentino, piu tarda (del m secolo circa), assai oscura, composta di testi diversi, con elementi propri di altre sette gnostiche ("ofitiche"), è la Pistis Sophia, un'opera gnostica, in copto, scoperta in Egitto sulla fine del xvm secolo dallo Askew e pubblicata dal Petermann nel 1851, il cui perno è la nar~azione della caduta e della liberazione dell'eone detto, appunto, pistis sophia, mediante cui si vuoi dimostrare che la fede ha da risolversi in conoscenza. Nonostante che a seconda .delle fonti usate (Ireneo, Adv. haeres., I, l; Ippolito, P.hilos., VI, 29) si possano ricostruire vari sistemi valen- tiniani, nel suo insieme abbastanza chiara risulta, nelle linee generali, la costruzione di Valentino. In quanto principio, il fondamento del tutto è in sé perfetto e uno, ingenerato, padre dei padri, Propadre (Propator), indicibile e invisibile, senza fondo, e perciò Abisso (Bythòs), perfetto in eterno (téleios aiòn), perfetto eone, tutto in sé compiuto, da nulla turbato ("negli sconfinati spazi sta_ in pace e solitudine immensa": lreneo, Adv. haeres., I, l, sgg.). Monade; dice Ippolito, è il Dio di Valen- tino, in quanto tutto è in sé solitario, unico, senza consorte e senza compagna (&~•Jyot; xcxt il.&-tjÀut;: Ippolito, Refut., VI, 29); pensiero tutto compiuto e perciò facente un tutt'uno con énnoia, mente, dice Ireneo, per cui énnoia è silenzio (sighè) e grazia (charis). L'unione, in eterno, di Pensiero e Mente (la prima delle coppie, delle syzyghiat) genera Intelletto (Nous), simile ed uguale a colui che l'ha emesso e solo capace di abbracciare la grandezza del padre. Questo intelletto - prosegue Ireneo nella sua espos1z1one del sistema valentiniano - ~ detto anche Unigenito (Monoghen~s) e Padre e Principio (Arch~) del tutto. Con lui fu emessa pure Verità (Al~theia). Questa ~ la tetrade pitagorica prima e originaria che chiamano anche Radice del Tutto: e ci~ Bythòs e Sigh~, quindi Nous e Al~theia. Ora Monoghès, resosi conto del perch~ era stato emesso, emise a sua volta Ragione (Logos) e Vita (Zo~) in quanto padre di tutti coloro che avrebbero dovuto essere dopo di lui, e principio e forma di tutto il Pléroma [il complesso, il "plenum" di tutte le filiazioni e coppie di eoni], quindi: da L6gos e Z~ furono emessi per Tolomeo (di lui, conservata da Epifanio, Ha~u., 33, 3-7, abbiamo una Lt!IUra a Flora, in cui si inizia alla gnosi una donn•). Altri valentiniani d'occidente sono: Fiorino, Teo· timo, Alessandro. 91    accoppiamento (sizighfa) Uomo (Ànthropos) e Chiesa (Ecclesla). Questa è l'ogdoade originaria, radice e sostanza del tutto, designata da loro con quat- tro nomi: Byth6s, Nous, L6gos e Anthropos. Ciascuno di essi è maschio e femmina: cosf il Pre-padre si è unito per sizighla alla .sua propria Mente (Ennoia), Monoghenito, cioè Nous, ad Alètheia, L6gos a Zoè, Anthropos a Ecclesfa. Ora questi Eoni emessi a gloria del Padre, volendo anch'essi glorificare il Padre da parte loro, dopo l'emanazione di Anthropos ed Eccle- sfa, emisero altri dieci eoni, i cui nomi sono... [Profondo e Unione, Senza vecchiaia e unità, Spontaneo e Voluttà, Immoto e Commistione, Unigenito e Beatitudine]. Ànthropos, a sua volta, con Ecclesfa emise dodici eoni a cui sono dati i nomi seguenti: lntercessore e Fede, Paterno e Speranza, Materno e Amorevolezza (Agàpe), Intelletto eterno e lntellezione, Ecclesiastico e Beatitudine, Desiderato e Sapienza (Sophfa). Questi sono i trenta Eoni... taciuti e non conosciuti: questo il loro Plèroma invisibile e spirituale, diviso in tre parti, ogdoade, decade e dodecade. Affermano che quel loro Pre-padre (Propator) è conosciuto dal loro Monogenito nato da lui, cioè da Nous, mentre è invisibile e irrangiungibile per tutti gli altri. Non solo, di contro ad essi, si beava contemplando il Padre e gioiva meditandone l'incommensu- rabile grandezza... Tutti gli altri eoni, pur restando immoti, bramavano vedere Colui che aveva emesso il loro seme e riconoscere quella radice senza principio. Ma l'ultimo e piu recente degli Eoni della dodecade, emesso da Anthropos e Ecclesfa, cioè Sophla, spiccò un balzo immenso e fu.scossa da passione senza l'amplesso del suo compagno Théletos (Desiderato). Questa passione è la ricerca del Padre; voleva, dicono, abbracciarne la grandezza. Ma non avendo potuto abbracciarla, poiché la cosa era impossibile, fu colta da immensa angoscia, di fronte alla grandezza dell'abisso, all'impossibilità di proseguire verso il Padre ed alla tenerezza per Lui: protesa com'era sem- pre innanzi, sarebbe stata totalmente inghiottita dalla dolcezza di Lui e si sarebbe dissolta nell'essere totale, se non si fosse scontrata in una Potenza solidamente costituita che, stando al di fuori della Grandezza ineffabile, era di guardia al tutto. Questa Potenza è detta...-Confine (Horos): fu essa a trattenere [Sophla], fermarla e, a fatica, ritorcerla indietro, convincendola che il Padre è irraggiungibile. La prima Passione (Enthùmesis), con l'Ango. scia che ad essa era sopravvenuta, si distolse (cosl) da quel rapimento con- templativo. Questo Confine (Horos) si chiama anche Croce (Stauròs) e Redentore (Lutrotés) e Affrancatore (Karpistés)... Per mezzo suo la Sophia fu purifi- cata e consolidata e restituita all'amplesso (sigizìa). Separatasi da lei Enthù- mesis con l'Angoscia sopraggiunta, essa... rimane entro il Pléroma, mentre Enthùmesis, insieme all'Angoscia, fu segregata e rimase fuori di questo: essa è sostanza spirituale (pneumatica), in quanto è un certo istinto naturale dell'eone, ma senza forma, poiché nulla afferra: per questo la chiamano frutto cattivo e principio femminile. ... In seguito Monogenito emise un'altra coppia (sigizìa) per riguardo al Padre... cioè Cristo e Spirito Santo... e mentre il Cristo insegna [agli eonil 92    la natura della sigizìa... lo Spirito Santo insegnò ad essi, resi tutti eguali, a rendere grazie ed apprese loro la vera pace totale. E per questo beneficio, con una sola volontà ed un solo intendimento, tutto il Pléroma degli e011Ì, uniti il Cristo e lo Spirito Santo al coro comune, ... raccogliendo insieme cia- scuno degli eoni ciò che v'era di piu bello e splendente... emisero, ad onore e gloria di Byth6s, una emissione suprema, quasi la bellezza e l'astro stesso del Pléroma, Gesu frutto perfetto, soprannominato anche Salvatore, Cristo, Logos e "il Tutto," poiché da tutti egli proveniva...: ed insieme con lui furono emessi gli angioli, sua scorta e, per [suo] onore, generati simili a lui. ... Quanto poi a ciò che è fuori del Pléroma... la Passione (Enthùmesis) della Sophia superiore, detta Achamoth [dall'ebraico Hokmah, "Sapienza," conoscenza divina], esclusa dal Pléroma insieme all'Angoscia, rigettata nel- l'ombra e nel vuoto... come aborto... andava alla ricerca della Luce che l'aveva abbandonata, ma non poteva raggiungerla, impedita com'era da Horos: ... sopravvenne allora in essa un altro intento, quello che spinge a creare cose vive... Achamoth poi generò frutti a somiglianza [degli angeli], generazione spirituale a somiglianza della scorta del Salvatore... Già tre sostanze preesistevano di per sé: una dall'angoscia, cioè la mate ria, un'altra dal movimento di ritorno all'indietro, cioè l'elemento psichico una terza ciò che essa [Achamoth] aveva generato, cioè l'elemento spirituale [Achamoth] si volse allora a dare ad essa una forma... E dalla sostanza psi- chica formò il padre e re di quanto è fuori dall'eone, crèatore ·a sua volta di quanto è animato e materiale...; [quest'ultimo] creò le cose celesti e ter- rene, ... foggiò sette cieli, al disopra dei quali è lui, ·il Demiurgo... Creato il mondo, quest'[ultimo] creò anche l'uomo materiale, non da questa terra arida, ma dall'essenza invisibile della materia disciolta e fluida; ed in esso insufBò l'elemento psichico... Ma quanto invece fu generato dalla Madre... Achamoth... è spirituale...; l'uomo spirituale, che era nato dalla Sophfa, semi- nato quando avvenne l'insufBazione, rimase celato al Demiurgo... che come non aveva conosciuto la Madre, cosf non ne conobbe il seme... Questo uomo è il loro uomo ed essi vengono cos{ ad avere l'anima fatta dal Demiurgo, il corpo fatto di terra, la carne derivata dalla materia, ma l'uomo spirituale deriva dalla Madre Achamoth. Sono dunque tre realtà: ciò che è materiale... fatalmente destinato a rovina, essendo incapace di accogliere qualunque soffio di immortalità; ciò che è fornito di anima... posto a metà fra ciò che è spirituale e ciò che è materiale, che sta là dove terminerà di volgersi; quello che è spirituale... e questo... è il "sale" e la "luce del mondo" (Mt., 5, 13-14), che è stato emesso perché qui, unito a ciò che è psichico, si formi e sia elevato con esso nel movimento di ritorno. Il compimento supremo si avrà quando tutto ciò che è spirituale (cioè gli uomini pneumatici che posseggono la perfetta cono- scenza - gnosi - di Dio e di Achamoth) sia stato formato e reso perfetto con la gnosi. Gli "iniziati ai misteri" sono loro stessi (lreneo, Adv. haeres., I, l, l sgg.: dalla traduzione di F. Bolgiani, in La filosofia medievale, anto- logia di testi a cura di N. Abbagnano, Bari, 1963). 93    Sarebbe ozioso soffermarci sulle infinite sfumature, distinzioni, vena- ture diverse con cui si presenta la "gnosi" ·nei molti aspetti che prese sia con i prosecutori di Valentino in Egitto e in Siria (Axionico, Marco, Teodato, Bardesane: Bardesane, originario della Mesopotamia, predicò ad Edessa, ritenendosi il vero interprete del Cristo, ch'egli sosteneva non essere nato da donna, né, in quanto 16gos di Dio, avere preso forma umana: di contro a Dio, il diavolo e il male hanno una realtà per sé e non sono quindi eoni fuorusciti o decaduti dal pléroma; di qui l'eterna lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre); sia in occidente con Secondo, Eracleone, Tolomeo (di Tolomeo, conservataci da Epifane, nel suo Panarion, abbiamo una Lettera a Flora, in cui Tolomeo inizia una donna colta, Flora, all'idelogia della "gnosi"; esponendo la medita- zione valentiniana sugli eoni e sulla loro traduzione in termini pitago- rici, costituendo essi una ottava, una decade e una dodecade). Accanto- nate inoltre le molte sett~ gnostiche a carattere popolare, cui fu dato genericamente il nome di sette "serpentine" (ofiti o naassem), per la funzione data da tutte al serpe (venga esso inteso come il circolo vitale che regge il tutto in unità, stringendo il mondo nella necessità, nel male, o venga inteso come il principio vitale, l'anima, che sfugge dal corpo, o che ha la capacità di rinnovarsi, per.cui il serpente rappresenta anche il simbolo della generazione, a seconda di vecchi miti e misteri), e, accantonata la setta risalente al mitico Carpocrate e quella detta dei Barbelognostici,16 non si possono qui, per la diffusione e l'influenza che ebbero, lasciare da parte da un lato il Marcionismo e, dall'altro lato, il Mandeismo e il Manicheismo. Marcione,11 nato a Sinope, nel Ponto, nell'85 d.C. circa, dapprima 16 Accanto a Basilide e a Valentino, Carpocrate è ritenuto il fondatore della terza grande "gnosi" alessandrina. Contemporaneo di Basilide e di Valentino la sua figura e · personalità sono leggendarie. Secondo Clemente Alessandrino (Strom., m, 2), il figlio di Carpocrate, Epifania, morto a f7 anni, avrebbe scritto un trattato Sulla Giustizia. "Barbelognostiche" son dette quelle sette il cui culto e la cui dottrina s'incentrano sulla figura del Barb~lo, "in quattro è Dio," in ebraico Barbhé Eliha (la tetrade costituita dal Padre, Fi~lio, Pneuma femminile, Cristo}: si son fatti rientrare sotto questa etichetta i Nicolaiti, i Fibioniti, gli Straziotici, i Levitici, i Barboriti, i Coddiani, gli Zacheeni e i Barbeliti. Si confronti particolarmente, Epifania, Panarion. l T Di Marcione sappiamo che nacque a Sinope, nel Ponto, nell'85 d. C., e che mori a Roma nel 160 circa. Per il resto vedi sopra, il testo. Della sua opera, Antitesi, abbiamo notizie attraverso S. Giustino, Sant'Ireneo, e particolarmente attraverso Tertulliano (De fJI'~scriptione, Adv~sus Mare. libri.V, D~ carne Christi). Per una ricostruzione del testo dell'opera di Marcione, cfr. A. von Harnack, Mart:ion, Lipsia 1921, il quale sostiene che Marcione non è da considerare affatto entro l'àmbito della gnosi (vedi, ora, di contro, A. C. Blackmann, Mart:ion and his lnflu~nce, Londra, 1949). Discepolo di Marctone fu un certo Apelle, che dopo avere ascoltato Marcione a Roma, predicò in Alessandria. Tor- nato a Roma vi mori nel 180 circa. Scrisse un libro sui Sillo6ismi (citato da Sant'Am· 94    aderente alla Chiesa cnsuana, se ne distaccò per fondare una nuova Chiesa, la "Vera Chiesa di Cristo." Egli visse, predicò e costitu1 la sua Chiesa in Roma circa negli anni in cui visse a Roma anche Valentino. Figlio di un vescovo cristiano, la sua interpretazione del cristianesimo gli valse fin dal principio l'esclusione dalla Chiesa di Sinope, ad opera di suo padre. A Roma, entrato in quella Chiesa, in silenzio lavorò intorno ad un'interpretazione del Nuovo Testamento e al rapporto in cui porre il Vecchio con il Nuovo (di qui la sua opera intitolata Antitesi). "Terminato il suo lavoro, Marcione si presentò dinanzi alla comunità cristiana ed invitò i presbiteri a prendere posizione sulla sua opera e la sua dottrina. Le discussioni si conchiusero con un categorico rifiuto della tesi di Marcione e con la sua esclusione dalla Chiesa romana. Marcione, convinto della verità del suo Vangelo ne trae le conseguenze. Sarà il riformatore del Cristianesimo primitivo. Non è una setta, ma una Chiesa sempre piu numerosa, composta di comunità particolari soli- damente organizzate, la vera Chiesa del Cristo, ch'egli erige di fronte alla Chiesa cattolica, assolutamente convinto di agire da autentico suc- cessore dell'Apostolo Paolo. Verso il150, Giustino annota che il Vangelo di Marcione si estende su tutta l'umanità. Tertulliano conferma la testi- monianza di Giustino: 'La tradizione eretica di Marcione' - scrive - 'ha riempito l'universo.' Intorno al 400 si trovano ancora dei marcioniti a Roma, in Egitto, in Palestina, in Arabia, in Siria, e a Cipro. Marcione è divenuto eretico, perché, di tutti i cristiani del suo tempo, è stato il solo filologo, il solo a non interpretare le Scritture .del Vecchio Testa- mento e del nascente cristianesimo per via di allegorie, cercando invece di intendere le scritture in senso proprio e letterale..." (Leisegang, cit., p. 186). In realtà Marcione, muovendo da un attento studio delle lettere di Paolo (ai Romani e ai Galati), rileva la netta distinzione tra il Dio proclamato dal Cristo, Dio ignoto, perché persona e libertà, Dio di bontà e di amore, e il Dio del Vecchio Testamento, Dio degli eserciti, di un popolo, Dio vendicativo e giusto, Dio di punizione. Cristo, dun- que, figlio di Dio, non può essere figlio del Dio degli Ebrei. Cristo, perciò, non rivela il Dio degli Ebrei, il facitore del mondo, e dell'uomo, ma un Dio fino ad ora ignoto, l'ignoto Dio del discorso dell'Areopago di Paolo. Ques~o mondo, perciò, intessuto di male e di dolore, questi uomini, caduti con il peccato di Adamo, sono il frutto del Dio "giusto" e puni- tivo, del Dio della Legge e del Vecchio Testamento. Col Cristo, invece, brogio, De Paradiso, 28), in cui dimostrava che i libri di Mos~ sono pieni- di errori, e un libro intitolato Rivelazioni (cpczvcp6!acLt;) in cui narrava le rivelazioni cha avrebbe avuto una certa Filomena, apparte,nente alla setta marcionita. 95    figlio del Dio buono, si rivela un nuovo Djo, un Dio fino adesso ignoto. I profeti prima di Cristo hanno predicato il primo Dio, il Dio della Legge. L'albero del male, che non può dare che cattivi frutti e \ii cui parla il Cristo - interpreta Marcione - è il Dio del Vecchio Testa- mento; l'albero del bene, che non può produrre che frutti buoni, è il Padre di Cristo, il nuovo Dio, il Dio dell'amore. Il Dio di Cristo non è perciò l'autore di questo mondo, ·egli anzi è estraneo a tutto il mondo, e se interviene per salvare l'uomo e il mondo, il suo intervento è asso- lutamente gratuito. Libero dal mondo, oltre il mondo, Dio, mediante il proprio atto, viene a salvare l'uomo dal vecchio Dio e dalla Legge, con un atto di suprema grazia e di miseri<;ordia, proprio perch~ il Dio finora ignoto non ha nulla a che fare con il mondo quale è. Di qui, nell'interpretazione che Marcione dà del Vangelo - egli assume a prototipo il Vangelo di Luca - e delle lettere di Paolo - egli sostiene che gran parte delle lettere paoline sono apocrife, o fin dal principio sono state intese in chiave giudaica, vedendovi un rapporto col Vecchio Testamento, contraddittorio con il piu intimo significato della buona novella - la netta opposizione tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, che diviene opposizione tra il mondo malvagio e opera di un Dio, di un demiurgo cattivo, e il dio· buono e "straniero," ignoto, che salva . l'uomo mediante il figlio suo, Cristo, da nulla preparato, assoluto e nuovissimo atto di rivelazione, per cui l'uomo può "conoscere" (gnosi), attraverso il figlio, il Dio buono. Questa la buona nuova, il Vangelo di Marcione, onde la necessità di epurare gli altri Vangeli, le Lettere di Paolo, gli Atti degli Apostoli dalle interpretazioni ebraiche, che sottil- mente distruggono il significato piu vero del Vangelo. Di qui, in nome di Cristo, di contro alla Chiesa di Roma, l'esigenza di erigere la vera Chiesa di Cristo. Fede per fede, il Vangelo di Marcione poteva valere, sul piano del- l'interpretazione del Cristo e della funzione nella storia del mondo e della salvazione dell'uomo, tanto quanto i Vangeli, posti dalla Chiesa come autentici. Sotto questo aspetto, storicamente, l'opposizione a Mar- cione della Chiesa ufficiale, già costituitasi e avente già, anche se ancora estremamente fluttuante, un suo primo corpo dottrinario, è un'opposi- zione che va considerata non sul piano del vero e del falso, della eresia o meno, ma su quello di due modi diversi d'interpcetare la rivelazione di Dio mediante il Cristo. Senza dubbio, come già dicevamo, vanno, entro l'àmbito della "gnosi," tenuti presenti certi dati e, particolarmente, la formazione cul- turale, la tradizione religiosa, l'ambiente entro cui si sono venute svi- luppando le varie interpretazioni del Cristo. Cos1, la· "gnosi,. fiorita in 96    ambiente ebraico-alessandrino, sulla linea di Filone l'Ebreo, in cui si innestano tradizioni platoniche e stoiche, sia pur rovesciate, ha dato risultati e costruzioni assai diverse dalla "gnosi" che ha dovuto fare i conti con altre tradizioni e religioni, mantenendole anche se trasfigu- rate (il che, d'altra parte, è pur testimoniato, dal successo che ebbero in quegli ambienti in cui si formarono). E qui particolarmente pen- siamo al Mandeismo e al Manicheismo, il quale ultimo aYeva dietro di sé una propria Bibbia, l'Avesta. Ancora vivente oggi in una zona della Babilonia meridionale, il "mandeismo" (da manda, che è l'equivalente in aramaico del greco gnosis) si venne formando nel 1 secolo d. C. nella bassa Mesopotamia, indipendentemente dal Cristo, che viene, anzi, respinto, una volta cono- sCiuto dalla setta mandea come falso profeta. Dal regno della luce, costi- tuente nella sua unità il divino (detto la Prima mente, la Prima vita, Re della luce), provengono, in una serie di determinazioni, le anime, che, tuttavia, nel loro determinarsi ed esserci si allontanano da Dio, assumendo, in quanto .limiti estremi, figura e perciò corporeità che pre- suppone, quindi, una materia eterna e informe. Questo mondo, dunque, è limite e male, e limiti e mali sono le sue leggi. A liberare le anime Dio invi~ sulla terra la gnosi della vita, personificata nel.profeta, che i Mandei vedono in Giovanni Battista; egli, appunto, attraverso il bat- tesimo lava, salvandole, le anime, che cosf si liberano dal male. E in un testo, certamente scritto in epoca piu tarda (la letteratura mandea fu raccolta in un corpus di scritti sacri nel vn secolo circa: le opere fon- damentali sono Il tesoro- Ginzii- e il Libro di Giovanni- Sidra d'Yahya), allorché si ebbe conoscenza del· Cristo, si legge: Quando Giovanni vivrÌi. al tempo di Gerusalemme, prender~ l'acqua del Giordano e compirà il battesimo, allora verr~ Gesu Cristo, andr~ girando in umilt~, ricever~ il battesimo da Giovanni e diverr~ saggio attraverso la saggezza di Giovanni. Ma poi falserà la parola di Giovanni, cambier~ il battesimo nel Giordano e predicher~ sacrilegio e menzogna nel mondo. Cristo divider~ i popoli, i dodici corruttori [apostoli] se ne andranno girando per il mon'do. In quel tempo guardatevi, voi che siete nel. vero... (in H. v. Gla- senapp, Le religioni non cristiane, trad. it., Milano, 1962, pp. 220-1). Entro questa atmosfera, ma in un approfondimento estremamente intellettuale e colto di un'altra tradizione, di una religione storicamente delineatasi da secoli in Persia, lo Zoroastrismo e il Mitracismo, che viene ora sistemata e interpretata nei termini propri della "gnosi," si muove, nel delineare i motivi fondamentali della sua religione, Mani, di origine persiana, formatosi in una setta battista della bassa Babilonia, 97    ma da essa distaccatosi fin da giovane, e vissuto, poi, in Persia nel corso del m secolo. Abbiamo accennato ora a Mani/8 perché, insieme al "man- deismo," il "manicheismo" - tenuto conto della sua enorme diffusione in tutte le direzioni: dalla Persia al Turchestan cinese, ove a Tlirfan e nelle grotte di Tun-huang vennero al principio del xx secolo ritrovati testi manichei in lingua persiana, partica, sogdi, uighurica o antico turco, cinese, all'Africa settentrionale, ove a Tebessa, in Algeria, furono scoperti nel 1918 testi manichei in lingua latina, e dove in Egitto nel 1931 furono trovati papiri manichei in copto, a Cartagine, a Roma, in Gallia, in Spagna - il "manicheismo" chiarisce bene cosa si vuoi dire quando si sostiene che lo "gnosticismo" non è stato soltanto una "eresia" sorta da un'interpretazione diversa da quella ormai stabilita dalla figura del Cristo, ma un atteggiamento storicamente determina- bile, fondato sul concetto di rivelazione, i cui esiti sono stati diversi a seconda, ripetiamo, delle tradizioni, dei culti religiosi, degli ambienti culturali in cui ci si è mossi. b) Il corpo degli "scritti ermetici." Sembra ora chiaro in che senso (piuttosto limitato rispetto alla "gnosi" pessimistica) si possa parlare di "gnosi" anche per il gruppo dei testi, probabilmente composti tra il n secolo a. C. e il 1 d. C., ma raccolti e ordinati nel corso del II se- colo d. C., che, andato sotto il nome di Ermes Trismegisto, costituisce il cosiddetto "corpus hermeticum " (diciotto trattati, di cui il primo fu intitolato Pimandro "pastore di uomini" - che Marsilio Ficino estese a tutta la raccolta - , piu un dialogo, Asclepius, traduzione latina, forse di Apuleio, di un testo greco dal titolo Aoyor:, 'téM~or:,, Discorso per- fetto, perduto; piu ventidue citazioni estratte da Stobeo, e altri quattro lunghi frammenti di un'opera intitolata K6p1) xoa!Lou, Pupilla del mondo). Abbiamo già detto sopra, discorrendo della prima tradizione ermetica, dello stretto rapporto che corre tra certi testi alchimistico- magici della tradizione che fa capo a Bolo-Democrito e a Bolo-Ostane, certi testi astrologici, e la parola di Ermes Trismegisto (sin dai tempi piu antichi Ermes greco, dio della parola, interprete e messaggero di Zeus, viene identificato con Thot egiziano, dio dellà parola e della scrit- 18 Mani, nato nel 216 d. C., a Mardinu (presso Seleucia Ctesifonte), da Patek, per- siano, emigrato in Babilonia, ove avèva aderito a una setta battista, affine a quella mandea, ricevette fin da giovane un insegnamento fortemente religioso. Vissuto per un certo periodo in India (Belucistan), 240-242, recatosi in Persia ebbe dal sovrano Sapore I (nel 244 circa) il permesso di propagare i suoi insegnamenti. Protetto anche dal successore di Sapore, Hormizd, Mani fece lunghi viaggi. Asceso al trono, nel 274, il re Bahram l, dedito allo zoroastrismo ortodosso, Mani fu accusato di eresia. Incarcerato a Gundeshahpur, sul prin- cipio del.277, mori nel 277 stesso. Secondo la leggenda fu crocefisso dopo essere stato scorttcato 98    tura, lo scriba di Osiride, del libro che mantiene), rivelatrice non solo della ragion d'essere della realtà, ma perciò stesso della sua struttura per cui, mediante la rivelazione dovuta alla parola di Ermes, si pos- sono ripercorrere i modi con cui la natura si è costituita, afferrando nessi e simiglianze, fino a ritrovare l'unità della realtà entro noi stessi e, attraverso noi, sopra noi in Dio, vincendo la natura con la natura. Ora, ciò che piu colpisce nei vari testi del "corpo ermetico" è che lo studio delle forze occulte della natura, della seminalità della natura (onde si potrebbe, cogliendo le simpatie tra gli elementi naturali, me- diante cui si costituiscono le cose, adeguarsi a quelle simpatie stesse, trovando nell'ordine della natura il proprio posto, e con ciò salvandosi, in un giuoco con la natura e in un'operazione sulla natura stessa) e la ricerca della verità trovano il proprio fondamento in una intuizione originaria, in un'illuminazione, condizione della ricerca stessa, che, pro- prio per questo, non la si raggiunge mediante la ricerca. Simbolica- mente, perciò, si 'può dire che tale intuizione è dovuta, appunto, a una rivelazione, a un messaggero della divinità, a un intervento extraumano. Una volta, avendo cominciato a riflettere sugli enti ( ne:pl -r:6lv 1Sv-r:6lv), mentre il mio pensiero spaziava nelle altitudini celesti e i miei sensi cor- porei erano impastoiati si come avviene a· chi sia accasciato da un pesante sonno o per eccessivo nutrimento o per una grande fatica fisica, mi sembrò che mi si presentasse un essere di gigantesche proporzioni, al di là di ogni misura definibile, che mi chiamò per nome e mi dissi!: "Cosa vuoi ascoltare e vedere, cosa mediante il pensiero apprendere e conoscere?" Ed io: "Ma tu, chi sei?" "Io," rispose, "io sono Pimandro, il Niis della sovranità asso- luta. So quello che vuoi, ed ovunque io sono con te." Ed io allora: "Voglio avere la scienza degli enti, comprendere la natura, conoscere il divino. Quanto!" esclamai, "desidero ascoltare." Mi rispose: "Tieni ben ferino nel tuo intelletto tutto quel che vuoi apprendere, ed io ti insegnerò" (Corp. Herm., I - Pimandro -,I, 3). Ora, sia pur tenendo conto della diversità tra i vari scritti del Corpus, sia pur riconoscendo che in .alcuni vi è un dualismo tra il divino ignoto e indicibile e il mondo e che in altri, invece, è accentuato un monismo animistico oel tipo stoico, in realtà l'impostazione generale di tutti gli scritti scopre che il motivo della rivelazione si riallaccia al piu antico motivo della divinazione, della intuizione profetica di origine pitago- rica da un lato e religioso poetica dall'altro lato. Cosf, evidentemente, obnubilati i sensi, dopo aver cercato attraverso tecniche, che sappiamo antichissime (sicuramente usate nei culti dionisiaci) di eliminare ogni distrazione, ogni dispersione, giunti ad una incantata concentrazione, 99    in una specie di sogno, l'atto intuitivo della mente, la visione puramente intellettuale, da cui può cominciare il discorso, viene assunta come rive- lazione, come la presenza di una forza, di una voce, dell'intervento di un'anima, di uno spirito, condizione dell'analisi, del discorso, a cui solo esseri eccezionali (in tal senso gli eletti) possono giungere. Ciò che vien dopo sono ipotesi perfettamente razionali, possibili ricostruzioni del- l'ordine del tutto nell'Unità divina, sia che ci si ispiri a certe pagine platoniche, sia che ci si Ispiri alla visione ontico-teologica e animistica di origine stoica, ove dalla dispersione dell'immediatezza sensibile, posta la divinità una come condizione della pensabilità del reale, si torna all'Uno, comprendendo come tutto in Dio ·riposi ed abbia la sua ra- gione. E tale comprensione è quella "conoscenza," la gnosi che salva, mediante cui, alla fine, è dato all'uomo, essere bifronte, da un lato volto alla sensibilità e perciò al molteplice, dall'altro all'unità - per cui in questo senso nell'uomo che attua in sé conoscenza s'incentra l'universo - è dato all'uomo d'indiarsi, di cogliere in sé l'universo e Dio, divenendo uno in Dio. Tale - si conclude il Pimandro - è la fine felice per coloro che pos- seggono la conoscenza (la gnos•): divenire Dio. Ebbene, cosa tardi allora? Non vai adesso, che hai da me ereditato tUtta la dottrina, a farti guida di coloro che ne sono degni, sf che il genere umano, grazie a te, sia salvato da Dio? (Corp. Herm., I - Pimandro - , 26). E nell'Asclepio, ove si punta sull'Uno Tutto e sul tutto Uno, e sull'uomo che, in quanto capacità - sia pur per via intuitiva - di cogliere che l'Unità è molteplicità e la molteplicità è Unità, per cui l'uomo può ripercorrere la via all'in giu e- la via all'in su, facendosi centro dell'Universo, simile a Dio, si esclama: Gran meraviglia è l'uomo, o Asclepio, animale degno di venerazione e di onore, che prende la natura di un dio come se fosse egli stesso un dio (Asclepio, 6)•.. Solo tra i viventi, l'uomo è duplice. Semplice è una delle parti che lo compongono, quella che i Greci chiamano "essenziale" (oòat6>81jc;} e noi "formata a simiglianza del divino." Quadruplice è l'altra parte, quella che i Greci chiamano " materiale "(~ÀLx6v) e noi "mondana," di cui è fano il corpo, che racchiude la parte dell'uomo che abbiamo detto divina... (Asclepio, 7). Mediatore tra la divinità e gli uomini, Ermes Trismegisto, è la parola del dio, che simbolicamente, per via di segni, oscuri - ermetici - per chi sia preso dai sensi e volto verso il basso, rivela agli iniziati la 100    struttura dell'Universo scaturito dall'Unità del divino, esso stesso Uni- verso nell'unità divina, e la posizione che nel Tutto e in Dio ha l'uomo. Si capisce cos( come in molti scritti del corpus ·si sostenga che il dio uno è inconoscibile e indicibile (nel senso che abbiamo visto per Albino, Apuleio, Numenio), ch'esso da un lato possa esser detto lo stesso cosmo e dall'altro lato il Padre, il Bene, ilPoieta; che si possa sostenere che il primo Dio, il Padre indicibile, il primo Niis, sia ad un tempo il figlio, il secondo dio, il Niis, donde derivano gli dèi e le ,anime; che la materia considerata a sé sia il limite, la dispersione, l'insieme del male, il plèroma del male (7tÀ/jpea>(.Lot nj~ xor.x~: VI, 4); che l'uomo, in quanto anima e corpo, abbia una posizione centrale, per cui nell'uomo si riu- nisCe in unità l'universo tutto, onde l'uomo è simile a Dio; che senza bisogno di alcun salvatore, l'uomo possa, attraverso il suo stesso pen- siero (rivelazione della divinità), liberandosi dalla corporeità, o meglio comprendendo la corporeità, risalire, conoscendo, alla divinità, sempre tutta in atto, una in principio e una in fine. Taie la liberazione, che si attua attraverso la "gnosi" (evidentemente ben diversa dalla • gnosi" cosiddetta eretica). La pura filosofia, quella che non dipende che dalla pietà verso Dio, non deve interessarsi delle altre scienze, se non per ammirare come il ritorno degli astri alla loro prima posizione, le loro soste predeterminate e il corso delle loro rivoluzioni obbediscano alla legge del numero, e per giungere, mediante' la conoscenza delle dimensioni, qualità, quantità del mondo terre-· stre, delle profondità del mare, della forza del fuoco, delle operazioni e della natura di tutte le cose, condotta ad ammirare, ad adorare e benedire l'arte e l'intelligenza di Dio. Essere musico non in altro consiste se non nel sapere come si ordina l'insieme tutto dell'universo e quale ne sia la divina ragione, poiché quest'ordine, in cui tutte-le cose particolari sono state riunite in un tutto unico da una ragione artefice, produrrà una specie di concerto infinitamente dolce e vero, in una divina musica... La pura e santa filosofia consiste nell'adorare la divinità con anima semplice, con semplice cuore, riverire le opere di Dio, render grazie infine alla divina volontà, che, sola, è infinitamente piena di bene: tale la filosofia che non sia toccata da alcuna malvagia curiosità (Asclepio, 13-14). Questo l'oracolo di Erme$ Trismegisto, questa la religiosità - pio che la filosofia - degli scritti del corpus ermetico: una intuizione della realtà come vita, come· ordine, come bellezza, in cui si risolve anche il male.e il limite, qualora esso sia visto come un momento dell'ordine divino. E tale visione non è, naturalinente, esprimibile se non per sim- boli, per immagini, per figure. • Quando la nostra mente" - scrive il Garin discorrendo di Marsilio Ficino traduttore del Pimandro e degli 101    altri opuscoli teologici - "si rende conto che l'oggetto sentito non è che un segno, e l'oltrepassa, non raggiunge perciò il vero nella ridu- zione logica, che sarebbe al contrario un impòverimento, e quindi un allontanamento estremo. La verità si coglie afferrando con una visione mentale il numero e il ritmo, e cioè quell'anima degli esseri che l'ar- tista raggiunge nelle sue creazioni, ove non fa che tradurre l'atto stesso con cui il divino artista viene creando il tutto. Conoscere è vedere diret- tamente l'atto costitutivo di ogni ente reale, quella vita nascente che è la fonte onde ogni cosa scaturisce; perché in ogni cosa è la vita e l'anima, ossia il prolungarsi estremo di un raggio divino" (Immagini e simboli in M. Ficino, in Medioevo e Rinascimento, Bari, 1961 2, p. 302), entro cui è posto l'uomo, nella cui struttura "antologica va cercato il segno incancellabile di una dignità che lo distacca dalla fatale necessità del mondo materiale, dalla necessità terribile della morte: solo che la sua nobiltà è in fondo una nobiltà di nascita, non una conquista delle opere e un premio della virtu" (ib., p. 299). E cosi, rifacendosi al Festu- gière, ha con molta precisione sottolineato ancora il Garin: "Per quanto sia lecito, ed anzi opportuno, porre una chiara distinzione tra il Piman- dro e l'Asclepio e gli scritti teologici pa una parte, e gli innumerevoli trattati magico-alchimistici dall'altra, è pur vero che non si deve dimen- ticare la sottile e profonda parentela sotterranea che unisce i primi alla tradizione occultistica, astrologica, alchimistica dei secondi. E l'accordo è proprio nell'idea di un universo tutto vivo, tutto fatto di nascoste corrispondenze, di occulte simpatie, tutto pervaso di spiriti; che è tutto un rifrangersi di segni dotati di un senso riposto; dove ogni cosa, ogni ente, ogni forza, è quasi una voce non ancora intesa, una parola sospesa nell'aria; dove ogni parola ha echi e risonanze innumerevoli; dove gli astri accennano a noi e si accennano fra loro. E si guardano e ci guar- dano, e si ascoltano e ci-ascoltano; dove tutto l'universo è un immenso, molteplice, vario colloquio, ora sommesso e ora alto, ora in toni segreti, ora in linguaggio scoperto; - e in mezzo v'è l'uomo, mirabile essere cangiante, che può dire ogni parola, riplasmare ogni cosa, disegnare ogni carattere, rispondere a ogni invocazione, invocare ogni dio (com'è noto i termini di cui mi servo sono della tecnica astrologica: cfr. Tolo- meo, Tetrab., I, 15-16; Firmico Materno, VIII, 2)" (Garin, Magia e astrologia nel Rinascimento, in op. cit., p. 154). c) Gli «oracoli caldaici." Sotto questo aspetto, entro i termini di questa visione vitale è simpatetica dell'Universo da un lato e, dall'altro lato, della visione di un Universo malefico, retto da dèmoni decaduti e malvagi che stringono in leggi fatali (astrali) il mondo ("gnosi," 102    propriamente detta), assumono un loro particolare significato gli Oracoli caldaici (XocÀ8ocLx<i MyLoc), composti, sembra, da un certo Giuliano, vis- suto sotto Marco Aurelio, che fu per primo definito teurgo (&e:oupy6c; ). Secondo il Bidez (Vie de Julien, p. 369, n. 8) fu lo stesso Giuliano a farsi chiamare teurgo per chiarire che egli "agiva sugli dèi," li "faceva" (nell'Asclepio si legge che "deorum fictor est homo"), e che non era un semplice teologo, non parlava cioè solo degli dèi. La Suda riferisce che egli era figlio di un "filosofo caldeo," dallo stesso nome, che aveva scritto un'opera sui dèmoni, e che lo stesso Giuliano aveva scritto 0e:oupyn<<X (Theurghika = Libri teurgici), Te:Àe:cr·nx<X (Telestika = Perfezioni ecc.), A6yLoc 8' È1twv (L6ghia d' epòn = Oracolt). "Che questi oracoli in esametri fossero (secondo una congettura del Lobeck) appunto gli Oracula Chaldaica, sui quali Proclo scrisse iln ampio com- mento (Marino, Vita Procli, 26) è dimostrato, senza alcun dubbio, dal riferimento che si trova presso uno scoliasta di Luciano a -.a -.e:Àe:cr-.Lx<i 'IouÀLocvou & llp6XÀoc; U7tOfLVY)fLOC"(~e:L, o!c; o llpox6moc; civ-.Lq~&éyye:-.ocL ('le Perfezioni di Giuliano, che Proclo commenta e contro cui pole- mizza Procopio': Luciano, Ad Philos., 12, IV, 224, Jacobitz) e dal- l'affermazione di Psello secondo la quale Proclo 'si innamorò degli l~ (verst) chiamati MyLoc (oracolt) dai loro ammiratori, in cui Giu- liano espose le dottrine caldaiche' (Script. Min., I, 241, 25 sgg.): &e:o7tocp<X8o-.oc ('doni degli dèi': Marino, Vita Procli, 26). Da dove li abbia davvero ottenuti, non lo sappiamo... Naturalmente, è possibile che Giuliano li abbia falsificati, ma il loro linguaggio è talmente biz- zarro e gonfio, il loro pensiero talmente oscuro ed incoerente da sugge- rire l'idea dei discorsi pronunciati in stato di trance dagli spiriti guide dei medium moderni, piuttosto che l'opera meditata di un falsificatore. Anzi non sembra affatto impossibile, alla luce di quanto sappiamo della teurgia posteriore, che essi abbiano avuto origine dalle 'rivelazioni' di qualche visionario o di qualche medium estatico e che tutto il com- pito di Giuliano si sia ridotto a metterli in versi come afferma Psello (Script. Min., I, 241, 29), o la sua fonte Proclo. Il che corrisponderebbe alla prassi degli oracoli ufficiali, cosi come noi la conosciamo, e la tra- sposizione in esametri offrirebbe la possibilità di introdurre nella fila- strocca una parvenza di significato e di sistema filosofico. Nondimeno il pio lettore avrebbe avuto ancora molto bisogno di qualche spiega- zione o commento in prosa, e sembra che Giuliano abbia fornito anche questo (cfr. Proclo, In Tim., 246 f, 277 d; Marino, Vita Procli, 26; Damascio, II, 203, 27)" (Dodds, Theurg., "Journal of Roman Stu- dies," 37, 1947, ora in l Greci e l'i"azionale, trad. it., Firenze, 1959, pp. 337-8). Anche se difficile. è ricostruire la struttura degli Oracoli cal- 103    daici, liberandoli dai commenti di Porfirio, di Giuliano, di Proclo, sem- bra ch'essi si distinguessero in due parti. Innanzi tutto gli Oracoli (cfr. in Kroll; De oraculis chaldaicis, "Breslauer Philol. Abhand.," 1894) presentano una visione dell'Universo assai simile a quella di Numenio di Apamea, del Pimandro, in realtà di tutta la letteratura religioso-filosofica in chiave platonico-stoica, in forma molto vaga e contraddittoria nell'uso dei termini, piu che nell'intimo significato. Si pone una triade divina, costituita di tre intelletti - Or. Ch., pp. 12-22 Kroll, - di cui il primo è chiamato anche Padre, o Intelletto del Padre, mentre il secondo è intelletto in quanto determinazione dell'Intelletto primo, il quale intelletto primo perciò è e non è intelletto, e il terzo è tale in quanto dialetticamente risolve in sé il primo e il secondo intel- letto, costituendo l'unità vivente della realtà tutta (anima mundi), tutta proveniente dal primo Intelletto, il Dio inconoscibile in sé, che inteso come forza vitale (non a caso si dice che la sua essenzialità è fuoco), si manifesta negli intelligibili e quindi nelle cose. Il Padre ha in sé in forma compiuta tutte le cose e le ha date al secondo intelletto (p. 14 K.), [per cui] il primo fuoco non fa discendere la sua potenza fino alla materia con una diretta azione, ma mediante l'intelletto [secondo]: è un Intelletto, scaturito dall'Intelletto, che è l'artefice delmondo fatto di fuoco (p. 13 K.). Monade il Dio, diade è detto l'Intelletto secondo, perché possiede i "due caratteri, di avere in sé gl'intelligibili e di costituire sensibilmente i mondi" (p. 14 K.). Tutto il mondo dell'intelligibile, pensante-pensato, è perciò in Dio e in tal senso oltre l'intelletto secondo, per cui in Dio, in atto, forza vitale, si risolvono anche le cose, per cui, alla fine, il primo Dio è indefinibile. Esiste un certo intelligibile (TL V01j-r6V), che ti è necessario intuire con l'acutezza dell'intelletto, poiché se tu propendi il tuo intelletto verso questo intelligibile cercando di apprenderlo come un oggetto determinato, non riu- scirai a concepirlo. Esso è come forza di potente spada" che tutta brilla e irraggia ferendo gli occhi col suo intelligibile fulgore. Non è dunque con un violento sforzo che si deve concepire tale intelligibile, né tendendo allo estremo la fiamma dell'Intelletto, che tutto misura, tranne quell'Intelligibile. Bisogna tentare di afferrarlo non per diretta visione, ma, dirigendo su di lui il puro sguardo del tuo intelletto che ha volto le spalle ai sensibili, tendere verso l'Intelligibile un intelletto vuoto di ogni pensiero, finché tu giunga a conoscerlo, poiché esso sfugge alla determinazione dell'intelletto (p. 11 K.). Sf come un torrente che scorre, l'Intelletto del Padre (il primo Intelletto), nel suo infaticabile consiglio (~ouÀji: boulè), emetteva le idee del suo pen- 104    siero che assumevano tutte le forme: ed esse scaturivano tutte dalla stessa unica fonte. Dal Padre, infatti, veniva il consiglio e il compimento di tale consiglio. Le idee, cosi, mediante il Fuoco intelligente furono distribuite e distinte in altre idee intelligenti. SI, perché il supremo signore (&vot~) ha fatto preesistere al mondo dalle mille forme un immortale sigillo (-rUno~) intellet- tuale. E via via che il nostro mondo, nel suo disordinato cammino, cerca di seguire la traccia del sigillo, è apparso un ordine informato di bellezza, ornato delle idee di ogni specie. Unica ne è la fonte, e da essa le idee sca- turiscono rombando, pensieri intelligenti scaturiti dalla paterna fonte... La prima fonte, in sé perfetta, del Padre ha fatto scaturire queste primigenie idee (&.px_ey6vouç l8éotç) (pp. 23-4 K.). Nell'unità del primo Intelletto, dunque, si costituisce la dualità del secondo intelletto, ed in esso, termine medio, che articola (auvéx_et) i due primi intelletti, scaturisce il terzo intelletto, mediante cui il tutto si ricollega all'unità vivente, in una tensione (anima mund•) tra i due termini, per cui, non a caso, negli Oracoli si legge che l'anima è da un lato intelletto e dall'altro lato soffio divino, e perciò amore (lp(l)ç ), consistente appunto nella tensione, nella ricerca della propria imma- gine rintracciabile ovunque, e mediante cui l'anima torna a identifi- carsi col tutto, cioè con il Dio vivente, fuoco luminoso e seminale, da cui scaturisce tutta la luce, i semi di tutte le cose ("Quanto alla scin- tilla dell'Anima, avendola formata mescolando due elementi accordati, l'Intelletto e il soffio divino, il Primo Intelletto vi aggiunse il casto amore, augusto legame che unifica tutte le cose e le sorpassa" : p. 26 K.). La suggestione degli Oracoli caldaici non sta tanto nel tentativo di una ricostruzione logico-antologica del tutto, quanto nella visione finale di un tutto vivente e animato dal Dio primo, logicamente ignoto, ma ovunque presente nei suoi infiniti raggi, egli punto luminoso, esistente nella totalità della luce, e di cui tutte le cose sono fatte, limiti, se prese a sé, ma che si sciolgono nel primo fuoco, qualora vengano ricon- dotte alla loro unità dalle anime che in ogni cosa possono ritrovare la propria immagine. Si vede bene cos( il significato dell'altro aspetto degli Oracoli, la strutturazione di un culto del sole e del fuoco (cfr. pp. 53 sgg. K.), accanto all'evocazione magica, per via di amore, degli dèi (le luci), mediante cui, per simpatie, operare sugli dèi stessi e sugli spiriti (teurgia), in una riproduzione della magia della natura, tutta vivente di segreti accordi e. simpatie, dalla cui scoperta dipende la comprensione del tutto, e, quindi, di Dio. Di qui, anche, il tema fon- damentale di tutta la sapienza magica, che verrà discussa a lungo dai commentatori neoplatonici degli Oracoli caldaici (da Porfirio a Giam- blico, a Prodo) e cioè la possibilità, entro i termini della simpatetica 105    universale, poste precise relazioni mimetiche tra ,tutte le cose, di far convergere su noi le potenze divine, le luci supreme, mediante la ras- somiglianza. Di qui l'importanza di saper costruire cose, o statue, imma- gini di dèi, che, se davvero si riesce a far simili alle potenze evocate, alle anime desiderate, richiamano, sempre entro i termini della cognatio e della simpatia universale, quelle potenze stesse. Sotto questo aspetto sc;mbra evidente in che senso si può parlare di due magie, una quella naturale, fondata sul motivo dell'unità vivente del tutto e consistente in un rintraccio dei nessi, delle simpatie, dei segni, dei simboli, dei rap- porti correnti tra le cose, tra le luci, tra gli astri, nell'unità di un tutto il cui fondamento è la seminalità; l'altra, fondata sempre sulla stessa concezione, ma, diciamo, artificiale, operativa, cioè volta a costruire.. immagini, fare dèi (l'efficere deos dell'Asclepio), statuette e cos{ via, mediante certe precise tecniche (ricavate da antichi rituali egiziani della tradizione magico-alchimistica) con cui evocare l'anima, le potenze di- vine, rispecchiarle (di qui anche la suggestione degli specchi e perciò stesso degli astri: cfr. anche Apuleio, De magia, 13 sgg.), per dominarle essendo da esse dominati. Dirà Proclo: I maestri dell'arte ieratica hanno scoperto in base a quello che avevano sott'occhio, il modo di onorare le potenze superiori, mescolanl;lo taluni ele- menti ed altri togliendone in misura appropriata. Se mescolano, è perch~ hanno osservato che ognuno degli elementi separati possiede qualche pro- prietà del dio, ma non basta per evocarlo; cosf mescolando un gran numero di elementi diversi, uniscono le influenze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono un corpo unico simile all'unità precedente la disper- sione dei termini. Cos( fabbricano spesso, con tali mescolanze, delle imma- gini e degli aromi, impastando in un medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo artificialmente tutto quello che la divinità comprende in s~ per essenza, riunendo la molteplicità delle potonze che, separate, perdono ognuna la propria efficacia, e che, invece, riunite, si combinano per ripro- durre la forma del modello" (da Festugière, La révél., cit., I, pp. 134 sgg.; an- che Garin, Elezioni e problema dell'Astrologia, V Conv. Int. St. Uman., 1960). Sotto questo aspetto assai vasta fu l'influenza degli Oracoli caldaici, insieme a quella esercitata dal corpo degli scritti· ermetici, soprattutto nell'àmbito degli interpreti del pensiero di Plotino. Diremmo, anzi, che, se Plotino, nella sua polemica da un lato contro la visione di un dio trascendente e ignoto, difficilmente riconducibile alla sua funzione di fonte e causa di tutta la realtà (certo gnosticismo e certo rarefatto platonismo tipo Attico) e dall'altro lato contro la concezione di un dio persona, libertà, e volontà (altrettanto assurdo), decisamente accolse 106    l'aspetto della magia che dicevamo naturale o razionale, pur respin- gendo l'altro aspetto della magia, quello teurgico, non determinabile scientificamente e irrazionale, il peso dato, nell'interpretazione che det- tero di Plotino già Porfirio ma piu decisamente Giamblico, alle sirni- glianze, ai vincoli, alle simpatie, può essere l'indice della possibilità di vedere in Plotino una precisa concezione logico-naturalistica, piu che logico-matematica, che punta su di una comprensione del tutto in termini platonico-stoici, in una esatta deduzione logica. Gli avvenimenti dell'Universo si svolgono non già in virtu di ragioni seminali, ma in virtu di potenze formali che abbracciano in sé persino quelle pot~nze che stanno al di sopra di ciò che si regola sulle ragioni seminali; perché nelle ragioni seminali non è inerente nulla di quanto esorbita dalle ragioni seminali stesse né del contributo che la materia apporta al tutto, né delle vicendevoli influenze esercitate tra cosa e cosa... Quanto ai segni, essi non hanno il fine prefisso e diretto di preannunciare; no, ma poiché le cose avvengono nel modo descritto, l'una trae dall'altra il suo presagio; poiché, siccome l'universo è uno e appartiene all'Uno, cosi una cosa può ben essere conosciuta dall'altra; dal causato la causa, e il conseguente dall'antecedente e il composto da una delle sue parti costitutive... Ora, se è esatto questo nostro argomentare, i dubbi, oramai, potrebbero cadere - persino quello che si riferiva alle pretese influenze maligne originate dagli dèi, per le seguenti ragioni: non sono "decisioni" le fonti degli influssi, ma tutto che viene di lassu - nel mutuo cozzo tra lè parti, conseguenza dell'unica vita universale - sorge per necessità di natura; le .cose, di per se stesse, aggiun- gono un contributo non scarso agli accadimenti; e mentre gl'influssi, presi ad uno ad uno, non sono maligni, in quel loro mescolarsi generano qual- cosa di nuovo; il vivere, inoltre, esiste non già per amore di un· singolo ma in funzione del tutto e, infine, la natura sottostante esperimenta qualcosa di diverso da quel che aveva ricevuto e non riesce a dominare la influenza ricevuta. Ma le influenze magiche, come spiegar/e? Con la simpatia: re- gnano, nativamente, un accordo tra le cose affini e un contrasto tra le estra- nee; inoltre, pur nella loro variopinta ricchezza, le potenze diffuse contri- buiscono tuttavia all'unità del vivente universale. E, difatti, pur senza alcun ordigno magico, quante cose sori come tratte per incantamento! Ond'è che vera magia, in seno all'universo, sono da un carito l'Amore e dall'altro la Contesa. Incantatore primordiale e stregone, egli è colui che gli uomini conoscono proprio bene onde ricorrono, per avvalersene, gli uni con gli altri, ai suoi filtri ed ai suoi incantesimi. E, per certo, poiché essi natural- mente amano e gli ingredienti che eccitano amore hanno una forza d'attra- zione tra di loro cos{ è venuto fuori l'aiuto dell'arte amatoria per mag{a, applicando, cioè, per contatti, a differenti persone ingredienti differenti, che hanno il potere di trarle insieme e contengono la bramosia erotica nella loro composizione; e cod essa annoda un'anima con l'altra come chi legasse tra di loro piante staccate. E si avvalgono, per di piu, di figure efficaci, anzi 107    atteggiandosi in una determinata posizione attirano su se stessi, senza ru- more, inBuenze, appunto perché stando all'unità universale, agiscono su di un unico centro; in realtà a voler supporre un mago siffatto fuori dell'uni- verso, egli allora non potrebbe esercitare né'le sue suggestioni né i suoi scongiuri per quanti incantesimi o esorcisttli. egli faccia; ora però, poiché non lavora, per cosf dire, in un luogo diverso dal mondo, ~ in grado di attrarre, sapendo per qual via una cosa si trasporti verso l'altra in seno al vivente... In realtà si attuano quei suoi esaudimenti solo perché tra parte e parte dell'Universo segua la simpatia, come in una corda tesa: questa, infatti, scossa dal basso, ha una vibrazione anche in cima; anzi, tante volte, mentre vibra l'una, l'altra ne ha, per cosf dire, il senso, per legge di con- sonanza, in quanto, ci~, ~ accordata anch'essa a un'unica intonazione; che se, da una lira, la vibrazione si propaga finanche in un'altra - sino a tal punto giunge la virt6 della simpatia! - , ebbene, anche nell'Universo, do- ttli.na un'armonia unica, pur se risulti da contrari, vero ~ ch'essa nasce tanto dai simili quanto dai contrari onde in tutto regna l'affinità... (Plotino, Enn~adi, IV, 4, 39-41). Lo "stoicismo" di Marco Aurelio. La consapevolezza profonda e meditata che la realtà è quella che è, che tutto avviene come deve avvenire, che l'uomo, momento di questa realtà, è tale entro l'arco della sua vita, per cui, umanamente, prima di nascere e dopo la morte, è il nulla, portava un cinico come Demonatte a sostenere che l'unica via di salvezza è per l'uomo, abbandonati ogni timore e speranza, risolvere se stesso esclusivamente sul piano umano, realizzando una misura, che non è data, ma che è frutto, volta a volta, del nostro stesso medi- tare. La stessa consapevolezza portava, nella stessa epoca, un uomo come Marco Aurelio (121-180),27 imperatore romano (dal161), cinicamente, ad 27 Nato a Roma, sul Celio, il 26 aprile 121 d. C., da M. Annio Vero, originario della Spagna, appartenente a una nobile famiglia, che aveva ricoperto alti uffici, e da Domizia Lucilla, gli furono imposti i nomi dei due nonni, M. Annio Catilio Severo. A ~i anni Adriano lo designò a far parte dell'ordine equestre, a otto del collegio dei salt. Rimasto a nove anni orfano del padre, adottato dal nonno paterno, che si occupò, insieme al bisnonno materno, della sua educazione e che gli dette il nome di M. Annio Vero, fu avviato agli studi di filosofia da Diogneto. Esaltatosi per la filosofia, come costume di ·vita, si sottopose a privazioni, vivendo in forma austera e rigidissima. Adriano, che aveva per il giovinetto una viva simpatia e che molto apprezzava le sue doti, giuocando sul suo nome (M. Annio Vero), lo chiamava "verissimo." Nel 136 si fidanzò con la figlia di L. Ceonio Commodo, designato dall'imperatore Adriano a suo successore. Alla mprte di Ceonio (138), Adriano adottò Antonino, zio di Marco Annio Vero, a patto che Antonino adottasse a sua volta il figlio e il nipote di Ceonio. Morto Adriano nel luglio del 138, Antonino Pio non solo adottò il figlio e il nipote di Ceonio, ma anche Marco, che assunse il nome di Marco Elio Aurelio Vero; cosi venne presto indicato dall'impera- tore come suo successore. Marco ebbe il titolo di Cesare, fu nominato questore nel 138-139, console nel 140. Nel 145 sposò Faustina, figlia di Antonino Pio. Marco Aurelio si preparò allora con coscienza e serietà di studioso al suo "mestiere" di imperatore. Con il celebre Frontone studiò retorica latina, con Erode Attico retorica greca. Se da Diogneto, com'egli stesso dice (Ricordi, 1, 6), fin da giovane aveva sentito avversione a perseguire cose stupide e vuote, una gran diffidenza per le chiacchiere di fattucchieri e di maghi, per incantamenti e scongiuri, e aveva .preso familiarità con la filosofia, l'amore per le parole libere e franche; in questo periodo, frequentando lo stoico Apollonio, aveva appreso la capacità di non affidarsi al caso,. il suo sguardo rivolto soltanto e incessan- temente a vie razionali, la capacità di non impazientirsi dovendo dare direttive a qual- cuno (Ric., I, 8). E se da Frontone aveva appreso di quanta invidia, di quanta malizia, di quanta ipocrisia sia formata la tirannide, e che i patrizi sono persone degne di poca considerazione (Ric., I, Il), dallo stoico Giunio Rustico (figlio o nipote di Giunio Rustico Aruleno, due volte console, collega nel 119 di Adriano nel suo terzo consolato, una volta praef~ctus urbis) aveva appreso a non sentire piu inclinazione dannosa per le ambizioni dei solisti, l'avversione a comporre trattati su problemi astratti, a declamare pretenziosi discorsi per esortare alla filosofia (chiare frecciate contro Frontone), l'avversione alla retorica, alla poesia, al parlare forbito, l'abitudine a leggere con molta attenzione, a non accontentarsi di capire press'a poco, l'essersi incontrato con i ricordi di Epitteto, che gli furono donati da Giunio (Ric., l, 7). In questo stesso periodo Marco Aurelio frequentò il platonico Alessandro, il peripatetico Claudio Severo (console nel 146), il giurista L. Volu- sio Meciano, gli stoici Claudio Massimo (console, legato, procuratore imperiale) e Cinna Catulo, il platonico Sesto di Cheronea, nipote di Plutarco (cfr. Ric., I, pauim). - Morto Antonino, Marco, il 7 marzo 161, sali al trono col nome di Marco Aurelio Antonino. Egli si associò al trono il fratello adottivo, che prese il nome di Lucio Annio Vero. Dopo gli anni pacifici di Antonino, gli anni in cui governò Marco Aurelio furono estre- mamente gravi per l'unità dell'Impero. t storia nota. Marco Aurelio dovette combattere in Oriente contro i Parti, mentre, sotto la spinta dei Goti, popolazioni sarmatiche e ger· maniche sfondarono le difese romane e penetrarono in Rezia, nel Norico, in Pannonia, in Mesia. I Quadi e i Marcomanni, varcate le Alpi, assediarono Aquileia e sconfissero l'esercito romano. Marco Aurelio e Lucio Vero mossero contro i barbari. Lucio mori nel 169; nel 175 Marco riusd a respingere gl'invasori oltre la sinistra del Da.nubio. Marco Aurelio fu quindi costretto a ristabilire ordine in Oriente, mentre di nuovo Marcomanni e Quadi insorgevano. Accorso contro di loro, Marco Aurelio mori, presso Vindobona (Vienna) nel 180. A lui successe il figlio Commodo. Di Marco Aurelio davvero si può 148    accantonare qualsiasi dottrina sulla struttura e il senso della realtà, tutta, in sé, né buona né cattiva, fluida e mutevole, senza significato. Le cose sono avvolte in un certo cotale velo, da sembrare a filosofi non pochi e non certo volgari del tutto incomprensibili. E persino gli stoici le ritengono ben difficilmente comprensibili. Ogni ipotesi del resto è passibile di modificazione. Dove, infatti, è colui che non debba mutare qualche conclusione? Passa in rivista dunque cose ed oggetti: ben piccola la loro durata; ben piccolo il loro valore... Passa quindi in rivista le abitudini dei cuoi contemporanei: modi di vivere che a fatica si riuscirebbe a tollerare pure in chi è piu gentile e educato, per non dire che anche costoro riescono appena a sopportare se stessi. In tenebra si grande, in tanto sozza condizione, in si grande flusso di cose e di tempi, del moto e delle cose trascinate al moto, quale realtà può venir pregiata o può in qualche modo incontrare il nostro entusiasmo? Non lo so immaginare (Ricordi, V, 10). Tutto è opinione: chiaro è a qu~sto proposito il detto del cinico M6nimo... (Il, 15). Il tempo dell'umana vita è un punto; la sua materiale sostanza un perenne fluire; la sensazione tenebra; la compagine di tutto l'organismo, immanca- bile corruzione; il principio vitale, l'aggirarsi di una trottola; la fortuna non si può indagare; la gloria, cieca. In breve, le funzioni dell'organismo sono un fiume; quelle dell'anima, sogno e vanità; ed è guerra la vita, viaggio di un pellegrino; oblio la voce dei posteri. E, adesso, a che cosa ti puoi affidare? (Il, 17). Tutto dura un giorno, e chi ricorda e chi è ricordato (IV, 35; cfr. anche IV, 33). Tutto avviene per alterna mutazione... Ogni cosa è in un certo qual modo seme di un'altra che da quella dovrà prove- nire... (IV, 36). La totalità dei tempi è quasi un fiume, formato dagli eventi; corrente che a forza travolge. Non vedi? Le singole cose, appena venute, già sono trasportate via; un'altra cosa viene trasportata. E anche questa sarà portata via (IV, 43; anche VI, 15). Volgi lo sguardo sulle umane vicende, conscio della loro precarietà, del loro scarso valore: ieri, tanta boria; domani, mummia o cenere... (IV, 48; anche V, 33). Quanto poi alle cose della vita, quelle che appaiono tanto degne d'onore, sono vacuità, mar- ciume, piccolezze, cagnolini che si mordono l'un l'altro; ragazzini che rissano e che si divertono a rissare, poi ridono e subito finiscono col pian- gere... (V, 33). Nulla di nuovo: ogni cosa, sempre quella; e insieme ogni cosa rapidamente trapassa (VII, 1). Per altro verso, invece, quella stessa consapevolezza porta Marco Aurelio a rendersi sempre piu conto che un qualche significato da dare dire che governò filosofando, e filosofò go\'ernando, cercando di attuare quello ch'era stato l'ideale politico di molti pensatori stoici. Oltre ad alcune lettere in latino, a Frontone e ad Erode Attico, di Marco Aurelio restano frammenti di suoi discorsi, e 12 libri di sue riflessioni, in greco: T« c!<; éotuT6 (Tà ~is h~aut6n}, A se st~sso, andati sotto vari titoli: Colloqui con s~ st~sso, IUcordi, P~nsi"i, Note p"sonali. Furono scritti tra il 166 circa c il 180. 149    alla vita non proviene dal di fuori, né dalla contemplazione di un ordine dato e che solo sia da conoscere, ma da un continuo approfon- dimento di se stessi, da un continuo scavare·dentro ("Scava nella tua interiorità; dentro di te sta la fonte del bene": lv8ov axoc1t"t'e:' !v8ov ~ 7t'l)~ -rou à.yot-3-ou: VII, 59), mediante cui sapere, volta a volta, come comportarsi, e rivelante nell'uomo una capacità di misura che dimostra la sua libertà, anche in un mondo che è quello che è, in cui illusione e fanatismo è credere di poterlo modificare. E adesso, a che cosa ti puoi affidare? A una sola, a un'unica cosa: la filosofia. E questa ti permetterà di conservare l'interiore dèmone senza violenza e danno: signore dei piaceri; capace di agire senza intraprendere nulla a caso; immune da menzogna e da simulazione; libero dal bisogno che altri faccia o no qualche cosa. Ancora, questo dèmone dovrà accettare gli eventi e tutto quello che gli càpita, convinto che tutto viene di là, da un luogo misterioso da cui egli pure un giorno è venuto... (II, 17). Il nostro reggere con intellettuale luce d'azione... è l'esperienza del divino e dell'umano (III, 1). [Indagando se stessi, scavando nella nostra interiorità, scopriamo noi stessi quale attività egemonica] e l'egemonico è ciò che eccita se stesso e si rivolge e si rende quale vuole... (V, 8), [per cui] unicamente buone o cattive sono le cose che dipendo_no da noi... (VI, 41). In tale senso vicinissimo a Epitteto, da Marco Aurelio a lungo medi- tato e piu volte citato (cfr. l, 7, 8; IV, 41; VII, 19, 2; XI, 34, 36), Marco Aurelio poteva trasformare il primo atteggiamento di abbandono, di disprezzo e di nausea per le cose, vane tutte, in un atteggiamento oppo- sto - che non modifica nulla se non se stessi - , in un amore per tutte le cose ("l'unica cosa che rimane a chi è buono, come propria caratte- ristica, è l'amore, l'atteggiamento di un'anima serena e tranquilla che accolga gli eventi a lei destinati"; III, 16), in un rispetto per ogni· uomo, che in quanto tale ha la capacità di trasfigurarsi da cosa accanto a cosa, da mezzo in fine, di assumere entro i termini dei rapporti umani, di volta in volta, il proprio posto, costruendo se stesso ("ogni uomo è mio affine, non certo per identità di sangue o di seme, ma in quanto partecipe di una mente e d'una funzione che è divina..., la funzione, !"egemonico,' cui spetta il sovrano dominio": Il, l, 2; "ama, dunque, ma davvero, gli uomini cui la sorte ti ha posto accanto" : VI, 39). E se ciò, ripetiamo, non modifica la realtà, modifica il nostro modo di atteggiarsi verso gli altri, in una continua consapevolezza del nostro dovere (formale), che, in conclusione, può, di volta in volta, modificare lo stesso umano rapporto, ogni volta nuovo. Vane e senza significato le cose, vani e senza significato gli uomini (se presi a sé, finché restano· 150    presi dalle cose, dispersi e molteplici, le stesse cose e gli uomini - iden- tici, finché esteriorità - assumono un senso quando, attraverso se stessi, scoprendo sé come razionalità, cioè come capacità ordinatrice (egemo- nico) e come misura, si comprende delle cose e degli uomini la vanità e l'insignificanza, per cui tutto, insignificante in quan•o esteriorità, assume un suo posto, un suo senso, in quanto interiorità, entro i termini della nostra opinione. In nessun luogo piu che nell'anima, con maggior tranquillità, con piu facilità, un uomo può ritirarsi... [e troverà pace]. E con questa pace voglio intendere disposizione di ordine perfetto (IV, 3). Di tutte le cose devi scor- gere la volgarità e quella loro magnificenza, per cui appaiono tanto impor- tanti, la devi togliere via... (VI, 13). Bisogna sapetsi valere di chi è signore della propria anima [l'egemonico o il divino che è in noi], per opera del quale l'uomo non può essere toccato dal piacere, non può essere vulnerato da nessun dolore, né colpito da nessuna violenza ... ; pronto ad accogliere amoroso, con l'anima tutta quanta, quello che accade e quello che gli viene assegnato, tutto... Quest'uomo sa che in suo potere è soltanto la propria interiorità e pensa senza interruzione alle cose proprie, quelle che l'uni- versale connessione degli eventi gli arreca... In realtà il destino a ciascuno attribuito viene portato a uguale mèta dal destino universale, e parimenti a uguale destino procede. Tiene ancora presente nel ricordo che quanto pos- siede razionalità gode di natura profondamente affine; che è proprio del- l'uomo prendersi cura di ogni uomo... (III, 4). Togli il giudizio della tua mente e sarà tolto il "sono stato offeso"; togli il "sono stato offeso" e sarà tolta l'offesa (IV, 7). Se provi dolore per qualche offesa che è fuori di te, non questo fatto singolo precisamente ti turba, bensf il giudizio che tu vieni facendo su quello (VIII, 47). O meglio, in sé non esistono né un'interiorità né un'esteriorità, ma interiorità ed esteriorità sono due modi diversi di atteggiarsi di fronte alla stessa realtà : irrazionalmente (e allora siamo presi dalle cose, deter- minati, passivi, dispersi); razionalmente (e allora tutto dipende da noi, nella consapevolezza che ragionevolmente il tutto si organizza razional- mente; ha una sua ragion d'essere). E a ciò si giunge non dal di fuori, non accettando supinamente, scolasticamente, una o altra dottrina, ma indagando, scavando se stessi, pensando - e tale è stato l'insegnamento piu alto di un Seneca e di un Epitteto - , non attraverso una sapienza già data, o librescamente assunta (dice Marco Aurelio a se stesso: "lascia andare i libri, non è piu tempo di simile cura": II, 2; " scaccia quella sete di libri, se non vuoi giungere a morte mormorando, ma vera- mente sereno e grato agli dèi dal profondo del cuore": II, 3; "Da Rustico ho imparato l'avversion~ a comporre trattati su problemi astratti, 151    a declamare pretenziosi discorsi per esortare alla filosofia, a farmi vedere uomo intellettuale e studioso, benefico solo per colpire le menti altrui; l'avversione alla retorica, alla poesia, al parlare forbito": I, 7); ma attra- verso una sapienza frutto di quello stesso meditare ("da Apollonia ho imparato il tono libero del mio carattere... quel mio sguardo rivolto soltanto e incessantemente a vie razionali" : l, 8), che scopre all'uomo come l'uomo è pensiero, razionalità che è tale in quanto esercizio, che costruisce sé mediante lo stesso pensare. Di qui, anche la forma letteraria dell'opera di Marco Aurelio, che non è affatto un trattato, né una doxografia, né un'esposizione logico- dottrinaria, né un insegnamento ("se da: Rustico ho imparato l'avver- sione a comporre trattati su problemi astratti..., se da Sesto ho impa- rato ad esser ricco di dottrina senza farne continua mostra": I, 7, 9), ma la presentazione - unica forma d'insegnamento - del proprio ripensamento, del proprio meditare, del continuo discorso a se stesso (èis heautòn). Marco Aurelio, cosi, nei termini del dovere formale del- l'uomo (ciascuno, meditando su se stesso, assume il posto che gli com- pete nell'ordine sociale, costituendo quell'ordine), cerca di determinare il proprio posto che natura e sorte gli hanno dato, rendendosi conto del proprio dovere di imperator~ e della funzione che nell'ordine sociale gli compete, per il bene della comunità: e ciò è dovere di ogni uomo, per quella comune ragione che ci fa tutti fratelli ("a Severo, mio fratello, debbo anche l'aver potuto conoscere per mezzo suo Tdsea, Elvidio, Catone, Diane, Bruto, e l'aver potuto far sorgere in me il desiderio di un governo, in cui la legge abbia vigore per tutti; informato, questo governo, a uguaglianza e a libertà di parola, un regno capace di rispet- tare per suprema ragione la libertà dei sudditi" : I, 14}, giorno per giorno. E.un diario è, appunto, il libro di Marco Aurelio, non a caso intitolato -ra e:tç lotu-r6v (tà èis heaut&n), cioè a se stesso, in genere tradotto con Colloqui con se stesso, o con Ricordi e Pensieri, o Note personali. L'opera, che si divide in 121ibri, non fu scritta tutta insieme, né secon4o l'ordine dei libri quali noi leggiamo (sembra che il I sia stato composto per ultimo, mentre i libri II, III e XII siano stati scritti per primi: certo, l'insieme, tra il 169 e il 180; Marco Aurelio era stato nominato imperatore nel 161, mori nel 180, e gli anni tra il 169 e il 180 furono i piu gravi del suo regno, in guerre continue, in cui egli dovette assu- mc;rsi le piu alte responsabilità per sé e per l'impero, di cui si sentiva il servitore). Il filo conduttore dei Ricordi di Marco Aurelio sta proprio in questo suo sforzo continuo di chiarire sé a se stesso, attraverso cui cogliere, di volta in volta, ciò che a se stesso compete, imparare a essere uomo, a compiere il proprio ufficio consapevolmente ("non agire mai 152    contro il tuo volere; e nemmeno senza proporti quale mèta un comune bene, senza opportuna ponderazione; né, d'altra parte, dubitoso e in- certo... Quel Dio che dimora dentro, in te, sia il tutore di un uomo virile, venerabile per gli anni, conscio di una sua naturale politicità, romano, imperatore, già pronto per il suo posto...": III, 5). D'altra parte, se, stoicamente (epitettianamente}, saper pensare è realizzazione piena della verace natura dell'uomo (per cui primo dovere dell'uomo è imparare a pensare} e saper pensare è costituire in armonia e ordinatamente le proprie impressioni, per cui quello stesso mondo che appare nell'immediatezza sensibile e dispersa disordinato, indivi- dualmente insignificante e senza senso (o, per altro verso, prendendoci unilateralmente, ci determina dispersivamente, per cui patiamo la realtà quale appare, molteplice e senza senso, dandole un significato, un valore che non ha), si risolve, invece, in quanto razionalmente ordinato e non piu visto individualmente, unilateralmente, come unità, ove tutto ·ha un suo giusto posto, che, dunque, dipende da noi, dal nostro modo d'essere ragionevoli o meno. Ogni natura basta a se stessa, quando procede sulla retta via. E una natura razionale procede sulla retta via quando non dà il suo assenso a immaginazioni menzognere e oscure; quando dirige i propri impulsi alle sole opere che hanno quale mèta il bene comune; quando ricerca o evita quelle cose sole che sono in nostro potere; quando ama tutto quello che le viene assegnato dalla comune natura. Ogni singola natura è parte di quella comune a quella guisa che natura di foglia partecipa alla natura della pianta; con la sola differenza che in questo caso natura di foglia è parte di una natura insensibile, irrazionale, e che può subire coercizione; invece natura d'uomo è parte di una natura che non ammette coercizione, intelli- gente e giusta, dato che distribuisce ai singoli, con uguale criterio e secondo il merito, parte di tempi, di sostanza, di causa, di attività, di vicende. E devi compiere la tua osservazione non isolando per ogni fatto un singolo parti- colare, rispetto ad un altro particolare uguale, ma considerando nel loro complesso particolari di un singolo fatto e in relazione a quelli d'un altro, pur nel loro complesso (VII, 7). Non solo, ma poiché l'uomo, attraverso il suo stesso pensare, scopre sé come attività unificatrice, come ragione che è tale non in sé, ma in quanto organizzazione di sé, come attività egemonica di un se stesso, molteplicità e passioni - non a caso Marco Aurelio riprende il vecchio termine stoico "egemonico" per intendere la razionalità - realizza- zione del proprio soffio vitale (pnéuma) in un ordine e in una misura delle passioni, in cui, appunto, consiste la razionalità, nulla vieta di fare l'ipotesi che la stessa essenza del tutto, la sua natura, il divino, 153    sia questa stessa forza vitale che si realizza ordinando il tutto in unità, socievolmente ("la Mente dell'universo ha carattere socievole": 6 -rou 15ì-.ou vou~ xotvwvtx6~: V, 30), e di cui, dunque, il nostro "ege- monico" è un momento, un aspetto, mediante cui non solo si è capaci di porre ordine in sé scoprendo attraverso sé l'ordine e, perciò, la provvidenza del tutto ("o una cosa o l'altra: confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità, ordine, provvidenza": VI, 10), ma anche, accettando consapevolmente il proprio posto - e ciò spetta a ciascuno - di rispettare gli altri, riconoscendo negli altri se stesso, la propria razio- nalità, in un amore di sé che è amore degli altri (socialità), in un amore del tutto che è amore di Dio. L'umanità steS&a, dunque, in quanto razionalità, esiste in quanto ordine e unità consapevole, in cui ciascuno ha il suo posto e in cui ciascuno è uguale all'altro in quanto capacità razionale, in quanto in tutti, come razionalità, è una scintilla dell'unica razionalità divina che ci fa tutti parenti. Quell'uomo è mio affine, non certo per identità di sangue o di seme, bens{ in quanto partecipe di una mente e di una funzione che è divina (Il, 1). In un organismo unificato le membra del corpo hanno una determinata funzione; ebbene, la stessa funzione, pur separati l'uno dall'altro, hanno i viventi razionali, congegnati in vista di un'unica profonda collaborazione. Anzi, nconcetto di questo fatto ti sarà piu chiaro qualora tu ripetessi piu volte a te stesso: "Io sono membro di una schiera, schiera ordinata di creature razionali." Al contrario, se tu dici che ne sci soltanto una parte, non ancora con tutto il tuo cuore ami gli uomini; non ancora il far bene a qualcuno ti dà gioia completa. Parimenti, compi questo beneficio soltanto come cosa dovuta, non sci ancora convinto di far bene a te stesso (VII, 13). Ci sono due verità alle quali potrai volgere intento sguardo. La prima è questa: le cose non arrivano a toccare l'anima;. bensf rimangono fuori come sono; il turbamento proviene solo dall'interiore valutazione. La seconda: tutte queste cose che vedi, quanto rapidamente si mutano e piu non sono!... Se la facoltà intellettiva è comune per tutti; se la ragione, in quanto siamo razionali, è pure comune; se cosf è, la ragione, in quanto imperativa delle cose che si debbono fare o meno, è anch'essa comune; quindi anche la legge è comune; quindi siamo anche·cittadini, partecipi di wi'organizzazione statale, quasi una Città, uno Stato, insomma. In realtà nessuno potrà dire che tutto il genere umano partecipi a qualche altra città in tal modo comune a tutti. E di qui, da questa città universale, vengono a noi intelligenza, razio- nalità, legalità... (IV, 3, 4). Solo va sottolineato che ciò Marco Aurelio non pone come dogma, ma vi giunge attraverso la stessa riflessione morale, che, scoprendo l'es- senza dell'uomo, la sua natura come attività razionale, può far porre 154    come ipotesi che, appunto, lo stesso principio e fine del tutto è la razio- nalità, intesa come ordine e socialità. L'opzione di Marco Aurelio per la tesi di fondo dello stoicismo riflette chiaramente il significato della morale di Marco Aurelio intesa come conflitto, se vogliamo, tra il momento cinico e il momento stoico che si scioglie dalla sua rigidità antologica per divenire postulato e dovere morale, cui si giunge mediante la stessa riflessione sul nostro essere uomini, che costituisce e costruisce la nostra persona. E l'uomo resta, sempre, dilacerato tra una realtà che è quella che è, indifferente, insignificante, inutile, tra cui vi sono gli uomini, che sono quello che sono, ove tutto è monotono, noioso, ove si nasce e si muore, ove tutto non merita nulla; e una realtà che rivis- suta razionalmente appare ordinata e costituita secondo una piu profonda ragion d'essere, per cui quellà stessa realtà, quegli stessi uomini, pur rimanendo quali sono, un nulla, foglie che vanno, foglie che vengono ("fragili foglie anche i bimbi tuoi, fragili foglie anche questa gente che ulula..., fragili foglie per non differente condizione anche le stirpi desti- nate a ricever la fama dei giorni venturi...; ma poi vento le getta per terra e, successivamente, la selva altre, invece di quelle, ne genera; e fugacità di un istante a tutti è comune; ma intanto tutte queste cose tu vai perseguendo oppure fuggendo, proprio convinto che .la durata ne sia eterna; ancora un poco e chiuderai gli occhi, e per colui che ti accompagnerà al rogo, altri farà il lamento funebre": X, 34), li com- prendiamo come a noi vincolati, li vogUamo per quel che sono, li accet- tiamo volontariamente sapendo ciascuno giuocare la propria parte (Marco Aurelio la sua parte di Imperatore), in un rispetto delle varie parti, che è rispetto della comune ragione, che ci fa tutti fratelli. L'uomo, dunque, che è uomo in quanto ragione, cioè in quanto capacità di portare ordine e misura in sé,·di volta in volta obbietti- vando il valore delle cose, sapendo ciò che valgono - né molto né poco - non facendosi prendere dalle cose stesse, è ·tale in quanto è già in se stesso armonia di una molteplicità, è società, ove non una parte vale piu dell'altra, .ma sono tutte uguali nell'unica ragione ("egemonico") che le articola. Sotto questo aspetto anche gli altri (tali finché si resta sul piano del sensibile, dell'immediatezza, della passione, del dare piu valore ad una piuttosto che ad altra cosa) sono noi stessi, per cui in essi vogliamo noi; cioè, appunto, la comune razionalità che ci fa sociali, membri di un'unica città ("d'altra parte, tu sei uomo pro- teso a compiere, comunque sia, il bene dell'umana comunità" : XI, 13; "o uomo, fosti cittadino di questa grande città; qual differenza per te, se per tre o cinque anni?": XII, 36; "siamo nel mondo per reci- proco aiuto, come piedi, come mani, come palpebre, come i denti di 155    sopra e di sotto in fila; in conseguenza è contro natura ogni azione di reciproco contrasto": Il, 1). L'amore per gli altri- amore per noi- non è, dunque, un amore in funzione di un aldilà, di un premio, di un Dio che cosi vuole, di averne indietro riconoscenza o che sia (cfr. VII, 73), ma è un amore che si risolve tutto entro i termini dello stesso orizzont~ umano, in un desiderio e in una volontà di costruire un mondo umano quale dovreb- b'essere per natura, cioè razionalmente ("sempre si ricordino le ragioni con le quali fu dimostrato che l'universo è come una città": IV, 3). Nulla individualmente eterno, ché tutto, l'uomo compreso, sia come corpo, sia come forza vitale (nei suoi tre aspetti: facoltà egemonica e coscienza di sé, il dèmone proprio, soffio vitale e anima: cfr. Il, 2), si trasforma, riemerge, ritorna al tutto, unico.eterno; in tale consapevo- lezza- lunga o breve che sia la vita: un nulla; sempre uguali le cose: vanità - dobbiamo essere noi stessi, simili "ad un promontorio contro il quale incessantemente si infrangono le onde e quello sta saldo, e si abbonacci intorno a lui la gonfia protervia del flutto" (IV, 49), sempre, nell'istante, nel presente ("solo l'istante presente è quello di cui l'uomo dovrà sentire privazione; effettivamente questo solo egli ha, e ciò che non/si ha non si può perdere" : Il, 14). Iri. effetto il passato non è piu e il futuro non c'è, e la vita autentica è fuori del tempo, nell'a~timo in cui siamo noi stessi. Se ogni cosa assume un senso nella nostra con- sapevolezza, nella retta ragione, non c'è un prima e un poi, ma, ap- punto, ogni volta, l'attimo, e la virtuosità è tale in ogni istante, né v'è passaggio da una minore ad una superiore virtu e viceversa. Noi siamo, dunque, impegnati tutti in ogni istante, siamo in ogni attimo chiamati a decidere di quello che siamo, e, appunto, in ciò si abolisce il timore e la speranza che sono sempre immagini, rappresentazioni passionali. In ogni momento, essendo noi figli del nostro meditare, che ci costruisce e ci genera quali siamo, risolviamo nel presente il nostro passato. Vi- viamo, perciò, insieme, nel tempo (i momenti del processo in cui si scandisce il ritmo della realtà) e nell'eterno (il presente) in cui la realtà tutta si risolve nella consapevolezza che ne abbiamo (tale l'in'terpre- tazione del motivo stoico dell'" eterno ritorno," che da temporale diviene atto della consapevolezza morale). Né buona né cattiva la realtà, essa è sempre quella che è, onde rimaniamo imperturbati, o, pur soffren- done o gioendone, sappiamo in che consistono tali sofferenze e gioie, per cui non siamo piu presi da esse, non le patiamo piu. E perciò, morti anche in questa vita, vivi solo in quanto razionalità, che ci perde o nel tutto o negli altri, piu non temiamo la morte, ché in ogni momento monamo. 156    Anche nell'ipotesi che tu debba vivere anni tremila e altrettanti anni diecimila, in ogni modo ricòrdati d'una cosa: ne~suno perde una vita diversa da quella che in quell'istante egli ha; né altra vita vive se non quella che in quell'istante egli perde. A egual punto, dunque, perviene una vita lun- ghissima e una vita del tutto breve. Vedi che il presente è per tutti uguale, ciò che via via si· allontana non è piu nostro, e il tempo che via via tra- scorre è istante brevissimo. Infatti, non si può perdere il tempo trascorso e nemmeno il tempo futuro; come sarebbe possibile che ci venisse tolto ciò che non si ha? Insomma di questi due fatti bisogna tener vivo il ricordo: il primo, che tutto perennemente è sempre d'un solo aspetto e che si aggira quasi in un cerchio e che non fa differenza in nulla se si dovranno vedere le medesime cose per cento, per duecento anni oppure per un tempo che sia senza limiti. Secondo fatto: chi muore carico di anni e chi muore subito perde una stessa cosa. Vedi bene che solo l'istante presente è quello di cui l'uomo dovrà sentir privazione; effettivamente, questo solo egli ha e ciò che non si ha non si può perdere (Il, 14). Se un uomo considera unico bene l'istante; se giudica'egual cosa aver compiuto azioni conformi a retta ragione in grande numero o in numero piu esiguo; se non fa differenza alcuna, questo uomo, del poter contemplare il mondo per un tempo piu lungo o piu breve; a costui certo la morte non costituisce motivo di paura (XII, 35). O uomo, fatti cittadino di questa grande città: qual differenza per te, se per tre o cinque anni?... È la medesima cosa che se il·capocomico che l'aveva chiamato, congedasse poi l'attore dal teatro. "Ma non sono arri- vato a rappr~sentare tutti i cinque atti: soltanto tre." Hai ragione; ma nella vita anche tre anni soltanto costituiscono l'intero dramma (XII, 36). Cia-· scuno vive questo istante ch'è presente: tutto il resto è vita trascorsa o incerta (III, 10). Cerca di mettere a profitto l'attimo presente con giusta ragione e con giustizia (IV, 26) (cfr. anche IV, 48]. Sono formato di fra- gile corpo e di anima. Per quanto riguarda il corpo, tutto riesce indifferente; del resto, neppure gli è concesso di far differenza alcuna. Alla mente, invece, sono indifferenti quelle cose che non siano sue operazioni. Quante cose invece dipendono dalla sua attività dipendono tutte dal suo poterei anzi, fra queste, a dir la verità, la mente si preoccupa solo di quante si riferi- scono al presente; le future e le trascorse sono operazioni sue già compiute e ormai indifferénti (VI, 32). Sotto questo aspetto Marco Aurelio è assai vtcmo non solo a certi motivi cinici, ma anche, indipendentemente dai presupposti fisici del- l'epicureismo, a certe conclusioni dell'etica epicurea. Ma forse il turbamento tuo proviene dal considerare la sorte a te asse- gnata nell'universale destino? In tal caso devi ricordare il dilemma famoso: o provvidenza oppure atomi... (IV, 3). O una cosa o l'altra: confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità, ordine, provvidenza. Se ha valore la prima opinione, perché tanto desiderio di indugiare in una mescolanza 157    dovuta al caso?... Oh! verrà certo anche per me il momento della disso- luzione, qualunque cosa io cerchi di fare. Se invece ha valore la seconda ipotesi, adoro, me ne sto tranquillo, nutro fiducia in colui che governa (VI, 10). Morte: o si tratta di dispersione, se vi sono gli atomi; o annienta- mento; o anche cambio di dimora, se ci attende un'altra unione (Sul piano umano uguali sono le conclusioni]. O necessità di prefissato destino, o posto dal quale non si può sfuggire; oppure provvidenza che può essere placata; oppure, infine, confusione senza guida alcuna, un regno del caso. Se si tratta di una necessità dalla quale non si può sfuggire, perché tanto ti occupi? Se invece c'è una provvidenza che può essere placata, rendi in tale caso te stesso degno dell'aiuto che dalla divinità può provenire. Da ultimo, se regna confusione senza nessuno che governi, stai contento perché in tem- pesta cosi grande per conto tuo hai in te stesso mente capace di guidare e condurre (XII, 14)... E che cosa c'è di diverso, allora, in certo senso, se ci fossero veramente gli atomi e le singole parti della materia? Insomma, se vi è un Dio, tutto procede bene; se un caso, ebbene non procedere tu pure a caso (IX, 28). Sembra chiaro, cosi, in che senso Marco Aurelio, tra epicureismo nei suoi fondamenti fisici -, e stoicismo - nel suo motivo della divinità intesa come razionalità, che nel suo costituirsi pone tutto come è bene che sia, in un ordine sociale - abbia optato per lo stoicismo, in cui la realtà, tutte le cose, nella loro necessità, nel loro inesorabile esserci, portano a postulare un principio razionale e provvidenziale e perciò stesso un fine, che diviene, umanamente, un dover essere, che, per altro verso, s'incentra, come vedevamo, nella nostra stessa interio- rità, nello stesso amore per noi e per gli altri, che è, appunto, amore per la razionalità comune, per il bene, per Dio, principio e fine. Tale la religiosità di Marco Aurelio: certo lontanissima dalla fede, dalla speranza, dall'amore dei Cristiani, e dal loro concetto di uomo, che, attraverso il Cristo si salverà e risorgerà personalmente, in eterno, in quanto uomo; tutto questo per Marco Aurelio è irrazionalità, antro- pomorfismo, orgoglio, disumanità, immoralità, prepotenza, asocialità, rottura contro lo Stato costituito a somiglianza della politèia cosmica. Entro i termini dello "stoicismo" si delinea bene, ora, il significato dato all'Impero da Marco Aurelio, e la funzione che nell'Impero deve assumere il sùo capo, che, in un'accettazione consapevole del suo posto, datogli dalla stessa ragion d'essere del tutto, deve tradurre in termini legali quella che è la stessa socialità dell'universo, la sua giustizia, in un'armonia che sia rispetto della funzione e del posto di ciascun citta- dino. Sotto questo aspetto si compie con M::rco Aurelio quella linea politica che, in una giustificazione dell'Impero di Roma, aveva preso le sue mosse, come abbiamo veduto, con Diane Crisostomo, e che si 158    venne realizzando da Vespasiano a Marco Aurelio (cfr. sopra), in una ripresa, appunto, assai duttile di certi motivi stoici - la legge univer- sale, l'imperatore incarnazione della ragione sociale del tutto, il re filàntropo, ciascuno al suo posto, ciascuno in funzione dell'unico Stato - , usando anche certi aspetti delle Leggi di Platone e il motivo della giusta misura (i doveri medt), di Aristotele, dove, infine, non poche volte si sente la presenza dell'ideale "res-publica" di Cicerone. Particolarmente indicativi sono, su questa linea, i nomi fatti da Marco Aurelio, cioè Trasea, Elvidio, Catone, Bruto, dai quali egli avrebbe tratto ispirazione per il proprio concetto di Stato e di governo, dove l'imperatore non è un desposta, ma un pater e un correttore: "attraverso essi ho potuto far sorgere in me il desiderio di un governo in cui la legge abbia vigore per tutti; informato, questo governo, a uguaglianlZa e a libertà di parola, un regno capace di rispettare per suprema ragione la libertà dei sud- diti" (1, 14). "Relitto di città, chi stacca l'anima propria dall'anima comune degli esseri razionali, anima che è una sola" (IV, 29). Di qui, entro i termini della propria posizione di imperatore, la filantropia di Marco Aurelio, la sua clemenza, la sua misura nel governo, il suo tratto e il suo sentirsi "pater" dell'umana famiglia, in una, in fondo, vis- suta e sofferta pietà per gli uomini tutti e per se stesso: "causa ultima dell'universo è un torrente che tutto spazza via. Di che poco conto sono queste creature sociali e politiche, questi minuscoli e piagnucolosi esseri umani, che immaginano di praticare una vita di filosofi" (IX, 29).La preparazione culturale. Diogene Laerzio. Entro questa atmo- sfera, se Marco Aurelio poteva, sul piano di una possibilità etica, optare per un certo "stoicismo," che nelle sue serissime conclusioni aveva la possibilità, sul filo dell'orizzonte umano, di incontrarsi con l'epicurei- smo, la consapevolezza di Marco Aurelio, .del resto, come abbiamo veduto, estremamente diffusa, dell'impossibilità teoretica di oltrepassare la stessa ragione, conduceva, sul piano di un'indagine piu strettamente scientifica, nell'àmbito delle scuole, a discutere quali fossero le ipotesi, non contraddittorie, cioè non piu possibili d'essere dialetticamente con- futate, che permettessero una deduzione, una spiegazione del reale. Abbiamo già visto quali: dal "pitagorismo," inteso come logica mate- matica mediante cui si poteva rendere pensabile la realtà, e con cui si poteva, assUmendo l'aspetto piu formale dell'analitJca aristotelica e certi motivi della logica proposizionale e del sillogismo ipotetico del primo stoicismo, trovare una ragione della costruzione platonica del Timeo; a un tipo di platonismo stoicheggiante e vitalistico a cui si avvicinano certi testi del corpo ermetico, in una conclusiva visione di sfondo entro cui fossero riprese e giustificate le varie esperienze ed ipotesi storica- mente delineatesi. Nei termini di tale piu vasta silloge, in un tentativo di deduzione logica, che non oltrepassasse, contraddittoriamente, i limiti della razionalità, ed entro cui, appunto, si potesse rendere conto anche delle varie esperienze religiose, si venne a muovere, nel corso del m se- colo d. C., il pensiero di Plotino. Peraltro si capisce cos!, sempre entro l'àmbito delle scuole e della piu generale preparazione culturale dei cit- tadini dell'Impero, da un lato il fiorire di sillogi, di epitomi, isagogi, di raccolte di questioni su singoli problemi (dossografie) su cui discutere, dall'altro lato di opere ove vengono messi in discussione gli argomenti piu svariati, anche senza ordine, in una delineazione chiara di quelli che furono i vivi e molteplici interessi di una certa epoca. E qui, per ciò che riguarda l'aspetto piu largo e divulgativo, rispon- dente alle esigenze diffuse di un pubblico piu vasto, particolarmente pensiamo all'opera del latino Aulo Gellio (nato sotto Adriano, morto sotto Marco Aurelio, discepolo di Calvisio Tauro e di Peregrino, amico di Attico, di Frontone, di Favorino, viss.uto tra Roma ed Atene), le Notti attiche, e a quella dell'egiziano Ateneo (originario di Naucrati, vissuto tra la seconda metà del n secolo e la prima del m), l sofisti a convito (Deipnosofistt), che, preziosissime come fonti (evidentemente se assunte criticamente), vanno soprattutto considerate in quanto indici precisi di una molteplicità di interessi, di tutta un'atmosfera culturale~ Per il primo aspetto, invece, sembra di particolare inter~sse ricor- dare i Placita di Aezio, vissuto tra la fine del I secolo d. C. e la prima metà del II. Il Diels (Doxographi, Prol., pp. 99-102), nella sua rico- struzione dei Dossografi greci, ha mostrato che Aezio è autore di una dossografia intitolata l:uvatyCùy1} 'CblV &.pcaxoV'f:CùV (Raccolta dei pa- reri, o Placita), perduta, di cui ritroviamo traccia nei P/acita philoso- phorum (del 177 circa), attribuiti a Plutarco, in Teodoreto - Iv-v se- colo -, in Nemesio - Iv-v secolo - e nelle Ecloghe di Stobeo (v secolo d. C.). I Placita di Aezio deriverebbero a loro volta dai Vetusta Placita, un'epitome in 6 libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, composta entro l'àmbito della scuola di Posidonio, nella prima metà del I secolo a. C., alla quale non poco avrebbe attinto Cicerone. Ma accanto al filone dossografico, facente capo ad Aezio e allo pseudo- Plutarco, non va scordato un secondo filone che risalendo a un'altra epitome in 2 libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, composta nell'àmbito della prima scuola teofrastea, si arricchi poi di nuovi testi e frammenti, particolarmente stoici (da tale epitome attinsero, per le loro discussioni e ricostruzioni, Sozione, Cicerone, Ario Didimo, l'au- tore della Stromateon Ecloga, andata sotto il nome di Plutarco, Ippo- 160    lito, Diogene Laerzio). Ora, a parte l'interesse che hanno questi fram- menti dossografici come fonti e testimonianze di opere antiche andate perdute, ciò che qui va sottolineato è da un lato la loro funzione di materiale per le discussioni,. dall'altro lato la loro impostazione dovuta a Teofrasto, che venne determinando non solo una certa delineazione di problemi, ma anche, di volta in volta, a seconda di interessi diversi, la struttura stessa della discussione in senso dialettico, cioè secondo il metodo aristotelico di presentare le varie soluzioni di certi problemi, si che fosse possibile il confronto dialettico, e, attraverso questo, il rintraccio di quelle ipotesi non piu dialettizzabili (in questo senso è chiaro perché Aezio sia stato detto "peripatetico"); ciò poteva por- tare, in un àmbito metodologico, o ad accettare una o altra ipotesi, cavata dalla discussione di testi platonici, aristotelici, stoici, senza con questo negare in pieno l'una o l'altra ipotesi; dell'una o dell'altra con- .cezione, se negate dialetticamente, si potranno sempre dialetticamente recuperare altri. aspetti, e cosi via. Di qui, anche, entro i termini di una discussione scientifica delle condizioni del sapere, accanto alle "introduzioni" per una lettura delle opere di Platone o di Aristotele, ai commenti di certe opere di Platone o di Aristotele, scaturisce l'interesse per le sillogi di certi filoni di problemi e di soluzioni comuni di certi problemi, per le quali ci si venne servendo delle prime distinzioni in scuole della storia del pensiero, ove soprattutto si tenne presente il criterio delle "successioni" (8tat8oxatt: diadochàt), sempre ordinate dialetticamente. Tale filone ebbe il suo primo rappresentante in Sozione, vissuto nel II secolo a. C., autore appunto di un'opera intitolata Successioni, e proseguitosi tra il II e il I secolo a. C. con Eraclide Lembo, Sosicrate, Nicia di Nicea. Per altro verso, invece, in particolare tenendo conto, via via, del- l'ideale di vita, che trova il suo fondamento in una o altra conce- zione, e dell'importanza che per avviare alla virtu assume in campo stoico l'esempio, si comprende come si sia venuto formando l'interesse per la ricostruzione della vita dei filosofi, che risalendo alle Vite di Ermippo e di Antigono di Caristo del m secolo. a. C., e alle Vite di Satiro, di Neante di Cizicci e di Diocle di Magnesia, tra il 11 e il I secolo a. C., ha dato luogo, tra il I e il 11 secolo d. C., ad un largo fiorire di Vite degli uomini illustri. Entro questa prospettiva, tali raccolte, manuali, sillogi, successioni, antologie, assumono un non indifferente valore storico, non solo come fonti per la conoscenza di opere perdute - sotto questo aspetto, evi- dentemente, da prendere tenendo conto del tempo in cui sono state composte, e della loro strutturazione prospettica -, ma sopratt\Jtto 161    come indicazioni del materiale posto in discussione, e, quindi, degli interessi culturali di certe epoche, e, perciò, sembra, non si può dire che siano dei mèri centoni, o ope~a di eclettici privi di un pensiero originale. Non questa, certo, fu la loro funzione. È in questa delineazione che va considerata, proprio sulla prima metà del m secolo l'opera di Diogene Laerzio,28 Le vit~ d~i filosofi, che, nel tentativo di presentare, sempre documentatamente, gli aspetti molteplici con cui si è venuto formando il pensiero greco, si è valso, ad un tempo, delle succe-ssioni, delle vite, delle dossografie e delle cronografie, in una fusione di vari filoni storiografici, e in una rico- struzione del pensiero greco su grandi direttrici dialettiche. "Le Vit~ di Diogene Laerzio," è stato detto, "sono una esposizione della filo- sofia greca quasi divulgativa, anche superficiale, se si vuole, ma senza il difetto di sintetizzare in facili schemi l'enorme materiale, un'amo- 2 8 Diogene Laerzio visse, proba~mente, n e l l a p r i m a m e t à d e l 1 1 1 s e c o l o : n e l IV secolo, Sopatro di Apamea, discepolo di Giamblico riportava nelle sue 'Ex).oyetl 3Leicpopo1 (Eglogh~ divn-s~) testi di Diogene; Diogene, per altro, in IX, 116, cita Sesto Empirico e Saturnino discepolo di Sesto, sottolineando che Sesto era stato discepolo di Erodoto, a sua volta discepolo di Menodoto; poiché Galeno, che non cita Sesto, cita Erodoto, e sappiamo che Galeno visse fin circa il 200, si è sostenuto che, dunque, Sesto avrebbe scritto tra il 200 e il 220, e che Diogene avrebbe, perciò, dovuto scrivere la sua opera tra il 220 e il 250 circa. Non sappiamo dove nacque e molto si è discusso anche sull'appellativo Lan-aio. Secondo il Wilamowitz (Epin. Gd MIIIUs., "Philol. Unters.," 111, 1880) AOtépTIO~ è un signum dedotto dall'omerico 81oycvèç AetcpTLet3'1) (dioghenès Laerti4de) (cfr. 'E. Schwartz, Rea/ Enr., V, l, col. 738; anche M. Gigante, in trad. it. delle Vite dei filosofi, Bari, 1962, p. XXVIII). Da Diogene stesso sappiamo (1, 63; VII, 31; VIII, 75; IX, 43; I, 120; IV, 65; VI, 79; VII, 164) ch'egli scrisse un libro di epigrammi intitolato Pijmmetros (Libro di m~tri di ogni tipo), intorno a tutti gli illustri estinti (1, 63), che usò poi, per quel che riguarda i filosofi, nella stesura della sua opera maggiore pervenutaci. L'opera maggiore di Dio- gene nei codici piu ant!<h; è andata sotto il titolo ~I.Àoa6cpC1111 ~LCIIII xetl 3oy!JoliTCilll auvetyCilylj~... (Vite di ll•'JJ?fi e raccolta di opinioni!. Le Vite, dedicate a un'ammiratrice di Platone (DI, 47), si dividono in dieci libri e si aprono con un Proemio di notevole importanza poiché vi si determina il criterio dell'opera. Nel primo libro si espongono vita e pensiero di: Talete, Solone, Chitone, Pittaco, Biante, Cleobulo, Periandro, Anacarsi lo Scita, Mùone, Epimenide, Ferecide. Nel s~condo libro ai tratta di: Anassima.ndro, Anassimene, Anassagora, Archelao, Socrate, Senofonte, Eschine, Aristippo, Pedone, Euclide, Stilpone, Critone, Simone, Glaucone, Simmia, Cebete, Menedemo. Il terso libro è dedi- cato a Platone: biografia, opere, dottrina, dossografia. Il qu~o libro tratta di: Speu- sippo, Senocrate, Polemone, Cratete platonico, Crantore, Arcesilao, Bione, Lacide, Car- neade, Clitomaco. n quinto libro è dedicato ad Aristotele e alla sua scuola: Aristotele, Teofrasto, Stratone, Licone, Demetrio, Eraclide. Nel libro sesto si tratta di: Antistene, Diogene di Sinope, Monimo, Onesicrito, Cratete, Metrocle, Ipparchia, Menippo, Menedemo. n libro settimo è dedicato allo stoicismo: Zenone, la logica stoica, l'etica stoica, la fisica stoica, Aristone, Erillo, Dionisio, Cleante, Sfero, Crisippo. Il libro ottavo tratta di: Pita- gora, Empedocle, Epicarmo, Archita, Alcmeone, lppaso, Filolao, Eudosso. Nel libro nono si espongono le vite e le opinioni di: Eraclito, Senofane, Parmenide, Melisso, Zenone di Elea, Leucippo, Democrito, Protagora, Diogene di Apollonia, Anassarco, Pirrone, Timone. Il libro decimo è dedicato ad Epicuro. 162    rosa raccolta delle varie notizie sparse in innumerevoli libri, non sem- pre facilmente accessibili. In esse la filosofia non è unicamente l'atti- vità speculativa, è un concetto piu ampio, che investe ogni minimo particolare della vita dell'uomo: una vita che nel filosofo è l'espres- sione sensibile della ricerca interiore. E questo punto di vista caratte- rizza già l'atteggiamento eccezionale di un pubblico, frutto di lunga tradizione, verso i propri filosofi...: è una rappresentazione ideale di una mitica società di saggi e di grandi a colloquio" (Pasquinelli, Intro- duzione a I Presocratici, l, Torino, 1958, p. XXXI). Non possiamo dire a quale delle filosofie esposte particolarmente aderisse Diogene Laerzio (forse, si è detto, all'epicureismo, dato che un libro intero delle Vite, l'ultimo, il X, è dedicato ad Epicuro, di cui riporta le tre celebri lettere e le massime, e a cui Diogene si avvicina con grande simpatia; forse allo scetticismo, le cui tesi, particolarmente l'aspetto dialettico critico, sono esposte con aderenza e precisione; forse al platonismo, si è aggiunto, essendo l'opera dedicata ad un'am- miratrice di Platone: cfr. III, 47). In realtà, ciò che qui preme sotto- lineare, come indice di tutto un atteggiamento culturale, scientifica- mente valido, e rispecchiante un ampio pubblico, è" da un lato la pre- sentazione oggettiva di piu correnti .di ·pensiero e, dall'altro lato, proprio per quella stessa oggettività e chiarimento dell'ideale impegno alla ricerca di ciascun filosofo, 'l'offerta di una discussione dialettica, basata sull'analisi delle possibilità logiche dell'assunzione dell'una o dell'altra ipotesi (di qui, come chiaramente appare, l'insistenza di Diogene Laerzio sull'aspetto dialettico della corrente scettica, con par- ticolar riguardo ad Enesidemo), senza privilegiarne una o altra. d) Le scienze e la logica: lo "scetticismo" di Sesto Empirico. Tolo- meo e Galeno. Abbiamo già detto che nel corso del n secolo, entro i termini della ricerca metodologica sopra discussa e che ha le sue piu lon- tane origini nel tipo di ricerca proprio della scuola di Aristotele, si assu- mono a contenuto di indagine i diversi piani di fenomeni: dai fenomeni naturali e dalla possibilità di una loro calcolabilità ai fenomeni apparte- nenti alla natura umana. E poiché sia per l'una ricerca che per l'altra, sul piano della discussione delle varie ipotesi avanzate, nella deter- minazione dei pro e dei contra si trattava di precisare le condizioni che permettono una discriminazione e perciò la possibilità o meno di un giudizio, l'indagine stessa diviene, innanzi tutto, studio del giu- dizio, cioè logica. Non a caso, abbiamo visto, anche in certe sillogi che sono andate sotto il nome di "platoniche," in altre che sono state dette "pitagoriche," in altre "stoiche" e anche nei commentatori di 163    Platone e dei libri logici di Aristotele, l'aspetto prevalente è l'indagine logica, lo studio delle condizioni che permettono uno o altro discorso. Qui, sembra, s'inserisce - e assume il suo piu alto significato sto- rico - l'appello di Sesto Empirico,29 vissuto tra la fine del II e il principio del m secolo, il suo continuo richiamo entro i termini della ricerca (scepsi) a tener sempre presente, metodologicamente, il peri- colo, nei limiti del giudizio, di extrapolare da quei limiti stessi, di oltrepassare quei divieti. Sotto questo aspetto l'opera di Sesto (sia le /potiposi pi"oniane in- tre libri, sia il proseguimento e l'approfondi- mento delle Ipotiposi, l'Adversus Dogmaticos, in 5 libri, e l'Adversus Mathematicos, in sei libri, titolo abbastanza recente, con cui si è soliti indicare il complesso degli 11 libri) ha un altissimo valore metodo- logico, è l'ultima voce di serietà scientifica, l'ultima "logica" dell'anti- chità. L'opera di Sesto non va considerata solo come una sistemazione 29 Scarsissimc le notizie intorno a ·Sesto, detto Empirico perché sembra sia stato medico (Esculapio dette inizio alla nostra anc: Adv. Math., I, 260) appartenente all'indi- rizzo "empirico," o meglio al nuovo indirizzo metodico-empirico (cfr. Pyrrh. hypot., I, 236; Adv. Math., VIII, 191), scaturito dalla polemica di Mcnodoto. Non sappiamo con esat- tezza quando visse: citato da Diogene Laerzio, che scrisse nella prima metà del 111 secolo, insieme al discepolo di Sesto, Saturnino (cfr. Diogene Lacrzio, IX, 87, 115), di Sesto non fa alcuna menzione Galeno, vissuto tra il 130 c il 200 d. C., che, invece, accenna a Erodoto, discepolo di Menodoto, maestro di Sesto. Poiché, per altro verso, sappiamo che Ippolito, nella sua opera contro gli eretici, composta tra il 220 e il 230, avrebbe usato argomentazioni di Sesto, si è potuto, verisimilmente, sostenere che Sesto sarebbe vissuto tra la fine dd n secolo e il principio del 111 e che avrebbe composto le sue opere tra il 200 e il 220 circa. Non sappiamo dove sia nato. Sesto è nome latino: "nostri," tuttavia, egli dice leggi e costumi greci. Senza dubbio fu ad Atene, ad Alessandria e a Roma (dr. Adv. Math., l, 246; Hypot., Il, 98; III, 221; Adv. Math., 15 e 95; Hyp., I, 149, 152, 156; III, 211; cfr. anche Dal Pra, cit., pp. 375 sgg.). Probabilmente l'opera di Sesto è pcevenuta intera, tranne due scritti intitolati Memorie mediche e Memorie empiriche (forse uno scritto unico), citato dallo stesso Sesto (Adv. Math., l, 61; VII, 202). Di uno scritto, Sull'anima, cui Sesto fa menzione (Aiv. Math., VI, 55), si è pensato (Robin, cit., p. 198) che sia in realtà un rinvio alle pani delle opere pcevenute in cui Sesto tratta dell'anima, si come è il caso di altri accenni a trattazioni che si ritrovano, poi, nd complesso dd corpus dell'opera· di Sesto. Due sono le opere pervenuteci di Sesto: Schizzi pirroniani (o lpotiposi pirroniane) in tre libri (I libro: significato c limiti dello "scetticismo," inteso come metodo; esposizione dei tropi dello scetticismo; Il libro: significato c limiti della logica dogmatica; III libro: critica della fisica c della morale dei dogmatici); un'opera in due parti, intitolate la prima Contro i dogmatici, in cinque libri, la seconda Contro i matematici, in sei libri (si è soliti indicare le due parti con l'unico titolo, desunto dalla seconda parte, Contro i matematici). I primi due libri Contro i dogmatici sono dedicati ad una precisa critica della logica, mediante cui Sesto può, nei libri terzo c quano, mettere in discussione la fisica dogmatica, e, nel quinto, le posizioni morali. l sei libri Contro i matematici, cioè contro coloro che dànno un valore assoluto al sapere (màthema) sono dedicati ai grammatici, ai rctori, agli aritmeti.:i, ai geometri, agJi astronomi, ai musici. Discepolo di Sesto fu, secondo Diogene Lacrzio (IX, 116), un ceno Saturnino, che Diogene indica come 6 xu&rjviiç (kythenas), che non sappiamo cosa significhi (il Bro- chard, Les sceptiques grecs, Parigi, 1887, p. 327, n. l, correggendo 6 xu&ljviit; in 6 xot6'-f)(liit;, l(ath'hemàs, legge il "nostro contemporaneo").] organica da un lato della topica e dei tropi, delle argomentazioni, susse- guitesi nel tempo da parte dei cosiddetti scettici, che· dimostri, in parti- colare per certi accademici, l'illegittimità logica del passaggio da una posizione arcesilao-carneadiana a una tesi stoico-platonica, dall'altro lato delle tesi dogmatiche, sia in fisica sia in etica, sia nelle singole scienze, professoralmente insegnate, mediante cui, all'interno di ciascuna, e dia- letticamente nei confronti dell'una con l'altra, dimostrare la contraddit- torietà di ogni ipotesi se assunta come assoluta. Ma è proprio in questa dialetticità che consiste il nocciolo dell'appello di Sesto: egli non nega l'una o l'altra ipotesi, in quanto tale e in quanto logicamente possibile, bensl nega la legittimità di assumere come esclusiva, come vera, l'una o l'altra ipotesi, anche se assunta, sia pur per la dichiarata incompren- sibilità della realtà in sé, come probabile, optando, attraverso la discus- sione dei pro e dei contra, per quella ipotesi che può esser piu utile per una certa condotta di-vita, la cui validità è perciò stesso presunta, niente affatto scientificamente fondata, e, dunque, disonestamente imposta. Di qui appunto, nei confronti del " sapere " in generale, il riferirsi da parte di Sesto, che fu, come egli stesso dichiara, medico, al metodo della ricerca medica, quale si era delineato nelu secolo, particolarmente attra- verso Menodoto (cfr. sopra), nella nuova accezione che aveva preso l'in- dirizzo empirico (cfr. sopra) (questa sembra la ragione per cui Sesto fu detto empirico), per·cui la ricerca scientifica, non presupponendo di giungete alla verità - onde non, si può dire che la verità è afferrabile né che non è afferrabile - rimane, di volta in volta entro i termini delle possibili esperienze, determinazione di un'ipotesi che spiega un certo complesso di fenomeni, ma che può di volta in volta cangiare, a seconda dei "segni rammemorativi," lasciando sempre aperta la ricerca (scepst). Chi intraprende una qualsiasi ricerca, conviene che metta capo o alla scoperta di ciò che cercava, o alla negazione di esservi riuscito e alla confes- sione che la cosa è incomprensibile, o alla persistenza nella ricerca stessa. Cosi, anche, di coloro che le loro ricerche volsero alla filosofia, alcuni avreb- bero affermato di aver trovata la verità, altri avrebbero dichiarato trattarsi di cosa incomprensibile, altri persisterebbero tuttora a cercare. Ritengono di averla trovata coloro che, con denominazione particolare, sono chiamati "dogmatici" ("coloro che assentono a qualcuna ddle cose che sono oscure e formano oggetto di ricerca da parte delle scienze": I, 13), come gli aristo- telici, gli epicurei, gli stoici e altri. Ne dichiarano l'incomprensibilità i ·seguaci di Clitomaco c di Carneade e altri act:ademici. Continuano a cercare gli Scet- tici (Py"h. hyp., l, 1). Lo scetticismo esplica il suo valore (diciamo "valore" senza annettere a questa parola nessun sottile significato, nel senso suo semplice in rapporto al verbo "valere") nel contrapporre i fenomeni e le percezioni intellettive in qualsiasi maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposte, arriviamo anzi tutto alla sospensione del giudizio... (l, 8). Di qui, dunque, la preliminare e fondamentale discussione sul "giu- dizio " e sul "criterio." Mediante una ripresa sistematica dei tropi, da Enesidemo ad Agrippa, si pone in forse la validità di ogni giudizio che si fondi sulla "analisi" (implicante che i termini del giudizio siano "inerenti" l'uno all'altro, donde i termini, anche se parole significanti, debbono pur sempre indicare una presunta realtà per sé}, si come per altro verso di ogni giudizio che pur implicando che i suoi termini sono rappresentazioni, dovute alle impressioni sensibili, e che il discorso è perciò non tra termini, ma tra proposizioni, arresti infine la propria ricerca, passando dal possibile discorso, fondato sui segni rammemora- tivi, alle cause prime per via analogica. Se di qui risulta chiara la critica di Sesto alla "causa," alla "deduzione" e alla "induzione," al "procedi- mento sillogistico" e alla "analogia," ai "segni indicativi," altrettanto evidente è in che senso Sesto, senza extrapolare dalle possibilità umane, accantonato sia il tipo di logica aristotelica sia quello di tipo cleanteo- stoico sia, infine, sul piano scientifico, l'illecita assunzione di una ipotesi perché piu probabile e utile alla vita, sostenga, riallacciandosi in ciò alla logica del primo stoicismo - si veda sopra, I vol., Zenone -, la positività di una logica fondata sui "segni rammemorativi." Sesto, cosi, ne deriva da un lato la necessità di sospendere il giudizio sulla realtà in sé (da qui il rovinare di tutte quelle scienze che fondano la loro costru- zione su di un "sapere," màthemti, che scambi l'ipotesi temporale, dovuta cioè a un complesso di segni rammemorativi con la verità, e di tutte quelle "morali" che trovino il loro fondamento su quei principi, quali ch'essi siano, dogmaticamente sostenuti}; dall'altro lato entro i termini di come si formano i giudizi, entro i termini di un discorso temporale, fondato sulle implicazioni rammemorative delle impressioni, la possibilità di un discorso orizzontalmente verace e capace di cangiare a seconda delle impressioni stesse e delle esperienze, per cui appunto, la ricerca resta sempre aperta: una la formazione e la validità del discorso, molte, nel costituirsi "storico" (empirico) del discorso, le possibili verità, tra cui anche quelle, probabili, se cosi ridimensionate, dei dogmatici. L'appello di Sesto Empirico e la sua indagine portavano, sul piano della ricerca scientifica, razionale; a prospettare una metodologia gene- rale, formalmente valida per ogni tipo di ricerca, in campi ben deter- minati di fenomeni. Il discorso di Sesto e il suo prmpettare limiti e validità dei giudizi derivava dal lungo dibattito sul significato della 166    ricerca medica, quale si era delineato, nelle conclusioni cui si era giunti, particolarmente nel caso dell'ultima scuola empirica derivata da Meno- doto (cfr. sopra). Nell'ambito dell'indagine medica, di contro ai dot- trinari (fossero "pneumatici" o "metodici" analogisti), dopo la pole- mica violenta di Menodoto, ch'era giunto a negare sul piano della pura empiria qualsiasi possibilità di "giudizio," si venne sostenendo con Teoda di Laodicea, riconosciuta la validità sul piano polemico del- l'appello all'empirismo di Menodoto, che l'esperienza non si riduce a una mèra raccolta di dati, ma è un metodo che non implica affatto l'oltrepassamento dell'esperienza stessa, né un passaggio, per analogia, dal noto all'ignoto, ma un passaggio, nel ricordo, dal simile al simile, ché i fatti stessi non sono noti in sé, presi ciàscuno per sé, ma si fan noti mediante il ricordo di altri fatti-impressioni, in un discorso coe- rente per sé, ma che non presume affatto alla verità. Se da uii lato lavoro serio e proficuo è non uscir fuori dall'esperienza, non ricorrere all'analogia, dall'altro lato esperienza significa non raccÒlta di dati accanto a dati, non enumerazione all'infinito, ma confronto di dati, osservazione del loro ripetersi, secondo una certa costanza, oppure no, si che alla base di dati-rappresentativi, segni "rammemorativi" e non "indicativi" di strutture in sé o di cause prime (accanto all'autopsia, diretta e personale raccolta di dati, e all'historfe, raccolta di dati osser- vati nel tempo da altri, si pone in tal modo la cosiddetta mfmesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di dissimiglianze e simiglianze, determinare ima certa sintomatclogia, in una descrizione (schizzo, ipo- tipost) di un complesso di fenomeni, che non presume affatto di essere una definizione valida per sempre. Entro questo complesso di indagini e di ricerche, nella sistemazione in un sol corpo coerente (tale da spiegare certi complessi di fenomeni, senza far violenza ai dati sperimentali) del sapere matematico, geogra- fico, astronomico e astrologico per un lato, e del sapere medico e opera- tivo della medicina per un altro lato, si collocano le opere di Claudio Tolomeo (fiorito tra il120 e il151) e di Galeno (130-200). Esse, appunto, attraverso l'autopsia e l'historie, attraverso le dossografie, non presen- tano solo, l'uno nel campo dell'astronomia, dell'ottica, della matematica, l'altro in quello della medicina e delle ipotesi filosofiche atte a spiegare situazioni e condizioni del corpo e dell'animo umano, un insieme di scoperte o di dati raccolti nel processo del tempo. Esse, anche, in una rielaborazione di quei dati, di quelle scoperte, in un accantonamento di quelle ipotesi che cadevano in contraddizione con i dati dell'espe- rienza usando i materiali offerti, nell'uno o nell'altro campo, dalle varie istorie, dai risultati conseguiti da questo o quello scienziato o filosofo, 167    presentano un quadro coerente e complesso, basato su ipotesi proba- bili, veraci in quanto capaci di spiegare. entro i termini di quelle esp(- rienze e di quelle situazioni tecniche, un insieme di fenomeni, e capaci di rendere possibili calcoli e misure. "L'astronomo," scrive Tolomeo, "deve sforzarsi per quanto è possi- bile di far concordare le ipotesi piu semplici con i movimenti celesti; ma se ciò non riesce, deve assumere quelle ipotesi che possono conve- nire" (Almagesto). Tolomeo 80 è, in realtà, l'ultimo epigono della grande tradizione della scuola scientifica (astronomica) di Alessandria. Non a caso- entro l'àmbito ora veduto- Tolomeo, che visse ed operò ad Ales- sandria, si riallacciò ad lpparco di Nicea (cfr. sopra), non solo racco- gliendone le osservazioni e le scoperte, i calcoli e le misurazioni, ser- vendosi anche delle esperienze e delle scoperte posteriori ad Ipparco, rimaste tuttavia puntuali e disarticolate da un unico "sapere," ma appli- cando di lpparco il metodo indipendentemente da superiori ragioni, sulla linea del "peripato " di Alessandria. Tolomeo, cosi, opera sp due piani. l) Riprende tutto il materiale osservativo offerto dagli astronomi precedenti, ne rivede critiqunente la rielaborazione, ne controlla i risul- tati, fa osservazioni proprie!, si rende conto dei movimenti e dei rapporti tia i mondi in rappresent<(zioni geometriche; di qui l'approfondimento della teoria geometrica degli epicicli e degli eccentrici, in particolar modo per ciò che riguard:). la luna e la dislocazione dei piccoli pianeti, e l'approfondimento in (jttica, cui Tolomeo ha dedicato un'opera a parte, della teoria della rifrazione, sottolineando l'esistenza della rifra- zione atmosferica dal cui studio geometrico si possono calcolare gli errori cui la rifrazione atmosferica può condurre nelle oservazioni dei movi- menti stellari. T ali rappresentazioni geometriche permettono poi calcoli numerici mediante cui (postulata per quei calcoli stessi là terra al centro dell'universo in un punto sferico di riferimento) misurare le distanze e i movimenti concordanti con le osservazioni che cosi vengono spiegate (di qui l'approfondimento della geometria sferica delineata di contro 80 Scarsissime sono le notizie sulla vita di Claudio Tolomeo. Sappiamo ch'egli lavorò, in Alessandria, in cui fece le proprie osservazioni sui cieli, dal 127 circa al 151. Accanto alla sua opera piu celebre la Mcx&tJ!U'-nxiJ ~r.ç -rijç mpovo~!czç (SinlllSsi mtlle- mlllica dell'astronomia), detta anche la grande (~1}, megille), per distinguerla da una rielaborazione minore, e poi, per ammirazione, la grandissima (I'CYI.a-nj, meglliste), donde, infine, da una trascrizione araba (La grandissima, .Al maghesm}, il titolo di .Alrruwesto, vanno ric:ordate le seguenti opere j,ervenuteci: Ipotesi sui pianeti, Fasi delle nelle fisse, La pida geografica (in otto libri: alcune parti si dubita siano di Tolomeo; in altre parti sembra che Tolomeo abbia ricaleato l'opera del suo predecessore Marino di Tiro), l'Ottica, l'.Acustica, il Tetrabiblion (o Opus quadrip•titum, eanone, com'è stato detto, dell'astrologia elleriistiea), Del criterio ! dell'egemonico. 168    ad Euclide dal matematico Menelao di Alessandria, autore di un'opera perduta sul Calcolo delle corde e di un trattato in tre libri, conserva- toci dalla tradizione araba, gli Sferici, in cui è fondata la trigonometria: cfr. Almagesto, l, 9 e 11). 2) Tolomeo sistema il tutto, sintatticamente in un solo ordine, s1 che senza violentare i dati osservati - molteplici e separatamence presi in opposizione tra di loro - , quei dati vengono spiegati l'uno in rela- zione all'altro, offrendo un tutto organicamente articolato e possibile d'essere tradotto, appunto, in termini geometrici e risolto in formule di calcolo. Quello ch'era stato il lavoro di Euclide per il sapere geometrico, è ora il lavoro di Tolomeo per l'astronomia. Di qui, anche, il titolo dell'opera sua (M«&1J!J.«:nx~ a\lv-rcx~~c;: Mathematikè s<Yntaxis), ch'ebbe maggior successo e che, com'è noto, ha determinato per secoli tutto il sapere relativo alla costruzione dell'universo, una volta assunto, non criticamente, come sistema definitivo e non come ipotesi (la Sintassi matematica, detta anche la grande - f.LEYrXÀl): megàle -, per distin- guerla da una rielaborazione minore, e, poi, per ammirazione, la gran- dissima - f.LEYLOTrJ meghiste -, è rimasta nota col nome di Alma- gesto, trascrizione araba dell'articolo - in arabo al - e magesto - trascrizione araba dal greco meghiste). Di qui, non contraddittoriamente, anzi come l'ipotesi che meglio poteva permettere la spiegazione dei movimenti e delle leggi regolanti l'universo, la ripresa e piu compiuta dimostrazione della validità della ipotesi geocentrica, che, entro lé possibili conoscenze di allora, meglio della ipotesi eliocentrica, sostenuta da Aristarco, permetteva non tanto la "salvazione" dei fenomeni in senso platonico, quanto la misurazione e la spiegazione dell'ordinamento e delle leggi regolanti il movimento del tutto, facente perno sulla terra, al centro, e scandentesi in una serie di movimenti entro la sfera contenente tutto l'universo (la prima sfera motrice). Sempre entro l'àmbito dell'astronomia - e per gli stessi inte- ressi- va veduto il tentativo di Tolomeo di rendere misurabile e perciò calcolabile il complesso delle influenz.e stell;ari nelle cose e, particolar- mente, sugli uomini, cerc;mdo di rendere conto sul piano geometrico - con il metodo lineare e non trigonometrico còme nell'Almagesto - delle incidenze e rifrazioni, dell'insieme delle credenze astrologiche. Se Vettio Valente sosteneva che l'astrologia è la regina delle scienze, Tolomeo, nel Tetrabiblion (Opus quadripartitum, in 4 libri), fece il tentativo di renderne ragione. Egli, peraltro, se da un lato si riallacciava, su di un piano sperimentale, ai suoi studi di ottica (cfr. Ottica), dal- l'altro lato, facendo tesoro degli studi di acustica (gli Armonici di Tolo- meo, in tre libri, sono una approfondita e sistematica esposizione delle 169    diverse teorie musicali), che culminano con interessanti· considerazioni sull'influenza della musica sull'animo e sul rapporto dei suoni con l'ar- monia delle sfere (riprendendo teorie pitagoriche, platoniche e aristo- teliche), poteva, su di un piano ipotetico, approfondire i motivi delle influenze stellari e la tesi delle "simpatie," mediante certi risultati del- l'Ottù:a e della Armonia. Galeno,81 nato a Pergamo nel 129 circa, fu uno dei medici piu colti 31 Nato a Pergamo nel 129-130, Galeno ricevefte fin da ragazzo una buona edu- cazione particolarmente nelle matematiche e nelle varie concezioni filosofiche. Poi, per volontà del padre, che aveva avuto in sogno il consiglio, da parte di Asclepio, dio della medicina, di avviare il figlio agli studi medici, molto coltivati in Pergamo, dove sorgeva un celebre "ospedale" (tempio di Asclepio), Galeno, a diciassette anni, entrò a far parte dei "figli di Asclepio." Galeno, che abbondantemente parla di se stesso nelle sue opere, dice che fu avviato alla medicina da un "anatomista," da un "ippocratico" e da un "empirista." Dopo la morte del padre, visitò le maggiori scuole mediche del tempo: Smirne, Corinto ed Alessandria: si specializza in anatomia, ma, ad un tempo, cerca di rendersi conto del significato scientifico della medicina; ciò lo porta non solo ad ascoltare i "metodisti," ma a preoccuparsi sempre di piu delle ipotesi filosofiche, per cui frequenta anche le grandi scuole di filosofia (non è senza interesse ricordare che a Smirne ascolta Albino: cfr. sopra). Verso il 158, tornato a Pergamo, viene nominato medico della scuola dei gladiatori, specializzandosi in chirurgia e in dietetica. Tra il 161 e il 166 è a Roma, clinico di fama, maestro e conferenziere ascoltato. Nel 166 torna, improvvisamente, in Oriente: si è detto a causa di un'epidemia scoppiata a Roma (in realtà .sappiamo che in. Oriente l'epidemia fu ancora piu grave); si è detto perch~ profondamente odiato e ostacolato da certi circoli romani. Fu in Cipro, in Palestina, in Siria, sempre attento osservatore, sempre alla ricerca di rimedi terapeutici. Tornato a Pergamo, vi riprende la sua funzione di medico dei gladiatori, finch~ viene chiamato da Marco Aurelio ad Aquileia, dove l'imperatore stava per muoversi contro i Sarmatici e i Germanici. Dopo la morte di Lucio Vero (169), Galeno, insieme a Marco Aurelio, tornò a Roma. Fu medico personale di Marco Aurelio e di suo figlio Commodo. A Roma rimase piu di vent'anni. Nel 192, in un incendio, andarono persi molti suoi trattati. Sembra che dopo, lasciata Roma, sia tornato a Pergamo, dove mori nel 200 circa, a settanta anni. Il pre- nome Claudio, non documentato prima del Rinascimento, è forse dovuto a un'errata decifrazione del C/. Galenus dei codici latini: C/. stava, probabilmente, per C/4rissimus. Della vastissima opera di Galeno sono giunti oltre una cinquantina di. scritti. Met- tiamo tra parentesi quadre quelli della cui autenticità si dubita: Sull'ordine dei proprllibri * ~ -rwv !a(c.)v ~1{3ÀL<o>Y); Dei propri libr. (De:pl -rwv !8(6lv ~L~À(c.)v); , (Depl L ' o t t i m o medico è anche filosofo ( 0 - r L 6 clptcrt"O<; lct-rpòç xcxl cpLÀ6aocpot,;); Le sette: a coloro che vi si iniziano (De:p( Gt~Y -roit; claatyo!dvott;); La migliore dottrina {De:pl Tijt,; ~(cn"l)t,; 3t3czaxrùJatt;); Avviamento alle arti (Dp~Òt,; iKl -Mt,;~);lcostumidell'animoseponoitHnperamentidelcorpo(0-rt-rat!t;-roii a&lj.Lat-rot,; xpciaccnv atl Tijt; M iit; 3uv~!J.CLt; brovrcxL) ; DÙiposi e cura delle pas- sioni e dei vizi di ciascuno (ficp{ -rwv 13L6lv hccicrt"q> ncx6wv Xatl ci(JGtp'n'I!Ui-r6lY Tijt; 3tcxyY&lac6lt;}; Medicina empirica ( D c p l Tij<; lcx-rptxij<; l:rmtpLcxt,;); lpotiposi empirica ('Tmmm<o>att,; l:~mtptx-1)) ; Le parti della medicina (De:p -rwv Tijt; lat-rpr.xijt; ~wv) ; Introduzione dialettica o lnstitutio logica {Elacxy6lyij 3LCXÀI:X-nxf)); Sulla dimostrazione (De:pl ~no3c~); Intorno ai sofismi linguistici {De:pl -rwv natpti -ri)v Ài~LY croq~ta!Ui­ -r<o>v); Le qualita incorporee (•Qn atl noL~ cia&lj.LGt'ratL); Commenti sulla natura dell'uomo, a Ippocrate (Dcpl cpUac6lt; Mp&lnou); Commenti alla dinll, a lpprocrate (Dcpl 3tatLn')c; 61;t<o>v); Sulla dieta di lppocrate nelle malattie acute (Dcpl Tijt; 'I=xpci-rout; 3tat(n'jt; l:nl -rwv 61;é<o>v YOa'IJ!Ui'r6lY); Commento al Prorretico di Ippo- crate (Elt,; 'rÒ npopp'l)-rtxòv 'I=xpci-rout;); Del coma in lppocrate (Dcpl -roii TtGtp' 170    dell'antichità. Il suo nome viene sempre avv1cmato a quello di Ippo- crate (i due punti estremi dell'arco della medicina antica) e a quello di Tolomeo (i due grandi sistematori della propria scienza, che per secoli ne diverranno gli "autori"). Dal suo lavoro, sul piano piu stret- tamente sperimentale, derivarono a Galeno scoperte di somma impor- tanza (in anatomia: descrizione delle ossa, dei muscoli, dei nervi, distin- zione dei nervi in nervi motòrii e nervi sensòrii, particolar riguardo della cassa cranica; in fisiologia: descrizione del funzionamento del sistema circolatorio, ove si sostiene, di contro ad Erasistrato, che il sangue circola sia nelle arterie che nelle vene, funzione del midollo spinale con relative ripercussioni sui nervi cranici e cervicali, mediante cui si spiegano le localizzazioni delle paralisi; in patologia: ogni disor- dine funzionale deriva da una lesione organica; in psichiatria: studio accurato delle passioni dell'animo). Dalle sue riflessioni, invece, sul piano piu vagamente teorico, non poche volte gli derivarono cantonate pericolose per piu approfondite ricerche (particolarmente in fisiologia, dove, per spiegare certe funzioni, Galeno è ricorso alla teoria finali- stica e a quella delle cause di origine aristotelica, alla teoria del soffio vitale dei "pneumatici," e a quella stoica che ogni nostro organo è per provvidenza dell'unica ragion d'essere del tutto, Dio, sistemato là dove è bene che sia; la teoria dei quattro umori, secondo· cui, preva- lendo l'uno o l'altro si ha uno o altro dei temperamenti: sanguigno, flemmatico, collerico, malinconico). Ora, per capire, entro l'arco della 'l1rnoxpci-;cL x&!(J4'n11;); Sulle prognosi di lppocrate (Eli; -ronpO)'VCa)O'TI.XW 'I=xpci- -rouç); Sulle articolazioni (IIcpl ap&pc.>v}; L'officina del medico (Ktlt-r' !ot-rpciov) [Le settimane: Ilcpl i()3o!Lii8c.>v]; Sull'uso delle parti del corpo umlltJo (IIcpl XPC!«ç 'riiiv lv liY&p&lnou a&I(J4TL IJ.Op!c.>v}; Indagini anatomiche (IIcpl -rC..V ciwl-ro~J.~.Xél)v ·iyxcLpijacc.>v); Placita di lppocrate e di Platone (IIcpl -rél)v XCI&' '17rn0xpci'n)V XDil Dl.ciTc.>VGt 3oyiJ.ci-r6>11}; Gli elementi secondo lppocrate (IIcpl -rél)v XCI&' 'l=xpci'n)v a-roLxc!c.>v); Sui temperamenti (IIcpl xpciO'C6>v); Sulle facol~ naturali (IIcpl q~UO'U(él)v 3u~v}; L'uso dd respiro (ttcpl xpc!otç ciwlnvoijç}; Se per natura v'è sangue nelle arterie (El XGtri. q10cn11 lv &p'n)p!«Lt; citi(J4 ncpLixCTl&L}; [Se l'animille sia qual è nel- l'utero: El ~él)ov -ro xa:ri. yataTp6t;]; Igiene ('Tywvci); L'ottima costituflione del corpo (IIcpl clp!O'T"I)t; XGtTatO'XICUi'jt; ToU a&!IJ.GtTOt;) ; Sulla buona costitut:ione (IIcpl. cù~(ocç} ; Sugli abiti morali (IIcpll&uç); Se llll'igiene serve di piu la medicina o la ginnastial (IIpbrcpov !ot-rpurijç f) yu1J.IIGtO'Turijt; lo-n -ro òyl.cLv6v); Sull'eserciflio della piccol11 palÌa (Ocpl -rou 3L« Tijç O'IJ.(xpatt; a~atLp~ 'Y'IJ.Vata!ou) ; Sinopsi sui polsi (~6volj/Lt; m:pl O'qiUY~"} ; Sugli alimenti liquidi (IIcpl Àe7mlll06cnjç} ; Sulle facol~ degli alimenti (IIcpl -rpoq~él)v 3uvci1J.Cc.>t;}; Sui· temperamenti e le facol~ dei medicamenti semplici (IIcpl xpciacc.>t; xa:l 8uvci~J.Cc.>t; -rél)v cin).él)v qlatpjl.cixc.>v}; Sulla compotiflione dei far- maci (IIcpl auY&ém:c.>ç qlatp~v) ; La teriaca (IIcpl Tijç &JjpL«Xijc; l ; Sui rimedi da pre- 'flarare (IIcpl clv-;c!'{3atllo~v} ; Sulla conct#enaflione delle cause (IIcpl -rél)v auvcx-nxél)v etl-r!c.>v) ; Sulla diffit:oltlJ della respirat:ione (IIcpl 8uanvo~l ; I tumori contro natura (IIcpl -rél)v natp« qiUcnV ISyxc.>v} La cura per flebotomia (IIcpl q~>4o-roiJ.!«ç .&cpat- ncu-nx6vl; L'arte medica (TtrnJ !ot-rpudjl; [Uso dei farmaci e dei clisteri: forse di Severo, vissuto nel v-VJ secolo); [Come ti possono riconoscere i simulatori di malattie]. 171    vastissima opera di Galeno, le oscillazioni e le contraddizioni derivate dall'innesto dei due piani, da un lato va tenuta presente la sua forma- zione e l'epoca in cui scrisse questo o quel trattato (piu teorici quelli scritti in gioventu, piu sperimentali quelli scritti in vecchiaia), dall'altro lato, soprattutto, la grossa discussione sorta in medicina, nel corso del II secolo, tra "dogmatici," "metodici" ed "empiristi" puri. Di Galeno, attraverso Galeno stesso, sappiamo molto. Uomo senza dubbio di eccezione, di temperamento inquieto, estremamente ambi- zioso (in un certo momento della sua vita, clinico di moda che affa- scina non solo per la sua bravura tecnica, per le sue diagnosi e per il suo specifico sapere medico, ma anche per le sue teorie), Galeno fu educato da un padre intellettuale, l'architetto Nicone, che lo avviò fin da ragazzo ai piu rigorosi studi della matematica e del sapere in gene- rale (filosofia), ai quali, sempre per volontà del padre, si aggiunsero fin da quando aveva diciassette anni gli studi di medicina. Allievo, in Pergamo, dov'era una celebre scuola medica, di un anatomico, di un ippocratico e di un empirista, Galeno, morto il padre, visitò, nel giro di nove anni i piu famosi centri di medicina - Smirne, Corinto, Ales- sandria-, frequentando, ad un tempo, anche le maggiori scuole filoso- fiche. Nel 158, a Pergamo, diviene medico dei gladiatori, specializzan- dosi in chirurgia. Nel 162 è a Roma, dove acquista grande fama. Nel 166, forse a causa di un'epidemia, lascia Roma. Viaggia in Oriente; è a Cipro, in Palestina, in Siria; ovunque prosegue le sue osservazioni, raccoglie cartelle cliniche, cerca di rendersi conto delle varie concezioni che possano servire a comprendere il funzionamento del corpo umano. Poco dopo essere tornato a Pergamo, dove riprende il suo pòsto di chi- rurgo presso la scuola dei gladiatori, viene. richiamato in Italia, ad Aquileia, dall'imperatore Marco Aurelio, di cui divenne medico di fiducia. Morto Marco Aurelio, lo fu di Commodo. Rimase a Roma, medico celebre, dedito alla pratica medica e alla redazione definitiva delle sue opere, fin verso il 199. Tornato a Pergamo vi mori nel 200 circa. E qui vanno sottolineate due cose: Galeno cominciò a scrivere fin da quando aveva diciotto anni e non fu solo formato nell'arte medica e nelle varie teorie mediche in discussione; egli, fin da giova- nissimo, venne anche formato dagli studi matematici e dagli studi rela- tivi al "sapere" in generale, dibattutissimi nelle scuole filosofiche. E cosi va ricordato che prima del 165 sembra ch'egli avesse già composto le sue maggiori opere teoriche, insieme a quelle di anatomia e di fisio- logia, mentre i grandi trattati di terapia e di patologia, le opere piu strettamente tecniche e frutto della sua lunga opera di sperimentatore, sarebbero state composte durante i suoi soggiorni romani. Non è questo 172    che un accenno, ma ciò va tenuto presente da chi voglia ricostruire la personalità e la concezione medica di Galeno, senza ricorrere alla facile etichetta del "Galeno eclettico." In realtà, l'opera di Galeno è estrema- mente problematica, e sorge da un continuo dibattito tra la tesi estrema dell'empirismo di un Menodoto, che, sia pure per polemica, giungeva, dimostrando il pericolo che nella ricerca medica è rappresentato da qualsivoglia teoria in astratto, a negare la possibilità di fondare una scienza medica, e l'esigenza - propria, del resto, alla discussione delle scuole filosofiche - di cogliere, attraverso l'esperienza stessa (che altri- menti rimarrebbe come non fatta, se si limitasse ad una pura enume- razione), le condizioni che permettono di dare un senso, cioè di domi- nare e ordinare i dati dell'esperienza. Gli stessi "segni rammemora- tivi" - fondamentali in medicina - hanno un'utilità, solo quando ci si renda conto di come, costituendosi insieme, l'uno implichi necessa- riamente l'altro; la stessa esperienza perciò funziona solo quando si giunga da un lato a determinare come è che si pensa, come cioè si costituiscono i giudizi (logica: cfr. Institutio logica), e dall'altro lato, quando, in quanto si giudica, implicando ciò la definizione e, perciò, il genere prossimo e la differenza specifica, si determinano le cause di un certo gruppo di fenomeni. Per gli dèi, per quanto riguarda i miei maestri, anch'io sarei caduto nell'aporia dei Pirroniani, se non avessi posseduto gli elementi della geome- tria aritmetica e logistica (ÀoyLG't'LX~), in cui fin dall'inizio avevo fatto pro- gressi, istruito per molto tempo da mio padre, il quale aveva ereditato la teoria dal nonno e dal bisnonno. Vedendo; dunque, che non solo mi appa- rivano chiaramente vere le questioni relative alle previsioni delle eclissi [...lacuna], ritenni fosse meglio valersi del tipo delle dimostrazioni geome- triche; e infatti riscontravo che gli stessi dialettici piu esperti e i filosofi, pur essendo discordi non solo tra di loro, ma anche con se stessi, tutti, nello stesso modo, esaltano comunque le dimostrazioni geometriche (Galeno, De propriis libris, XI). Tale fu lo sforzo continuo di Galeno, nel suo tentativo di delineare, proprio perché sia possibile la diagnostica, e .perciò stesso non solo la terapia, ma un'azione preventiva, un complesso di principi teorici, di quadri clinici, di cause entro cui ordinare un certo insieme di fenomeni o provederne altri, insieme al rintraccio di quelle che sono le condizioni formali che permettono una deduzione. Se da un lato, cosi, Galeno riprendeva certi aspetti della logica for- male di Aristotele (in particolare la costruzione dei sillogismi, quale appare negli Analitici Primi: cfr. lnstitutio logica; secondo Averroè a Galeno risalirebbe la quarta figura del sillogismo), si capisce come, 173    dall'altro lato, Galeno per spiegare, particolarmente in fisiologia, le funzioni dell'organismo, volte al mantenimepto ed equilibrio del tutto in una specie di finalità naturale, assumesse, ·sia pure per ipotesi, il finalismo biologico di origine aristotelica; e che, per spiegare il fatto vita- lità, ricorresse all'ipotesi stoica (propria della corrente stoico-vitalistica, risalente forse a Posidonio, che non poche volte Galeno cita) delle forze, degli "spiriti" vitali, per cui il "pneuma" si realizza come "spi- rito cerebrale" (pneuma psichico), · come "spirito vitale," o animale, vero e proprio, che dà vita e che dalla sua fonte, che è il cuore; muove il sangue nelle arterie, e come "spirito naturale," che dalla sua fonte, che è il fegato, mette in movimento il sangue nelle vene. Di qui, nell'àmbito di questa concezione dell'uomo che in piccolo (micro) ripete il grande (macro) cosmo, la teoria - di chiara origine ippocra- tica - dei temperamenti (i quattro elementi, fuoco, aria, acqua, terra, le cui potenze o qualità sono il caldo, il freddo, l'umido e il secco, si ritrovano nell'organismo umano come sangue, forza vitale vera e propria, come flegma, bile gialla e bile nera; dal sangue, che ha in sé in circolo i quattro umori; si determina o l'equilibrio degli umori o il prevalere dell'uno o dell'altro, donde i temperamenti: sanguigno, flemmatico, collerico e malinconico). Non è qui il caso di soffermarci sulla patologia e sulla terapeutica di Galeno. Basti· ricordare che esse si fondano sulla sua biologia: si sostiene che la salute consiste in un'ar- monica ed equilibrata resultante delle forze operanti nell'organismo, e la malattia in una rottura dell'equilibrio, in un eccesso o difetto delle forze vitali, e che compito del medico è, attraverso una conoscenza pre- cisa dell'anatomia e della fisiologia, ed un'analisi minuta e ampia dei sintomi, operare sulla natura, si che la natura ritrovi il suo equilibrio.A seconda dei testi di Plotiilo sui quali si verrà puntando - chi direttamente lo ascoltò profondamente fu colpito dalla sua forza intel- lettiva e dalla dirittura ascetica della sua vita: cfr. la Vita scritta da Porfirio - si potranno reinterpretare in termini simbolico-allegorici certe precedenti effettive credenze nei misteri, nella funzione della magia e nelle pratiche teurgiche, sostenendone l'assurdità, se prese in forma non allegorica, assumendo dai vecchi riti, culti, misteri, l'orfico .in particolare, tutto ciò che poteva servire a indicare plotinianamente il ritorno dell'anima a se stessa e al divino, in termini etico-religiosi (ciò specialmente si vede in Porfirio, quando si tengano presenti le due fasi del pensiero porfiriano: prima e dopo l'incontro con Plotino); oppure si potrà, mettendo in evidenza certe espressioni religi<>so-miste- riche e l'indiscorribilità del contatto con runo, o del farsi uno nel- l'anima di ciò che vien compreso, entro i termini della concezione del- l'universo di Plotino, riprendere il motivo secondo cui tutte le cose sono anime, dèi, aventi perciò una loro potenza e il motivo della libe- razione dell'anima, che rifacendo propria tutta la realtà, si salva dive- nendo simile al dio e con ciò stesso divenendo assoluta potenza e libertà. Entro questo quadro, cosi, si giustificavano non solo certi misteri, ma anche certe pratiche teurgiche (ciò si vede bene in Giamblico, disce- polo di Porfirio, e piu tardi in Proclo, i quali cercheranno di mostrare quali siano le tecniche mediante cui, comprese certe potenze, certe anime, si afferra l'anima, che può essere anche uno o altro elemento, uno o altro simbolo, e si mette nelle cose, per poi dominare altre cose, altri dèi: di qui, attraverso la magia imitativa, si cercava di determinare le possibilità di una magia operativa). 234    Lo stesso Porfì.rio/ nato forse a Batanea, in Siria, nel 233-34, detto anche di Tiro, avendovi vissuto per un certo periodo, narrando il suo primo incontro con Plotino, avvenuto in Roma, nel 263 circa, scrive: "Nelle adunanze, Plotino sembrava uno che conversasse e nessuno vi l Nacque forse a Batanea, in Siria, nel 233-234 (fu detto anche di Tiro, avendovi vissuto j)<'r un certo periodo). "Io, Porfirio, avevo inoltre anche il nome Basilio, essendo chiamato nell'idioma patrio, Maleo - tale pure era il nome di mio padre. Ora Maleo significa re: cioè Basileus [Basilio], se si vuoi renderlo in lingua greca" (Vita Plot., 17). A Cesarea di Palestina conobbe Origene ed entrò in dimestichezza con lui. Ebbe qui i primi contatti con la scuola cristiana. Ad Atene ascoltò Longino Cassio, che, insieme a Plotino, era stato, in Alessandria, discepolo di Ammonio Sacca. Longino Cassio, di cui Plotino diceva: "filologo si, ma filosofo no, affatto!" (Porfirio, Vita Plot., 14), iniziò Porfirio alla filosofia platonica e, particolarmente, alla retorica, in cui Longino fu celebre (di Longino si hanno frammenti di un Trattato di retorica; perduti sono andati i libri Sul Fine e Sui principi; si è oggi convinti che il trattato Sul sublime non sia di Longino}. A trenta anni circa Porfirio andò a Roma, dove, conosciuto Plotino, ne divenne, insieme ad Amelio, uno dei piu fedeli discepoli e collaboratori. "Nel decimo anno del regno di Gallieno [263], io, Porfirio, giunsi dalla Grecia in compagnia di Antonio Rodio. E appresi che Amelio, pur frequentando la scuola di Plotino da diciotto anni, non aveva osato ancora scrivere altro che gli Sco/ii, i quali peraltro non avevano ancora raggiunto il centinaio. Platino, nel decimo anno del regno di Gallieno, aveva, all'incirca, cinquantanove anni, ed io, Porfirio, allorché m'incontrai la prima volta con lui, avevo trent'anni" (Vita Plot., 4). Alla scuola di Plotino, Porfirio abbandonò molte delle sue vecchie opinioni, o meglio le riordinò entro i termini della concezione plotinica. Collaboratore e amico di Plotino, visse intensamente la vita della scuola j)<'r cinque anni, finché ammalatosi di esaurimento nervoso, su consiglio dello stesso Plotino, si recò in Sicilia (nel 268 circa) per rimettersi in salute. In Sicilia (al Lilibeo) soggiornò due anni. Nel 271 - Platino era morto nel 2 7 0 · - tornò a Roma, dove riprese la sua attività di maestro proseguendo l'insegnamento di Plotino e dedicandosi all'edizione degli scritti di Plotino, che pubblicò tra il 300 e il 304. Porfirio mori a Roma nel 305. Porfirio scrisse molto. Per una ricostruzione del P<'nsiero di Porfirio, vanno tenuti presenti i j)<'riodi in cui si suddivide la sua produzione: l. Prima dell'incontro con Plotino; 2. Durante il soggiorno romano alla Scuola di Plotino; 3. Durante il soggiorno in Sicilia e il secondo a Roma dopo la morte di Plotino. Appartengono al primo j)<'riodo: La filosofia desunta dagli oracoli (frammenti); Questioni americhe (framm.); Storia della filosofia in 4 libri, di cui resta solo il l, La t•ita di Pitagora (il II era dedicato a Empedocle, il III a Socrate, il IV a Platone: ne restano una ventina di frammenti); Introduzione all'astrologia di Tolomeo; Commento agli Armonici di Tolomeo (framm.); Sulle immagini (framm.). Appartengono al secondo j)<'riodo, frutto dell'attività scolastica, Commenti a opere di Platone (al Crati/o, al Sofista, al Parmenide, al Timeo, al Filebo, al Convito, al Fedone, alla Repubblica); una Discussione con Amdio; una discussione sullo scritto di Eubulo, scolai-ca dell'Accademia di Atene, Ricerche platoniche (di questi scritti abbiamo solo notizia); un Commento a L'affermazione e negazione di Teofrasto (J><'rduto); Commenti alle Categorie di Aristotele (framm.), al De interpretatione di Aristotele (framm.), alla Fisica di Aristotele, al XII libro della Metafisica di Aristotele, all'Etica di Aristotele e ad alcuni passi del De anima di Aristotele (di questi commenti son rimasti pochi fram- menti e notizie); lntroduzion~ o lsagoge alle Categorie; lsagoge ai Sillogismi categorici. Appartengono al terzo j)<'riodo: Contro i Cristiani in 15 libri (framm.); Lettera al sacer- dote Anebo (framm.); Cronografia (framm.); Sul ritorno dell'anima (framm.); Sull'asti- nenza (framm.); Sul dio sole (framm.); Commenti agli Oracoli Caldaici (citati nel Ritorno dell'anima); Lettera a Marcel/a (framm.; Porfirio sposò in vecchiaia la vedova Maccella j)<'r aiutarla ad allevare i figli); L'antro delle Ninfe (framm.); Sul "conosci te stesso" (notizie); Gli slanci dell'anima verso l'intelligibile o Sentenze; Vita di Plotino, premessa all'edizione delle Enneadi, e Commentari ad alcuni trattati delle Enneadi. 2,35    vedeva affiorare, a tutta prima, la forza della costn,1zione logica rac- chiusa nel suo ragionamento. Io stesso, Porfirio, ebbì quindi a subire una s,imile impressione, quando lo udii la prima volta. Mi spinsi perciò a presentargli un saggio critico, in cui tentavo di dimostrare, contro la sua tesi, che gli intelligibili hanno esistenza fuori dell'Intelletto. Egli se lo fece leggere da Amelio e, a lettura finita, con un sorriso: 'è fac- cenda tua,' disse, 'o Amelio sciogliere i dubbi, nei quali, per mancata conòscenza della nostra dottrina, Porfirio è caduto.' Amelio scrisse un libro, tutt'altro che breve, Contro le aporie di Porfirio. lo scrissi di bel nuovo in risposta al suo scritto. Amelio vi replicò ancora. Alla terza volta, sia pure con un po' di fatica, io, Porfirio, compresi il loro pen- siero e mi convertii. Stesi una Palinodia che lessi in seno alla riunione. D'allora in poi, anche in rapporto ai libri di Plotino, fui considerato l'uomo di fiducia. E fui io a destare nel maestro stesso l'ambizione di articolare e di sviluppare, per iscritto, i suoi pensieri" (Vita Plot., XVIII, 90-93). Prima di conoscere Plotino, Porfirio, che a Cesarea aveva conosciuto Origene, che ad Atene aveva ascoltato il retore e platonico Longino Cassio, e ch'era stato ad Alessandria, aveva fortemente subito l'influenza delle dottrine religioso-misteriche, diffusissime, che senza dubbio erano state presenti anche a Plotino, ma che Porfirio non aveva criticamente discusso, né risolto in una costruzione logica. È certo che Porfirio fu da giovane attratto dalle suggestioni dei maghi e dei teurghi, dando un particolare significato a ciò che si poteva desumere dalle sedute in cui si evocavano gli spiriti, in una interpretazione simbolica di ciò che.quegli spiriti evocati dicevano (oracolt). Di qui l'opera di Porfirio, dal significativo titolo Sulla filosofia tratta dagli oracoli (ne:pt njç ~x Àoy(Cùv qnì..oao'P(otç), pubblicata prima che Porfirio en- trasse in contatto con Plotino, e dai cui frammenti si ricava, appunto, che Porfirio si serviva di oracoli dovuti, com'è stato detto, a "medium" durante sedute spiritiche, e che l'opera era una specie di trattato di teurgia, da cui si potevano ricavare tecniche e pratiche rituali mediante le quali ricondurre l'anima alla propria divinità. In questo stesso pe· riodo preromano, Porfirio scrisse un'opera in quattro libri dedicata alla ricostruzione piu che del pensiero, del modo di vita di filosofi, o, meglio, di vite ispirate, demoniache, indicazioni mediante cui salvare l'anima, e in cui egli, riallacciandosi a una certa tradizione platonica (partiro larmente a Moderato di Gades), vedeva il piu profondo significate della filosofia: non a caso, cosi, i quattro libri erano dedicati il prime a Pitagora, il secondo a Empedocle, il terzo a Socrate, il quarto a Pla· tone. Di essi è giunto solo il primo, la Vita di Pitagora; degli altri non sono rimasti che una ventina di frammenti. Già indicativa di un certe modo di intendere il filosofare è l'architettura dell'opera; la Vita d1 236    Pitagora, poi, dà il metro esatto dei termini entro cui Porfirio, nel rico- struire il significato del pitagorismo, vedeva la funzione ascetica della filosofia nell'evocazione del proprio dèmone, e nella traduzione in ter- mini simbolico-numerici di tutta la realtà, che Pitagora avrebbe desunto dagli Egizi, dai Caldei, dai Fenici e dai Magi (cfr_ Vita Pit., 6; interessante è ricordare che Porfirio ricostruisce la vita di Pitagora met- tendo insieme i testi piu diversi, tratti da Cleante, Apollonio, Davide di Samo, Lico, Eudosso, Dionisofane, Dicearco, Nicomaco, Antonio Diogene, Moderato). E cosi è altrettanto indicativo che Porfirio abbia scritto, sempre in questo primo periodo, un'Introduzione all'astrolo- gia di Tolomec. (EtaatywyYj etc; -r~v <Ì.7ton:ÀEafJ.Ot'rtx~v -rou IhwÀEfJ.Ot(ou) e un trattato Sulle immagini. Senza dubbio l'incontro con Plotino pro- vocò in Porfirio una crisi, ma piu teoretica che morale. Egli, evidente- mente, rivide le. proprie credenze al lume del rigoroso metodo ploti- niano, scoprendo il significato delle proprie esigenze etico-religiose, e dando ad esse, entro i termini della concezione di Plotino, una sistema- zione logico-ontologica, mediante cui segnare le tappe di un itinerario dell'anima a Dio, entro cui potevano rientrare anche i vecchi misteri, le vecchie credenze, i vecchi miti, intesi però simbolicamente, assunti per ciò ch'essi potevano servire a convertire l'anima a se stessa, a libe- rarla dalla dispersione sensibile: insignificanti, anzi assurdi, se presi unilateralmente per sé. I frutti di tale "conversione" al plotinismo, come dice lo stesso Porfirio, e del suo atteggiamento nuovo nei con- fronti della elevazione morale e religiosa si vedono bene nelle opere che Porfirio cominciò a comporre dal 269 in poi, dal tempo del suo soggiorno in Sicilia, dopo che vissuto in Roma per sei anni, fianco a fianco con Plotino, in un intenso lavoro di scuola, tra lezioni, discus~ sioni, seminari, rielaborazione e trascrizione degli scritti e delle lezioni del maestro, colpito da una grave forma di esaurimento, che lo con- dusse sulla soglia del suicidio (cfr. Vita Plot., 11), si allontanò dalla scuola, su consiglio dello stesso Plotino (cfr. ib.), per prendersi in Sici- lia un periodo di riposo. 'Porfirio soggiornò in Sicilia due anni circa (dal 268-69 al 271); tornò a Roma dopo la morte di Plotino (270), e a Roma, divenuto il continuatore ideale dell'insegnamento di Plotino, intensamente lavorò alla divulgazione e alla sistemazione del pensiero del maestro, fino alla mortè, avvenuta nel 305. Se il nuovo atteggiamento nei confronti della magia e della teurgia popolari si vede bene nella Lettera ad Anebo, sacerdote egizio, in cui criticamente si mette in discussione, appunto, la funzione della teurgia, dimostrando la confusione e l'irrazionalità di molti e torbidi riti, mi- steri, pratiche, la contraddizione di distinguere le divinità in buone e malefiche, prestando alla divinità passioni, esigenze, volontà umane 237    ("autentiche invenzioni di uomini e finzioni della natura umana": Lett. a Anebo, 49); nella Lettera a Marcel/a, sÙa moglie, si vede bene il significato dato da Porfirio all'elevazione morale-religiosa, dovuta ad una purificazione dell'anima, in un ritorno dell'anima a se stessa, in un dominio di se stessi, che è il dominio che l'anima, in quanto con- sapevole, ha di tutte le cose, ché tutto dipende da noi stessi, e perciò dall'anima e quindi dall'Intelletto e da Dio. Sotto questo aspetto Por- lirio reinterpretava, in termini plotiniani, il motivo stoico (Cornuto, Epitteto), secondo cui libera è ranima che dipende da se stessa, onde la virtu consiste nell'adeguarsi alla legge di natura ("l'intelletto segua Dio, e ne contempli in sé l'immagine; l'anima segua l'intelletto; alla anima serva {>er quanto è possibile il corpo, fatto puro a lei pura": A Marcel/a, 13; "Facciamo conto solo delle cose che dipendono da noi": ib., 5; "l'intelletto è maestro, salvatore, nutrimento, custode e guida: esso intende la verità nel silenzio e discoprendo la legge divina con la contemplazione di se stesso riconosce nel suo intimo la legge impressa sin dall'eternità nell'anima; devi considerare anzitutto la legge naturale, da questa devi risalire alla legge divina, che è fondamento di quella naturale; ancorata a queste leggi, non temerai nessuna legge scritta": ib., 26-27). La concezione di Plotino giustificava, cosi, in termini logico-intel- lettuali, l'esigenza etico-religiosa di Porfirio, che particolarmente fu col- pito dalle discussioni di Plotino sull'anima, intesa come consapevolezza di sé, come capacità di cJndurre a sé se stessa spersa fuori di sé, fino a giungere a vivere, indiandosi, la vita del tutto. Non a caso Porfirio punta sempre sull'anima, sulla "conversione" dell'anima, sull'anima entro cui è la verità, che ci trascende dal di dentro, qualora si sappia ascoltare l'anima stessa, il nostro piu vero ed intimo "maestro" ("tu hai in te un maestro": A Marcel/a, 9). "Raccoglierai e unificherai le tue intime facoltà, se cercherai di articolarle quando sono ottenebrate: anche il divino Platone partendo di là ha richiamato dalle cose sen- sibili alle intelligibili" (A Mareella, 10). D i qui, sembra, lo stesso modo con cui Porfirio, raccogliendo e pubblicando i vari scritti di Plotino, pur conoscendone l'ordine cronologico (cfr. Vita Plot., 4-6), ha ordinato, nel costituire il "libro" del neoplatonismo, i trattati plo- tiniani, cominciando appunto dall'individuo e dal sensibile. L'ordina- mento delle Enneadi rispecchia senza dubbio l'interpretazione di Porfirio, il quale, per altro, vede, con Plotino, nell'anima il punto in cui si incentra l'universo tutto; se l'Anima da un lato è unità trascendente se stessa nell'unità vivente dell'Intelletto-intelligibili (l'au- tovivente, l'IXÒ't'o~<;iov del Timeo), che trova il suo fondamento nel- l'Uno, dall'altro lato, l'Anima, in quanto affermazione di sé, riproduce 238    la molteplicità dell'Intelletto, dando luogo alle cose (l'anima demiurgo), e prende coscienza di sé in quanto, limitazione di se stessa (anime singole ed empiriche), per cui l'anima dapprima dispersa, rotta nelle cose, passiva, facendosi cosciente di ciò, oltrepassa il limite, ricondu- cendo a sé le cose stesse. Di qui proviene la distinzione porfiriana delle funzioni dell'anima singola: l'anima è puramente spermatica finché, inconscia, è essa stessa le cose; eidolica, immagine, allorché si rappre- senta i corpi come altro da sé, e come limiti; logica, quando coglie se stessa come discorso unificante, articolando il molteplice; noetica, quando dalla dispersione sensibile, dalla coscienza del limite, dall'unità del molteplice fuori di sé, intuitivamente coglie il tutto Uno in sé, solle- vandosi all'intelletto; anoetica, quando perde se stessa facendosi una nell'Uno. Le anime particolari, dunque, sono nell'Anima del mondo, e da essa emergono senza che essa sia divisa, si come tutte le cose, cieli, stelle e cosi via fino alla terra, sono nell'Anima del mondo e da essa emergono, in limiti sempre maggiori, sempre piu corposi, onde appunto sono i corpi ad essere nelle anime; tutto perciò può essere interpretato in un rapporto di "simpatia," di reciproche influenze, di imitazioni, in una gradualità di anime che vanno dalle superiori anime celesti (gli astri) alle inferiori anime singole, ciascuna delle quali è, dunque, legata alla sua stella, mediante una serie di anime intermediarie (dèmoni). La realtà tutta è, perciò, sotto questo aspetto buona, divina; e il male non ha alcuna realtà, alcun principio, se non nell'anima stessa, nella sua capacità di rimanere nel limite, o di guardare in sé. Appunto in questo primo guardare in sé dell'anima, nel momento dell'imma- gine, in cui la realtà appare come altra dall'anima, avente un suo limite e una sua figura, una sua corporeità, essa si rappresenta le anime stesse come figure, come corpi, provenienti dall'Anima dell'Universo, condotte da un soffio vitale eterno (il pneuma, veicolo o ochema del- l'anima) passato attraverso le sfere dei pianeti, di cui assume l'aspetto, determinando quindi il nostro carattere, e quello dei dèmoni. Partico- larmente interessante sembra questo aspetto della dottrina di Porfirio, esposta nel De regressu animae (fr. 3 Bidez), da cui chiaramente appare che l'universo costituito di anime, di astri, di dèmoni, J;).on è tanto una realtà data, ma la visione del primo momento del ritorno del pensiero a se stesso, appunto il momento dovuto all'anima nella sua attività eide- tico-immaginativa. Proprio entro questo momento funzionano epos- sono essere ripresi, per chi non sia filosofo, per chi non sappia elevarsi al momento logico e noetico, i riti, le pratiche magiche e teurgiche, in quanto servono a purificare l'animà, a dare a tutti la coscienza che ciascuno è divino, che tutto è divino, che infiniti, nell'Unità del divino, sono gli dèi. E ~ i riti, i culti, le credenze, non hanno piu significato 239    per chi sia filosofo - una élite, - essi hanno una funzione terapeutica e ordinatrice per la massa. È sull'anima "pneumatica," e mediante essa sull'immaginazione - scrive il Bidez - che le cerimonie liturgiche agiscono. "Esse presentavano all'anima pneumatica simboli di natura tale da suggerire una reminiscenza e un vago scorcio della verità. I riti placano i cattivi dèmoni che assediano il 'veicolo.' Con visioni mera- vigliose, fanno vivere lo 'spirito' nella società degli angeli e degli dèi. Rendono capaci di ricevere la loro visita - cfr. De regressu animae, 2, 6. - Senza dubbio in virtu della legge di assimilazione, a forza di contemplare questi esseri puri, l'uomo si libera dalle influenze per- niciose e si sbarazza di ogni effluvio malsano. La purificazione progre- disce via via che l'animo fa sf che in sé si produca l'effetto della pro- pria devozione, e la pratica della continenza, che a rigore potrebbe bastare - cfr. De regr. an., 7; anche De abstinentia - renderà la sua liberazione ancora piu sicura. Il successo definitivo non è tuttavia sicuro. Benché sia essenzialmente diversa dalla magia volgare, la teurgia è sempre aleatoria, fallace, e pericolosa" (Bidez, Vie de Porphyre, Gand- Lipsia, 1913, pp. 91-2). Se è vero - sottolinea Porfirio - che le pra- tiche teurgiche sono capaci di purificare la "anima pneumatica," esse tuttavia non possono operare il completo ritorno dell'anima a Dio, e possono essere pericolosissime in mano a ciarlatani (cfr. De regressu anim·ae). "Perciò l'uomo saggio e prudente si asterrà dal servirsi di sif- fatti sacrifici, mediante cui attirerà a sé cosi fatti dèmoni malvagi; si studierà invece con ogni mezzo di purificare l'anima, poiché quelli all'anima pura non si attaccano per la dissimiglianza da loro" (De absti- nentia, Il, 38). E dirà Sant'Agostino, commentando il De regressu animae; "Porfirio promette quasi una purificazione dell'anima, per mezzo della teurgia, ma con esitazione e con discussione in certo modo pudibonda. D'altra parte nega che tale arte offra a chi che sia la con- versione a Dio, sicché lo vedi... fluttuare fra alterne opinioni" (De civi- · tate Dei, X, 9, 415). E qui non va scordato che Porfirio si era in gioventu formato in Siria, a Cesarea, ad Atene, ad Alessandria. Fu quella un'epoca in cui diffusissime erano le religioni misteriche, e, entro queste, le pratiche rituali magiche e teurgiche, particolarmente provenienti dall'ambiente siriaco, ma che si venivano incontrando e fondendo con le religioni della tradizione occidentale, in una trasformazione vicendevole, in una spiegazione dell'universo e del destino umano in termini diversi dai soliti, rispondente, per altro, alla nota, profonda crisi, traversata dal- l'Impero dal tempo di Commodo (180-192), successore di Marco Aurelio. E qui va ricordata l'importanza data da Settimio Severo (193-211) a Serapide egizia, ma ancor piu va ricordata la diffusione che in tutto 240    l'Impero, per un certo periodo dominato da imperatori di provenienza siriaca, per via materna, ebbe il culto del siriaco dio Sole (pensiamo a Caracalla, 211-217, e in particolar modo a Eliogabalo, 218-222, che vittorioso su Macrino, 217-218, per aiuto della madre Mesa, siriaca, sacerdotessa del Sole, come lo era stata Giulia Domna, moglie di Set- timio, impose in Roma il culto solare, con tutti i riti, i culti, le mera- viglie ad esso connesse). Sono, questi, dati che vanno tenuti presenti per rendersi conto da un lato della complessità di questo periodo e della difficoltà eh'esso presenta per intenderne le molte sfumature, richiami, allusioni, dall'altro lato per comprendere, tra il terzo e il quinto secolo, lo strutturarsi e il cristallizzarsi di piu correnti in scontri e incontri, determinanti alla fine una comune atmosfera culturale, ove già chiare sono le linee della cultura propria del Medioevo. Il notevole tentativo di Porfirio fu, dunque, entro la concezione di Plotino, di coordinare e dare un senso alle pratiche teurgiche e magiche, di rendere conto della funzione dei riti, dei culti, delle stesse credenze religiose, valide da un lato come avviamento per gli uomini comuni, dall'altro lato come avviamento alla filosofia. Entro questi termini, sem- bra, vanno considerate le ultime opere di Porfirio: il Commento agli Oracoli caldaici (gli Oracoli sono da lui piu volte citati e usati nel De regressu animae), uno scritto su Il Dio Sole (di cui si leggono vasti brani nel primo libro dei Saturnali di Macrobio), in cui, appunto, il siriaco Sole viene ad essere posto come il simbolo dell'unità vivente, sulla linea della tradizione del sole platonico e stoico, emergente dal- l'Uno, dall'Uno Dio Bene; e quella specie di breviario che è Gli slanci dell'anima verso l'intelligibile ('AcpopfLOCL 7tpÒc; -rli: V01)'t"OC) (una summa di regole plotiniane per ritornare dal sensibile all'Anima, all'Intelletto, a Dio, dapprima mediante una condotta di vita ascetica, poi mediante una sempre piu approfondita meditazione dell'anima su se stessa). Gli Slanci dell'anima furono scritti per gli addottrinati, per chi, attraverso la scuola, riceve la capacità di inserirsi nella catena degli eletti ispirati, per chi, purificatosi, ha la capacità di "conoscere se stesso" (non a caso Porfirio scrisse anche un'opera sul Conosci te stesso), di passare in un convertimento dell'anima a se tessa ad essere filosofo. E qui ha un particolare interesse la classificazione porfiriana delle virtu (il capitolo 32 degli Slanci, attraverso Macrobio, che ne dette un sunto nel Somnium Scipionis, ebbe non poca influenza sulla classificazione delle virtu, nel Medioevo): virtu civili ("fondate sulla moderazione delle paso;ioni esse consistono nel seguire ed obbedire alla ragione nei doveri attinenti alle azioni; sono dette l · Oli, perché riguardano la sicurezza del prossimo nella società; la saggezza si riferisce alla parte razionale, la fortezza all'irascibile, la temperanza consiste nell'accordo e nell'armonia della 241    parte concupiscibile con la ragione, la giustizia nel dovere di ciascuna parte nel comandare e nell'ubbidire"); virtu catartiche ("proprie del- l'uomo contemplativo..., sono le virtu dell'anima che si eleva, purifi- candosi, all'essere realissimo, e a cui si giunge mediante le civili; la prudenza, perciò, nelle virtu catartiche, consiste nel non opinare con- forme al corpo, ma nell'agire puro, cioè nel pensare con purezza; la temperanza consiste nel non aderire alle passioni; la fortezza nel non temere il distacco dal corpo, quasi sia un cadere nel vuoto e nel nulla; la giustizia si ha quando la ragione e l'intelligenza comandano senza trovare resistenza"); virtu intellettuali (''sono le virtu proprie del- l'anima intellettualmente attiva; in questo caso, la sapienza e la pru- denza consistono nella contemplazione di ciò che la mente possiede; la giustizia è il compimento della propria funzione, in quanto segue l'intelletto e opera conforme ad esso, la temperanza è una conversione interiore, verso l'intelligenza; la fortezza è impassibilità che si adegua a ciò che contempla e che ha natura impassibile"); virtu esemplari o paradigmatiche ("sono le virtu che esistono nella mente e sono supe- riori alle virtu dell'anima, delle quali sono gli esemplari, cosi come di questi le virtu dell'anima sono somiglianze...: qui la scienza è pru- denza, la sapienza è intelletto che conosce, la temperanza è conver- sione verso la propria interiorità, la giustizia è compimento del pro- prio dovere e la fortezza consiste nell'identità con se stesso, nel rima- nere sempre in interiore purezza mediante le proprie forze"). Scopo delle virtu civili è di imporre una misura alle passioni per agire conforme alle leggi di natura; delle catartiche è di svincolarsi completamente dalle passioni; delle altre è di agire secondo l'intelletto senza avere neppure il pensiero di separarsi dalle passioni; delle ultime infine non è piu quello di rivolgere il proprio atto verso l'intelletto, ma di toccare la mèta cun la propria essenza. Perciò chi agisce conforme alle virtu civili è uomo onesto; chi conforme alle virtu catartiche è uomo demonico o dèmone buono; chi conforme alle sole intellettuali è dio; chi conforme alle paradigmatiche è dio padre. Per questo dobbiamo occuparèi soprattutto delle catartiche cer- cando di possederle in questa vita e salire poi, attraverso queste, alle piu pregevoli... Anzitutto, base e fondamento della purificazione è conoscere se stessi... (Slanci, 32). Duplice è la morte: l'una, la piu nota, si ha quando l'anima si scioglie da~AArpo: non sempre l'una segue l'altra...; e l'anima si lega al corpo quando si volge alle passioni che derivano da esso; da esso si libera allorché non è piu toccata da quelle (Slanci, 9 e 7). Probabilmente composti al tempo in cui Porfirio frequentò Plotino in Roma, certamente frutto dell'attività scolastica, entro l'àmbito della discussione e del metodo plotiniani, sono i commenti di Porfirio ad 242    .alcuni testi di opere di Platone (Crati/o, Sofista, Parmenide, Timeo, Filebo, Convito, Pedone, Repubblica), ad uno scritto di Eubulo (Ricer- èhe platoniche), ad uno scritto di Teofrasto (Sulla affermazione e la negazione) d ad alcuni libri di Aristotele (Categorie, ivi compresa l'Introduzione o lsagoge alle Categorie; De interpretatione, ivi com- presa l'Isagoge ai Sillogismi categorici; Fisica; libro XII della Meta- fisica; Etica; alcuni passi dell'Anima relativi all'entelechia). Se non poco indicativi sono i dialoghi platonici presi in discussione, altrettanto indicativa della funzione assunta dalla filosofia di Aristotele nell'àm- bito del platonismo di Plotino e di Porfirio, è la scelta dei libri di Aristotele. La Fisica e il XII libro della Metafisica (il libro su Dio: cfr. sopra, I vol.) potevano benissimo servire da introduzione a inten- dere lo strutturarsi della realtà dall'Uno platonico, l'Etica da introdu- zione a intendere le virtu civili, catartiche e intellettive, mentre le Categorie e il De interpretatione, se assunti nel loro aspetto formale- grammaticale - e qui Porfirio, riprendendo le fila della lunga discus- sione e del conflitto sulle categorie aristoteliche nel campo del plato- nismo nel n secolo, polemizza con Plotino che, interpretando le cate- gorie contenutisticamente, le negava, sostenendo di contro la validità dei cinque generi del Sofista platonico- servivano come introduzione al "saper pensare," come condizioni che permettono il ragionamento entro l'àmbito dell'Intelletto-intelligibile, donde poi, platonicamente, dedurre le strutture logiche che rendono pensabile la realtà (non a caso Porfirio, riprendendo l'uso logit:o, non ontologico, dei predicabili o categorumeni di Aristotele - genere, specie, differenza, proprio, acci- dente, - interpretati come possibili predicati della sostanza, insiste sul valore verbale - vox - di queste cinque voci, pénte phonai, soste- nendo che esse riguardano il discorso, non le cose, ché il genere, la specie e cosi via sono appunto categorumeni e non cose: cfr. lsagoge, I). Di qui il celebre passo dell'lsagoge (Prefazione), in cui si dice: "lo non dirò circa i generi e le specie se esistano in sé, ovvero se siano semplici pensieri; se siano corporei o incorporei, se separati dai sensibili o posti in essi." I generi e le specie servono come condizioni verbali che per- meaono il discorso ed entro esso la deduzione, l'analisi, per cui, pren- dendo come punto di partenza l'essere (nulla è definibile senza· il verbo essere, e perciò a fondamento di ogni definizione si pone il genere sommo, generalissimo che è la "sostanza"), si può da esso dico- tomicamente discendere (fu su questo testo porfiriano, in lsagoge, 4, 20, che venne ordinato lo schema di definizione per dicotomie suc- cessive, andato sotto il nome di albero di Porfirio. Sostanza: corporea- incorporea; sostanza corporea: corpo animato-corpo inanimato; corpo animato: sensibile-insensibile; corP,O animato sensibile; ragionevole-irra- 243    gionevole; animale ragionevole : mortale-immortale; ,animale ragione- vole mortale: Tizio, Caio, Sempronio e cosi via). ' Lo sforzo di Porfirio, il suo intento, e la sua risposta, attraverso Plotino, alla piu viva problematica del stili tempo - Porfirio fu sensi- bilissimo alle piu varie influenze e correnti, cercando sempre di render- sene conto - fu quello di dare un ordinamento ad ogni aspetto del sap~re: da quello pratico-civile, risolventesi nelle religioni, nei culti, nei riti, nelle pratiche magico-teurgiche (se bene intese), nelle leggi scritte, a quello logico-filosofico (certi aspetti dell'aristotelismo) e morale (Platone, certo stoicismo), facendo centro sul motivo piu schiettamente plotiniano dell'anima-consapevolezza, e sul ritorno dell'anima all'Uno, da cui tutto ha luogo, prospettando una filosofia universale, in una universale pacificazione. Si capisce cosi da un lato la sua simpatia umana per la figura del Cristo (almeno prima del suo incontro con Plotino, al tempo in cui conobbe e frequentò Origene a Cesarea: cfr. Bidez, cit., p. 13), dall'altro lato la sua polemica contro i Cristiani (Contro i Cristiani, in 15 libri, composta, sembra, dopo il 270, al tempo dell'imperatore Aureliano), sia teoretica (sul piano di Celso, ove particolarmente si discute l'assurdo di un Dio persona e volontà, creatore, che può fare tutto quello che vuole, l'assurdo dell'uomo per sé centro e valore nella sua individualità, l'assurdo della resurrezione .dei corpi), sia filologica (sostiene l'inautenticità dei libri di Daniele, le contraddizioni storiche tra i Vangelt), sia morale (contro l'intol- leranza, l'unilateralità del Cristianesimo e il suo fanatismo, contro la sua negazione della cultura e della filosofia: il Cristianesimo, come le altre religioni, gli altri riti, le altre pratiche magiche e teurgiche, fun- zionerebbe per la massa, per i poveri di spirito, come momento del- l'ascesa dell'anima alla filosofia e all'Uno), sia politica (il Cristianesimo spezza l'unità culturale e religiosa, la possibilità di raccogliere, in vista dell'Uno tutto, le varie religioni e culture'di provenienze diverse, orientali e occidentali, che potrebbero costituire l'unità pacifica del- l'Impero, in funzione di quella filosofia universale di cui si parlava). Nell'intricata storia della cultura e della formazione di idee e di ideologie di questo tempo non si può non tenere nel debito conto l'altrettanto intricata e complessa storia politica dell'Impero nel I I I se- colo. Il tentativo di Porfirio, sulla fine del III secolo di articolare in unità, in funzione di un'unica filosofia, religioni, culti, concezioni diverse, in nome di un'unità trascendente all'interno, che fosse ad un tempo di base all'unità religiosa e all'unità politica, è un tentativo non poco indicativo. In realtà egli rispondeva a quella stessa esigenza di salvazione dell'Impero che muove un imperatore, come Aureliano, a 244    proclamarsi dio assoluto, riprendendo i motivi dell'elioteismo. La crisi dell'Impero non fu soltanto militare-politica ed economica, ma anche, ad un tempo, e per le stesse ragioni, ideologico-culturale. Dopo Marco Aurelio, particolarmente (sia sotto la dinastia dei Severi: Settimio Severo, Caracalla, Macrino, Eliogabalo, Severo Alessandro, ucciso nel 235 vittima di una congiura militare capeggiata da Massimino che divenne imperatore per due anni; sia nel periodo della cosiddetta anarchia militare: Gordiano, Filippo l'Arabo, Decio, Valeriano, Gal- lieno, ucciso nel 268; sia sotto i cosiddetti imperatori illirici, tesi alla restaurazione dell'unità dell'Impero: Claudio Il, Aureliano, Claudio :racito, Aurelio Caro, Carino e Numeziano; sia durante il periodo che va da Diocleziano a Costantino), si vede bene che il conflitto non fu ta.nto tra Roma e i barbari· (che premevano sia al nord sia in oriente) quanto di Roma con se stessa, sia a causa della trasformazione della città-Stato di. Roma in un complesso di popoli diversi, sia a causa di un non ancora precisatosi concetto di Stato (donde il persistente conflitto tra imperatore e senato), sia a causa della stessa civilizza- zione e romanizzazione dei barbari. Il conflitto fu in effetto un con- flitto tra il vecchio mondo, la vecchia concezione e una realtà di fatto, nuova, dovuta a quello stesso mondo che aveva costituito l'Impero, e che nell'incontro di civiltà diverse, di religioni e culture diverse, ten- deva ora (la provincializzazione dell'Impero - ricordiamo la Consti- tutio Antoniniana, 212-213, di Caracalla -, con la conseguente esau· torazione dell'Italia e del Senato, è un indice) a trasformarsi, sia pure a prezzo di un imbarbarimento, com'è stato detto, accogliendo in sé, appunto, e in sé risolvendo gli aspetti piu vari, in una "nuova Roma." Di qui il conflitto tra momenti in cui si è voluto restaurare la "roma- nità" (sempre allorché vi sia stato un accordo tra imperatore, anche se l'imperatore non era italico, e Senato, o l'imperatore sia stato senato- dale o dell'aristocrazia romana)t e momenti in cui (allorché gli impe- ratori, soprattutto gli imperatori scaturiti dall'esercito, o "barbari," abbiano teso ad eliminare il Senato dal giuoco politico-militare) si è voluto determinare la possibilità di un impero universale. Per tale impero universale, dal punto di vista legale, valeva pur sempre la concezione stoico-ciceroniana del diritto natura~e (cfr. sopra), come si vede nei grandi giutisperi~i del III secolo, entrati in conflitto con il potere assoluto e personale del sovrano: il siriano Papiniano, Ulpiano di Tiro, Giulio Paolo, Erennio Modestino. E di tale Impero, l'impe- ratore doveva essere l'espressione che ne garantisse l'unità, accogliendo in sé tutti i possibili aspetti e le possibili esigenze. Si capisce, in tal senso, che se piu dure furono le persecuzioni contro i Cristiani (Decio: 251-252; Valeriano: 253-260), allorché ebbe il sopravvento la politica 245    di alleanza tréll imperatore e Senato, merio dure, talvolta inesistenti furono le persecuzioni contro i Cristiani, allorché prevalse la politica, per cosi dire, interbarbarica (si pensi, ad esempio, alla politica di un Filippo l'Arabo e di un Gallieno), almeno fin quando si credette di poter riassorbire il Cristianesimo entro i termini della funzione data alle altre religioni (teosofiche, magico-teurgiche, solari); altrimenti i Cristiani furono perseguitati, non tanto per le loro dottrine, per la loro fede, una tra le tante, fosse essa la tesi neoplatonica, o gnostica, o manichea, o quelle soteriologiche teurgiche e magiche, solari, prove- nienti dalla Siria, quanto perché la loro concezione, il loro concetto del rapporto tra gli uomini e dell'autorità dell'unica Chiesa (Stato nello Stato), la loro pervicacia mettevano in pericolo l'unità dello Stato stesso (si ricordino le persecuzioni avvenute sotto Aureliano, 270-275, e l'ultima sotto Diocleziano, 285-305). D'altra parte, soprattutto nelle province orientali e quando lo stesso imperatore persegui la politica della "nuova Roma," il contrasto tra Cristianesimo e cultura classica si svolse soprattutto sul piano teoretico, sul piano delle scuole, in una opposizione tra "filosofie." In tali periodi, anzi, dalla fine del n secolo al Concilio di Nicea (325), notiamo in seno alle stesse scuole cristiane conflitti teoretici, discussioni sul rapporto Dio-mondo, sull'unità-trinità di Dio (il problema trinitario), sulla vera natura del Cristo (il pro- blema cristologico) in un incontro e in una discussione con le tesi platonico-neoplatoniche e stoiche e, spesso, in una rottura interna tra comunità e comunità cristiane e in passaggi di pensatori dal Cristiane· simo alle soluzioni razionalistico-platoniche o irrazionalistico-teurgiche neoplatoniche, e di platonici alla soluzione volontaristico-personalistica del Cristianesimo. Un Origene, ad esempio, vissuto a cavallo tra il n e il m secolo, discepolo, in Alessandria, di Clemente, suo prosecu- tore nella scuola catechetica di Alessandria, maestro poi in Cesarea, poteva benissimo ascoltare, ad un tempo, le lezioni di Ammonio Sacca, discutere il platonismo, interpretare quel platonismo al lume della tesi cristiana; mentre un Longino, filologo, rètore, platonico, poteva da Atene recarsi, insieme al vescovo Paolo di Samosata, presso la corte della regina Zenobia di Palmira, vedova di Odenato, che, al tempo dell'imperatore Gallieno, aveva costituito un principato al confine orien- tale con Roma, ch'ella cercava di organizzare entro i termini di una cultura che rispondesse alle piu vive esigenze (e non solo il vescovo Paolo, ma anche Longino caddero vittime della restaurazione romana in Palmira, riconquistata. da Aureliano). E non a caso Porfirio, ricor- dando il suo giovanile incontro con Origene, poteva sostenere che, se diversi erano i punti di partenza, le soluzioni relative alle condizioni che permettono di pensare la realtà, e, perciò anche, le conclusioni, in 246    realtà tutti, nelle scuole di Siria e d'Egitto - fossero essi cnst1ani, o platonici, o gnostici - erano mossi dalle stesse esigenze, discutevano e leggevano gli stessi testi: "Origene viveva leggendo Platone; le opere di Numenio, Cronio, Apollofane, Longino, Moderato, Nicomaco, e quelle dei pitagorici illustri gli erano familiari; egli si serviva anche dei libri dello stoico Cheremone [attraverso cui lo stesso Porfirio aveva appreso i misteri egizianiJe di Cornuto; attraverso essi egli si iniziò a questa interpretazione allegorica dei misteri dei Greci, di cui applicò il metodo alle Scritture degli Ebrei" (in Eusebio, Hist. ecci., VI, 19, 7). Di qui, anche, in seno alle comunità delle varie province, un rompersi dell'unità delle varie chiese, il contrasto con la Chiesa ufficiale, gli scismi, che mettevano in pericolo l'universalismo, il cattolicesimo della Chiesa, la sua pretesa d'essere l'unica religione, l'unica via alla salvezza dell'uomo - donde da parte della Chiesa, di nuovo, il contrasto con lo Stato, il tentativo della riorganizzazione gerarchica della Chiesa (ad esempio Cipriano2), e dell'assorbimento da parte del Cristianesimo della cultura classica, da risolvere appunto entro i termini della nuova "concezione." Di fatto, intanto, particolarmente nel III secolo, la fede cristiana si estendeva sia tra i semplici, sia tra ì signori e gl'intellet- tuali, e all'esigenza universalistica e pacificatrice, in mezzo a lotre, ron- trasti, al rovesciamento dei vecchi valori, poteva sembrare che rispon- 2 Cecilia Cipriano, •oprannominato Tascio, nacque a Cartagine, nel 210 circa. Dopo aver seguito un accurato e completo corso di retorica, insegnò retorica e fu valente e celebre avvocato. Per influenza del venerabile prete Ceciliano, nel 245 si converti al Cristianesimo. Ancora noefita, nel 249. alla morte del vescovo Donato, fu eletto vescovo di Cartagine. Nel 25u, al principio della persecuzione di Decio, Cipriano abbandonò Cartagine, rifugiandosi nei pressi della città. Rientrato in Cartagine nel 251, il vescovo dovette affrontare la questione dei lapsi, che, con molto equilibrio e tatto, riusd a risol- vere; nel 255 un lungo dibattito sulla questione del valore del battesimo dato dagli eretici, divise Cipriano dal Papa Stefano. Nel 257, a causa della persecuzione di Valeriano, Cipriano venne esiliato a Curubis. Richiamato nel 258, Cipriano si presentò alle autorità e avendo dichiarato d'essere cristiano e di rifiatarsi di sacrificare, venne condannato a - morte per decapitazione. "Lapsi" furono detti quei Cristiani che per sfuggire alla perse- cuzione, dinanzi alle autorità che chiedevano loro se fossero cristiani rinnegavano la loro fede, facendosi rilasciare un libretto di attestazione, onde furono detti anche Jibeilatici. Pas- sata la persecuzione, molti lapsisti chiesero di essere riammessi nella wmunità. Ne sorse una grave controversia. Novato e Felicissimo, aderenti allo scisma di Novaziano, propu- gnavano, di contro agli intransigenti, una assoluta tolleranza. Cipriano, in nome dell'unità della Chiesa, lottò per una moderata intransigenza. Intransigente, invecl!, egli fu nella questione se fosse valido o no il battesimo impartito dagli eretici. Cipriano lo ritenne invalido e la sua tesi fu approvata da tre sinodi tenuti a Cartagine nel 255 e nel 256. . La maggiore opera di Cipriano, composta nel 251, contro Felicissimo e il partito dei lapsisti è il De Catholicae ecclesiae unitate. Di Cipriano si conservano inoltre: Ad Donatum (opuscolo sul valore della fede cristiana); De habittl virginum; Testimoniorum lrbri tres ad Quirinum; De lapsis; De zelo et livore; De mortalitate; Ad Demetrianum; .4d Fortu- natum de exhortatione martyrii; De opere et elemosynis_; De dominica oratione; De bono patientiae. Importante per la storia religiosa è l'Epistolario di Cipriano (sessantacinque let- tere scritte da Cipriano e sedici lettere dirette a lui). 247    desse il Cristianesimo nel suo aspetto piu semplice e fideistico, nella sua capacità di non servire solo a una élite culturale e di filosofi, molto meglio che non l'universalismo filosofico, stoico o neoplatonico che fosse, o certe religioni di mistero, teosofie, e via di seguito. Di tale situazione storica, di fatto, ben si rese conto Costantino, che, com'è noto, credette di poter risolvere quell'unità universale dell'Impero di cui parlavamo, non piu mediante la tesi stoica (Marco Aurelio), o neoplatonica (Porfirio), o elioteistica (Aureliano), ma attraverso la con- cezione cristiana, facendo divenire cristiano l'Impero, ch'era in effetto la fine dell'Impero romano e la concreta premessa dei futuri conflitti politico-giuridici tra Stato e Chiesa. La Chiesa, per la sua stessa strut- tura, non poteva non divenire Stato (e Costantino credette di poterne essere lui l'imperatore, il sacerdote). Non potevano essere questi che accenni, ma necessari per rendersi conto dell'esigenza di considerare il formarsi della cultura sia della cosiddetta pagana, sia della cristiana, non per filoni separati, sempli- cisticamente opposti e indipendenti, ma in un ben piu complesso qua- dro, anche se assai fluido e difficile. È noto che Plotino, con l'aiuto dell'imperatore Gallieno e di sua moglie Salonina - essi, dice Porfirio, lo veneravano ed erano a lui molto affezionati - avrebbe voluto restaurare una città della Cam- pania, andata in rovina, in cui, datole il nome di Platonopoli, avrebbe voluto ritirarsi con i suoi compagni e discepoli, osservando le leggi platoniche (cfr. Porfirio, Vita Plotini, XII). "Questo progetto," seguita Porfirio, "sarebbe anche facilmente riuscito al filosofo, se taluni corti- giani, per invidia, avversione o altro indegno motivo, non vi avessero frapposto ostacolo." Si è molto discusso su questo breve testo porfi- riano; si è parlato di un preciso ideale politico di Plotino, e di una sua influenza diretta sulla politica di Gallieno. In realtà nulla docu- menta ciò, neppure il testo di Porfirio, il quale, in fondo, parla di affetto, di stima da parte di Gallieno e di Salonina per Plotino, si come per Plotino avevano stima e ne riconoscevano l'alto valore intel- lettuale e l'integerrima vita molti altri membri dell'aristocrazia e del Senato romani; non solo, ma Porfirio dice che in Platonopoli si sarebbe vissuto secondo le leggi platoniche, cioè, nel linguaggio porfiriano, seguendo una "vita platonica," una vita filosofica. "La città di filosofi, nel senso platonico," scrive il Pugliese-Carratelli, "che Plotino ha ideato, è concepita non come pratica attuazione di uno schema poli~ tico..., ma come una synoikesis di quelli che, veramente filosofi, si sono fatti cittadini della rt6Àtç ~v Myotç xe:t(.LtvYj. Il progetto plotinico acqui- sta cosf un altro significato e può trovare una piu soddisfacente solu- zione il discusso problema dell'atteggiamento di Plotino verso la poli- 248    ca. In dissenso dal Rudberg (Neuplatonismus und Politik, "Symbolae \rctoe," l, 1922, pp. 7 sgg.), l'Alfoldi (Vorherrschaft der Pannonier, in Funfundzwanzig fahre rom.-german. Kommission, Berlino, pp. 23 sgg.) ha recisamente affermato che nelle Enneadi ricorrono pro- posizioni circa la vita politica che sono in insanabile contrasto tra loro. Queste pretese contraddizioni si dissolvono, invece, quando si avverta, come si deve, che lo spirito di Plotino è orientato in senso perfetta- mente platonico e distingue quindi nettamente quanto attiene al sof6s e quanto agli altri uomini, lontani e non profondamente animati da quella 'v~::ra filosofia' che sola, come insegna Platone, conduce alla 6e:wp(oc (teoria)" (Pugliese-Carratelli, La crisi dell'Impero nell'età di Galliena, "Parola del Passato," 1947, p. 67). Egli [lo a1tou8oc"Loç] sa bene che duplice è la vita di quaggiu: l'una per i saggi, l'altra per il volgo; protesa, nei saggi, ad altezze di vette supreme, mentre negli uomini abituali è suscettibile, ancora, alla sua volta, di distin- zione: l'una fi?.emore della virtu, partecipa a un qualche bene; ma la turba degli sciocchi esiste solo, per cosi -dire, come -artigiana manuale di ciò che serve al bisogno dei superiori (È7tte:txéa-re:pm) (Enn. II, 9, 9, 77). Platonopoli, in realtà, resta un ideale, un rifugio, una città di saggi in conversazione, volti, per dirla con Porfirio, alle virtu intellettuali attraverso quelle "catartiche." Per le virtu civili e politiche resta que- st'altro mondo, il mondo, appunto, dello Stato, dell'Impero, che potrà salvarsi solo se sarà capace di divenire base, fondamento a quella supe- riore unità, alla città dei filosofi. Sotto quest'aspetto sembra esatta, rela- tivamente a Plotino e a Porfirio, l'affermazione di un tardo platonico, Olimpiodoro, indicante le due vie as~unte dal platonismo: "Alcuni hanno innanzi tutto onorato h filosofia, come Porfirio e Plotino...; altri, invece, l'arte ieratica [teurgia], come Giamblico, Siriano, Proclo e tutti gli ieratici" (Olimpiodoro, In Phaed., 123, 3 Norvin). Se Porfirio, nel suo plotinismo, si è particolarmente preoccupato dell'aspetto etico e purificatorio, con accenti, anche se in chiave plo- tiniana, schiettamente stoici, l'altro noto discepolo di Plotino, Amelio Gentiliano,3 sembra maggiormente volto ad approfondire l'aspetto teo- 3 Amelio, o Amerio Gentiliano ("il suo nome era propriamente Gentiliano, ma egli preferiva chiamarsi Amerio con la r sostenendo che gli conveniva trarre il nome da amèria [indivisibilità], anziché da amèlia [negligenza)": Porfirio, Vita Plot., 7), originario dell'Etruria, discepolo prima di un certo Lisimaco stoico, conosciuto poi Plotino, nel 246 circa, rimase con lui in stretti rapporti di discepolo e di collaboratore nella scuola, fino al 270 (poco prima della morte di Platino), quando si recò ad Apamea, in Siria, dove, probabilmente rimase a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. "Amelio si 249    retico del maestro. Amelio, ongmario dell'Etruria, dopo essere stato discepolo di un certo Lisimaco (uno stoico), conosciuto Plotino, nel 246, rimase con lui in stretti rapporti di discepolo e di collaboratore nella scuola, fino al 270, quando si recò ad Apamea, in Siria, dove, probabil- mente, rimase a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. Forse ad uso della scuola, egli, giorno per giorno, prese appunti delle lezioni di Plotino, commentandole e chiarendone il significato: raccolse cosi un complesso di sco/ii, divisi in cento libri (purtroppo perduti: sarebbero stati preziosissimi, insieme alla perduta edizione degli scritti di Plotino curata da Eustochio, per confrontarli con l'edizione degli scritti di Plotino a cura di Porfirio: avremmo meglio compreso il rapporto Uno-molti in Plotino). In un'opera dedicata a Porfirio, Amelio difese Plotino accusato di avere plagiato Numenio, chiarendo le differenze che, relativamente ai tre dèi, correvano tra i due, mentre, in due riprese, cercò di mostrare a Porfirio che secondo Plotino le Idee non esistono al di fuori dell'Intelletto. Certo, l'attenzione di Amelio, sotto l'influenza di Numenio, di cui egli ricopiò e ordinò i vari scritti, che conosceva a memoria, si volse, come chiaramente appare anche da Porfirio (Vita Plot., 3, 17, 18), a interpretare e a chiarire il rapporto Intelletto-intelligi- bili, il problema dell'Essere come unità vivente nella dialettica Intelletto- Idee. Egli cosi, secondo Proclo (In Tim., 93d), avrebbe, entro l'àmbito della seconda ipostasi (Intelletto), distinto, sotto l'influenza di Nume- nio, tre ipostasi: l'Essere che è (-tòv èlv-tot, tòn 6nta), che per essere dà essere a sé fuori di sé, le idee (-tòv ~xov-tot, tòn èchonta), che assumono essere, in quanto, contemplando l'essere, la propria fonte, si ricongiun- gono ad esso (-tòv.opwv-tot, tòn horònta), costituendo cosi il primo esserci dell'Uno, ipostasi del tutto, in una dialettica triadica. Di qui, rifacendosi a Numenio, Amelio chiariva il significato dato all'uno che è in quanto è due, o meglio che non è né uno né due, ma è tre, cir- colarmente, in una triadicità, che, poi, internamente all'uno, si molti- avvicinò a Platino durante il terzo anno della sua dimora romana, allorché Filippo era al suo terzo anno di regno, e vi si trattenne fino al primo anno del regno di Claudio: e furono cosl, in tutto, ventiquattro anni. Al suo primo giungere, serbava ancora l'atteg- giame&to mentale di Lisimaco; però superava tutti i suoi contemporanei per la laboriosità di cui dette prova, sia esponendo per iscritto quasi tutte le dottrine di Numenio, sia sunteggiandole, sia mandandone quasi a memoria la maggior parte. Compose, inoltre, gli Sco/ii dalle lezioni, e li coordinò in·cento libri circa, dedicati poi al suo figlio adot· tivo Ostiliano Esichio di Apamea" (Porfirio, Vita Plot., 3). Oltre i Gemo libri di Sco/ii alle lezioni di Platino (perduti), Amelio curò l'edizione degli Scritti di Numenio, scrisse un'opera Sulla differenza delle dottrine di Plotino eldi Numenio (per difendere Platino dall'accusa di avere plagiato Numenio: cfr. Porfirio, Vita Plot., 17: l'opera è perduta), un libro Contro le aporie di Porfirio (cfr. Vita Plot., 18), e quaranta libri Contro il libro di Zostriano. Perdute tutte le opere di Amelio, di lui non abbiamo che qualche frammento e testimonianza (cfr. Eusebio, Praep. ev., XI, 19; Proclo, In Timaeum, 205c, 93d, 226b, 249a; Stobeo, I, 49, 32 sgg.). 250    plica all'infinito, per ogni aspetto della realtà. Di triade in triade, per- ciò, in una deduzione numerica, si venivano ricostruendo tutte le strut- .ture della realtà in una moltiplicazione di ipostasi, intermediarie tra l'Uno e l'estremo limite della materia, simbolicamente dette divinità, e a cui, via via, si potevan6 in una interpretazione allegorica far corri- spondere le deità del pàntheon greco-romano e asiatico. Phanès, Oura- nòs e Cr6nos, riferiti all'Orfismo, vengono, ad esempio, interpretati come l'Uno, l'Intellett-O e l'Anima plotiniani, scoprendo cosi una teo- logia orfica, un senso riposto negli orfici, nei pitagorici, in Platone. E cosi, posta l'Anima del mondo come divinità, altrettanti dèi sono le anime che pullulano al di dentro dell'Anima universale, corrispondenti e tispecchianti·quegli dèi che sono nell'Intelletto, nel Cielo (gli astri). E se il tutto è, perciò, un essere vivente, articolantesi simpateticamente, e il tutto si ricostituisce di triade in triade, numericamente, tutto è retto dai numeri, si come ogni cosa è una divinità, anche i corpi, cri- stallizzazioni delle anime, momenti dell'Anima universale, momento dell'lntelletto, o L6gos, dio nell'unico Dio. Certamente l'autore di tutte le cose che esistono è stato il L6gos, che è eterno, come avrebbe detto Eraclito, il L6gos, che secondo il barbaro [Gio- vanni Evangelista] occupa presso Dio il posto e la dignità di principio, Dio esso stesso, per il quale tutte le cose sono state fatte e nel quale è stato creato ogni essere vivente :e la Vita stessa. Esso può anche unirsi a un corpo, rivestirsi di carne, prendere le sembianze umane, senza svelare tuttavia la grandezza della sua natura. E quando questa unione è disciolta, esso riac- quista tutti i caratteri della dignità e ridiventa Dio com'era prima di unirsi al corpo, alla carne, alla natura umana (Amelio, in Eusebio, Praep. evang., Xl, 19). Amelio, dal 270, si stabili ad Apamea, la patria di Numenio, in un ambiente, forse, piu consono alla ricostruzione e interpretazione ch'egli aveva dato di Plotino. Quando Amelio giunse ad Apamea, Giamblico,4 siriaco, nato a Calcide, aveva diciannove anni circa. Non sappiamo se, in Apamea, 4 Nato nel 251 circa, a Calcide, in Celesiria, Giamblico fu, dopo il 270, a Roma, alla Scuola di Porfirio (a Giamblico Porfirio dedicò il suo Intorno al "conosci te stesso," e per lui compose il !Utorno dell'anima). Giamblico, forse, conobbe, ad Apamea, Amelio, di cui, certo, subii l'influenza. Tornato in Siria, Giamblico, per lunghi anni, fino alla morte, avvenuta nel 325-326, insegnò ad Apamea, dove ebbe molti discepoli e seguaci. Seguitarono l'insegnamento di Giamblico, in Siria: Sopatro di Apamea di cui sappiamo che, divulgatore di Giamblico, scrisse un'opera Sulla provvidenza e m coloro che hanno fortuna o sfortuna oltre il merito, e che fu fatto condannare a morte da Costantino (nel 336 circa) e Dexippo (di lui resta un prezioso Commento alle Categorie di Aristotele): 251    Giamblico abbia incontrato Amelio, al quale, per altro, piu che a Porfirio (di cui sappiamo che Giamblico fu per ·.un qualche tempo discepolo in Roma - a Giamblico Porfirio dedicò il suo Intorno al "conosci te steuo," e per Giamblico compose il De regreuu animae) sembra che Giamblico si avvicini, particolarmente per la sua molti- plicazione degli intermediari tra l'Uno, l'Anima e la materia. Sap- piamo che Giamblico, tornato in Siria, per lunghi anni, fino alla morte (325-26) insegnò ad Apamea, ove ebbe non pochi seguaci, si che si è poi parlato di una scuola neoplatonica siriaca, di cui Giam- blico sarebbe stato il fondatore. Per Giamblico, come per Amelio, la realtà tutta, interiormente all'Uno, si costituisce, dall'Vno, di triade in triade: unità, dualità e un terzo termine medio che dialettizza l'uno e l'altro in una dinamica unità. Come da un punto centrale,- veniamo cosi ad avere una serie infinita di circoli concentrici, tutti nell'unico circolo che li raccoglie in una sola unità, in un solo centro, l'Uno, per ciò stesso ineffabile, che è e vive nel suo scandirsi nelle triadi. L'Uno, dunque, assoluto, oltre l'essere, oltre il bene, oltre tutto, si costituisce ed è in quanto Intelletto, termine medio tra l'Uno e la pluralità, emergente dall'In- telletto stesso, a sua volta uno in quanto unità delle idee in atto, mol- teplicità di idee (potenze, intelligenze), che in realtà, comprese, sono a Pergamo: Edcsio, discepolo di Giamblico, seguito poi da Eusebio di Mindo (alcune sue sentenze sono conservate da Stobco), Massimo di Efeso (morto nel 372: autore, secondo Simplicio, In Catcg., I, 15, di un Commefllo alle Categorie di Aristotele, amico di Giuliano Imperatore), Crisanzio, Prisco (poco piu che nomi), Eunapio (la maggior fonte per l'a biografia dci ncoplatonici: di lui si conserva la preziosa Vita dci sofisti, in cui tratta della vita di 23 pensatori, c una Cronaca che va dal 270 ai primi anni del V secolo). Scolarca della scuola neoplatonica di Cappadocia fu Eustazio, discepolo di Giamblico. Altro noto discepolo di Giamblico, che, in Roma, aveva ascoltato anche Porfirio c che ebbe, poi, notevole influenza sulla formazione delle scuole ncoplatoniche di Alessandria e di Atene nel V-VI secolo, fu Teodoro di Asine, detto, da Proclo (In Tim., 341d), il "grande." Teodoro, su testimoniaaza di Proclo (In Tim., e in Rcmp.) e di Olimpiodoro (In Phaed.), avrebbe commentato testi platonici (Timco, Repub- blica, Pedone), e aristotelici (gli Analitict). Di Giamblico si sono conservate le seguenti opere: Vita pitagorica (è il I libro di un'opera intitolata Sillogc delle dottrine pitagorichc); Protrcttko alla filosofia (è il II libro della Sillogc: nel capitolo 20 del Protrcttico Giamblico riporta un lungo passo di un autore ignoto, forse un sofista scettico del v-IV sec. a.C.; il passo è andato sotto il nome L'anonimo di Giamblico); La comune scienza matematica (attribuito a Giam- blico, avrebbe costituito il III libro della Sillogc); Introduzione all'aritmetica di Nicomaco (attribuito a Giamblioo, avrebbe costituito il IV libro della Sillogc); Thcologumcna arith- mctièac (attribuito a Giamblico, avrebbe costituito il VII libro della Sillogc) (perduti sono i libri V, VI, VIII-X della Sillogc); Dc mystcriis Acgyptiorum (si discute se sia di Giam- blico o opera della sua scuola). Giamblico avrebbe inoltre scritto (di queste opere sono giunti solo frammenti e notizie): Commento agli Oracoli Caldaici (framm.); Dc diis (fonte dell'Inno al Sole di Giuliano e degli Dèi di Sallustio: cfr. Macrobio, Saturn., I, 17-23); Dc anima (framm. in Stobeo); Dc imaginibus (Fozio, Bibl., 215); Dc dcsccnsu animac (framm.); Commento aii'Aicibiadc I di Platone. 252    molteplici nell'unità dell'Uno intelletto (l'Intelletto è perciò: Padre, Potenza, Intelletto). I tre fondamenti (ipostast) dell'intelligibile sono, dunque, lo stesso Intelletto nella sua unità (mondo delle idee: x6a!J.OI; V01J-r6~;, k6smos noetòs), le intelligenze o potenze (x6a!J.OI; V01Jp6ç, k6smos noeròs), idee rappresentazioni dell'intelletto, e l'Intelletto in quanto intellezione dell'unità-molteplicità dell'Intelletto. Il terzo ter- mine delhi triade intelligibile, l'Intelletto, in quanto consapevolezza della Unità vivente intelletto-intelligenze, racchiude in sé la vitalità intellettuale, l'Anima del tutto, a sua volta una-molte-una. Veniamo cosi ad avere un mondo intelligibile (x6a!J.OI; V01J-r6~;) ed entro questo, da esso distinto, un mondo intellettuale (x6a!J.OI; V01Jp6ç), che ritrova la sua unità vivente nell'Anima dell'universo, che nella sua unità-molte- plicità-unità si distingue in infinite anime (dèi), costituenti i modelli, le forze, le leggi del cosmo sensibile, uno e molteplice, fino alla natura una e molteplice. Giamblico determina cosi, entro l'Unità tutta, due mondi: il mondo. ideale, posto come condizione, in sé tutto in atto nel suo scandirsi, e relativamente ai limiti, alle definizioni, posto come termine ultimo; e il mondo della natura, procedente dall'altro e a sua somiglianza. Tra l'uno e l'altro mondo - in effetto un sol mondo - si pongono, termini medi, la triade dell'Intelletto e da essa una seconda triade, dal cui terzo termine emerge il mondo degli dèi intelligenze, da cui si costituisce una terza triade, da cui di seguito, scaturiscono, sempre dal terzo termine (unità-sintesi) di ciascuna, tre nuove triadi e da ultimo un'ebdomade (sette termini che raccolgono in sé gli dèi modelli dei sette pianeti) e cosi via; invisibili gli dèi del mondo ideale, essi divengono visibili nel mondo del sensibile e della natura, rispec- chiandosi, in immagine, negli astri luminosi, e di qui negli altri inter- mediari (angeli o messaggeri, dèmoni, eroi), fino alle anime degli uomini. Potremmo seguitare e vedere come Giamblico moltiplichi, sul piano del mondo visibile, gli dèi celesti (ad esempio i dodici dèi zodia- cali, che, costituitisi triadicamente, dànno luogo a •trentasei dèi, a loro volta moltiplicati per dieci, realizzantisi in trecentosessanta dèi), gli dèi interni al eielo, gli dèi delle nazioni e ·delle città, fino a divinità sempre piu limitate, affermazioni di' sé, che rompono l'unità sinfonica e concatenata (fatale) del tutto (sono questi i dèmoni malvagi, i cattivi geni, le anime disperse, decadute, che piu non somigliano al divino astro da cui pur discendono). Porfirianamente nella complessa costruzione di Giamblico venivano a trovar posto tutte le divinità di tutte le religioni, in un incontro che si risolve in una sola teologia, ed ove in realtà, gli dèi e i loro nomi hanno un valore simbolico, evocante i momenti, le leggi, gli ordini, le potenze in cui si scandisce il tutto. Plotinianamente perciò, il male 253    (donde i dèmoni malvagi) è mancanza d'essere, definizione e limita- zione dell'aniii1a, che, con questo, per cosi di-re, si sgancia dall'ordine, rompendo la catena, per cui quell'anima è come presa dal dèmone malvagio, c sempre piu si allontana dal proprio buon dèmone, dalla propria stella, non somigliando piu alla propria potenza. In altre parole, nella visione di un tutto, di un universo vivente, ove ogni termine richiama l'altro, l'uno risponde all'altro, l'uno scaturisce dal- l'altro e concresce sull'altro, in infiniti aspetti esistenti tutti nell'Unità compiuta dell'Uno, l'esistenza del male, il dèmone è, appunto, il rima- nere nel limite, il non morire a questa vita per rivivere nella piu vera vita che è la vita del tutto, perdendosi in essa. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso, entro i termini dell'ordine tutto, della eterna armonia, Giamblico, rifacendosi a Nicomaco e a una certa tra- dizione pitagorica, possa sostenere che tutto ha il suo numero, che ciò senza di cui le cose non sono (ossia le leggi) sono numeri (e perciò le essenze, incorporee invisibili indivisibili incorruttibili, sono numeri). Di qui, in una interpretazione del Timeo platonico e delle pagine della Fisica aristotelica ove si discute dei luoghi e del tempo, si delinea la dottrina giamblichea del luogo divino (l'Uno che in sé raccoglie il tutto) e dei luoghi intesi come i limiti interni all'Uno, ove nell'ordine del tutto ciascuna cosa deve collocarsi, si che ciascuna cosa va al posto che le compete, attua la propria unità nell'Unità del tutto aspazide. E cosi, atemporale l'Universo tutto, atemporale l'Uno, il tempo con- siste nello scandirsi nell'Uno di tutti i suoi momenti, onde il tempo è, appunto, la misura del tutto (Anima del mondo), per cui, se ogni cosa, presa a sé, distinta, è nel tempo, ha il suo tempo, si come ha il suo luogo e il suo. numero, tutte le cose, colte nell'unità del tutto (il tempo dell'Universo, che sta al luogo divino) sono la temporalità, specchio e misura dell'atemporale Uno. E allora, come in un infinito unico specchio, ciascun punto dello specchio rispecchia da punti prospettici diversi se stesso, e ciascun punto prospettico, preso a sé, deforma la visione complessiva di tutto lo specchio, cosi le singole anime, le singole cose, se prese a sé, sono come visioni deformi di se stesse, specchianti il proprio specchio, nel- l'unità dello specchio. In un tutto articolato, e rispecchiante se stesso all'infinito, ogni aspetto richiama, seduce l'altro, anche se ogni aspetto non è l'altro, anche se i punti prospettici piu lontani rispecchiano depo- tenziatamente, in quanto v'è come una dispersione delle potenze, per cosi dire, invece, contratte al centro. Simbolicamente, dunque, tutto è costituito,. nell'Uno infinito, di dèi, che sono i momenti, le leggi, i numeri, le potenze del ritmo mediante cui necessariamente l'Uno esiste, mediante cui l'Uno in sé discorre, rispecchiandosi in ciascun numero, 254    in ciascun dio, dagli dèi intelligenze agli dèi astri, alle anime specchi di quegli astri e cosi via, in un depotenziamento che è tale prospetti- camente, ma che nell'Uno-tutto è concentrazione di assoluta potenza. Filosoficamente, allora, si può, traducendo il tutto in termini matema- tici e geometrici, ricostruire da un lato mediante linee e figure, dal- l'altro lato mediante proporzioni i necessari rapporti, la fatale catena che il tutto lega necessariamente. Sotto questo aspetto, magia e astro- logia, se condotte su di un piano matematico-geometrico, sia pure nella difficoltà dei calcoli e nei possibili errori, sono scienze esatte. Solo che al calcolo, alla ricostruzione delle proporzioni, sfuggirà sempre da un lato l'unità vivente, la sintesi costituente l'unità dialettica di ogni triade, dall'altro lato sfuggirà la molteplicità della vita, la dispersione delle potenze nel fluire della materia, il segno divino, sia pur depotenziato, che si specchia in questa o quella cosa dispersa. Se, relativamente all'Uno, i limiti, le determinazioni sono via ·via, entro l'Uno, un allontaiJ-amento e una separazione delle potenze, in un conseguente rispecchiarsi e riflettere sempre piu opaco, sino alla fluidità della materia, il ritorno all'Uno delle anime sarà possibile ricomponendo quella dispersione, rifacendola una nell'Anima. Da un lato, dunque, il ritorno all'unità lo si può avere in una ricomposizione della molteplicità nell'unità, rintracciando l'unità-molteplicità per via geometrico-numerica, in una sistemazione che, tuttavia, pur cogliendo le proporzioni e i legami che articolano il tutto nell'Uno, rimane sem- pre un sistema, diciamo cosi, esterno, disegnato; dall'altro lato, invece, il ritorno all'unità, cogliendone la vita, cioè l'unità vivente non piu solo esteriormente ma interiormente, si ottiene per altra via, che non è quella logico-matematica, che, se coglie il sistema esteriormente, non ne afferra la vita né salva l'anima una nell'unità divina. Per questa seconda via, cui pur si giunge attraverso la prima, l'anima rifà proprie le potenze disperse e rintraccia i segni opachi, operando sulle cose, riconducendole a sé, e con ciò riconducendo sé sotto il segno di una potenza superiore; immedesimandosi in essa, l'anima torna all'Uno e in esso e con esso diviene libera per la stessa necessità dell'Uno onni- potente. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Giamblico ponga la ricerca su due piani integrantisi: il piano della ricerca geometrico- aritmetica che coglie la struttura estrinseca e intellettuale della realtà, e che ha una sua funzione protrettica e necessaria per avviare ad oltre- passare il sistema, a rifare propria la vita e il senso della realtà; in ogni cosa rintracciando il suo segno, in una concentrazione di potenze evocanti, per imitazione, la relativa superiore potenza. Ed è questo il piano della magia e della teurgia, della "filosofia," intesa appunto 255    come scienza che coglie il mistero della vita, e come dominio, nella comprensione del tutto vivente, di tutte le cose. In tale senso Giam~ blico rovescia il rapporto magia-teurgia-riti'e filosofia di Porfirio; il rapporto viene ad essere l'opposto: l'aritmetica, la geometria, la filo- sofia come rintraccio del discorso della realtà (logica) sono il presup- posto della piu vera "filosofia" che è la teurgia e la magia astrologica. "Non è il pensiero," si legge nel De mysteriis, andato sotto il nome di Abbamone, ma attribuito da Proclo e da Damascio a Giamblico, "non è il pensiero che congiunge i teurgi agli dèi; perché allora che cosa impedirebbe ai filosofi contemplativi il godimento dell'unione teurgica con gli dèi? Le cose non stanno cosf: l'unione teurgica si raggiunge soltanto grazie all'efficacia degli atti ineffabili, compiuti nel modo adatto, atti che superano ogni comprensiQne e grazie alla potenza dei simboli indicibili, compresi unicamente dagli dèi... Senza nessuno sforzo intellettuale, da parte nostra, i simboli (auv&/j!J.OtT«, synthèmata), per virtu loro compiono l'opera che è loro propria" (De myst., 96, 13 Parthey). Che, d'altra parte, la teurgia di Giamblico non consista nella volgare credenza nelle oscure capacità del mago di costringere gli dèi e le forze occulte al proprio volere, ma rientri nell'àmbito della magia plotiniana, per cui è l'anima che ritornando in se stessa domina sé fuori di sé, in sé e nelle cose concentrando le potenze disperse, per cui rintraccia la superiore potenza; rifacendosi ad essa simile, onde piuttosto - attraverso le tecniche teurgiche - l'anima viene chiamata dal proprio dio, ciò è chiaro nel seguente testo del De mysteriis. A Por- firio, il quale aveva sostenuto che le XÀ~ae:tç (klèseis, invocazioni) dei teurgi, le preghiere con cui si attira su di sé la luce divina (De myst., 40, 17) sono atti di costrizione che implicano che gli dèi 'siano passibili (t!L7tat&dç, empathèis) come i dèmoni, Giamblico risponde che non è vero. Gli dèi non si lasciano affatto violentare, ma è l'anima che puri- ficandosi, che rientrando in sé domina sé malvagia, dispersa, il dèmone, e che facendosi simile al proprio dio è, in effetto, da lui chiamata: Che ciò di cui ora parliamo sia salutare all'anima, lo dimostrano i fatti stessi, con evidenza. L'anima, infatti, quando contempla i felici spettacoli, acquisisce una nuova vita e opera in virtu di un'arcana forza, si che nep- pure piu sembra, giustamente, un uomo. Spesso anche, avendo respinto la propria vita, l'anima ha ricevuto in cambio la infinitamente beatifica forza degli dèi. Se, dunque, l'ascesa ottenuta con le nostre preghiere procura ai sacerdoti la purifìcazione dalle passioni, la liberazione da questo mondo. l'unione alla fonte divina, come dire che tutto questo implica una passività degli dèi? Non è vero che queste specie di invocazioni attraggano con la forza gli dèi impassibili e puri nel passivo e impuro mondo; al contrario, tale ascesa fa di noi, che a causa della generazione siamo nati passivi, esseri 256    puri ed immobili (De myst., I, :12, 41, lO sgg.: cfr. in Festugière, La Révc· lation, cit., III, pp. 173-4). Aveva detto Plotino: Io credo che gli antichi saggi [ot 7tilÀocL (J6(jlOL: gli esperti dell'arte sacra], che, nel desiderio di avere tra loro presenti gli dèi, drizzarono templi e statue, mirando alla natura dell'universo, intuirono nel loro spirito che l'Anima si lascia facilmente attrarre dappertutto, ma che sarebbe stata la piu facile di tutte le cose trattenerla addirittura, qualora l'uomo avesse costruito qualcosa di affine e impressionabile, atto ad accogliere una qualche parte di anima. Ma impressionabile è, appunto, l'imitazione - comunque riuscita - la quale, proprio come uno specchio, sa rapire almeno un po' di figura (Enn. IV, 3, 11). Dirà Proclo: Gli antichi saggi, riferendo una cosa di quaggiu a un essere celeste, un'altra a un altro, portavano le potenze divine fino alla nostra dimora mor- tale, attirandole mediante la somiglianza, perché la somiglianza è abbastanza potente da collegare gli esseri gli uni agli altri... I maestri dell'arte ieratica [teurgi] hanno scoperto, in base a quello che avevano sott'occhio, il modo di onorare le potenze superiori, mescolando taluni elementi, e altri togliendone in misura appropriata. Se mescolano è P<:rché hanno osservato che ognuno degli elementi separati possiede qualche proprietà del dio, ma non basta per evocarlo; cosi, mescolando un gran numero di elementi diversi, uniscono le forze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono un corpo unico simile all'unità precedente la dispersione dei termini. Cosi fabbricano spesso, con tali mescolanze, delle immagini e degli aromi, impastando in un medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo artificialmente tutto quello che la divinità comprende in sé per essenza, riunendo la molteplicità delle potenze che, separate, perdono ognuna la propria efficacia, e che, invece, riunite, si combinano per riprodurre le forma del modello (in Bidez, Catalogues des manuscrits a/chimiques grecs, VI, Bruxelles, 1928, p. 139: cfr. Festugière, lA Rével., cit., I, Parigi, 1944, pp. 134 sgg.; anche Garin, Le elez. e il probl. dell'astr., cit., pp. 19 sgg.). Tra Plotino e Proclo v'era stata l'opera e l'insegnamento di Giam- blico, la sua interpretazione degli Oracoli caldaici (commento agli Oracolt) e il significato da lui dato alle tecniche e alle pratiche teur- giche, alla filosofia'Come mistero (De mysteriis), con cui si compie, in senso plotiniano e porfiriano, quella "conversione" dell'anima su se stessa (si confronti anche di Giamblico il trattato sulle varie conce- zioni intorno all'anima: De anima) con cui avviene, oltre la ragione, I"unione mistica, e a cui per altro si giunge attraverso una prima siste- 257    mazione dei rapporti mediante i quali il tutto si articola in unità, e che consiste in una traduzione del tutto in termini geometrici e nume- rici, in un cogliere la numerabilità dei numeri delle cose. Giamblico proclamò se stesso pitagorico e teurgo· ·sostenendo che, appunto, la divina dottrina di Pitagora serve da introduzione alla filosofia, che la filosofia deve usare lo stesso metodo della matematica, attraverso i cui simboli si arriverà a cogliere, oltre la ragione, il mistero della vita (cfr. in tal senso il De vita pythagorica, il Protrepticus ad Philosophiam, e le tre opere matematiche attribuite a Giamblico: De cotnmuni mathe- matica scientia, In Nicomachi arithmeticam introductionem, Theolo- gumena arithmeticae). Plotino, Porfirio, Amelio (non si scordi ch'era etrusco e che in Etruria sviluppatissime erano le tecniche vaticinatorie) hanno costituito tre linee (Plotino, Porfirio, Amelio-Giamblico) interpretative del tutto, che, ora intrecciandosi ora separandosi, a seconda che si sia puntato di piu o di meno sul momento mistico-irrazionalistico e operativo (Amelio-Giamblico), o sul momento dell'anima come "coscienza" (Porfirio), hanno dato luogo a problematiche e a soluzioni diverse sia sul piano teoretico (visivo-contemplativo, relativamente al rapporto Uno-Intelletto), sia in funzione di questa o di quella "visione," sul piano dell'interpretazione .di certi testi di Platone, considerato in fun- zione di questa o di quella interpretazione del platonismo. Troppo scarsi sono i frammenti che possediamo delle opere degli immediati discepoli di Giamblico e dei seguaci di questi ultimi per potere determinare correnti precise, precise delineazioni di quelli che furono i "neoplatonismi" tra Giamblico ("neoplatonismo" siriaco, proseguitosi, "dopo Giamblico, con Sopatro di· Apamea e Dexippo; di Pergamo di cui fu caposcuola Edesio, discepolo di Giamblico; di Cap- padocia, con Eustazio), e il neoplatonismo rinnovatosi nella scuola di Atene con Plutarco di Atene {Iv-v sec.) e, attraverso Siriano e Dom- nino, culminato con Proclo (v sec.), e rinnovatosi nella scuola di Ales- sandria con Ierocle di Alessandria, discepolo di Plutarco. Certo, Eunapio (Iv-v sec.), autore di una serie di Vite di 23 sofisti e filosofi (Vita sophistarum), la maggior fonte per le biografie dei neoplatonici, pur propendendo per l'aspetto magico-teurgico di origine giamblichea, sot- tolinea che già tra i primi discepoli di Giamblico e di Edesio, alcuni ne avrebbero criticato il preponderante motivo della teurgia, divenuto in alcuni vera e propria ciarlataneria, trucco, teatralità. Eunapio, for- matosi nell'ambiente neoplatonico dei discepoli di ·Edesio, che, seguace di Giamblico, apri una scuola a Pergamo, dice appunto che secondo Eusebio di Mindo - vissuto nel IV secolo e del quale sappiamo che fu 258    discepolo di Edesio in Pergamo - la magia praticata da certi suoi condiscepoli è, in realtà, cosa da "squilibrati, che pervertitamente stu- diano certi poteri, che derivàno dalla materian e che in particolare bisogna tenersi alla larga - e cosi consiglia il futuro imperatore Giu- .liano - da quel "teatrale taumaturgo,n che è il teurgo Massimo di Efeso (cfr. Eunapio, Vit. soph., 474 sgg. Boissonade). Massimo, vissuto nel rv secolo, fu discepolo di Edesio, a Pergamo, insieme a Eusebio di Mindo, a Crisanzio - celebre P<:r la sua vita ascetico-mistica, - a Prisco, poco piu di un nome (per tutti cfr. Eunapio, Vit. soph.). Giu- liano non ascoltò Eusebio di Mindo e si rivolse, invece, proprio a Massimo di Efeso (cfr. Giuliano, Epist., 26), chiedendo a un tempo a Prisco di procurargli un Commento agli Oracoli caldaici di Giam- blico: "Sono avido di Giamblico," scrive Giuliano, "per la filosofia e del mio omonimo [cioè Giuliano, autore degli Oracoli caldaici] per la teosofia : gli altri, in confronto, non li considero affatto n (Epist., 12 Bidez). Sappiamo, per altro, che, quando Giuliano divenne Imperatore (361-363), e, com'è noto, tentò, di contro al prevalere della Chiesa cri- stiana, ufficialmente riconosciuta, di opporre alla religione cristiana una ideologia universalistica imperiale che salvasse l'Impero dall'essere assorbito dalla Chiesa, Giuliano nominò Crisanzio supremo sacerdote della Libia e fece di Massimo il proprio consigliere teurgico. Alla morte di Giuliano, Massimo fu perseguitato dalla reazione cristiana, tanto che si riusd a farlo condannare a morte sotto l'imputazione di avere cospirato nei confronti degli Imperatori (371). Se Crisanzio, Prisco e particolarmente Massimo hanno portato, come sembra, ad estreme conseguenze la funzione della teurgia e della demo- nologia, approfondendo, come risulta anche da Proclo, lo studio delle tecniche e delle pratiche teurgiche, i modi con cui evocare le divinità, e con cui operare sulla natura, i modi con cui richiamare nelle cose e negli uomini le potenze divine, suscitando nell'uomo l'esperienza di convertire sé nell'unità vivente del tutto, di sdoppiarsi e ricomporsi negli "spiriti,n nulla di preciso possiamo dire del loro maestro Edesio di Cappadocia, di cui sappiamo solo che fu discepolo di Giamblico ad Apamea e che poi insegnò a Pergamo (di qui la cosiddetta scuola neo- platonica di Pergamo). Demonologo e teurgo fu un altro discepolo di Giamblico, Eustazio di Cappadocia, che, dopo avere ascoltato ad Apa- mea Giamblico, tornò ìn Cappadocia ove apri una scuola (egli fu invi- tato da Giuliano imperatore alla propria corte: Epist., 76). Continua- tore diretto di Giamblico fu Sopatro di Apamea. Di lui poco o nulla sappiamo, se non che fu divulgatore di Giamblico, che scrisse un'opera Sulla provvidenza e su coloro che hanno fortuna o sfortuna oltre il merito, e che dapprima in rapporti con l'imperatore Costantino fu poi 259    fatto condannare a morte da Costantino, in Costantinopoli (Sopatro dovette quindi morire prima del 337). Tra i primi discepoli di Giam- blico fu Teodoro di Asine, che, in Roma, aveva ascoltato anche Por- lirio. Del "grande Teodoro" (Proclo, In Tim., 341 d) Proclo riferisce che fu soprattutto un interprete e un commentatore di testi platonici (Timeo, Repubblica, Pedone: cfr. Proclo In Tim., In Remp.; Olim- piodoro in Phaedon; secondo Ammonio di Ermia, Teodoro avrebbe commentato anche gli Analitici di Aristotele: Ol4npiodoro, Sugli Ana- litict), considerati al lume della ricostruzione triadica di Amelio e di Giamblico, nel tentativo di offrire, per via allegorica, un tutto com- piuto ove trovassero posto le piu diverse esperienze religiose, nei ter- mini già illustrati da Porfirio. Per la discussione,. interna alle scuole sul numero dei demiurghi, da Amelio a Porfirio a Giamblico e a Teodoro, discussione che indica l'approfondimento dialettico della que- stione relativa al porsi dell'Uno e delle ipostasi, e che ebbe una forte influenza sull'analoga questione discussa in seno al Cristianesimo sul- l'unità-e trinità di Dio e sul rapporto tra Dio e le tre persone (non a caso dette, ad esempio, da Basilio il Grande ipostast), si confronti Proclo In Timaeum, 333-334. Particolarmente interessante, invece, per la storia delle interpretazioni delle Categorie aristoteliche il Com- mento alle Categorie di Dexippo, vissuto nel IV secolo, discepolo di Giamblico, in cui Dexippo, spiega dialogicamente a un certo Selemco il significato delle categorie, sostenendo, di contro a Platino e seguendo Porfirio, che le categorie hanno un valore formale e servono per intro- dursi a cogliere la dialetticità dell'Essere in senso plotiniano.Arnobio e LAttanzio. Costantino. Seguito o combattuto, inter- pretato sotto un certo angolo visuale (la questione del rapporto tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) o sotto altro aspetto (particolar- mente quello della grazia e della redenzione), condannato per certe sue dottrine, considerate poi "eretiche" (l'apocatastasi, la subordina- zione del Figlio al Padre, l'Evangelo Eterno, o la esasperata interpreta- zione allegorica delle Sacre Scritture), o seguita la sua autorità in una interpretazione del Cristianesimo itt chiave neoplatonica, certo è che l'opera di Origene ha costituito uno dei perni su cui verranno ruo- tando le ulteriori elaborazioni, discussioni, sistemazioni della conce- zione cristiana. Senza dubbio, per altro, Origene, sia per la sua grande cultura nel campo classico come nel campo dell'esegesi biblica, ~ia per la sua capacità di avvertire i problemi, ha messo in chiaro quelli che erano i dubbi, le aporie, le difficoltà del Cristianesimo nel suo piu maturo incontro con le piu mature concezioni greche, mostrando ad un tempo i punti in cui l'accordo poteva precisarsi e i punti in cui il Cristianesimo si presentava come un'esperienza e una concezione irri- ducibili al metro della concezione classica. Sotto questo aspetto l'op..:ra di Origene, morto a Tiro nel 255, in seguito alle torture sofferte durante la persecuzione di Decio, serve anche a comprendere la pro- blematica, le aporie, le discussioni sul significato del Cristianesimo, che rintracciamo in opere, maturatesi al di fuori della diretta influenza di lui, ma non certo del neoplatonismo diffusosi nel mondo latino, non solo per la permanenza di Plotino in Roma, ma anche attraverso i diretti discepoli latini di Plotino. E qui pensiamo agli scritti degli afri- cani Arnobio e Lucio Cecilio Firmiano, soprannominato Lattanzio. Sotto questo aspetto, la curiosa opera di Arnobio/1 nato nel 255-260, il Nato a Sicca, nella Numidia (Africa proconsolare) tra il 255 e il 260, Arnobio fu maestro di retorica a Sicca per lunghi anni. Oratore famoso per la sua avversione al Cristianesimo, non poco stupl gli ambienti cristiani d'Africa la sua improvvisa con- 272    a Sicca, nell'Africa romana, I'Adversus Nationes (in sette libri, "lucu- lentissimi libri adversus pristinam religionem," composti dopo il 297), ha un notevole significato storico, pur nella sua tortuosità, nel suo faticoso andamento, nella sua mancanza di idee chiare sul piano dot- trinale-teologico, ebraico e cristiano. Arnobio, di famiglia non cristiana, rètore di fama e professore di retorica a Sicca, noto, in campo cri- stiano, per la sua ·dichiarata avversione nei confronti del Cristiane- simo, sembra, secondo il racconto di San Gerolamo (De viris ili., 79), che sia improvvisamente passato alla nuova religione. La conversione - si dice - fu dovuta a un/ sogno che lo illuminò sul significato della nuova concezione. Anche se il sogno è un aneddoto ed è simbolico, rivela che la tesi esplicata da Arnobio nella sua opera, cosi violenta, sino a divenire ingiusta, contro la filosofia e le religioni "antiche," su cui, d'altra parte, Arnobio dimostra di essere preparatissimo, ignorando, in- vece, le Sacre Scritture, è che la "conversione" non è frutto di insegna- mento, non è dimostrazione di una certa verità che convinca di errore, ma è dovuta ad un atto gratuito, miracoloso, extraumano. Arnobio scrisse I'Adversus Nationes per convincere il vescovo di Sicca che, diffidando della sincerità della sua conversione, era in dubbio se accoglierlo o no nella Chiesa. Ciò, evidentemente, indusse Arnobio a respingere con vio- lenza, in blocco, tutta la cultura classica, le antiche concezioni, senza uscire fuori da quella cultura e da quelle concezioni, usando anzi - egli rètore e dotto delle varie ipotesi e tesi della filosofia classica e delle varie forme religiose, ignorante della tradizione ebraico-cristiana - quelle stesse tesi e ipotesi in senso fiegativo per mostrarne la contradditto- rietà, l'insufficienza a dare un senso alla vita, l'illusione che all'uomo sia concessa una funzione nell'ordinamento del tutto. E qui s'innesta il significato piu profondo dell'opera di Arnobio: il suo pessimismo sull'uomo, "questa cosa infelice e misera, che si duole di essere, che detesta e piange la sua condizione e non intende di essere stato creato per altro, se non per diffondere il male e perpetuare la sua miseria" (Il, 46). Se anche l'uomo non ci fosse, il mondo resterebbe ugual- mente quello che è: Gli uomini in che cosa giovano al mondo e perché mai sono indispen- sabili?... Aggiungono qualche parte alla formazione della pienezza di questa mole e, se non fossero stati aggiunti, l'universo sarebbe forse zoppicante e versione (avvenuta nel 295-296 circa, a causa eli un sogno). Il vescovo di Sicca, per pru- denza, temendo una finzione, resistendo alle preghiere del convertito, non volle sulle prime ammetterlo tra i catecumeni. Arnobio, allora, a prova della sua sincerità, scrisse i sette libri dell'Adversus Nationes, compiuti nei primi anni del JV secolo, che prende le moS>e dalla critica a un recente libro del neoplatonico Cornelio Labeone, sostenitore dell'antica religione. Secondo San Gerolamo, Arnobio sarebbe morto nel 327. 273    imperfetto? E che, .forse se non ci fossero gli uomini il mondo verrebbe meno ai suoi doveri e le stelle non compirc;bbero il loro corso, non vi sareb- bero piu estati e inverni, cesserebbero i soffi dei venti, né dalle nubi conden- sate e sovrastanti cadrebbero le pioggie per portare refrigerio alle aridità? (Il, 37). Ontologicamente inutile, l'uomo è anzi una scheggia nella econo· mia dell'Universo, un essere orgoglioso, malefico e maligno, dedito solo a violenze e a delitti (Il, 38). Se tale è l'uomo, non solo è empio rite- nere che l'uomo sia stato creato da Dio, quel Dio che tutti ammet- tono essere il fondamento dell'ordine e della perfezione del tutto (l'uomo piuttosto dovremmo dire ch'è statQ creato da divinità infe- riori, impotenti), e illusione è credere con Platone che l'anima umana sia dello stesso genere della divinità, onde neppure si può dire che immortale per natura sia l'anima, per cui non è dato certo all'uomo ricostruire, attraverso se stesso, riconoscendo sé divino ("reminiscen- za"), le strutture su cui si scandisce il ritmo della realtà. Se davvero l'uomo fosse di natura divina, se l'essenza dell'uomo fosse un aspetto dell'essenza divina, l'uomo si annullereboe nell'umanità e l'umanità in Dio, l'uomo sarebbe, ma non esisterebbe. In realtà, certe filosofie greche (Platone, Aristotele, gli Stoici) risolvendo. tutto in Diq negano l'esi- stenza dell'uomo. Di fatto l'uomo esiste.e la sua esistenza implica ch'egli è limite, male, e che il suo esistere si risolve tutto, come vuole Epicuro, entro l'arco dello stesso esistere umano, e perciò, sotto questo aspetto, la vita umana non ha alcun senso, nessun fine, non serve a nulla, ogni costruzione filosofica dell'uomo si risolve in una ipotesi puramente umana. Limite e determinazione, corporeità, l'uomo non può essere che coscienza del limite; egli è perciò sensazione ed ogni sua cono- scenza non può non basarsi perciò che sulle sensazioni (II, 20), per cui all'uomo non è dato oltrepassare le proprie costruzioni, rimanendo sempre come distaccato dal tutto, costituendo un mondo a parte, un mondo di limiti, di chiusure, di affermazioni, un mondo senza spe- ranza. Inesistente l'uomo nelle concezioni platonico-neoplatoniche; senza senso, mortale, annullato nel suo stesso apparire, l'uomo nelle conce- zioni epicuree; illusioni e costruzioni umane gli dèi, le credenze delle religioni; ben disperate, tristi, si rivelano, attraverso le stesse filosofie e religioni, la situazione e la condizione umane. Volete deporre la vostra connaturata superbia, voi che presumete di avere quale padre Dio e che sostenete di dividere con esso l'immortalità? Volete indagare che cosa mai siete voi, da chi siete nati, cosa fate nel mondo, perché mai siete venuti alla vita?... Non siamo simili agli altri animali? Siamo anche noi formati di ossa e di nervi, respiriamo con le narici l'aria, siamo distinti in sessi, come gli animali veniamo fuori dall'alveo materno. Ci sosteniamo con cibi, ed emettiamo il superfluo dalle parti inferiori, andiamo incontro a malattie e a morte! (II, 16). Se gli uomini avessero conosciuto intimamente se stessi, mai avrebbero presunto di possedere una natura immortale e divina,... mai, sollevati dalla superbia e dall'arroganza, si sarebbero creduti primarie divinità uguali a Dio, solo perché hanno escogitato la grammatica, la musica, l'oratoria e le formule geornetriche (II, 19); noi che nasciamo dai genitali femminili, che emettiamo senza posa inutili vagiti, che succhiamo poppando mammelle, che ci copriamo e c'insoz.z:iamo delle proprie sporcizie... (II, 39). L'insistenza di Arnobio sull'uomo nullità, bruttura, limite, è dovuta al senso tragico della vita, proprio del pensiero greco, del cosiddetto pessimismo greco, per il quale, almeno in certe posizioni di fondo, c'è Dio, c'è l'ordine, il tutto è razionalmente costituito, ma in realtà non c'è l'uomo. E quell'uomo dipinto in si fosche, deprimenti tinte da Arnobio, entro i termini della sua formazione non cristiana, è la con- clusione tragica del pensiero greco sull'uomo, di quell'aporia sull'uomo, che se è tutto è nulla e se esiste è ugualmente nulla, limite, male, non essere. Proprio tale rivelazione, tale consapevolezza .della sciagurata posizione dell'uomo, dà a un uomo di cultura greca come Arnobio il significato nuovo dato all'uomo dal Cristianesimo, in cui, se mai, non c'è Dio - Dio si pone come fede e speranza, e la sua presenza è rive- lazione, da parte sua, della sua mancanza -, ma c'è l'uomo, nella sua situazione tragica, ma anche, ad un tempo, nella sua possibilità, attra- verso il Cristo, d'essere uomo reale e concreto, persona. È appunto tale rivelazione di quello che l'uomo è per natura, sganciato dal tutto nel suo esistere - non a caso le cupe e orripilanti parole sull'uomo che nasce nel sangue e negli escrementi, che è bruttura e malattia, ritorne- :anno sempre qualora si punti sull'uomo sganciato dalla grazia e dalla ·ivelazione, dimentico di Cristo: e qui pensiamo, ad esempio, al De :ontemptu mundi di Innocenzo III, di cui alcune pagine sembrano ·icalcate da Arnobio - è tale consapevolezza che dà· un senso alla fede :ristiana. Ecco perché dicevamo che per comprendere Arnobio (e non 1olo Arnobio, ma la piu profonda ragione del passaggio di molti al :ristianesimo, in cui si salva l'uomo; "la novità ch'esso portava con ;é era la liberazione della personalità," è stato detto, "incatenata :lalla religione e dalla morale dello Stato, che in sé riassorbiva e per- :leva l'uomo": cfr. Kovaliov, Storia di Roma, Il, trad. it., Roma, L9SS, p. 236) bisognava tener presente la rielaborazione origeniana sulla paradossale situazione umana. L'uomo non è natura: l'esistenza umana, ~on cui l'uomo assume una sua natura è frutto di un atto di volontà, ~ determinazione dovuta a un atto di libertà, che chiude l'uomo a qual- >iasi altra possibilità, rendendolo quello che è: male e limite, insignifi- 275    cante, inutile, scheggia e rottura del perfetto ordine del tutto in Dio; egli uomo male e limite, e non l'Universo, natura una in Dio, in sé buona. Rompere contro il male, dunque, è rompere contro la propria natura. Solo che tale consapevolezza, essendo essa stessa contro natura, non è piu umana, è dovuta a un atto innaturale e perciò extraumano, divino, a un atto della volontà divina che vuole salvare l'uqmo. Tale la forza del messaggio cristiano, tale la rivelazione del Cristo, venuto a salvare l'uomo, o meglio a restituire l'uomo a se stesso. Entro questi termini sembra chiaro in che consista il senso da un lato del pessi- mismo di Arnobio, l'accusa di Arnobio nei confronti di tutta la con- cezione greco-romana, dall'altro lato, indipendentemente da ogni impal- catura teologico-cristiana, della sua conversione al Cristianesimo, .che offriva la salvazione dell'uomo non come concetto, ma nel suo esserci reale, nella sua responsabilità morale. Non a caso cosi, riprendendo un motivo proprio della polemica cristiana (cfr. San Giustino), Arnobio sostiene che l'anima non è né immortale (come vorrebbe Platone: cfr. Il, 14), né mortale (come vorrebbe Epicuro: cfr. Il, 30), ché nel- l'uno e nell'altro modo negheremmo l'uomo. La mortalità e l'immor- talità sono dovute a Dio, a seconda se l'uomo, una volta riscattato dal Cristo, abbia saputo o no essere responsabile di se stesso. Opposta alla posizione di Arnobio sembra la posizione di Lucio Cecilio Firmiano,7 detto Lattanzio, africano della Numidia, ch'ebbe, a Sicca, Arnobio, maestro di retorica, soprattutto per la sua esaltazione dell'uomo, centro dell'universo, microcosmo, che non poco risente degli scritti ermetici, particolarmente dell'Asclepio, citato e discusso da Lat- tanzio sotto il titolo L6gos telèios (Sermo perfectus). In Arnobio ciò che piu colpisce è la negazione della concezione classica, che nelle sue conclusioni porta l'uomo alla disperazione, donde il passaggio alla tesi del Cristianesimo sull'uomo nulla, male, limite, in quanto esistenza che 7 Lucio Cecilia Firmiano, detto Lattanzio, nacque in Numidia, . presso Sirta, o Mascula, nel 260 circa. Compiuti gli studi retorici a Sicca sotto Arnobio, divenuto oratore di grido, insegnò prima retorica in Africa, poi, chiamatovi da Diocleziano, a Nicomedia (dal 300 circa). Convertitosi al Cristianesimo nel 302, quando nel 303 ebbe inizio la persecuzione contro i Cristiani, Lattanzio abbandonò la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita privata e dal 305 (in tale anno appare ancora a Nicomedia) sparendo dalla circolazione. Nel 303-304 Lattanzio scrisse il De opificio Dn (opera assai prudente), tra il 305 e il 311 compose i sette libri delle lnstieutiones dit~intU, dedicate, quando furono compiute, all'Imperatore Costantino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne precettore dopo il 313, in Gallia, a Treviri, dove soggiornò certo fino al 320 (ogni traccia di lui si perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione, composti, sembra, tra il 311 e il 317, sono il De ira Dei, il De mortibus persecutorum e una Epitome delle Istituzioni. A Lattanzio è, infine, attribuito (si dubita che sia di lui) un breve poema Sulla Fenice (De fltle Phoenice). 276    è peccato; tutto, centro morale, responsabilità, possibilità di volersi mor- tale o immortale in quanto redenzione. In Lattanzio, nel suo tentativo di offrire, da quel buon professore di retorica ch'era stato, il manuale della concezione cristiana nel suo insieme - non a caso·l'opera sua maggiore va sotto il titolo di lnstitutiones divinae, - ciò che piu col- pisce è la sistemazione in unità dei piu vari motivi, 3:nche opposti e in contrasto, che separati, in fermento, s'erano venuti maturando tra platonici e cristiani nel corso del II e del m secolo, e dove il signifi- cato e la funzione dell'uomo vengono veduti in rapporto all'economia dell'universo e di Dio, interpretando la soluzione neoplatonica, in chiave cristiana. Le ragioni della conversione di Lattanzio sono molto piu semplici e piane che non quelle drammatiche di Arnobio. Le ragioni delle filosofie - in realtà del neoplatonismo e di Platone, quest'ultimo filtrato attraverso Cicerone - trovano il loro fondamento e criterio nelle ragioni della fede cristiana. Le religioni del passato non hanno alcun fondamento logico; la sapienza, basandosi su se stessa, non può non sfociare se non in una posizione di problematicità, nel "proba- bile" ciceroniano. Il conflitto tra i due termini si risolve nell'accetta- zione di una tesi in cui le "ragioni" dei filosofi trovano il loro fon- damento nella ragione rivelata da Dio, in cui, per altro, consiste la vera religione. "A nessuna religione si giunge senza sapienza, solo che nessuna sapienza è tale se non si fonda sulla religione" (lnst. div., I, 1). "La religione consiste perciò nella sapienza e la sapienza nella reli- gione" (IV, 3). La religione, in quanto sentimento di dipendenza da un essere supe- riore, cui ci sentiamo legati, implica, come appare dalla religione cri- stiana, come, per bocca dei suoi profeti, e degli oracoli sibillini, ha rivelato lo stesso Dio, un Signore unico da cui tutto dipende, che a tutto provvede (basta alzare gli occhi al cielo, dice Lattanzio, I, 2, secondo il vecchio luogo comune, per rendersi conto che tutto è prov- videnzialmente ordinato). E uno solo ha da essere tale Dio e Signore, mette in evidenza Lattanzio, sottolineando che perciò false religioni sono quelle politeistiche (cfr. I: De falsa religione), ché altrimenti, ammettendo piu Signori o dèi dovrerpmo ammettere che tale Dio non è autentico Signore, non ha la potenza di reggere tutto; non solo, ma piu dèi verrebbero in contrasto tra di loro, mentre già la funzione che in ciascuno di noi ha l'anima di reggere in unità la molteplicità delle nostre membra e i vari aspetti delle nostre funzioni, dimostra che Dio, ciò da cui tutto dipende e che il tutto guida, non può non essere che uno (I, 3). Se tale è la religione, la sapienza che ritenga fondarsi sulle proprie forze, rinnegando giustamente le insipienti fantasie delle religioni, 277    rimarrà oscillante, porrà ipotesi, tutte possibili, in quanto, appunto, resta sganciata dal suo stesso fondamento, che è la fede, la rivelazione di Dio (cfr. II, De falsa sapientia, e III, De origine erroris). E allora, se unica è la fonte della religione e della sapienza, cioè l'unico Signore c padrone (religione, per cui dobbiamo dirci servt), da cui tutto di- pende, che, rivelatosi, rende conto delle sue stesse ragioni (sapienza, per cui dobbiamo dirci figli, simili alla ragione di Dio, che è il suo stesso figlio e l6gos), si capisce come Lattanzio sostenga che la sapienza ha da fondarsi sulla religione e la religione ha da essere illuminata dalla sapienza, e che, perciò, religione e sapienza, separatesi nel tempo, con la caduta, debbono ricongiungersi, e tale è il messaggio del Cri- stianesimo, la verità cristiana, per cui il Cristianesimo è una religione filosofica: o una "pia filosofia" (cfr. IV, De vera sapientia). Da tutto questo chiaramente appare che sapienza e religione debbono essere congiunte tra di loro. La sapienza riguarda i figli, ed esige l'amore; la religione i servi, ed esige il timore. Come quelli, infatti, debbono amare ed onorare il padre; cosi questi debbono curare e temere il padre. Dio, quindi, che è uno, poiché ha in sé l'una e l'altra persona, quella del padre e quella del figlio, lo dobbiamo amare poiché siamo figli e temere poiché siamo servi. La religione, dunque, non può essere separata dalla sapienza, né la sapienza può essere distinta dalla religione, perché unica cosa è Dio, il quale dev'essere compreso, il che appartiene alla sapienza, ed onorato, il che appartiene alla religione. La sapienza_vien prima, la religione segue: in primo luogo si deve conoscere Dio, in secondo luogo onorario. E cosi una sola pPtenza è in due nomi, sebbene sembrino diverse. L'una, infatti, è posta nel senso, l'altra nell'azione; in realtà sono simili a due fiumi, scaturienti da una sola fonte. Fonte della sapienza e della religione è Dio, al quale questi due fiumi, se si sono divaricati, è necessario ritornino; coloro che ignorano Dio, non possono essere né sapienti né religiosi. E cosi avviene che i filosofi e coloro che venerano gli dèi sono simili o ai figli dissidenti, o ai servi ·fug- gitivi, poiché né quelli cercano il padre, né questi il padrone... (IV, 4). La tesi apologetica di Lattanzio è molto precisa. Egli da buon retore ciceroniano sa a chi si rivolge, conosce le esigenze di un certo pubblico, particolarmente angosciato dal problema del destino del- l'uomo, deluso dalle risposte della filosofia, e che, invece, poteva tro- vare risposta nella tesi cristiana: l'essenziale, esclama non a caso Lat- tanzio, non sta tanto nelle dimostrazioni dialettiche, ma nel sapere in che modo ci convenga vivere, nel saper dare una risposta alla do- manda: perché nasciamo, perché viviamo? (cfr. III, 7, 1-2; III, 12, 1). Le ragioni della ragione trovano il loro fondamento nella fede. La scienza in quanto conoscenza dell'essere, mediante cui dare un senso alla nostra vita, non sarebbe tale, "scienza," se non trovasse un suo 278    criterio. L'uomo, per sua natura, in quanto esistente, è limite, è anima e corpo, chiusura. All'uomo in quanto tale, non resta, sf come è dimo- strato da Platone e da Cicerone (il Platone di Lattanzio è il Platone filtrato attraverso Cicerone), se non un'aspirazione all'essere, l'esigenza di porre l'Essere come uno; all'uomo in quanto tale non è dato oltre- passare se stesso. E allora, la coscienza che l'uomo ha di sé come con- flitto e limite, la sua stessa esigenza di oltrepassare il limite, che già lo pone oltre il limite, non può essere dovuta all'uomo naturale, ma ad un intervento di Dio. Tale la risposta ebraica (Filone l'Ebreo e la sua interpretazione di certi testi biblici, ove ancora una volta va tenuto pre- sente il ribaltamento del concetto di "sapienza" secondo il testo del- l'Ecclesiastico) e quella cristiana (il rivelarsi ultimo di Dio all'uomo mediante il Cristo, il L6gos di Dio, fattosi uomo, mediante cui l'uomo da anima-corpo, limite, può tornare, se vuole, a farsi simile alla ragione di Dio, ridando un senso al proprio esserci, al proprio conflitto, senza di cui non ci sarebbe ~irtt!). Gran miracolo è l'uomo, dice Lattanzio, riprendendo dall'Asclepio, citando piu volte i libri ermetici ed Ermete Trismegisto, ch'egli pone afianco dei profeti e degli Oracoli Sibillini; grande è l'uomo, perché l'uomo è specchio dell'universo, a sua volta immagine di Dio, unità vivente, in cui tutto si raccoglie in unità, perché l'uomo è simile a Dio, o meglio al figlio di Dio, al L6gos, termine medio tra l'Uno Dio ineffabile e le infinite possibilità di Dio, mediante cui assume realtà, ha un fondamento la molteplicità, una nel-· l'unità vivente di Dio. Solo che tale coscienza, per cui nell'uomo s'in- centra l'universo, tornando con ciò l'uomo simile a Dio, onde l'uomo - termine medio tra la spiritualità, tra il figlio di Dio e l'anima, limite, e il corpo, limite piu opaco - può scegliere tra l'essere simile a Dio, riconoscendo a propria guida il Cristo, o divenire ancora piu limite, sempre meno amico del re dell'Universo, tra voler essere immortale o mortale; tale coscienza, tale possibilità di rompere contro la natura, tale conflitto tra bene e male, in cui consiste la virtuosità - non vi sarebbe virtu se non vi fosse il vizio, dice Lattanzio - non sarebbe possibile senza la rivelazione di Dio, esplicitatasi mediante il L6gos di Dio, fattosi uomo (Cristo), con il quale l'uomo può reintegrare se stesso. Il sentimento di dipendenza da un solo e unico Signore e padrone (religione), rivelato da Dio, mediante i suoi profeti, e poi da Cristo, riconduce l'uomo a ritrovare nella sapienza di Dio (in senso ebraico- filoniano) il fondamento della sapienza umana, ridando all'uomo da un lato la capacità di essere virtuoso (cioè di proporsi come conflitto tra sé natura, unità di anima e corpo, limite, e sé simile al L6gos e a Dio, rompendola contro la natura, per cui l'essere immortale o mor- 279    tale diviene una scelta), dall'altro lato di ricomprendere in sé l'universo tutto, scoprendo in sé Dio, termine ultimo; fine del proprio destino, in una celebrazione dello stesso Dio. "Il mondo è stato fatto perché noi nascessimo; noi nasciamo per riconoscere l'autore del mondo e noi stessi, Dio; lo conosciamo per rendergli un culto; gli rendiamo un culto per ricevere l'immortalità, in ricompensa dei nostri sforzi; ecco perché in ricompensa ricevia~o l'immortalità, s( che, divenuti simili agli angeli, perpetuamente si serva il padre nostro Signore, e si costi- tuisca l'eterno regno di Dio. Tale il significato piu profondo del tutto, tale l'arcano di Dio, tale il mistero del mondo" (VII, 6). Proposta come unica soluzione alla condiziçme tragica dell'uomo concreto - disperso e abbandonato a se stesso, quale risultava, dalle concezioni greco-romane - la fede nella tesi ebraico-cristiana (del- l'uomo che si salva mediante la rivelazione di Dio, e che, per mezzo della venuta del Cristo, può ritornare, lavato dal peccato, con le sue forze, a celebrare quel Dio per il quale è stato fatto e dal quale è decaduto), Lattanzio poteva sfruttare, sul piano teoretico-teologico, i motivi del rapporto Uno-molti, Intelletto-intelligibili (L6gos), propri del neoplatonismo, particolarmente di certi testi ermetici e, per altro verso, di Filone l'Ebreo, filtrati attraverso certe interpretazioni del- l'apologetica greca. Molto abilmente c~s( Lattanzio tende a convincere, a persuadere, che l'unica verità è quella del Cristianesimo e che solo attraverso di essa si dà un senso e un perché alla vita degli uomini; senza per altro rinnegare i motivi teologico-filosofici della cultura greco- romana, che, preparatoria della rivelazione ultima, deve essere riassor- bita nel Cristianesimo, in quanto, appunto, illuminata e resa vera dalla rivelazione di Dio. Anzi, i testi ermetici, i testi neoplatonici servono ora a illuminare, a render conto della fede cristiana, rappresentano il momento filosofico della religione. Il "semidivino" ·Ermete Trismegi- sto, esclama Lattanzio, "non so in che modo ha quasi investigato la verità tutta" (IV, 9). Ermete chiarisce certi aspetti della teologia cri- stiana, il significato del Dio uno e ineffabile, anonimo, solitario, (ausa sui (che "ex se et per se ipse est": cfr. Epitome, 4), che tutto trae da sé, anche la materia, mediante il proprio L6gos, su cui si fonda la creazione di Dio, anche quella dell'uomo, fatto. a sua immagine e somiglianza, costituito di anima e corpo, e che liberandosi da se stesso, limite e deficenza, può, attraverso il L6gos, incentrare in sé l'Universo, ritornando a Dio (cfr. lnst. div., I, 6; IV, 6; Il, 8, IO; VI, 25; VII, 13, 18; per le citazioni dal corpo ermetico e dagli Oracoli Sibillini, cfr. l'edizione del Brandt, Ilb, p. 254 e pp. 258 sgg.). E cos(, ad esempio, nella spiegazione del rapporto Dio Padre e Dio Figlio, forte si sente, anche nelle immagini, l'influenza del "neoplatonismo." Uno Dio, il logos non è un due rispetto al Padre, non divide l'unità sua, ché l'unità divina è vita nel suo L6gos, per cui il L6gos, conoscenza del- l'unità vivente di Dio, è la stessa sostanza di Dio, che per sovrabbon- danza emana da sé il Figlio, unico con l'unica fonte, simile a raggio che proviene dal sole, e che,' pur distinguendosi dal sole, è della stessa essenza di esso, si come la luminosità del sole è tale in quanto una con la luce che emana dal sole. Ci può, forse, chiedere qualcuno perché noi che diciamo di venerare un solo Dio, sosteniamo tuttavia due dèi, Dio padre e Dio figlio... Quando diciamo Dio padre e Dio figlio, non diciamo che siano diversi, né li distin- guiamo l'uno dall'altro. Il padre non può esser distinto dal figlio, né il figlio dal padre; né il padre può esser detto tale senza il figlio, né il figlio può essere generato senza il padre. Il padre, dunque, fa tale il figlio, e il figlio il padre. Una in ambedue la mente, uno lo spirito, una è la sostanza. Ma quegli è come una fonte esuberante, questo si come un fiume defluente dalla fonte. Dio è come il sole, il figlio è simile a un raggio scaturito dal sole; e poiché è fedele e caro al sommo padre non se ne separa, si come il rivo dalla fonte, il raggio dal sole (anche l'acqua della fonte, infatti, è nel rivo, e la luce del sole è nel raggio)... (IV, 29). In realtà, l'elaborazione teologica di Lattanzio riconduce il Cristia- nesimo al "platonismo," sia pur in una forma accessibile ai piu, ove, in conclusione, l'interpretazione del Cristo, sul piano di quel "plato- nismo," viene a togliere ogni significato alla "grazia" e alla "reden- zione," ed in cui il Cristo è, perciò, presentato piuttosto come guida e maestro che non come redentore, sanando nell'uomo piuttosto la sua capacità conoscitiva, mediante cui, ricongiungendo sapienza e religione, sarà di nuovo possibile all'uomo essere virtuoso. "Noi," afferma Lat- tanzio, aprendo le sue Istituzioni divine, "che abbiamo ricevuto il sacro mistero della vera religione, poiché la verità ci è stata rivelata da Dio, per cui lo seguiamo come dottore della saggezza e come guida verso il vero, invitiamo tutti a questo celeste convivio, senza distinzione né di età né di sesso, ché nessun altro alimento è piu dolce all'anima della conoscenza della verità" (1, l). Non poco indicativo è, cosi, da parte del rètor.e Lattanzio l'avere preso a modello del suo persuasivo discorso sulla "vera religione," tale in quanto è "vera sapienza," ornate copioseque, Cicerone. Lat- tanzio punta continuamente sull'aspetto morale del Cristianesimo, piu che su quello teologico, sulla posizione dell'uomo centro della stessa vicenda del tutto, per cui l'uomo è restituito a se stesso, è responsabile del suo destino, nella fede insegnata dal Cristo in un ordine e in una giustizia, che costituiranno nell'unità morale dei Cristiani il regno di 281    Dio, in un diritto naturale che si trasfigura in "diritto divino," in un'obbligatorietà al Signore supremo che diviene perciò volontaria; ciò indica con chiarezza da un lato che Lattanzio si era reso conto della piu profonda esigenza degli uomini del suo tempo, nella crisi dell'Impero, dall'altro lato che il fondamento stesso dell'Impero, la sua forza, il suo universalismo, erano oramai depositati nella concezione cristiana. Sotto questo aspetto sembra esatta la definizione data dagli umanisti di Lattanzio: "Cicerone cristiano." Come Cicerone aveva dato una filosofia ai Romani dell'ultima Repubblica, discutendo le varie ipotesi, i pro e i contra, s1 da persuadere (donde l'importanza data alle tecniche retoriche) a quell'ipotesi che secondo Cicerone sarebbe ser- vita a dare un fondamento alla res-publica, in .un rapporto umano fon- dato su di un diritto unico e universale, sp,ecchio della legge su cui si ordina il tutto, cosi ora Lattanzio, proprio rifacendosi a Cicerone (qui non tantum perfectus orator, sed etiam philosophus fuit: l, 15) ritiene di dover porre le proprie tecniche oratorie al servizio della concezione cristiana, in un copioso e ornato discorso, cbe razionalmente convinca di quella verità rivelata dallo stesso Dio, che sola dà all'uomo, a tutti gli uomini la possibilità di salvarsi. Si 'può costituire cosi, già in terra, una città cristiana, di cui il regno di Dio, che pur tuttavia non· sarà mai di questa terra, è posto come termine ultimo, ed ove Dio, Signore supremo, a sua volta vien posto come lo stesso criterio di Obbligato- rietà, il sùpremo re, che premia e che punisce. Non a caso cosi, sotto l'aspetto teologico, Lattanzio nel delineare l'unità di Dio, Padre e Signore, si rifà alle tesi ".neoplatoniche," mediante cui piu facile era convincere alla tesi cristiana dell'uomo creato da D1o a sua sorp.iglianza (già in una sua operetta, il De opificio Dei, scritta nei primi tempi della sua conversione, durante i primi anni della persecuzione di Diocleziano, Lattanzio aveva sostenuto, di contro ad Epicuro, ch'egli conosceva attraverso Lucrezio, riprendendo argomenti di Cicerone, che la considerazione sia della costituzione ·fisica, anatomica e fisiologica, sia dell'anima dell'uomo, ove tutto è 'miracolosamente volto all'unità, in cui ogni parte è in funzione del tutto, rivela la presenza di un crea- tore uno, sommamente saggio e provvidente). Mediante ciò era piu facile convincere alla tesi cristiana dell'uomo simile a Dio, che, deca- duto, ritrovando in sé il L6gos di Dio, attraverso il L6gos fattosi uomo può, se vuole, ritornare ad essere simile a Dio. Lattanzio, invece, sotto l'aspetto piu strettamente morale, di contro alla tesi sia neoplatonica sia epicurea della divinità indifferente, impassibile, nella sua perfe- zione e necessità, si rifà alla concezione ebraico-cristiana del Dio per- sona e signore, volontà, di un Dio cui tutto è possibile, anche l'ira 282    (si confronti in tal senso il De ira Dei, composto dopo il 313), il quale solo "scire potest et revelare secreta" (De ira Dei, l). E qui vanno ora ricordate alcune date fondamentali, relative alla vita e all'opera di Lattanzio. Lattanzio, nato nel 260 circa, rètore di fama, allorché Diocleziano apri a Nicomedia una scuola, fu chiamato dall'imperatore a insegnarvi retorica, verso il 300. Convertitosi verso il 302 al Cristianesimo, quando nel 303 ebbe inizio la persecuzione dei Cristiani, Lattanzio abbandonò 'la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita privata e, dal 305 circa (anno in cui ancora appare a Nicomedia), sparendo dalla circolazione. Nel 303-304 Lattanzio scrisse il De opificio Dei, tra il 305 e il 311 compose i sette libri delle lnstitutiones divinae, non a caso dedicate, quando furono compiute, all'imperatore Costan- tino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne precettore dopo il 313, in Gallia, a Treviri, dove soggiornò certo fino al 320 (ogni traccia di lui si perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione, composti, sembra, tra il 311 e il 317, sono il De ira Dei, il De mortibus perse- cutorum, e una Epitome delle lnstitutiones. Le ragioni della conver- sione di Lattanzio furono le ragioni della sua opera di rètore tesa a persuadere, senza rotture violente, senza scandali, al significato del Cristianesimo, per altro già estremamente diffuso, e che, impostato da un lato come inveramento e soluzione delle filosofie piu ampliamente accettate e costituenti un generico fondamento culturale e dall'altro lato come l'unica religione filosofica che potesse ridare un senso all'uomo, facendolo a un tempo responsapile della umana città in funzione della città divina, si mostrava essere l'unica soluzione anche per l'unità e l'universalità dell'Impero. Sotto questo aspetto assume un particolare interesse il V libro delle Institutiones dedicato alla "vera giustizia." Molto sottilmente Lattanzio, rifacendosi in gran parte ai concetti di giustizia, "summa virtus," e di diritto naturale delineati da Cicerone e rielaborati da grandi giuristi romani - è noto che la maggioranza dei frammenti con cui si ricostruisce la Repubblica di Cicerone si ricava dalle lnstitutiones di Lattanzio, - riprospetta di contro alla tirannide, all'indiscriminato potere personale - e chiara è la lotta contro Dio- cleziano, - una concezione della giuStizia e del diritto assai simile a quella su cui ci si era fondati con Cicerone e poi con certi stoici del 1 e del 11 secolo (non a caso con Cicerone Lattanzio riprende la pole- mica contro Carneade e contro Epicuro: V, 14; III, 17). La giustizia si fonda sulla legge del tutto, legg~ tuttavia non naturale, ma voluta dallo stesso Dio, onde tanto piu obbligatorio diviene l'ordine dello Stato terreno, attraverso cui, se in esso ciascuno - in ciò uguale all'altro - fa ciò che gli compete e si pone al suo giusto posto in nome di Dio, si salva, costituendo il futuro regno di Dio. Solo che il regno di Dio, 283    dopo la caduta, con cui ha avuto principio l'affermazione di sé, la pro- prietà, il prevalere dell'uno sull'altro, l'ingiustizia, nella separazione della sapienza dalla religione, non sarà mai di questa terra. In questa terra rimarrà sempre aperta la lotta, il conflitto tra male e bene, tra ingiu- stizia e giustizia, senza di cui non vi sarebbe la virtu ("virtutem aut cerni ~on posse, nisi habeat vitia contraria; aut non esse perfectam, nisi exerceatur adversis; hanc enim Deus bonorum ac malorum voluit esse distantiam, ut qualitatem boni ex malo sciamus, item mali ex bono: nec alterius ratio intelligi, sublato altero, potest; Deus ergo non exclusit malum, ut ratio virtutis constare posset" : V, 7). Entro i suoi limiti, dunque, ciascuno può volere o non volere, dopo la rivelazione di Dio, esser virtuoso e perciò giusto, facendosi responsabile del pro- prio destino, liberandosi da se stesso in Dio, che premia o punisce chi abbia voluto o non voluto riconoscere Dio. Di qui, ancora una volta, il significato dato da Lattanzio alla santa ira di Dio; non a caso Lattanzio, finita la persecuzione da parte di Diocleziano, riconosciuto da Costan- tino il Cristianesimo (313), scrive pagine di fuoco sulla tragica fine che hanno subito tutti i persecutori dei Cristiani (Nerone, Domiziano, Decio, Valeriano, Aureliano, Diocleziano, Massimiano Ercole, Valeria figlia di Diocleziano e moglie di Galeiio): "sic omnes impii vero et i~sto iudicio Dei eadem quae fecerant receperunt." Con queste parole si chiude (L, 7) il De mortibus persecutorum. In tale senso perciò, la tesi cristiana, se da un lato implica il sen- tirsi servi di Dio, dall'altro lato implica, attraverso la rivelazione, che la libertà dell'uomo consiste in questo stesso voler essere servi di Dio, che liberando l'uomo da se stesso, caduto da Dio, lo rende capace d'es- sere virtuoso e giusto. Solo, dunque, istituendo uno Stato cristiano, volto, mediante coloro che abbiano ricevuto da Dio la grazia di com- prenderlo e perciò di essere giusti, a realizzare·la giustizia del regno di Dio, o meglio a far sf che, in una ben ordinata gerarchia, in cui ciascuno sia al suo giusto posto, si rispecchi l'ideale unità di un mondo di spiriti contemplanti il Dio, nel quale e per il quale siamo tutti uguali, e dal quale derivano le due virtu fondamentali della unica virtu, che è la giustizia, la pietà ("altro non è che la conoscenza di Dio, come verosimilmente la definf Trismegisto [Pimandro, 9]": V, 15) e l'uguaglianza (il sentirsi uguali agli altri in Dio: "nessuno presso di lui è schiavo, nessuno padrone: se egli è a tutti ugualmente padre, a uguale diritto siamo tutti ugualmente figli; nessuno è povero davanti a Dio, se non chi manca della giustizia; nessuno è ricco, se non chi è pieno di virtu" : V, 15), solo cosf lo Stato civile potrà salvarsi e non incorrerà nell'ira di Dio. Si vede bene in tal modo come Lattanzio potesse riprendere, in chiave cristiana, trasformando cioè il diritto naturale in 284    diritto divino, relativamente alla giustizia terrena, i temi fondamentali di Cicerone e di certi stoici. " L a giustizia civile, obbedienza formale alle leggi stabilite nel tempo dalle città terrene," è stato detto, discutendo della giustizia presso gli stoici, "ha valore nella misura in cui fa proprio il contenuto di fraterna uguaglianza e di comunione umana che è proprio della giustizia naturale. Il Cristianesimo, se accentuò il tema della fraternità (il prossimo che deve essere amato come noi stessi), non spostò i ter- mini del problema, ed anzi, approfondendo il distacco tra le due città come conseguenza della colpa, rovesciò di continuo in radicale diver- genza quella che lo stoicismo e il diritto romano avevano concepito come convergenza. Lattanzio, nel quinto libro delle Divinae lnstitu- tiones, dedicato appunto alla giustizia, la presenterà come summa virtus anche presso i pagani, e andrà dipingendo la città giusta di Saturno come regno di perfetta uguaglianza... Nella dttà giusta le terre e le messi non erano cintate... e tutto era in comune. Quando la cupidigia e l'avidità divisero gli uomini, la giustizia fuggi dalla terra, e scom- parve l'umana comunione (V, 5) ... Le leggi divennero inique; la giustizia fu termine equivoco che indicò disuguaglianza e oppres- sione... Dio, è vero, ebbe alla fine pietà dei suoi figli, e rinviò la giu- stizia in terra, ma la concesse graziosamente soltanto a pochi: 'rediit... sed paucis assignata iustitia est' (V, 7). La frattura tra le due città si presenta come insanabile; lo squilibrio è radicale. S. Agostino, che pur accoglie certi aspetti della tematka ciceroniana..., si àncora all'idea di un vincolo statutario che fonda la civitas corrotta sul comune godi- mento di un bene... La giustizia è l'ordine, nel suo aspetto meramente formale, che si realizza anche in una societas sostanzialmente ingiusta, solo che sia mantenuta una certa reciproca coordinazione. La fraternità umana è rimandata di là, o è in qualche modo raffigurata in gruppi ristretti di santi uomini; la città giusta è fuori del mondo, ove poi la divina giustizia è grazia... Cosi mentre la convergenza fra la giustizia nel suo aspetto formale e la giustizia nel suo valore sostanziale avevano caratterizzato lo sforzo proprio dei giuristi e dei grandi oratori romani, la divergenza fra mondo del peccato e Gerusalemme celeste riportò all'idea di.una giustizia terrena come mantenimento di un ordine impo- sto da un'autorità, di un'? Stato gerarchicamente scandito" (Garin, Giustizia, "Revue internationale de philosophie," 1957, pp. 282-4). Duplice è l'interesse dell'opera di Lattanzio: se da un lato egli ha chiarito, mediante un vero e proprio breviario delle istituzioni cri- stiane - in cui si riprendono e si dimostrano inverati dalla rivela- zione molt.i dei motivi teologico-filosofici piu diffusi. che vanno dun- 285    que accolti come preparazione alla buona novella - le esigenze e la problematica di certe classi di uomini, facendole emergere alla co- scienza, dando loro un fondamento ideologico; dall'altro lato, l'opera di Lattanzio indica assai bene le ragioni che spinsero Costantino ad accettare il Cristianesimo - e le ragioni dell'accostamento di Lattanzio a Costantino -, rendendosi conto che, oramai, solo in esso avrebbe trovato la base sociale ch'era venuta meno a Diocleziano, peréhé fosse possibile - proseguendo la politica di Aureliano e di Diocleziano - salvare l'unità politico-economica dell'Impero, trasformandolo sempre di piu in monarchia. In tale senso è molto indicativa la tesi sulla giu- stizia e sulla ricchezza e povertà sostenuta da Lattanzio. Tutti uguali in Dio, né ricchi né poveri nel regno di Dio: in questa terra conflitto tra vizi e virtu, tra ricchi e poveri, ma possibilità di una società giusta, qualora tutti, in nome di Dio, rimanendo ricchi e poveri, si sentano ciascuno al suo posto, uniti in una fratellanza che -è pietà, in una giu- stizia che è carità, in una società che ha da essere specchio dell'unità di Dio, della monarchia divina, del giusto scandirsi delle classi, ove il sacerdote, il vescovo, è, per gi'azia di Dio, il giusto, il rappresentante del monarca divino, di Cristo re. "Se anche è diversa la condizione dei corpi, gli schiavi non sono schiavi per noi; quanto allo spirito noi li teniamo in conto di fratelli, e sul piano religioso li chiamiamo com- pagni di servitu. Le ricchezze non sono motivo di distinzione per noi, se ·non in quanto possono renderei illustri di buone opere... E coloro che sono poveri, sono almeno ricchi di questo, che non sentono alcun bisogno e non hanno desideri. Pur essendo pertanto tutti uguali in umiltà, i ricchi e i poveri, i liberi e i servi, tuttavia presso Dio siamo distinti secondo la nostra virtu" (V, 16). Impossibile e ingiusto - so- stiene altrove Lattanzio - è dire con Platone che non si deve possedere nulla in privato e in proprio - famiglia, donne, ricchezze, - ché nelle disuguaglianze, nel come ciascuno sa usare il proprio si rivela la capa- cità o meno d'esser virtuosi, il riconoscimento d'essere tutti uguali nel regno di Dio, di lui tutti servi e figli, uguali per la virtu (cfr. III, 21-22). Lattanzio con questa sua tesi rispecchiava esattamente la situazione propria di molti cristiani e la struttura economico-schiavistica dell'Im- pero, la situazione della Chiesa ufficiale al principio del IV secolo. "Verso il IV secolo," è stato detto in efficace sintesi, "la Chiesa cri- stiana si era trasformata in una organizzazione molto forte, in una specie di Stato nello Stato, che abbracciava quasi tutto l'Impero. Essa possedeva enormi ricchezze, contava nelle sue file un gran numero di alti f~nzionari, di militari, grandi proprietari terrieri, e la schiacciante massa di popolazione artigiano-commerciale delle città. Possedeva un potente apparato direttivo che non aveva nulla da invidiare alla buro- 286    crazia imperiale. In'queste condizioni riconoscere la Chiesa significava per lo Stato trovare una nuova base sociale. E ciò era particolarmente importante per il dominatus che tendeva a creare un potere solido... Costantino poté piu saggiamente ed obbiettivamente, che non Diocle- ziano, avvicinarsi al Cristianesimo" (Kovaliov, cit., Il, p. 235). Entro questi termini assumono un particolare significato le parole di Costantino (306-337), riportate da Eusebio di Cesarea (Vita Con- stantini, 4, 24), ai vescovi con lui riuniti a mensa: "Certo, voi potreste essere vescovi interiormente alla Chiesa (È1tlaxo1toL -rwv etaCù n j ç bocÀYjalcxç), io sarei invece vescovo, costituito da Dio, esteriormente (-rwv ÈxT6ç). " Si è molto discusso sul peso preciso da dare a queste parole (cfr. S. Calderone, Costantino e il Cattolicesimo, Firenze, 1962). Certo sembrerebbe in esse implicito, da un lato il riconoscimento della Chiesa costituitasi gerarchicamente, fondamento del regno di Dio, di cui, appunto, i vescovj sono i depositari, coloro che reggono lo Stato dal di dentro (la Chiesa, anima dello Stato?); dall'altro lato, accettato che lo Stato non può non essere che cristiano cioè che lo Stato è la Chiesa, che l'imperatore, per grazia divina ("costituito da Dio"), è il reggitore del corpo della Chiesa, cioè dello Stato, nella sua realizza- zione fisica, storica; l'imperatore dunque vescovo dal di fuori (del corpo dello Stato?). Senza dubbio, comunque, le ragioni che nel I I I secolo avevano spinto alcuni imperatori ad abbracciare, di con- tro alla "romanità" dell'Impero, l'"interbarbarismo" dell'Impero stesso; trovandone il fondamento ideologico nell'elioteismo, nella monarchia solare, determinano ora Costantino, che non a caso aveva avuto forti simpatie per l'elioteismo, a volgersi al Cristianesimo, che, sia per la sua base economico-sociale, sia per la sua ideologia - entro cui, assunta simbolicamente poteva essere riassorbita la tesi elioteistica - sembrava dare allo Stato l'unità e la forza perdute, qualora di quello Stato dive- nisse episcopo l'imperatore. I simboli della luce propri del Cristia- nesimo, dell'Ebraismo, e di certe immagini neoplatoniche ed ermetiche (il Padre Sole e il Figlio raggio del Sole, uno nella luminosità di Dio) e delle tenebre (dai figli della luce e delle tenebre, a Lucifero che diviene, con la caduta, il dèmone, il principe delle tenebre, alla materia e al corpo, ombre e tenebre), potevano benissimo coincidere con la concezione elioteistica, con il motivo della monarchia solare, reinter- pretata e inverata al lume della verità cristiana e in essa assorbita. Documenti di ciò sono, oltre alcune testimonianze di Lattanzio e, particolarmente di Eusebio, l'amico cristiano di Costantino, che non poco si adoperò a propagandare e a rendere efficace l'operazione di riassorbimento nel Cristianesimo della cultura ellenistica, anche i mo- numenti, le monete del tempo di Costantino, in cui l'imperatore cri- 287    stiano viene presentato come il Sole di Dio, in raffigurazioni ove appare nella veste dell'Elios persiano (e non si scordi che le insegne di Costantino avevano un sole irradiante, che piu tardi, in una visione, divenne facilmente la Croce irradiante luce: per i rapporti tra Costan- tino e la ideologia elioteistica, cfr. anche F. Altheim, Il dio invitto. Cristianesimo e culti solari, trad. it., Milano, 1960). b) La corrente origeniana ad Alessandria e a Cesarea Le "eresie." ~'arianesimo, la Chiesa di Roma e il Concilio di Nicea. Se lo studio delle "eresie" e degli "scismi," di come essi si sono formati, rende conto di come, per altro verso, si è venuta for- mando l'altra scelta che, divenuta poi ufficiale, ha costituito la "verità" cristiana, la "retta opinione" (ortodossia) sulla verità rivelata, tale stu- dio rende anche conto che gran parte delle eresie (pur. discutendo di questioni teologiche, pur nascendo dalla problematica sulla vera inter- pretazione del messaggio del Cristo, della sua natura, del suo rapporto con il Padre) sono nate sul terreno etico-politico ed economico. Qu3;nto piu la Chiesa di Roma si arricchiva, si ordinava gerarchicamente e burocraticamente, veniva a compromessi con lo Stato, anche durante le persecuzioni - non si scordino le grosse polemiche sui lapsi e l'atti- vità di San Cipriano, - quanto piu ci si avvicinava al possibile con- nubio tra Stato e Chiesa - sia che la Chiesa fosse assorbita dallo Stato sia che lo Stato fosse assorbito dalla Chiesa, - nella costituzione di un Impero cristiano, tanto piu negli strati meno abbienti, piu poveri, che avevano trovato nel Cristianesimo l'appello all'uomo libero, la salva- zione della propria individualità, il diretto rapporto da uomo a uomo con Dio, sembrò che la Chiesa avesse tradito l'antico messaggio del Cristo. "Verso il quarto secolo, nel seno della Chiesa, esisteva 'un forte fermento. L'affermarsi degli elementi abbienti, il consolidamento del- l'apparato ecclesiastico, l'aristocratizzazione di tutta l'ideologia del Cri- stianesimo erano inevitabilmente destinati a determinare una vivace opposizione da parte degli strati non privilegiati. Per quanto si ten- tasse di soffocare il primitivo spirito plebeo del Cristianesimo, l'abisso tra quanto veniva predicato dal pulpito e la realtà e':'a troppo grande: da una parte vi erano infatti il clero e i fratelli dell'aristocrazia, sazi e contenti, dall'altra gli stessi 'fratelli di Cristo' della plebe cittadina e 295    rurale, poveri e semiaffamati... La grande crisi rivoluzionaria del m se- colo non potrà non rispecchiarsi anche nel Cristianesimo. Il riacutiz- zarsi dei contrasti sociali, manifestatosi nell'Impero a cominciare dalla fine del 11 secolo, si rivelò anche nel Cristianesimo, dove il processo fu accelerato appunto dalla aristocratizzazione della Chiesa, che ne aveva determinato i contrasti interni. In tale situazione nacquero le cosiddette 'eresie,' correnti contrarie ai circoli dirigenti della Chiesa e ai punti di vista dominanti. Esse rispecchiavano anzitutto l'ideologia dei cristiani piu poveri: schiavi, coloni, plebe cittadina e, in parte, anche il pensiero degli strati medi della città. In alcuni casi le eresie erano dovute alla lotta per il potere fra i vari gruppi della gerarchia ecclesiastica" (Kovaliov, cit., pp. 336-7). Abbiamo già veduto come fin dalla prima meditazione sull'espe- rienza cristiana si determinassero interpretazioni molteplici e diverse, a seconda anche delle tradizioni e degli ambienti culturali, da quelli giudaico-palestinesi a quelli giudaico-akssandrini, da quelli classici nell'area orientale a quelli classici nell'area occidentale: da principio "eresie" tutte, poi "eresie" quelle che ad una delle interpretazioni con- solidatasi e divenuta tradizionale, della comunità piu forte (che fondò poi il suo diritto sul motivo della "cattedra di Pietro"), sembrarono non aderenti alla propria interpretazione, ritenuta quella "retta" (orto- dossa), e tali da mettere in pericolo la propria forza e la propria catto- licità. Naturalmente finché non fu possibile determinare ufficialmente la "regula fidei" (fu Tertulliano a definire l'eresia "scelta, dal greco or:tp&:a~<; = hairesis, arbitraria, in quanto non tien conto della regula {idei, cioè della regola determinata dalla Chiesa" : in De praescriptione haereticorum, 6) e finché quella stessa "regula fidei" non si determinò sto- ricamente attraverso un lungo dibattito, un lungo conflitto tra l'una e l'altra interpretazione (sull'unità e trinità di Dio, sulla posizione. e l'essenza del Figlio nei riguardi del Padre, sulla funzione del Cristo, sulla sua realtà di Dio-Uomo, e sull'autorità dei vescovi, sul loro essere apostoli degli apostoli e cosi via) erano impossibili condanne ufficiali (se non sul piano, chiarendo ciascuno a sé il significato del Cristia- nesimo e la funzione della Chiesa, dell'apologetica: e qui ricordiamo particolarmente S. Giustino, S. Ireneo, S. Ippolito, Tertulliano e la loro polemica nei confronti dello gnosticismo, e, per altro verso, Marcione e il marcionismo da un lato e, dall'altro lato, nella discussione sulla unità e il monismo di Dio il monarchismo, il modalismo, il docetismo,. il sahellismo). Ciò fu possibile quando la Chiesa di Roma, riconosciuta ufficialmente dal potere politico come la depositaria della autentica "regula fidei," poi:é ufficialmente far dichiarare la propria "regula" e il proprio "credo" (Concilio di Nicea, del 325). (E qui va tenuto pre- 296    sente che di "eresia" in senso stretto si parla non quando sia una per- sonale deviazione dall'insegnamento della Chiesa ufficiale, ma quando tale deviazione diviene sciente contrapposizione di un, diciamo cosi, pensiero o insegnamento che si deve contrapporre a quello della Chiesa). Naturalmente, sotto il profilo della rivolta etico-politica con- tro una Chiesa che per i suoi compromessi, per la sua, anche se lenta, trasformazione in Stato gerarchizzato, sembrò tradire il significato popolare dell'insegnamento etico del Cristo, vediamo sorgere certe ere- sie abbastanza tardi, alla fine del n secolo, per divenire sempre piu forti e polemiche durante il m secolo e il principio del IV. E qui pen- siamo, innanzi tutto, al montanismo. Il montanisrno, cosiddetto da Montano che ne fu il capo, ebbe principio verso il 170, e, di contro all'infiacchimento della Chiesa, di contro alle proprietà della Chiesa, di contro al perdono per le colpe compiute dopo il battesimo, di contro alla autorità dei vescovi, di contro alla "universalità" della Chiesa, pro- clamò l'individualità della esperienza cristiana e della fede, in un rigi- dismo morale-religioso, in personali esperienze ascetico-mistiche, in un rifiuto delle ricchezze terrene nell'attesa della vicinissima restaurazione - per il vicinissimo ritorno del Cristo - del regno di Dio. Se tale infiacchimento della Chiesa, l'evidente opportunismo di molti conver- titi al Cristianesimo, furono le ragioni dell'adesione di Tertulliano al montanismo, si capisce come, nel 111 secolo, al tempo delle persecu- zioni di Decio, di contro al diffuso lapsismo, si siano ingrossate le file del montanismo. E qui pensiamo, in secondo luogo, al donatismo. Nel III e IV secolo nuova forza e significato politico assunse il montanismo, particolarmente in Africa settentrionale, dove andò sotto il nome di donatismo dal nome del vescovo Donato, che si fece capo degli intran- sigenti, finché di contro alla Chiesa ortodossa si costitul la Chiesa di Donato (non a caso alla Chiesa di Donato aderirono nel IV secolo i movimenti rivoluzionari degli schiavi e dei coloni d'Africa che vede- vano nel donatismo il fondamento ideologico della loro lotta contro la proprietà, contro i ricchi, contro l'economia schiavistica: fu questo il mo- vimento degli " agonisti," i combattenti per la vera fede : cosi essi pro- clamarono se medesimi, mentre "circumcellioni," vagabondi, furono detti dalla parte avversa). Minore importanza ha il novazianismo (dal nome di Novaziano fiorito tra il 250 e il 258). Novaziano ruppe con la Chiesa di Roma per ragioni personali, per la delusione di non essere stato eletto vescovo di Roma (il novazianismo, del resto, in certe conseguenze, è assai vicino al rigidismo morale del donatismo). Un particolare significato assume, invece, l'arianesimo, sia perché fu la prima eresia condannata con l'appoggio del potere politico (Concilio di Nicea, 325), in una 297    precisazione da parte della Chiesa ufficiale della propria "regula fidei," che assume cosi un valore giuridico, sia ....- proprio in conseguenza di ciò - per la storia della formazione della "verità" ufficiale cristiana, sia per le ulteriori precisazioni filosofico-teologiche, sia per le ripercus- sioni politiche che ebbe. Nato, sembra, in Libia, verso il 265, Ario,8 dopo avere studiato ad Antiochia sotto il platonico Luciano di Antiochia, ebbe nel 313 la dire- zione di una Chiesa di Alessandria, e fu qui che nel 318 circa espresse la sua interpretazione sulla natura del Verbo. Con molta probabilità Ario fu direttamente ispirato dagli insegnamenti che sulla vecchia que- stione della natura una di Dio e del suo rapporto con il Verbo e la realtà, aveva ricevuto ad Antiochia da Luciano, fondatore della scuola esegetica di Antiochia, martire nel 311, e dall'influsso che in Antiochia avevano ancora al tempo in cui vi fu Ario le idee di Paolo di Samo- sata, vescovo di Antiochia (260-268), condannato per eresia tre volte ed infine costretto a dimettersi, convinto di errore dal prete Malchione. Ario, con molta intelligenza e acutezza, lucidamente ripropone e definisce la grossa questione, sul tappeto dal tempo di Filone l'Ebreo, dei "monarchisti, " " unitaristi," " docetisti," " sabelliani," di T ertul- liano, e, per altro verso, di Plotino.e dei neoplatonici, di Origene. Posta l'unità e perfezione.assoluta di Dio e posto che, secondo il solito rove- sciamento ebraico-cristiano del concetto di "sapienza," la sapienza è di Dio ed è prima dei secoli e va avanti a tutte le cose (cfr. Ecclesiastico, l, 1-4), e che tale sapienza è il Verbo (L6gos) di Dio, l'interpretazione del celebre testo dei Proverbi (VIII, 22), in cui la sapienza, cioè il 8 Nato, forse in Libia, nel 256 circa, Ario, dopo avere studiato ad Antiochia, sotto Luciano, nel 313 ebbe l'incarico di dirigere la Chiesa di Bocali ad Alessandria. Nel 318 divulgò le proprie tesi sul rapporto Padre-Figlio. Condannato da un Concilio di Alessandria, promosso dal vescovo di Alessandria Alessandro, teoreticamente sostenuto dal suo diacono Atanasio, nel 320 o 321, Aiio fu costretto ad abbandonare il paese. Fu dapprima in Palestina, poi a Nicomedia presso il vescovo Eusebio, suo vecchio amico. Condannato nel Concilio di Nicea (325), fu dall'Imperatore esiliato nell'Illirico. Nel 336, Costantino, volendo riporre equilibrio tra le due fedi, in nome dell'unità dell'Impero, richiamò Ario, che a Costantinopoli improvvisamente mor( nel 336. Perduta è l'opera piu importante di Ario, la Tàlia (E>ciÀe:lcc:banchetto), ch'egli compose a Nicomedia tra il 321 e il 325. Se ne conservano solo alcune ·citazioni nel Contra arianos di Atanasio (1, 5, 6, 9; cfr. anche De synodis, 15). Sono pervenute, invece, due lettere di Ario: una ad Eusebio di Nicodemia, del 321 circa (in Epifania, Haer., 79, 6), l'altra ad Alessandro di Alessandria, scritta non molto prima del Concilio di Nicea (cfr. Atanasio, De syn.odis, 16; Epifania, Haer., 69, 7, 8). Socrate (storico della Chiesa; nato a Costantinopoli nel 408 circa, autore di una Historia ecclesiastica, in sette libri, che prosegue quella di Eusebio dal 323 al 439) e Sozomeno (altro storico della Chiesa, originario di Gaza, a~vocato in Costantinopoli, autore di una Historia ecclesiastica, in nove'libri, dal 323 al 433, compiuta nel 444, e che in piu parti ricopia quella di Socrate) riportano la professione di fede inviata da Ariq a Costantino nel 330-331 (cfr. Socrate, Hist ecci., I, 26; Sozomeno, Hist ecci., 2, 27). 298    L6gos dice Dominus creavit me, porta dietro a sé la negazione della tesi che Dio sia ad un tempo uno e trino e che il suo Verbo, in quanto creato da Dio, sia della stessa sostanza di Dio e sia un secondo Dio. La tesi che Dio sia ad un tempo trino in eterno implica la nega- zione di Dio uno e solo, e l'affermazione non cristiana di piu dèi. Posto che una è la sostanza di Dio e perciò ch'egli è indivisibile e ingene- rato, infinito e assoluto, e dunque indiscorribile (&ppl)-roç =àrretos), proprio il suo essere ingenerato (&.ykvvl)-roç = aghènnetos) e senza prin- cipio (&vocpxoç = ànarchos) implica che non si può ammettere ch'egli comunichi ad altri la propria essenza: Dio cosf si limiterebbe e si risol- verebbe negli stessi aspetti da lui provenienti. In altri termini, ammet- tere che Dio per essere, per comprendere se stesso, si distingua in due, sign.ificherebbe dire che Dio è non piu persona, essere nella sua asso- lutezza solo, ma unità dialettica. Ciò, in realtà, vorrebbe dire negare il Dio persona e volontà, il Dio creatore. Posto, per altro, in senso ebraico- cristiano, che Dio non è un concetto, non è unità dialettica di pensante- pensato (L6gos), ma volontà, se ne deve dedurre che la creazione non è da intendere nel senso che Dio - avente in sé tutto in potenza - tragga all'esistere da se stesso, mediante il proprio esserci come pen- sante-pensato (L6gos), tutta la realtà, ma che egli, volontà onnipo- tente, di là da ogni ragione dà realtà a un mondo davvero ex nihilo, che, in quanto da lui voluto, una volta che c'è, è altro da lui, non ha la sua stessa essenza. E allora, proprio per non confondere il L6gos di Dio, la sua parola e ragione, con il N ùs plotiniano, che si perde nel- l'Uno, sf come l'Uno si perde nel Nùs, conseguentemente alla tesi del Dio trascendente, indiscorribile, persona e creatore, si deve dire, se- guendo alla lettera i Proverbi (ricordiamo che la scuola esegetica di Antiochia, in cui si formò Ario, si tenne sempre, di contro alla scuola esegetica di Alessandria, all'interpretazione letterale-storica dei sacri testi), che anche il L6gos, in quanto sua creatura ("creatura perfetta di Dio": in Atanasio, De synodis, 16, 2) è realtà altra da quella di Dio, è esistente, è, anch'egli, generato dal nulla (è!; oùx l>v't'CùV yéyov<. = ex ouk ònton ghègone: in Atanasio, Oratio l, Contra Arianos, 5). Il Verbo dunque, non può avere lo stesso genere del Padre, è dissimile dal Padre (è &ll6't'ptoç -allòtrios e &.v6(l.otoç-anòmoios) ed è solo di nome che viene detto Dio. Uno solo Dio, il Verbo non è un "secondo Dio" che per analogia, e pur essendo per decisione di Dio lo strumento con cui Dio crea il mondo, non si può dire ch'egli abbia la stessa sostanza dì Dio, che sia a Dio consustanziale, mentre, in quanto è dopo Dio (che ri- mane, perché crea.tore, uno e solo nella sua perfezione, trascendente e immobile e perfetto, e dunque irrelativo, indiscorribile, ignoto), il L6gos è limite, mutevole, (-rpen-r6ç-trept6s), sf come tutte le creature, buono finché vuole restare tale, ché, se lo volesse, potrebbe, come noi, mutarsi" (in Atanasio, Oratio l, 5). E come Dio ha voluto creare il L6gos ex nihilo e attraverso lui ha voluto che il mondo assumesse realtà, cosi poi, essendo il L6gos rimasto buono, e avendolo adottato come figlio (adozionismo), ha voluto dargli la funzione di redentore. Altro da Dio il L6gos, non a lui consustanziale, poiché tutto ciò che ha avuto realtà è provenuto per un atto di libera volontà da Dio, attra- verso il L6gos, anche lo Spirito Santo, il soffio vivificante di Dio pro- viene dal L6gos ed è perciò altro dal L6gos e da Dio. Senza dubbio la tesi di Ario precisa in una certa direzione la vec- chia questione del rapporto tra Dio e il suo Verbo. Egli, avvicinan- dosi ai monarchisti, nega, nelle conclusioni, la divinità del Figlio e con ciò stesso quella del Cristo, scostandosi cosi dalla interpretazione delineatasi nella Chiesa, e da quella della scuola di Alessandria che non poco si era servita della tesi neoplatonica sul rapporto Uno-Nùs-Anima. Certo, la immediata presa di posizione contro Ario da parte del ve- scovo di Alessandria, Alessandro, che fece espellere Ario dalla Chiesa di Alessandria nel 320 (Ario si recò allora in Palestina, poi a Nico- media presso Eusebio vescovo di quella città), dette luogo all'esigenza di definire e precisare la tesi opposta, che con il Concilio di Nicea (325), ove fu sostenuta da Alessandro, con l'aiuto del suo diacono Ata- nasio, divenne la tesi ufficiale e giuridica della Chiesa. Elaborata e pre- cisata da Atanasio,9 nato sembra ad Alessandria nel 295 circa, già dia- 9 Atanasio, nato ad Alessandria nel 295 circa, da genitori non cristiani, si converti presto. Nel 318-320 era già diacono di Alessandro vescovd di Alessandria_ Fin dal prin- cipio Atanasio coadiuvò nella polemica contro Ario il suo vescovo, e oon lui assistette al Concilio di Nicea (325). Morto Alessandro (328), Atanasio fu nominato vescovo di Alessandria. Tutta la sua vita fu consacrata alla lotta contro l'arianesimo. Quando Co- stantino cercò di riconciliarsi con Ario (335-336), l'Imperatore lo mandò in esilio a Treviri; morto Costantino, Atanasio nel 337 tornò ad Al~ssandria. Poco dopo, nel 340, dovette di nuovo esulare per volontà dell'imperatore Costanzo, istigato da Gregorio di Cappadocia. Tornò ad Alessandria alla morte di Gregorio nel 346. La politica filoariana di Costanzo lo costrinse a fuggire ancora una volta da Alessandria nel 356. Solo alla morte di Costanzo e all'avvento di Giuliano (362), che rimise nelle loro sedi tutti coloro ch'erano stati esiliati, per questioni religiose, Atanasio poté tornare ad Alessandria. Ma la foga di Atanasio preoccupò anche Giuliano, che lo fece allontanare ancora una volta. Morto Giuliano (363), avuto il sopravvento il Cristianesimo di Roma, Atanasio poté rientrare nella sua Sede, tranne la breve parentesi del 364-366, in cui, per ordine di Valente, ariano, Atanasio si allontanò per la quinta volta da Alessandria: dal 366 al 373, anno della sua morte, Atanasio visse tranquillamente ad Alessandria. Tra le prime opere di Atanasio si ricor<)ano Il discorso contro i Grui e il Discorso dell'incarnazione (bJa:v6p(l)7rljGE(I)~ = enantrop~seos) del Verbo, composti tra il 318 e il 320. L'opera piu importante contro gli ariani è costituita dai Discorsi contro gli Ariani (sono quattro discorsi, di cui i primi tre autentici). Si dubita che siano di Atanasio (si è pensato di qualche suo seguace) il Dell'incarnazione e contro gli Ariani, e il trattatello Sul testo: tutte le cose mi furono rivelate. Ispirati da Atanasio e, certo, della sua scuola sono gli scritti De Trinitate et Spiritu Sancto; Ddl'incarnazione contro Apollinare; L'in- 300    cono di Alessandria nel 318, successo ad Alessandro, in qualità di ve- scovo di Alessandria nel 328, la tesi dell'unità e trinità di Dio, della consustanzialità del Padre e del Figlio, riconosciuta ortodossa nel sim- bolo niceno, venne mantenuta e difesa ad oltranza da Atanasio, nei successivi grossi conflitti avvenuti dopo Nicea, a favore della tesi ata- nasiana o di quella ariana, quest'ultima seguita particolarmente da tutti gli elementi scontenti dell'ordinamento della Chiesa, e non solo Cri- stiani, ma anche pagani. Molti pagani anzi si convertirono al cristia- nesimo ariano vedendo in esso quella salvazione dell'uomo promessa da un Cristo non divino, ma uomo tra uomini, che nella aristocratiz- zazione, burocratizzazione, stabilizza.zione della Chiesa, veniva ad essere negata. Entro questi termini si vede bene come una discus- sione esegetica e teologico-filosofica implicasse, a sua volta, una grossa problematica politica. Non a casolo stesso Costantino, che, nèlla pole- mica tra la Chiesa e Ario, vedeva la possibilità di un indebolimento dell'autorità della Chiesa, per cui a Nicea appoggiò la tesi ufficiale, piU tardi, allorché si rese conto del mordente che in taluni ambienti ebbe l'arianesimo, manifestò, forse a ciò spinto anche da Eusebio di Cesarea, che sosteneva, sulla scia di Origene, che il L6gos è subordi- nato al Padre, una viva simpatia per gli ariani, tanto che, per evitare agitazioni, fece esiliare Atanasio a Treviri (335-336). Morto Costantino (337), le alterne e tragiche vicende successorie, portarono a seconda di chi ebbe di volta in volta il potere e a seconda della zona in cui piu forte era l'appoggio che poteva venire dalla cor- rente ortodosso-romana o dalla corrente ariana, a dare ora il soprav- vento ai sostenitori della tesi nicena ora ai sostenitori dell'arianesimo. Costanzo, uno dei tre figli di Costantino, impegnato in Mesopotamia nella lotta contro i Persiani, appena conosciuta la morte del padre accorse a Costantinopoli, dove fece uccidere i fratelli di Costantino e sette suoi nipoti, e assunse il potere in tutto l'Oriente; in Occidente dopo una guerra tra i due figli di Costantino, Costante e Costantino Il, morto Costantino II, ebl:ie, nel 340, il sopravvento Costante. Avuto il sopravvento in Occidente, Costante, legato ai circoli della Chiesa orto- dossa e favorevole perciò alle decisioni del Concilio di Nicea, mise al bando l'arianesimo. Atanasio, cosi, che all'indomani della morte di carna11ione di Dio; Uno è Cristo; Il discorso maggiore sulla f"de. Certamente di Atanasio invece sono le seguenti opere storico-polemiche: Apologia contro gli Ariani (del 348); Apologia all'lmp.,ratorc Costanzo (del 357); Apolugia dt:lla fuga; Della dottrina di Dionigi; Sui dur.,ti d"l sinodo niceno; Dci sinodi di Rimini e di Se/cucia (del 359) (una delle opc:re piu importanti di Atanasio, in cui fa la storia di questi due Concili). lncom· pleta è giunta la Storia degli Ariani, non piu che citata (Gerolamo, Dc vir. ili., 17) uno scritto Contro Valente e Ursacio. Opere di morale e d i edifu:azione sono: Vita di Sant'Antonio, Della Verginità (se ne dubita l'autenticità). Molte le lettere di Atanasio. Costantino era tornato ad Alessandria, ma che, su decreto di Costan- zo, imperatore in Oriente, ove l'arianesimo si era non poco diffuso, era stato costretto nel 340 a ritornare in esilio, poté, col favore del- l'imperatore di Occidente, Costante, ritornare in Alessandria nel 346. Morto Costante nel 350, vittima in Gallia di un complotto organiz- zato dal generale Magnenzio, le Gallie proclamarono imperatore Ma- gnenzio. Di contro, gli veniva opposto a Roma Augusto Nepoziano, nipote di Costantino l. Magnenzio accorse a Roma e Augusto Nepo- ziano venne ucciso. Le truppe dell'Illiria eleggevano intanto impera- tore il generale Vetranione, favorevole agli ariani (Ario, dopo il Con- cilio di Nicea era andato in esilio in Illiria). Dall'Oriente intervenne Costanzo, che, alleatosi con Vetranione, il quale rinunciò al potere (351), sconfitto Magnenzio, rimase unico imperatore. Costanzo evi- dentemente ritenne piu opportuno appoggiarsi alle forze cristiane ariane, particolarmente diffuse in Oriente e nell'Illiria, tanto che in un con- cilio della Chiesa tenuto a Milano fece condannare Atanasio che fu di nuovo cacciato da Alessandria (356). Solo alla morte di Costanzo, avvenuta nel 362, Atanasio poté tornare ad Alessandria. Costretto di nuovo ad abbandonare Alessandria sulla fine del 362 per ordine del nuovo ed unico imperatore Giuliano, in funzione della sua battaglia contro la Chiesa cristiana e contro, particolarmente·, l'assorbimento dello Stato nella Chiesa, Atanasio tornò ad Alessandria alla morte di Giuliano (363) e vi rimase fino al 365, quando venne anc9ra una volta esiliato dall'imperatore Valente, che, tuttavi·a, ben presto - resosi conto che oramai in Occidente la Chiesa piu forte era quella di Roma - lo reintegrò vescovo di Alessandria, ove rimase fino alla morte, avvenuta nel 373. Ario era morto nel 336, improvvisamente a Costantinopoli, mentre, su pressione di Costantino, stava per riconciliarsi solennemente con la Chiesa. Dopo il Concilio di Nicea ricordiamo che Aria era stato esi- liato nell'Illiria. Dopo Ario, oltre Asteria di Cappadocia, vecchio disce- polo di Luciano di Antiochia, che a favore della tesi di Ario aveva rac- colto una serie di testi (auv-rrxy!_J.oc-rtov-syntagmation) che dovevano ser- vire a provare che il Verbo è creato (cfr. Atanasio, Or. I, 30-34; Or. Il, 37; Or. III, 2, 60; De decretis, V, 28-31; De synodis, 18, 20), il vero e proprio capo politico della corrente ariana, come dice il Tixeront (Patrologia, cit., p. 147), fu Eusebio vescovo di Nicomedia (presso cui Ario si era rifugiato durante il suo primo esilio avanti Nicea), vis- suto fino al 342. L'arianesimo assunse poi piu facce, in una sempre piu sottile discussione sull'autentico significato da dare ai termini sostanza e simiglianza relativi a Dio e al Verbo, senza dubbio,. talvolta, in un'esigenza di riconciliazione con la tesi nicena. Entro i termini della discussione ariana si distinsero cosi tre cor- renti. La prima è quella degli ariani intransigenti, secondo cui il L6gos non è dissimile (ocv6tJ.OLO~-anòm.oios) dal Padre. Capo di tale corrente - detta degli anomci - , ricollegandosi a Paolo di Samosata, fu Potino, vescovo di Sirmio in Pannonia e quindi Ezio, originario di Antiochia, particolarmente preparato in dialettica aristotelica, che aveva studiato ad Alessandria. Ezio, elevato al diaconato nel 350, sostenne la tesi di Ario, usando la dialettica aristotelica, in una serrata dimostra- zione della contraddittorietà di porre due divinità, per cui il Verbo non può logicamente dirsi della stessa sostanza del Padre. Il Figlio perciò non si può porre che come una creatura inferiore, anche se la piu perfetta, e diversa dal Padre, ché, ragionevolmente, ciò che è gene- rato non può essere Dio (cfr.' Di Dio ingcncrato c del generato: qua- rantasette brevi ragionamenti in forma sillogistica, conservati da Epi- fanio in Hacrcs., 76, 11). Discepolo di Ezio fu Eunomio, originario della Cappadocia, diacono di Antiochia, infine vescovo di Cizico nel 361. Dal poo che è rimasto di lui, morto sotto Teodosio, si deduce ch'egli fu, come Ezio, un forte sostenitore dell'anomcismo, si corne lo furono Eudossio,' vescovo prima di Antiochia e poi di Costantinopoli (360- 369) e Giorgio vescovo di Laodicea (331-335). La seconda corrente è quella dei cosiddetti scmiariani, i quali p4r respingendo. la consustanzialità, cioè che il Figlio abbia la stessa so- stanza (otJ.oouaLo~-homousios) del Padre, sostengono che tra la sostanza del Padre e quella del Figlio vi è una certa somiglianza OtJ.OLOUaLoç - homoiusios). Capo dei semiariani fu Basilio vescovo di Ancira, morto nel 356 (scrisse due lunghe memorie teologiche, conservate da Epifanio, Hacrcs., 70, 3, 2-11 e 12-22), seguito poi da Eustazio, vescovo di Sebaste dal 357, il quale fu particolarmente un asceta, fondatore del monachesimo nell'Asia Minore e maestro di Basilio il grande. Poco o nulla sappiamo di Euzoio, vescovo di Cesarea nel 376, anche egli, sembra, seguace della corrente semiariana. Tesi molto piu equivoca, passibile di essere accettata dall'una e dall'altra parte, fu quella, secondo cui, senza approfondire la questione della sostanza, si diceva vagamente che il Verbo è simile (l5tJ.oLOIO- hòmoios) al Padre. Tale tesi, detta degli omèi,, fu sostenuta dal suc- cessore di Eusebio di Cesarea, Acacie (340-346), legato all'origenismo e elle prosegui ad arricchire la biblioteca di Cesarea, e dai vescovi Teodoro di Eraclea (325-355) ed Eusebio di Emesa (341-359), quest'ul- timo, secondo San Gerolamo (Vir. ili., 91), raffinato rètore ed esegeta seguace della scuola di Antiochia (cfr. sopra). Per altro verso la lunga discussione da parte ariana della tesi nicena dette luogo, a· sua volta, da parte dei difensori della consustanzialità c 303    della divinità del L6gos ad un approfondimento della tesi nicena, che se da un lato portò a migliori ed acute precisazioni, e, in funzione di quelle, a nuove interpretazioni della tesi plotiniana e origeniana, anche sul piano filologico (non a caso Gregorio di Nissa distinse il signifi- cato di sostanza da quello di persona), dall'altro lato dette luogo a una serie di grossi problemi intorno alla natura del Cristo, Dio e, ad un tempo, uomo. Per il primo aspetto, piu che al pedissequo seguace della tesi nicena, Didimo Cieco (vissuto dal 313 al 398), assai vicino, per altro, ad Origene, salito in fama di dotto maestro (per cui ad Ales- sandria andarono ad ascoltarlo Sant'Antonio, Palladio, Evagrio Pon- tico, San Gerolamo, Rufino), pensiamo qui ai celebri "luminari" di Cappadocia, San Basilio, San Gregorio di Nazianzo, San Gregorio di Nissa, i tre "padri" della Chiesa di Oriente; e per il secondo aspetto, ad Apollinare il giovane, nato nel 310 circa, amico di Atanasio, soste- nitore dell'unità e trinità di Dio, secondo il simbolo niceno, che per primo apri la discussione sulla natura divina o umana del Cristo, e la cui tesi venne condannata nel Concilio del 381, negando egli che il Cristo in quanto Verbo fattosi corpo potesse avere anima umana, ché l'anima è, origenianamente, il limite, il raffreddamento dello spirito, dovuto al peccato, alla ribellione a Dio e al L6gos che resta sempre peccato. Tutte queste discussioni, relative da un lato, ripetiamo, al come intendere il concetto di sostanza e di persona, dall'altro lato, posto che il Verbo è Dio, al significato da dare, allora, alla natura umana del Cristo, meglio si comprendono tenendo presente, ora, la formulazione dello stesso simbolo niceno, che, come ha sostenuto il Gilson (cit., pp. 59-60), delimita "il quadro all'interno del quale il pensiero cri- stiano dovrà oramai mantenersi" - avendo, aggiungiamo, avuto poi la Chiesa di Roma il sopravvento. Crediamo in un solo Dio, padre onnipotente, fattore delle cose tutte, delle visibili e delle invisibili. E crediamo in un sol nostro Signore Gesu Cristo, figlio di Dio, nato unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre (èx -t~ç oòa(ocç -tou 'ltot-tp6ç ), Dio da Dio (0r:òv èx 0r:ou ), luce da luce, Dio vero da vero Dio, generato non fatto (yevv'rj6~not où 'ltOL'rj6énot), della stessa sostanza (OfLOUaLov - homusion) del Padre (consustanziale al Padre), mediante cui tutte le cose sono nate, quelle che sono in cielo come quelle che sono in terra; il quale, per noi e per la nostra salvezza, è disceso, si è incarnato, ha sofferto, è resuscitato il terzo giorno, è risalito nei cieli, e verrà a giudicare i vivi e i morti. E crediamo nello Spirito Santo. Quanto a coloro [ariani] che dicono: tempo vi fu in cui egli non era, o che non era prima d'esser statà generato, o è nato dal nulla, o è di un'altra ipostasi o di un'altra sostanza, o che il Figlio di Dio è creato (x-tLa't6v ), o mutevole, 304    o sottomesso al cangiamento, tutti costoro la Chiesa cattolica e apostolica di Dio li anatemizza. d) Dalla religione di Stato di Giuliano imperatore al Cristiane- simo religione di Stato. Il "neoplatonismo" di Giuliano e la funzione del mito. Sa/lustio. L'Impero d'Occidente tra il IV e il V secolo. Alla morte di Costanzo, avvenuta nell'ottobre del 361, in Asia Minore, unico imperatore fu riconosciuto il cugino di Costanzo, Flavio Claudio Giuliano/0 nato nel 331, figlio di Giulio Costanzo, fratello di Costan- tino l. Il padre e i fratelli di Giuliano, tranne Gallo, erano tutti caduti vittime delle stragi familiari perpetrate da Costanzo. Anche Gallo, scampato alle prime stragi, insieme a Giuliano, verrà condannato a morte da Costanzo al tempo in cui l'imperatore, per venire a com- battere Magnenzio (cfr. sopra), aveva nominato Gallo, Cesare per l'Oriente. Gallo, sospettato da Costanzo d~ volersi impadronire del trono in Oriente, fu fatto uccidere nel 354. Costanzo, allora, tornato in Oriente, fu costretto a nominare Cesare Giuliano, mandandolo nelle Gallie (355) ad ostacolare le pressioni dei Franchi e degli Alemanni. Alla morte del padre e degli altri fratelli (337), Giuliano aveva sei anni. Insieme al fratello Gallo fu dal sospettoso Costanzo tenuto semi- prigioniero ed affidato ad Eusebio vescovo di Nicomedia che lo allevò nella piu ferrea disciplina cristiano-ariana e nell'odio contro le religioni e le culture non cristiane. Morto Eusebio (342), i due fratelli vennero relegati in una villa della Cappadocia, ove ebbero per maestri ferventi cristiano-ariani, ligi agli ordini impartiti da Costanzo, che non voleva che i due giovani conoscessero e leggessero i grandi autori dell'anti- chità. Uno dei maestri di corte, tuttavia, un certo Mardonio, in segreto fece leggere a Giuliano alcune opere di poeti e di filosofi greci. :t: facile rendersi conto di come tutto un mondo nuovo (e proibito) si aprisse in tal modo a Giuliano, oppresso dall'insegnamento cristiano voluto dall'alto e proveniente da uomini ch'erano suoi nemici. Nel 10 Sulla vita di Giuliano (Flavio Claudio), nato a Costantinopoli nel 311, morto, in battaglia, il 26 luglio del 363, per ciò che qui interessa, confronta sopra, il testo. Di Giuliano si sono conservate le seguenti opere: Orazioni, I-VIII: particolarmente importanti sono l'Orazione IV al rt: Elios, l'Orazione V alla Dt:a maàrt:, l'Orazione VI Contro i cinici ignoranti, in cui si difendono gli antichi cinici, l'Orazione VII Contro il cinico Eraclio, l'Orazione VIII Consolatoria pt:r la partt:nza di Sallustio, l'Orazione II Sul sovrano idt:alt: (furono scritte in epoche diverse: le Orazioni I e III, panegirici di Costanzo Il e di Eusebia, nelle Gallie, tra il 355 e il 356; l'Orazione II, nell'inverno 358-359; l'Orazione VIII nel 361; le Orazioni V! e VII nel 362; le Orazioni IV' e V sulla fine del 362); Lettt:rt:: agli Att:nit:si (in numero di 4, scritte nell'autunno del 361) e al filosofo Tt:mistio (del 362); l Cuari; Misopogon; numerose lt:ggi. Tra i molti fram- menti di opere perdute particolarmente interessanti quelli dello scritto Contro i Cristiani e di una lettera ad un sacerdote. Sono andati perduti un libro Sulla battaglia di Strasburgo e le Lt:ttt:rt: ai Corinti, ai Laet:dt:moni, al St:nato di Roma. 305    Cristianesimo, da allora, Giuliano vide da un lato una religione fana- tica, torbida, chiusa in discussioni teologiche assurde, oppressive, dal- l'altro lato lo strumento di un potere politico che nella sua intolleranza - di questi anni, tra l'altro, è l'opera di Firmico Materno, in cui si chiede all'imperatore Costanzo la distruzione e la persecuzione dei pagani - avrebbe annullato la possibilità di una religione universale, ove trovassero il loro posto le varie religioni e culti, espressioni tutte di un unico e naturale sentimento religioso. Nominato Gallo Cesare, Giuliano era stato chiamato da Costanzo a Costantinopoli perché vi compisse gli studi superiori, ma sotto la guida del rètore cristiano Ecebolio, noto come il "dispregiatore degli dèi." A Nicomedia, dove, poco tempo dopo, Costanzo volle che Giuliano tornasse, Giuliano, in segreto - ufficialmente si finse fervido cristiano, entrando perfino nel clero di Nicomedia - prese contatto con il celebre rètore Libanio (di Antiochia, vissuto dal 314 al 393 circa), del quale leggeva le lezioni, passategli da un uomo ch'egli aveva prezzolato a tale scopo. Attra- verso Libanio - il quale dirà poi che Giuliano aveva compreso meglio di coloro che lo avevano ascoltato il significato del suo insegnamento, del platonismo, della religiosità greca - e attraverso l'insegnamento dd neoplatonico Massimo di Efeso (cfr. sopra), che, in segreto, andò a trovare ad Efeso, Giuliano si approfondi nella lettura dei poeti, dei filosofi, nella scienza magica e teurgica· (per i rapporti tra Giuliano e i filosofi della scuola neoplatonica di Pergamo e di Siria, cfr. sopra), nei segreti degli Oracoli Caldaici (cfr. sopra). Morto Gallo, nominato_Cesare e inviato nelìe Gallie, Giuliano sgo- mento dapprima di dovere affrontare la vita pratica, militare, politica ("non è affar mio," esclamò, "hanno messo la sella su di una vacca"), si dimostrò abile condottiero (nel 35.7 sconfisse ad Argentorati gli Ale- manni), e diplomatico (riusd ad accordarsi con i Franchi), mentre si adoperava a sanare contrasti politici e ideologici, sostenendo il valore di un'unica intesa nella coscienza di un'unica cultura e tradizione, messa in discussione dall'unilateralità e dall'esclusivismo dei Cristiani. Costan- zo nel 359, preoccupato per l'attacco ai territori romani da parte di Sapore II di Persia ch'era riuscito a passare in forze il Tigri, chiese a Giuliano aiuti. Giuliano, intanto, aveva promesso ai barbari incamerati nel suo esercito che non avrebbe mosso dalla Gallia i Galli. Costanzo premette. In Gallia scoppiò una rivolta contro Costanzo e Giuliano fu acclamato Augusto. Giuliano chiese a Costanzo di riconoscerlo Augusto. Costanzo tacque. Giuliano si mosse verso l'Illiria. Costanzo decise allora di andargli incontro, ma durante il viaggio, nell'ottobre del 361 morL Giuliano fu riconosciuto allora unico Imperatore. È sembrato opportuno, sia pur brevemente, discorrere della vita e 306    della prima formazione di Giuliano perché ciò spiega, in parte almeno, l'atteggiamento non cristiano del cristiano Giuliano, e le sue piu pro- fonde ragioni. Non sembra cosi errato dire che la religiosità di Giu- liano, la sua esigenza di una pacificazione cattolica, l'esigenza di certo cristianesimo stesso, nel quale non a caso Giuliano fu allevato, sta nella conversione di Giuliano, nella cosiddetta apostasia di lui, nel suo negare il Cristianesimo come unica e vera religione. In Plotino, invece, mediato attraverso Giamblico, Giuliano vedeva la possibilità di un'au- tentica religione universale razionalmente fondata, capace di accogliere in sé i miti e le religioni della tradizione greco-romana, anche il Cri- stianesimo, in quello ch'era l'aspetto piu plotinico (non ariano) del Cristianesimo, pur sapendo che tali religioni sono in realtà miti, ma simbolicamente validi ad avviare alla comprensione degli dèi e delle divinità, momenti, estrinsecazioni dell'unica legge divina (di qui, an- cora una volta, entro l'àmbito del neoplatonismo, il significato dato da Giuliano all'elioteismo e all'antico culto della Dea madre: cfr. in par- ticolare le Orazioni IV, al re Elios e V alla Dea Madre degli Dèi; sul significato dei miti cfr. in particolare l'Orazione VII, contro Eraclio). Entro questa visione di un tutto ordinato, si scandiscono dall'Uno tutti gli aspetti della realtà. Oltre tutto l'Uno, ragion d'essr:re del tutto, esso è il sovraintelligibile, l'Idea degli esseri, il Bene: "questo invero, sia che dobbiamo designarlo come ciò che sta oltre l'Intelletto, oppure come l'Idea dell'Essere, intenderrdo cosi tutto il mondo intelligibile, o chiamiamolo anche l'Uno, per il motivo che l'Uno sembra in qual- che modo anteriore a tutte le cose, oppure per usare il termine solito di Platone, il Bene, appunto questa causa uniforme di tutte le cose è fonte per tutti gli esseri di bellezza, di perfezione, di unità e di po- tenza irresistibile" (Al re Elios, 132d). La prima distinzione dell'Uno è l'Intelletto, nei suoi due momenti dialettici, in senso giamblicheo, di mondo intelligibile - mondo delle idee - e di mondo intellettuale - le attività pensanti, - donde gli dèi intelligibili, di cui primo, figlio del Bene, secondo il mito platonico, è il Sole, e da questi gli dèi intel- lettuali, al di sotto dei quali si scandiscono il mondo sensibile, le divi- nità visibili, gli astri, il tutto tenuto in unità, simbolicamente dal Sole, riflesso dalla luminosità dell'Uno, che dà essere, vita e intelligi- bilità a tutto, onde il dio Sole è termine medio· tra il mondo intelli- gibile e il mondo sensibile, mediante cui la luminosità dell'Uno si viene, per cosi dire, materiando nella luce di cui tutto è costituito. La luce alla sua volta è una forma di questa per cosf dire materia, che .è sostrato e segue l'estensione dei corpi luminosi. E della luce stessa che è incorporea i raggi sarebbero in certo qual modo il vertice e come il fiore. 307    E appunto secondo l'opinione dei Fenici che sono sapienti e informati nelle cose divine:, lo splendore luminoso ovunque diffuso è la incontaminata estrin- secazione attiva del puro Intelletto... Il mondo intelligibile forma assolutamente un'unità, preesiste dall'eterno a ogni cosa e tutto abbraccia insieme nella sua unità. E non è forse anche l'intero universo un solo organismo vivente, tutto ripieno d'anima e di spirito, un tutto perfetto costituito di parti perfette? [cfr. Timeo, 33a]. Vi è dunque una duplice perfezione unificatrice, cioè quella unità che comprende nell'uno tutto ciò che esiste nel mondo intelligibile e quella che intorno al mondo visibile si concentra in una sola e medesima perfetta natura. Nel mezzo sta la perfezione unificatrice di Elios Re, la quale risiede tra gli dèi dotati di intelletto. E successivamente nel mondo degli dèi intelligibili vi è una specie di forza avvincente che tutte le cose coordina verso l'unità. La sostanza del quinto elemento che si muove nella propria orbita tiene riunite tutte le parti e le stringe tra loro... Queste due sostanze che cooperano alla connessione, delle quali l'una appare nel mondo intelligibile, l'altra nel sensibile, Elios Re le congiunge in una sola... (A Elios, 134a-139b-c). Entro questa visione di un tutto ordinato, dall'Uno ai molti, limiti e ombre nell'unità luminosa del tutto, ove, indipendentemente da qual- sivoglia intervento miracoloso, l'anima, per limitata che sia, per presa che sia dalle cose, per dimentica che sia della sua origine, ha pur sempre in sé una scintilla divina, è un seme dell'unico Dio, di tutti padre ("certo io invidio pure la sorte fortunata di ~olui che poté avere dalla divinità un corpo costituito da un seme divino e profetico,... ma so anche che di tutti gli uomini Elios è il padre comune": A Elios, 131b-c), ricordandosi del quale può, con le sue forze, purificarsi, tor- nare da dove è venuta. Di qui l'appello di Giuliano a una serietà di vita, da un lato intesa come mestiere e dovere, in. una ideale vita stoico- cinica (non a caso Giuliano ne I C~sari si sofferma con simpatia sulla vita e sull'opera di Marco Aurelio, ch'egli prende a modello del suo mestiere di imperatore, mentre si compiace di ·ricordare i cinici del tempo antico: cfr. Oraz. VII Contro il cinico Eraclio e Oraz. VI Contro i cinici ignoranti, in difesa dell'antico cinismo), dall'altro lato come purificazione, mediante cui liberarsi dai limiti terreni, riscoprire l'anima, riconducendola, anche attraverso pratiche magico-teurgiche (cfr. sopra il significato piu profondo é nient'affatto torbido della magia e della teurgia), alla patria celeste donde è venuta. Il che non signifi- cava per Giuliano negare il Cristianesimo, particolarmente il çristia- nesimo non ariano, in quanto religione, ma si in quanto unica e vera religione, non mitica come le altre, nella sua pretesa d'essere l'unica verità rivelata da Dio (si vedano i frammenti dello scritto Contro i Cristiani, ove riprendendo gli argomenti di Celso e di Porfirio con molta acutezza Giuliano, confrontando il Vecchio e il Nuovo Testa- mento con la teologia greca, cerca di mostrare da un lato le contrad- dizioni del Vecchio e del Nuovo Testamento, e il loro significato se assunti anch'essi come miti popolari, dall'altro lato data la loro parzia- lità, la loro intolleranza esclusivistica, l'impossibilità che sul Cristiane- simo si fondi una religione universale, tale da pacificare e moraliz- zare, in unità, gli aspetti molteplici in cui si presenta la vita religiosa nei suoi culti diversi). Di qui sul piano politico di una organizzazione religiosa, di contro all'intolleranza cristiana, la tolleranza di Giuliano, anche nei confronti della religione cristiana; Giuliano, sotto questo aspetto, non condannò né perseguitò i Cristiani, mantenendo validità legale all'Editto di Milano (313). Volle solo, proprio in nome di quel- l'Editto, che anche i Cristiani rientrassero nell'ordine, si adeguassero ad essere considerati come facenti parte di una certa religione, posta, al pari delle altre, entro i termini dell'unica organizzazione politica delle varie religioni, nell'istituzione - a imitazione dell'organizzazione ecclesiastica cristiana - di un vero clero professionale e di una gerar- chia religiosa, ignota ptima di allora alle religioni greco-romane. Si capisce cosi come una delle prime misure prese da Giuliano sia stata quella di far tornare nelle loro sedi tutti coloro che per motivi reli- giosi erano stati esiliati da Costanzo (tra questi vi fu, in principio, anche Atanasio) e che fossero restituiti ai legittimi proprietari i beni confiscati per motivi religiosi (di ciò godettero particolarmente i templi pagani ai quali erano stati tolti tesori, terre, edifici, passati a comunità cristiane). Giuliano, infine, decretò la chiusura delle scuole rette da grammatici, rètori, filosofi cristiani (Editto del 362), sostenendo che il loro unilaterale insegnamento, il loro escludere poeti e filosofi antichi era un danno per l'insegnamento stesso, per la libera ricerca. Naturalmente tutto ciò apparve da parte cristiana una persecu- zione, mentre molti che in precedenza erano stati danneggiati dai cri- stiani, sentendosi appoggiati dall'Imperatore, si dettero a vendette che portarono anche all'uccisione di non pochi cristiani (ad Alessandria la folla uccise il vescovo Giorgio). In realtà, l'intento di Giuliano non fu un mero ritorno al pas- sato, come troppo superficialmente è stato detto, giudicando solo dal punto di vista della reazione cristiana, non fu un'accademica restaura- zione di culti e religioni morti da tempo. Esso fu piuttosto - anche se in termini eccessivamente scolastici,...... dettato dall'esigenza profonda, com- prensiva di una situazione storico-culturale ben precisa, di una pacifica- zione di ideologie, fomite di lotte e di conflitti, in una comune religione di Stato, entro cui potessero convivere in armonia culti e riti diversi, ri- spondenti tutti ad un'unica naturale religione, che Giuliano, sulla scia dei 309    suoi amici neoplatonici di Pergamo e di Siria, vedeva realizzabile entro i termini della filosofia plotinico-giamblichea, corposamente e mitica- mente traducibile nei termini della religione solare. Non solo, ma un'at- tenta lettura delle opere di Giuliano, se da un lato rivela il suo intento politico, di instaurare una religione di Stato, in nome della tolleranza, riportando con ciò anche il Cristianesimo entro i termini legali (tale il significato del mantenimento dell'Editto di Milano), dall'altro lato rivela come Giuliano si sia mos-so entro l'àmbito di quella koinè cultu- rale di cui parlavamo e per cui non poche volte è difficile - e non solo per Giuliano - distinguere tra testi che poi nelle loro conclu- sioni sono nettamente cristiani, da testi che nelle loro conclusioni sono irriducibili alla visione ed alla concezione cristiana. E ciò particolar- mente vale sia quando si tratta di immagini (in special modo quelle tratte dalla luce), sia quando si tratta della superessenzialità dell'Uno Dio. E cosi, che gli dèi di Giuliano, sulla linea stoica e neoplatonica, siano intesi come simboli e che i culti e le descrizioni delle religioni siano intesi come miti, senza di cui in realtà le religioni stesse non sarebbero, e che dèi e miti vadano interpretati allegoricamente, risulta non solo dallo stesso Giuliano, ma, piu chiaramente· ancora, da una breve opera, Sugli dèi e sul mondo, di un intimo amico di Giuliano, Sallustio,11 che con molta finezza discute il significato del mito, entro l'àmbito di una precisa concezione neoplatonica e solare. Gli dèi (en- cosmici e ipercosmicz) sono considerati come emanazioni e "forze" visibili che derivano dall'invisibile Unico Dio, causa delle cause, super- essenziale, potenza assoluta, entro cui si scandisce in eterno il ritmo di tutta la realtà (coeterno a Dio e in Dio è decisamente detto il mondo), unico mondo, molteplice e uno nell'Uno, e dove il "male," 11 Si è per secoli molto discusso sull'autore del breve trattato D~gli dèi ~ del mondo. Si è sostenuto che fosse opera di un cinico sofista del v-vi secolo (Sallustio di Emesa); il Naudé pensò si trattasse di un tardo autore stoico; il Wilamowitz di un Sallustio grammatico, autore di argomenti sulle tragedie di Sofocle; infine, da Orelli a Mullach, a Cumont, a Tillemont, si è sostenuto trattarsi di un Sallustio, alto funzionario dell'Im- pero e amico intimo di Giuliano Imperatore. Poiché intorno a Giuliano ruotarono due Sallusti, Flavio Sallustio e Secondo Sallustio, il primo prefetto delle Gallie, il secondo pre- fetto d'Oriente, si è trattato di accertare a quale dei due debba darsi la paternità Degli d~ e del mondo. Se il Cumont propendeva per il primo, spiegando l'epiteto di filosofo riportato da tutta la tradizione manoscritta del trattatello con una cattiva lettura dell'ab- breviazione ~À = ~Àa:~(ou per ~~Àocr6cpou; dopo che la pubblicazione della raccolta delle Iscrizioni dell’Hermann Dessau (“lnscriptiones latinae selectee”, I, Berlino, p. 276) ha permesso una ricostruzione esatta della carriera e delle mansioni presso Giuliano dell'uno e dell'altro Sallustio, ci si è convinti che il Sallustio autore del trattato Degli dèi e del mondo, è Secondo Sallustio ch'ebbe molti piu contatti con Giuliano, il cui scritto è senza dubbio ispirato alle opere filosofiche di Giuliano, tanto che si è fatto l'ipotesi che il Degli dèi e del mondo sia stato composto nel 362 (si confronti in particolare G. Rochefort, ln- troduction à Saloustios: Des di~u:r et du m'ar:de, texte établi et traduit par G. R., "Les Belles Lettres," Parigi)] si come la materia, non ha alcuna realtà positiva, ma è dovuto all'in- comprensione umana, all'ignoranza, all'unilaterale visione del tutto esteriorizzata ("non esiste alcun male positivo, si come non v'è alcuna oscurità positiva, ma solo mancanza di luce": Sallustio, XII, l) (Per l'importanza storica e per il significato anche politico, in funzione della politica di Giuliano, di questo libro di Sallustio, che il Murray ha definito una "sorta di credo ragionato, per fissare in modo convin- cente le linee generali della... religione ellenica," rimandiamo allo stesso Murray, Five Stages of Greek Religion, New York, 1955, e a G. Roche- fort, lntroduction à Saloustios, Des dieux et du monde, texte établi et traduit par G.R., Parigi) Il tentativo di Giuliano non rimase un mero episodio, anche se alla sua morte, avvenuta in battaglia, nel 363, nella guerra contro i Persiani, con la nomina a imperatore, nel 364, di Gioviano, cristiano, crollò subito l'edificio da lui creato di un sacerdozio professionale del- l'unica religione di Stato. Sia pure in termini rovesciati, cioè nel soprav- vento della religione cristiana, si giunse, necessariamente, alla procla- mazione dell'unica religione dell'Impero (sotto Teodosio l, trent'anni circa dopo la morte di Giuliano). In realtà, la stessa concezione reli- giosa di Giuliano, la sua comprensione della necessità politica di una religione universale, che egli vedeva compromessa dall'intolleranza del Cristianesimo, erano piu vicine di quel che possa apparire a prima vist~ alle esigenze ed alla situazione politico-sociale cui, almeno in Occidente, rispondeva la forza interna - morale, organizzativa, economica - del Cristianesimo. E cosi fu. La nota decadenza politico-militare implicò una sempre piu drammatica tragedia economica. Basti ricordare che proprio in questo tempo si venne formando un sistema di rapporti fondato sull'economia chiusa e sul servaggio. Gli stipendi, i tributi e cosi via cominciarono ad essere pagati in natura (moneta l'ebbero solo funzionari e militari d'alto grado). In un sempre maggiore aggravio fiscale per venire incontro alle spese militari, per evitare che le popo- lazioni non pagassero le imposte, si venne via via costringendo cia- scuno a non trasferirsi piu dalle terre sulle quali lavorava. Il commer- cio si venne estinguendo, o riducendo in prevalenza al solo mercato urbano. Naturalmente le poche forze economic~e rimaste si vennero raccogliendo nelle mani dei grossi proprietari terrieri, che vennero costi- tuendo come tanti piccoli stati nello Stato che di fronte a loro ·non aveva piu potere. In tale tipo di economia, già feudale, il potere dello Stato venne sempre piu spezzandosi nelle mani di ciascun singolo proprietario. Fuggire via dall'Impero, presso i barbari, o, se possibile, raccogliersi sotto la protezione dei proprietari, sembrò il mezzo mi- gliore per evitare lo Stato, che, in effetto, non esisteva piu. E intanto - scrive Salviano nel v secolo - i poveri, le vedove e gli orfani, spogliati e oppressi erano giunti a un punto di disperazione tale che molti, pur appartenendo a famiglie note e avendo ricevuto una buona educazione, erano costretti a cercare rifugio presso i nemici del popolo romano per non rimanere vittime di· ingiuste persecuzioni. Essi si recavano presso i barbari in cerca dell'umanità romana, poiché non potevano sopportare presso i Romani l'inumanità barbara. Sebbene essi fossero estranei, per costumi, per lingua, ai barbari presso i quali fuggivano, sebbene fossero colpiti dal loro basso livello di vita, nonostante tutto risultava loro piu facile abituarsi ai costumi barbari che sopportare la ingiusta crudeltà dei Romani. Essi si mette- vano al servizio dei Goti o dei Bagaudi [coloro che in Gallia, particolarmente contadini e schiavi, avevano costituito un forte e autonomo movimento anti-romano: in celtico “bagaudi” significa "combattenti," "lottatori"], e non se ne pentivano, preferendo vivere liberamente con il nome di schiavi, piuttosto che essere schiavi mantenendo soltanto il nome di liberi (De gubernatione Dei, V). Chi non poteva andar via prefer1 rifugiarsi presso i grandi proprie- tari terrieri. Tale decadenza e tale crisi portarono dietro a sé la sempre piu sentita esigenza di un potere gerarchicamente costituito. La chiesa, almeno in Occidente, sia per la sua organizzazione e gerarchizzazione, sia per essere divenuta tra i proprietari uno dei piu grandi, sembrò offrire l'unica possibilità di salvazione, da un lato accogliendo nel suo seno (clero), dall'altro lato proteggendo il popolo cristiano (laici), sosti- tuendosi cosi al potere centrale, oramai in realtà inesistente. Non a caso, alla fine, Teodosio I (378-395) proclamò nel 380, con un editto, che l'unica religione dell'Impero doveva essere "quella che il divino apostolo Pietro aveva trasmesso ai Romani," decretando perciò illegali tutte le altre religioni, che vennero perseguitate e i cui beni vennero confiscati, mentre i templi venivano distrutti. Dopo Teodosio, con il definitivo rompersi dell'Impero in due, con l'effettivo esaurirsi del po- tere politico in Occidente e con il lento prevalere dei barbari, con la caduta di Roma (410), tanto piu evidente sembra la linea attraverso cui. l'Impero di Roma si trasformò nell'Impero cristiano-barbarico, fino ad una sua qual sistemazione con Teodorico. Dopo la morte di Giuliano, intanto, ripreso il sopravvento il Cri- stianesimo, in seno alla Chiesa piu violenti si fecero i contrasti tra ariani e ortodossi, in un conflitto che mise a repentaglio l'unità della Chiesa. Non a caso, proprio per il pericolo che l'unità della Chiesa si rompesse, determinando piu religioni, piu fedi, esaurendo cosf le sue forze politiche, Ottato di Milevi, cattolico africano, sia pure in forma paradossale, combattendo contro la tesi donatista, sostenuta da Parme- niano, vescovo donatista di Cartagine, in un suo libro contro i catto- 312    !ici, secondo cui la religione cristiana nulla deve concedere allo Stato, rimanendo esperienza di pochi eletti, profondamente personale e indi- viduale, poteva esclamare che, invece, la Chiesa doveva divenire lo Stato, anche a costo di subordinarsi allo Stato (De schismate Dona- tistarum, III, 3: il De schismate fu composto nel 365 circa). Ancora una volta, conflitti teologici rispecchiano piu profondi e aspri conflitti politici. Entro questi termini, nella polemica tra atanasiani e ariani, assunse un suo particolare significato il rifarsi o meno alla concezione neoplatonica-plotinica, mediante cui si venne delineando una piu pre- cisa koinè culturale. Di qui l'interesse di vedere ora, sia pur nelle sue linee essenziali, l'ultima formazione di tale koinè culturale, le sue com- ponenti, il conflitto tra ortodossi e ariani, la diffusione di un certo "neoplatonismo" in Occidente, il costituirsi del neoplatonismo di Ales- sandria e di Atene, insieme alla funzione data ai repertori e alle sil- logi, e particolarmente a certi ben precisi testi di Aristotele e della logica del primo stoicismo. Caio Mario Vittorino. Firmico Materno. Teone di Alessandria. \.ltrettanto fondamentali, relativamente all'area di lingua latina, furono, ntro i termini della preparazione culturale e per la circolazione di :lee e di testi in Occidente, gli scritti di Mario Vittorino. E qui va :nuto presente che Mario Vittorino 8 - nato in Africa, nel 300 circa, 8 Caio Mario Vittorino, nato nell'Africa proconsolare verso il 300, muore a Roma lal 362 circa si perdono le sue tracce). Maestro di grammatica e di retorica prima in Erica, a Roma poi, dove godette di notevole fama (gli fu eretta una statua nel foro 1iano: cfr. Agostino, Confessioni), nel 355 si conveni al Cristianesimo (sulla sua cun- rsione cfr. la celebre pagina delle Confessioni di Agostino: VIII, 4). Nel 362, per il creto di Giuliano, che proibiva ai Cristiani d"insegnare retorica, fu costretto a chiudere sua scuola. Di lui restano: “Ars grammatical”; Commento al "De inventione" di Cicerone; De] e formatosi in quelle celebri scuole di retorica - fu innanzi tutto maestro di retorica, prima in Africa, poi, al tempo di Costanzo (337-361) in Roma, dove ebbe numerosi discepoli di alto lignaggio, dove sali in grande fama; tanto che, in suo onore, fu eretta una statua nel foro traiano (cfr. S. Agostino, Confessioni, VIII, 2, 3). In parte all'epoca dell'insegnamento in Africa e in parte all'epoca del primo insegnamento a Roma, risalgono le opere di Vittorino a carattere grammaticale, retorico, logico-retorico. Tali opere, anzi, vanno vedute entro l'àmbito dell'insegnamento della retorica e in funzione di quello, ed è entro i termini dell'insegnamento delle scuole grammatico-retorico-logiche latine, entro il loro aspetto scolastico formale che assumono un loro particolare significato. Se cosi da un lato Mario Vittorino, inteso a formare uomini di cultura, compone un'”Ars grammatical” e commenta il “De inventione” e i “Topici” di Cicerone, dall'altro lato traduce il “De interpretation” e le “Categorie di Aristotele”, di cui fece anche un commento, componendo inoltre due scritti di logica, il “De definitionibus” e il “De syllogismis hypotheticis”, mentre traduce I'“Isagoge” di Porfirio. Tutti questi scritti e le traduzioni delle opere piu grammatico-formali della logica aristotelica, rivelano molto chiaramente che lo studio e l'insegnamento di Vittorino sono volti a determinare i quadri dei possibili discorsi, le condizioni su cui fondare, mediante le definizioni, sulle quali si basa l'accordo, un tipo di discorso, coerente in sé, e perciò verace, mediante cui convincere. Di qui l'importanza data da Vittorino da un lato al metodo retorico-filosofico di Cicerone e, dall'altro lato, al sillogismo ipotetico di origine teofrasteo-stoica, e, perciò, in quanto studio delle forme grammatico-linguistiche che permettono i giudizi, alle “Categorie” e al “De interpretation” di Aristotele, che non a caso Vittorino considera secondo l'aspetto formale a cui da l'avvio I'Isagoge di Porfirio, interpretata in chiave ciceroniana. Sotto questo aspetto, le tecniche dei discorsi, le loro strutture, intrinsecamente necessarie, costituentesi, attraverso le definizioni, in quadri (topoi), e in sillogismi, sono neutre, indipendenti da quelle che possono essere le strutture della realtà. Negli anni del suo insegnamento, in Africa, e nei primi a Roma, sembra che Vittorino apertamente ·si opponesse al gratuito passaggio definitionibus; la cosiddetta Enneade di Vittorino, composta di nove opere teologiche: tre trattati contro gli ariani (Contro Ario, del 358; Della generazione del Verbo divino, del 358; De homoousio recipiendo, del 360); tre inni sulla Trinità (del 360); tre commenti alle Epistole di Paolo ai Galati, agli Efesini e ai Filippesi (dopo il 360). Perdute sono andate le seguenti opere: il Commento ai Topici di Cicerone, la traduzione delle Categorie e del De interpretatione di Aristotele, la versione dell'Isagoge di Porfirio (ricostruibile attraverso la discussione che ne fece BOEZIO), la versione di parte almeno delle Enneadi di Plotino, il De syllogismis hypotheticis] del Cristianesimo dal piano logico al piano della FONDAZIONE DEL DISCORSO su di un atto volontario e irrazionale. Solo che la lettura dei testi biblici; fatta da Vittorino, testimonia Sant'Agostino (Confessioni, VIII, 2 sgg.), per dimostrare la contraddittorietà della tesi ebraico-cristiana e per altro verso l'incontro, in Roma, con i libri dei neo-platonici (sembra che Vittorino abbia tradotto alcuni testi di Platone e, forse, le Enneadi di Platino, su cui si sarebbe poi formato Sant'Agostino), lo avrebbero condotto a questa triplice considerazione. La retorica, valida appunto finché è neutra, se tale resta risolvendo tutta la realtà in parole, si taglia dietro ogni possibilità di comprensione del vero, di contatto con il senso della realtà. Nell'insegnamento neo-platonico si trova che LA CONDIZIONE STESSA DEL DISCORSO si coglie in una conversione dell'anima su se stessa rivelante alla fine che quella condizione è la fondazione stessa del tutto che trascende dal di dentro. Si riconosce alla fine, che la possibilità della conversione, dell'anima che ritrova se stessa, la capacità del riscatto dal limite, è dovuta alla rivelazione, all'intervento del Cristo. Vittorino si fece cristiano, pubblicamente smentendo il se stesso dei primi anni, in Roma, nel 357 circa (cfr. S. Agostino, cit.). Dopo di allora, obbligato, poi, a chiudere la sua scuola dalla legge di Giuliano, nel 362, si apparta dalla vita pubblica, dedicandosi esclusivamente da un lato a commentare le Lettere di Paolo ai Galati, agli Efesini e ai Filippesi, dall'altro lato a giustificare, usando le tesi neo-platoniche sull'Uno, il dogma della Trinità e della consustanzialità, di contro alla tesi, logicamente sostenuta, dell'ariano Candido. Di qui le ultime opere di Vittorino: “Della generazione del Verba divino” (358), in risposta alla Generazione divina di Candido (lucida operetta in cui, sulla scia di Eunomio, si sostiene, ammesso Dio assoluto e perfetto, ingenerato e immobile, che impossibile, logicamente contraddittorio è ammettere che il Verba di lui sia ad un tempo generato e ingenerato, e quindi ad un tempo sia e non sia della stessa sostanza del Padre, sia e non sia essere); quattro libri Contro Aria (358); un breve trattatello De homoousio re- cipiendo (360). La risposta a Candido di Mario Vittorino, si fonda, rifacendosi al concetto di Uno di Platino, su di un paralogismo e conseguentemente, posta una certa definizione (non sostanziale, ma verbale), su di un sillogismo ipotetico.  Se Dio è l'Essere, la ragion d'essere del tutto, Dio è di là dallo stesso essere, indefinibile in sé, in quanto ha in sé tutte le possibili definizioni, e, perciò tutte le possibili esistenze, anche l'esistenza di se stesso. Prima di ogni essere, prima di ogni esistenza, unità in cui tutto è indistinto, uno nell'uno (hoc enim unum ante on, supra omnem existentiam, supra omnem vitam, supra omnem conoscentiam, super omne on et pantòn 6nt6n ònta"), di Dio neppure si può dire che sia ingenerato, o meglio ch'egli abbia una certa sostanza, un certo intelletto, neppure che è essere, anzi, rispettiva- mente agli esseri, si può dire, forse, meglio ch'egli è non essere (Gene- razione del Verbo divino, 12), cioè il suo essere sta nella sua potenza di trarre fuori da sé l'essere di riconoscersi nell'essere, tutto potenzial- mente in lui. La potenza di Dio è, allora, la sua essenza, la sua crea- zione, onde l'essere che scaturisce dalla potenza di Dio, che è oltre l'essere, non-essere, si genera dal non essere, da Dio, è creazione ex nihilo. Il Verbo di Dio, dunque, il suo stesso riconoscersi, è ad un tempo generato da Dio, figlio di Dio, ed è Dio esso stesso, in quanto esserci di Dio (Deus enim prima causa est, non solum aliorwn omnia causa, sed sui ipsius est causa. Deus ergo a semetipso et Deus est" : 18). Come poi il Figlio sia nel Padre e il Padre nel Figlio, e l'uno e l'altro non siano l'uno accanto all'altro, ma uno ("neque solum simul ambo, sed unwn solum et simplex") non è, dice Vittorino, necessario ricercare. "Sed hoc non oportet qu:rrere, sufficit enim credere" (cfr. Gilson, op. cit., pp. 124-25). Sembra ora chiaro in che senso l'aspetto formale della retorica e della logica, la dialettic~ usata in senso ciceroniano e stoico, la contrapposizione accademica delle ipotesi, utile per tutti, sul piano della formazione culturale dei futuri dirigenti, potesse ad un tempo servire a convincere della validità dell'ipotesi cristiana, oltrepas- sando in una convinzione del fondamento non razionale della ragione, la neutralità sofistica della retorica, senza, con questo, togliere nulla allo studio di come funzionano i discorsi umani, di quali sono le defi- nizioni e cosi via (e per ciò potevano servire certi scritti di Aristo- tele, si come certi altri degli stoici). Tutto questo dovrà tener presente lo studioso di Sant'Agostino, il cui itinerario si avvicina non poco a quello di Vittorino, dal quale Sant'Agostino stesso confessa di aver molto ripreso, e per mezzo del quale conobbe gli scritti di Plotino, ma anche chi vada studiando da un lato la formazione del curricolo degli studi al principio del Medioevo (e qui pensiamo in particolare a Boe- zio), dall'altro lato la teologia negativa nei suoi rapporti col neoplato- nismo, in special modo entro i termini di Plotino e di Proclo, usati in funzione cristiana, e la questione relativa del dio essere oltre l'es- sere, non essere che da sé crea se stesso e il tutto (interpretazione neoplatonica della "creatio ex nihilo" : e qui pensiamo agli scritti dello pseudo Dionigi, a Massimo il Confessore, per giungere fino a Giovanni Scoto Eriugena). Ad ogni modo, Mario Vittorino ebbe nel mondo di lingua latina una notevole influenza relativamente alla formazione di quella koinè culturale di cui parlavamo, nel delineare, insieme a Macrobio e a Cal- cidio, un complesso di discussioni indirizzate su certi testi di Aristo- tele, su di un certo modo di interpretare Cicerone (già Lattanzio) e 338    Virgilio (cfr. particolarmente i Saturnali di Macrobio), sulla possibi- lità di riprendere Aristotele (relativamente ai problemi del mondo sensibile e dell'anima. nei suoi aspetti vegetativo e sensitivo), interpre- tandolo, poi, come inverantesi mediante il nooplatonismo. Di qui, ancora una volta, sul piano dell'insegnamento scolastico e della prepa- razione culturale, la funzione data ai repertori, alle sillogi, a certe sistemazioni scientifiche del sapere antico. A tal proposito, per ciò che riguarda la diffusione di certi problemi nel mondo di lingua latina e la lettura determinante di certi testi è opportuno ricordare la traduzione in latino della Parafrasi degli Analitici di Aristotele di Temistio, dovuta al neoplatonico Nettio Agorio retestato, alto funzionario (fu senatore, questore, pretore, governa- ore della Tuscia e dell'Umbria, consolare della Lusitania, proconsole :lell'Ocaia, prefetto pretorio dell'Italia e dell'Illirico, designato console per il 385, ma morto nel 384), amico dell'Imperatore Giuliano, non troppo tenero verso l'irrazionalismo del Cristianesimo. E accanto al nome di Pretestato va ricordato il nome di Firmico Materno. L'importanza di Giulio Firmico Materno piu che nell'opera da lui scritta dopo la sua conversione al Cristianesimo, il De errore profanarum religionum (una violenta diatriba contro il politeismo, con cui iden- tifica tutte le posizioni non cristiane e per cui chiede agli imperatori Costanzo e Costante di perseguitare e distruggere chi non è cristiano), sta nell'opera pubblicata tra il 334 e il 337 dedicata a Lalliano Mavorzio, governatore della Campaflia prima, proconsole d'Africa poi, che gli aveva chiesto un manuale di astrologia. L'opera di Firmico, in otto libri, intitolata Mathesis, è il trattato piu ampio di astrologia traman- dato dall'antichità, in una sistemazione del sapere astrologico in termini neo-platonici. Vi si difende, contro le critiche di Carneade e degli scettici, la possibilità dell'astrologia come scienza. Se è vero che, data la limitatezza dell'uomo, legato al corpo e alle illusioni sensibili, difficili sono i calcoli e le predizioni, è altrettanto vero che, l'uomo, libe- randosi dalla sua sensibilità, in una conversione dell'anima su di sé, può ritrovando l'anima simile alla ragion d'essere del tutto, ripercor- rere le trame su cui tutto si scandisce, e può, perciò, ricostruendo l'or- dine e la necessità in cui tutto, dai cieli, alle stelle, alla terra, alle cose Giulio Firmico Materno, di origine siciliana, avvocato, vir consularis, senatore, tra il 334 e il 337, per mantenere la promessa che aveva fatto a Lalliano Mavorzio, che lo aveva accolto con favore e amicizia al tempo del suo governatorato in Campania, pubblica un'opera in otto libri, sull'astrologia, intitolata “Mathesis”, dedicata, appunto, a Lalliano, allora pro-console d'Africa (nel primo libro si difende l'astrologia dalle critiche dei neo-accademici e di Carneade. I libri II-VIII sono dedicati alla vera e propria astrologia. Convertitosi al Cristianesimo nel 345 circa, tra il 346 e il 350 scrive il “De errore profanarum religionum] si è costituito, determinare i rapporti e le influenze stellari, in calcoli e previsioni, matematicamente esatti, mediante' cui, nell'ascesa del- l'anima fino alla divinità, ci si può liberare dai vincoli fatali, dalle influenze stellari che provocano le nostre passioni e i nostri impulsi malvagi (libro 1). Infine, sempre sul piano della preparazione culturale e della diffusione delle idee, merita il conto ricordare, entro la linea della grande tradizione matematico-astronomica di Alessandria, il Commento alla Sintassi di Tolomeo e l'edizione delle opere di Euclide a cura di Teone di Alessandria, vissuto ad Alessandria tra il 335 e il 400, padre dell'altrettanto celebre Ipazia, una delle maggiori rappresentanti del neo-platonismo logico di Alessandria, maestra di Sinesio, morta vittima della reazione cristiana, nel 415, su istigazione del vescovo Cirillo. Francesco Adorno. Keywords: Filosofia italica, scuola di Crotone, scuola di Velia, Girgenti, Parmenide, Zenone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Adorno” – The Swimming-Pool Library.

 

Agamben (Roma). Grice: “Agamben is a terribly complex philosopher, and a fascinating one – he has philosophised on things I did: ‘fantasma,’ as used by Aristotle in ‘Interpretatione,’ the unsaid and the unsayable (indicible), that Aganbem might apply to ‘il ragazzo’ – or ‘fanciullino’ – he has philosophhised on ‘love’ (amore – eros – idea dell’amore – and semiology of the sphynx, imagine, and imagine perverse – the use of bodies (uso dei corpi) and ‘silence’ (il silenzio nel linguaggio): lingua, iinguaggio, dialetto – verita – the sacred dimension of language in swearing – ‘sacramgneto del linguaggio – the logic of commands and the commandmets – the power and the glory – he obviously enjoys in word play! Flosofo. D’antica famiglia veneziana di origine armena, si laureò in Giurisprudenza nel 1965 con una tesi su Simone Weil. Ha scritto diverse opere, che spaziano dall'estetica alla biopolitica. A Roma, sempre negli anni sessanta, frequenta con intensità Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini (interpreta l'apostolo Filippo nel film Il Vangelo secondo Matteo), Ingeborg Bachmann. Nel 1966 e nel 1968 partecipa ai seminari promossi da Martin Heidegger su Eraclito e Hegel a Le Thor. Nel 1974 si trasferisce a Parigi, dove frequenta Pierre Klossowski, Guy Debord, Italo Calvino e altri intellettuali, mentre insegna all'Università Haute-Bretagne. L'anno seguente ha lavorato a Londra, mentre dal 1986 al 1993 ha diretto il Collegio internazionale di filosofia a Parigi, frequentando, tra gli altri, Jean-Luc Nancy, Jacques Derrida e Jean-François Lyotard. Dal 1988 al 2003 ha insegnato alle Università degli Studi di Macerata e di Verona. Dal 2003 al 2009 ha insegnato presso l'Istituto Universitario di Architettura (IUAV) di Venezia.  Sempre nel 2003 ha abbandonatoper protesta contro i nuovi dispositivi di controllo imposti dal governo statunitense ai cittadini stranieri che si recano negli Stati Uniti d'America, cioè lasciare le proprie impronte digitali ed essere schedatil'incarico di professore illustre all'New York. In precedenza era stato professore invitato in altre istituzioni, tra cui l'Università Northwestern, l'Università Heinrich Heine di Düsseldorf e la European Graduate School di Saas-Fee. In seguito "si è dimesso dall'insegnamento nell'università italiana". Oggi dirige la collana Quarta prosa presso l'editore Neri Pozza e organizza un seminario annuale presso l'Parigi Saint-Denis.  Tra gli autori che ha studiato e proposto: Walter Benjamin, Jacob Taubes, Alexandre Kojève, Michel Foucault, Carl Schmitt, Aby Warburg, Paolo di Tarso, ma anche Furio Jesi, Enzo Melandri e in genere trattando temi di filosofia politica, biopolitica (in particolare i concetti di stato di emergenza, esilio e autorità), mistica cristiana ed ebraica, angelologia, storia dell'arte e letteratura. Collabora con "aut-aut", "Cultura tedesca" e con diverse altre riviste di filosofia. In occasione della laurea honoris causa in teologia presso l'Friburgo il 13 novembre  ha pronunciato la conferenza Mysterium iniquitatis, poi tradotta in Il mistero del male. H ricevuto il Premio europeo Charles Veillon per la saggistica e nel  il Premio Nonino "Maestro del nostro tempo".  Il pensiero di Giorgio Agamben, benché caratterizzato da una omogeneità che copre tutto l'arco evolutivo delle sue opere, può essere per comodità suddiviso in due momenti distinti. A fare da spartiacque è un testo fondamentale: Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, il quale si inscrive nelle tematiche e nel dibattito sollevati dalle ricerche di Foucault attorno al biopotere, indagando il rapporto fra diritto e vita e sulle dinamiche dei modelli di sovranità.  La prima riflessione agambeniana predilige tematiche estetiche, in particolar modo letterarie, nel contesto di un grande confronto con il pensiero di Martin Heideggerche ha conosciuto personalmente partecipando ai seminari estivi tenuti in Provenza ncon quello di un altro filosofo a lui caro: Walter Benjamin, autore del quale curò la prima edizione italiana delle opere complete per Einaudi, ritrovando anche un discreto numero di testi inediti (tra cui quelli nascosti e conservati da Georges Bataille alla Biblioteca nazionale di Francia e riscoperti da Agamben nel 1981 tra le carte di Bataille presenti nella biblioteca); la collaborazione con Einaudi si interruppe per sopravvenute incomprensioni con l'editore.  All'inizio degli anni novanta alcuni suoi allievi hanno fondato la casa editrice Quodlibet. I suoi studi hanno riguardato varie tematiche, dal linguaggio alla metafisica, approfondendo il significato dell'esistenza del linguaggio e dei suoi limiti referenziali esogeni ed endogeni., dall'estetica nella quale indaga sulle relazioni intercorrenti fra filosofia ed arte chiedendosi se quest'ultima permetta una differente espressione del linguaggio rispetto alla prima, all'etica che approfondisce le tematiche e gli aspetti emergenti dal contesto dei lager nazisti.  A sostegno del pensiero di Agamben riguardo alla sua concezione della "nuda vita" vale infine quanto scritto in un articolo pubblicato in data 17 marzo  intitolato Chiarimenti:  «È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vitae la paura di perderlanon è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa.»  Homo sacer A partire dal concetto latino di homo sacer, la sua ricerca principale si svolge nei seguenti volumi (ripresi nell'edizione definitiva: Homo Sacer. Edizione integrale.  I. Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, II,1. Stato d'eccezione, 2003 II,2. Stasis. La guerra civile come paradigma politico,  Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento,  Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell'economia e del governo, II,5. Opus Dei. Archeologia dell'ufficio,  Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita,  IV,2. L'uso dei corpi,  Al cinema Ha interpretato il ruolo di Filippo nel film del 1964 Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini.  Opere: “Jarry o la divinità del riso”,  in Alfred Jarry, Il supermaschio, trad. G. Agamben, Milano: Bompiani (poi Milano: SE,) André Breton e Paul Éluard, L'immacolata concezione, trad. G. Agamben, Milano: Forum, (poi Milano: ES). L'uomo senza contenuto, Milano: Rizzoli, 1970 (poi Macerata: Quodlibet) (contiene: «La cosa più inquietante», «Frenhofer e il suo doppio», «L'uomo di gusto e la dialettica della lacerazione», «La camera delle meraviglie», «Les jugements sur la poésie ont plus de valeur que la poésie», «Un nulla che annienta se stesso», «La privazione è come un volto», «Poiesis e praxis», «La struttura originale dell'opera d'arte», «L'angelo malinconico») José Bergamin, in José Bergamín, Decadenza dell'analfabetismo, trad. Lucio D'Arcangelo, Milano: Rusconi,  (n.ed. Milano: Bompiani) La notte oscura di Juan de la Cruz, in Juan de la Cruz, Poesie, trad. G. Agamben, Torino: Einaudi, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino: Einaudi (ristampato Einaudi) (contiene: «Prefazione», «I fantasmi di Eros», «Nel mondo di Odradek. L'opera d'arte di fronte alla merce», «La parola e il fantasma. La teoria del fantasma nella poesia d'amore del '200», «L'immagine perversa. La semiologia dal punto di vista della Sfinge») Marcel Griaule, Dio d'acqua, trad. G. Agamben, Milano: Bompiani, 1978 Infanzia e storia. Distruzione dell'esperienza e origine della storia, Torino: Einaudi. Contiene: «Infanzia e storia. Saggio sulla distruzione dell'esperienza», «Il paese dei balocchi. Riflessioni sulla storia e sul gioco», «Tempo e storia. Critica dell'istante e del continuo», «Il principe e il ranocchio. Il problema del metodo in Adorno e in Benjamin», «Fiaba e storia. Considerazioni sul presepe», «Programma per una rivista») Gusto, in Ruggiero Romano , Enciclopedia Einaudi,  6, Torino: Einaudi,  L'io, l'occhio, la voce, in Paul Valéry, Monsieur Teste, trad. Libero Salaroli, Milano: Il Saggiatore, nuova ed. Milano: SE; poi in La potenza del pensiero,  Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Torino: Einaudi (ristampato Einaudi,) La fine del pensiero, Paris: Le Nouveau Commerce, 1982 Un importante ritrovamento di manoscritti di Walter Benjamin, in «aut-aut», (numero intitolato «Paesaggi benjaminiani»), Firenze: La Nuova Italia, La trasparenza della lingua, in «Alfabeta», Milano: Coop. Intrapresa, Il viso e il silenzio, in Ruggero Savinio, Opere 1983, Milano: Philippe Daverio, 1983 Il silenzio del linguaggio, in Paolo Bettiolo , Margaritae, Venezia: Arsenale, 1983,  69–79 Idea della prosa, Milano: Feltrinelli, (poi Macerata: Quodlibet) (contiene: «Soglia», «I: Idea della materia, Idea della prosa, Idea della censura, Idea della vocazione, Idea dell'Unica, Idea del dettato, Idea della verità, Idea della Musa, Idea dell'amore, Idea dell'immemorabile», «II: Idea del potere, Idea del comunismo, Idea della giustizia, Idea della pace, Idea della vergogna, Idea dell'epoca, Idea della musica, Idea della felicità, Idea dell'infanzia, Idea del giudizio universale», «III: Idea del pensiero, Idea del nome, Idea dell'enigma, Idea del silenzio, Idea del linguaggio, Idea della luce, Idea dell'apparenza, Idea della gloria, Idea della morte, Idea del risveglio», «Soglia. Kafka difeso contro i suoi interpreti») Quattro glosse a Kafka, in «Rivista di estetica», Torino: Rosenberg & Sellier, La passione dell'indifferenza, in Marcel Proust, L'indifferente, trad. Mariolina Bongiovanni Bertini, Torino: Einaudi,  Il silenzio delle parole, in Ingeborg Bachmann, In cerca di frasi vere, trad. Cinzia Romani, Bari: Laterza, 1989,  V-XV Sur Robert Walser, in «Détail», Paris: Pierre Alféri et Suzanne Doppelt (l'Atelier Cosmopolite de la Fondation Royaumont), autunno La comunità che viene, Torino: Einaudi, 1990 (n.ed. Torino: Bollati Boringhieri) (contiene: «La comunità che viene: Qualunque, Dal Limbo, Esempio, Aver luogo, Principium individuationis, Agio, Maneries, Demonico, Bartebly, Irreparabile, Etica, Collants Dim, Aureole, Pseudonimo, Senza classi, Fuori, Omonimi, Schechina, Tienanmen», «L'irreparabile») Disappropriata maniera, in Giorgio Caproni, Res amissa, G. Agamben, Milano: Garzanti, 1991 (poi in Categorie italiane,  89–103) Kommerell o del gesto, in Max Kommerell, Il poeta e l'indicibile, Genova: Marietti, VII-XV (poi in La potenza del pensiero,  Bartleby, la formula della creazione, Macerata: Quodlibet. Contiene: Gilles Deleuze, Bartebly o la formula trad. Stefano Verdicchio; G. Agamben, Bartebly o della contingenza: Lo scriba o della creazione, La formula o della potenza, L'esperimento o della decreazione») Nota introduttiva a: René, Il testamento della ragazza morta, trad. Daniela Salvatico Estense, Macerata: Quodlibet,  7–8 Maniere del nulla, in Robert Walser, Pezzi in prosa, trad. Gino Giometti, Macerata: Quodlibet,  7–11 Il dettato della poesia, in Antonio Delfini, Poesie della fine del mondo e poesie escluse, Daniele Garbuglia, Macerata: Quodlibet,  VII-XX (poi in Categorie italiane,  79–88) Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino: Einaudi, 1995 (ristampa 2008) (contiene: «Introduzione», «Logica della sovranità», «Homo sacer», «Il campo come paradigma biopolitico del moderno», «») Il talismano di Furio Jesi, in Furio Jesi, Lettura del Bateau ivre di Rimbaud, Macerata: Quodlibet, 1996,  5–8 Mezzi senza fine. Note sulla politica, Torino: Bollati Boringhieri, 1996 (contiene: «Avvertenza», «I: Forma-di vita, Al di là dei diritti dell'uomo, Che cos'è un popolo?, Che cos'è un campo?», «II: Note sul gesto, Le lingue e i popoli, Glosse in margine ai Commentari sulla società dello spettacolo, Il volto», «III: Polizia sovrana, Note sulla politica, In questo esilio. Diario italiano 1992-94») Per una filosofia dell'infanzia, in Franco La Cecla, Perfetti e indivisibili, Milano: Skira, 1996,  233–40 Categorie italiane. Studi di poetica, Venezia: Marsilio, 1996 (contiene: «Premessa», «Comedia», «Corn. Dall'anatomia alla poetica», «Il sogno e della lingua», «Pascoli e il pensiero della voce», «Il dettato della poesia», «Disappropriata maniera», «La festa del tesoro nascosto», «La fine del poema», «Un enigma della Basca», «La caccia della lingua», «I giusti non si nutrono di luce», «Il congedo della tragedia»). Nuova edizione (Roma-Bari: Laterza, ), accresciuta di otto testi e con un nuovo sottotitolo: Studi di poetica e di letteratura. Verità come erranza, in «Paradosso», 2-3 (numero intitolato «Sulla verità», Massimo Dona), Padova: Il Poligrafo, 1998,  13–17 Image et mémoire, Paris: Hoëbeke, 1998 (contiene: «Aby Warburg et la science sans nom», «L'origine et l'oubli. Parole du mythe et parole de la littérature», «Le cinéma de Guy Debord», «L'image immémoriale») Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone. Homo sacer. III, Torino: Bollati Boringhieri, 1998 (contiene: «Avvertenza», «Il testimone», «Il musulmano», «La vergogna o del soggetto», «L'archivio e la testimonianza», «») Introduzione, in Giorgio Manganelli, Contributo critico allo studio delle dottrine politiche del '600 italiano, Macerata: Quodlibet, 1999,  7–18 La guerra e il dominio, in «aut-aut», 293-294, Firenze: La Nuova Italia, settembre-dicembre 1999,  22–3, poi anche in: Paolo Perticari , Biopolitica minore, Roma: Manifestolibri  Il tempo che resta. Un commento alla «Lettera ai romani», Torino: Bollati Boringhieri, 2000 (contiene: «Prima giornata. Paulos doulos christoú Iësoú», «Seconda giornata. Klëtós», «Terza giornata. Aphörisménos», «Quarta giornata. Apóstolos», «Quinta giornata. Eis auaggélion theoú», «Sesta giornata», «Soglia o tornada», «Appendice. Riferimenti testuali paolini», «») Araldica e politica, in Viola Papetti , Le foglie messaggere. Scritti in onore di Giorgio Manganelli, Roma: Editori Riuniti Un possibile autoritratto di Gianni Carchia, in «Il manifesto» (supplemento «Alias» 26), Roma, 7 luglio 200118 Le pire des régimes, in «Le monde», Paris, 23 marzo 2002 The Time That Is Left, in «Epoché», VII, 1, Villanova: Villanova University,  1–14 L'aperto. L'uomo e l'animale, Torino: Bollati Boringhieri, 2002 (contiene «Teromorfo, Acefalo, Snob, Mysterium disiunctionis, Fisiologia dei beati, Cognitio experimentalis, Tassonomie, Senza rango, Macchina antropologica, Umwelt, Zecca, Povertà di mondo, L'aperto, Noia profonda, Mondo e terra, Animalizzazione, Antropogenesi, Tra, Desoeuvrement, Fuori dall'essere», «») Nota, in Ingebor Bachmann, Quel che ho visto e udito a Roma, Macerata: Quodlibet, 2002 (con Valeria Piazza) L'ombre de l'amour, Paris: Rivages, 2003 Stato di Eccezione. Homo sacer II, 1, Torino: Bollati Boringhieri, 2003 (contiene: «Lo stato di eccezione come paradigma di governo», «Forza di legge», «Iustitium», «Gigantomachia intorno a un vuoto», «Festa lutto anomia», «Auctoritas e potestas», «Riferimenti bibliografici») Intervista a Giorgio Agamben (sullo Stato di eccezione) in Antasofia 1, Mimesis, Milano 2003. Genius, Roma: Nottetempo, 2004 (poi in Profanazioni,  7–18) Il giorno del giudizio, Roma: Nottetempo, 2004 (poi in Profanazioni,  25–38) La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Vicenza: Neri Pozza, 2005 (contiene: «La cosa stessa», «L'idea del linguaggio», «Lingua e storia», «Filosofia e linguistica», «Vocazione e voce», «L'io, l'occhio, la voce», «Sull'impossibilità di dire io», «Aby Warburg e la scienza senza nome», «Tradizione dell'immemorabile», «*Se. L'assoluto e l'Ereignis», «L'origine e l'oblio», «Walter Benjamin e il demonico», «Kommerell o del gesto», «Il Messia e il sovrano», «La potenza del pensiero», «La passione della fatticità», «Heidegger e il nazismo», «L'immagine immemoriale», «Pardes», «L'opera dell'uomo», «L'immanenza assoluta») Profanazioni, Roma: Nottetempo, 2005 (contiene: «Genius», «Magia e felicità», «Il Giorno del Giudizio», «Gli aiutanti», «Parodia», «Desiderare», «L'essere speciale», «L'autore come gesto», «Elogio della profanazione», «I sei minuti più belli della storia del cinema») Introduzione, in Emanuele Coccia, La trasparenza delle immagini. Averroè e l'averroismo, Milano: Bruno Mondadori, 1995,  VII-XIII Che cos'è un dispositivo?, Roma: Nottetempo, 2006 L'amico, Roma: Nottetempo, 2007 Ninfe, Torino: Bollati Boringhieri, 2007 Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell'economia e del governo. Homo sacer II, 2, Vicenza: Neri Pozza, 2007 (nuova ed. Torino: Bollati Boringhieri, 2009) (contiene: «Premessa», «I due paradigmi», «Il mistero dell'economia», «Essere e agire», «Il regno e il governo», «La macchina provvidenziale», «Angelologia e burocrazia», «Il potere e la gloria», «Archeologia della gloria» preceduti, intervallati e seguiti da Soglie, «Appendice: L'economia dei moderni», «») Che cos'è il contemporaneo?, Roma: Nottetempo, 2008 Signatura rerum. Sul Metodo, Torino: Bollati Boringhieri, 2008 (contiene: «Avvertenza», «Che cos'è un paradigma?», «Teoria delle segnature», «Archeologia filosofica», «») Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento. Homo sacer II, 3, Roma-Bari: Laterza, 2008 Nudità, Roma: Nottetempo, 2009 (contiene: «Creazione e salvezza», «Che cos'è il contemporaneo?», «K.», «Dell'utilità e degli inconvenienti del vivere fra spettri», «Su ciò che possiamo non fare», «Identità senza persona», «Nudità», «Il corpo glorioso», «Una fame da bue», «L'ultimo capitolo della storia del mondo») (con Emanuele Coccia) Angeli. Ebraismo, Cristianesimo, Islam, Vicenza: Neri Pozza,  La Chiesa e il Regno, Roma: Nottetempo,  (con Monica Ferrando) La ragazza indicibile. Mito e mistero di Kore, Milano: Electa Mondadori,  Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita. Homo sacer IV, 1, Vicenza: Neri Pozza,  Opus Dei. Archeologia dell'ufficio. Homo sacer II, 5, Torino: Bollati Boringhieri,  Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi, Roma-Bari: Laterza,  Pilato e Gesù, Roma: Nottetempo,  Qu'est-ce que le commandement?, Parigi: Bibliothèque Rivages,  Il fuoco e il racconto, Roma: Nottetempo,  L'uso dei corpi. Homo sacer IV, 2, Vicenza: Neri Pozza,  To Whom Is Poetry Addressed?, in "New Observations", Stasis La guerra civile come paradigma politico. Homo sacer, Torino: Bollati Boringhieri,  L'avventura, Roma: nottetempo,  Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi, Roma: nottetempo,  Che cos'è la filosofia?, Macerata: Quodlibet,  Che cos'è reale? La scomparsa di Majorana, Vicenza: Neri Pozza,  Autoritratto nello studio, Milano: Nottetempo,  Karman. Breve trattato sull'azione, la colpa, il gesto, Torino: Bollati Boringhieri,  Creazione e anarchia. L'opera nell'età della religione capitalista, Vicenza: Neri Pozza,  Homo Sacer. Edizione integrale (1995-), Macerata, Quodlibet,  Il Regno e il Giardino, Vicenza: Neri Pozza,  Lo studiolo, Collana Saggi, Torino, Einaudi, . A che punto siamo? L'epidemia come politica, Macerata, Quodlibet,  Note  Giulia Farina, Enciclopedia della letteratura, Garzanti, 1997 p.9  Con il quale progetta una rivista. Cfr. l'ultimo capitolo di Infanzia e storia, Einaudi, Torino. Giorgio Agamben  Al quale si rivolge con L'amico, Nottetempo, Roma. Cfr. la lettera di solidarietà di Carla Benedetti dell'11 gennaio 2004 su "Nazione indiana":  la pagina sul sito della scuola.  Del quale ha diretto per qualche tempo le edizioni complete presso Einaudi, prima di abbandonare il progetto per contrasti con la casa editrice. cfr. la lettera a "la Repubblica" del 13 novembre 1996.  . Tra l'altro ha lavorato per il Warburg Institute negli anni,grazie alla cortesia di Frances Yates  . Altri autori di cui si è occupato sono Charles Baudelaire, Robert Walser, Paul Valéry, Antonio Delfini, Giorgio Manganelli, Max Kommerell, Elsa Morante, Giovanni Pascoli, Victor Segalen, Giorgio Caproni, Patrizia Cavalli, Marcel Proust, Arnaut Daniel ecc.  Paolo Vernaglione, TEOLOGIAIl «Mistero del male» di Giorgio Agamben. Fuga dal tempo del dominio [collegamento interrotto], in il manifesto, Lettera ad H. Arendt, 1970 (The Hannah Arendt Papers at the Library of Congress)   Roberto Gilodi, BenjaminUno «straccivendolo» alla ricerca capillare dei rifiuti di Baudelaire, in Alias, Roma, il manifesto,   cite web url=http://iep.utm.edu/a/agamben.htm  G.Agamben, Chiarimenti  Andrea Cavalletti, "La guerra civile, paradigma della politica" Archiviato il 4 marzo  in ., il manifesto Prima della pubblicazione di Stasis, questo volume era numerato II,2. Thomas Carl Wall, Radical Passivity: Levinas, Blanchot and Agamben, postfazione di William Flesch, Albany: State University of New York Press, 1999  Philippe Mesnard e Claudine Kahan, Giorgio Agamben à l'epreuve d'Auschwitz: temoignages, interpretations, Paris: Éditions Kimé, Eva Geulen, Giorgio Agamben zur Einführung, Hamburg: Junius,Alfonso Galindo Hervas, Politica y mesianismo: Giorgio Agamben, Madrid: Biblioteca nueva, Asselin e Jean-Francois Bourgeault , La littérature en puissance autour de Giorgio Agamben, Montréal: VLB, Calarco e Steven DeCaroli , Giorgio Agamben. Sovereignty and Life, Stanford: Stanford University Press, 2007 Francesco Valerio Tommasi, Homo sacer e i dispositivi. Sulla semantica del sacrificio in Giorgio Agamben, «Archivio di filosofia », Justin Clemens, Nicholas Heron e Alex Murray, The Work of Giorgio Agamben. Law, Literature, Life, Edinburgh: Edinburgh University Press, 2008Greg Bird. Containing Community: From Political Economy to Ontology in Agamben, Esposito, and Nancy. Albany: State University of New York Press, Leland de la Durantaye, Giorgio Agamben: A Critical Introduction, Stanford: Stanford University Press Alex Murray, Giorgio Agamben, London-New York: Routledge, Thanos Zartaloudis, Giorgio Agamben. Power, Law and the Uses of Criticism, London-New York: Routledge,  (DE) Oliver Marchart, Die politische Differenz zum Denken des Politischen bei Nancy, Lefort, Badiou, Laclau und Agamben, Berlin: Suhrkamp, William Watkin, Literary Agamben: Adventures in Logopoiesis, London-New York: Continuum, Vittoria Borsò et alii , BenjaminAgamben, Wurzburg: , Konigshausen & Neumann,  Lucia Dell'Aia , Studi su Agamben, Milano: Ledizioni,  (con saggi di Witte, Liska, Dell'Aia, Talamo, Miranda, Recchia Luciani) Francesco Valerio Tommasi, "L'analogia in Carl Schmitt e Giorgio Agamben. Un contributo al chiarimento della teologia politica", in L'ircocervo, /1.Jacopo D'Alonzo, "El origen de la nuda vida: política y lenguaje en el pensamiento de Giorgio Agamben", in Revista Pléyade, C. Salzani, Introduzione a Giorgio Agamben, Il Nuovo Melangolo,  (HR) Mario Kopić, Giorgio Agamben, «Tvrđa», 1-2, ,  44–93. Flavio Luzi, Quodlibet. Il problema della presupposizione nell'ontologia politica di Giorgio Agamben, Stamen, Roma . E. Castano, Agamben e l'animale. La politica dalla norma all'eccezione, Novalogos,  Carlo Crosato, Critica della sovranità. Foucault e Agamben. Tra il superamento della teoria moderna della sovranità e il suo ripensamento in chiave ontologica, Orthotes,  V. Bonacci , Giorgio Agamben. Ontologia e politica, Quodlibet  Lucia Dell'Aia e Jacopo D'Alonzo , Lo scrigno delle segnature. Lingua e poesia in Giorgio Agamben, Istituto Italiano di Cultura, Amsterdam . Con uno scritto inedito di G. Agamben (Porta e soglia) e contributi di: L. Dell'Aia, R. Talamo, C. Salzani, J. D'Alonzo, V. BorsòColilli.  Bios (filosofia) Zoé (filosofia) Homo sacer Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Giorgio Agamben Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Giorgio Agamben Opere di Giorgio Agamben, . Opere riguardanti Giorgio Agamben, . Giorgio Agamben, su Goodreads.   italiana di Giorgio Agamben, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Giorgio Agamben, su Internet Movie Database, IMDb.com.  Catherine Mills, Giorgio Agamben, su Internet Encyclopedia of Philosophy. L'aperto. L'uomo e l'animale. Recensione da LiberCensor.net. Agambeniana.  delle opere di Giorgio Agamben, ferma al gennaio 2004, su agamben.web.fc2.com. Jacopo D'Alonzo,  di Giorgio Agamben (aggiornata al dicembre ) , su filosofia-italiana.net. 9 aprile  13 aprile ). "Il frutto maturo della redenzione", Toni Negri su Agamben Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita recensione da Sitosophia Il mistero del male Traduzione spagnola nel 68esimo numero del magazine messicano "Fractal".  Agamben. Keywords: Ereignis, eye, occhio, occhi, polifemo, argo, i marziani di Grice – la etimologia accettata – ‘porre davanti agli occhi” – binocularismo – monocularismo – algarotti – Fjeld -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agamben” – The Swimming-Pool Library.

 

Agazzi (Genova). Grice: “I like [Emilio] Agazzi; his tutees thought he was into the ‘impegno della ragione,’ but then MY tutees thought that I was into the philosophical grounds (as in coffee) of rationality: intentions, categories, ends – I go by “H. P. Grice,” so surely I can find an acronym that would NOT leave the essential “H” out – as in Speranza’s GHP – a highly powerful or hopefully plausible version of Myro’s system G – “in gratitude to Paul Grice.” Grice: “Agazzi is a marxist – cf. my ontological Marxism, I am one, too – so his ‘ragione’ is Hegelian – he has also philosophised on Croce, and idealism, but the idea that there is ‘impegno’ behind reason is tutorial – surely reason is a natural faculty that does not require much of an ‘impegno’ – the more impegno, the less rational you will be counted – if he means that!” -- Filosofo. Agazzi nacque a Genova. Qui conseguì la maturità classica a la laurea in lettere e filosofia con una tesi su Il pensiero filosofico di Piero Martinetti presso l'Università Statale. Fu assistente volontario di storia della filosofia dapprima a Genova dal 1945 al 1954, dove fu in particolare influenzato dal pensiero di Adelchi Baratono, ordinario di filosofia teoretica, e successivamente, dal 1954 al 1964, a Pavia (ove in particolare collaborò con Ludovico Geymonat e Vittorio Enzo Alfieri); contemporaneamente, dal 1949 al 1972, insegnò filosofia nei licei di Genova, Voghera e Pavia. Nel 1964 conseguì la libera docenza in storia della filosofia moderna e contemporanea; dal 1965 al 1968 insegnò filosofia della religione nella facoltà di Lettere e filosofia a Milano, in particolare riprendendo il suo interesse per Piero Martinetti; mentre nella stessa facoltà insegnò dal 1969 al 1982 filosofia della storia, ottenendo un incarico stabile dal 1973.  Dalla seconda metà degli anni Settanta si dedicò in particolare allo studio della filosofia tedesca moderna contemporanea, accentrando la sua attenzione sulla Scuola di Francoforte, città in cui svolse ricerche approfondite ed ebbe contatti con docenti universitari; negli stessi anni frequentò ripetutamente università tedesche, polacche e jugoslave.  Impegno politico Da sempre attento agli sviluppi del pensiero marxista in Italia e in Europa, accompagnò la sua intensa attività di ricerca scientifica ad un attivo impegno politico: esponente del Partito Socialista Italiano negli anni Cinquanta, nei decenni successivi aderì dapprima al PSIUP, quindi al PDUP e a Democrazia Proletaria. Collaborò in varie forme a molte riviste e quotidiani della sinistra (tra gli altri Il Lavoro Nuovo, l'Avanti!, Mondoperaio, Quaderni Rossi, Passato e Presente, Classe); nel 1983 fondò la rivista di teoria politica Marx centouno.  Dopo il 1986, gravemente ammalato, dovette rinunciare ai suoi studi, lasciando nel 1990 l'insegnamento. Morì a Pavia il 25 settembre 1991.  Archivio L'archivio di Emilio Agazzi e gran parte della sua biblioteca sono stati do 1992 dagli eredi alla Fondazione Turati, dove è tutt'ora conservato presso l'archivio della Fondazione; il fondo contiene quaderni di appunti, manoscritti e materiali di lavoro per il periodo dagli anni Quaranta agli anni Ottanta del Novecento.  Opere: “Croce e il marxismo” (Einaudi); “Linee fondamentali della ricezione della teoria critica in Italia”; “L'impegno della ragione” (Cingoli, Calloni, Ferraro, Milano, Unicopli); Filosofia della natura. Scienza e cosmologia, Piemme, Casale Monferrato); “La filosofia di Piero Martinetti, Sandro Mancini, Amedeo Vigorelli e Marzio Zanantoni, Edizioni Unicopli, Milano, . Traduzioni Jürgen Habermas, “Etica del discorso” -- Laterza, Bari-Roma  Note  Agazzi Emilio, su SIUSA Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. 21 febbraio .  Fondo Agazzi Emilio, su SIUSA Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Collezione Emilio Agazzi  su Fondazione di studi storici "Filippo Turati". 21 febbraio .  E. Capannelli ed E. Insabato , Guida agli Archivi delle personalità della cultura in Toscana tra '800 e '900. L'area fiorentina, Firenze, Olschki, Scuola di Milano  Emilio Agazzi, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.Collezione Emilio Agazzi su Fondazione di studi storici "Filippo Turati". Filosofia Filosofo Professore1921 1991 18 novembre 25 settembre Genova Pavia. Emilio Agazzi. Agazzi. Keywords: etica del discorso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agazzi” – The Swimming-Pool Library.

 

Agazzi (Bergamo). Grice: “[Evandro] Agazzi has all the best intentions, but perhaps he lacks a Lit. Hum. background – he basically approaches my topic of “logica filosofica” which he contrasts with ‘logica matematica,’ and he has a special tract on my pont about ‘formalismo’,’ which I later called ‘modernism’ – “ragioni e limiti del formalismo” – his essay on ‘mondo incerto’ reminds me of my ‘intention and uncertainty’!” – Filosofo. Figlio di Agazzi, ordinario di pedagogia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Cattolica di Milano e preside della Facoltà di Magistero, fu allievo di Gustavo Bontadini e amico di Ludovico Geymonat, con cui a lungo collaborò, durante gli studi di filosofia presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e di fisica presso l'Università Statale di Milano. In seguito si è perfezionato all'Oxford, a quella di Marburg ed a quella di Münster; dal 1963 è libero docente in Filosofia della scienza e dal 1966 in Logica matematica.  Evandro Agazzi ha inizialmente insegnato Geometria superiore, Logica matematica e Matematiche complementari presso la facoltà di Scienze dell'Genova; ha insegnato altresì Logica simbolica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, Filosofia della scienza e Logica matematica presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.  Dal 1970 è Professore di Filosofia della scienza presso l'Genova e dal 1979 detiene la cattedra di Antropologia filosofica, Filosofia della scienza e Filosofia della natura presso l'Friburgo in Svizzera. È stato professore invitato nelle Berna, Ginevra, Düsseldorf, Pittsburgh ed anche all'Stanford; è dottore honoris causa dell'Córdoba (Argentina).  Ha presieduto numerose associazioni filosofiche nazionali e internazionali: Società Filosofica Italiana, Società Italiana di Logica e Filosofia delle scienze, Società svizzera di Logica e Filosofia delle scienze, Federazione internazionale delle Società filosofiche; è stato membro del Comitato Nazionale per la Bioetica. Attualmente è presidente della Académie Internationale de Philosophie des Sciences e dell'Institut International de Philosophie.  Pensiero I settori ai quali Evandro Agazzi ha rivolto prevalentemente i suoi interessi sono stati: la filosofia generale della scienza, la filosofia di alcune scienze particolari (matematica, fisica, scienze sociali, psicologia), logica, teoria dei sistemi, etica della scienza, bioetica, storia della scienza, filosofia del linguaggio, metafisica antropologia filosofica, pedagogia.  Attualmente le sue ricerche riguardano per un verso la caratterizzazione dell'oggettività scientifica e la difesa di un realismo scientifico basato su un approfondimento delle nozioni di riferimento e di verità, con le relative implicazioni di tipo ontologico, per un altro l'approfondimento del concetto di persona e delle varie conseguenze che ne derivano, in particolare nel campo della bioetica.  Filosofia della scienza La riflessione di Agazzi assume come punto di partenza la necessità gnoseologica di stabilire nella conoscenza scientifica «la più perfetta forma di conoscenza oggi a disposizione dell'uomo». Su questa base, anche i metafisici devono necessariamente passare per l'epistemologia, intesa come fondazione delle «strutture metodologichedella scienza». L'epistemologia, come la intende Agazzi, assume la scienza come un sapere oggettivamente rigoroso: tuttavia l'oggettività in questione non è quella metafisica delle essenze o quella fisica delle qualità, bensì un'oggettualità e intersoggettività.  Sulla base di questi due punti, come Agazzi specifica nel suo celebre libro intitolato Temi e problemi di filosofia della fisica, l'oggetto di una disciplina scientifica è la cosa, esaminata da un punto di vista tale per cui il ricercatore si pone grazie a una precisissima impostazione metodologica, tramite la quale ritaglia su una cosa un aspetto (oggettività), condiviso dai ricercatori che accettano gli stessi criteri di oggettivazione (intersoggettività). Il rigore scientifico cessa di essere inteso in senso dialettico e confutatorio o in senso matematico e quantitativo: è piuttosto inteso nel senso di dar ragione tramite l'immediato empirico o il mediato logico.  In questa prospettiva, la scienza assume la forma di un linguaggio che parla di un universo di oggetti. La configurazione della scienza è caratterizzata da quattro peculiarità:  è realistica, giacché fa costante riferimento alla realtà; è relativa, giacché costituisce il proprio oggetto; è rigorosa, giacché ha una valenza che è sia logica sia linguistica; è responsabile, giacché si pone il problema etico delle conseguenze che da essa scaturiscono. Per Agazzi, la filosofia non deve però limitarsi a fare queste riflessioni sulla scienza: deve anche operare un'incessante ricerca del fondamento, sia attraverso la critica dello scientismo e dell'ideologismo, sia attraverso la proposta di quello che Agazzi chiama, in I compiti della ragione, un «uso costruttivo della ragione: quello che si avvale dell'argomentazione, quello che cerca di comprendere e, al massimo, di persuadere».  Opere: “Lógica Simbólica”; “Temi e problemi di filosofia della fisica”; “Il bene, il male e la scienza”; “Introduzione ai problemi dell’assiomatica”; “Le geometrie non euclidee e i fondamenti della geometria”; “I sistemi fra scienza e filosofia”; “Studi sul problema del significato”; “Scienzia e fede. Nuove prospettive su un vecchio problema”; “Storia delle scienze La filosofia della scienza in Italia nel '900”; “Filosofia, scienza e verità”; “Logica filosofica e logica matematica”; “Quale etica per la Bioetica?” “Bioetica e persona”; “Cultura scientifica e interdisciplinarità  Interpretazioni attuali dell’uomo: filosofia, scienza, religione Il tempo nella scienza e nella filosofia; “Filosofia della natura, Scienza e cosmologia”; Prefazione di F. Minazzi. “Novecento e Novecenti”; “Paidéia, verità, educazione”; “Valore e limiti del senso comune”; “Scienza”; “Le rivoluzioni scientifiche e il mondo moderno”; “Ragioni e limiti del formalismo”. Note  Cfr. l'articolo ”Don Carlì, una vita al Seminario. Un libro per l'uomo cuore di Città Alta“, in L'eco di Bergamo, Giovedì 20 novembre 42.  Storia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Le fonti, Volume 1, Alberto Cova, Vita e Pensiero, Milano, 2007557.  Scuola di Milano Epistemologia Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Evandro Agazzi Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Evandro Agazzi  Evandro Agazzi, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Evandro Agazzi, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  Opere di Evandro Agazzi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Pagina personale di Evandro Agazzi sul sito dell'Genova. Valori e limiti del senso comune, Evandro Agazzi, Milano, FrancoAngeli. Evandro Agazzi. Agazzi. Keywords: significato, segno, segnato, segnante, seminarone a Genova ‘studi sul problema del significato’ – Grice, Peirce, segno, segno e comunicazione, segno per comunicare, comunicazione che lascia segno, tiro al segno – segno naturale --.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agazzi” – The Swimming-Pool Library.

 

Agostino. (Roma). Grice: “I like Agostino; he has philosophised exactly about what I did: identita personale; libero albitrio; and some of the topics that I philosophised with H. L. A. Hart, notably ‘parole di giustizia,’ and ‘bias’: ‘violenza e giustizia’ -- Filosofo.  Consegue la laurea in giurisprudenza nel 1968. Ha insegnato nelle Lecce, Urbino e Catania. Ordinario è professore di Filosofia del diritto e di Teoria generale del diritto presso l'Università degli studi di Roma Tor Vergata, in cui ha diretto il Dipartimento di "Storia e Teoria del Diritto". Insegna altresì alla LUMSA e alla Pontificia Università Lateranense ed è professore visitatore in diverse università straniere.  Tra i maestri che hanno influenzato il suo pensiero figurano Sergio Cotta e Vittorio Mathieu. Particolare attenzione è dedicata nella sua produzione scientifica alla teoria della giustizia, alle tematiche della bioetica, e quindi alle problematiche della tutela del diritto alla vita, alla teoria della famiglia.  Nel suo scritto La sanzione nell'esperienza giuridica, del 1989, sostiene e riattualizza la teoria retributiva della pena.  Già membro del Consiglio Scientifico dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, attualmente è Presidente onorario del Comitato nazionale per la bioetica, di cui è membro fondatore e di cui è stato presidente negli anni 1995-1998 e 2001-2006. Ricopre inoltre la carica di Presidente dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani. È membro della Pontificia Accademia per la Vita.  È stato direttore di Iustitia e Nuovi Studi Politici; attualmente è condirettore della Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto. Dirige per l'editore Giappichelli la collana Recta Ratio. Testi e studi di Filosofia del diritto, nella quale sono apparsi più di cento volumi. È inoltre editorialista del quotidiano Avvenire. Grazie a queste cariche e alle sue pubblicazioni, oggi D'Agostino è considerato uno degli intellettuali di riferimento del movimento teocon italiano.  Ha coordinato la sessione "I cattolici, la politica e le istituzioni" nell'ambito dei lavori del X Forum del Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana sui 150 anni dell'Unità d'Italia.  Polemiche sul tema dell'omosessualità Ha suscitato polemiche la constatazione di D'Agostino per cui le unioni omosessuali sono «costitutivamente sterili»: la constatazione fu ripresa dal ministro Mara Carfagna nel 2007 che affermava che «non c'è nessuna ragione per la quale lo Stato debba riconoscere le coppie omosessuali, visto che costituzionalmente sono sterili» e che «per volersi bene il requisito fondamentale è poter procreare».  Opere: “La sanzione nell'esperienza giuridica”; “Una filosofia della famiglia”; “Diritto e Giustizia”; “Filosofia del diritto, Parole di Bioetica, Parole di Giustizia, Lezioni di filosofia del diritto”; “Lezioni di teoria generale del diritto, Bioetica, nozioni fondamentali, Il peso politico della Chiesa, Un Magistero per i giuristi. Riflessioni sugli insegnamenti di Benedetto XVI,  Bioetica e Biopolitica. Ventuno voci fondamentali  Corso breve di filosofia del diritto,  Jus quia justum. Lezioni di filosofia del diritto e della religione  Famiglia, matrimonio, sessualità. Nuovi temi e nuovi problemi. Carfagna: "Gay costituzionalmente sterili" da La Repubblica. Francesco D’Agostino. Francesco D’Agostino. D’Agostino. Agostino. Keywords: ius quia iustum non ius quia iussum – iussum – iubeo, perh. ‘jus habere’ to regard as right. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agostino” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Agresta. (Mammola). Grice: “I would hardly call Agresta a philosopher, but then my working site was formerly a Cisterian monastery and bore the name of San Giovanni il Battista, so who am I to judge?! In any case, I always wondered why Loeb (in the Macmillan edition) cared to publish the four volumes of letters of Basil (of Blackwell fame) – now I know – Agresta dedicated his life to this saint – In a way I drew from him in my netasteousia, i. e. transubstantatio – how a pirot-1 becomes a pirot-2 – a human becomes a person. Pater used to say that at Oxford it’s all about Hellenism, no Ebraismo! Yet Agresta, an Italian, of sorts --  he was half-Greek! – is a good example, alla Basil, of how troublesome those with a classical – i. e. Graeco-Roman – education found all those ‘heresies’ of the Christian dogma! Three persons in one – and the rest of them. Hardie used to tell me, ‘Lay the blame on the Christian doctrine, not on Aristotle’s theory of the substdance!” --  Filosofo. Abate Generale dei Basiliani d'Italia è ritenuto tra i più illustri dell'ordine Basiliano. Nato a Mammola (RC) il 10 gennaio 1621, morì a Messina il 23 Dicembre 1695. Al battesimo fu chiamato Domenico, figlio di Giovanni Michele Agresta e di Dianora Scarfò. Inizia i primi studi alla Grancia Basiliana di Mammola, continua al seminario di Gerace, a 16 anni frequenta gli studi superiori a Napoli, ma viene colto da febbre maligna e miracolosamente come egli afferma recupera la guarigione ritornando a Mammola. Dopo due anni il 23 luglio 1639 veste l'abito di San Basilio Magno nel monastero del San Salvatore di Messina. Abbandonando il nome Domenico prende quello di Paolo; l'anno successivo viene consacrato sacerdote nella basilica di Sant'Apollinare di Ravenna, ricevendo il nome di Apollinare e inizia la professione monastica.  Don Apollinare Agresta dotto teologo, filosofo, studioso, storico e scrittore. Nel 1669 fu insignito del titolo di Maestro di sacra teologia. Negli anni successivi il 24 luglio 1675, viene nominato Abate Generale dell'Ordine dei Basiliani d'Italia da Papa Clemente X, con l'incarico di riorganizzare l'ordine dei Basiliani; nel 1680 veniva ancora confermato, poi riconfermato da Papa Innocenzo XI, ed ancora un'altra volta nel 1692 da Papa Alessandro VIII. Conservò la carica fino alla morte.  Ha rivestito incarichi prestigiosi. Giovanissimo viene insignito di numerose cariche: è responsabile di diversi monasteri della Provincia di Calabria e d'Italia, introduce nuovi metodi di studio per gli studenti, procurandosi fama e onore dalle comunità locali e religiose. Ricopre la carica di Abate al monastero di S. Onofrio, presso Monteleone oggi Vibo Valentia, regge successivamente la Grangia di San Biagio del monastero basiliano di San Nicodemo di Mammola (RC); ma anche fu inviato al monastero italo-greco di San Giovanni Theresti di Stilo (RC), a reggere il monastero di Mater Domini in Nocera de' Pagani nella Campania, e dopo viene nominato Procuratore Generale della Badia di Grottaferrata, oggi Monastero di Santa Maria di Grottaferrata, meglio conosciuto come Monastero di San Nilo.   RomaChiesa di San Basilio (Stemma visibile sugli archi della Chiesa)  RomaChiesa di San Basilio (Lapide a conferma della edificazione voluta da Don Apollinare Agresta) L'Agresta ebbe sempre a cuore il decoro nel culto e delle costruzioni ed arredamenti degli edifici religiosi. Fu edificata da lui nel 1682 la Chiesa di San Basilio agli Orti Sallustiani a Roma, che si trova in Via San Basilio vicino a Piazza Barberini, come conferma una lapide marmorea in latino dentro la chiesa. Nella Grancia Basiliana di Mammola edificò una cappella in onore di San Nicodemo Abate Basiliano e affidatala alla sorella Vittoria vi fece collocare le reliquie del santo (in seguito al terremoto le reliquie sono conservate nella cappella di San Nicodemo nella Chiesa Matrice di Mammola). Si adoperò per la costruzione del Collegio di San Basilio a Roma. Nel monastero di Rosarno restaurò la cappella della Madonna. Acquistò campi e case e restaurò numerosi monasteri permettendo ai monaci di vivere una vita più comoda. Donò indumenti liturgici in tutti i monasteri basiliani.  I Monaci Basiliani del Monastero di Grottaferrata (Roma) devotamente ricordano il loro Generale conservandone, con cura gelosa, un guanto pontificale. Marco Petta eFrancesco Russo, studiosi e storici del Monastero di Grottaferrata, sono state le ultime due personalità religiose che hanno scritto in ricordo dell'Abate Generale Don Apollinare Agresta, consultando all'interno del monastero la vasta biblioteca che conserva scritti di grande valore e importanza.  Nel Museo Diocesano di Reggio Calabria, si può ammirare un reliquario a braccio, che conserva le reliquie di San Giovanni Thereste, donate dall'Agresta quando ricopriva la carica di Abate del Monastero italo-greco di Stilo.  Un ritratto in giovane età del monaco è pubblicata nel libro "Mammola" di Don Vincenzo Zavaglia. Autore di numerose pubblicazioni, i libri di Don Apollinare Agresta, a distanza di secoli, ancora oggi vengono consultati e citati da numerosi ricercatori e studiosi, tra le sue opere più importanti ricordiamo: “Vita di San Basilio Magno” (Roma) -- ancor oggi pregevole per le molte notizie che ci dà dei monasteri basiliani delle Calabrie e d'Italia --; “Vita di S. Giovanni Theristi” (Roma); “Vita di San Nicodemo A.B. (Roma Privilegi e concessioni fatti dal Gran Conte Ruggero al sacro archimandritale Monastero di Giov. Theristi (Roma); Constitutiones Monachorum Ordinis S. Basilii Magni Congregationis Italiae (Roma) Compendio delle Regole o vero Costitutioni monastiche di S. Basilio raccolto dal Bessarione (Roma). Sono rimaste inedite alcune biografie riguardanti San Luca di Tauriano, il beato Stefano di Rossano, San Proclo di Bisignano, la beata Teodora Vergine, San Onofrio di Belloforte e San Fantino di Tauriana.  D. Vincenzo Zavaglia, Mammola, Frama Sud, Chiaravalle C. Marco Petta, Apollinare Agresta Abate Generale Basiliano, Tipogr. Italo-Orientale S. Nilo Grottaferrata 1981. Apollinare Agresta, in Enciclopedia Treccani, 1929 Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Monastero di Santa Maria di Grottaferrata o Monastero di San Nilo, su abbaziagreca. Santuario di San Nicodemo, su sannicodemodimammola. Foto di Don Apollinare Agresta alla giovane età di 24 anni, su flickr.com.  Apollinaire Agresta. Agresta. Keywords: stato laico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agresta” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.

 

Ajello (Napoli). Grice: “I love Ajello; bevause he was a Plathegelian, while I’m an Ariskantian; I always found Plathegel very HARD to understand, Ajello doesn’t; there’s something in an Italian that makes Hegel’s Dutchiness very comprehensible, even more so than to the Dutch themselves!” Filosofo -- discepolo di Puoti, aprì uno studio privato come maestro ma ebbe vita stentata fino a quando ottenne un posto al ministero dell'Istruzione.  Partecipa ai moti e per questo fu licenziato in tronco. E arrestato e gli e  vietato l'insegnamento pubblico e «di far uso anche moderatissimo della stampa» , per cui dove tornare all'insegnamento privato della filosofia e della letteratura.  Seguace convinto della filosofia hegeliana, che contribuì a diffondere in Italia, basa la sua filosofia soprattutto sull'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio.  Opere: “Della muliebrità della volgar letteratura dei tempi di mezzo”; “Napoli e i luoghi celebri delle sue vicinanze”; “Discorsi di storia e letteratura” -- Enciclopedia Italiana Treccani alla voce corrispondente  Opere di Giambattista Ajello, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA DELLA VOLGAR LETTERATURA DEI TEMPI DI MEZZO DI GIAMBATTISTA AJELLO. Di questa operetta del signor Ajello, della quale han già tenuto parola vari giornali del regno , sorge in ul timo luogo a dar contezza ilProgresso. Nè ciò senza ra gione , perocchè , essendo l'Ajello uno de'collaboratori de' quali il nostro giornale si pregia , il nostro qualsiasi.giu dizio sarebbe forse paruto sospetto , e noi , diffidandone a ragione , abbiamo aspettato che ci avesse preceduto quello di altri non ligati a lui collo stesso. vincolo di amicizia. Per la qual cosa avendomi io in particolare , senza dissi- ' mulare a me stesso la malagevolezza di giudicar l'opera di uno amico , tolto l'incarico di qui ragionarne mi converrà avvertire che riassumerò le idee dell'Ajello non dal solo libretto di cui è qui sopra rapportato il titolo , m a da un suo lungo articolo ancora inserito nella Rivista Napolitana (1), nel quale , rispondendo l’Ajello alle o b biezioni del culto giovine Stanislao Gatti (2) , ha meglio 69  (1)Anno.3.°fasc.IV. Museo di letteratura e filosofia , vol.I.° pag . 60. opera periodica compilata per cura di Stanislao Gatti,alla quale auguriamotuttoquel suc CESSO đi che l'ingegno del Direttore ci è larga guarentigia.   70 CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA' sviluppato le sue idee e dileguato quei dubbi che per a v ventura avrebbono potuto far nascere. Dall'uno e l'altro lavoro cercherò cogliere il pensiero dell'autore qual si c o n viene a chiunque prenda a disaminare un'opera nell'in teresse solo del progresso del pensiero , non già per m i serabili e grette vedute individuali , per le quali cercasi trovare una contraddizione in ogni pagina e far la guerra non ai principi, m a agl'individui, privilegio di separazione alla repubblica letteraria solo concesso. Ecco dunque la serie delle ragioni principali dall'A jello discorse e rapportate , quanto più per m e si potrà , colle sue stesse parole. Ogni qualvolta si porti la nostra attenzione sui versi ed opere di arte che ci ha tramandato l'antichità ed a quelle che nel medio evo ebber vita, non sipuò non re star colpito dalla capital differenza che le separa. Nelle prime nate in mezzo alle culte e pulite società di Grecia e di Roma , vediamo farsi della donna quel conto che d'ogni cosa si farebbe da cui ci provvenisser soltanto vo luttuose dolcezze 'e vivaci e corporali diletti : laddove nelle séconde , comunque nate in mezzo a feroci e brutali pas sioni e lotte continue di elementi tra loro pugnanti e d i scordi , son le donne reputate quasi di superiore e più n o bil natura e fattevi obbietto d'uno entusiastico culto e d'un devoto e mistico amore. Vediamo la passione espressa nei versi degli antichi esser meglio ardenza di voglie ed e b brezza di sensual godimento che puro e indefinito desio ed abbandonevole affetto ed obblio di se stesso e del m o n d o nell'amata persona , come ne'poeti del medio evo si o s serva. E però campeggiar ne'primi la gelosia ,la quale in sostanza ( come bellamente si esprime l’Ajello ) è amor proprio , è poca o niuna stima dell'oggetto amato , spa rire interamente dalle opere dei secondi , cantori di una passione più dell'antica disinteressata e gentile. Questo puro e spirituale amore , questa stima ecces siva , questo universale e presso che religioso culto fatto nel medio evo alle donne , è ciò che si chiama dall’Ajello muliebrità della moderna letteratura con vocabolo di cui non starò affatto a disaminar la convenienza , bastandomi aver significato ilpensiero che ad esso congiunge l'autore,    DELLA VOLGÁR LETTERATURA . 71 . É d i q u e s t o s i n g o l a r e e n o n m a i p i ù v e d u t o f a t t o , il q u a l e , se costituisce ladifferenza del Tibullo dal Petrarca in quanto ai lor pensieri ed affetti amorosi , forma un nuovo ed i m portante elemento della nostra letteratura , che rende r a gione il suo libro ,cercando principalmente dare al fatto un fondamento , come l'autor dice, nella natura umana , avvalorando in tal modo e psicologicamente spiegando quei fatti , c h e , storicamente affermati , son mutabili e troppo speciali ed angusti perchè la Scienza della Storia debba farne un gran caso. La qual trattazione spero non sem brerà inutile ad alcuno o di mero passatempo , imperoc chè se la letteratura forma parte integrante della vita di un popolo e quindi della sua storia, nè si può senza colpa per trattar l'una trascurar l'altra , 'e se la patria nostra si è fatta felicemente studiosa delle sue memorie del medio evo le quali, se non sono le più liete,sono certo lepiù glo riose (1), il libro dell'Ajelo non giunge certamente inop portuno , ed egli riscuoterà senza dubbio il plauso di tutti coloro che rettamente sentono e pensano.Ilche assaibe ne , nè poteva altrimenti accadere, intese lo stesso Ajello il quale , mostrando nella sua introduzione esser quella tal muliebrità principal differenza della moderna letteratura dal l'antica, massime considerandola ne'suoi lontani effetti sulla vita ed il pensar delle nazioni, ed i nuovi e signoreggianti elementi delle moderne lettere star nell'amore e la morte ; assai logicamente concludeva doversi il lavorare intorno ad uno di questi elementi reputare opera per la moderna critica importantissima. N o n voglio con ciò dire essere egli stato il primo ad investigar le cagioni di questa che con lui chiamerà volontieri muliebrità della moderna lettera tura , chè già , comunque per lo più senza prove e quasi dommaticamente assunte , varie opinioni eran corse sul l'oggetto e di reputati scrittori tutte e dallo stesso Ajello a quattro ridotte nel seguente modo : 1.o « Che il Cristianesimo in 'ispezialtà sia stato ca gione del devoto e più puro amor per le donne. (1) Parole del Conte Cesare Balbo nella sua lodatissima vita di Dante .  2.o Ch'ei sidebba alle invasioni degli Arabi,mas sime alla vicinanza dei Mori di Spagna.   4.° Infine che soprattutto ei sia necessario e natu ralissimo effetto delle sociali e locali condizioni in cui f u ron posti gl'invasori , poichè presero più ferma stanza sul territorio romano , e che ilfeudale ordinamento ebbe aqui stato alquanto di consistenza e di stabilità. >  72 CONSIDERAZIONI SULLA MOLIEBRITA' 3.o Che sieci stato recato dalle genti germaniche con tutti gli altri lor costumi statici narrati e descritti da C e sare, Tacito ed Ammiano Marcellino. Or , movendo dalla prima opinione sostenuta precipua mente da scrittori Tedeschi per una certa loro inehinevo lezza all'astratto e più per reazione alla miscredenza del secolo passato , ecco le ragioni che ad essa oppone l'a u tore. 1.° Essere il fatto di cui è parola apparso al secolo undecimo e però aver dovuto la cagione aver prima ope rato. » Or in quella sorta di tempi potea forse la Chiesa aver qualche possanza , m a ogni buono effetto il qual d e rivasse proprio dall'indole della religion cristiana , dovea esser contrastato e depresso fra la grossa ignoranza e lo scompiglio e il grido di bestiali e matte passioni ». Con che non s'intende dire il Cristianesimo non avere avuto potere a quei giorni , m a che la sua spirituale e gentil n a tura non potea avere in tanta barbarie e in si profonda ignoranza pieno e libero effetto, ma scarso e poverissimo. In fatti la vera e nobil sua natura troviamo sconosciuta , e praticato solo ciò che avea di più esteriore e formale , e d i C o n c i l i e d i P a p i c o n t r o i t o r n e i , il d u e l l o e d i g i u dizi di Dio gridar vanamente. 2.° Aver senza dubbio il Cristianesimoconferito potentemente a migliorar la condi zionefemminile,ma nonperciòpotersidireche,eman cipando la donna, producesse poi quel puro amore e reli gioso culto che nel medio evo si ottenne , essendo questi due fatti non pur diversi , ma sino ad un certo segno in dipendenti e slegati , di sorta che sonosi appresso s c o m pagnatisempre e fuggiti. 3.° Esser l'amore cantato ne' tempi di mezzo gentile e purissimo, m a si profano e quasi idolatra. Or se si rifletterà che il Cristianesimo immoto e fisamente stretto cogli occhi al Cielo e all'altra vita , come al solo vero scopo dell'uomo , tenga la terra un esilio e transitoria stanza di sperimento , ed abbia sempre temuto che avesse pregio e bellezza ; si vedrà che cosa   ·DELLA VOLGAR LETTERATURA. 73 dovesse pensar delle donne , di queste possenti allettatrici de'cuori umani , delle quali non ci ha cosa che più grande e general potere abbia sull'uomo , che meglio e con più forza il discosti e distolga dai celesti e santipensieri. Ecco perchè il Cristianesimo , qual si mostrò nel decimo ed u n decimo secolo , promosse il celibato , popolò di anacoreti i deserti della Tebaide e , riferendo ogni nostra mise ria al malaugurato potere ed alle lusinghe della donna ( di che tristi e multiplici esempi glie ne fornivano le s a cre carte-) vide in costeimen la compagna che la se duttrice é quasi la principal nemica di lui, ed , anzi che confortarci ad amarla , non ha fatto , nè fa tuttavia , che distorci dal porvi affetto grande e terreno , come dal più tenace e periglioso laccio del nostro animo. 4.° Nel Romano impero di Levante , ove più liberamente ed ef ficacemente la Religione Cristiana operò , quel che era suo effetto averlo avuto , migliorar cioè la condizion delle donne , come si può veder nelle leggi pubblicate da Giu stiniano ; m a nessuna ombra trovarsi nelle opere di quel tempo della muliebrità occidentale , niente d' amore che almen puro fosse e gentile.La quale ultima cosa non es sendo giunto a produrvi dopo ben dieci secoli di non contrastato impero ,tanto meno si potrebbe tener come cagione della muliebrità della letteratura d'Occidente quando anche si volesse concedere che qui campo m a g giore egli si avesse.ottenuto. Il che tanto più sembrerà vero in quanto si osserverà quel grande ed universale amore , che nei cristiani poeti de'mezzi tempi vediamo, trovarsi a un di presso in quei paesi ed in mezzo a quei popoli che usaron di avere più mogli e chiuse le ten nero e schiave ; e più nel mezzodi della Francia che in Italia, ove il Cristianesimo dominò maggiormente ; ed es serne rimase le tracce più nella classe cavalleresca e g e n tile che nella media e popolana , sulla quale sempre di L'influenza degli Arabi sulla muliebrità dell'occiden tal letteratura vien rigettata dall'Ajello sull'appoggio delle seguenti ragioni 1.o Perchè non ci si poteva da essi r e care ciò che non avevano , essendo la loro letteratura , come tutta quella delle genti orientali', obbiettiva e sensia  gior potere il Cristianesimo fa prova. mag :   74 CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA ' bile, e priva interamente ed ignara di quel profondo ed in definibil desio , di quel levarsi dell'animo oltre ai confini del finito e del presente in una sfera più pura e beata che pur cosi spesso accade trovar nella nostra. La qual dif ferenza dell'araba dalla nostra letteratura trova una giu stificazione a priori nel clima , stantechè , secondo l'Ajello , un clima nordico o temperato farà le donne più caste e restie , quindi più stimate e libere , e l'amore più disip teressato e gentile che sensuale ed ardente , ed esprimente anzi il grido e il lamento d'un principal bisogno del cuore che un corporale appetito ; dovechè sotto meridionale e caldissimo cielo , gli uomini poligami ed , invece di dolci e sole compagne , chiuse le donne e soggette, l'amore non rivestirà la stessa fisonomia . 2.° Essere il fatto di cui è parola della natura di quelli che non si possono comunicare da un popolo all'altro , nè procedere da altro che da intrin seca e spontanea cagione. E ciò per non essere l'amore cantato nel medio evo artifizioso o bugiardo , m a sì bene profondamente sentito e spontaneo , e gli usi galanti e c a vallereschi ingenerati e tenuti da universali bisogni e da affetti veraci e potenti tanto che vediamo il culto per le donne penetrato sino nelle leggi barbare , le quali provveg gono sempre a certi e già provati bisogni e non a quelli eziandio che si possono temere . Oltrechè le usanze d'un p o polo possono derivare da'suoibisogni ed affetti, non questi da quelle, massime in popoli giovani e rozzi e però di altera e disdegnosa natura , ne'quali le usanze non sono mai recate e tenute da capriccioso impero di moda o da servile imitazion degli stranieri, come in più colti e vanitosi tempi interviene, ma siderivanodaalcunbisognooopinionicheessiabbiano. 3.° Perchè la storia mostra esser la gaia scienza passata in Ispagna,sededegliArabi-mori,dallaProvenza,checo storo (dappoichè non se ne trova traccia in Oriente, ne le sociali condizioni il concedevano ) ricevettero dai C r i stiani le costumanze cavalleresche , e queste , invece di a p parir prima in Ispagna,poi nella Francia, in Alemagna e finalmente nella remota e divisa Inghilterra , vedonsi apparir prima in Provenza e in Alemagna e in Inghilterra ed assai più tardi nella Spagna che,per la vicinanza dei Mori, avrebbe dovuto prima averle. Perchè infine, se i    DELLA VOLGAR LETTERATURA. 75 costumidei Mori non furono indarno pei lor vicini, 'non è da credere che grandi eprofondi ne fossero stati gli ef fetti a cagione delle sterminatrici guerre religiose, e della differenza di culto e di lingua. Al che si aggiunga esser tale la diversità del genio orientale da quel d'Occidente che quel che di arabo si trovi nelle spagnuole scritture e dicristiano nelle arabe si possa agevolmente scorgere. Escluse in questo modo le due prime opinioniche al Cristianesimo ed agli Arabi riferiscono la muliebrità della occidental letteratura , viene l'autore a fermar la sua opi nione , la quale si compone in parte dalla unione delle ultime due", di quella , cioè che ai Germani attribuisce il nuovo culto che ebber le donne , citando Tacito e gli altri romani storici che di loro scrissero ; e dell'altra che , negandolo , il fa singolarmente nascere dalla vita feudale ; opinioni che , cosi sole e divise come sono, paiono al l'autore assai ristrettive ed anguste , e per giunta inelte a spiegar tutto il fatto. Il che , volendosi fare, soggiunge con assai d'accorgimento , è mestieri cercarne la cagione pro prio in grembo e nell'indole dell'età che lo accolse e m o strò ; e però bisogna con ogni studio possibile e partita mente'esaminar quello che costituisce il medio evo , in somma quei generalissimi fatti che mutaron la faccia di Europa,e rovesciando ilRomano Imperio,nascerfecero é detter forma e colore alle nuove società d'Occidente . >> Or principali elementi della nuova civiltà essere il roma no'; il cristiano e il germanico , nè trovandosi il nuovo amor del medioevo nel primo elemento , nè derivar po tendo dal secondo , resta che in ispecie almeno e sopra tutto dall'ultimo derivi. La venuta infatti d'un giovine é poetico fatto non potersi altramente spiegare che per mezzo di coloro che ristorarono la nostra vecchiezza con la robustezza e gioventù loro , e ci affrettarono per la via di progresso e di moral perfezione. E poichè i Germani stanziatisi nelle terre romane eran venuti sotto il doppio ed efficace potere della civiltà antica e della religioncrie stiana , doversi perciò esaminar questo fatto e questo scon tro , considerando i Germani 1.o come genti uscite di tra  1   montana : 2.o come uomini barbari , pur non selvaggi : 3.° come bellicosissimi : 4.° come stanziatisi isolati e di visi per le campagne , indi costituitisi in feudale ordina mento : 5.0 come popoli giovani e vigorosi accostati al potere di una civiltà antica e grande e d’una religione mansueta e gentile. Questo quintuplice modo di copșide rare i Germani , bello senza dubbio e fecondo d'impor tanti applicazioni , produce la suddivisione di questa se conda parte del libro dell'Ajello in cinque capitoletti che riassunti contengono: 1.° Ilfreddo e duro clima , sepa rando e concentrando le famiglie , e impedendo la poli gamia , dar naturalmente preminenza e crescer stima alle donne ; e facendole più schive e pudiche , e di maggior verginal compostezza e matronal decoro dotate , render p e r ciò l'amore assai più puro e devoto , anzi quasi estatico e contemplativo. Con che l'autore non intende dire essere di questa natura stato l'amore delle rozze e selvatiche genti venute sul territorio romano , ma solo che in esse, come abitanti di settentrionali contrade,esser ne dovea la natural disposizione e quasi il germe, il quale , ingenti litisi gli animi , n o n potea rimanersi luogamente ascoso, ed infecondo. 2.° Essere i Germani venuti in Occidente genti barbare si m a non già selvagge e , per lo contatto col Cristianesimo e la romana civiltà, nel secolo undeci mo pervenute a quel giovine stato di coltura che è il primo uscir della barbarie e che eroico o poetico si chia merebbe , in cui l'amore ha più generale e grande effi cacia , a differenza dei tempi selvaggi ove la sola parte brutale e sensibile predomina , e degl'inciviliti ne'quali la civiltà , aguzzando la facoltà riflessiva e scolorando l'im maginazione , toglie ogni prestigio e possanza all'amore. 3.o Essere genti bellicosissime , presso le quali sogliono tenersi in molto pregio le donne ; la qual cosa pruova l'autore con l'esaminare in che mai psicologicamente con sista l'amore, e mostrando ch'è ilcompimento dell'umana natura ; che perciò congiunge proprietà opposte , m a leo gandole armonicamente ; che tutte le qualità virili pos sonsi ridurrre alla fortezza , le femminili alla debolezza ; e che in conseguenza chi daddovero è uomo ed ha in se uso e coscienza di moral fortezza , più inclinar deve ad  76 CONSIDERAZIONI SULLA MOLIEBRITA'   DELLA VOLGAR LETTERATUR A. 77 amare , e a stringersi allato il timido e debil sesso ; tap topiù che i forti son più magnanimi e di più aperto e gen tilcuore,eperòpiùproclivi all'amore.Che,natalaca valleria , questa alla sua volta avere assai conferito a cre scere stima edonore alle donne, le quali la storia stessa, in conferma di queste teoriche ,mostra stimate più in Isparta che nelle altre parti di Grecia , ed in Italia più tra gl'indo mabili Sanniti ed i bellicosi Romani che altrove. 4.° A g giugnersi a ciò la feudalità la quale , per lasciar spesso alle donne e fino in seno alla domestica vita un alto e quasi so vrano posto, dovette grandemente aiutare il loro svolgimento morale , e perciò di molto conferire a farle generalmente v e nire in considerazione ed opore , non già come causa unica , non essendo nè cosi generale nè efficace di tanto che possa pressochè sola bastare a rendere ragione del fatto. Nel quinto capitolo finalmente , annodando tutte le sparse fila del suo lavoro , ecco,coine l'autore formola la sua opinione , la quale , per essere stata assai ben rias sunta da lui stesso nell'indicata risposta al Gatti, mi per metterò qui trascriverla. » lo stimo , egli dice , che nel giovanile elemento della società di quel t e m p o , così per la natural disposizione che ne recarono i vincitori per effetto dello stato eroico a cui dopo la conquista per vennero, dell'indole forte e guerresca che maggiormente si svolse tra noi , e della vita feudale nata dalla conquista, fosse il fomite , il germe, e un'inchinevolezza grande ad amare e a stimar molto le femmine. D'altra parte , nel Cristianesimo e nella civiltà romana era 1.o un pensiero é un principio opposto ; 2.° molta gentilezza e moral col tura. Il pensiero e il principio opposto non avea potere di contraddire a quella gagliarda e natural disposizione di giovane società : conciossiache , quanto all'elemento r o m a no , per esser vecchio e stanco , eoltracciò in alcun modo corretto e purificato dalla religion cristiana , se non era in esso l'amor puro e devoto,neppure era l'amor bru tale e la disistima delle età antiche e pagane ; e quanto al Cristianesimo , sanno i miei leggitori quanto poco in quella sorta di tempi valgan gl'insegnamenti , e le caute e fredde ragioni in mezzo al grido e alla forza di caldi e giovani affetti , sempre più avvalorati da tante cagio che    78 CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA ' ni,e poidallapresaepiaciutausanza.Rimaneanell'ele mento romano e nel cristiano la gentilezza e la moral col tura ; e perocchè queste non contraddicevapo, alla detta natural propensione , anzi , ingentilendo gli animi e i m o di , aiutavanla e snodavano , furono subito accolte da quelle genti rozze ; chè è nota la spontanea proclività nostra al vero ed al bello, massime quando paion nuovi ed ignoti. In s o m m a , a dirla breve , ciò che nel Cristianesimo e nella civiltà romana era contrario all'amore eccessivo e devo to , fu da giovine e gagliarda forza vinto e depresso ;e ciò che non lo impediva e vietava , m a aiutava e svol geva , fu spontaneamente accolto é voluto. Questa parte io fo all'elemento romano e al cristiano; nė mi spiace rebbe di farla anche agli Arabi in alcuna mapiera , pur chè in sostanza mi sia conceduto ch'eglino , ingentilendo inostri,aiutarono ilfatto,nongiàcomunicandoneilger me , o dandolo già bello e formato ,che è la sola cosa da me contraddetta.» E più sopra lo stesso Ajello dice « Feci vedere che il fatto che io m'ingegdava di spiegare ,mostrava chiaro uno scontro di nuovo e di antico ,di gioventù e dim a turità e quasi una doppia e biforme natura : e che però dovea esser nato da opposti e contrari elementi , o dallo scontro e fusione che io dissi del mondo romano e cri stiano col barbáro'o germanico . Difatto , quanto alla parte giovanile , primitiva e poetica , in Achille è quello a p punto che è nel Tancredi del Tasso ; v'è tutto il verde è la rude e virginal gagliardia di un giovine mondo. Se da Tancredi è diverso , mancagli il :sentir delicato e gentile , e quella fina cortesia , e quella sociale e m o ral raffinatezza'; mancagli insomma l'elemento romano e'l cristiano che soli di tutto questo potevano esser ca g i o n e . E d i o n e l l i b r o il c o n f e r m a i c o l l a s t o r i a , m o s t r a n d o : 1.o che se ci ha luogo in Occidente , dove con quasi pari forza si scontrarono l'elemento romano e il germanico , questo luogo è il mezzodi della Francia , vero anello e temperamento fra la preminenza romana d'Italia e il si gooreggiante spirito franco del settentrione ; e che quivi udironsi i primi canti d'amore , quivi la cavalleria prima apparve : 2.o che a tutti gli altri grandi ed universali    DELLA VOLGAR LETTERATURA. 79 i Germani , o certo tanto inferiore a quello delle nostre genti che ne soffrirono l'invasione  fatti di quella età è comune il doppio e biforme aspetto del nostro , e quanto alle lettere tolsi ad esempio le cro nache e il poema di Dante , provando in tal modo che questa è la propria rappresentativa sembianza del medio evo , e che però è necessario che ogni grave e universale fatto dei mezzi tempi abbia la stessa impronta e natura . Ecco , se non andiamo errati , la esposizione fedele delle cose dall' Ajello discorse con uno stile , del quale non potrò certamente essere io quello che porterà giudi zio ; m a che alla universalità dei leggitori ha lasciato d e siderare concisione maggiore, e minori proposte e promesse, massime in un libro , comunque di molta sostanza , picciola fare che si vcol dal dei nostri , nacque e vive sotto lo stesso Sole naturalmente all' astratto , costretti , in non dovrà tenermi , che o pullo esso mole pur sempre. Volendo poi dir qualche cosa della questione brevi osservazioni sul merito alcune l'Ajello esercitato sulla nostra letteratura da quei lurchi barbari, i quali mi pesano sull'anima peggio , nè mi par vero ai verso la terra ladizione da loro tanto beneficio. E primamente che , per amor belli ridenti Tedeschi natale , si piacciono gli antichi costumi di che i poeti fan sempre descrivercene l'aurea semplicità di tutta itempi antenati sia venuta pretensione la riforma rimotissimi, condonando che dai loro rozzi e feroci ad essi la strana costumi; non posso comportarmi nellostessomodo con chi , la Dio mercè di Virgilio e diDante.Inclinati , mi permetterò contro il potere anzitratto d'una m a che siavi chi possa riconoscere , perdonando non mai riprovevole i primi che irradiò la cuna difetto di campo , a vagare tra le nuvole , non è maraviglia migliore si sforzino dipingerci vaghi colori.Chiunque esser preoccupato che di quella egualmente riguarda il presente lavoro alla donna , non temerò di affermare , il rispetto , cioè zialmente mostravasi presso i Germani , il loro tempo non si trova nella stessa posizione che antico adorno di tanti . E,per non parte sola de'costumi trat che più spe di   da non potersi affatto indicare quale aiuto o incitamento avesse potuto riceverne. Già ormai tutti convengono a non prestar moltissima fede all'opuscoletto sui costumi dei Germani, che Tacito si piacque comporre mosso da profonda indegnazione per i pervertiti costumi de'suoi concittadini. Le memorie dell'antica Roma sono sempre presenti al pensiero di questo venerando scrittore , che , trasportandole là dove crede trovare ancora energia,comunque selvaggia, di vita e mancanza di mollezza e di servitù , sperava puter far vergognare i suoi compatriotti della perdita di quelle virtù cheu n tempo formarono la loro gloria e potenza , ed eran passate ad abbellire la vita di u n popolo ta nto ad essi per intellettual coltura inferiore. O che iom'iną ganno , o certo quanto di buono attribuisce Tacito, ai Germani s'appartiene ai primi tempi della romana virtù. Dimostrarlo importerebbe oltrepassare ilimitidel presente articolo , nè per fermo varrebbe molto alla soluzione della questionecheho peroratralemani.Pure,ammessoche i Germani pensassero essere nelle donne qualche divinità re e provvedenza e che tenessero conto de loro consigli e sponsi , non saprei facilmente comprendere come possa ciò aver contribuito, per quanto sivoglia menoma parte, a quello spiritualismo d'amore che nel medio evo ebbe vita. Quella stessa opinione che Tacito attribuisce aiGer mani la storia ha segnalato ne'selvaggi dell'America e n e gli antichi Galli e nei Romani stessi, presso i quali le Sibille e le maghe e le facitrici di sortilegi, femine tulle e credute inspirate , dimostrano la generalità della stessa credenza figlia, come par sia chiaro,del Paganesimo.Ne questa credenza stette meno in compagnia d'uno amor tutto materiale , anzi presso di alcuni popoli colla disistima delle donne , come massimamente presso i Germani ,.i quali , staudo allo stesso testimonio di Tacito , in nes suna considerazione civile le aveano . M a di questo così lontano ed Oscuro tempo sarebbe inutile cosa occupar ci, potendo gli stessi Germani essere considerati più da vicino , quando , cioè , si son fatli vedere in mezzo di noi , fuori delle loro selve natie : tanto più che lo stesso Ajello conviene esser quell'asserzione priva d'ogni psico logico e scientifico fondamento, nè bastare fermarsi a'  80 CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA' 1   soli Germani , ma esser necessario venirli seguitando noi conquistati paesi , e vedere e notare come vi simutino e sfigurino per il poter della romana civiltà ed anche della religione che vi trovano già stabilita e potente. Nella qual trattazione progredendo ,l’Ajello ba poi,come bo disopra fatto vedere , lasciato una parte molto importante ai G e r mani sul mutato aspetto d'amore, poggiandosi a ragioni le quali non mi sembrano tali da non poter meritare ós servazione alcuna in contrario.Esse infatti si presentano a prima vista sfornite di qualsiasi appoggio storico , e ri vestono un carattere a priori , di che l'autore stesso pare si compiaccia e faccia pompa a disegno. Il suolo romano , egli dice , era occupato da genti venute di tramontana , barbare non selvagge , bellicosissime e giovini accostate al potere d'una civiltà antica e gran de , e d'una religione mansueta e gentile , stanziatesi iso late e divise per le campagne e poi costituitesi in feudale ordinamento. Or se in mezzo ad esse poste in tali con dizioni muta sembianza l'amore e di passionato e caldo si fa più puro e quasi contemplativo , fa d'uopo ad esse genti in quel m o d o considerate recarne la cagione . C o n ciossiacchè gli uomini del settentrione, ove ledonne sono naturalmente più che altrove libere e stimate , amano d'uno amore più modesto e divoto , benchè non irrequieto e tor bido ,,e giunti sul territorio nostro si trovarono non solo in uno stato di eroismo in cui l'amore ha più generale e grande efficacia , m a forti abbastanza di tutta quella fortezza che è madre di generosità e magnanimità, produttrici esse sole di vero e nobile amore. Queste ragioni, comunque con tanto ingegno e forza di ragionamento dall'autore discorse , non m i sembrano gran fatto ammessibili. Ed in vero parmi che dopo aver con inolta giustezza l'autore osservato non doversi pene trare nelle selve dei Germani per ispiegare i costumi che essi mostrarono in tempi a noi più vicini , siasi poi di questa verità dimenticato nel corso del suo ragionamen to. Or se la nuova letteratura cominciò dopo più secoli da che i barbari si erano stanziati sul nostro territorio dopo che l'invasione era da lunga pezza compiuta , ed il medio evo si andava già luminosamente svolgeodo , non so  DELLA VOLGAR LETTERATURA. 81 6   che abbiano a fare con noi gli usi, anche dati per veri, della Scandinavia o della Pannonia , le abitudini di po poli nomadi e feroci con quelle di società costituite e ci vili. Già molto tempo prima che venissero a stabilirsi tra di noi , i barbari aveano subito tutto il potere della nostra civiltà , e quando poi lo stabilimento fu fermato e cessò l'opera delle arsioni e delle rapine , essa li dominò c o m piutamente e di quel che era proprio dell'antica vita nulla potevano più ritenere , nè ritennero. Che si dirà dopo più secoli passati in tale nuovo e tutto opposto ordinamento e condizione di vivere , il quale delle loro selve restar non dovea nemmeno la reminiscenza ? So che l'Ajello vorrebbe solo gli si concedesse essere ne'Barbari la natural dispo sizione e quasi il germe il quale , collo ingentilirsi degli animi , produsse poi il suo frutto. Ma per i primi venuti quella disposizione , anche concedendosi , dovea restare bene annullata e sparire nel caldo dei combattimenti e delle stragi e d'una conquista assai fresca. I loro figli doveano nascere ,e naquero infatti , romani , nè quindi poteva passare in loro una disposizione tutta propria dello stato selvaggio di cui non aveano cognizione , massimamente che quel rispetto della donna non era in essi la conse guenza del sagro principio dell'uguaglianza dei dritti trai due sessi , e che , non avendo una tradizione a custodi re , poco dovea restare o nulla si conservò tra di loro delle antiche memorie.  82 CONSIDERAZIONI SCLLA MULIEBRITA' Nella quale opinione sempre più mi vado confermando quando contemplo più da vicino icostumi di colesta gente . Chi non conosce la poca pudicizia di Basina madre di Clodoveo , di Fredegonda moglie di Chilperico, e di B r u nebaut regina di Austrasia ? « Basterebbero , dice il chia rissimo e dotto Cesare Balbo , i fatti di Rosmunda e di Romilda amostrare lanativaferociade'Longobardi,come quelli di Gundeberga e di Teodora ad accennare tal b a r barie alquanto ingentilita e dalla principiante cavalleria e forse anche dal loro conversare cogľ Italiani » (1). non sa che nel più antico poema dell'Allemagna , quello dei Niebelungen,» l'amore vi prenda poca parte nelle azio (1) Vita di Dante. (1). Chị   DELLA VOLGAR LETTERATURA. 83  ni , i guerrieri s'interessino a passioni diverse dalla g a lanteria , le femine poco compariscono , non sono l'og getto di culto veruno e gli uomini dalla unione con loro non sono nè inciviliti, nè resi più mansueti » , che gli antichi Germani vi compariscono furbisfrontatamente , mancatori di fede e bugiardi ? Chi sa in s o m m a quanto erano pessimi i costumi di queste genti ,o che si consi derino sul loro suolo , o nel primo contatto con noi , potrà dire se mai poteva essere in loro disposizione alcuna al culto della donna , ed ad uno spirituale e puro amore . Al qual proposito mi si permetta appoggiarmi all'autorità, di uno storico riputato di nazione Tedesca , e pero poco sospetto , il quale , cominciando dal riconoscere che la sola trasmigrazione operi un rivolgimento in tutta la maniera di essere , rompe quasi tutti i legami della vita domestica, nè a riparare questi mali offre il m e n o m o rimedio , onde l'anarchia ed il mal costume si dilatino per ogni dove e da per tutto recano il disordine e la devastazione ; finisce col mostrare lo sfrenato e terribile disordine in che , quan do posero stanza in Italia , si trovarono i Longobardi , miscuglio di generazioni racimolate da tutte le parti del mondo, popolo di rotti costumi e stato però di pernicioso impero sui suoi disgraziati vicini (1). E questo che il Leo dice dei Longobardi dicasi pure dei Franchi , la discesa de'quali in Italia fu per questo bel paese, come sempre, la più terribile sventura che la provvidenza nell'abisso del suo consiglio gli abbia giammai preparato. Dopo le quali osservazionituttenon sipotrànonconchiuderechesemai in quelle genti originariamente germane si mostrò qual che cosa che sentisse di rispetto alla donna o di spiritua- lismo d'amore , fu perchè la nostra civiltà le investi c o m piutamente , perchè sispogliarono del primo uomo , e non più Germani,ma RomanioItalianituttidiventarono.Chè lo spiritualismo non si alimenta nell'amore se non collo sviluppo dell'intelligenza , e spirituali,e mistici veramente non furono nel medio evo che Petrarca e Dante , i più grandi uomini di quei tempi e de'posteriori. Si vegga dunque se in quei petti di bronzo dei barbari poteva mai (1) Leo , Storia d'Italia.   conservarsi nascosa e risplender poi una fiamma che sola a cor gentile si apprende , e da rozzi e disleali uomini maravigliosamente rifugge. Posso però dispensarmi dal con futare quella generosità e magnanimità che loro l'Ajello attribuisce , poichè se mai possono dirsi quei barbari forti di quella specie di fortezza che è di generosi sentimenti produttrice, lascioal lettore pensarlo. E qui parmi il luogo di far notare il poco conto te nuto dall' Ajello degli effetti prodotti sui barbari dalle loro trasmigrazioni , errore essenziale , perchè la società ger mana , come è stato ben detto , fu modificata , spatura ta , disciolta dall'invasione , ed il suo organizzamento so ciale peri come quello dei popoli invasi , gli uni e gli altri non mettendone in comune che gli avanzi. Oltrechè ( colla profondità sua solita osserva ilTroya ) « la grande trasmigrazione di genti dovè necessariamente nel corso di più secoli trasmutare la faccia ed i parlari della Germania di Tacito. Negli ultimi anni di Attila gli ottimati degli Unni eran divenuti Romani pel lusso , e l'intera nazione in Europa godeva di stabili sedi che le facevano aver men caro il suo antico viver da pomadi . . . . Le antiche razze celtiche della Pannonia si eran confuse da lunga stagione coi Romani , e quella provincia feconda sempre d'impe ralori avea fin dai tempi di Diocleziano pressochè rimu tata la popolazione con le moltitudini sempre crescenti de'nuovi barbari sopravvenutivi. La lingua tuttavia e le discipline romane prevalsero per molte età nella Pannonia , e quando i Longobardi vi entrarono , già molti discen depti di quei nuovi barbari eran divenuti romani. Pur non credo che gli Unni ed alcuni altripopoli , de'quali ho toccato fin qui, avessero perduto l'interaloro natura dopo Attila, sebbene abitassero nell'imperio. Ma il tempo ed il vivere sul suolo romano cancellarono finalmente anche in tali barbari l'impronta della loro indole natia » (1). (1) Storia d'Italia. Uno dei più profondi e coscienziosi layori usciti alla luce in questo secolo.  84 CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA' Dopo le quali osservazioni non riusciranno molto ef ficaci tutte le ragioni desunte dal clima c h e l'Ajello p r o duce in sostegno della sua opinione. Volere infatti assu   DELLA VOLGAR LETTERATURA. 85 mere che nei paesi meridionali sieno più bramose e sfac ciate le donne , e sotto freddo cielo più schive e pudiche, non mi sembra possa essere appoggiato dai fatti. Chè l'ot timo autore non potrebbe certo asserire più delle fioren tine e milanesi donne essere schive e,pudiche le tede sche , più delle napolitane o greche giovinette le donne di Francia , o d'Inghilterra ; la pudicizia non dipendendo totalmente dal clima , m a nella massima parte dall'edu cazione , dal principio morale e buon senso più o meno sviluppato di ciascheduna nazione. Naturalmente le genti di un clima meridionale sono dotate di una sensibilità m a g giore di quelle che vivono a settentrione , m a la posizione de'due sessi è relativamente uguale nelle due contrade. Se le donne del nord sono poco sensibili, per far sentire i maschi bisogna scorticarli ; quindi la diversità del clima importerà a spiegare la maggiore o minore ardenza del l'amore ; ma in quanto a quel misticismo o , mi si la sci pur dire , platonismo dell'amore , pon saprei ben v e dere in che ilclima vi possa contribuire , essendo una cosa tanto poco del corpo che tutta nella regione dello spirito risiede. È in questo senso che io trovo giustissima l'interrogazione del Gatti.- Come può un fatto che ha per condizione naturale le nebbie ed i ghiacci del nord trasportarsi e fruttificare ugualmente sotto il sole del m e z zogiorno ? Alla quale interrogazione non è certo adequata risposta dire che il fatto non era indigeno dei Germani, m a che questi ne portarono con loro il germe , il quale sbucciò poi per opera dello scontro e della fusione dei vin citori coi vinti. Questo germe portato da un clima lon tano e freddo in uno meridionale, e che aspetta quisilen ziosamente per più secoli per poi finalmente , cessati gli urti dei barbaricon uomini civili e compiuta la fusione, uscir fuori come la ranocchia dopo la tempesta , io m'inganno , o è troppo malagevole cosa a comprendersi.  Nè posso ancora convenire coll’Ajello che il freddo e duro clima faccia di sua natura libere e più stimate le donne , quindi più divoto e rimesso l'amore , parendomi la storiacontraddir del pari a tale asserzione tanto che non mi sarebbe difficile mostrare la miglior condizione delle donde essere stata in ogni tempo in ragione inversa della   (1)Non inviderunt,èlabellaespressionediLivio,laudessuasmu lieribus viri romani , adeo sine obtrectatione gloriae alienue vivebatur ; monumento quoque quod esset, tcmptum Fortunue muliebri aedificatum dedicatumque est.  86 CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA' freddezza del clima . E per non dilungarmi di troppo , io non so se mi si possa negare l'importanza da esse olte nuta presso il popolo Ebreo , e la continua bella mostra che vi fanno , e se possano mai obbliarsi ibei caratteri di Debora e di Giuditta , della profetessa Olda , di Rut , di Sara , di Rachele , della moglie di Tobia é d'innumere voli altre , e la venerazione di che gli Ebrei le circonda vano , ed il purissimo amore di che furono l'obbietto , e tutta finalmente la legislazione Ebrea che in tanta con siderazione , a preferenza delle altre genti,le avea. Chiaro argomento che n o n le nebbie ed i ghiacci , non la fero cia brutale delle orde vaganti producono stima alle donne e danno purità all'amore , cose poste naturalmente nella ragion diretta dello sviluppo del pensiero e dell'incivili mento , e della migliore organizzazione individuale d'un po polo. Ecco perchè la donna fu sempre in Italia più che altrove , avuta in pregio e stimata. Senza parlare della scuola antica italiana o pitagorica , che dir si voglia , e degli antichissimi costumi Etruschi, presso i quali le donne aveano molta importanza , Enea fonda una cillà e dal nome disuamoglie lachiama Lavinia.SonledonneSabineche s'interpongono frai combattimenti del Capitolino e riducono gl'inferociti guerrieri a concordia , ed il nome di esse è imposto alle curie di R o m a . Fra il duello degli Orazii e de'Curiazii comparisce lagrimosa la sorella de'primi, e b a sta la morte di lei a sospendere il gaudio pubblico della città. In tutti gl'intrighisuccessivi del regno (come sem pre in Italia )le donne figurano. La libertà di Roma è consolidata col sangue di Lucrezia , come più tardicon quello di Virginia , e l'ardire e magnanimità di Clelia viene eternato con una statua equestre. Veturia respinge le armi parricide di Coriolano, è cosi tanti e tanti altri racconti che conservatici dal canto delle tradizioni mostra no potentemente la verità di ciò che assumemmo di sopra. Fu a Roma innalzato un tempio alla Fortuna muliebre (1), e fu dato il primo esempio di onori pubblici alle donne, 1   DELLA VOLGAR LETTERATURA. 87 le quali vi sentivano in tanto alto grado la propria dignità e tanto vi aveano d'importanza che spesso si dovettero le pubbliche assemblee occupar di loro che vi si presentavano con petizioni e di tumulti l'empirono . In R o m a aveano le donne il passo per le vie , non si poteva fare o dir cosa disonesta in loro presenza , i giudici capitali non potevano citarle e coloro che le citavano in giudizio non potevano toccarle , ut , dice bellamente Valerio Massimo , inviolata manus alienae tactu stola relinqueretur. Chi non conosce le sorprendenti prerogative delle Vestali ? Camminavano pre cedute da u n littore ; incontrandosi con loro i consoli ed i pretori abbassavano , in segno di riverenza , i fasci; a n davano in cocchio anche quando gli altri per legge nol potevano ; avevano distinto sedile negli spettacoli ; la loro dichiarazione in giudizio avea forza di giuramento , ed u n reo di morte , che avea la fortuna d'incontrarsi con lo ro , rimaneva assoluto. Tanto la verginità era in onore ! Ecco perchè quelle che eransi rimase contente d'un sol matrimonio , corona pudicitiae honorabantur , e Spurio C a r vilio, comunque per tolerabile cagione , dice Valerio M a s simo , avesseripudiato sua moglie , non fu meno segnato di reprensione come colui che avea la fede coniugale al desiderio di figli posposta. Il matrimonio era la comunione di tutt'i dritti divini ed umani , ed era veramente bella l'istituzione della D e a Viriplaca , nel cui tempio i coniugi in discordia concorrevano. Dea , dice lo stesso autore , coși chiamata perchè placava i mariti , degna veramente di essere onorata e riverita anzi adorala quanto altro I d  dio , utpote quotidianae ac domesticae pacis custos , in pari iugo charitatis ipsa sui appellatione virorum maiestati debi tum ac feminis reddens honorem . Tralascio di ricordare co m e usciti dell'infanzia i fanciulli eran dati in educazione ad una donna rispettabile del parentado , e come sino alla età di quattordici anni aveano essi comuni colle fanciulle gli studi della puerizia , e la esțesa coltura delle donne romane , massime negli ultimi tempi , come di cosa ormai troppo vulgare. Si che possiam dire col Michelet che par v tendo pressogl'Indianidall'amormistico,l'idealedella o donna riveste presso i Germani i tratti d'una verginità » selvaggia e d ' u n a forza gigantesca , presso i Greci quelli   » della grazia e della scaltrezza , per giungere presso i R o v mani alla più alta moralità pagana , alla dignità virgi ne nale e coniugale (1). Ma , per venire a tempi più vicini » in mezzo allo universal degradamento , dice uno storico, ilcui nome sarà pronunziato sempre con riverenza, le dame romane non aveado perduto l'avvenenza e l'in gegno delle antiche matrone ,e d erano perciò assai p o tenti. Anzi non ebber mai le donne tanto credito presso alcun governo , quanto n'ebbero le romane nel decimo secolo . Sarebbesi detto che la bellezza aveasi usurpato i drittidell'impero »E qualèilpaese,esclamailLeo,ol tre l'Italia , dove la bellezza delle donne non dirò che accese, ma solafecerisolvereipopoliallaguerra?dovele donne hanno più lungo tempo dominato, non pur ne'negozi temporali , m a in quelli che appartengono alla coscienza ? » Nè questa tradizione è stata,o potràessermai interrotta, chè vive e spira ancora nelle donne d'Italia tutto ilsor riso di questo cielo d'incanto , tutta la maestosa dignità di chi sentesi nato a grandi cose , ed esse inspireranno per sempre l'ingegno dei poeti e degli artisti,e saran nostra guida e consiglio nel periglioso progresso della vita. Esclusa cosi qualunque specie di potere dei Germani sulla mutata sembianza di amore , penso doversi dire al (1) Histoire Romaine. Cito con tanto più di piacere questo scrittore in quanto che egli è uno de'pochissimi serittori di Francia i quali dotati di molto ingeguo e buon gusto si giovano delle cose degl'Italiaui rendendo loro giustizia.  88 CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA ' Si vegga dopo di ciò se ilfreddoe duro clima renda più stimate e libere le donne , e quindi rimesso e più di voto l'amore. Al mio modo di vedere, se l'amore può essere ardente e bramoso senza che perciò abbia nulla di spirituale e di contemplativo , quest'ultima qualità non può star però senza la prima.Petrarca e Dante non avreb bero sublimato a tanta spirituale altezza i loro amori se 'amato non avessero ardentissimamente. È la storia di tutti gli amori nel medio evo. Come dunque il fatto in parola o la muliebrità potea venirci dai freddi amori dei fred dissimi uomini del nord ?   DELLA VOLGAR LETTERATURA. 89 trettanto della feudalità , opinione sostenuta da uno scril tore di Francia troppo sventuratamente conosciuto , e dal l’Ajello modificata con quel buon senso a lui proprio , e sull'appoggio di ragioni che a m e sembrano sufficienti per escluderla del tutto . » N o n solo ( son parole sensalissime dello stesso Ajello ) perchè a și grande effetto ella è trop po scarsa e lieve cagione , ma e perchè non è cosi ge nerale , nè efficace di tanto che possa pressocchè sola b a stare a render ragione del fatto » È di vero ( è lo stesso Ajello che ripete queste già conosciute ed indubitabili v e rità ) in Italia non è stata mai o pressocchè nulla , per chè le città conservarono l'antica preminenza sulle c a m pagne , e gli uomini vissero anzi raccolti nelle prime che divisi e sparsi per il paese , per non dir che proprio in quelle parti , dove pria vigorosa ed ardita levò il volo l'italiana poesia , furon tosto i signori o invogliati o co stretti a lasciar le castella e a venirne ad abitar le città. Anche in Ispagpa ( per la subita invasione , o per non essere stato m a i quel paese fuor che in picciola parte s o g getto a Carlomagno )o non furono feudi, o almeno in quel modo che in Alemagna in Francia e inInghilterra. Eppure non si potrebbe dire che le donne italiane o spa gpuole fosser molto meno stimate che le francesi , nè che la poesia in quelle due meridionali contrade mostrasse uno amor manco devoto e gentile » Ciò posto ,trovo chiaro che non si debba sul fatto in parola attribuir potere alcuno alla feudalità , conciossiacchè, per potersi un fatto chia mar legittimamente causa dell'altro, è mestieri che siasi mostrata trai due una connessione necessaria e continua, e , dove apparisca o manchi l'uno , l'altro apparisca o manchi delpari. E questi requisiti abbiam veduto non convenire alla feudalità , perchè non stata in quei luoghi ove la letteratura ebbe più notevolmente quel che l ' A jello chiama muliebrità . Si perdoni quindi a chi , con u n m o d o di giudicar tutto francese , crede spiegare ogni cosa con una causa sola , comunque non apparsa d a d dovero che sul territorio di Francia , e che , non v e dendo al di là della Senna , cerca con quella miseria di fatti che gli colpiscono lo sguardo metter fondo a tutto l'universo. Il buon senso d'un Italiano non poteva m o    strarsi impacciato ugualmente , massime in riguardo alla feudalità , la quale tra noi o non fu mai , o certo non vi si mantenne che come una eccezione , in guerra continua col nostro modo di pensare e di sentire, senza importan tanza , senza metter mai radice nei costumi. ciò che in ogni tempo ha segnalato il carattere degl'Italiani , o m a g giononall'uomoma aiprincipi,battersinonperun'in dividuo ma per una idea e che è stata la causa della loro grandezza intellettuale e debolezza politica. Pure nel viver disgregato e locale dei barbari con stituiti in feudale ordinamento crede l’Ajello essersi svolte e rafforzate le domestiche affezioni ed aiutato lo svolgi mento morale delle femmine , ed aver quindi molto contri buito a dar loro pregio e riverenza. Alla quale opinione io non posso soscrivermi ,perchè non mi pare che nella vita isolata dei castelli e di continua guerra possano raf forzarsi le dome stiche affezioni , e molto meno aquistarvi pregio le donne , ed avere impero sull'animo d' un signore assoluto e brutale e costretto a trattar continuamente le armi , nè d'altro bramoso o sciente. Chè in una vita tutta di sospetto e di disgregazione fisica e morale , la donna lontana dal consorzio delle genti , nè conosciuta che dal solo feroce obbligato compagno della sua vita, non è altro d'un fiore che non olezza, o a cui non giungano gli sguardi delle innammorate giovinette. Ora dicasi se ne'costumi feudali poteva rattrovarsi in uno stato tale da trarre i caldi sospiri degli amanti e i teneri passionati versi degli erranti trovatori. Certo la privazione eccita il desiderio e il fa più che mai bramoso ed irrequieto , m a egli è pur vero che n o n si desidera l'ignoto , e le donne racchiuse nei feudali castelli erano appunto uno ignoto che non può desiderarsi. Quindi , se ci ha luogo dove le donne potevano aquistar pregio , erano per fermo le città italiane o i c a stelli de'Signori nel modo come stavano in Italia,  90 CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA' ne' quali le donne erano si custodite, ma non sottratte agli sguardi degli amanti. A ciò si aggiunga l'estrema ruzione dei costumi feudali cor nella lettera tura di quel tempo le tracce più capaci di fare arrossire la gente ; la violenza e le rapine che essi concedevano largamente si più a lungo durarono in Germania , e pochis , che lasciarono   DELLA VOLGAR LETTERATURA . 91 simo , come è chiaro , in Italia. Nè si potrà fare a meno di conchiudere che la feudalità nè per se stessa , nè in concorrenza di altre cause poteva dar gentilezza all'amore , nė vi contribui in realtà , perchè l'amore fu veramente gentile e purissimo in Italia , dove la feudalità non ebbe vita , o almeno fu preminenza della vita cittadina che p o g giava sopra principi di opposta natura. Oltrechè non do vrebbe dimenticarsi che il principio della esclusione delle femmine dalla successione dei loro congiunti,almeno in con correnza coi maschi , fu un principio tutto feudale e ri messo in vigore tra di noi dai Germani , poichè già nella legislazione giustinianea era per opera , come par Ed a questo luogo mi si permetta osservare quanto poco al vero s'appongono coloro i quali sostengono averci i barbari trasfuso il sentimento della indipendenza perso nale , e la feudalità aver fatto valere in Europa ildritto della personale resistenza. Chè non so se quelsentimento si trasfonda mai negl' individui distruggendoli o rendendoli schiavi , e se ottimo mezzo possa essere la scimitarra dei barbari per coloro che sventuratamente ne sentivano il peso , ed erano in quel modo conci che tutti sanno , sostituendo alla maestà dell'imperio la forza brutale ed il governo ditantipicciolitirannotti.Nè sosequalsentimento e dritto possa svolgersi in tale sorta di tempi , ne' quali l'uomo era considerato come proprietà dell'altro uomo, e l'uno dominava sull'altro , non in forza d'idee comuni ad e n t r a m b i , m a p e r s e s t e s s o e d il s u o c o m p a g n o , il c a p r i c cio. Certo ove mi si dirà coll'Ajello che i barbari » ri storaron la nostra vecchiezza con la robustezza e gioventù loro , che ci fecer quasi nuovamente bollire e correre per le vene il sangue , che a colpi di aste e di spade ci scos sero e ci affrettarono per la via del progresso e di moral perfezione » , è questo un linguaggio che intendo , ma quando si dirà che gli stessi barbari ci trasfusero il sen timento della indipendenza individuale , non mi verrà fatto d'intenderlo ugualmente. Conciossiacchè l'indipendenza non si sostiene che in forza d'una idea,ed ibarbari non ci portarono alcuna idea puova. Al che mi pare avere splendidamente supplito il Cristianesimo ed in particolarità  . ro , del Cristianesimo , all'intutto scomparso . sia chia e   92 CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA', ECC. la Chiesa Romana (1).Fu questa che sola in quei tempi si oppose al soprastanteimperio della forza bruta con tutta l'energia della sua gioventù , cheproclamò altamente l'in dipendenza del pensiero e dell'opinione, e svegliò quindi negli animi quel nobile sentimento di dignità personale che i barbari avrebbero suffocato chi sa per quanto tempo e stette in quel mar burrascoso del medio evo come ter ribile e continua protesta contro le usurpazioni della for za. Fu ne'municipi d'Italia che il dritto di resistenza si svolse ed, attulito solo per poco tempo , primamente ri surse con più forza a vita novella. Cosi è a questa Niobe delle nazioni che l'umanità dovrà esser grata della sua civiltà presente , a questa veneranda vestale che non ha cessato mai di vegliare per mantener sempre vivo il fuo. co sagro dell'incivilimento. ( Sarà continuato ) ( 1 ) E c c o c o m e u n u o m o d i c u i il n o s t r o p a e s e si o n o r a , L u i g i B l a n c l ı , s'cspriineva nell'antecedente fascicolo di questo giornale a proposito dello stabilimento dei Normanni in Inghilterra » Or la conquista e lo stabili iento dei Normanni inInghilterra , non ostante che ilCristianesimo avea proclamalo il rispetto dell'uomo indipendentemente dalla sua condizione o dellesuecircostanze accidentali,ma perchè dotatod'intelligenza,di li bero arbitrio e di risponsabilità , non tenne conto di questo alto e salutare principio , e considerò l'uomo vinto come cosa e non come persona ,fatto peresserpossedutoe nongovernato».DicasilostessodeiFranchi,deiLon gobardi , in riguardo ai quali l'opera su cennata del dottissimo Troya ha p o r tato una luce immensa. Ogni buono italiano farà voti che lunga basli li vita a questo nostro concittadino onde possa menare a fine il suo cosi bene incominciato lavoro.

 

DELLE VICENDE DELLA STORIA DELLA DIVERSA FORMA CH'ELLA TOGLIE IN TUTTO IL SUO SVOLGIMENTO Gli uomini prima sentono senz'avvertire ; Primachè l'io cominci a distinguersi dal non -me e dall'assoluto,e a governare e correggerelasensibilità,e secondo sua volontà far uso della ragione, ci ha un tempo ch'egli pressochè ignoto a sè stesso se ne sta avviluppato e come un ascoso e tacito osservatore dei fatti sensitivi e razionali , che indistinti e confusi gli si vengon mostrando nella coscienza . Abbagliato e vinto dalla sensibilità e d o minatodallaragione,egliama,afferma,crede,enon sadiamare,dicredere,diaffermare:permodo chesi direbbe ch'ei sia tutto passivo, se in lui non fosse una spontanea attività, certo involontaria, ma ad ognimodo un'attività , una forza insomma che in sè stessa ha la ra g i o n e e 'l p r i n c i p i o d e l s u o m o v i m e n t o . M a a q u e s t o p r i m o periodo della vita intellettuale , secondo che noi dicevamo , un altro succede di veramente opposta e contraria natura. Perciocchè , svoltasi a poco a poco la volontà , in che pro priamente è posta la personalità nostra , cominciamo a scorgere che ci ha alcuna cosa che lecontraddice ,e però che non deriva o dipende da lei; che infinein mezzo a tanta successione e mutabilità di fenomeni ( che sono i v o lontari e i sensitivi ) ce ne ha di così fatti, che non m u tan viso come gli altri fanno , che in mezzo a quel m a   Ma perchè siavi riflessione ( e si ponga ben mente a questo, chè molto ce ne gioveremo) è mestieri che osservando d'una in altra cosa si passi , che prima un lato se ne consideri , indi un altro , e cosi sempre segui tando ; è mestieri , a dir breve , della successione degli atli,non sipotendo ben disaminare un obbietto,senza che gli altri si lascin da un canto ', e si dimentichino al menoperunmomento.Ilperchètralaspontaneitàela riflessione tra l'altro è questa differenza , che la prima ha un veder largo , istantaneo e complessivo , e la seconda un guardar lento, e uno scrutar succedevole e parziale. E peròse riflettendononabbiamtutteadunaadunacon siderato le parti dell'obbietto , se giunti non siamo a quel supremo gradodellascienza,chepossonsiallaperfinerag gruppare e riunire le parti slegate e divise , e ricostruirne quel tutto stato già scomposto e notomizzato , non cene viene che scienza incompiuta, e l'erroreeziandio,sete ner vorremo per l'intero quello che sia parte soltanto.E difatto pressochè sempre avviene che la riflessione tulta quanta in un obbietto affisandosi, cosi trascurane e di mentica gli altri , che anzi tempo si tiene in possesso di quella verità di cui non ha contemplato e conosciuto che un solo e povero lato. Per ilchenellariflessione(eildichiareremoinnanzi più largamente ), come in quella che per isvolgersituta ha bisogno della successione degli aui e però del tempo, possonsi determinare tre periodi o momenti che sivoglian dire. Nel primo il me e il non-me e i loro rapporti son quellichemegliofannoinvitoesolleticoalla nostraal lenzione : nel secondo , sviluppatici dal contingente, tro viamo l'assoluta nelle eterneverità che sonoci rivelate  244 DELLE VICENDE reggiare , a quel continuo trasformarsi , stan saldi: ed allora finalmente asceverar cominciamo e distinguere dal per sonale l'impersonale, dal me ilnon-me e un certo che d’im mutabile e costante, che è quanto dire l'assoluto. E pe rocchè sceverare, distinguere, recar l'osservazione d'una in altra cosa è propriamente analizzare e un far uso della riflessione; questo periodo ben è stato dai filosofi ad dimandato di riflessione e di analisi in contrapposizione del primo che han chiamato della sintesi e della spontaneità.   DELLA STORIA. 245 dalla ragione , e ne scopriamo la indipendenza dal me e d a l l a n a t u r a : n e l t e r z o f i n a l m e n t e , c h e è il s u p r e m o g r a d o della scienza , attraverso a quelle idee assolute traguar diamo l'assoluta Sostanza , di cui quelle non sono che m a nifestazioniedapparenzealcortoe debolesguardodella specie umana . Dalle quali cose è manifesto che la rifles sione, come quella che è molto lenta nelsuo lavoro, e che per l'intera cognizione di un obbietto è necessitata di guardarne ciascun lato partitamento , terrà un periodo i m mensamente più lungo della spontaneità , la quale di sua natura ha un'assai corta vita e fuggitiva. Spontaneitàeriflessione,questidunquesono idue necessari periodi e le inevitabiliforme del nostro pensiero. Nel primo ci son rivelate dalla ragione , comunque al quanto confusamente , tutte le verità prime ; nel secondo null'altro in sostanza aggiungiamo al giànoto;ma ,per ciocchè entra in giuoco la riflessione, distinguiamo , a n a lizziamo , scopriamo i rapporti e la generazion delle cose , e d o v e c h e p r i m a t e n e v a m o il v e r o s o l t a n t o , p o s c i a a b biamo la scienza: e , per dar alcun che di sensibile alle espressioni , nella spontaneità la ragione svolgesi come in linea retta ; nella riflessione ella si rifà su propri passi e conosciutasi alla perfine, sopra sé stessa si torce e si ri piega. Ancora , se nella vita spontanea,tutto è congiunto nel pensiero inuna inviolata e vergine unità , ed avvi vatoevestitodaglisplendidicolorid'una giovaneevi gorosa immaginativa,cuiquellasminuzzatriceelentadella riflessione non è ancor giunta a sturbare ed agghiaccia re; se in quel tempo trascuriamo e quasi ignoriamo noi stessi, e ciecamente credendo alla ragione , ci diamo a tut to che ci paja bello, vero o buono e ilseguitiamo abban donatamente nel caldo d'un amore vivissimo;èmanifesto che quello è tempo di poesia , di canto , d'ispirazione , come il periodo che gli tien dietro è tempo di fredda e severa analisi, di riflessione, che è quanto dire di filoso fia : la qual cosa bene fu antiveduta ed espressa dal Vico quando scrisse che tanto è più robusta la fantasia,quanto è più debole il raziocinio. Però siccome nel primo periodo per quel potere che dicemmo dei sensi e della fantasia , non chiediamo e non adoriamo che il bello , o il bene  >   e'l vero in tanto che belli; nell'altro , fatti più rigidi é spassionati, al solo e nudo vero spezialmente ci inchiniamo, avvegna che non potessimo mai più intutto distorci dalla bellezza. Del rimanente ognun intende che questi due pe riodi , spontaneo e riflessivo, non si limitano in maniera chequandol'unovengaamancare allorasolamente l'altro cominci. Non ci ha mai in natura un limite e un taglio cosi netto tra le cose succedentisi , che non ci sia nel digradare un cotal innesto,in cui lo spirar della pri ma e'lnascer dell'altra vadansi percosidire sfumando, in quel modo che nell'iride quei vaghi primitivi colori. E sul proposito notisi la bellezza delluogo del Vico che abbiam voluto mettere innanzi a questo lavoro: nel qua le oltre che in due righe è detto quel che altri han poi stemperato in tante parole, scolpitamente è indicato quel l'inpestarsi che dicevamo dei due periodi. Perciocchè tra l'etàdelsentireodellaspontaneità,equella del riset tere , u n ' altra è frapposta dell' avvertire perturbato e c o m mosso , che è il primo apparir della riflessione quando an cora in noi è grande ilpotere dei sensi e della fantasia. Tutte queste cose (le quali verremo di mano in mano applicando)volevano esserdettealquantopiùdistesamente e tratto tratto avvalorate e dimostrate con una esatta e scrupolosa osservazione dei fatti di coscienza ; ma le son cosìnote oggidi , che sarebbe stata operavana e fastidio sa ; spezialmente dopo che quello stupendo ingegno del Cousin le ha esposte con tanta efficacia e chiarezza in più d'una sua scrittura.Ilperchèabbiamsolovolutotoccarle, per mostrar quali sieno in fatto di filosofia le nostre opi nioni, per fermare almen brevemente le teoriche da cui intendiamo dipartirci , e procedere in questo nostro ragio namento il più che sapevamo ordinati e seguiti. PERIODO SPONTANEO Poemi o storie artistiche. Or che abbiamo esposto brevemente e fermato quelle teoriche onde avevamo biso gno , accostandoci e stringendoci al nostro 'subbietto , di ciamo che il primo apparir della Storia è veramente nel poema , e nata che sia la prosa , nella storia paramente  246 DELLE VICENDE 1   DELLA STORIA. 247 'ammirazion delle genti quel grandioso spettacolo ch'ei oon sa bastevolmentea m mirare e magnificare. E qui è da notare che se la Storia nasce poetica , questo avviene pel subbietto e per l'obbietto, vale a dire che non pure avviene per lo stato dell'intel ligenza degli scrittori, chein quei primi egiovani tempi ètutta spontanea e immaginosa, ma eziandio per le con dizioni sociali di quella età ; essendochè le antiche società , quanto alle moderne , eran semplicissime, siccome quelle in cui non era contrasto di opposti elementi o principi , ed un solo , come il teocratico nell' Indie e nell'Egitto , tutti gli altri arsorbiva e signoreggiava:la qual cosa non è a dire quanto più armoniche e poetiche lefacesse.Sen zachè sebensièintesochesiaspontaneità,echevalga quell'involontario e irriflessivo svolgersidel pensiero;è chiaro che l'amore , il disinteresse , la gloria , il patriot tismo, e tanti altri affetti tuttiespansivi,generosi e gran di , sono a quei tempi le cause e gli stimoli e le occa sioni alla più parte degli avvenimenti , e molti altri v a gamente adornano e illegiadriscono ; dovechè nei tempi posteriori è un venir su di tanti piccioli e privati interessi, di tante passioni misere e vili, di tante cupe frodi e in fami tristizie, che è uno sconforto. Onde assai andrebbe lungi dal vero chi pensasse che Erodoto , per esempio , o Tucidide , sceverassero e scartassero dalla narrazione tutti quegli avvenimenti che prosaici lor pareano e indegni delle loro nobilissime istorie.Di prosaico poco o nulla vera nelle prime società, e quel poco eziandio facea su quelle vive e immaginose menti dei Greci assai diversa impressione che sulle nostre non farebbe. Quegli storici adunque non sceglievano fatti da fatti, come ultimamente è stato scrit to , e che sarebbe opera da Boileau, ma abbracciavano, od almeno credevano di abbracciar l'intero, il quale alle lor menti si porgeva tutto fulgidamente colorato ed in vaga  artistica, o vogliam dire che altro più diretto scopo non abbia che la bellezza. Percosso vivamente l'uomo dai fatti maravigliosi e grandiche glisuccedonointorno,olicanta e li celebra nel primo impeto della sua maraviglia , o li narra agli avvenire, non gli soffrendo il cuore che se ne porti iltempo si care e belle ricordanze, e che abbia a toglier per sempre alle lodie all >   248 DELLE VICENDE e nobilissima mostra . Se non che costoro tutti intenti come sono alla bellezza delle loro istorie , saran poco solleciti dispogliarla verità delle tante favole statevi aggiunte dalla immaginazione e dall'ignoranza della gente,e per chè il racconto se ne faccia più maraviglioso e attratti vo, assai ve ne introdurranno. Ed infatti seessile narra no , nondimeno il più delle volte non mostrano di aggiu starvi fede, secondo che fanno i nostri creduli e semplici cronisti. Il signor Manna , giovane, per dir poco , di acuta e squisita intelligenza e carissimo amico nostro , scrivendo non ha guari delle vicende , non della Storia moderna ma della Storia in idea, ha detto che la Cronaca e la Ştoria filosofica son da tenere idue punti estremi di tutto il suo svolgimento. In questo, a dirla schietta , non pos siamo affatto affatto accordarci con lui,e poichèquicade in acconcio, vogliam fare un po'di contrasto a questa sua opinione , e , cel creda , per solo amore alla verità , edancheperfermarquiunpensiero,chenoncièin contrato finora di trovar sostenuto da alcuno. Che la Storia filosofica sia l'ultimo estremo da un c a n t o , il p e n s i a m o e d i c i a m o a n c o r n o i , n è p o t r e m m o a l tramenti;ma chelaCronacal'altrosia,questorisoluta mente neghiamo. E qui preghiamo il lettore che non si è stancato di venirci seguitando , che voglia alquanto cre scere la sua attenzione ; dappoichè dovendo farci da alto ed in fretta toccar di molte cose, forse che il postro pen siero non si mostrerà così chiaro come noi vorremmo ; e temiamo non si annebbi la verità col dir disordinato ed Oscuro . Comunque le società dei tempi di mezzo , per le in vasioni e leoccupazioni dei popoligermanici,che per cosi dire le rinnovarono e rinvigorirono , una sembianza aves sero di freschezza e di gioventù; nompertanto si grande era in loro la parte antica della caduta società,o vogliam dire l'elemento romano , che molto dal vero si scosterebbe chi le stimasse società semplici e primitive , e quei fattie quella sembianza ch 'ei vi trova , volesse recare a ciasc un tempo di nascente coltura : per non dire che all'elemento romano e al germanico si aggiungeva l'ecclesiastico di  .   Or se noi troviamo la Cronaca nel Medio Evo , non per questo dobbiam credere ch'ella sia d'ogni tempo di nascentecoltura,echeaquelmodolaStorianascaosi r i s v e g l i. N o c e r t o , c h ' e l l a n a s c e p o e t i c a , t u t t o c h è d i s o r dinata e incolta.Nasce neipoemi delNiebelungen,delCid  lla , e ardita mente poetica ; e se quella ci dà epistole,sermoni, eglo ghe , cronicacce ed altra merce cosi fatta ; questa ci of fre e novelle e poemi senza fine,e versidiamore eprose di romanzi. DELLA STORIA. 219 niente inferiore, e cresceva la contrapposizione e la guerra . Questo fece che accanto ad una cotalbarbara selvatichezza stesse una cortesia e una gentilezza di tempi assai colti e politi; ad un soverchiar della forza e ad una sfrenatezza senza confine , un'austera virtù ed un'idea assai svolta della moralità e della giustizia, e al volo amoroso e spontaneo d'una giovane e bella poesia , lo strisciar lento è vile di tanti scritti insipidi e senza vita. Di contraddizione c'era dappertutto,finotraifattieleopinioni;ma inniente meglio si manifesta che nella letteratura,spezialmente per quell'uso contemporaneo delle due lingue, volgare e la tina, ch'eran come rappresentanti di due letterature, e che valsero a meglio tenerle disgiunte e distinte. La la tina non era propriamente che un po'di luce trasmessa, un povero barlume riflesso da tutto ľ antico splendore,che non si era potuto interamente spegnere per quel soprav vivere e durar della Chiesa dopo il misero cader dell' I m perio. Pertanto ell'era tutta vecchia , squallida e scompa gnata dalla vita ; e dovea essere : perchè gli scrittori la tini ( oltre ch'erano frati la più parte, viventisi,a quei giorni assai ritirati e divisi dal mondo )per quel loroim. maturo e sciocco legger negli antichi ,ebber della barba rieilmaleenon ilbene;n'ebberoadirbreve,lagrossa ignoranza senza il verde , la vita , la spontanea vigoria. Dal che provenne ch'eglino desser poi fuori di quelle smorte eanfibie scritture, barbare a un tempo,e fredde e scolorate ; le quali solo il Medio Evo poteaci dare , e di cui per mala ventura ci ha fatto si ricco e grazioso pre sente. Con due lingue adunque nel Medio evo son due let terature d'indole e di forma differenti: una tutta smorta, scarna e prosaica , l'altra tutta fresca e bella ,   La Cronaca dunque è merce da mezzi tempi, per ciocch'ella nacque dalle condizioni di quell'età , è veduta in altro tempo d'incivilimento che spunti e ger mogli. Onde il signor Manna , per la troppafretta forse, si è lasciato andare in un errore simigliantissimo a quello del Vico , che pensò la Cavalleria potersi trovare in ogni tempo primitivo , e sconobbe ch'ella fu ingenerața  250 DELLE VICENDE } tra i crociati in Levante, cosicchèvideroco'propri lor oc edellaTavola Rotonda;ecompostasi'escaltritasilaprosa, nasce in Villehardouined in Joinville che certo cronache non sono ; od almeno in Guglielmo di Tiro , in Alberto d'Aix,inRaimondod'Agiles,inRauldiCaen,enegli altri entusiastici e vivaci storici delle Crociate. E non si dica che tra costoro parecchi eran frati, e che questo fatto in certo modo contraddica al nostro pensiero ; dappoichè anzi il riferma assai bene , mostrando che tostochè essi usci ron di quelle condizioni che dicevamo , altramenti scrissero le istorie loro. Basti dire che di quei monaci altri furon ehi quei mirabili fatti che ci han narrato ; ed altri furon sospinti in mezzo al mondo dall'improvviso turbinė che a quei giorni sconvolse l'Europa , e dal vivissimo entusias mo che vi accese tutte le menti Imperò vivendo eglino meno divisi dalla società , dettero finalmente alle lor nar razioni quel colore e quella rappresentazion della vita e dei costumi del tempo , che nelle cronache indarno cercherem mo , e che sarebbero affatto perduti per noi, se non ci fosser rimase della volgar letteratura tante opere bene rap presentevoli ed esprimenti, come sono, sebbene alquanto posteriori , le novelle del Boccaccio e del Sacchetti, e le istorie del Villani , del Compagni e del Malespini. enonsi tali cagioni , che son tutte proprie del Medio Evo , e che in altre età indarno si cercherebbero. Ci mostri il sig. na non dico una Cronaca Man ,maunsolframmentodiCro naca prima d'Erodoto.Quanto a noi,fermamente pensiamo che se potessimo avere tutto quel che in Grecia si scrisse nanzi a costui,non troveremmo ip mente che storiemaravigliosa poetiche , comechè ordinate con manco d'arte , e quel che è più sicuro , poemi , e canti guerreschi polari. Veramente ci fa maraviglia e po ingegno del Manna che quell'avveduto non abbia scorto,che avendo eglidi   DELLA STORIA. 251 viso tutto lo svolgimento storico in artistico e filosofico, era necessità che quanto più si ascendesse ai primi tem pi,piùdipoesiaed'artevisitrovasse.Orcome può trovarvi egli quelle insipide ed agghiacciate cronache m o nacali? In esse , se ne togliete l'ignoranza che è vera mente degna d'una cultura bambina , ilresto ci sa più d'avanzo dispenta e grave letteratura,che di comincia mento d'una nuova e leggiadra;e a dirla in due parole, non ci vediamo che elemento romano ed ecclesiastico. E quando si pon mente che per lo più furon monaci i lor compilatori, quasi intutto, come dicemmo , segregati dal mondo , e quel che è più , non d'altro conoscitori che d'al cun latinoscrittore;quando sipon mente a questo,non sappiamo chi possa far lungo contrasto e non accostarsi alla nostra opinione. Il sig. Manna adunque , scambiando un fatto con lo svolgimento dell'idea,'equel che accade con quelcheé, ha creduto logico un antecedente meramente storico efor tuito.E sipotrebbedirech'eglicredaalricorsodellena zioni, se per divinare un fattoprimitivo ha toltoesempio non da nascente, ma da rinascente coltura.Perciocchè vo lendo egli parlare dei napolitani storici, e non trovando nei primi tempi che i cronisti longobardi, se n'è lasciato ingannare,ed ha stimato che la Storia a quel modo na scesse;eche inquellesueteoricheeipotessefermareche la Cronaca e la Storia filosofica fossero gli estremi di tutto lo storicosvolgimento.Sei volevatrovare nellanapolitana letteratura ilprimo apparir della Storia, almeno cercar lo dovea in Guglielmo di Puglia , e in quel poema che serisse, allorchè le ardite e fortunate imprese dei Nor manni fecer maravigliare questa estrema parte d'Italia. Per lequali cose,conchiudendo diciamo ,cheleprime istorie sono i poemi ,indi le narrazioni puramente artisti che ; che questo avviene pel subbietto e per l' obbietto vale a dire , per lo stato dell'intelligenza dello spetta tore , e per quello della società ch' ei ritraenei suoi rac conti : infine che la Cronaca è scrittura propria dei m e z zi tempi, e quanto alla Storia moderna , ella è storico e non logico antecedente.    252 DELLE VICENDE PERIODO DI RIFLESSIONE . Ilme,ilnon-me eilororapportichiamandunque i primi e sforzano la nostra attenzione: e se questo è vero  Storia morale o Secondo che detto abbiamo , corta durata ha S. 1. Momento del MB e NON-MB. politica. quel periodo di spontaneità , e tosto nasce e si educa la ri flessione per aver vita assai più lunga e meglio svolta.Ve ramente ch'ella con quel suo analizzare e sminuzzare ogni cosa,con quel suo lento e sospettoso procedere, or in questoorainquell'obbiettopartitamente affisandosi,to glie ardire allaimmaginativa, ed or ne soffocaeimpedi sce, or ne scolora ed agghiaccia ogni spontanea creazione: nompertanto induce lo spirito umano , non certo in più belle,ma inpiùgraviesodecontemplazioni,cheapoco a poco e come per mano il trarranno a quella compiuta e ordinata scienza , che è l'ultimo obbietto , e insieme la pace e 'l riposo della sua irrequieta intelligenza. Or noi dicemmo che la riflessione di sua natura è parziale e suc cessiva , e che tutto ilsuo svolgimento potrebbesi distin guere intrepartiomomenti,ondeilprimoèquellodel me edelnon-me.E difatto,chivogliaun trattoprofon darsi nella coscienza, vedrà che se ci son fatti che più chiamino e sforzino l'attenzione , certo sono i sensibili, indiivolontario personali.Isensibilicomequellicheson manco intimi e profondi,e quasi esterioriall'animo,sono i più vivi ed appariscenti, e imeglio osservabili;eivo lontari o personali vengonsi lor mostrando allato tenace mente, perciocchè l'impersonalità della sensazione indica subitamente e rivela la personalità nostra , e quell' assi duo tramutarsi e succedersi dell'obbietto ci reca al senti mento d'alcuna cosa che duri attraverso a quella indefi nita varietà delle sensazioni, che è l'identità delsubbietto. Quanto aifattirazionali,questiinverosono imenoap parenti, perchè non simostrando che in mezzo allamu tabilità e alla determinazione dei sensitivi e dei volontari, tolgon sembianza mutabile e determinata , e ci ha mestieri diaccorta e ben ammaestrata osservazione per poterneli sceverare , e svestire di quella falsa e mendace apparenza.   DELLA STORIA. 253 ( come vero è ) , ecco qual nuova faccią prenda la n o stra intelligenza, e di quanto questo primo momento della riflessione si discosti dalla spontaneità. In questa ilme non si scorgendo ancoradistinto da quel che lo inviluppa e nasconde , e lasciandosi intutto andare a seconda della ra gione e della sensibilità, senza mai volgersi indietro e por menteasèstesso,èchiarocheseogniattoalloraèfe de , amor vivo e caldissimo, ed estatica contemplazione ha da essere altresi pieno e bello di nobile disinteresse ; doveché nel primo momento dellariflessione,per quel ne cessario mostrarsi e dintornarsi della persona , per quel considerar la natura solo in tanto che ne dia pena o di letto , come pressochè tutto è dubbio , amor proprio , e sospettosa e lenta osservazione , cosi pure le opere nostre la più parte generate da personali e interessate cagioni ; e se prima moveaci il bello,e il bene e ilvero intanto che belli, muoveci dappoi l'utilità. Dicevamo che la Storia si farà a cercar l'utile; poi con un tal rude passaggio alla moralità sola il riduceva m o , come se niente altro esser ci potesse d'utilită , quivi tutta si raccogliesse. Per voler soddisfare a questo dubbio, e farci incontro a parecchie altre objezioni che ci sipotrebberofare,dichiareremoalquantomeglio ilno stro pensiero, e il rafforzeremo in fretta almen tanto che basti. Tolto via l'utilità fisica, che in verun modo non ci potrebbe venire dal racconto dei fatti delle nazioni,l'uti Jità non può veramente esser posta , che nel giovare al l'uomo o come agente morale, o come creatura intelli gente; perocchè non si potendo allettare la sensibilità , alla Storia non resta che correggere la volontà , o svolgere e  saran per Però la Storia , dopo che si è mostrata puramente artistica , vorrà avere uno scopo che le paja manco vano , e che dia più pronti e certi frutti; vorrà insomma esser utile , ed eccovi apparir la Storia morale , la quale , se più non guarderà la bellezza siccome unico ed immediato suo scopo , se ne gioverà nondimeno per ornare ed avvivare i suoi racconti, essendochè l'uomo , come dicemmo , po scia che l'ha un tratto conosciuta , mai più non si di stoglie dalla bellezza. ©   costantes generi , contumax etiam adversus tormenta servo rum fides. Ond'iomi maraviglio che ilsignorMannaabbiapo tuto sconoscere questo si manifesto intendimento di Tacito, dandogli uno scopo meramente artistico, com'ei si da rebbead Erodoto. E mi pare che in questosbaglioeisia caduto , per aver troppo semplicemente diviso tutta la vita storica inartistica e filosofica,nonbadando che seconla riflessione si può dir che cominci l'amor del sapere ola filosofia, non per questo ella è filosofia, intesaintuttala determinazion della parola , cioè la scienza già ordinala formata ; e per dir più chiaramente , che innanzi all'ul tima forma sua ben può la Storia esser riflessiva , e non esser pertanto ancor filosofica. Il perchè non potendoegli di buona fedetrovare in Tacito la sua Storia filosofica ha dovuto di necessità trovarvi l'artistica,quantunquela Storia avesse in lui cangiato natura , essendochè l'artedi primo scopo e signora ch'ella era , è divenuta istrumento ed ancella. S.II.Momentodelleveritàassolute.- Storiapositiva– Per affisarsi che faccia la riflessione al subbietto e all'ob bietto e ai lor rapporti, verrà tempo alla perfine ch'ela sarà percossa da quella strana immutabilità e indipendenza dei concetti della ragione ; che anzi quello stesso atten dere ed osservare i fenomeni sensibili e volontari sarà ca gione che le si dimostri l'assoluto ; essendochè di due o più cose non pur dissimiglianti ma opposte sieme e confuse ; più pensando ed osservando ne distrigate e dintornate l'una", più l'altra vi si porgerà chiara edi stinta. L'osservare che sopra una sorta di fenomeni non ha potere la volontà , e che lo stesso non-me non sipuò sottrarre a certe.leggi immutabilissime e salde , fa chesi vadano sempreppiùdistinguendo e sceverando ifatirazio pali, e apertamente se ne vegga la indipendenza dalsub bietto e dall'obbietto. Oltre diche,inquellaguisachela impersonalità dei fati sensibili rivela e determina la per sonalità dei volontari, cosi la mutabilità , la contingenza, la naturafinita e dipendente dell'animonostroe delana tura,distintamente cisvelal'immutabile,l'infinito,l'as soluto; l'essere, in una parola , il quale non che dipen  236 DELLE VICENDE e strette in   DELLA STORIA. 257 dere da altre cose , a tutte anzi è sostegno e fondamento. In questo secondo suo momento adunque la rifles sione,disviluppatasidal contingente,separaepone l'asso luto,o vogliam direl'eterneveritàrivelatecidallaragio ne.E peròch'ellasuole,dimenticandogliantichi,tutta a'nuovi obbietti abbandonarsi,e massimamente dopo che ha scorto, che ilme e ilnon-me non son poi gli ultimi termini della scienza , e che ci ha alcun più degno e nobile obbietto intutto indipendente da quelli,e che anzi abbrac cialiecomprende,e ponloroelimitieleggi,da'quali, tramutinsi pure a lor posta , mai uscir non possono , o sottrarsene.E megliovedràl'importanzae ladignitàdel l'assoluto , quando si sarà avveduta che non ostante la caducità e l'impersetta natura del contingente , le verità nondimeno stanno e sopravvivono.Di questo procederà che alle personali vedute del primo momento altresuccederanno impersonali e disinteressate, e seprima chiedevasi l'utile, il vero poi soprattutto si chiederà. Eosi la Storia che abbiam veduto correr dietro al l'utile,volgerassi a più nobile scopo escientifico,enon vorrà che il vero ; e purchè il trovi e narri, le parràdi aggiungere l'ultimo e naturale suo scopo. Vero è , che non si essendo anco giunto a tale con la scienza, che basti e valga a ricongiungere e riferire alla prima Sostanza quelle assolute verità , e a considerare il vero come rive lazione dell'infinita Intelligenza ; vorrà la Storia il vero , ma senza sapere iltrovarlo infine che importi;e conside randolo partitamente nei fatti in tanto che esistenti e a v venuti , scambierà il reale col vero , e solo vedrà negli avvenimenti la vicina dipendenza di cause ed effetti, non si elevando mai a più larga e lontana connessione. Per tanto degli Storici di questa età , sola e prima cura sarà trovare i fatti e accertarli, mostrarne le immediate o poco lontane cagioni , o almeno le occasioni e i rapporti , e solo che dieno una tal quale narrazione di importanti e certi fatti , nissun pensiero si prendono del rimanente, e par loro adempiuto ogni ufizio eche laStoriasiafatta.E non pen sate ch'ei sipiglino affanno di virtù e di vizi,di giusto edingiusto,diquestaoquellacredenza;evidanno a divedere una freddezza e un'indifferenza , che c'è da scon 17    solarsene, per modo che vi sembra non abbian cuore,o senso morale , e sien tutto pensiero e intelligenza. Il qual morale indifferentismo stimiamo sia tra l'altro ingenerato dai costumidiquelleetàch'essersoglionoassaiguastie dissoluti:onde avviene che disperatosidelmiglioramento, appoco appoco l'animo vi si adusa , e dopo di averli con siderato come un necessario male e durissima legge del l'umana natura,finirà colvenire in quella tristae scon solante indifferenza , di che non è stato che sia peggiore. Anche questa maniera di Storia vediamo adunque inrap porto manifesto con l'obbietto e col subbietto , con lo svol gimento progressivo dell'intelligenza , e con le sociali c o n dizioni dell'età in cui suole apparire. Se non che , acció che non ci si dia non meritato biasimo , vogliam qui fare avvertire che se noi riferiamo la Storia al subbietto e al l'obbietto, questo facciamo per guardar la cosa da più lati, e non perchè ci sembri che quelli in sostanza sien diversi rapporti : conciossiache limitando noi l'obbiettività al solo Mondo civile , il quale , come ha detto il Vico , è fatto dall'uomo , ci avvediamo che il riferirvi la forma che vien prendendo la Storia ,egli è come riferirla un'al tra volta allo svolgimento della nostra intelligenza. Questi sono gli Storici , che abbiam chiamato positivi. E molti potremmo indicarne che più o meno van com presi in quel numero ; ma ci piace di nominar soltanto il Davila e il Macchiavelli, come assai vivi esempi di que stageneraziondinarratori.Solovogliamo quiricordare che se in molti di questi storici alcun che ci ha di arti stico, morale o politico, non per questo non son da te nere per positivi, quando loro intendimento sia stato il narrare ifatti che veri stimavano senz'altra briga.Dap poichè se nell'ideale e nella scienza tutto è ben distinto e determinato , nella realtà per contrario tutto intrecciasi e confonde , e mai non si ha il fatto cosi nudo e segre gato dagli altri che gli stan dallato , o che lo han pre ceduto o seguiranno , secondo che la scienza lo ha de scritto. Cosi questa famiglia di Storici è a parer nostro assai numerosa e comprensiva ; e risolutamente vi chiu diamo e 'l Guicciardini e l'Hume e'l Gibbon e 'l Gian none e 'l Robertson , avvegnachè di costoro , chi voglia  258 DELLE VICENDE   solo un lato considerarne, alcuno dirà artistico, un altro forse chiamerà morale o politico , e in quegli ultimi per avventura gli parrà già di vedere l'ultima forma della Storia, che è la filosofica, e di cui or passeremo a ragio nare . Per ilche,quando perassaisecolisièveduto un sorgere e fiorire, e un cader d'imperi e di nazioni , una catena lunghissima di successi grandi ; quando in somma il dramma storico dell'umanità di tanto è cre sciuto,che sene può avereun'assai larga e svariata esperienza;èforzacheavedersicominci allaperfine e un tal ritorno di avvenimenti al tornar delle stesse ca gioni , e certi costanti rapporti e lontanissime dipendenze , e una certa comune natura delle nazioni sotto alle dissi miglianze grandi che son tra loro. Oltre di che al rovi nare e mancar di tanti regni potentissimi, di tanti vasti e s p l e n d i d i i m p e r i , c h e p a r e a n o n o n d o v e r m a i f i n i r e ', e  3 239 DELLA STORIA. Storia filosofica. S.III.Momento delleveritàassolutecomemanifestazione La riflessione di sua natura , quanto più va innanzi nel suo lavoro , della prima Sostanza. tantopiùvisiaddestra,edacquistadiacumeedi pro fondità, e noi tratto tratto più incontentabili cifacciamo e vogliosi di sapere. Dopo di aver separato e distinto il meeilnon-me,siamocielevatialquantopiùsu,edat traverso alla vicenda ed alle permutazioni del contingente , abbiamo intraveduto e scorto l'assoluto in quelle immu tabili verità, che son come le leggi del pensiero e della natura. Ma giunti che siamo a questo punto di conoscen za , veggendo che quelle assolute verità non derivano o dipendono di sorta dal subbietto e dall'obbietto ; qual sia dimandiamo la lor sorgente e derivazione , di qual sostanza essi fenomeni sieno manifestazione nella nostra intelligenza. E questa interrogazione torna inevitabile e necessaria per quei due principi disostanzae dicausalità, che non ci lascian mai , eche ad ogni fenomeno,ad ogni cosa che cominci,a trovare o pensar ci sforzano una so stanza e unacagione.Le veritàassolute adunque noi ri feriamo e leghiamo all'assoluta Sostanza,all'Essere crea tore e intelligente, e quivi soffermasi la riflessione niente altro chiedendo , vi si appaga e riposa. e   260 DELLE VICENDE tutto in loro accogliere e stringere il futuro destino dei p o poli ; non può la disingannata intelligenza non distorsi da q u e l l' a n g u s t o e c a d u c o s p e t t a c o l o , e n o n e l e v a r s i a p i ù larghe esublimi considerazioni. E scorgerà che iregnie gl'imperi non son poi che apparenze peculiari e fuggenti, è che fra tanta vicenda e permutazion di fortuna,duran nompertanto le umane generazioni e governate da costan tissime leggi;e da tanti sanguinosi elacrimevolicasi,da tanti mali e miserie incredibili, risorgon sempreppiù a m maestrate e possenti,come se cavasser benedalmale,e a simiglianza d'un nobilissimo fiume, il quale non che scemare e impaludarsi tra la rena e i sassi e i dirupi , sempre crescendolesue acque,alteramenteprocedeverso l'infinito mare che l'attende. Pertanto a quel modo che riferiamo le leggi del pensiero alla prima Intelligenza , e le abbiamo per un suo apparire e rivelarsi nella ragione ; così pure quelle discoperte ed osservate leggi dellaStoria riferiamo al primo Essere, e le consideriamo come forma visibile dellamente e del disegno di lui sopra il destino degli uomini , che è quanto dire come la stessa Provvi denza divina. Quando adunque dalla mutabilità , dall'incostanza e dalla contraddizione del reale , elevar ci sappiamo insino all'idealeeilconsideriamocome espressionedellamente di Dio ; quando più non vediamo nella Storia una for tuita o capricciosa successionediavvenimenti,ma losvol gimento di un'idea nel tempo, e l'adempimento sopradi noidel provvidodisegnodelCreatore;sorgeràquellaSto ria che detto abbiamo filosofica ; e , conciossiachè la ri flessione non vada più oltre, questo è l'ultimo e più n o bile grado a cui possa ella giungere. Or questo supremo pensiero,questo provvido disegno di Dio sulle umane generazioni , certo in niente meglio si dimostra che nella Storia della religione ; e se aggiun gete che solo il cristianoincivilimento poteaci dare una cosi fatta Storia ; che , dalla nostra infuori, niun'altra religione non ha avuto un si chiaro e non interrotto cam mino attraverso a tutte le età; che la scienza infine non avea a cominciar da capo e far tutto di per sé, percioc ehè ella potea lavorare per un sentiero ch'or silascia in    DELLA STORIA. 261 travedere , or profondamente è segnato nei Libri Santi ; non è dubbio che dei cinque elementi della Storia , che sono l'industria , lo stato , l'arte , la filosofia e la reli gione , dovea quest'ultima prima costringer l'attenzione dei nostri scrittori , e , lasciatisi da un canto gli altri quat tro , informare a suo modo la Storia ,e invadere a prima giunta e assorbire tutta la vita delle nazioni. Di qui av verrà che questa prima e incompiuta Storia apparirà anzi teologica che filosofica ; e tale infatti è quella del B o s suet , per essersi quel dottissimo Vescovo tutto chiuso e raccolto nel Cristianesimo , e fattolo centro , scopo e m i sura a tutta la Storia dell'umanità. Ad ognimodo quello è il primo passo verso la Storia filosofica , e il primo n a scere e incarnarsi di quella idea , che dopo meno di un secolo vedemmo tanto allargarsi nell'Herder , che in quel suo stupendo lavoro tutti abbracciò ed avvinse gli elementi della vita delle nazioni. Se non che la Storia dell'umanità non si sarebbe per a v v e n t u r a a t a n t o a l t o g r a d o e l e v a t a n e l l' H e r d e r , s e q u e l maraviglioso e potentissimo ingegno di Giambattista Vico non avesse prima , con lo scriver la Scienza nuova , fondata . ne la filosofia. Di quest'opera straordinaria assai volentieri parleremmo , ch'ella è primo vanto e gloria nostra,e Dio sa quantoci gode il cuore in pensare che abbiam noipure il nostro Dante ; m a sarebbe un varcar quei limiti che ci siampostiinquestolavoro:dappoichènon abbiam vo luto intrattenerci intorno alla scienza della Storia , m a solo indicare una opinione che avevamo del suo progressivo svolgimento,cavandolo daquellodelpensieroumano.Non però di meno vogliam mostrare che quell'idea che d'una vera e compiuta Storia filosofica osservando e ragionando ci siam fatta , quella stessa aver partorito e fecondato la Scienza nuova.Infatti, poichè il Vico dallo studio psico logico dell'uomo ebbecavato quella sua Comune Natura delle Nazioni, vale a dire le leggi universalissime della Sto ria, andò fino a riferirle alla prima Cagione, e le tenne espressione visibile del Consiglio divino ; ond'ei medesimo scrisse,l'operasuadoversiriputareuna Teologiasociale e una storica dimostrazione della Provvidenza. E concios siache per potersi elevare , sccondo che dicempo , dal  .   reale all'ideale , ei bisogna che il primo ci sia noto, as sai giovossi ilVico della filologia,che al dir del Miche let,èlascienzadelreale,odeifattistoriciedellelin gue ; e sull'ale poi della filosofia cacciossi in quella po tente e lontana astrazione. La filologia adunque e la filo sofia , cioè le scienze del reale e del vero ( ch'è l'idea le ) , son le due fecondissime sorgenti a cui ha attinto la Scienza nuova ; e una storica dimostrazione della Provvi denza è l'ultimo e proprio suo obbietto. Ma se grande nella Scienza Nuova è la parte del l'uomoediDio chefuungranpassodopocheilBos suet in Dio solo s'era affisato ), la parte del non-me o della Natura è nulla , o incerta e poverissima ; la qual cosa poi tanto crebbe e ingigantissi nell'Herder per sual filosofia di quel tempo ,che l'uomo ne venne presso cheschiavoallaNatura,ev'ebbeaperdereilsuoli bero arbitrio. Perciò questo elemento tra l'altro devesi aggiungere alla Scienza Nuova;essendochè l’Uomo,Dio e la Natura sono i tre obbietti alla filosofia , e questi stessi entrar debbono,e in bell'armonia legarsi nella Storia, sesivorràch'ellasiacompiutae perfetta,echearrivi a quell'idealesupremo cheil progresso della scienza ci promette,e cheledotteedoperosefaticheditantichiari uomini del nostro vivente ci fanno sperare non lontano Raccogliendo ora tutte le coseche inquesto secondo periodo abbiam toccato ,diciamo che la Storia dopo di es ser nata artistica vuol esser utile , indi vera , ed ultima mente filosofica; che questoavvieneperl'obbiettoepelsub bielto , secondochè abbiamo or detto espressamente , or sol tanto lasciato intravedere. Quanto alle vicende e al progressivo cammino della Storia ,questo è il nostro pensiero. E qui porremmo fine al nostro lavoro se tutti i lettori così fossero , li vorremmo. Ma ci ha di tali uomini , che non san ve dere nei fatti che dissimiglianze e contraddizioni, e non si elevando più che tanto, stringer non sanno più di due cose insieme, e  262 DELLE VICENDE e non diciamo porre un po' d'ordine e d'armonia in quel caos d'avvenimenti, ma nemmanco innalzarsi a un sol pensiero, a un qualche men che vi la sen gran fatto. come noi   DELLA STORIA . 263 cino rapporto. Costoro certamente vorranno che tutta la Storia vadasi per cosi dire a adagiare nel disegno che in fino a qui siam venuti delineando, e che d'ogni Storico subito e chiaramente si possa diffinir la natura e 'l tempo del suo venire ; e perocchè questo , non potendo essere non viene lor fatto, eccoveli gridar tostoall'errore e al sistema : come se i casi valessero a romper le regole , e come se negli uomini non fosse libero arbitrio , ed oltre alla ragione non fosse la personalità del volere, la quale di quanto conturbi , e modifichi , e arresti e affretti al l'idea il naturale e logico suo svolgimento , non è chi non vegga. Per non dire che in alcuni storici la stima e l'imi tazion dell'antico , in altri l'indole o le false opinioni o la povertà del sapere son cause che sovente essi dienci parti fuori tempo ; e che ifatti talvolta sembri che vadano a ritroso con le idee. E valga l'esempio delBotta venuto troppo tardi per esser , com ' egli è , storico morale e p o litico. Oltre di che alcuni , venuti nella intersezione di due periodi , e però accogliendo quel che cade e quel che sor ge, hanno in quei loro scritti alcun che d'indeterminato, il q u a l e c o s i n e a s c o n d e e s f o r m a l a v e r a f a c c i a , c h e n o n sapreste a quale specie di storici li dobbiate propriamente riferire. Cosi in Livio vediamo a un tempo l'artistico e'l patriottico o politico e anche un po' del morale , ed era mestieri per i tempi in che scrisse ; in Sallustio ancora l'artistico, ma il morale più determinatamente ; in Sveto nio quasi intutto il positivo. Del rimanente il reale o quel che accade può ben rifermare , ma non ha potere di con trastar l'ideale o quel che è: laonde se la nostra osser vazione psicolologica è stata accurata,esatta e compiuta non ci si avrà a contraddire , e le vicende della Storia quelle saranno , che abbiamo fuggevolmente descritto.Giambattista Ajello. Ajello. Keywords: Refs: Luigi Speranza, “Grice ed Ajello” – The Swimming-Pool Library.

 

Albergamo (Favara). Filosofo. Grice: “Albergamo is a fascinating author – a very Italian philosopher who can teach Lucrezio and the classics at the ‘gym,’ as they call it, and yet survey the ‘storia delle scienze essate’ and the ‘storia delle scienze empiriche.’ Alla Bridgman, he is into ‘the logic of the science.’ But he can also define the ‘spirit’ in terms of ‘freedom.’ He has also analysed, vis-à-vis- his interest in Galieleo and science, the very Italian idea (already in Cicerone) of ‘super-stitio’ and magic – his approach to these matters is phenomenological, which coming from Favara as he does, is understandable!” --  Filosofo. e un pioniere della filosofia della scienza in Italia. Nato a Favara, in provincia di Agrigento, da Giacomo e Giuseppina Butticé. Suo nonno era un ricco proprietario di una rinomata pasticceria di Favara. Il padre, ferroviere, fu trasferito prima a Messina e poi a Palermo, portando con sé la famiglia. A causa di questi trasferimenti, svolge gli studi liceali da autodidatta, conseguendo poi la laurea in filosofia presso l'Palermo.  Nel 1931, vinto il concorso a cattedra di storia e filosofia, si trasferisce a Trapani, dove insegna al liceo classico Ximenes, e dove sposa Maria Carmela Rizzo, da cui avrà quattro figli. Insegna poi a Benevento ed infine a Napoli presso il Liceo classico statale Vittorio Emanuele II, dal 1936 al 1967.  Pressoché tutta l'attività filosofica e didattica di Francesco Albergamo si svolge a Napoli, ed è caratterizzata dal clima culturale molto vivo nella città di Benedetto Croce. Come filosofo, si dedica a due principali linee di attività. La prima è dedicata all'insegnamento ed alla didattica della filosofia, l'altra allo studio del rapporto tra filosofia e scienza. In entrambe le linee, il suo lavoro ha avuto una grande caratura culturale, e la sua personalità fu considerata, nella città di Napoli, di grande spessore etico, per la generosità e l'impegno che hanno contraddistinto la sua vita.  Circa la prima linea, il ricordo della sua attività didattica è rimasto a lungo nei tantissimi giovani che hanno ricevuto una solida formazione filosofica di cultura laica, razionale, liberale. Vero è che a Benevento, dove aveva insegnato per soli due anni, gli è stata dedicata una strada che, significativamente, parte da Piazzale Benedetto Croce per poi ricollegarsi a Via Francesco de Sanctis.  Al Liceo Classico Vittorio Emanuele tra i diversi allievi che si sono distinti nel campo della filosofia e della cultura ricordiamo in particolare due delle figlie di Benedetto Croce. Il suo nome è ricordato in una lapide dedicata alle più illustri personalità che vi hanno insegnato, tra cui Giovanni Gentile. Oltre all'insegnamento nei licei, è stato libero docente di filosofia teoretica presso l'Napoli, dove ha svolto una intensa attività di corsi e conferenze.  Con i suoi manuali di storia della filosofia, e con numerose pubblicazioni dedicate ai licei, FA costituisce un importante punto di riferimento nella didattica della filosofia a livello nazionale, prima per il classico e poi anche per lo scientifico. Una notevole attività è anche dedicata alla formazione dei docenti di filosofia, con numerosi articoli, pubblicazioni, corsi e conferenze.  L'altra linea di attività, quella dedicata allo studio del rapporto tra filosofia e scienza, si snoda lungo un arco di tempo molto vasto, che va dall'inizio degli anni '30 fino alla sua scomparsa, nel 1973. I risultati sono confluiti nella pubblicazione di importanti saggi filosofici (vedi ).  Di formazione idealistica e kantiana, appena trasferitosi a Napoli, nel 1936, instaura un rapporto stretto con Benedetto Croce, con frequenti visite e colloqui nella sua abitazione a Palazzo Filomarino, guardata a vista dalla polizia.  Dalle sue lettere a Croce (73, 74, 75), si evince un chiaro riconoscimento di Croce come suo Maestro, oltre a forti sentimenti di devozione e di sincera amicizia.  In particolare, alla caduta del fascismo, esprime al Maestro la sua "profonda gioia" perché "finalmente l'Italia comincia a incamminarsi per la via maestra che le avevate additato", e prosegue poi: "Gioiamo della gioia vostra e dei vostri cari: della gioia che ora, dopo tutto quello che voi, giusto, avete sofferto, aleggia sulla vostra casa" (73).  Questo rapporto si affievolisce a partire dai primi anni '50, quando più che la filosofia fu la politica a provocare un allontanamento di Francesco Albergamo dall'ambito crociano, per aderire progressivamente agli orientamenti ed alle ideologie della sinistra e del marxismo.  Già agli inizi degli anni '50, aderisce al movimento dei "Partigiani della Pace", nato a Parigi nel 1949 sotto il simbolo della colomba della pace, appositamente dipinta da Pablo Picasso,stringendo una forte amicizia con Lucio Lombardo Radice, Maurizio Valenzi, Renato Caccioppoli, Ambrogio Donini e altri.  Nell'estate del 1952 partecipò ad una delegazione in visita alla repubblica democratica tedesca, assieme a Giancarlo Pajetta, Renato Guttuso, Francesco Flora. La visita era, naturalmente, finalizzata a diffondere ed esaltare le "conquiste del socialismo". Di ritorno dal viaggio, il Ministero dell'Interno dispose il ritiro del passaporto, e quello della Pubblica Istruzione gli comminò una ammonizione, come se avesse abbandonato il servizio senza autorizzazione, mentre il viaggio era stato fatto nel periodo di chiusura estiva delle scuole. Fu forse questo episodio, che Francesco Albergamo considerò una manifesta soperchieria di stampo scelbiano, che lo indusse l'anno successivo ad iscriversi al PCI, salutato da Togliatti con un cordiale telegramma di benvenuto.  Nel corso di tutti gli anni '50, partecipò attivamente alla vita culturale e politica della città di Napoli, che in quel periodo era in grande effervescenza. Il movimento culturale della sinistra napoletana non si riconosceva pienamente in una ideologia, come afferma Gerardo Marotta, "ma si fondava su un dibattito filosofico che traeva i suoi succhi da un corale sforzo di comprensione del proprio tempo" (80). Il dibattito raccoglieva e valorizzava l'eredità culturale degli illuministi e degli hegeliani napoletani del secolo precedente, attingendo alla lezione storicistica meridionale che va da G.B. Vico a Croce, passando per F. De Sanctis e G. Salvemini, e collegandosi poi al pensiero di Antonio Gramsci.  L'Albergamo partecipa con conferenze che venivano organizzate dalle associazioni culturali napoletane tra cui "Cultura Nuova" ed il "Gruppo Gramsci", ed accetta, sia pure a malincuore, una candidatura del PCI alle elezioni comunali di Napoli.  Il problema del rapporto tra filosofia e scienza viene visto in termini di nuovi modi e nuovi contenuti per la didattica delle scienze e della filosofia. Tra i primi in Italia, ed in aperta polemica con la scuola crociana ed il clima dominante, Francesco Albergamo avverte i rischi, per lo sviluppo della società italiana, di una cultura prevalentemente classica: "Con la seconda rivoluzione industriale che è in atto in tutto il mondo, noi italiani non ci possiamo permettere il lusso di rimanercene ancorati ad una cultura prevalentemente classica ed umanistica."  L'Albergamo lavorò con la passione di una intera vita, fino a pochi giorni dalla sua morte. L'ultimo suo scritto uscì postumo su "Critica" marxista"(69). In seguito alla sua scomparsa, avvenuta il 14 ottobre 1973, il quotidiano comunista L'Unità dette notizia della sua scomparsa con un lungo articolo (79).  Il pensiero filosofico Possiamo, per semplicità di esposizione, dividere l'opera dell'A in tre periodi. Nel primo periodo, il pensiero dell'Albergamo si muove nel quadro di una concezione filosofica di tipo idealistica, dominata in Italia dal pensiero di Benedetto Croce e Giovanni Gentile.  Tuttavia, più che alle tematiche tipiche dell'idealismo, è interessato ai problemi nuovi che si pongono al pensiero filosofico a causa dello sviluppo impetuoso della scienza nel novecento, in particolare nei settori della fisica relativistica e quantistica, della matematica, e della biologia. Francesco Albergamo precorre, in una prospettiva idealistica, la necessità di un dialogo costruttivo, osmotico, della filosofia con le particolari discipline scientifiche ed empiriche.  Nel primo lavoro scientifico (1), richiamandosi all'insegnamento di Kant, sostiene che la scienza, come esperienza dell'attività dello spirito, è resa possibile dalle forme trascendentali. Tuttavia, sostiene l'Albergamo, gli sviluppi più recenti della matematica (geometrie non euclidee, matematiche non archimedee, gli iperspazi, ecc.) e della fisica ( teoria della relatività di Einstein, meccanica quantistica, principio di indeterminazione di Heisenberg) provano la contingenza di tali forme trascendentali, .  Affronta anche il problema, fortemente dibattuto, dell'alternativa tra determinismo ed indeterminismo, e perviene alla conclusione che anche l'alternativa indeterministica sia egualmente legittima: la conoscenza scientifica può essere costruita anche se si ignora il principio di casualità e si finge che i fenomeni si succedano a caso, secondo le leggi matematiche della probabilità. Queste tesi originali furono apprezzate e commentate , all'epoca, da diversi filosofi italiani, tra cui C.Ottaviano (76), Aliotta (77), ed altri (78).fino a pervenire ad una ampia esposizione della problematica filosofica connessa alla scienza del novecento. Il saggio La critica della scienza nel novecento"(10), pubblicato in prima edizione nel 1942 e poi più volte ristampato fu giudicato "assai pregevole" da Benedetto Croce (73, 74, 75). Di questa opera, Guido De Ruggero scrisse che essa "offre una delle più efficaci sistemazioni speculative che io conosca delle vedute pragmatistiche della scienza, compresa quella del Croce alla quale più strettamente si connette"(74).  L'ambizione dell'Albergamo, che traspare chiaramente nei diversi spunti critici nei confronti dei limiti dell'idealismo nell'affrontare il problema della logica della scienza, è quella di "costituire una confutazione dell'idealismo per via dell'idealismo stesso"(81). In altre parole, vuole in qualche modo superare la concezione che relegava la scienza nel limbo degli "pseudoconcetti", per dare piena legittimità ai processi conoscitivi, sia delle scienze esatte che delle scienze empiriche, restando comunque ancorato all'idealismo.  Benedetto Croce in qualche modo accetta e favorisce la ricerca di A, giudica "assai ben pensato e ragionato" il suo lavoro, ma rimane rigido nell'accogliere la storia della scienza come parte integrante della storia della filosofia (73, 74).  Finito il periodo bellico, l'attività dell'A si sviluppa poi in una serie di opere in cui sistematicamente, ed in un quadro storico, vengono trattati i problemi della logica delle scienze esatte (23) e della scienze empiriche (32).  In questo periodo A, dirigendo per l'editore Laterza una collana di scrittori di teoria delle scienze, propone alla cultura italiana la conoscenza di importanti pensatori d'oltralpe, come Poincarè (24, 26), Bergson (40), Bachelard (31) ed altri.  Il secondo periodo dell'attività di Francesco Albergamo può datarsi attorno ai primi anni '50, ed è caratterizzato da un progressivo allontanamento da Croce e dalla sua scuola, dovute alle difficoltà dell'Albergamo a trovare un pieno accoglimento delle sue tesi sulla scienza, ed anche, in qualche misura, a diverse valutazioni politiche.  L'esigenza di Francesco Albergamo era quella di dare piena legittimità filosofica alla logica del pensiero scientifico. Per raggiungere questo obiettivo, era necessario operare un "capovolgimento" dialettico nel rapporto Natura-Spirito della filosofia crociana, allo stesso modo in cui Marx aveva operato nei confronti di Hegel. Per Albergamo infatti "spiritualismo e materialismo costituiscono in realtà una opposizione dialettica, nella quale di continuo ognuno dei due deve vincere la resistenza opposta dall'altro... come già nella dottrina hegeliana, così anche quella del Croce esige… un "capovolgimento", in maniera che il suo oggetto…trovi proprio nel suo opposto la condizione per vivere e svolgersi" (29).  Nel terzo periodo di attività, a partire dal 1967, quello della massima maturità ed originalità, affronta una analisi sistematica delle forme di "pensiero prelogico", inteso come "pensiero che, spontaneamente, senza alcuna riflessione logica, veniamo indotti a formulare per una suggestione tanto irresistibile quanto inconscia che inibisce la nostra intelligenza" (61).  Analizza con grande attenzione tali forme di pensiero, sulla base dei risultati e delle osservazioni di etnologi ed antropologi (da Frazer a Levy-Bruhl, Levy-Strauss, H. Kelsen, ed altri), oltre che dei risultati della scuola psico-analitica, da Freud a Cesare Musatti.  Analizzando questa poderosa base di osservazioni sperimentali, perviene ad individuare i principali meccanismi della prelogica: automatismo associativo, intuizione animistica, inibizione dell'intelligenza ad opera del sentimento.  Vengono così portati alla luce della consapevolezza quei processi inconsci ove si generano mito e magia.  Le molteplici e diverse credenze mitiche e magiche, con la loro uniformità di struttura e le loro coincidenze spesso sorprendenti, sono interpretate come il risultato di un automatismo psichico inconscio, che persiste pur attraverso le situazioni storiche più diverse.  La tesi dell'Albergamo è che tali forme prelogiche, che sono alla base dei miti, dei riti, e delle pratiche magiche dei popoli primitivi, lungi dall'essersi esaurite con il progredire del pensiero scientifico e filosofico, sono presenti in maniera diversa, non solo in età infantile ed in alcuni soggetti psicopatici, ma anche nelle stesse persone colte, nonché in alcuni ambiti dello stesso pensiero scientifico e filosofico (62).  Accanto a questo nuovo ed affascinante filone di ricerca, si intensifica l'opera di educatore, con decine di opere destinate alla scuola, manuali , antologie , trattati, nonché da studi e pubblicazioni sulla didattica delle scienze e della filosofia.   degli scritti di Albergamo. Opere:  “Saggio di una concezione filosofica della scienza” (Napoli, Loffredo); “Disegno storico della filosofia ad uso dei licei classici e degli istituti magistrali” (Milano, Sig.); “La tesi finitista contro l'infinito attuale e potenziale” in Atti della Società Italiana per il Progresso delle Scienze; “La filosofia di Spir”, in Annuario Liceo Vittorio Emanuele di Napoli); “Critica del concetto di infinito”, in Annuario Liceo Vittorio Emanuele di Napoli, “L'Italia di Augusto e l'Italia oggi” in Augusto. Celebrazione nel bimillenario augusteo, a cura del R. Provveditorato agli studi di Trapani, Trapani); Cura di I. Kant, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza” (Bari, Laterza); “Il criticismo kantiano e la scienza moderna” (in Atti della Società Italiana per il Progresso delle Scienze); “Kant e la scienza moderna, in Archivio della Cultura Italiana, “Le basi teoretiche della fisica nuova” (Padova, Cedam); “Filosofia e biologia, in Sophìa; Recensione di A.V. Geremicca, Spiritualità della natura, Bari, Laterza, «Sophia»,  “La critica della scienza del Novecento” (Firenze, La Nuova Italia editrice); “Lo spirito come attività creatrice” (Firenze, La Nuova Italia editrice); “Il concetto di realtà e le scienze empiriche”, in Ricerche filosofiche. Rivista di filosofia, storia e letteratura, n. unico; “Vitalismo e meccanicismo nel secolo XX”; in Rivista di Fisica, Matematica e Scienze naturali; Versione, studio introduttivo e note di G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana” (Verona, La Scaligera); “La matematica nella critica della scienza contemporanea, in Sophia, L'ordine nel mondo degli oggetti, in Logos, Recensione di A. Marzorati, Spiritualismo, Milano, Bocca  «Sophia», La natura: Saggi filosofici, Verona, La Scaligera); “Croce critico della matematica, in Rassegna d'Italia; “Storia della logica delle scienze estate” (Bari. Laterza); “Traduzione, studio introduttivo e note di H. Poincaré, Il valore della scienza” (Firenze, La Nuova Italia); “La scienza nell'antichità classica, in A. Padovani (a c. di), Antologia filosofica, Milano, Marzorati); “Traduzione, introduzione e note di H. Poincaré, La scienza e l'ipotesi, Firenze, La Nuova Italia, Cura di La scienza nell'antichità classica. Antologia filosofica, Como, Marzorati); “La scienza nel Rinascimento, in Grande antologia filosofica, XI Scienza, natura e storia in Gramsci, in Società; Introduzione a S. Laplace, Saggio filosofico sulla probabilità, Bari); “Cura e introduzione di G. Bachelard, Il nuovo spirito scientifico, Bari, Laterza (Nuova ed. riv, L. Geimonat eRedondi, Bari, Laterza). Storia della logica delle scienze empiriche, Bari, Laterza); Le scienze naturali nella filosofia di Croce, Bari, Laterza Il pensiero scientifico contemporaneo. Antologia storica; Le scienze esatte e le scienze fisiche; Le scienze naturali, Firenze, La Nuova Italia); Il pensiero scientifico nell' 800 e nel Questioni di storia contemporanea); “Il millesimo anniversario della morte di Avicenna, in Rinascita, Il valore teoretico della matematica, in Atti del Congresso di studi metodologici, Torino, Torino, Introduzione a J. W. Goethe, Scienza e natura. Scritti vari, Bari, Laterza); “presentazione di A.V. Geremicca. Prefazione a A.M. Frankel, Le scienze naturali nella filosofia di Benedetto Croce, Bari, Laterza); “Cura di E. Bergson, L'evoluzione creatrice, s. i. t., Mazara (Trapani)  Le scienze nella dottrina crociana delle categorie, in E FLORA (a c. di), Benedetto Croce, Milano, Malfasi Editore, La critica della scienza oggi in Italia, Roma, Perrella); “Il dogmatismo religioso contro la libertà e l'autonomia della scienza, in Il Calendario del popolo, La vita nella dialettica della natura, in Società,  Recensione di S. Timpanaro, Scritti di storia e critica della scienza, con una avvertenza di Sebastiano Timpanaro jr. (Firenze, Sansoni  «Belfagor»); Recensione di C. Luporini, La mente di Leonardo, «Belfagor», La geometria di Euclide non è la sola possibile, in Il Calendario del popolo, Scienza e filosofia di Einstein, in Rinascita, Recensione di H. Reichenbach, I fondamenti filosofici della meccanica quantistica, «Società», Introduzione alla logica della scienza” (Firenze, La Nuova Italia); “I rapporti tra la filosofia e le scienze nel liceo scientifico, in Convegno nazionale di studio sulla didattica della filosofia I Licei e i loro problemi, Intuizione e ragionamento nella matematica, in Atti del Convegno Nazionale "La didattica della matematica nella scuola primaria", Roma,  Matematica e realtà, in Società,  “La teoria dei quanti nelle interpretazioni fenomenistica: del Reichenbach”; in VIII Congrès International d'histoire des sciences, Florence Milan, I, Paris, Direzione della sezione ‘Scienze’ del Dizionario Bompiani degli autori di tutti i tempi e di tutte le letterature e redazione delle voci: Albert Einstein, Luigi Galvani, Hendrik Anton Lorentz, Edme Mariotte, Carlo Matteucci, Emile Meyerson, Hermann Walther Nernst, Julius Robert von Mayer Storia della filosofia per i licei scientifici, voll. 3, Padova, Cedam, Sopravvivenza della prelogica nel pensiero scientifico e filosofico, Stabilimento Tipografico G. Genovese, Napoli, estr. da «Atti dell'Accademia di Scienze morali e politiche della Società Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti in Napoli»,  Cura di A. Einstein, Filosofia e relatività, Palermo, Palumbo, Pensiero e attività educativa nel loro corso storico, va. Palermo. Palumbo; La natura: Saggi filosofici, Bologna, Patron); Fenomenologia della superstizione, Roma, Editori Riuniti); Mito e magia, Napoli, Guida); L'educazione scientifica, Milano, Vallardi, estr. da La pedagogia. Storia e problemi, maestri e metodi, sociologia e psicologia dell'educazione e dell'insegnamento, diretta dal Prof. Luigi Volpicelli, La ricerca umana. Storia della filosofia, Palermo, Palumbo  Problemi del pensiero. Guida interdisciplinare per lo studio della storia della filosofia, Palermo, Palumbo, La teoria dello sviluppo in Marx ed Engels, Napoli, Guida, Lo strutturalismo di Claude Lévi-Strauss, in Critica marxista; Lo sviluppo dell'Antropologia culturale, in Genus, La "Storia del pensiero filosofico e scientifico" di Ludovico Geymonat, in Critica marxista, Il pensiero filosofico e scientifico nell'antichità e nel medioevo, Napoli, La Città del Sole (rist. del testo del 1963, con aggiunte di A. Gargano). Il pensiero filosofico e scientifico in età moderna, Napoli, La Città del Sole 2006 (rist. A. Gargano). Il pensiero filosofico e scientifico nell'età contemporanea, Napoli, La Città del Sole (rist. A. Gargano). Fonti Fondazione Croce, Napoli Lettere tra Croce e Francesco Albergamo e di Albergamo a Codignola, Gentile, Ottaviano e Sciacca, In Giornale critico della filosofia Italiana settima serie,  XIV anno XCVII, fasc.I gen. Apr.  Due lettere inedite di Croce a Francesco Albergamo,in Rassegna Storica Salentina, N.41, XXI.1, Giugno 2004, La Veglia ed. Carmelo Ottaviano, Recensione al Saggio di una concezione filosofica della scienza, in Sophia, a.V n.3, luglio –sett. 1937, pp300–303 A. Aliotta, Recensione al Saggio di una concezione filosofica della scienza, in Logos, R. Mck, Recensione al Saggio di una concezione filosofica della scienza , in Journal of Philosophy,  3Profondo cordoglio per la scomparsa del compagno Albergamo, L'Unità, G. Marotta, Renato Caccioppoli, la Napoli del suo tempo e la matematica del XX secolo, Napoli, la città del sole, Lettera di F.Albergamo a M.F. Sciacca, 2Centro Internazionale i Studi Rosminiani, Stresa, citat .  Francesco Albergamo. Albergamo. Keywords: il finito e l’infinito, idea de la scienza, Scientia, la scienza italica – la scuola di Velia – la scuola di Crotone – la scuola di Girgentu – scienza naturale – scienza fisica – fisica – fisica filosofica – scienza umana – scienza esatta – scienza empirica – anti-finalismo – meccanicismo – galelei – il liceo classico – parmenide  -- zenone – la scuola di crotone – girgentu – empedocle e i fenomeni – l’entita matematica alla scuola di Crotone --  disegno della storia della filosofia ad uso dei licei classici – liceo classico – liceo scientifico – Benedetto Croce – carteggio Croce/Albergamo – la logica della scienza – la non-sicenza, mito – superstizione – animismo – l’italia nei tempi di Augusto ed oggi – la critica della scienza in Italia oggi – lo spirito – lo spirito come liberta creatrice – meccanicismo e vitalismo – il kantismo – la filosofia della scienza – la metafisica – la filosofia nell’eta fascista – saggio filosofico sulla scienza – la natura – saggi filosofici  -- saggio su una concezione filosofica della scienza – scienza della natura – pitagora e la scienza della natura – fisicismo – naturalismo -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Albergamo” – The Swimming-Pool Library.

 

Alberti (Bologna). Grice: “I like [Leandro] Alberti; his “Tutta Italia” is a must; his claim to fame is to translate from Roman to Tuscan (no big deal there) what is deemed the first ‘daemonological’ tract – Mirandola used ‘ludificatio,’ which was vastly translated as ‘inganno’ or by Leandro as ‘illusioni’ – which has echoes with Descartes’s malignant demon hypothesis and my “Some remarks about the senses”!” – ‘Filosofo. Nato da Francesco Alberti, di origine fiorentina, fu condotto agli studi umanistici dal noto medico e umanista Giovanni Garzoni. Entrato nell'Ordine domenicano nel 1493, studiò teologia e filosofia con Silvestro Mazzolini da Prierio continuando tuttavia a coltivare con il Garzoni i propri interessi umanistici e storici.   De viris illustribus, Bologna 1517 Il primo risultato dei suoi studi fu il contributo che egli diede, in soli 18 giorni, alla stesura dei De viris illustribus Ordinis Praedicatorum libri sex in unum congesti, opera collettivacon il Garzoni, il Castiglioni, il Flaminio e altridi biografie di domenicani, stampata a Bologna. Nel 1521 tradusse dal latino in volgare la Vita della Beata Colomba da Rieto  Tenuto al dovere della predicazione, fu «provinciale di Terra Santa»cioè compagno nelle predicazioni itinerantidel maestro generale dell'Ordine, Tommaso De Vio e del successivo maestro Francesco Silvestri: con quest'ultimo percorse tutta l'Italianell'ottobre del 1525 era a Palermo e la Francia dove, a Rennes, il 19 settembre 1528 morì il Silvestri. È poi attestato, a Roma, prendere parte al capitolo generale nel giugno del 1530.  Negli immediati anni successivi rimase nel convento di Bologna, dove commissionò a fra' Damiano Zambelli le decorazioni da eseguirsi nella cappella dell'Arca di san Domenico e i bassorilievi eseguiti da Alfonso Lombardi, questi ultimi pagati dalla città dopo la richiesta in tal senso avanzata dall'Alberti. In quest'occasione scrisse un opuscolo sulla morte e la sepoltura del Santo, il De divi Dominici Calaguritani obitu et sepultura, pubblicata nel 1535. Un'altra sua operetta, la Chronichetta della gloriosa Madonna di San Luca, fu pubblicata nel 1539 ed ebbe altre edizioni accresciute dal contributo di altri autori anonimi.  Il 20 gennaio 1536 fu nominato vicario del convento romano di Santa Sabina, un incarico che non dovette prorogarsi per più di due anni, giacché dal 1538 è sempre documentato a Bologna. Fu anche inquisitore di Bologna probabilmente dal 1550 al 1551 o al 1552, anno della sua morte.  L'opera più importante dell'Alberti, dedicata ai sovrani francesi Enrico II e Caterina de' Medici, è senz'altro la Descrittione di tutta Italia, pubblicata a Bologna nel 1550. Ad essa seguirono in ottanta anni altre dieci edizioni a Venezia e due traduzioni latine a Colonia: nell'edizione veneziana del 1561 si aggiungono per la prima volta le Isole pertinenti ad essa, mentre quella del 1568 è arricchita dalle incisioni di sette carte geografiche. Opera di geografia e di storia, ricalca in gran parte la Italia illustrata di Flavio Biondo, ampliandola e migliorandola nell'esposizione e nella citazione delle fonti, ma mostrando scarso spirito critico, attenendosi egli «ai dati dei geografi antichi o, per la parte storico-antiquaria, ad autori moderni di dubbia attendibilità come Raffaele Volterrano o Annio da Viterbo: e solo quando vengono a mancare testi precedenti ricorre a elementi di più diretta esperienza [...] parimenti nella critica storica preferisce riferire insieme le differenti versioni, anche di tempi e di valore molto diversi, senza prendere posizione».  Opere:  “De viris illustribus ordinis praedicatorum libri sex in unum congesti” (Bologna); “De divi dominici calaguritani obitu et sepulture” (Bologna); “Historie di Bologna”; “Libro detto Strega o delle illusioni del demonio”; “Descrittione di tutta Italia, nella quale si contiene il sito di essa, l'origine et le Signorie delle Città et delle Castella” (Bologna); “De incrementis dominii veneti et ducibus eiusdem” (Lugano); “De claris viris reipublicae venetae” (Lugano). Universal Short Title Catalogue, Scheda delle opere di Leandro Alberti. Così scrive egli stesso: De viris, c.A. L. Redigonda, “Liber consiliorum conventus Bononiensis, Archivio del convento di San Domenico, Bologna. A. Battistella, Il Santo Officio e la Riforma religiosa in Bologna, Bologna, G. Roletto, Le cognizioni geografiche di Leandro Alberti, in Bollettino della Reale Società geografica italiana, Abele L. Redigonda,Dizionario biografico degli italiani,  1, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Descrittione di tutta Italia in Il Genio Vagante, Bergamo, Leading Edizioni,  Massimo Donattini , Il territorio emiliano e romagnolo nella descrittione di Leandro Alberti, Bergamo, Leading Edizioni, Michele Orlando, La Puglia nell'odeporica domenicana di fra Leandro Alberti, in Rivista di Studi italiani, ora al sito rivistadistudiitaliani La Puglia, introduzione e note al testo dalla Descrittione di tutta Italia, Michele Orlando, UNI Service, Trento, Liber Liber. Opere di Leandro Alberti, su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Leandro Alberti, Leandro Alberti, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Descrittione di tutta l'Italia su culturitalia.uibk. ac.at. LA STREGA; OSSIA, DELLE ILLVSIONI DEL DEMONIO. Dialogo composto dall’illustre e molto dotco Prencipe Segnore Giovanfrancesco Pico della Miradola, segnore e conte della Concordia, volgarizzato dal Ven. P. F. Leandro dell’Alberti, Bolognese, dell’ordine de predicatori. LE PERSONE PARLANO. APISTIO -- FRONIMO -- DICASTO -- STREGA . APISTIO. FRONIMO. Dimmi do juevacola cosi infreta caminando per la piazza ove vendon sil herbe tanta moltitudine di popolo. FRONIMO. No loro, ma andiamo anche noi un puoco, accio intedia mola cagione di tanto concorso, conciolia che puoco di no potra esserela perduta di puochi passi. APISTIO. Noi   in ver un luogo. FRONIMO. Di quale augello ragioni tu en. APISTIO. Della strega. FRONIMO. Tu giuog h i he Apistio. APISTIO. Pensa purche quello ho detto I ho detto no per givo con e periscrizzo, ma da dovero  Conciosia che debbia esser molto aggrado a ciascun huomo, ma maggiormete alli gentili e curiosispiriti, di conoscerequello, loqualeno hamaicon osciutolaantiquita. FRONIMO. Dunque tuteaffas tichi diuuolerintendere quello chenon ha inteseuerunos APISTIO. Dunque il timitacheiovogliammi persuadere diconoscerequello che non mai hanno volute conseffarede haue r e intero li huom n i gradi e molto litterati, e pur se l’ha a veranno inteso non appareinuer un luogo. FRONIM. Chi co far. APISTIO. L.oaugello Strega. Béchegiahabbia lettot CollaliinfamelanotturnaStrega.E coficonfeffadino sapere, di qualeger nerationedeucceglistalastregha. FRONIMO. Affaimi meraueglio chefendo tu molto dotto nelli Poeti, ficomea mepare cunonhai lettocomeeraconsuetudinenellitem pianti chi di esserscacciatofuoridelleporte & uscileftreghe cosa che seraanoi aggradeuole, perche sepuotra comput: tare in uecediuiuandenel pranso,quandoritornaremo. E forsi anchora ser amolto piu utile cosa chenon sapiamo, intendendo qualche nuouo secreto. Conciolia che am e pa te,etragioneuolmére istimo,fiapresa una Strega etiuieffer douecorre peruederla tantamoltitudinedipopolo.mesco T a t o c o n li fanciulli. APISTIO. Habitano in questi luoghi le streghe? O cercamente non mi serebbe grave di caminare diecemiglia, peruederle. FRONIMO. Hor su, sea dunque non m a i uedeftiueruna, forfihora fara satisfacco alla tua cu. riosauoglia. APISTO. sepur accadesse cheiopoteffi ci trovare coteftoaugellodam e contantodesiderio cerco,eno giamai citrouato Meftitia augurio infaufto edanno efpresso Peggio chel bubo annontia porge, etlega. Anchorpurhouedutonellantichemaledittionifusknomi nalalaStrega.Machecofasiaquella ediqual naturanon ficouiene.EtiftimaPliniochesiaunafauola,quello cheers scritto deltelitreghecioe che asciuccaueno collelabbra le p o p e delli fanciulli   Da uiciaticorpiaforzaegreffo. Er egliecoteftoluto offeruato pinsino dalli Heroici tempi.' Quellecosemimoueno che sono venuti nellithalamieca. mere delli Proci, o siano delli lascivi e molto libidino f i b u o , m e n i cosidicendo Ouidio . Procàildimostraqualesiaqueftoangue Chere-laceratoda questoanimale, Aforbeilsanguelaftregainfelice, Delle Streghe gia preda fortelangue, Puoco iluagitofanciullefcouale, Et chi ederspello agiuto allanodrice. bb ii conuna uergadispinobianco,ecome hannoqueda natu. ra,chesonobråminosiucceglicon ilcapo grandeliocchi fermi,ilbeccotoruo,epartedellepennecanute.colunghie rampinate,eperciocolisuolenoefferechiamatepercheha n o confuetudine di Atridere nella spauenteuole norte. Hor tu uediilnomela cagione diello,lanaturadiquella &ancho talafigura comeegliestaraifcrittadalliantichi. APISTIO. Ben intendo quelloturaccolima forsi sonodidiuersemanie re e generationi cotefte ftreghe,edi differente natura,c o n cioliachefedice,comenon fuccianocollelabralepopedi fanciullini, ma ch beueno ilsangue.Ilpche cofidiffe Ovidio Di notte ai fanciulliniuola spesso Empiendo il petto dellionoffiosangue Siprefto conlalinguainfatiabile, Chelsoccorso opportuno effernon lice: N o paionoatecoteftiofficiifrafedellestreghe,tanto diuer Se nontidimoftranouaria& anchorcontrarianaturaecó ditioner Erano ragioneuolmente da efferiftimatiquelliaus gel li misericordiofi, liquali faceuano Ifficiodellanudrice, ma quefti sonodaesserreputatigrandemêtenoceuoliema kegni dalli quali sono occisi li fanciullini havendoli bevuto il sangue.FRONIMO. Iotediro'ilueroaniipaionopiupre ftociascunadiquestecosefauolė,che altro.Mapurseuisiri trouaqualchecosadiueronellafauola iopenso chenosias nonatiquelliaugelline anchor che se ritrouano nell’inerf. Chalquinto giorno depuo fuo natale Perche quelli fallititolieuerfifiguranola uecchianelliuc.. celli.Mabenpensofuflifattoquesto conloagiutodelliDe. moniiiniquiemalederti cio echeliancidentiaugellihora appareuono in una forma della nodrice ethora dellainlidia triceE. questomaggiorméte am e lofa credere percheildi monio insegno il gioueuolerimedio contro delleincantas tioniemaleficii,perliqualieranoligatelementi delli huo . mincio n inganni,econ bugie,dicédofeefferGiano,uuole uachetreuoltetoccaffilioconlarburafrödaleporteetuscii cioeconlafrondadeunoalberosimilealcitrono &treuol tesegnandocon dettafronda le pietre chesono sottolain trata delluscio, bago ando la intrata con l’acq ua , e com i m a d a gaanchorsefaceslino dell’altre cose che non erano sagre, ma anzi a b o m i n e u o l i s a c r i l e g i i e p o rtéri, B é c h e a n c h o r d e q u e l leconfedica. Se poilinfantiperlanocteoscura Vesla ecilsangue elucca con l’esperti  Labrila Strega,etintalmodo leindura. Cosine tempinoftrihannoconsuetudinedifare le streghe, quando se narra che sono portare al giuoco di Diana. Guaftas no nellecune lifanciullininuouamente natiche piangono, dipoiincontinentiledanoligioueuolirimedi.Liquali, co m e ainepare,fonoinloroarbitrioepoßianzadi doucrlida re. Imperhomeritamenteegliederiuatoquestonome.Ca ciofia che queste crudeli e bestiali femine lequali cometter no tanta scelerita,anchorda noi cosicome dalliantichi có. uenientemente sono chiainate streghe. APISTIO. Hammi parccute inganni Fronimo pariméte inlieme con moltialtri,cte dendo efferuero,quello chescioccamentediceiluolgo,cio eche fononoloche feminuzze,lequaliuolanonellamezza notte alliconuiti, etallideletteuolipiacericarnali delle L e muriofianodellispiritidellaoscuranottee che coteftefer minuzze guastinocon incantilifanciulli.F R O N .Meglio potreste parlare Apiftio.Conciosia che non mai fe debbe di re checoloroerrano,liqualiapertamenteracontano quello che hanno con locchio dellaragionechiaro e manifeftono puochihuomeniben docci, & amaeftraticólacõținuaprati 1 caet .   sa etanchorfonoomatidebuonicoftumieuertuti. APISTIO. Io ti prometto cheno'e-maiftatopossibiledieffermiper fuafo queftoche tu di percoralm o d o che lhabbia creduto. FRON.Per qleragione,no teha poffuropsuadeiuecuno A PIST. P e r q u e f t ca ,i n e c h e p a r e u n a c o s a d a ridere, come fiapoffibicleh e fattoun cerchio etuntoilcorpoconno fo che unguento,in un'certo m o d o erdettepoicecceparole coun no fochemormorio fecógiúganodettefemenuzze incontinéte colli demonii infernali e che caualcanodinot. te souradiunolegnodettoGramitaconilqualesifuolecal fecrareillino,elacanoua oyerosaliscanosouradiunacaura o diuno beccoo diunomoncone,esiano portateper aria, eche trapallino li Spatji delli'uenti e ricrouanfe alli cantie ballidi Diana,ediHerodiade,E cheiui giocano,mangio no beueno,epiglianolasciuipiaceri-Puruoglioanchorago giungereunaltracosa cioechenonseaccozzanonelparla. re,ficomeho inteso conciofiache alcune dicono efferpors tatemoltoinalcoperaria,eraltrediconoappo diterraalcu ne confeffanodiandaruifolamente con la imaginatione e noncon ilcorpo,epoifermarsisouradellagodiBenacoo Hadi Garda,nellialtiffimimonti,uero e chemolto m i m e raueglio chenondicanodiefferefermatefouradellacima delmõte Micalainsiemecon Thalete overo sula cima del Mimante siano poste a caminare con Anaslagora, Ilquale c -u n n o n t e n o n guar i d i s c o s t o d a Colophon e da continue neuiaffediato, dacuifeconoscelatempeftadebbe venire. Altrecacótano de esser portate allo albero di Beneuétodet tolanuce,rebême arricordo.Ma qualee la cagionenosi fermano piu presto nelterritoriodi Arpino piuuicino(fico/ me iopenso) alla nostra regionecoueroportatealla Quer zadi Mario,etanchorfeno leparefaticadiandarepiudiß costo perchenon sono portateperinfinonella Cheronea alla Querza di Aleflandro Dicesianchorache hannoamo rosipiacerecolli demonii che non sono congiunticollicor p i r e i o n  oerro. Ma d i m mi un puoco Apistio, che toccame cipossonoessercotefti?Chepiacerisouerinche modo poffo no haueceamorosisolazziconqueftauana,efintaimagine, efeminedicarne: Ho letto come le larve oʻsianolenuo's ceuoliombre dellanorię e dellinferno pigliano piaceri colli' morti etche combatteno con effi, e no con liuiui. FRONIMO. Dimmi Apistio, seiosciorco tutteletue ragioni, fico me spero consentirai. APISTIO. Io ti prometto di cosenti re. FRONIMO. Egli e certamente cosa da huomo ragioneuole, e di sano intelletto, dilaffarsi muouere 'e guidare dalle ragio ni effcnipij,etdalleauthoritatidelli antichi,lequaligia sono con cómun sentimento confermate,edipoi quiuifermarsi ma moltomaggiornéte-eropera di coluicheedigradeinna gegno,echeha lógo temporiuoltolilibridellidoctihuome ni.Donqueseiocolletueragioniticonduceroa cosentirea quello decuihoratenemenibeffe,chefaraipoi? APIST. Che faro:Vimetterolemani.FRON .Pensocheancho , sauiinetteraiipiedi.APISTIO. Ma nongianelliceppi. FRONIMO. Deh non hogiamaicercaměte pensato co testo. Vero-e. chebengrandemece desiderocuintédique. fto,accione uenghinellamia oppenione,collipiedi,e cole mani,ficomedire sisuole. APISTIO.lononfifiutoquello chesperi,edesideri,sefaraiquelloche tudietprometti. FRON.A m e pareperilragionarehauemofattocaminan do,chetuseimoltodottonellipoetidelliGentili,etanchora affai siaornato dePhilofophia. APISTIO.Il mio Fronimo diquestohoranomiuogliodareiluanto cioeche beninte dali Poeti et fia dotto nelli parlari . C o n c i o f i a c h e e g l i e m o l tomaggiorelacognitioneadouereintéderequelliper co ialmodo chesouerchialeforze decoluiloqualearrogáte? mente alcunauoltaselauoglia attribuire, hauendopuoco ftudiatoinesli, ethauédolipuocapratica. Ilpercheegliegra demente necessarioa coluiauoleintendereefli poeti e philosophi, diconoscereetintenderenon triuialmenree grossa, mente la l i n g u a greca e latina. E t a n c h o r e g l i e b i s o g n o d i hauere ben intese lifecreti,esentimenti extratti fuori delle crerario della philosophia. Delliqualisonoornatiebenue ftitili poeti emaggiormente Homero. De cui,ho udito che fuillustratoetaddobbatocon grandiCómétariidaAristo. tileetanchora dallialtriPhilofophidelladottaschuola. Anchor   c h o r h o i n t e s o c h e s e sforzo il Plutarcho con uno molto grande libro di attribuire ogni scientia, ogni arte, e finalmente ognicosadiuinaethumana,aquellociecoHomero.Ilperá cheionegoeffereinme quellacognitione perfetta,sicome tudi,m a no nego pechoesfermiessercitatoalcuna'uolta per piaceredellanimomio inleggere quelli,licomeiocercaffi lacognitionedellelingue econquasileggermētebeuendo qualchi amaeftramétigioueuoliallicostumi,etanchora ac c i o n o n fufli riputato ignorante, fra li amici e compagni , o c curendola occafione.Cosi senóho beutalargamétela philosophia, de cui se dice che -e nascosta in detti a u t h o r i a l m a c o (l i c o m e d i r e si s u o l e ) I h o t o c c a t a e g u f t a t a con l a l o m i t a dellelabra. FRONIMO. Io credochetusiaconduttonon dalla arrogantia ne anchor dalla fimulatione,m a solamen tedallauerita.Laqualeuertu ecollocatadaAriftotelenel m e z z o fra ğiti uitii.Imphoche dimostri di n ó effer ignorare ne anchortutiuátidisapereognicosa. Ecosiquellecosehaj dettodellanotitia ecognitióedellipoeti nó fon discoftodal lauerita. CóciosiachePlatoneetAristorelesonopieniditer ftimoniidiHomero,diHefiodo di Simonide, Pindaro,E u ripide,edellialtriPoeti.Ilpercheiodubbiro affaichetu lia molto dottonella philosophia decui pare non molto inte diedimoftridinonsapere.E cosiho istimationeche dis mostrarai molte cose chesonodategiamolto tempo con gregateinfiemenelfinedenoftriragionamenti,lequalidi. mostrihoradino sapere. APISTIO. Io te diro, come sono alcune cose che qualche uolraci sonofuto donare dalla natura leaza uer uno studio o fiano uertuti, ouero altre cose,fi come prencipiidelleuertude. FRONIMO. Non per que, Atosonomacatodallamiaoppenionem a anzihaitu posto inme maggioredubitationeconcoreftatuarisposta.APII STIO.Chehaicudetcos'FRONIMO.Iohodetto,e dir Co cbe ragionocon uno Philosopho.Vero eiche meglio allhoramicauaro questafantafia,pigliando prencipio imi perho da quiui,cioe se uuoi promettere di responde -- re a quellecose,dellęqualiho desideriode interrogarti, perlequalihauemo comenciatodiparlare.ĄPISTIO.Io  DELLE STREGHE 8   to matrimonio  prometto de responderti liberamente. Horlu addimanda. FRONIMO. Dimm i il mio Apistio, hai tu giamai letto in Homero che anda li e V l y f f e alli Cime r i i s. APISTIO. Si. Et anchora ho lettoinchemodo andodaquella gére chefa ua nellaariacaliginofa.cioe che erasenzauiada poceruien trareiraggidelsole.FRON .Dimmeseltepiace,checol lafeces. APIST. Hoaffaicole.FRON .Nó leggiamoquel leparolediessoingreco,lequalihoraledicoinnoftrouolga' re cosi.lo fu quello che cauai fuora allhora allhora ilcoltello dellacosciasecominciaidicauareconilscarpellounafofla, allamisuradiun gomito,indiequindiincerchioetancho rainfundeililibamini,cioelifacrificii,colleumbresAPIS. Tu hai molto egreggianiétedechiarato il sentimento,eno manco ageuolmente isposteleparole. FRONIMO. Credo habe bilettono una uoltam a louéte ligiuochidiDiana,eliballi collecompagne Nymphe.APIST.Eglieuero,etu non re inganniapunto.FRON .Anchoriopensochetuhabbiri, uoltoquelli libri douesonoscrittiliamorosi ragionamenti, erlafciuisembiatide Anchiseconlaimpudica Venere eco 1 ·me fufferogeneratimolti Baroninellitempiantichidicote AtifallacietingánatoriDei.APIST.Etanchoraquestosper seuolueholetto. FRONIMO. Tu debbisapercome queftimal uagi Dimonii ingannaueno con merauigliosi huominicheerano deditialleopererufticaliepastoralisico me eracommunamente lauitadi quelliliqualifurono rie trouati nelli tempi Heroici.CosianchoraingannoilD e m o nioPeleo pastorepadrede Anchise,conciolia che effo fico me diffecoluilaffolagreggedelli porcielarmentonógus cidiscosto dallemura inuna ombrosa ualle forto laimagin ne dellaThetide dea marina.cosiiftimatadalle genti.Et ac ciomancoseaccorgessedelfrodo glifuin SEGNATO dauno altro frodulento demonio uno delli Capitanii Grecichiama to Proteo con il qualepigliarebbe There madre de Achille la qualedimostrauafiincentofigure.Ma benuedieconfi dera uno altrofrodo,con loquale grandemente inganno, cioeche non dimost.raua di uuolere commettere iltupro, n e a n c h e l o a d u t l e r ' o , ma fi n s e d i u g o l e r e c o n t r a h e r e i l l e c i. di quelli  to matrimonio, Loquale con suoiuersiegreggiamere carito Hesiodo, ficomeseuedenellescritturede Greci.Ilpchepra babilméte dicemoeffer da quiui deducto ,cioedallo effem . pio diHefiodo,loEpithalamiodi Catullo.Ilche anchorr dimoftrailtenoredelverso,chiaramétedemostradoquella ancica facilitaetquestodechiarailcontinuo e sollecito ftu diodi CatulloiseguitareliGreci,pcotalmodo che ispreffe leintegreElegiediCallimacho,alcunauoltarendedoilsen timentoetaltreuolteisprimendoleparole.Anchora inganno per co t a l v i a il demonio facilmente Paride, focto figura di quelle ore Dec. Il quale fi come scriffe Colutho Thebano nellibrodellapresadi Helena, nosolamentepafceualeper corelle del suo padre,ma anchorliTori,eptalmodofeue ftiuadelleueftimentechepareuàunrozzopaftore etigno fantebifolco.Lequalicose,ampiamentecon sue scritture quellolerecita.InquestomodofeceinuisibileilDemonio quello Lidio paftore regale,con lainuersapaladelloanel lo.cioeconquellapartegiacesottolagemma,epretiofapic tra,ma ciuolta,conlaquale Atupro ecomesseilpeccatocon la Řeina.Il perche pigliauono liDemonii uariee diuerfe fi gure alcunauoltadelle Dee,che erano uolgate,altreuokic leformaucnoineffigiadelleterrestreNymphe efouerere presentauenolefiguredelleDeemarine.Epercheeracredu c o c h e s e nascondessino, con il suo ingegno sotto le unde del e tacqua accio puotessino effer ucdure etpiu fortemente abr bruggiare licuoridellimiserie ciechj huomeni,ftauanoa p po delliprofondiluoghi dellacqua doue dicontinuoper driuoltarediquellacuisiritroualacandidafpumaet iuipa teuafussero appodellenodrici,doue eranonudrigateda güelletAnchora appareuanocolleimaginifintedi nuvoli, fi c o m e fauolefcaméte raccontano appareffe Giunone ad Tin one,De cuifingononascelliilsuppositiCoérauro . Cofifin g o n o d i c o s t cu i i o c c ħ I f f i o n e p p i e t a d i G i o u e f u f f i t r a s f e r i t o necieli,efussifattosecretariodiqllo,etpõstoufficio hauefli ardireditécareGiunonedelftupro la qualela mentadosicon Giove uimando adIlioneunanuuolaafimilitudinediGiu donc.conlaqualegiacedoIrionc,ecredendosi dipigliare co amorosi piaceri con Giunione, ne ebbe li centauri. A l e r i demonii apparecchiaueno prestigiicioefalsedemoftrationi, illusionie incantarioni,collequaliiogannauenolegenci, popoli, etinescaueriocondoppiafrodeilcozzouolgo,ecan choralidorcihuomeni.Ecosinonlaflauauerunocoloreet imagine della diuinita (la quale con diuerse menzogne e bugie sifforciava di usurparlaetafeattribuirla)conlaquas le'noncostringeffeilcozzoetignorantesecolo,afarsiadora re,etanchoraleciïauaconlalasciuia.Cóciosiacheeglie.cee to che anchora eglivergognasseDiana,laquale fugeuadi amare lauerginita accioforfitirassiasesllihaueanoiodio la fozza libidine. I dl e c u i gioco, havemo scoperto in di forccio del demonio. EcosisottoilnomedellaLuna(laquale senza uetun dubbio chiamauefli Diana )raccótaueno fuffi fuergognata da Endimione,eda Hippolyto licome dimot AtraFirmiano,fotto il nome di Dianailqualepensava pers r e n e s e a q u e l luogo. E il nome di V i r b i o c i o e d i t r e u o l t e huomo elaleggemolto diligétemente cercata,doue fedo ueffe ponere,elemani medicheuolidiEsculapiocheporr Sino agiuto alle piaghe debbost credere fuffero tutte queke lecose fauole etillusionidelliDemonii,epurfeuifuffe qual che cosache pareffeinuero fuffiftara iltuttofedebbe pene Sareesserefattoperartemagica delDemonio.Vero-e-che Efculapioalfinefupoipremiatoconlamercede epremia delliincantadoriche/elamiserabilemorte.Concioliache eglienarrato da tuttiliantichiauthori,qualmente fuoce cisodalfulguro,benchefianouarieoppenioniperqualecat. gione,e per quale sacrilegio, fufficosi crudelmente Occio. I APIST .Dice Vergilio checosifufliocciso,percherefufciso Hippolycodallamorte.Nonfajcu cheduolendoHippolyco fugire dauanti da Theseo suopadre infuriaro loquale cerca uadeucciderlosendelifalsameceaccusatodallamadregna Phedraetsendofalitosouradellacarretta e(pauêtatilicat ualliperlimoftrimarini,ficomenarra Seneca,cadėdofuoci delcarroploimpito,etracciatoemorto,sendoitoneline ferno fu resuscitato,efanato da Esculapio Veroie-chedice Plinioche cosifuflipercoffodalfulgureEfculapioe r cagio nediCastoreedipolucefigliuolidiTjidareRe di Oebalia   q u e l l o chescriue Tertulliano,cioechefur & arfo dal cielo Esculapio, perche biasimeuolmente hauea effercitatolamedicina.E cosiritrouiamomolto maggior us dietanellanarrationedicotefta cosa chenellamorte diR o molo.Maegliebenvero checiascunodiloro,e-ftatoreferi, 20c computato fra gli Dei,benche coftui fuffe uno ladrone, e quellaltroun mago erincantatore.Vero -e-chemoltopiu mimaraueglio digildo, e cuihorauoglioraccotare,cioe che nó ben péfaflılifattisuoiquelgradehuomo,ilğleerasoftēta toetenatocórâreifperedaun certogrăprencipene giorni d e noftri agoli che le ubrigaua di far  . FRONIMO . I n altrom o d o scriffero Panaiaso,Poliantho, Phylaccho,eThelefarcho Anchoraltcidicono p altrecagio nifuffeoccifodalceleftialefulgure Esculapio. APISTIO. Deh n o ti siag r a u e d i r a m é t a r e il cutto, i m p e r h o felti p i a c e e t u ti ricordi.FRON .Io son côtéro.Furono alcuni,liqualilcriffe tochecofifpauêteuolmétefuffeucciso percheresuscitoTyn daro eno lifigliuoli,Vero:e-cheStaphylodiceno fuflire fufcitaroueruno da Esculapiom a ben -e-uerochefusanato Hippolypo chefugiuada Troezeneecofipquacaufa, fufli percoffo emorto dalfulgure. Ma Polyanthoscriue che cosi fuffiuccisopchelibero lifigliolidi Pretodallasciochezza. E p u o l e P h i l a r c h o e f f e r l i c i o i t e r u e n u t o p c h e a g i u r o li figlio bdiPhineo.Ma fraquelli cħ háno voluto refufcitaffeimorci alcunidilorodicono cheresuscitomoltidiquelliche furo noucefinellabattaglia eguerra diTroia. Etaltriscriueno che resuscitaffede qlli chemancarono nellaguerra de T h e bani.Egliebenuerochenó cimanca Telefarcho,chedice c o m e fuffe in tal m o d o percoflo ,perche se fforzaua di r i u o careallauitaOrione nolorefuscito imperho.Anchoreglie moltomanifefto uedere la guerra etan chor la battagliade Ilio, e di Troia, e tuttilimodi delcome batrer ioisefece.E cosi designado ilcerchio ,accio demostra Bidouiandarono,ecobarteronoThelamone e Peleo figlioli di Eaco.c doue Olyffe,collialtri Troiani,fu portato dal De: monio ,egiapiunó cóparfe inuerun luogo.APIST .Turac contimarauigliose cose.FRON .Sono certaméte marauia gliose etanchor vere. Dipoiquelloprenicemádo indiuerfi: CC  cuaniluoghie paeli,etanchora'per infino nellaGermania etanchoradiroequefto etdouenonmandoépercercare guelhuomo:Horlendopericolatocostui,uêneincoteftono Aroeccellete Caftello uno dellsiuoi discepoli,chelaffoliues ftigiidelle sue malgradeuoli e diabolice opere perinfinoallo noftrigiorni.Concioliachedesignaualaimaginediquella chehaueafattoilfurto,etdimostrauelaa colui,a cuierano Aatorobbarelesuerobbe,nellaincheftaradiacqua,osianel kaamola,cocertifacrilegii.e fuperftitioni,etiujlefaceuauc dere la figura iueftimenti con tuttiim o d i erano fucoserua. tiinrobbarequellacosa.Joconobbiunodaluimanifeftato, ilqualehauearobbatoleámolette ciocalcuniremediicon troliueneficii,econtrodealorimali etoccultamere Shauca portatoa casa,efecretamenteferratinelcophinonon lofa pendoueranapersona.Emi ricordodel tempo pelquale la fciodettesoperftitionierinego lartemagicaS. e caminaffis mo insiemediecegiorni,pareamenonsarebbonobafteuo bidaisprimeree ramentare quellecose,lequaliho osferuar to enotatodellemanifefteinfidicdelDemonioneanchor ferebbonosufficientidipuorerenarrarelimodi,cheofferus elloperingannarelhuomo.Ilperchemericamenteie chiar mato Saranaffo.Conciofia che sempre fu,e,et fara nemica dellhumanageneratione,cosiincuttelealtre cose,come in quefta, decuihoggi hauemo determinate di ragionare Quantoalmodo chedimoftradipigliarecarnalipiaceriio l e d i c o c h e q u e l l o l o v u o l e n e g a r e ( si c o m e c o n t r a r i o a t a n u vidottiefauiihuomeni Jiquaidiconobauerloconosciutoda quellichelhanno isprimentato,etanimosamente teftifica no dihauerloudito)e-riputatoftoltoepazzodafanto.Ago itino il qualescrise con ieftimoniidi coinufa a m a nel quintodecimo libro della CittadiDio,qualméresonostatoritro. HatifouentedelliSelaaniepergersiFauni faftidiofialledon De,chiamatidaluolgoIncucbbiioe chesefforcianodico metterelafozzalibidineinfiemecolledonne etchesonori trouatidiquellichehannohauutoilsuodesiderio,pigliado. ne amorosi piaceri con effe. Et anchordiceche sono alcuni alori demonii chiamati da Galli Dusiiliqualidi cótinuoco g r a n d e i m p o r t u n i t a t e n t a n o le d o n n e p e r h a u e r e l a f c i u i p i š  ceri, efouêtenedcuenenoalcocentodellilorobrimatid e fiderij,ecotetidanoifonoderijFolleti. APISTIO.Tiprie 80,feguitapur olera, FRONIMO . Horquantopettenne aluiaggiofannoper aria credocheanchor habbia udito (cc c e t o se tu non l’hauer a j letro) co me n e u e n n e A b b a r e n e l l a Italiafouradiunavolátefaecada Pythagora, perinlinodal lo HyperboreoTempiodiPhebo.APIST.Ne ancheque fto-e dame narcofto cóciosiachelhoritrovatoscrittodaun certo Philosopho Platonico. FRON. Se bentutiramenta taiqueftecole, facilmerecrederaile altri.Ilperchetu debbi Sapere qualmente comenciaffe cutiaquella Necyomátia di Olyffe,dalcerchio,cioequellaartedidiuinaremediãtelicor pi morti.E cosifacilmentepuo conoscerenon efferecosa nuouaqueftifigmenticfittionidifarelicerchi,m a anzifos no antichipreftigii,cfalse delusionilequalianchora hanno cercato di seguitare li Poeti Latini. Cóciosiachesefinga Scipion c c a u a r e c o n il f e r r o l a c a u a t a t e r r a a l t r e ,etutte qucile cose che seguitano,adeffempiodiOlyffe.Quanto alliragio namenticolleombreo sianocollispiritiiotedico chesono molto piuantichi che fufferoritrouatida Homero .Ilchef a cilmente quelli ilpoffon sapere, liqualiconoscono fufferorj trouatiliuersidiOrpheop queftacagione,econosconoco m e H o m e r o h a s e g u i t a qt ou e l l o non solamente in nominare Tyresia ma anchora ha imparato essi nomi congranfole lecitudine econnonmenore offeruatione.Ilpercheferiue GiustinoMartyre,come furon composti escrigriliprimiuer fidella Iliade ad esempio delli primi uersi di Orpheo , liqua Jiera noi ntitulaci di Cerere. E coliconuarü riti, costumiciof feruationiogniunodesiderayaecercauadihauercópagnia familiarita eragionamenticollimorti,per cotalmodo,che dipojera detto come quelli scende vanto giu nellinferno . che narrafi interaenefiaPythagora,poilògotempo dopo Orpheo etHomero ,edicesicome uedessejuinelloinferno JanimadiHefiodo,ediHomero,cheeran tormentateper quellecosehaueanoscrittodelliDei.E pqueftofediceche fu grădemete honoratoe reueritodalli Croroniati,etancho sa molto piuperche racconto dihauere ueduto efferui gran 1    demente cruciati,e martoriati quelli,che refiutaueno di pigliare amorosi piacericolle sue dolcimogliere.M a q u a n to atrapassare per ilfpatio dellaria,ionon fo in che cosa dubiti, ouero p e c c h e t u li m a r a u e g l i. Con c i o l i a c h e a m e parc non importa,febene misuri lepenne delliuenti con una laeta o con uno scanno ,ouero con una caura. Non fe dice in qual m o d o fuffi portato Pythagora, o Empedocle, neinluunocarrodaduerote,oda quatro,o dauno alatoPegaflo oda Dragoni,oda Olori,accio seguicaffeVes nere,Medea ouerofulficondottoconduiserpentisottoil giouo comecòduceuano Circe,ocollilioniamodo diCya bele,o.colliLynciadessempiodiBaccho,ouerofuflitcapor tato in altosouraEuropeelaterra Asidafecondo lacoluetų dinedi Triptolemeo,acciochequellofusliportato lauorato redelle fructa, e questo coltore della philofophia, m a inueco furono amenduoiingannati da Pallade cioe dalla astutia e melitia del demonio. APIST. E c i o m i r i c o r d o d i h a u e r e u d i t o narrare feno meingāno ,diSimonemago ,ilqualeebbe are diméto diuuolereandareperaria imperhoinsuamalhora. Conciofiachedesidetandodivuolersaliresouralaria.c fina gēdodiuuolereascederenellaltocielo,ecosisendogiapore catomolto inalto dalliDemonii,percomandamétodiSan toPietroapoftolfou laffatouenireconrátaftetagiu interra d a dettimalegni fpiriti,chrópedofi tutte loffa,fu Ioétedella, uita.FRON.Ě forlianchehai udito dinon so che Ethiopili quali haueanoinusanzadiimporeilfrenoe labrigliaalla Dragoni, edipoiseggédosouradellaloro fchinaueneuano inEuropa.Cosisediceeffernarratoda Ruggeri Bacchone. Ma purcrcdaquellouipareilprudente edotrolettoredi questa cosa accio tu n o pens uoglia ramétare liuoli di D e , dalo , liquali se n o s o n o s e m p l i c e menzogne, sono al m a c o c r e duticomefrodiet inganni del demonio eta nchorajotaci in che modo sparue Apollonio Tyaneo, dalla presentia di Domitiano Cesare. Oltro dicio fetu confeffi fuffero appo, delli antichi lispiritiincubi e succubi,cioe che si d i m o f t r a p e n o i n f o r m a e f i g u r a d i m a s c h i e d i f e m i n e d, o n a n d o amor tofielafciuipiaceriimodo diciascuno feflo allimiseri mor   Y tali    c o n certiunguéti, accio appareffe a led vero alli altri che fufferotraffigurate e c o n uerfeinunaaltrafiguradiffimiledallaprima.Ebenche,co teftohuomo dotto,fingeffediessere trafinutato,non perho dicefufficóuersoinuno uccello benchehaueffeufato quel® lamędememedicina. Ma bugiardamente narrafufftramu tatoiunoasino. Anchor dicecheebbe gran cordoglioquel Ja femina, dubitandoperloerrorehauea fattoinpiglia: relabuffolettache fufficangiatoLuciano inunoAlino.Il perche dimoftroe non effereuarialaeffentiadella cosa,m a lilaimagine.Etelloconquestochiaramente ilconfermo, econfettoche fendodiuenuto Asino, hauearetenutolame te,elintellettodiLucio.Etanchotanó edaistimarechegli ueneffeinfantasiatalesopinio cioeditrasmurare la forma f e l non fuffi f u r a c h i a r a f a m a c o m e c o t e s t e c o s e e r a n o m o l t o inufanzaappodiquelledonnedi Theffalia,ecome elle molio fe delectaueno letefsercitauenoineffe.Non lo con fermoanchora quefto, quello Platonico Apulegio,chepoi boseguito:fingendo diessereprimaitoin Theffaliaauanti  tali perquale cagione non uoi credere chesiano anchora fimilifpiricipenoftritempiscóciosiachecotestosecôferma có tálietátiteftimoniicliqualiioglicamétaro,feltipiaceras Quanto allunguento,iocredolosappi,perchediffusamen tenehascrittoil Syro Luciano el africano Apulegio, uno in greco e l’altro in latino, Eco s i s e ha queste cose i scritte da l u i. Dunque cheuuoledirecofiquellocophinetto,e quelletan te buffelette equellooliodiquelladoma p u o c a iftima nella sua conuerfatione : D i p o i esfo m e d e m e authoreledichiara dicendo.Incontanentefuunta delluny guento,fufattaageuole dauolare.Edipoifoggionge. Dop po puoco spario di tempo non douento altro cheuno cor, u o da norte.E cosi pareua aquelli,liquali guardaueno,00€ tofingeuano diguardare fuflidiuenutouncoruodinotte. I o n o n m a i c r e d e r e i, c h e u e r u n o f e p o t e f f e t r a f f o r m a c e d i una specie dicreatura in una altra osiaper uirtu de alcuno unguento overo per incanto magico. No dimenoy uoleuano quelle sreghe effecuedute ungersi decuine fatto fingeffe diefferueftito diuna nuoua forma sendo priuo del laprimarSedricamenteioreferiscoleparolediquello cosi diče.pigliaanchoraunpuocopiudellunguentoefatte& c. Et assai alcrecosescrissenelle quali parecotuttiimodiquafi habbia uoluto seguitare ilSamosateno. Cóciosia cheha fato tomentionedelloThebalicomormorio dellolio trasforma uadiunaformanellalera edelliremediidellecosecontrodi quegli incatiliqualifaceuanoritornare lhuomo alla prima figura.APIST.Perqualcagionecreditusiafattomentione diquellemedicinedicose lequalieranoinagiucorio,econ. traquelliincanti,efrodimagicedFRON . Segliepurcosa uera egioueuolein questemedicine,penso siapreso daAri. fotele.Nelleoperedecuiholettcohe e ripostofralemera uigliosecosecomee cosuetudinechemuoionofacilmeteli Aliniperloodoredelle rose.IlchesapendoLucianoeLucio finseno di mancare dallaformadellalino,de cuiprimaha? ueano fintiessernefigurati.Oueroforse egliequiui nascosta unalcracofa magica. Eglieda saperecome gia grandemens t e e r a n o infamate le donne di Thessalia e d i Thressa, che fa . ceflino delliueneficii e dell’incanti, et anchora era detto che fussi condutta la luna e m e nata secondo le piace u a colli u e r sida quelle, e chiamatelefiffeftelledelcieloilche anchora cracoftume delli Sabini ficomescriuc Oratio , etokro di cio diceuasifufferoinspiratedaBaccho eteranochiamateMis mallonecioeseguacidiBacchoporradolecornasicomefa ceua ello,etanchoraeranodecreAdonidee furiauanocollo complicate ferpefrali Thyrliconillusioni magice, etincáti, prestigii Et erano tenute in tanto honore e veneratione che uuolsiintrare nella compagnia di quelle la Reina Olympia madre delgrade Alessandro.loistimoforseche quelle cose paionobugie Quotrebbenohauerpresoprencipiodaquale c h e fimilitudinee colore deluero.Pare anchor cosa piu pro babileche haueffono qualcheaccrescimentodadertiprodi güemerauiglioseopere de demonii non senza qualcheue rofondaméto dellauerahistoriacoloratoer adombratoco molteuanitatie fitrionichedallifonniilicomee scrittoda . Synelio ilqualeuugleua haueffonohauutolefauoleantedit  1 tecCOG    m i ricordo il qualesefforzodidimostrarecon grade ingegno inchemo do haueffonolamaggiore partedellefauolefermo fonda mentodallahistoria etanchorafforzofididimoftrarecome dipoi fufferofuco fouente ampiate in maggiore cose effe fauolefondarefouta dieflaueritadallafalrafamadelcozzo vuolgo.E coscredo iofcriuefleVergilioquelperso: L a dotca carta teftese di Palephato .  1 ilSole confinteparoleeconaflạipersuafioni,dauaad inte.. derealledonne di Thessalia, l equalinointēdeuanosimileco. 1 ! 1 fimilifinteopere,ouero dagrande aftutiae faggacita.Ilper che fu uno Greco chiamato Palepharo fe beu teecofilialtii,daeflisonnü.Ecertamentenon sarebbe itaa to alcunäcánto brammoso di uolgare e manifeftare quello cose, chefufsero hauute e uedutenefonnii,licome ueduce fuoridel somnio collequalifufferotantotirauefforzatilhuo minidimerauigliarsi. O quátofonoliueneficii,maleficiiec incantationiramércate,iscritte, enátrate coli dalli Greci.co me dalli Latini, Percia da Vergilio-e-dettodiquellaantifti teefacerdotessadellastirpedeMafsilli,laqualeprometteua disciorelementidellihuomenicolliuerfi,cioedifarlifarefi come lepiaceua, etdifarefermare lacquane fiumi,difareci tornareadietrolipianetiedichiamare,etfareuenireafelc notturnemani cioelispiritidellanotte.Anchoraperquesto senarranolemedicineerincantidiCirce,diMedea diCar nidia,equellealtregenerationidiueleni,lequaliconduco. no lhuomenialpazzescoamore chiamate da Theocrito Si cilianoPhiltre di Simetha ecofida luiscritte,loquale regui, to Marone ne fuoiuersi. Puo efferche douiamo pensare che fianotuttequestecose finte senza uerun fondamentos Ver toechemiramentodhauerlettonelPlutarcho,quellafauo lacon gradeingenoe segacicaritrouaradiAganice diThef falia, laqualenarracome conduceuaasuauoglia laLuna. Ma cosi era la verita, chequella conoscendo la cagione che la Luna horaeraritondahoracornuta, ethorapiuno seue deua, perlainterpositionedellaonibradellaterrafraeflaet facomelecoduceuainquel tempo la Luna interra ficome: lepiaceua. Ecosidiconohauefferoprincipio lalorifauoleda Veramente eglie molto chiaro qualmenteochelhuomeni eranotramutaticolliincaptieueneficiiindiuerse figure sig c o m e bugiardamente et anchora scioccamente parlaueno alcuniouerocheappareuonocosi.Ilpercheparenonsepose finegare senzaqualcheAtoltitiachealmancoquellinonpa refsonoaleoadaltriefferefimilecofa.Non tiraccordidi quello che tanto chiaramente se dice delle figliuole di Prei t o cioe che impieno con falli m u g i t i e u o c i d i animali li c a m pifet hauer havuto paura dello aratro, eta nchora hauer,cer cole cornanellaleggierefronterCofice-narratacorestafas uola;Come furonotrefigliuolediPreto,lequalisendogia : nelfioredellagiouentueconoscédoseefterbellissimeintras.o nel Tempio diGiunone,spreggiarnolaDea Giunone, cipucandosieffer piu belle diquella perilcheadiratala Dea ai miffe tale folia inesse che le pareua fulsero diuenute in formadiuaccheilperchehauendopauradiportaree con ducereloaratro fuggirononelleselue.CosinarraVergilio, c o n i l testimonio di Homero, ma Ovidio dice in altro modo cioechecosi diuennene nel furore e pazzia,che glipareus dieffer douentate uacche nella Isola di Chea, perche haues no consentitoaquelli haueanofurato alcuni animali dellar) mento di Hercole. Lequalidipoifuronoreduttease,etui suilluminatalafantasiadaMelampo, ficomefuLucio con la rosa,m a dicono alcuni altri che furono fanatee ritornare allaprimafiguradaEsculapio, siacomesi uoglia, cosiegtie narrato uariamente.Vero e-oche intraffinoin fimilifurie pazzie, o fufli per ira opera del demonio, overo pe t qualche corporale infirmita ritrouolantichita a quelle gios ucuoliediuerficimedii.M a tu debbe faperecome bebbero liDemoniiuariie'diuersimodi,eranchoracótinuideingan narelihuomeni, in quellitempi,nelliqualiteneuano loim perio quali ditutto ilm o n d o ,e non solamente per lifacerdo dietAntiftitidelliTempii,cperlioracolierefpoftededi Ido lictimagini,m a anchora ingannauenoper mezzodeals çunedonniciuole inspiratedalfalsoPichia,et fraudolente Apollinc.E cosipercotcftimcoodinduceuanoglihuomen afare ftupefattiemaraueglioldellelorooperationi et ins.  uiluppauono   YA ma non gia con quello il quale seguito Varrone nelle Satire. Conciosiache quelloLitio-e-moltopiu anticodicoteftoálcro Menippo. Be n c h e s o c h e t u i n t è d i q u e l l o s i g n i f i c a L a r u a p u r a n c h e io i uoglio ramentare,per parere disaperlo,etanchora per raj zentarlo lecosihora horanon te occorrefi:Sono Larue mooceuoliombre dello inferno,ouero ispauenteuole scon bodellanoue ele Lamieeranochiamarealcuneimagini efpiripimoltibrammosidelafciuiamorie fozzipiaceri,es mche grandemente desideraueno dimangiarelhumana arneV.edimo chefauoleeranocotefte.PurdimmiApi nonpaionoatecotestecoseche hauemo narrato s o p r a molto similia quelle delliquali longamente dicesi dellemaluagie Streghe dellanoftra etades APISTIO J n neticaame paionoquasisimili.Iiperchehoraoccorrono a me quelleparoledellanticafauola cioeLaruaLamia etIn cubicongutellodiersodi Ausonio.  a l a p p a d o n o quelli nelle precipitanti rouine delle scclerita , defotto colore della sagrata religione.E perciopigliauono Qaric formeediuersefigure.Colisepuouedere econsider rue Protheo figliuolo dell’Oceano appo de quasituttiipoet p.loquale ledemoftro in formadiuariifimulacri efigure, ficomediceVergilioconloteftinioniodiHomero,cioeche fubitosufatrohorrendoporco efuriosa Tigre, squammolo dragone,et una Lioneffa con lafuluante egialda ceruice molte altre coseramentanodilui,che lafloperbrcuita'. mente appareueno quellieccellentiBaroniche furono oce siliad Ilio alVinicore.Coli anche liramenia in che m o d o agparessead ApollonioTlaneouna fantasmaouetoappal tente figuradellaEmpusa,cioediunacerta generationedi Larue o fiaspauenteuoleimagine auuotara a Diana,cheua no,licomesefinge,conunopiedee conuertonseinuariefi gure etalcunauolcaincontinétechesisono rappreferiate fpareno,epiunon feuedeno. Anchora dicesicomehauesse conuerfácioneuna Larua,ofiaLamia,forrocoloredị hono . Kuolematrimonio,conMenippo Cinico dd Dimofte bomio,   Nora e-la stregain cunede fanciulli, con quelladonnescasceleragine. FRONIMO. Hor piuolcre, ramentiamo purdelaltrecose, a c c i o f e possa donare egual giudicio e g i u i t o senz pa u n t o di menzogna.Credo chetu fappi,qualmente sonoscrittiiu finitiuersidelliueneficii,et incanci,dellilicquorie beuande delli Pharmachiemedicine,etanchorsonocantate fauole fchedociele Nenie Marsice cioelefauolede Marfi. Matu debbe sapere come sono iscritte e cantar ce o n una certame Laphora e similitudine quelle cose che cosi leleggono ,cioè che lhuomeni,liquali remigaueno gcupisceno colliporci, perledonneche lusinghe e chebruggiasseHercole lendo unto con ilsangue di Nesa eche fufferoinstillasili amori col li veleni di Colcho, cóciofiachechiaramenteseconosceful; secosignificateemanifeftatelesceleratecompagnie epros phanimodidellasozza enefanda libidine,collanridetteor seruationiecanti.Vero-e-cheuoglio tuintenda,come non erano  imperhodetci incantine anchora detre representatio nifofficientidispauentare ueruno,m a folamente pigliauei no, epauentaueno quelliche uuoleuano il perche narra Homero qualmente OliffeasfaltoCirce incantatrice non con ildolcebaso,m a siconlagutocoltello.Jlqualecosi comená fu presodal ciecoamore ,cosianchor nó fu inuiluppato dalli incantamenti: Li quali non nuocenosenza malegna sottilita delli demonii. Leganoquellicheugoleno et acciocheuuoi leno ufano uariearti, e diuersimodi.Pigliano il rozzo volgo con lafozza libidine,ecolli deletreuoli,etlafciuipiacerie giranoasequellichesonodeditiallauita ciuilecollericchez ze,econladouicia epuranchoraltrinecoduconoasuoiuo“ tibenche puochi con lepromiffioni,econ laesca dellaglo ria; ed ellhonori,cioe quelli chese sono dati allistudi della philofophia. Ma quátopertenealliconuitiattédiben. Sedito, come quelli inpartefonoyerietinparteimaginationiet ilusioni,non perhofarodiscoftonedisconueneuole dalli antichi scrittori. ConcioGache ritrouiamoiscrittoda Herodor." todellamenfa del Sole eda Solino essere-istimata quella unacosadiuina.CosiritrouiamonellauitadiApollonio Tia teo  neo , il convito della spora di quello, la quale era riputata una dell’antidette Lamie o delle Larve, o delle Lemire, eLeg. giamoiui,coine'sparbinoliyasipareuanodioro,ediariento cheeranofulamenfa. Etincoralmodo appareuanoiDes monii all’huomeni sottouarieimagini e figure chiamate da PhiloftraroEmpuse eLamie eMormolichie,ofianoLate ue.Gia puocoavantihauemodechiarato checosasianocos teftifpiriti,etombre.Ma quanto alleLamieritroviamoin Esaia dicono.co m e raprefentanouna certa beftialefigura:AlcuniHebreial trimentescriueno,dicendo come seintendeper leLamie alcune ombre e fpiriti furiosi,benche siafattamêtione nelli Treni di Geremia propheca dellem a m m e ouero p o p e della Lamia. Ma altriistimano fia deriuato cotefto nome dal lapiaree spaccare etalquantidallaLama cheuuoldirenok sagine,oispauenteuole pronfondita .E dequindicredono sia derivato quel detto di Horatio. Ne traggiil fanciuluiuodepasciuta, Lamia deluentre. AnchornarrafifusserogiaconduttinelspettacolodaProbo Cesare molte Lamie.lu qual m o d o e figurafufli quella che inganno Menippo,non lipuofacilmentecofidaaltroluogo conoscere quanto da Philostrato. Ilqualenarracomefu ingamnatoeffo Cinicoda quellaLamia,quandoellafinger ua dipigliarloper marito, edipigliare amorosi piaceri con quello. Parimente i o i s t i m o fulfi u c c e l l a t o e s c h e r n i r o Apollonio,  quando erapregarodaquellanonseincrodeliffenelli tormenti. Cofiera ingannato,percheiftimauaefferele Lal miemoltofacileadouereamare Hhuomeni,edipoipensaus che grandemente brammasino dehauere amorofi piaceri coneffi,enonmanicodipoicredeuache mangiassimolecat ni humane. Ma il mio Apistioio techiariscoqualmentenon fonotiratii demonii dalle brammofe uoglie d eamorosi pia  propheta il luogo delle Lamie, doue famentione del fcontrodelliDemonii incubicioede quellichefedimostra no allhuomeniinfiguradifemine, ecolidanolafciuipiace riallimaschi eriftimano coftoroche siano leLamie dihur mana effigia dal mezzoin fue dal mezzoin giu   c e r i n e condutti da desiderii libidinosi, ma sono c o d u t t i dalla malgradeuole invidia adimostrarecoreste cose accio ro uiniiso emandano nelprecipitiodelli peccatilhumanagę.nerationeetalfinelaconducano nella infernale dannatio ne doue efli sonoconfinatiinperpetuo.Etacciobenintens di infiamniano cotestisceleraci spiriti,limiferi mortali,cioc quelliimperhochefilaflinoingannare conunacerrafiam m a occoltam a non sono efiinfiammarida quelli ilche ini teseilpoeta Vergiloquandodiffe.Inspirainelliunooccolto fuogo. Conciosiachemi arricordochefunariatodallaStre ga che quando se appresentata il demonio allisentimenti suoi in diuerse e uarie forme haueainu sanza diconoscerlo e didiscernerlodalliueri animali delliqualiello hauea pigli ato la forma in questomodo.Lepareua che uiintraffenel pettouncertocalore,etuna certafiamma,per laquale era certificatacome quelloerailDemonio.Anchoranarraua qualmenteera apparechiata alla fpreuedura una fiamma đı fuoco, ficomele pareua nelgiuoco, douc conueniuano tuttiauantila Donina,olaauktidelDemonioche seprefen cainformadiornatiffimaReina con la quale fiammadice uache incontinentesecocceuanolecarni femagnono ren dolemoftrateadeflafiamma.NonbrammanoliDemoni ilsanguehumano,neanchordesideranolecarniper managiare , m a il t u t t o o p e r a d o e p r o c a c c i a n o , a c c i o c o n d u c h i n o lanimee corpi dellimiseri mortali nellisempiternitormen" ti.Laqualcosaiofocheegreggiamente inrenderai,quando udiraiparlareDicafto.Ilqualefebenuedoenonme ingan palocchioperillongospatio,ame pare gia fiaallemani,a combattere con la strega. APISTIO . Benben Fronimo. Tume haigiunto. Bêcheame paressedidisputarecoliuno degnoe nobile caualiere,percheioteuedo vestito coriquel le ciuiliet egreggieueftimente,ecintodiuna moltoornata {pata manon credeuogiadidifputareconuno cheintens deffe tanto eccellentemente linascoffi sentimenti delli P o c tihiftorici,Philofophi etanchora delliChriftianiTheologi. Ilpercheconoscendoiolatuasufficientia,tipriegouoglitu per talm o d o adaptare in cotefta parte che ciretta  deluia, gio ,   gio,chepuoffi seguitareitgia comenciato ragionamento , et anchor puoffi dimostrare dellaltre cose,con ilsecondo dit to,sicomegia hai fattoquelle prime con il prino,ficomese fuoledire.cioe coli tanra facondia fortilica,e dechiaratione chepossonointrareinme bendigefteedechiarateficome f h a u e f f e i o b e n p o i m a f t i g a r e H o r n o p e r d i a m o t e m p o ,m a te priego seguita lagia comeciara disputatione.FRON.Se rebbe bisogno dimolto piu dotro dim e ,et anchor sarebbe necessariodino puoco,ebreue viaggio,m ad i longo tiposo in douere fatiffarealletue humaniffime petitioni N o d i m e n o pur mifforzaro disatisfare a tequáto porro.Cerraméte farebbeuilan,eprivodiogniciuilita,feionon efsaudillele gratioseetanchor honefte addimandedicoluide cuihogia conosciutoperlesueresposte chegrádemetedesideraebrå ma deintéderelauerita.Dunqueseguirolagiacomenciata difputatione,eramétaro quellecosepaionosianoaccómo date aquelloauãtidiceuamo,quáto imperhociconcedera ilbreue spatiodel uiaggio.Giahauemodettomolte coseet hora uoglio rispóderea quello tu dicesti cioe che pare nale accozzanoleStregheisiemenelnarrarelecosefatteadeffe dal Demonio,eparenó fecóuieneno inreferire quelle cose delloro sceleratogiuoco,ma cheunadiceinunmodo elal t r a i n a l t r o m o d o .I o ti r i s p o n d o c h e c o t e f t o p u o i n t e r u e n i r e . o dalla paura o d a m a c a m ē t o dim e m o r i a ,perche c o m u n a mēte fonogroffe de ingegno,ecôradinedella uilla.Anchor Sepuo cagionare et in col parlea malitia del demonio ilqual inganamano tuttoiunmedemomodo.E questofacilme. te lepuo conoscere nellantichiprestigii,etillusioni. Concio Siacheegliealtrageneratione dejucătationinello Euflino altra nella regione Taurica etaltra maniera nella Italia E fében consideraraj conoscerainon esserfimiletotalmen re quella PharmaceutriadiTheocritoaquelladecuipar la Vergilio cioenoii.e-fimilelartede ueneficii et incanta, menti unacon altra.Anchorpareinteruenisseilfimilenel li oracoli e responsioni. Perche altre eranole respofte date perlefemineinspiratedallimalegniDemonij,etaltre erat n o quelle hauute per le aperture e coragini della terra,    et altreanchoraquellecheeranopigliate dallhuomeniper lifonnii nelli Tempii. HperchealcunidormiuanonelTem piadiPaliphea,elmiedici Calabresianchora essihaucano confuetudine, con& Dauni,diriposarsiappodelsepolcrodi Podalicio,ilqualePodaliciofufigliuolodiEsculapio efueca cellentejnedico.Anchora emanifefto comesoleuanogia Geceaffaipersoneneltempio diEsculapio. Ilchenon solas mene fuofferuatonellitenipi Heroicim a anchoraperinsie no allaeta di Antonino. De cuiraccontaHerodiano chean doa Pergamo perlanti decta cagione.Anchoraleggiamo q u a l m e n t e h a u e u a n o c o n s u e t u d i n e li O r a c o l i d i d a r e r e f p o n f i o n i p e r il m e z z o d i intier esta r u e , e t a n c h o r a p e r m e z e zestatue,emediante anchoralecolombe,ofufferoquelle neriaugelliofusserofemine disimile nome non loro,m a benfoperdetci modireuelaueno lecoseocculte etannon tiaueno quelle doueanouenire .Anchora assai auttori narra n o c o m e e r a n o f a r t e f i m i l i c o s e n e l l a I n d i a p e r il mezzo del Jalberi, et in Dodone,ficomeracconto Aleffandro Magno, Erano anchoraaliriliqualisubicamenteintcandolisopraun certo furore narrauano marauigliore cose.Ecosi ritrouauoni ficoteitietaltrimillimodi,ediuerfiJunodallaltroda reuela re lisecret,etannonciare le coseda uenire.E come erano di uersespecie egeneracionidellaugurii,ediuersilimodi del fceleratorico,damanifestarelecoseoccoltee da aluontias rele cosedouéano uenire,cosieranodiuerfi i sacrificiicollir quali sagrificaueno,eanchora diuerfi'imodi dieffofcelefto prophano,eteffecrando sagrificio.Anchora erano diuersili incantamentidelliantichi enon manco sonouarii nella10 ftra eta enon manco sonofatticon altrisceleraticoftumie modi chesoleuanofarequelliantichiRomani.Sononarra tealcunecosedallanticoCacone nellilibridella agricoltu raditátasciocchezzache retrouansipuochile poffonoleg gere senza gran riso etischerno.Nondimeno furono imper r h o i s c r i t t e d a u n o h u o m o R o m a n o , i l q u a l e fu C e n f o re, e rriomphatore. Ma quantoalmoto.cioeinchemodo fiano portatedalDemonio ,equanto alluogodoue fono ferma te tunon tidebbimerauegliare.Concioliachequellacosa che   e conåfuoingegno.bugiardafallace,etingannaterigcel i e quellafouentdee piumodi,ediuatianaturainaquellache c-ueracefeaccostaallasemplicita.Ecorefto efaciledauc derein quelle coseche hauemo ramentare,enon manco anchora se puo conoscerepellifigmenti,e fauole de poeti, comefonola fedariietanchorcótrarii.Etanchefpeffeuol tequelloferitrovanellenarratehistorie.Ilperche fouente seritrovauna cosascriccainduoietremodi,etanchorqual che uoltaipiuan o cótrarioallalto,esepurno seranocorra tii alm a n c o seranno diuerse uarii.lisimile intecujene anche nelleoppenionide philofophi, enellerefponfionidelli(auii (ureconfolti,edoctoridelleleggicosipontificalicome imps riali conciolia che se citrouano varieoppenioni circauna medema cosa,Manon maiimperhoseritrouaquea cofa, nelle(criteurede Theologgi,eccettoche inquelle cosel e quali sono communi coli alliPocci comealli Philofophi. M a inquelle cose,lequalipropriamentepertengonoadeffs TheologgiciocnellicomandamentideIddio ecosinella! He cose, che pertengonoallafedecatholica,etaliicoftumi, chefononeceffariiallafalurenoftranon uifaricrouaucig. na diffenfionem a fonodatutti:narráciedęchiaraticongran deconcordiae consonantia etinunomedesimomodo.Ve to-e-chelDemoniomalegno amicodelladiffenfione,con c o m e -e-bugiardo et ingamatore cufi-e.uario,e uerfipelle. accio dicameglio.Ilquale uocabolo segondoliftudiolid e l la lingua latina e-cauaro kuorida quelle fauole delle quali gia auantipädladimo,per ilcuiinganno diceuanli effertraf murai Thuomeni nellilupitcoicomeingamaha Pichau gora,Empedocle,Apollonio ellaleriantichiPhilofophi disi mile generatione con ilcolore della dottrina,(üpercheula "Ha coteftilaciuoli,ecotefti modi,colliqualifacilmenteuili quoreua tenereligari)ecosicomeanchoragia tirauaafede donneciuoleconilmangiarebeuere,imbriagaree con lila sciui e carnalii piaceri.cosi anche hora tira similmente a fe, Thuomiciuoli e donniciuole c o n fimili piaceri,liquai c o m e chiaramente sevede furono sprezzati da moltiPhilofophi. M a quelliPhilosophiconduceuaconmoldimodiafarliado es   tare cioeoconilcolore della capientia oucto con lasuperti cionedellafallareligione.Concioliache perhauere e gra. di della cognitione,e per ottenere la doutrina faceuano esto OrationielaudeuoliHinnialliOracoliquero all Tempo dellifall Dei Per lequali cose gli pareuade impetrare la cognitione dellecose chedoucano uenire,etanchor pareuali diotteniredicflereportatiperariaindiuersi luoghi.E coj fendofatięquestecose con loagiuto delDemonio,quellilo attribuuano ad una certa cosa diuua,che pareua fufli 11€ dettihuomeni.Inchemodo altramentehauerebbonopor furouedeteli discepolidiPichagoraestofuo precettoredif. putarehoranelTaucominiodiSicilia erhoranelMetaponto in cosi puoco spacio di tempo. Per quale via f e r e b b e camminato per aria Empedocle et anchora in che modo cofi prestosouradellafactaferebbecorsoAbarc,perilchefuchia maco Acrobares Coluigrandementeseinganna,chicrede, che Apollonioconosceffeaffaidellecose doueano uenireet icheluicomidaflealliDemonijetquellilubbedisceno,per paurahauciserodiluiFengeuaiDemonioaftutoemalus gio diesseremartoriato da luietanchoradiesseresforzata accioche sendo quello inescato fottocolore della finta diyi nita,dipoipiuforcemente seaccoftafse alalere cose etotal mente rouinalenellipeccati.Ilche facilmente,fel apiace. i puotrai conoscere dal fine che seguicaua .Sforzosi difare uccidereprimicramétePithagoranellaseditione,e dipoidi farlotagliareipezzi.Amazzo Empedocle neluergognolo Iceco loqualehaneacoduttoatantasciocchezza checrede ua dihauereortenuto ladiuinita.Ilperchecidiceuaallícom pagniqualmentefcdoucuanoalegrare,concioliachenon farebbe piu h u o m o mortale m a douentarebbe Dio i m m o r c a l e . I m p e r h o c o f i f c c i f f e q u e l l o in g r e c o ,m a i o l o u o g l i o e mentareinuolgare.Remanetiuiinpace,conciolia che io f o n o a u o i Dio immortale, e non piu mortale. O che morir con questa morte, quero di quella decuiscriffe Democrito Troegenio, quando diceva, qualmenteello pendeouaucto Seeta attaccato ad uno cornale con uno lacciuolo al collo églieda pensare chelipaffalidicoteftauicaperin&igatio ne super persuasionedel Demonio.Anchora non l contenu focdiquello inganno,et illusionem, a anche diceua come gia erapassatalanimafuaperdiuerficorpicon questepar role grecelequale uolgarmente lediro cofi.Gia tofuuna Lanciula etun fanciullo.Ecolialfinefuconducoallamor le colleuocidelliDemonii,econilfpiandore dellefiaccole ficomeraccontaHeraclide.Forsianchorane conduffiApof lonionelTempiternosupplicio con tanima insiemecoilcom p o . L a q u a l e m o r t e n o p a r e c h e h a i n d e g n i a alli n j a g h i e t i n c a n t a t o r i . C o n c i o l a c h e u a r i a m e n t e e g l i e n a r r a t a la m o r t e dieffo,perchesonoalcunichedicono comemoriin Ephefo ultriscriuenochemoriinCreta,et alquanti alttiuuolero mancale inRhodo.Vero-e-chenon erainpiediilgodose polcrodiquellonerempidi Philoftraco.Benchefuffyadors toereueritaperDiodaalcunistoltiepazzi.ilquale scelera to costume ficomelaltri frodidelDemonio manico etheb befinefrapuocoTpatioditempo.Cofianchoraporloayeni m e n t o d i M e f f e r Giesu Christo pero Imperadore di tutto il modo mancarono tutti li oracoli respofte, edomesticiragio namétideliidolierdelifalfi Dei. Nelliqualierainusluppa. toe strettamente legatoquasi tutto ilmodo.E cofiquello, dquale apercaméte,epublicamentedauaresposteperliora coli per liIdoli,eper lialtrim o d i hora fcioccamente parla perleoscurecauernedesiderandolilasciyiecarnalipiaceri, fiqualihorasono uergognofi cheallhoraallegentierano gloriosi.ltperche fa scritto quelparlares Dignate Anchisa del Paphio coniugio. Ino solamétefuronoquellilasciin piacerigloriofredigrar d e r e p u t a t i o n e n e t é p i H e r o i c i ,m a a n c h o r n e l l a e r a d i A l e s a Gandro e d i Scipione .Alliquali fu attribuito cotefta gloria, che eranoistimatida molti figlioli di Gioue.E questomolto maggiormenteemanifeftoperlehistorieche iopossacon Ognidiligentia raccontare cioe cheera credutoche il D e . monjo chesefaceuachiamareGiouein figuradiferpente hauessehaguto amorosipiacericon lamadre diScipio ne,econOlympiamogliere delRe Philippo.Et eranoin tantaoscuricadiméte checredeuonofulliGioueDio.Eco Gin coteftie fimilimoditicauane peccatiquelli che erano la f c i u i libidinosi e carnali, m e s c h i a n d o l i i m p e r h o a n c h o r a ce ii    LIBRO PRIMO qualche coloredi supexftnione.Anchor cofiinelengaquelli, liqualidefiderauenoebrammauenola gloria,eteccellencia dellihonorimondani,liqualitendofralimortalijeshauédo proirontiatilecosedauenireper la conuerfaçione, familia cicacontinuahaueano hauuto colliDemoni anchora fimile méte dopo lamorce pronosticaueno.Ilperchefauolefcame tenarraflidiOrpheo comesendouiuofu riputaco profeta. et dipoisendomorto fedice comedauaanchorresposte.È dicefle anchorqualmentesendolitagliatoilcapo,dalledon ne Theeffe,ando effocaponelLelbono ;etiuihabito in unaspauenteuoleruppeuaticinando edandarefpoufioni perliIpiracolietaperturedellaterra.Portauanoanchora in yoltali oracolidiAmphiarale diAmphilochouanie diuina torifendoancheegliuiuietilfimilefecerodoppolamorte, Ilche forsigrandementedefidero Empedocle quidouuol. fiefferciputatoDio immortale.Fauolosamente anchorrac contano comeeffercitayanolamiliciaelaguerraliReggi doppolamorte efaceuanobattaglia,ecombatteuanoa cheandauanoacacciarelianimali,e luccellietcayalcauay poficomenarrauanodiRhefoRedi Traciachecaualca, uainRhodope. Oltradiciodiceuano comenosolamente fc eccicauano,etferappresentauenoleanimede quelli con lopradellicerchii,edellisagrificiiramétatida Homero,m a anchora spontaneamente,econalcunipattiinquelmodo, ficomeseriuePhiloftrato,leappresentarsiAchillealTianeo, etal Vinicore Protesilao,collaltri Capicanii fecero baccaglia co Priamo.Veroeche lafaccia juoltiicoftumi,eliatti,ege Aidequelli,perchefonodialtra maniera emolto diuerfi,e Yariida quelli chesonoiscrittida Homero eperchesonoan chor diffimilidaquellichenarrano lhistoriediDarete Phri gio ediDittoCreteseteinsegnanoquantosianolijnganoi delliDemoni elebugiechehannopoftonellacognitione etanchortidimostranolinoceuolideliramenitiepazziem e fchiatecollibuonicoftumi.PerilcheseilDemonio hauccel laioebeffato,etingannatoperquestimodi quegliliqualise iftimauerosauiiedotti credendo lecose contrarie e total, m e n t e d a l rl a a g i o n e d i s c o f t e q, u a l e c i l a c a g i o n ce h e t anto grandemente tuti marauegli diuditezediuedere molte co feuarie, diuerfe collipiedilaconfegratahoftia.E cosiinquestomodo comanda quellofceleratonemico deIddioachiunqueuuo leentrarenellasuaprofana,maledetta,eperfidecópagnia, che abbandonino, preggino,etischetniscanolanoftra fan: ciffimareligioneChriftiana.Imperhononsipuoaccozzare neconuenireinsiemelabugiaefalsitacon laueritanellete n e b r e et oscurisa c o n la luce n e a n c h o r la fuperftitione c o n lareligione.Io credo ilmio Apistio,chehormaitutifiaaffaj certificato e chiarico cosipian pian caminando di quello decuihauemocóferitoedisputatoetanchordi quellodel qualemi addmandasti.Deh pertuafedeuediuedicolala Strega,che eagrandiragionaméticonildotto Dicafto,ne) p o r t i c o a u a n t i d e l f a g r a t o T e m p i o . A P I S T I O . D i o u i f a l u i. DICASTO.Siatie benuenuti checosa ci e dinuouoil no  sciocchee pazze econtrarielunadellakira nelleStreghedenoftritempirM a anzimaggiormente cu tidebbimerauigliarediquellaeccellentesapientiaepoffan zadiChrifto,laqualetalmérehaoperato chequellohauca persuaduto ilDemonio malegno eperuerfo inanti lo auek nimento di esso a tantiReggi,Oratorie Philofophi delle genti,ficomecosaeccellente emolto meracigliosa edegna dogni sapientia hora a pena ilpoffa perfuadere ad alcuni huomiciuoli e donniciuolecioeche lo adorano loreuerisco Do Ihonorano,efacjonoquellecosecheglicomandae cos fiperqueftomodotu odebbemacauegliarechequello chegiaerafatropublicamenteintuttoilmondo,etfratutte le generationi sicomecosa honoreuole e gloriosa che hora H a fatta nelli picciolie Atretti c a n t o n i d a p u o c h i s e c r e t a m e n te,e conignominia eaergogna.Ma uoglioche tuben consi deriunacofade diuina gloria frale altricioeche glie,tanto fodo,fermo,eftabileilfondanientodellatriomphantefede de Chrifto chenon uvole ilDemonio peruerfo emalegno niuadinoallesuefcelerate congregarioni,eradunamenti, neanchorauuole che conuersino con luile Streghe,fepris manop reneganolasantiffimafedediChrifto,e Spreggiar nolisagramemidellasagrosantaRomana Chiesa,econcul cano  Kro Apiftio APISTIO. Loaddimandamo ate.Conciolig che Fronimo noftro erio ftamo venuti quiaccio udiama imperhosettipiace.STREGA .Heime doue fon giuntai DICASTO.Non hauerpauraM a ftapurdibaonauoglia eparlasenzauerunpauéto.E nodubitaredi meconiciofia cheiotiseruaroquátotihopromeffo ciocche'nóseraimar toriata feliberamente manifeftarai iurre letue maluagic opere lequalinonpoffonopioefferpalcofte,perchegiaho liteftimonijcometuseiindettoerroreepeccato etanchot fulhai cófeffato ficomeiográdemenre desiderauo .S T R E GA.Deh heime.Gialhodetto.Per qualecagionedonque m itormentatidiuolerloanchoraunaltrauolrahora inten; dere? DICASTO ,Perche e bisognodiritornarlo a confef faren o n solamente inantidi duoiu e r ditre teftimoniim s anchoraauantidipiu etalfineanchedavantidituttoilpo polo fedesideridiIchifarelapena tassatadalleleggiea voi che setidi questa'maledetta compagnia,per tantifacrilegii, e t ā r e f c e l e r a t e o p e r e c h e u o i f a c t e . V e r o - e - c h e g i a h a i a m e promessodi faretuttoquellocheticomandaro,et10teho promesso seruandotulepromiffioniantidectedinon confo gnartinellemani delGiudice ilqualeincontanentetifareb b e brugiare.cosi sendoli c o m a n d a t o dalle leggie.H o r a noir tic o m a n d o altro eccetro che tu ramêti unálıca uolta quelle c o s e c h e t u h a i f a t rco o l i demonii n e l g i u o c o o s t a n e l c o r s o come fedice uolgarmente. STREGA. O maladerco giuo co, O giuocoinfelicepme, mala fortemia.DICASTO . Nonbisognanohoralagrime,non piantineanchegridi. STREGA.Deh perquellahumanitaetgentilezzachein uoi leritroua,priegouinon mi uogliateperhora piu darmi faftidio.M a fiaticontentidi concedermiun puoco fpatio di tempo ,etun puoco diriposo  narta tantochemiramentiiltutto ecolidipoiuinarraroognicosa chehofatto:DICASTO. Piacédouigli cöcedero,quellochele piace,etaddimanda. Conciosia chepoiraccotarajl tuttoconmegliore animo, conpiuageuoleuoce,seespettaremoadintrarenelliragia namenti perinfinoadomanc.Doue haueromolto ápiace re,felno uifera graue uiritrouiacipresenti.APISTIO.NO parui   Pauigraueaquellihuomeni desiderosididottrinadiparz cicledesuoipaesia andarperinfinoaGnosocittadiCreta allaspeluncae tempiodiGioueperudireleleggiualiee di Puiocomomento di Minoffe,ediLicurgo,etferaame dun que faftiddioi caminareunmiglio,accioimparqiuellecose lequalinfeo sonovere,almancopaionouerifimilipladispu tationediFronimor F R O N I M O .Hora mi callegromolto perchetiucdotantoiftimareiionm e nialauerita, puran choraseben nolhai certa cu faialmaco contodellafupility dinediefi.IIperchenoseraanchorame grauedicitornare quidalnostroCaftelloperessercitiodelcorpo.DICASTO Cofi.dunqucretornareridanoi,etioue aspettaro con gran difio,Andatidunqueinpace,E tu guardianodellacarcere ritorna colala Strega,etu Strega pensa benil turco ,accio il polli ordinatamente,efenzauerusiabugianarrare. IL SECONDO LIBRO DEL DIALOGO DETTO S a r e g a d e l S i g n o r e G i o u a f r a c e s c o P i c o d a l l a M i r a d o l a &c . molgariggiatodalVeń.P.F.Lcadro delliAlbertBiologuese. LEPERSONE RAGIONANO. DICASTO ,APISTIO,STREGA.FRONIMO, DICASTO . O fiatreeben uenuti.Atempo fecigiúti,con Icioliachehorahoraseracondutto fuoridella pregionelaStrega esecamenataauktidinoi. APISTIO . martoriare quel lachegiahacófeffatorAPIST.Deh buonadónano-e-ita to portato quiuerunacosa da sormérarti Vero e cheFroni moetio Gamouenutiquisolamétcp uedertietudirtietan chor p aiutarti quáto potremo.FRON.In Heritacosi-e c o m e ha detto Apifio.STR ,Deh quäto grauemetemi mars torianocotestemanettediferro,ecotefinodiegroppidelle legatureDeh cheioho pauran o mi siendatimaggiori tor menti. F R O N .TipriegoDicafto,comanda chelasciolta. D I C A S T O . I o son cöteto.O caualiere supresto sciogliela. S T R E G A Hormai cominciaro'un  SNN DELLE STREGHE 10 Ecco coco che e-menata legata. STREGA.Eime,cime.Inquestomodo ferua sile p r o m i s s i o n i P e r q u a l c a g i o n e u u o l e t i p o c o diripigliar lispiriti   DICASTO.Sta purdibuonauogliaperchetipromettodi n o n m a n c a r e i n u e r u n a c o s a d i q u e l l o t i h o p r o m e f fp o u t chetuserualepromiffionididireiluero senzabugia edi narrareognicosaa punto diquelloferaiinterrogara.Siche racconta iltuttointeramente. Vi prometta di feruarequello cheajho promessoliberamétefenzaalcuna menzogna.DICASTO .Dunque comeciadinarrarequel lecoselequalilaltrogiorno,etalichorahierifuiltardoam e folo cöfeffaftiscriuendoleilNotaio.STREGA.Seuoilerar mencarete,elereducerete amemoria,colleuoftré intercon gationirefponderocon quelordine,cheuoreti.DICASTO AddimadatiuoiApiftioeFronimo,concótentolepofsetiin terrogare cócioliachehoggifarauoltroquestospettacolo, cotesta impresa.Ma eglie be uero che uoglio'effecuipresente acciola ammonisca leusciffefuoridellacarreggiataçlıcome fifuole dire cheritorniallauiadrita. APISTIO.Hor luStre g ad i m m i a n d a f t i m a i a l g i u o c o d i D i a n a o u c r o d i H e r o d i a d e r S T R E G A . Si sono bene andata al giuoco m a chel fia o diDianao diHerodiadenon il-fo.Conciosia chepia non houditoramentare quelligiuochi.FRONIMO .Gia tedif Si b i e r i A p i f t i o c o m e i D e m o n i o i n g a n n a u a s h u o m e n i i n d i uersimodi. Il perche in queltempo,nelquale era adorata Diana dalle genti,etera molto honorato e glorioso iln o m e d i q u e l l a p e r ilm o n d o , p a r e u a u n a e c c e l l e n t e c o s a d i p o t e r uiessereannoueratofralecompagnedieffaDiana.Benche inpechofufferodetteuergininondimento eranochiamare Nimphe cioespore, ecofilepiaceuadieffereaddimandate f p o s e, m a m a g g i o r m ē t e l e a g g r a d i u a l o e f f e t t o e t o p r a ,b e n chenon fuffecercatacon legitimorito,ecostume.Concia. siache erano iui continuiftuprietadulterii. Perilche serie ueHomero nellisuoiuerfifouentequellacolgata sentens tia,Nellamefchiaraamicitia.Imperho fauolescamentedi cano comely Dei falsioueroquelli antichiBaconiebbero amorosipiacericonlacompagniadiDiana,ouero diunal traNimpha,odiNapea odiOreade,odiDriadeFengrua noefferleNapeeleDee dellefelue,dellicolliemonticelli, dellifiori,ficomediceuano esserele OrcadeNimphe delli monici  I monni,eleDriadeNimphedelli alberi, Anchora credeuang li Gentili,etilgozzouolgo,chefufferoinamoracęleN i m pheMarineedellifiumiE. Colifouenceleggerai di Cirene LeucotheafintadallantichieffeclaDeaMatutacioelauro ta c h i a m a t a D e a m a r i n a p c h e e r a s o u r a s t ā r c a k c e m p o m a i s mino Et anchor ritrouacaiscrittodiCimgdecene cioediquel laDea,laquale faceua acque care le onde marinesche, secondo le loro fauole, nomanco uederai iscritto molte cose del laltrefinte Dee odelmare,odellifiumi.E percheglipareua efleremolto piu sicuro diconuersareperlim o n i,che som mergersi nellonde delacque etanchorpareuaeffercosa pia aggradeuole.dimitromettersinelle cacciagionidiDiana,che inuilupparfinelliprocellosiflutidi Tritono enelleondema r i n e s c h e, in p e r homaggio r m é t e se d e l e i t a r o n o n e l giuoco di Diana, ene balliesalci di quella ficome cosepiuaggrade uoli, gioconde,e piaceuoli.Anchora tico dapoi molti altri conlusingheuolimodi sottolafiguradiHerodiadeIdumea laqualegrandementesedeletrauanelliColazzeuoliecraftu. Fattamentionedicotefto giuoco di Diana, ouerdiHerodia debelleleggiedecretidePonteficidouifiramécanoleleg. gifuronocófermateper ilConcilio .Nelqualfu fatto quel l o f t a t u t o , c h e si d o u e f f e r o s c a c c i a r e l e m a g h e e t i n c á r a t r i c i, FRONIMO.Deh ptoafededimmiDicafto,iltimitueffere cotefto quelmedemo giuocode cuinefattomemoria juic DICASTO .lote dito ilmio Fronimo.Sono uarieoppenio nidiquestacosa,conciosiachesonoalcuni,chedicodnoe 6, etsonoaltriche uuoleno siauna noua heresia.FRONIMO Dirolamiafancasia.Iocredochequelloinparcefiaantico etinpartenuouo,cioenuouoquantoallenuouefuperftitio niceerimonie iuihorsaesatino,ficometudicefti,parlando da Philosopho,chelfüfliantico quáto allaesseruia,etsiuouq quanto alliaccidenti. DICASTO .Ben ben Fronimo,cerca mente tuhaiiniaginatouna eccelletedistintione;conlaqua keaffaicofefesciorånochehannodependentiada quelluo 8o, dacuihannopigliaioalcunigrandeoccasione dierrore Iftimadochecotestedonnuzzesianosempreportatealgiuo  . RAZO . BIBLIOTECA EMANUELE LOORIO ) ff   co solamente con la fantasia enoni con ilcorpo. A P I S T I O I D u n q u e ru istimiche le Streghe F a n o sempre strafferrite e portatealgiuococon ilcorpo DICASTO.Nonfongiadi quefta oppenione che sempre fano portate cola al giuoco c o n il c o r p o ,p e r c h e a l c u n a v o l t a f o n o f u s e r i t r o u a t e p c o c a l e m o d oa c c o f t a t o f o u r a d i u n t r a u o c o n t a n t o p r o f o n d o s o n o chenofemiuanocosaalcuna benchefufferofortemērebuf sate,etelledipoicredeuonodiefferstateportatealgiuoco, é nondimenoeranojui. Anchora altreuoltesonostateuedo tefralegambe de aleurie,efra lecoscie,esserui delle feope feratecon tanta fermezza chen o sepuoreuano cauare fuori rida c h e fouente sono portare al giuoco e con ilcorpo e con lanima,et altre uolte pur credendo di efferportateinquelmodo,folamentesono iuipresentecon lafaritafiaetimaginatione: DICASTO.Eglie alcunauolr ta preftigiodelDemonio ouerofalsademostrationeetuna aftura delusione etaltreuolte efecondo che uoglionolestre ghe.Imiricordodihauerelettonellilibridifrate Artigo,e difrateGiacoboThodeschiMaeftriinTheologia dellordia ne de fratiPredicatori,qualmenteeglienarraro diunaftee, ga laquale  pensitu occorca questo  quellechedormiuano,collequalecofe credeuanoeffe dieffereportate al giuoco.APISTIO.Per qualcagione pafsaua quellispatiiintuttiduoi e modi fecon . do che le piaceua,cioe con ilcorpo uigilando etanchor (per fe uolte folamēre con lafantasiacioe quâdo le rincresceua i uiaggio.Ilpercheallhorafedendonelletto ethauedodetto a l c u n e d i a b o l i c h e p a r o l e , r e g l i r a p p r e s e n t a v a n o t u t t e le c o m fe!delgiuocoi una uerdanuvola etoscuracome lacqua det mare ficomeuifufferorealmentestatepresente.FRONT M O .Che cosa responderefti alliaduerfarii<DICASTO . Primieramentecosiglirispondereicheiomi maraueglio come uoglianomisuraretuttilimodidellisacrileggidelle fuperftitioni edelle magiche uanitadi,con uno folom o d o delviaggio alcunauoltaferuatoinunaregioneepaesedel mondo dauna certafcelefte compagniadidonne profane e rubelledinostrafede ecosivoglianoiftéderequestacosa. atuttelepartidelmodo.Et anchordireiche pěsanoforfidi Capere   scrittore di maggio te autorita dicoluilo racconta.Conciosa che fano aflaicore daGratianoaltrimenteiscritteerivolte,enarraremolto di nerfeda quelle chefuronopublicate nellicöcilii,edallion teficiIperche credoche coteftafussiuna cagione fralaltre perlaqualeironfußlipercoralmodo approuatalacompilaa tionedelDecretodaluifatta,dalliVenerabiliPadri della cose cheseucdeano in quella regione,lequale sonod a n nate perilConcilio .Nondimeno se fanno imperho affat core dellequalinonseleggefufferofattejui  I fapere táto che glipäre di potere coftrēģere tampiao f á n za delDemono,laqualehebbedalprincipiodellasuacrea tioneinunomoriario.Dipoianchoradireichecostoronon polionopatire che siaispofto quelcestodellalegge co ilgiu diciode altrui,liqualicertameresonodi maggiore dottrina acciachecauano fuoriquelle egiudicio,dieffi, coselequali pertegono allanatura,da quellechesonopertinentiallafe de catholica.Anchorfefforzatiodi dimoftrarelaperiamente cfenza uergogna chenon siaquellacosa,laqualenó poffor n o negare chenon sipossa fare etanchorache non siafatta qualcheuolta,eccetto senonlauuolenonegarecon suagiá de profomprione,etignominiacioe negando le migliara deteftimonii.Mafotlianchoruno dimaggioranimodime direbbediuuoler uedereun piufedele effempio delle leggi delConciliochefuffiramentatoda un Chiefa, chefullofferuatainuecedileggiedallaquale non fuffilicitoauerunodiappellare.Horlupuranchoragliuud côcederequelloche diconom a consideraben cheglisiaan choraferratolaboccaad effraduerfariiconlatuaottimadi Aintione,ficomeam e pare erinueroegliecos.Perlaquale facilmentefepuo conoscere,qualmente ilcorso ofiailgiuo co dicotefte donniciuole ethuomiciuolineconuienein •parte con quello giuoco ,etinparte euarioe diuerfo da quello .Conciosiache nonse dice quichese creda Diana effereDeadelliPagni,neanchoraseuedonoquiui quelle c h e sono pur impercio communi collealtrifuperftitionidelliGentili Pagani, etanchorafansiaffai schernieuituperiode Dio,c 2 & ola i    bialimeuoliofferuationqi, uariiritiemaladettichefonofino insegnatidallimalignifpiritie Demonii a questimiferih u o miciuolie donniciuole licomenellidannariunguéti da un gerfi,nella deletratione difpargere ilsangue innocente del lifanciullininella offeruationedelcerchio,nellimagichijn cantamentinellaltrimoltidiabolicimaleficii,eneluiaggio) e discorso grande per l a r i a c o n il corpo. C o l u i c h e n e g a l s e , che ilDemonio non puotessemaggiormente mouere licor, pi,chenópoffonoruicilhuomeniinsieme,parládoimperho, naturalmente,equantoalliprencipiinaturalidiciascunodia effiiopenso,cheferebbedaefferreprouatoedánatocome Heretico,perchediceilfan&iffimolobbo chenonepoffan, zafouradellaterrada egualareaquelladelDemonio.Ants choraritrouianoneluangelioqualmente fuportato Miffera GiesuChristonoftrosignordalDomoniosouradelMonte eranche foura delpinnacolodel Tempio.E tenuto indubin tabilmėteuero dalli Theologgi c o m efonoubbedienti cugi licorpi allefortarize separate o fiano alli spiriti ispogliati del corpo, quátoperteneimperhoalmouereda luogoaluogo, ecoli effifpiritinaturalmentelepuonomouere afuopiacess te purnon sianoimpediti daIddio prima causa di tuttele creature ecosi quefta euna disputationedellalegge natu rale cioefepoffonolispiritiignudie priuidimatermiao u e te licorpilo no,m a chesianoportatida luogoa luogo questihuomenicdonne inucritae senza menzogta,eglie, dispurationedel fatto cioe fecost-e-ueramenteIlperchetu debbisapere chgeuadore-certochelepossafareunacolae chetuuuoiintéderedapoieconoscerelee -fattaofefaci, i nólefacialtrimëreno lopuotraiintendereeccettocheper boccadelliteftimonii,ochelhauerannoeffifatto,oueroIba ue r á n o u e d u t o c o l i essere; ouero l h a y e r a n o u d i t o d a q u e l l i 1. che lhauerano fatto cheferanostatoueriet certie fidelihuo meni.E cosihora quanto apertene a noi cioeche siano por : tatialmaledetto giuoco,queftirebelliidnoftrafantiflima fede, M a u e m o fermoechiaro eper cofa indubitabile peril mezzo de gran numero di testimonii, liqualilhannomolto largamente narrato. FRONIMO. Non /ermaraueglia se  quelli   ghellisciocchezzanoinan tefto,cociofiachecoficompren dono laueritacollialtri.I]perche ficomeilgloriosoIddione wahe ilben dalmale cofilhuomenidimalo animo,edima laopeniojie,sefforzanodicauareilmale dalbene.Écolipa rimente perlamalignitadellicatriuihuomeni sonoftateca uate tutteleHereniedallesagre litterenonperdifettoecol pa dieflifagratissimilibri,efantissime littere,m a per la p e r uerfamalitiadellhuomeni.APISTIO.Deh peramore de Iddioaipriegononuogliateinterromperelemieinterroga t i o n i. B e n c h e g i a h a b b i a d e l i b e r a t o d e i n t e r r o g a r u i p o i d e dettecore purnon parehorailtempo,fiche ui priegonon m i datiadeffo noglia m a laffatimi seguitare. D I C A S T O . Tu hairagioneilnostroApiftio,Seguitapur oltreer addis manda aleiquellochetipiace. APISTIO.Su Stregadimy m i , A n d a u i t u a l g i u o c o c o n l a n i m a i n s i e m e c o n i l c o r p o ,o s pur con uno senza laleros S T R . Viandaga e con lanimae con ilcorpoinsieme. APISTIQ.Come e chiamato quefto. uoftrogiuocor'Eglie chiamato dallinoftriCom , pagniil  DELLE STREGHE, 13 giuocodellaDonna.APISTIO .Inchemodoane d a ui tu col a r D e h c h e nogli andava, ma ben gli era portata. APISTIO. Conchecofa: Con una Gramicadacascetareil Lino. APISTIO. Comefiapoffibi lequesto chesiaportataquella,non la portandoueruno STREGA.Má beneraportatadalmio amoroso. APISTIO.Chi-e-coftui STREGA. Ludovigo. APISTIO . EglieforsiunoqualchehuomocosichiamatoSTREGA .. Nonhuomono,ma ilDemonio,chesepresencauainfor ma dihuomo,loqualecredeuofuffiDiaĀPISTIO. Mima raueglio assai certamenteche il demonio ingannatore del Ihuominihabbipigliato questo n o m e de Chriftiani. FRONIMO .T u si marauegli che colui habbia pigliato quelto nome deriuatodalliGentiliePagani,ilqualefefuoletraffi, gurare nello Angiolo della luce. APISTIO. Tudici molto gagliardamente cheegliederiuatodalliGentili. FRONIMO. Anchoraildicoche ederiuatodalliGentili.Concio wachenonmairetrouaraiinuerunoluogone inGrecone ipLatino osiaconefsempio,ocon origine(senonme ingå    noimperho)dondefiaderiuato.Vero -e chemiricordodi h a u e r e letto solamente n e Commentarii di Giulio Cesare r Litauico, da cuidipoiun puoco-e.ftatopiegatoerecortonel lá lenguaFranciefaer-e-dettoLuilo eriuoltatoanchor poi nel Latino,e-scrittoLodouico doui quello se referrisée. APISTIO.Nonuogliopiuoltrediqueftacofadisputare, maggiormeieperhora,percheho deliberatoinqucho tem po divuolerragionare con questanoftraStrega. FRONIMO .IlmioApiftio,hodettoquelloame pare,sempreim ) perhoapparecchiatodiudireleoppenionidepiudottiepia prudentidime. APISTIO .Non piu.HorfSutrega.dehnó cisiamolesdtoi scoprireameinteramentelicuoilasciuipia ceti. STREGA. Dimmi de checosahaitudelideriode ing. Tédereç. APISTIO.Pareuaateunohuomo queftoruoamor roso: STREGA.Sipareuahuomoi tuttelemembrá cecet tochenepiedi.Liqualisemprepareuano piedidiOcchari uoltati a dietro e riuerfatip e r cotal m o d o c h e era riuolto'm dietroquellosuoleesseredauanti.APISTIO .Per quale ca gionecredituDicafto chefinga,ilDemonio tuttelaltrem e bra dahuomo elipiedidaOcchasDICASTO.Setulegt geraituttiliproceflidicotefteStreghefatti dalliInquisito titu ritrouaraiinefliqualmente ilDiavolo osia ilDemo nio,o periluoglichiamare Saranaqffuo,a n d o secangiain cffigiadi huomo,sempre apparecontuttele membrada huomo,eccetto checollipiedi.Dilche inueritatidico cheso uentemenesonomoltomarauigliato ecoliframe hopen f a t o c h e forfi q u e f t a e la r a g i o n e.C i o e c h e I d d i o n ó p e r m e s techeelloisprima,e fingatuttalauerafimilitudinedellbuo mo,acciononingannieslohuomo conlaeffigiahumana. E laragioneperchenóhafimiliipiediallaltriniembradel ta finta EFFIGIA de llhuomo credopossaessereperche-e-con fueto diefferelignificatoperipiedinellimisticiparlaridella fcrittura leaffertionie desiderose uoglieet imperho gli pore tariuoltiadietro.cioe cheha lisuoidefideriisemprecontra de Iddio eriuoluicontrodelbenfare.Ma perchecagione p i u p r e f t o h a u u o l u t o f i n g e r e li p i e d i d e O c c a c h e d a l t r o a n i maleio confeffochiaramente di non sapere,ccettofelnoix  1 ui fuffi   DELLE STREGHE 24 ulfuflequalchenascostaproprietanelloccha,la qualsee poi feffe ageuolmente adaptareallamalitia.Ve r o -e-che hora nonm i arricordodihauereuedutoin Ariftotele che siaftai M offeruatafimile cofa da quello,m a anzipiu presto dice; che-e-quella generatione di uccelli molto uergognosa,fe ben m i r a m e n t o . F R O N I M O . Diro dua parole Dicafto . Puorrebbeessereanchorachelnoftronimico hauelliuolu to anchoraspargerealcune occoltereliquiedellaantiqua SuperftitionedelliGérili.A cuieranogiafagcificateleocche fotroilfallofimulacroe fintaimaginedeInacho ede Ina chide.Jlperchecosileggiamoin Ouidio. se N e g i o u a i l C a p i r o g l i o p e r 'w a O c c a - e x f t a t o , $11.Turo,chelfeganon dia Inacho in lance Ma sicomeuuoleno altricofifedebbe dire Inachide ioilfeganon traggiin piattor DicePliniocome eraconsuetudinedipresentareilfigato dellocchaadInachoDiodelloArgiuo fiume.Ilqualeuccel bo dilettaflimolto di praticare perleacque.M a c h e fuflifa . grisicatoad Inachide parqueltofacilmenteseproua,cong cioliachefeuedeperlebiftoriedi Herodoto comehauea. nouranzaliSacerdotidelliEgipriidimangiarelecarnidel l e O c c h e , et e r a i u i r e c e r i c a e t a d o r a t a c o n g r a n d e s u p e r f t i s tioneIfiacioeDiana.Anchora-emoltopiufaggialaOcca. chenon-e ilCanericomediceello etchefacilmentecomo p e c o n m e r a u i g l i o s i m o d i il filentio della n o t t e e c o n t u r b a ilteporo.AllaqualenottecredeuantoefferefourastanteDia na.IlpercheforsipigliailDemonio lafiguradellipiedidi coreftouccello,peruuoler dareadintenderallisuoiprofani esceleratiseruitoridiquestariaemaluagiacompagniache debbianoseguitarequellouccelloin ftareuigilanti,enon dormirecome quellofa ilquale eruigilanteedipuocofone no,e quando ,etpigliare piaceri,equel tempo cósumarlo nellisceleratiediabolicigiuochi.Anchor raccontasappodalcuniscrittoricome egliequalcheparte di detto aagello  bisogna farelaguardaemoltopreuifta enon dorme etcofidebbono efferquelliche uanoalgiuococioe essereuigilanti et ftarefuegliati c h e prouocaeteccitalefeminea libidines   Puo effereanchesegnodequalche occolto,epazzescoamo te,conciosia che fernroga iscritto qualnienceb r a m m a r o n g leOcche dipigliarelasciuipiaceri con altragenerationede animali.IlpercheritrouiamoscrittodaPlinio,comeseina? m o r a r o n o le O c c h e d i O l e n o fanciullo di Argo, e di G l a u c o fonatorediCetradelRePtolomeo.Ma egliebenueroche credo chemalefeacicordaffePlinioinquestoluogo,Cócio fia c h e q u e l l o f a n c i u l l o n ó b e b b e n o m e O l e n o ,m a A m p h i locodellapatriaOleno ficomeramientaTheophraftonelli broamatorio.E non fuquellacosacoralmentefuoridiragio ne,perchegiafurono annoueratele palmedellipiedi delle Ocche fraledeletteuolietaggradeuoliuiuandedellameo fa.E penso per quefte de efferesignificatole pretiofiflime ui uáde elaggradeuolicibidellaDeliamensa,cioedellamen sadelSole,cheeranoperlaloroeccellentiadamettere auã tiruttiquellicibicheerano dellamensa delSole di Ethio pia.Nellaquale non se legge;ui fuffero posti soura de effa. auantiliconuitati,lipiedidelleOcche,conciosiacheanchor nonhauea penfatoMeffalino Cocta,didoverliarrostire.Par ionoa m e cotestecosemolto piua proposto che quello dico n o a l c u m i ,c i o e c h e l e O c c h e h a b b i a n o p r u d e n t i a p e r c h e s e narrachedomefticamétecóuerfauenonellibagnicon Las cido Philosopho, Ilpercheioiftimochequestomodo dicon uerfationcedibeneuolentia,piupreftofuffifimileaquello, c o n i l q u a l e c o n u e r s a u a A i a c e L o c r e s e c o n il d r a g o n e . E c o s i anchora pensonon fuffimolto discosto daquesta cosa,quel lafamiliareuoce,laqualeudiua Socrate,etanchora iftimo fuflimoltosimilequellaltrauoceper laqualediuinaua leca seoccolteetannotiaua quelledauenire Atridea Laomea dontiade,sicomenarranoquelli Versi,fccitcidaOrpheo con iltitolo dellepietre,ficome sedice.Non -e-anche total 'mente discostodaogniragioneloproprietadellanaturadi questo uccello ,quäto alla uelocita del caminare che fanno nel uiaggio ,laquale uelocita e'molto fimile a quella del giuocodelleStreghe.Ilperchenonretrouiamochefulsigia maiuerunoaugello ilqualefaceffeapieditantolongouiag gio,quantoleOccheLequali uenerodalliMorini lipopoli (  cioedal   etancho fada Ciceroneilqualenonerauedutodaalcroeccettoche dalai.DICASTO.Nonsolamente qucftointeruieneinuc derelispettacolietfinteimaginidelDemonio m a anchors nelliprodigiietapparitionidiuine,cioeche quellecosesono alcunauoltadapupchịuedute.Et dimoftrate siano acciolas Gli altrisolamente ioramentato di quell u m e che era soura delcapodifantoMartinozilquale fuueduto dapuochifico me narraSeueroSulpitio etanchorpurdirbediquelaltro lumecheilluminauaSantoAmbrogiochi padaua,loqualso JamérévedeuaPaulino.Ma chequeltaimaginedelDemor i n i o ,f o l a m e n t e l i q u e d u t a d a l l a S i r e g a , i o d i r o l a m i a o p p e lipopoliBelgicichesonoliultimidellhuomeni,licomedice Plinio,etcaminarono colliproprijpiediperinfinoaR o m a APISTIO .Dimini Strega,Dimoftrauelo mai altrafornia delli piedi,quando ueniua da te,eccetto chedi Occa : S T R E G A N O maidiniostroe alıcamente.APISTIQ.In chemodo ueniualodatesSTREGA.Alcunauoltaaddima datodame etanchefouentedaseisteffo.APISTIO.Neue n i y a m o s e m p r e in f o r m a d i h u o m o : S T R E G A . S i s e m p r e fedimostrayaineffigiadihuomo quando pigliauaamorosi piacecimeco,APISTIO.Q quegliconuna rugosa egia grinzafemina STREGA.Eie me Eime,OimeOime.DICASTO .Dichehaitupaura Chi-e-quello che cifpauenta Vedetile,uedetile DIGAS.Doui,douirSTREGA.Colti,cofti,almuro alm u to.DICASTO .Informadecui?STREGA,Di Passece. DICASTO. Dehbémicati comehorahapigliatolaeffigia diun molto libidinoso aụgello non contrasio alcagioname codellamiala femina,laquale fouerchja conlasua infaçiabir lecifrenatauogliaturcisimoftridellafozza libidite.APIE STIO.Hoquantomimaraueglio chenonsiaverundinoi, cheuediquestafintaPafferă eccecto,chiella.DICASTO . Ben iopoffomirare,m a gianonlapoffo yedete,e cosipara menon siauérundiuoichelaueda.APISTIO.O certame marauigliolacosa.FRONIMO .Deh uedetiinchemodo semarauegliailnostro Apistio.Matunonsimaraueglidello anellodiGigeLidiopaftore,ramétato daPlatone, che piaceri yuoreuano eßerç gg 0 el 70 CO 21 el al di no del Tagnione, lo penso posla interuenire questofacilmereperlami citia,egrande familiaritahacon quello. E cosioccorre per janridettafamiliaritache-eportataefanellamantocioein quellocherätoamanonsolamente conliocchima anchor confla poffanıza imaginaria. E t anchora ilconosce e distize guedallialtciuccellietanimali,quandoseglirappresenta, ineffigiadiquegli,sicomehoudicoda effa,percheleparë una fiammaardente glijmpinganelpetro,ilcheno leinter nienenelscontrodellialtrianimali.Giafolio tregiorniche raccontotuttaspauentata dihauere uedutolantidettofuo amoroso informadiunatortuofaserpecjuolainmododi un cerchio. FRONIMO.Cosi haitu letto Apiftio,qualmen te apparelli ilD e m o n i o alliGentilii n effigia diserpe,et ant chorainfimilitudinediaugelli.Nontiricordidihauerueda tonellilibricome guidarcizoli CoruiAlessandroalloOrae culo eTempio diHamone,doui,egliandauas APISTIO . Siholetto etanchorahorixouato,(febenmiricordo)com me fecerolimileufficiopur ancheliDragoni.FRONI M O ,Chenedicudiquestecosemarauigliore?Non istimie f u c h e f u f f e r o q u e l l i li demonii im a l u a g i i ,i n f o r m a d i C o r u i t Etanchor non creditu fufferofimilmente liDemonii quel l i d u o i C o r u i a n n o v e r a t i fra le g r a n d i m a r a y e g l i e d a Arifto tele,chestavanoin CariacircailTempio diGioues D u n g perchetantonimarauegli conciolia cheritrouiamoinPli nio come fufle usanza diuscire fuoridella bocca diAci fteaProconesiolauaga anima di Hermolimo Glazomeno in fimileeffigiadeCorui.De cuisediceua fauolofamence chiquellafullanimadieffo,non datuttiuedutam a Sola: mente daalcunihuomeni. Mamancotutimarauegliaretti se tu fapefliquello che-e-raccontato daAriftoteleetanchor dapiualtriscrittori,diquellohuomo Thalio.APIST.Deb p e r t u a c o r t e s i a r a c o n t a q u e l l o g l i i n t e r u e n i f f e . F R O GN l. i interueneuache gliandauainantiedietrolaboccaunalimi le figura,laqualenon era ueduta dallalecihuomeni.APIST. Dunquesenzaleggerezzadianimofepuo crederéaleuna uoltachequellimuoiono,ficomediconoalcupniorkojjoue derelibuoniereifpiritinelliassumpticorpiliqualinon fon   ueduci   geduti dallaltri& FRONIMO. O fi fi,questa-e-cosacerta. Conciofia che e creduto questo a tanti prodi,et eccellenti huomeni,liqualinarranocotefto etanchoraeglieda molti dotti authori suco scritto.APISTIO . D i m m i b u o n a d o n n a , feļanchora parritala paura,che haueuis S T R E G A .Si ben feparte.coliperiluoftroragionare,come anchoraperlauo ftraprefentia. APISTIO.pEoflibile chetuhaggicançapau ra del tuo amorosos Qime.Gia non lo temeus, M a dipoiche sono condutta nella prigione,et haggio con : tra suauogliaconfeffato linoftrilasciuipiaceri,grandemen te,etoltrodiquellofiapoffibilediraccontaremi spauéta.E qualche uolca se fermaaquellousciuolodellaprigione,eta quella feneftrella,reprehendomiedimoftrandosimolto for teturbatocomeco.Edipoimiprometteogniagiutorioper cauarmifuoridi quiui,purche ioftiaquerae tacciperloaue nire,epianoconfeffiuerunacosama anzinieghiquelloche gia ho confeffato.A P I S T I O . T e spauentauelom a i quando tuandauialgiuocorSTREGA.No certamente.APIŞTIO Andauicu quiui ogni giorno,o pur inqualche tempo deteira minato :S T R E G A .Viandauanella secondanotredopod giorno dalSabbato,edipoida quindi nellaquarta notte, cioe'nellanottedelLune edellaZobia.APISTIO.Glian daftimaidigiorno:STREGA.Nomai.FRONIMO.De quindi sipuo anchorconoscere lereliquie dellamica super Aicione,fetutiramentarailj ululatiuoci.egrida,fattiad He cate,altrimentechiamata Diana,eLuna,nellinotturni Teja u i p e r l e C i t t a d e. A c u i f o l e u a n o f a r e o r a t i o n e le d o n n e f i c o m e scriue Pindaro ,quando limaschi separati,secondo la lo to usanzasoleuanoancheeglifareorationealSole,per con ikeguire liloroamorosi piaceri.Ijpercheeradedicatolanoki " re a c o r e f t i r a g i o n a m e n t i et a p p a c e n d o il g i o r n o , i n c o n t a . nientierano terminati esiparlamenti.E percio leggiamo quel uerfo. M i h a fiato laspro oriente collieqai anheli. APIS.Forhgiacesottodiquesuton a cosamoltopiuascoffa FRON.Chicosa APIST. QuellochediceilgrecoPoeta Menandro.M a iolodicoinuolgare quelloieringreco cofi.  Com  O nortererbisogno a tedi affaicaénalipiaceri.D I C A S T O . Cerraméte ciascun di uoidotcaméte,m a humanaméte par l a . M a i o u o g l i o r a c c o n t a r e u n a d i u i n a fetentia e n o n c o s a d i paocomomento neanchoraproceduradalloinganneuole o r a c o l o d i A p o l l i n e ,m a d a q u e l l a s o p r a n i a u e r i t a d e I d d i o . APISTIO.N o n bisognatanto proemio,fu di presto,selti piace. DICASTO.Ioildiro,nonhauerepauca. Cofidice C h r i f t o n e l u ä g e l i o . C o l u i c h i m a l e o p e r a h a in o dio la luce. FRONIMO. Certamente tuhairamentato quello chi e veriffimo.APISTIO.Horlu dimmio bona Strega chivuol direche non andauati a questi balli e giuochidiDiana,odi Herodiade ouero ficome le chiamatia quellidella D o n n a , nellaltrinortif Maaccio iodica piu chiaraméte, perche non erauativoipresentelealtrinottiallimal gradevoli prestigii, e b j a r m e g o l i i l l a f i o n id e l D e m o n i o r o u e r p e r c h e n ó p a r e u a a teuifuffipresentes STREGA . I nollo fo.APIST .Te appa recchiauicu,ouero loafpetrauicheteportaffe STREGA : C o s i f a c e u a f a t t o il c e r c h i o m i u n g e u a , e f a l i u a a c a u a l l o d i un fcanno, etincontanenteeraportataperariaper insinoak giuoco.Anchota alcunauolaconculcauacolli piedilah o Atia fagratanelcircolo,conmoki ischerni,etallhoraallhora sepresentavailmioLudouico,con ilqualepigliauaamorosi piacerifecondochemipiaceua.APISTIO . Dichecofare. composto quefto uoftro maladetto unguento :S T R E G A Fra laltticose, epermaggiorparte fattodifanguedefanciul kini.APISTIO IncheparteteungeuitisSTREGA.Eime Mivergognodiraccontarlo.APISTIO.Dsefacciataetim pudica meretrice,tutiuergognidinarrare quellocheto nonseivergognatodifare?ŠTREGA .E coreftamocofi gran merauigliar APISTIO.Sutielenara ferpe gera fuori I u e l e n o . V i a u i a d i fu i n c h i l u o g o u n g e u i t u r S T R E G A . Giachefiabisognolodicahor fuildiro.Vngenammiquel lifuoghicolliqualimi pongo asedere. APISTIO .Dehuer deticonquantahoneftaibadetto.M ahograndesideriode intendere inquantofpatioditempoeri túportatada cafa tuaperinfinoalgiuoco.STREGĂ .In puocospatio.API STIO.Quátomo puocor STREGA.Inmanco dimezza: 1   hora. APISTIO.Quanto eritu discostoda terraquando te eriportata?STREGA.Tátoquanco-e-laltezzadiuna gius ftaforre.APIST.Ho pur gran defideriode intendere quello che sifain questo uostro sceleratogiuoco.Iperche o buona Strega se desideriche fa quiuenuro per douertiagiutare, de no tirecrescadi narrare currequelle cose che iuisefanno per cotal modo ficomelerappresentaffitotalmentea noi.Il faro sendo dunque giuntaal fiume Giordano. APISTIO.Aspettaun puocoluSiregama dimme Fronimo;Che cola odiť llfiumeGiordanos FRONIMO , Credo que ftaefferuna bugia del demonio cioechesefacci tanto uiaggioperiosmoalfiume Giordaso in cofipuocofra tjoditempos Perilchepensocheellodica queftinocabuli eccellentiluoghiaquestedonnuzze acciomaggiormente leucceglie leinganniemoltopiu'letegalegalecollilega m i delin o m i d eprimi e magnifici luoghi.. nore da creder t e c h e sia p o r t a t o u n o h u o m o in m e z z a h o r a d e l l a I t a l i a n e l laAlia.Ma forfihapigliatoSathanafloda quindiilcolore della fauolapchehabitauacola Herodiade.Veroc chemol tomimarauegliononfingachesianporcate nellaScithia alTempiodiDiana. Ilcheforsfiengerebbe quello fraudu tente nemico dellhuomo,fefufficoli domestico e familiare il n o m e d e l l a S c i t h i a , q u a n t o q u e l l o d e l Giordano: L o g u a leconosce ciascunchi ha udito recitareiluangelio nellia grati Tempii. Dipoinon -e-molto conueneuole quefto fute m e a quello fcelerato giuoco,m a fiben ferebbe a propofto quello Taurico,non sagro m a facrilego perle crudeliffime a c c i f i o n i e f p a r g i m e t e d is a n g u e . M a f o r s e l e c o n d u c e a d u n altro fiuineiui uicino,efa parere alloro, che siano altroui. Benchesianodella trilequaliconfeffanodinon esserepor tate allacqua ouero alfiumem a fiben foura delle fomitati dellimonti,etiuifermate.DICASTO .Non pareameim possibileche possonoefferportate alGiordanealmanco per fpatiodi due hore,ficome quasituttele streghe fra fecouie neno, edicono.FRONIMO.Iftimitu chequellepoffong misuraretantospatio,quanto/e-fraquestanostra patria ela Siria,elaPheniciaincofipuocotempor DICASTO .Dimmi Fronimo. Non puo il Demonio mouere li corpi afuopia cece FRONIMO .Si.Manon seguita pecho cheglimuor uaincofipuocotempo cioecheleconducaosiasouradella terra,uerloloIlluciohora chiamata SchiauoniaOuero alla finestrauersola Ibracia,quero alladestraper lAfrica odero passandoilmare lonio eloEgeof,ouradiCorcitadelPelo ponesfloo,u r a leCiclade,guardando Rhodo eCipro,ecosi leggendofiano porte foura della rippa del G i o r d a n o . D E CASTO.Chi prohibiffecoteita cufarFRONIMO .Lituoj dottori.DICASTO. I n che m o d o ilprohibisconosFRONI M O In quelmodo cheuieraSantoThomafo.deAcquino come nonpuoeffermoffatuttalagrandezzadellaterradal Demoniodaluogoaluogo,facendoliresistentialagranmae Atranatura.Laqualeuierachefiarouinatoetotalmentegua ftoloimegroordinedellecreature e delli elementi.Eglic c o n t r o l a n a t u r a d e lc o r p o h u m a n o d i e f f e r p o r t a t o c o n c a n ta celerisa con laquale insiensefe conferui et fi guasti.Ilper che uiueno quellecose cheferebbe neceffario perloimpi todellaria chemancallino,perchenon effendo in ueruna cosamutata lanaturadiquello gliferebbegrandeoftacolo e grande contrariera.M a lepurfimuralie diuentaffipiura do facilmenteseabbruggiarebbeedouentarebbe fuogo,er anchora sedouentaffepiuspeffoefodo,maggiormentei m pedirebbe la uelocita,etageuolozza delcorso.Anchoraiosi uogliodire piu chelecumoueflituttalariacon latuafantam Sia ficomefermoilcielo Ariftotele conla sua etappodelki Greci feceancheilsimulePhilopono,efimilmenteScotoap podelli fuoiseguaci anchora serebbe cotto dite,sendouiin oppositol a intrinsecanatura f i a d o , e d e l l i u č c i, o d e l l a r i a l e c ó s u m a r e b b e p i u t e m p o a s s a i diquellochediconointerporui.APISTIO Vipriego,lagi cötenti,dilasare a dechiararequefte sottilitadead uno altro giorno.HorsuStregaseguitaparoleo. S T R E G A .Sendo dunque cola giuntivediamo federelaDonnadel giuoco  1 d e l l a quätita.Perlaquale bife gnachesiaportatounapartedopo laleradieffo corpoper quelgrandeuacuo dinullaariariempiuto.Iperchedaqui uiin Afiatoleo uiaogni impedimento della resistencia del insieme   12 20 .Eglie staro Berno molto conos al la 10 OL ud NI 10 Hal insiemeconilsuoamoroso:APISTIO Chie/coluie S T R E G A. N o n lo so.M a soben questo che è uno belliffie m o h u o n o d i u n a r i c c a u e f t e d i o r o m o l t o b e n a d d o b a t o . APISTIO .Seguita pur.STREGA.Quiuiporrauamoal. sembianti receuendole,lecomanda chesiano pofte rouradiunoscanno,edipoicicomandalidiamoindi sprégiodeIddio dellipiedifoura,edipoianchoracúole che gliurinamo foura eche lifacia motuttiliuituperii poffemo. APISTIO. O Diobuono,oimeche odidire?Chifu quele Jotantomaluaggio huomo chetidequestesagradehoftie daportarea coteftomaledetto,etiscommunicatogiuocot sciutoinquesto Caftello DICASTO.O scelerato.O inico operuerfohuomo:fouidicoche credosiastatouno delj p i u s c e l e r a t i h u o m e n i c h e m a i fi r i c e o u a f f i n o a l m ó d o . I l p e t che hauendolo ritrouatoimbratato in mille sceleritadelo giudicai fulli primieramente degradato,cioe priuato della compagnia delli miniftri di Chrifto e dipoi ilconsegnai al Podefta,etello incontenente,segondola ordinatione delle leggi,lofecebrugiare.APISTIO.DehStreganon laffareil comenciato ragionamente. Poimangiamo,be temo,ecidiamo amorofipiaceri.Hormaicheuvoletipia intendere?APISTIO.Voglioche raccontiaparteper par teiltutto.Ma primadimmichecosamangiatic STREĠA . Dellacarne edellialtricibi,chefifuolenousarenellicon uiti.APISTIO.Dondebaueticotefteuiuande :STREGA . Vecidemo dellibuoim a eglieben uero,che dipoi resusciz Tano. APISTIO. De chisono&STREGA.Sonodellinor ftrinemici etanchora cauamo deluino fuoridelle uegge e delliuaffelliacciopossiamobere.Et dipoichehauemomant giatoe benbeuutcoiascun addimanda ilsuoamoroso,cioe Demonio informadihuomo'perfatiffareallasualibidino fa uogliae con huomenichiedeno lesuc amorose, anche el 3 D i m o n i i i n e f f i g i a d i b e l l i s s i m e p o l c e l l e , e g i o v a n e e in t a l modo ciascunpigliaamorosipiaceriefatiffaallefireffrena, an del Tai pi na 5ell ap Tin adi 60 laDonnadellehostieconsagrate.E quellaconallegrafaca oli cia e gratiofi 36 teuoglie.DICAS.Paiono am e illusioni efauole quelle che diconio dellibuoi.FRO.Sonosimiliaquellecosedellequali  narrafauolescamente colui. APISTIO.Chicola:FRONIMO.Conosco chetuvuoilodicainuolgare,quello che e scriccoin greco,Hor fucosidice. Vápoje caminano e cuoi,ç muggislenolecainidellibuoi.APISTIO .Vetaméte fono simili.Chedifferentiaechicaminafouradellaterrailcuoio del buc,e che moto libra m u g g i f f e n o e ftridano le carni m e z z e cotte, da queftoprestigioefincaimaginatione,cioechepiegatala p e l i e d e l b u e g i a m a n g i a c a , f a l i l c a f o u r a li p i e d i : F R O N I K MO.Gócederonoli antichichemandaffelauocelanauedi taggio di Argo ,etanchor diflenoche diuinosu cauallo di Achille.MacoluichinonnjegaparlafsıXanho cioeilca. HallodiHettore,iltimamochenegara ilPegaffo,cioeilca uallocollealidePerfeo oilDedalo,ouero coluiloquale ci portomarauigliosefpogliedelmoftrodiLibia,ilqualeAtrac ciaualatenerellaariacolle ftridentialitAPISTIO.Masetu c r e d i c h e u o l i e f f a Strega, Per c h e f o r r i d j e t u n e s a i b e f f e q u a d o c u l e g g i, q u a l m e n t e le P a r c h a l i e p e i n e p o r t a r o no Perseo: FRONIM O . N o mirido fe tu ftimichesianofacceque ItecoseconactedelDemonio,mafibenmi rido,etmene fobeffefecuctedichesianofacteperopera etingegno del thuomo lopensochenone /similemoftro,cioe difingere che l’huomo o ilcauallohabbialepenne peruolare,odifins gerecheilcauallohabbiaintalmodo lalenguachelapossa tiuolarlaepiegarlaperproferireleparole.cócioliachemol siaugelletrisenzaalcunomiracoloperopera egradeactifs, ciodellhuominiapuocoapocoimparanodiprofericemol teparoleecofifendouiulaiileproferisconoS.e dunquese inlegna dirivolgerela lengua acoteftiaugеlletiper cotale m r t che proferisconolhumane parole,quanto maggiore menteseporradire chelopossanofarelefoftantieseparate osjano buoni oreifpiritiecioe di poter riuolgere la lengua per labocca dellianimalipercotalmodo che proferiscano dritamenteleparolesAPISTIO .Tu dichequestofępuo fare. FRONIMO. Anche ilconfermo conciolia che solo ciascundeeffifpiritidinaturaeguale.APISTIO Ilpuoise ftiprouarecon qualcheeffempio: FRONIMO. Molto ben i pollo prouare,M a h o t a ne baftiano raccontato nel fagta   libro d e i N u m e r i,cioeche la Afina di B a l a a m parloe.E dit conoeTheologgicheparloeperoperadellangiolo concio fiache effanon fapeua c o s i lendoli quelloche dicesse, rivol tae conduta lalenguaadire quello cheera commodo er ageuole per loeffercito delliHebrei.D e cuine hauea gouee noe curailbuon Angiolo;sicomeraccontalascritturaecosi b o narrato quefto effempio solamente accio io tacci quelle historiegia'narratede quellibuoidelliGentili,che parlaro 00, APISTIO .DedimmiStrega.Noisapiamocomenon hranno liDemoniicarneneoffadunque come mangiano, b e u e n o , e l u f f u r i a n o r S a r e f p o n d i p r e f t o . S T R E G S A i c o n . me ame pare, fonosimiliq,uantoallepartiuergognosealla carne,APISTIO.Patreftidarciuneffempio diqualcheco fa c h e sia f i m i l e a q u e l l i suoi corpi.  STREGA. N o lo so ben Ma purpaionoaffaisimilialla ftoppaouecoalbambagio, quando e-coffrettoinsiemee condeniaio.Cosipaionoquel lineltoccare,miasempre sonoimperho freddi.APISTIO . H o r seguica piu a u a n t i . STREGA . P o i e r a u a m o satiatidelli carnali piaceri erauamo portatiallenoftrecase.APISTIO . N o n tiueneuam a i quiuiaúisitare: STREGA .E fpeffeuola te.Anchor qualche uoltaquando andaua almercato,eritor naua accompagniauammi.E ricordammicome ritornando acasaungiornofuiltardodalCaftello effendoegliinmia compagnia,tre uolte pigliaffimoinsieme amorosi piaceri auantigiongeflia casa.APIS TIO.Quanto -e-discottola tua casadallemura delCastellorSTREGA.Circadiun mi gliaro. APISTIO.Danque non emarauegliafelfimoftro effomaluagio Demonio informa dellamolto libidinofa paf feratM a pur Fronimo,iotedicoiluero,anchora non posso capirceon ilmio ingengno cheuoglionosignificarecoretti tantosozzipiacericarnali.FRONIMO.Tidirolamiaopi pênione Iopenso chefaccicotestoeslo ingánatoredellhuor menipersatisfacealleffrenateuoglie diqueste facciate et impudichemeretricilequalinonhannoiltimore'de Iddio, Chi e quellofienochefacaminarelhuomosecondoilraa gioneuole appetito egiustodifio.Ilperché remofio tantideta t o f r e n o d e l l a r a g i o n re i m a n e l h u o m o c o m e u n o a n i m a l e hh LIO 10 Eté 11 1 TO    xrationale, efi comeunabeftia, ecosidipoidesidebraram. ma et anchora cerca le cose da bestia ,etineffefedeletra. APISTIO.Ne anchepercioeglieposibilechepoffacapite con lanimo donde poffono hauere tanti lasciui piaceri DICASTO :Chehabbianograndipiacericredochelpoffa interuenireperpiu cagioni,dellequalialcuneneraccontato Jarrelaffaropermaggiorehonefta. Conciosiachehauemo a parlare sempre in cotalm o d o ,eprencipalmente incolga k cheanchorlapudica orecchiauipoffaftare.Puodunque guestointeruenire,almiogiudiciopercheseglidimostrail Demonio maladettoinunamolto aggradeuole figura,cioc belladifaccia colliladrjocchiecon ilgiocondo uolto con ciofiachepuocoimportaalDemonio difingeree difigura. Re una formadiariaofozzao veramente bella, ecosifigura te formeficomeparepoffonpiacereaquellicheuuoleinga nare Ilperchecofilosinghaetiraquellemeschinelledonni ciuolea fecon effa fintabellezzaecolliocchicosifigurati, etconlafciuifembianti.Etanchoraacciochemaggiorment tele ingannano fingonodieffereinamotatidiloro.11fimile fannouerfodiquelli sciagurati huomeni,diinoftrandosi in forma di belle damiselle,ecosi uifanno apparerecuttele proporcionidellemembra,etuttelebellezze,etuttililasci. uisembianti che desidarano accio che meglio glipoffono ingannare. Dipoianchorgli fannoparerequellipiaceriche hannoconqueftefinteimaginisianomoltomaggiori che poffonohanerecolli'uerihuomeni,econ leueredonne: Hor pensacome sono inganriati,etuccellatidalDemonio.Ecoh n a r c a u a quello scel e r a t o , e (maledetto incantatore di Don Benedettoauantinominato.IIqualeraccontauaqualmeno tegliparcuadihauerehauutomaggioredelectationecon il Demonjoiqueftafintaimagine chiamatadase Armelina checon tuttelalaifemine,collequalihaueamaihauutolara uipiaceri.Etaccionon pensaftiche con puochefefuffii m pazzatio o tiuogliodireche questafozza bestia,piu presto cofilo chiamaro che h u o m o anchora hauea hauuto uno fie gliuolodella propria sorella.Ionon dicocosache sia secreta cóciosiachetuttequeftecosecheraccoratosonoiscrittenel   ljgrocelli   U p r o t e f l i f a t t i d i lui. Era tan t o i m p a z z i t o d e t mt o i s e r o h uomo in queftodiabolico amore,epercotalmodo beftialme t e brugiaua di cotefta fua Armelina. cioe del Demonio in do ficomefannoduoicompagni insieme benchenonfuffo ucduta dalcunoaltro. Ilperchefendouditocosi ragionare, n o n sendo ueduta quella pensaua chiunque ludiua chefufti doucntatopazzo.Debuditelescelerateopete checostuifa ceuaperamoredicotestasua Armelina nonbattiggjaua fanciulliniquando glierano portati fecondo la conluetudi medeChristianiperdouerebattiggiare, ma hauendo fino de battiggiarliconliremidadaacasasenza battesmno, o n consacrauale hoftic quádo diceualam e s a benche fengeffe diconsegrarleecolligefti,econ un certomormorio,perna fcondere lisuoifrodi,ecosifaceualeadorare alpopolo,non fondoconsegrate.Veco-e-chesepur qualcheuolcadritame t e h a u e f f e consegrate, alzando la sagrada hostia in alto per dimostrarla al popolo ci o e ilcrocifissooaltrafu gura collipiedi riuoltiinsuinuituperioetiscerno de Iddio edallasuafantiffimafede.Dipoileconseruauaperdarlealle fccleratefemine,etallimaluaggihuomeni,accioleportaffe toalmaledettoetiscómunicato giuoco.E coliquellodiabo tico ebeftialeamore era causa dicantipeccati. Anchora -e nellam e d e m epazzia unaltroftoltoe pazzo,chiamato ilPi heao ilqualetantopazzescamente amaunodiauolodetta dalui Fiorinache seglidimoftraiu forma de femina,che fouente hămidettoiftaminandolo piupreftodiuuolerepa. siteognimartorio,che abbandonaretantabelligimafer mina conlaqualehahauutotantiamorosipiaceriquarant taanni. Eper cotalmodo-erdivenutoatantapazzia chenå eredeefferaltroIddicohe quella.Vedetiquantosonoinui, luppati costi meschinelli h u o m e n i nelle reti del dem o n i o . Etanchor non pensati chesolamente commettano cotefti fceleratispreciatori dellafantiffima c triomphacifima fede  1 formdai femina,chesouentelhaueainsuacompagniaspas leggiandoper lapiazza,ecosiandauanoinsiemeragionan f i c o m e sisuolela alząua con lafigura luie-figurataridottaalcontrario 11 1 hh ii f el   diChristo,dellipeccaticircalasagrahoftiaereffagloriofiff m a f e d e f e n d lo e g a t i d a q u e s t o p a z z e s c o a m o r e , m a a n c h o c o m m e t c e n o dellaltri male opere senza numero . C o n c i o Siache cobbano lecose dealiruiimbrattano ogniluogo col lisuoimaleficii esouradelcurto sonosommerli coralmente n e l l i a d u l t e r i i, n e s t u p r i i n c e s t i e f o r n i c a t i o n i. N o n h a n n o c o spettodicommettere lipeccati con pacenti,sorelle,fratelli et altrepersone.Vccidenoli fanciulliasciugano ilsangue di quellifannouenireedescendece dalcieloacerbiflimetemi p e s t e g u a s t i n o li c a m p i e l e f r u t t a c o n l a g r á d i n e, e g r a g n u o s la con tanta ruina, che pare se ferebbono portati piu m o d e l Atamente quelliche anticamente incantauano le feutta controdelliqualidipoifufattalaleggeescrittanelledodeci tauole.APISTIO. Dunquenon folamente sefforzano di daredannoallefrutta,etallealtrecose cheproducelaterra ma ancheracercanoperogniuiadinuocereanoicon ilcic loe con laria checi copri: Caccio  so. DICASTO .Addimandalotua dei, APISTIO. HaigiamaicuStregacommoffolituonice, Catto balenare laria? Sifpeffeuolte. APISTIQ . Hai tu guaftele biade con la grandineouerotempeftas STREGA. Nouna voltamalouentefi. APISTIO. Inchi modorSTREGA, Fatto chehauea ilcerchioeccocheinco t i n e un u ei n i u a i l m i o Ludovigo , m a n o n i n f o r m a di bu o m o mainfigura di fuoco. Allhoracomençiquenodiscedere del lariafulgore,efenteuasituoni,ebalenaua il cielo edipoicas Scauala grandineetempeftasouradellicampie prencipal mentesourade quellicheeranonoftrinemici,delliqualide fiderauafufferotouinatie.guafti.APISTIO.Deh dimmi, peramore:decuifaciuicucantarouina:STREGA.llface uaperodio,enon peramore.FRONIMO.Miricordodi hauerlettoneuersi comeeDemoniifaceuanoli ftrepiti,co fidicendoloingegnosopoetaOuidioinquestomodo nos minádolisottoilnome delliDei,oueroquellimaleficiiicuc.. cedella persona dieffo. Perqualagiutoquandouolfaftrenfor: Ifiumiinfoncisuoitornare e mosh Inftabelcofe,ftabelfompreuenfi,   Regietto,euenci echiamo quandopiacemmi. Ma questanoftraSirega,piupotentechMeedeaeccitoan thoralatempeftae grandine elaconduffefouradellebia de. Anchora tirano gli animi dellbuomeni'ne peccati colli fuoilafciuipiaceri,perchelosinghanolisentimenticon effi. Ilperchehomai-e-qualirinouatoquel detto diLucano in queftonoftroCastello cosidicendo, Ārfenoiuecchi dillicitafiamma Netantola bevanda nofsia uale 1. Quanto la modella caua l l a e r e t t o Ri f a t o i n f u c c o, l a m e n t e f e i n f i a m m a: E perisce incantata,né piu fale Deluelen haufto pura del defetto. Eraquelmaluaggio Don Benedetto,decuihauemo ragio nato de annisettanta duoi,quando gliscacciaflimolafiami niadelfceleratoamore con laqualetanto ama quella sua Armelina,o quellofuoDiavolo,informadifemincaon una altra grandiffimafiamma uscitadiuna granftipadi legoed E cosiromaseturcoincenere.E questo-e-ilmodo dascaccia re u n fuogo con laltro.Vine-unalcroin quefto fcelera s a m o te rommerfochibaoltrodisettanciqueanni,etanchoruno altrocheha vedutooccanta folfitü,Liqual andauano aldet toprofanoetifcommunicatogiuoco delDiauoloottouolre m e s e l e c o s t -e f t a t o c o n o s c i u t o pe r t e f t i m o n i o e c o n f e f f i o n fiede molti dieffriniquiemaluaggihuomeni,chenon sono folamenteunao due puero treStreghe,m a sonoingrande moltitudine,ecofiche non sono solamente ute o quatro stre gonierscelecacimaschi,liqualiuannoa questo indiauolato giuoco,ethannoquestiprofanipiaceri colliDemoniiinefli gia difemine,m a egliesutotitrouatopercerto comeuiuar noingrannumero ecin granmoltitudinpeercotalmodo che credono secondo la loro iftimatione che ui si ritroua a quefta maledetta congregatione oltro di due migliaradi persone APISTIO. Oh chefenteio diceslaantiquitasola, mentebalaffatoinscrittoditreouetquarto Maghe digrå  Caccioconlamiavoceilmalfe fpiacemmi Carco dinebbie,enebbiealseren genero  m a ame parechenenoftri fama, giorniseritrouanomolte Medee,no puoche Candie, nó una sola Ericho. FRONIMO. Tu cinaraucgliiche se ritrouano-secento M e d e e con cijoria chetusaibecn h e son inuna Citra della lialiadodece migliaradiCircecioedimeretrici,lequalisonotenuefora lenondimenotunon timeraueglidieffe.APISTIO .Ben bente intendo.I percheperbuon rispetto,no bisognaalati mente cercareouero inueftigareil sentiment dellpaarabo la perlinascostiluogbj. FRONIMO. Diroe anche due pa role.loistimo chehabbiaIddio con sua gran prudemtia uos lutofermareestabilirelasuafanciffimafedenelliapimi del lifideliindiuersimodiperfarecrescerepiu ampiamentein ogni canto la christia n a r e l i g i o n e in q u e s t o infelice tempo, Helquale pareuadiognicoladimale in peggio. APISTIO , Inchemodo FRONIMO.  Prencipalmėteincemodi.E primaperilfucceffodellecosegiapredetteetannunciate,de poiper limviracolifattidiuinamente epoianchoraperillco prireche ha fattoladiuinaprouidentiadellescelerirade de de corefti indiauolari riti,e maledetteopere dellantidecco molto bialme uole giuoco. Giahauemouedutouenireapun tole sanguinolenti guerre la crudele fame e carifteia lahore tenda peftilentia licomegia auantjerano state annontiate diuinamente permoltjarniHauerebbono forsipoffutocre derealcunifacilimenteper cotalmodo oppreflidallagrans dezza di queste tribulationi che fusseroproceduteo casual menico fatalmentedate calamitadi etribulationifelnon fuffisutonuouamente fuegliaraeteccitatalafedeinquesto noftroCastellocontantimiracolifattidallagloriosaVecgie ne Mariamadre deIddio.Lequalicofeficomedaseconfer m a n o ,efortificanolafede Chriftiana,cosianchora per acq denslaconfeffionedicotesteAtregheglida uigoria eforza Per la quale confeffionee per il gran numero delli'teftimos nud i a m e n d u o i li f e f f i c i o e c o s i d e l l i m a s chi com e d e l l e f e y mine,cognoscemoapettamentequalmente liDemonijco donemicietaduerfariidellafedeChriftiana Laquale e di tanta forza chequanto maggiormente e con ognisuafor za,aftutia   p e r fare dipoidello unguentod a ungere di luoghiuergognofiquando uogliameoffereporcati algiuos co. DICASTO. Acciononiftimatieffercoteftefavole eche fano sonniio imaginationiechefianosolamenteillusioni, e non siainverita,erealmentecioèdiandareper lecase di q u e f t o e d i q u e l l o a d u c c i d e r e l i b a m b i n i, u i d i c o q u a l m e n t tefono ftatoritrovatidellifanciullini,ben certamenteinfen ci,cheanchorpigliauanolapopa,etillatte,liqualihaueano ledita forate,elepiagheebucchisottoleunghini. APISTIO. RefpondiStrega.Aflaimimaraueglio chenon greffino,eche cridaslinodetti fanciullini,quando uoili trag tauatitantomale,echelipungeuati.S T R E G A . Sonoal Ihora per coralm o d o indormentatic h e n o n feiitino. M a dipoiquando sono fuegliaticridanoad alta uoce e piango no e Aridono ,efeinfermano,etanchoraalcunauoltamon teno. APISTIO. Perche non muoiono tutti. Perchelifanamo.Conciosiacheglidiamodelligioueuo / lireniedi,ecofilikberemo.Hiperchenetiramograndiguza dagni. APESTIO . Chi uiha infignato questi cemedii STREGA . E demonii. APISTIO. Questo a meno n p a s teverifimile.FRONIMO.Eperche.Non faitucomeit Demonio conosceleuirtudedelleherbe ,lequalianchora  za aftucia,etingannilacercato di rouijare e di ofcurare, tantomaggiormente se alza erefpiandeperognilato. APISTIO. O quáto ben lhai codutto questo tuoragionaméto . M a horfu dimmiobuonaStrega.Vccideftigiamaiuerun fanciullorSTREGA:Non un folo,m a simolti.APISTIO . Conilcoltello oueroconlamazza.STREGA.Con laagus gliaecollelabra.APISTIO fucbimodor STREGA.Ine trauamodinottenellecase denoittinemici,perle porteet usci cheeranoapertia noi,dormeudo e loro padriemadei cpigliauamoi fanciullini,econducendoli appo delfuogo , forauamoconlaaguglialortoleunghi,dipoiponendowic fabraasciugauamotanto sangue,quantone puotevamote n i r e n e l l a b o c c a . E p a r t e d i q u e l l o n e d e g l u t i u o , c i o e ilm a n dayagiùnelRomaco epartene riseruauoinunabuffua o inuno uafetto piaa   comeptatitis hanno conosciuto lhuomenisanchortudebbifaperecome giafuconoscrittemolteregoledamedicare nel Tempioda Esculapio,lequalidipoilecolse Hippocrate,ele Scriffenelli suoi libcisicome citrouiamo.Anchor sono fccicci molti g i o ueuolireinediciosialle piaghe,efedice,come contro delli geleni,nellehistorie che furonoritrouatiperlifonnii. E puf anche leggiamo qualmente soleuano dormire nel tempia diPasipheaenelláltri Tempiidelliifimati DeidalliGentils ficomegiapiu auanti diceflimo,quellichi cercauauo li res mediicontro delliinfirmitade,sapendo chegliserebbono reuelatiperilsonnio.Ilperehetunon tidebbimarauegliaro seanchoranerempipresentiglireuela ilDemonjoliremes diiaquestariaemaluaggia generationedihuomeni,edifc mine lequalifrequêteméreconuerfano con lui,APIS TIO Dichecosauidannospecáza,douiatihauerdaloro:S T R E GA.Longa uita,Grandedoujtiaericchezze,econtinui pia cericarnalilequalihauemo,ene pigliamo delettatione. APISTIO.Deh dimmiperquella fede chenonhai.Ti dok nologia maidelli danaris Gia m e nc donoe ale quanti ucro'e che disparfono .Pur seruai alquanti puochi quatrini.APASTIO.Veramentesonograndiricchezzeco tefte.Dehpensachecosapoi serebbe felteprometteffeli T h e s o r i d i C r e s o q u e r o ci promett e s s e m a g g i o r e d o u i r i a d i quella di Alessandro Magno ,cóciosia che era portato lo ora. diquellodaquarantamigliara denuli,five-uero quello che scriueCurtio,quero ficomediceilPlutarchoin Greco,ilqua lecosidicoinuolgarepersatisfarea ciascuno eraportatolo orodieffodadiecemigliaradigiogatiOrichiisulecarrette erdacinquemigliarade Cameli. FRONIMO.Paredicon tentarsicoteftauilee fozza fecedihuomenie di donnesele d o n a t a n t i p i a c e r i q u a n t o n ó h a u e a S a r d a n a p a l l o ,n e S m i n dre,ne Stratone.E cosipiuolicanon cercanopurhabbiano, queftipiaceridiabolici.APISTIO .Almáncoquelleerano h u m a n e e u e r e , b e n c h e u e r g o g n o s e e b i a s m e uoli , m a q u e ftedelleStreghesono coseda ridere,eda fars-beffe,esono: menzogne finteeuane.FRONIMO. Tunondirai che quellesianowane,setu ben considerarai questo uocabulo   pi 10 nie lo comentátitieecimaginarie cioe parte finte,epartenuoue. DICASTO.Iftimo chequelle siano inparteuere cioe fon dareinquellacosache-e-erinparcesianofallaciefinte,enó firmate inuerunuerofondamento,emaggiormente circa diquelle coke,dellequalenarranoalcunicomesecangiano in forma diGatteetinaltre figure di animali,Ihuomenic d o n n e di questo maledetto giuoco,etche resuscitano libuci che hånomágiato,sendolipoidatodellauerga dalladonna o dal Signore del giuoco, fouradellapelledouiuisonoposto d r e n t o To f f a d i d e t t o b u o mangiato. I p e r c h e f i a t i c e r t i c o m e tutte quefte cose sono imaginacioni illufioni,etcose che cosifaapparere ilDemonio Icelerato,et aftuto chesiano, mainueritanonsononeanchoraessolepuofare.Ma che fianoalcunauokaporcatiperariaetchefouentemangiano beueno,etdianslibidinofipiacericolliDemoniicofiin for madimarchicomeinformadifeminenon e-danegare, neanchordariputarecosa falsanecontrariaallauerita.Puo trebbi narrare afraicose confermate da digniffimi testimo nii fe v o n hauefli paura che poi ui lamencafti di m e ,d i c e n do cheuihauefliingannatorobbandouiiltempoconcefloa uoi da douer udire la Strega.APISTIO . Ti priego,fiacona tento di riferuare cotefta curiora disputacione per infino a d o m a n e . D I C A S T O . G i a -e-diputato quello ad altriragio .namenti,purmolticuriosi.Vero.e-fetu purtanto brammi deintendere questo,fiaticontétodidisinarehoggiconmieco, benche fiamonella uilla non mancarano imperhotandi cibiquantoseránoneceffariida iftinguerelafame. FRONI M O .Non -e-darifutareilconuitodelloamico,douisiritroj u a n o a f f a i d o t t i r a g i o n a m e n t ib , e n c h e p u o c h i c i b i. C o n c i o fiachere-moltopiuaggradeuoleallifpiritigentili,etaquel l i c h e s e d e l e t t a n o d e l l a d o t t r i n a il c o n u i t o o r n a t o d i c u r i o l i parlamenti chede uariera edi moltitudine di uigande. APISTIO.Piacémmi assaiciascunadicorefte cose.Perche c o n u n a si p a s c e il c o r p o e c o n l a l t r a J a n i m o . D I C A S T O , HorchiederipuruoidallaStregaquelloche vipiace,laffal. to coftuiquiVicarioetinmioluogo,perinsinoritornaroda noi.Perche uoglio impore alsopraftäte della mensa,quello   c h e d e b b i a f a r e. APISTIO . S u S t r e g a d i . H a u e a il t u o a m o r roso'uerunsegno,con ilqualeaddimandatodateuenesse n e l c e rchio : STREG A . S i h a u e a in q u e s t o m o d o . c h e o g n i uolta chemi fuffidiscostatadalli altri,ecosi sola due uole Ihauesichiamato incontanenteuiueniua. APISTIO .M a per quale cagione non treouero quatro uolte. Non loso.Coferaammaestratadalui.Maanzimolto for teme ammoniua nólochiamassetreuolte.APISTIO .Chi ne pensitu di questa cosa Fronimos FRONIMO. Questi pattidel demonio daluipendeno,esonoin fua dispositio ne,enon solamentequestipattimanifefti,m a anchor li occulti . D e l l i q u a l i il n o s t r o f a n t o D o t t o r e A g o s t i n o i n s i e m e c ó a l c u n i altri D o t t o r i n e h a n n o scritto . N o n d i m e n o p u r io c t e do chenon sianaturalecaufainquesto numerodi duoine a n c h e p e n s o c h e u o g l i a dimostra r e c o t e s t o il m i s t e r i o d e l l a Diadeosadelladualita,dimostrato da Zarera Caldeo,per  Pithagora alli Platonici. O liacoftuida chiamare Zareia, frcome diceOrigenenellibrodelliPhilofophimenoni,o fa da scriuereZarata ilcheulaPlutarchoCheroneodesignano doilMaestro di Pithagora,dechiarando una parricoladel Dialogodi Timeo oueroanzisiada dire Zaradaconciosia chenellibrodelleleggi,lanominatodaTheodorito Theo logo ZaradonM.ache cosaimportaalDemoniodidisputa rediquestacosaediquestonome loistimochequiuigia ce nascosto qualche inganno,equalche aftuta frode delD e m o n i o m a l u a g i o. O u e r a n c h o r i o p e n s o c h e il f a c c i a c c i o n ó se accordi con lavoce della santiffima Trinita,e cosi uuole pareredinonapprouarequella.LaqualeeDio uiuentein sempiterno.O forsianchorailfaacciotiraetauertiscamag. giormenteThuomodallaconsuetudinedellecerimonie del la nostra religion e Christiana, A n c h o r a il puo fare per quale che altro ingannoetfro de il quale noi non sapiamo ritrovato dalli antichi Gentilie Pagani sottoilnumero pare.Loqua leuuoleuanofufficonsegratoalliinfericioeallispiritierano giu nel profondo elo dispare allisuperi,cioe allispiritihabir tauano Touradellicieli.APISTIO .Aftaisonfatiffatto.M e dimmi Strega.Conosceuitudiesser ingánatada questotuo amoroso STREGA.Non mai.APISTIO.Come-e-posli!   b i le cotesto: Quando tu vede u i d e s p a r i c e l i d a n a r i , c h e c o s a ittimauiturSTREGA.In chemodo de parefsinonon con, Sideraua,Vero-e-cheeglidame ritornaua,etmicompara uaconmolciamorofipiaceri,epercotalmodomi legaua, chenon pensauaaltcochedela.APISTIO .Che cosaaddi mandaua che uuoleflida tequando tiprometteua ianitecol se,quandocidayatantipiacericarnali,echefingeuadiesser t a n t o g r a n d e m e n t e i n a m o r a t o d i t e s STREGA. N o n a d i. mandauaaltrodameeccettocherenegasselafedediChri/ Stoenon uuoleffehauersperanzapiuinello,ma cheme ilu genocchjassealuieloadorasse eloteneffeper Div. FRONIMO . O iniquiilimo,o fpurcissimo,o fceleratiffimofpiri to detto ueramente dalliHebrei Sathanaflo ouero aduerfä rio,edalligreci Diauolo,edalliLatiniCalunniatore.Se puo pensare maggiore calunnia,emaggiore ingiuriacontrade iddio quáto eche faccicanta forza questo fcelefto colle fue maluagie parole diuuolerlirobbareladiuinita,echelauor gliaattribuireasecontantaatroganza,econ tante bugies IlpercheforsihaamatoquestonomediDemonio osiaper dimostrarechehabbiala scientia ouerper daretimorealle creature.Eglie uero cheecosasupremante aluipropria efa miliare ditessere ordinaree comporre le isisidie et ingani, Coliparimenteingannoilprimohuomo,sottoilnomedelli Dei donde-e-uscitoiluocabulo del Calumniatore,ficomedi ceGiuftinophilosophoemartire. APISTIO .Sa Stregadi, Inchemodo erasu discernuraeconosciutafralialuribuoni Christiani:STREGA.Non uierauerunadifferentiaframe elialtri.AndauaallaChiesa,miconfessauaneltempo della QuaresimaauantidelSacerdote decurtiemia peccatieco cerco che diquefto Dipoi andauá collalori a comunicarmi alloálcare.E cosinon eradifferenciaalcunaframe elaltre donne.Non uierauaane coteftecoreilmio amoroso.Sola. mente eglimi comádaua che douessedirealcune cosepian pian,enafcoftamentefacessealcuni arcilequalicosedetree faite altro da nienon uuoleua. APISTIO :Racconta iltur to aparteperparte.Sendo nella Chiesane giorni delle feste,comandauaame cheleggendoilSacerdote lamessa adaltauoce(sicome;Tesuole)diceffeiopianpian ii ii   Hon euero,tunenientpierlagolaequandoleuauaquel lola hostia consagrara soura del suo Capo per dimostrarla atuttoilpopolo acciochesiaadoracae reuericamoleus cheioriuoltafi liocchialtrowe,enon laguadasse, etanchor micomandauarivoltafsilemani dopo lespallee piegaffele deta sottoleueftimente incotestomodo ,sicome uoi uedeti io facio.cioecheglifaceffele ficca.Dipoianchoramidiceua. nondouesliscoprireuerunacosadellinoftriamorofipiaceri, al Confeffore n e anchora di quelle cose che pertengono al giuoco.Egli iftimaua poiche non importafle cosa alcuna se ben uuoleffedirealConfefforelealtrecoseoueronon ledi ceffe.Voleuaanchora,chesendoandataa communicarmi, fecondolausanza incontinentisendonimipoftal hoftia consagrata nella bocca, la giraffi fuora fingendo di asciuca r mi la bocca e laconferuaffenelfacciuoloperportarlaalgiuoco, accioilbeffalimo, etischernissimoconquelli fceleratim o di,sicome disopra disse,etanchora perche il conculcassimo collipiedicon quelliuituperiigiaauantiraccontati.Dipoi portauadicontinuo due hoftieconsagratenella miaueste culite,percheellome diceuache uieratālauectuineffefen dole portate in quel m o d o senza riuerentia,m a anzicon uie tuperio,chemainonpuotrebbe confeffarelinoftripiaceri, neanchoraaltracosa delgiaoco,benchefußiancheinterro gata dallo Inquisitore n e con tormenti,ne con altrimodi. N o di meno aftreggendommi imperholo Inquisitore em e pacciandommidiuuolermgirauemente martociarefenon confefauaquestenostrescclerate operemi commando quel demonio maluaggio, legetraßein queluafo,loqualehai uea portato a m e ilGuardiano della pregione per farele mie necesitati.APISTIO. Facefti questoiscómunicato.com mandamentos STREGA. O me mischinella, et infelice's bubbidi.Ma non ui rencresca diudire una cosamolto hori rendae pauentosa cheoccorse.Rompendoioinfeliceescia gurata quellesagratissimehoftienelfterco,con unuaerga, vide uscire da quelle il vivo sangu e. FRONIMO. Che odi dire hoggi: Puoesserequesto Credocercamentechemai piuno udiranolemie orecchie finilioperefcelerate etis communicate. DICASTO. Andiamo un puoco nel giardino ecosiforsicaminandoefpasseggiandouiritornara lo a ppetito. H o r f u r a m e n a la strega nella pregione. APISTIO. Inueritauidicochenómaihauerebbecreduto che fe poteffino,non dico fare,m a pur penfare tante fceleritade, tantemaluagioperee tante ifcomunicate cose,quante ho udito hoggidalla Strega.Ilperche avanti facilmenre haverebbe perdonato acoteftagenerationedihuominie didon ne credendo chefufferocondurrida qualche leggierezza o ueroda qualchemancamento diceruello adintrareinque fto errore etanchora iftimaua che fusserocotefteStreghe e Stregoniingannati dalle apparentiuisioni e illusion e fittio nidelDemonio etanchora(iodirolamiaoppenione)non giurarebbichenon sianoingannati, ma hora11comebuono e fedele Chriftiano c o m e sono itato eth o creduto quello, che debbe credereciascunuero Chriftiano, non mai con fentirebbifedouessedare uenia,neperdonareacoresti ini. quifcelerati emaluagginiolatori,efpreciatoridella nostra fantiflimafede. DICASTO. Se tidimostraroche cotestoap pertenne alla Religione Christiana di douer credere che sia noinuerirafattedaqueftifcelerarihuominialcunemaluag gie opere etseiɔti conducero tantiteftimonii, ilperchne o n puottaifaredinon credere efferemolte cosenellantidetro giuoco chesonouere,enonfintene ancho imaginate,m a Li come siamo consue t i d i parlare che siano reali io penso che dipoinon farajostinaraméter efiftentia. APISTIÓ. Ancho ranon sepiegailmio animopiuinunaparte che nellaltra. DICASTO. Dimmifettepiace,Vedeftimairefuscitare  municate.APISTIO.Anchora iosondicoteftaoppenione dinonudiremaipiufimilisacrilegginesimilihorrendeope te. FRONIMO. Dehperamore deIddiopartiamocidi quietandiamoincontrodi Dicafto, feltipiace,cheritorna danoi. APISTIO. Moltomipiace Andianio. DICASTO Hoben comeuafecifatiffattir Vi-e-anchorarimastaalcuna cosa da dovere intendere. FRONIMO. D e h il n o f t r o D i cafto,iotedico chepercotalmodo siamostomacati cheno hauemopiubisognodipranso.Iotesoben direchesiamo per una uolta sariati   uerunmorto. APISTIO. Non maihoueduto tantomira, colo. DICASTO. Creditu che possono resuscitare e mortis FRONIMO. Non lonegara no. Conciosache-e-quefta cofamoltocancataefouente ramentaca dalli Poetietand chora-e-scrittadalli Philosophi, e maggiormente da Platone. Liqualinarrano come resuscitarono limorti,etusciros no dell’inferno. APISTIO. Ne ancho per queste cose m i acqueto,incoteftaoperachi-e-ditantomomento. Ecolino credoalliPoetinealliPhilofophidicioma libenaluange lioDICASTO.Io tiuoglioproporreanchordelliefsempii dialtracosade cuinonlefamentionenella fagrascrittura, Dimmi credi tu siano uscite le naui dalle Gad i cioe da quelle due Isolecheso non elfinedella Bethicanellaetremita della terra noftrauersolooccideniedouife diuide la Euro padallaA fricaretanchorchesianouscirefuoridelportode VlissiponadiLusitaniaosiaPortugalljareche quelleriuolte versiol Zephiro siano stato portate da circauentimigliara di ftaggi,o piuomanco fiacome silioglia,perinsinoa quel larantoampiaterra(lagrandezzadecuianchornon fecor nof c e) e cosi portando le hora il  Zephiro per il mare atlantico siano giunte allo Indico feno. APISTIO . Si lo credo . DIGASTO.Tu locredi. MadimmiacuilocreditAPIST. A tantimercatapti liqualiraccontanoin che modo hanno fattotaluiaggio souradellelarghespaledelmare colle 11o dantinaui. DICASTO. Haicu maiparlatocon quellis. APISTIO. Non ho gia ragionato con quelli ma pur alcunayol ia ragionando di cotesta cosa curiosacon quelli liquali h a uerano udito daquelliche hannonauigato per detti luoghi lo diceuano,etconfermauano che coli era. DICASTO. Il mio Apistio dimmi non ti hauerebbono poffuto ingannare quegli. APISTIO. Deh, no chi serebbecoluichi dubi tal, che l’huo m e n i gravi e gia maturi di conseglio si d e l e tra s s i n o d i favole e di menzogn e s DICASTO. e dunque io producero quiuinelmezzo non menore numero ditestimonii dinon manco grauica:edinon manco.oppenioneet istina tione,de quellituoi liqualihanno cófermato con giuramer to come. Sono portate algiuo cole streghe e li stregoni, come li demonii danno amorosipiaceriállhuomini in effi g i a d i donne et alle donne in figura di huomini, e cotesto Thanno havuto dalla bocca dies li stregoni e streghe conil  20 line old od sagramento costretti chene dirai esera tu poi fatiffatto. FRONIMO. Se potrebbedire ueramenteche coluinon fussiin talmodo satisfatto,fuffioscioccoo pazzoouero oftinato. APISTIO. Deh pertuafede di'per quale cagione. FRONIMO. Percio chequando sono moltidiunamedeme voce, 11on pare c o n u e n i e n t e c h e sia u e r u n la d e b b i a n e g a r e eccettosilnofussida qualchebuonaragioneper cotalm o po costrettolaqualehabbiatåraforzacheportagettareal baffo quellaoppenionecosiconfermata ditantihuomeni. Jlchecredotunon habbi.APISTIO.Questatuaragionc h a puoca forza in quelle cose che paiono louerchiare lefors ze dellanatura,m a ben affaine ha in quelle cose ne ueneno nellulodellhyomo.Ilperche non ho fattodifficultadi crede requelviaggiodellenauidiSpagna nella Indiaetaquella terranuouaecofiaquellialtriluoghima benfogran diffisculta in credere il giuoco di Diana. FRONIMO. Puo' esserre uno molto maggiormente contrario a quelli che raccontano il viaggio della India che aquelli che narrano I givo; codellanotturneHecare cioediDiana.Concioliache dets. touiaggiononfugiamaipiùperuerun modo conosciuto dalla antichita,m a solamente furono ritrovatialcunipuochi segnali con liqualidicono gia giongeffe non soche naui dal JaIndiaal litto di Spagna. M a hora senauigadella Europa per il mare di Ethiopia nella India. Eco si hora gia f o r o s r o gnatiiporti,etilittinellecauoledepinte.Anchoraalpresen Refono ftato ritrouatealcune Isoledi marauigliosa grandez za chemai non furono conosciute dalli antichi.Et anche nonfumai ramentata nescrittaquellaampiaterra,emol to marauigliosa per lasua grandezza retrouaraquesti anie ni paffatiLaquale,fefusiAtataconosciutadalliPhilofophi, liqualiseimaginauanoesserepiuMondi nellordinedella natura,forsicon maggiore ragione hauerebbono dimo, Atratolaloropazzia.Delle qualicofeinouamétecontantefa ticheritrouare'non hanno fattopur uno puoco dimentione   o Strabone,o Ptolomeo,quero anchora quellialtri;che for no suco reputatipiufauolatoridiefli.M a delle Streghe ne fattochiaramentione nellilibridelliantichietanchor delli moderni.APISTIO.Io lento, m a nó foimpechoin chem o do,apuocoapuocomouersilanimomio accioconsentialla quaoppenione.Vero-e-cheuolétieriudireieteftimoniipro mellida Dicasto diconducerliauantidinoinelmezzo,ec a n c h o r a d i s i d e r o d e i n t e n d e r e d e l l e r a g i o n i se ne ha della l e tri,olcro di quelle che ha detto. FRONIMO. Deh il mio Apiftio tu debbefaperecome-e-fegnodipuoca Atabilicadi animodiuacillare,erdipiegarsimoquiidimo riuolgerli indimo fermarsiedipoimouersidalluogodouieraferma, to. Conciosia che quelle cose,dellequaliauanti diceuamo. Senonpareuanoateuerepurpareuano imperhomolte fi milialuero dapoianchoracontradiceuie dicenichemeri tamente era da esserecontradetroda tea similicose,m a ho ta c o n una certa inclinatione di anim o confeffi dieffere tirar toesforzatodidouercósentireallanostrafentétiaetoppeni one. llpercheame pare(perdonamiperho)chemeritame tepuotreffieffernuotato diinstabilita eccetto,setunon ha) ueffiusato iconia ,ouero simulatione,e ficcione. E cotefto n o serebbe meraueglia, perchetuseiusatonellifintigiuochide gli Poeti etanchoraseitumoltoeffercitatonelliDialoggidi Socrate.Perilche interujene che lepersone sono usate in der tilibri, onon maio uero con gran difficulta sepossono rimo ueredallidettimodi.APISTTO. Fronimo mio io non fingo in cosa alcunane anche giudico che fiabi sognofra teem e de Ironia ouero simulatione, ma io te dico il vero, che non quorejcofi prorontuosamente credere una cosaditantom o mento.Ilperchepaream echedamegliodidubitare pur che modestamente sefaccietanchoradiscoprireetidi e quindiledubbitationidellanimomio,cioemoa temoa Di cafto,ficomescopreloinfermolesue infiaggionie piaghe. Al Chirurgico,checrederefacilmente senzaragione.Cone ciofacheiersententiadiungrandehuomo(fiben miricor do )come sedebbe andarepian pian,edipaffoin passo in quellecoselequalipaionoche Couerchiano lepoftre forze accioche se inconcanéti fufferosprezzate n o s a m o da nasco ftoinuiluppatinellifrodi, epelcontrario,seincontanétefuf ferocredutedanoi 1100siamopresinelleceticollesuspicior ni delle fcioccheuecchiarelle.In uero'fisonftato dubbioso nell’animo mio, c o s i m i p a r e u a d i d o u e r dubitare N ó h o i m perhomai contraftato conlaninoostinaco.FRONIMO. Secolie-echetusiadiquestobuonanimo cioeche uogli in coresta cosa usarelintellettoenonla uolonta ,certaniente possemo havere buona speranza dite . M a t i u o g l i o d a r e u n buonricordocosiinquesta cosa decuihoradisputiamo.co m e n e l l a l t r i c h e p o r t a n o p e ricolo, e sono de importanza (si  o m e si s uole dire) c i o e c h e p e r c o t a l modo fa c c i c h e n o n u a diauantilauolontaallointelletto cosiuogliodire chenon uogliuna cosa seprimanon hauetaibenintesa econosciu ta.M a sono alcunichecaminano pel contrario nellordine delliftudiidelladottrinacioeprima diffiniendo,e concludendo  con l a s u a uolonta, ouero secondo il suo u uolere che cosasiailuero auanriben consideranoconlointelletroeffo vero .APISTIO. Hogran seredintendere che cosa ha da direinqueftonoftro caso Dicasto,Joqualeuedo ritornare d a noi. Certamente non puotrano essere(almio giudicio ) eccettechedegneeteccellenticose,purcheluuoglia ferua tele promisfioni. FRONIMO. Bisogna primeraméte iftin guere lanostra fame edipoisifatiffaraallacuasete. DICASTO. Andiamo perche-e-apparecchiatoilpranso.Dehpec noftrafedenon tardiamo piu conciosia che affailongamen tehqucmohoggidisputatofichenonbisognapiu dimota re.Equando poihaueremoinkaurato ilfarigatocorpo di quelloeglieneceffarioperla continuarouinadelnaturale caloreintraremo poi nel giardino della disputationec h e cirimane.fando fram e fe-e-uero imperho quel lo che ha narrato la strega. DICASTO. P i a c i m m i,a d d o manda lantis dettiuitiiesceleritade,cioeche spesieuoltefacionola penin tentiapelliufernodopo lamorte etiuisianomartoriatigrai uemente.Non ferebbemegliocheleprohibiffeIddio non si faceffino,che dipoi lhauerano fatte didarli la penitentias DIÇASTO.Meglio certainére ferebbe felsereferisceque, Hoa coluichihafattolemaluagieoperepercheselnonhain uefleoperatomale hauerebbe fattoben per fo.APISTIO . DunqueperchenonleprohibiffeIddio.Non ferebbemag giore cosa epiudiuina,lefusserodiuinamente 'uietare& DICASTO. Sono b e n u i e t a t e c o n la l e g g e m a n o n c o n l o p e t e ra CioeIddioļeprohibiscemediantelalegge,m a nowole per forzateniceIhuomo non operia suo piacere.A P L S T I O Perche épermeņa da Iddiolamalgradeuole operatione, et il peccato cioeperchepermettechelhuomo facciopecca to DICASTO.Perchere liberolhuomo,er-e-infuoarbi. trioe volunta elibertadioperare ficome alai piace,oilben oilmale.APISTIO.Nóferebbestatomeglio chenófufli mainatocoluiloqualeconosceuaIddio,chedouea fouina rcin. APISTIO . JIP OICHE HAVEMO SCACCI a t o l a f a m e c o l l i c i b i e u i u a n d e t i p r i e t. g o Dicafto Inquisitore delliHeretici uoglieffer concento,chepossachiede reinantidituttelaltrecele,una certa m i a dubitatione Laquale ha granden mente feditolanimomio ,no con uno scrupulo niacon una agura láza,pen pur quelloche tu uuoi.APISTIO.Non guarimi sa tiffanoquellecosechediconoalcuni della pena,chi-edata da Iddioacoteftibiafimeuolihuoineni e donne, 3 e,per   teinquefe grandisceleritadeetiniquitade&DICASTO. Si Terebbestatocertamentemeglio chenon fuffimai apo paruto almondo coluichiperfeuerane peccatiper infinoal f i n e d i s u a u i t a , m a c h e f u f f i m o r t o n e l u e n t r e d i sua madre. APISTIO. Maremainonfuffeftatoperuerunmodo peii fituchelfuffemeglioperquello DICASTO.Perchi: APISTIO .Per luj.DICASTO . Perdonamiilmio Apistio Tu parli moltoscioccamente. E poffibiletunoucoulideri che questaje,unapazzescaquestionesConciofiachetanto ifrasesonocorrarij,elloreniente cheuno-e-rouinatodallalt t r o : N o n f a i t ü c h e n o n p u o i n t e r u e n i r e u e r u n a c o s a o sia p r o fperaouerfineftraa niente chediinaginamorAPISTFO . PerqualcagionedunquehacreatoDio coluiloqualecono fceua douefte andare allieterni fupplitii DICASTO. Per sua fommaetinfinitabönta.APISTIO .Come fiapoffibi. de coteftor DICASTO. Cofve-poffibile.Perche non sia for uerchiata lainfinitabonra di Iddio dellaperuersa malitia dellhuomeni.E cosisenarra cherespondeflesamo Pietro Apoftolo a Simon M a g o ,rendointerrogato da quello quali di fimile cofa feben referisceClemente ladisputationefatta f r a ' e f i. D i m m i u n p u o c o A p i s t i o ti p a r erebbe fuffi b e n c h e ceffafliIddiodacantogranbeneficio cioedicreareleante m e pedrespettodellhuomo chel doueffe dapoimale ufarec conciosia chereioperadifomina bontae de infinita poteny tia Anchorasebenconsideraraiconlameitėtuatuttele uercudeetopere dilddiodimostratealmondo tu uederái che secauafuorila Giustitia dasemedeme,folamenteftren gédo quelliliqualipiuprestohanno puolutofuggire fabori t e la benignita di quello che receuerla .N e anchora per questoseiftingue ouero se diminuisce lamisericordia cory cioliachemanco punisce quellicherechiederebbeilrigo redellagiustitia.Efouenteuseissequalche cosa daeflafcelel tagine perpetratapfreie carciuiliuomeni edonne cauata d a I d d i o p e r q u a l c h e m e g l i ore fine. De cui dice farito Agosttino, che etantobuono,chenon permetterebbeueniffe ueruntmale fenonvuoletteda quello trarne maggior ben. Ilche spefeuolte,li1100fempre,elftátoüeduto uscirnede kk ii  la cariftiadellauixuaglia.Etanchot conoscono qualmėteseguicaronoperdettaingiustauendu ta moltiegrandimisterilliqualiramentano con gran ciuerentia. Anchor per i tormenti et occisioni, e crudelta de che feceroi Tiranni contro delli secui de Iddio, cispiandelauercia egloriadicflimartiri.MachepiudirorPerlacrudelemots te e durissimapaflione etuituperofamorte dimiffer Giefu ChristoueroDioethuomo,apparuilainfissigabuontadeId dio riscuotando,eredimendo tutta lhumana generatione dalla eternal morte, etaprendo laportadellamilericordia ec anchordellaGiufticia.APISTIO .Dob quantoben hanno f a t i f f a c t o a m e c o r e ft e tue ragioni. Cos i a n c h e p a r e a m e c h i fiailueroquellochituhadetto.Ma horasendoiofatiffatre da re quanto aquestedubbitationi pregoriuoglifeguicart il giacomenciato ragionamento auanti delpranso,ciodi narrarecomeegliecoreftogiuoco cosavera enon finta ti Titrouatnaelle fauole,sicomeprometteftįdidouer dimotta re.FRONIMO.Vuotucredereatuttelhistorie APG STIO.No.percheseritrouanodellefauolenarrate con co lorede historia,licome equellafauola Samofatenacioe di Luciano.Anchorasonomoltealtrehistoriepercoralmodo incertee scritreinduoimodi,efouenteancheinpiu,tanto uarieediscopueneuolifrafediuna medeme cosache paio n o ellernon guari discosto dallesemplicifauole. FRONIM O. Certamenteturespondibenenonmancobeninten di.Ilperche ficome alcuna uolta rispiande fralletenebreet  maliilben, dallidottihuomeni, feben forsinofiafutócon fiderato dalrozzo uolgo. E per dimostrare che colisia ftato uoglio narrare alcunipuochi effempii,benche sepuotrebi boiioramentareintiniti.Leggiamo qualnientefuflivendu -to ilgiusto Giosepho da frategli,con graue loro peccato.Il rozzo uolgo non pensa piuolaa,m a solamente eglieag , gradevoleihistoriam a lhuomenidottiedigranfpicito,pici tofamenteconsiderandoauertisconoqualmenteperdetta iniqua emaluagiamercantia,interuienechedipoifufatto Iosephoquasisignore,eRe dituttoloEgittoecheliberoil padre efiategli etuccalafameglia dallamorte ,che glifey rebibneteruenura per   ofcurita dellefauoleun puoco ditumedellauerita.colifral denarrationidellehistorieche sonofra le contrarie,forfaucie ritroueraiunauera,ecosisendo Jaltce false,eneceffario dian nouerarlefrallefauole.Conciofia chenon fie poflibile,che combarrijlaueritaconlauerita. Mao Dicafto,amepare dintendere quello chiuorebbe Apiitio . DICASTO. Chi cosa s. FRONIMO. Vna historia da molti teftimoniirappro uataa cuinoferitrouaffealtranarrationecontrariadimag gioreouerodiegualeauttorira.APISTIO. Jaueritatuhai dettoquello chedesiderauo.DICASTO .Iuiprometiodi dimostrareche ficomepertenealli Chriftiani didouercrede reche fifacciquestomaladetto e iscómunicatogiuoco.com fianchegliapertene didouerlo iftirpare esuelgere,erouina re. Ecofruipramettodiparcareaffaihiftorienon contrarie frafe, mafjben moltoconcordeuolie fimili.Anchor uoglio farecodacui qui auanti la Strega, elacostregnerocon ilgiu ramentoaccioconfeffiiluero.Suoguardiano della carces tepreftoconducequivilaStrega.Efapiatiqualmére testi monii,che uiproducersoo n o molti,esonopigliatidaquel di che fono ha u u w i dall’huomeni costretti colli giuramenti et anchora sono iscrittipermemoriadequelliseguicaranodie tro anoiet anche per approuarelauerita:APISTIO .Core ifto ho a piacere deintendere. Horfu dunque comenza. DICASTO. Benche uipotrebbimádare a leggere li-libriferic tidiqueste cose congransollecitudineefochecotestonon fpiacerebbe a Fronimo, ilqualemoftra dihatere ftudiatoin tuttelegeneracionide scrittoriperquelladegnadifpurcacio ne che hafacto,purno mi parephoradi farlo perche cono fcoche Apiftio non remanerebbe contento ,ilquale dechias facon il suo parlare tanto elegante di hauer gran pracicanel lilibriscritticon ilpolitoetersoftilo,etanchorpacedilettat fi grandemente dequelliscrittoripolitietben accommoda tinelparlare etornatidiun certofaufto,epompadieloqué tia,ecosiparechenonlipiacerebbonoquellialtrilibripriui dedetta policita,edidettaelegátiadidire.APISTIO.Puo effer Dicasto che tu condanni quesse figure di rhetorica  hi uit Ea nico Zio U <ouero cheforecilornatoparlarecofidellidersi come della prosa o   fia sciolta oratione DICASTO. No. Non maillofatto ne anchorfonperfarlo.APISTIO .E pur imperho usanza de alcuniliqualiquandoharannointeleladoctrina dePaci secioequellachire-scrittaperquestjúcellediuuolerilehet nire,ebeffate lacontinuata oratione,ben ordinata ediftit tamentecomposta collicoloriefigurerechorice,benichean chotapurhoueggiutodellilibriiscrittiaPacifedaeflıBarn bacielegantemente etornatamere compofi. DIGASTO . Vuoreftimai cuchefufliunodiquelliche sono amouerati frallirozzietinelegatirconciosiachefocome colielegante mentefecissecoSanGiovanniGrisostomo,ilmagno Baglio, Tee Gregorii in Greco, et in Latino san Geronimo, Agoftino Ambrogio, Cipriano conmoltialcisAPISTIO cioefodaefenzaerroree senza fauple, laela quentia non solamente debbe efferecondemnata eciproua. ta,ma anzidebbeefferdacuctilodataficomeeccelétebud non fralliinortali,chi-e-approvatoconlaragione etauttori tadelliantichiefapientidoctori. APISTIO. Chelibrifono coteftisetinchetempofuronofcrircis. DIGASTO .Sono molti.Veto echealcunidieffifuronoscrittigiafesantaany nifactunoui-e-chifucópoftonellanoftraeta. APISTIO. Chi furonoliauttoride dictilibri. DICASTO.Credo chi f u f f e r o Belgici o e Galli, over Germani e Thodeschi. Ma di que h o ultimo de cui h o det o Furono li scrittori duo i Thodeschi. Liqualilif forzaron odispaccaree rompere limaghi incantatori, e le Siregheconunmaltello, emolto piu'forter menteeconmaggiore giustitia,chenonfeceNicocreonc ciránodi Cipro ad occidere collimaltelliAnaffarco Abdeci de philofopho.APISTIO. De chiftillosono. DICASTO. Di quello chiuolgarmétesechiamaPacifinocioeperque ftiuncelle  Dimmi Scrifferoanche egliikerli:DICASTO .Sialquátidiloco,ac ciolaffanoalcunididire comeeraconuenièrenellantidetti sempidiscriuereinquelmodo,conciosiache anchoracom batteuanocollinemicidellafededi Cbrifto colliuerft.Non mancano anchoranenoftritempidi quelli liqualifacilme tesonoriratiallefagre cosedellasantiffimafedediChrifto, conloelegåteftilo econ loaccomodato parlare.Purchesia calta,e fobria  EN 0 0 1 1 2 lo Y li libri . Et anchor la strega la quale gire appropinqua a n i c i condutra dal Guardiano della prigione forsiramentaradel laltrecofe altro diquellecha racco:ato che nófono anche elleiscritrein uer un libro.DICASTO. Son contéto difare horacome uuojparimpechochiedédoniperdouăzs,ledi toequalche cosa chenon fiaticonfueri diudire. Cosiciofia fiqhcelle,m a fono (crittecon molta sottilira,quanto fiapof fibileascriverediessamateria,decui parlano, ficomeimpe sho h a m m ipareet anchorsonofermati con la verita delle teftimoniidefantihuomeni.E non folamentepareame co teftoma anchoraamolijeccellentiTheologgi.Ilprencipio diquefto ultimo uolume comencia dal Pontefice Maximo, ecil fin-erapprouato con la auttorica di Cesare.Gia ho chiai ramenteefermamenteintefecome landdettolibrofu publicamente approvato dalli dottori di sagra Theologia del Juniuerfita di Colonia Agrippina. APIST10.Vuorej Dicaa ftochetuminarraffiquellecose lequalituhaipromeffodi narrare al propofito noftro ofiano di quelle da quei luoghi cavate, overo de altri luoghi accio le possam o meglio intendere con il cuo parlare concio sia ch e meglio le dechiarara i narrandole tu.Tlperchefendo anchorquiuipresentealladi fputationeilnoftroFronimo credocheanchealuinófera grauediramentare dellalırecosecheforfinonfiritrouano Icricce,ficome p suagétilezza hieriethoggi non liparuigra medinatraremoltecose degue ,chenon fonoscritteinquel che de ben h o apparato le littere Grece e Latine, non di meno imperhonionm i fono con menore Audio effercitato fralli Theologgi. Liqualiłassanolapolitiaerornamento dellino caboli etanchora tantatersitudinedi parlare folamente se fforzanodiconoscerelecosecome inueritafono. FRONIMO. Eglie menoredanno quello delleparole che quello delia cognitizione delle cose. Mare-ben neto cheioiftimo, chccoluidebbeellereffaltatoelodato fouradellaltriilqua Jehalornarodelparlarecongiuntocon la cognitionedelle cofe cioefoura di quelli chi hanno solaméte o lungoialtro. Vero echesepurnonliposloviohauereamenduoi,iftima shec'megliodịhauere lacognitionedellecose chelparla  re polito,et ornato ,dieloquentia.Benche ficome ho poflur coconoleereperiltuoragionare,pofseuilafare ftacediad. domandare questa uenia eperdono. DICASTO. Io diro latinamente al meglio puoco. Hor sucomenciaro. Auanti diognicosauoidoueresaperecome egliechiaroemanife. fto,chicolui,chinegaffeesserelaDemonii,meritarebbedi eserschacciatofuoridellacatholicaChiefia,licome grádea. meiitecontrarioallasagra scrittura,e maggiormetre aluanı: gelio.APISTIO.Concedo cotefto effer uerissimo sanza ver un dubbio. FRONIMO . Anche meritarebbe di essere Scacciato coftuidisinileoppenione cioeche diceffenó effer iDemonii,fuoridella Accademia edalLiceo.cioe fuoridel JaschuoladiAriftotele.Concioliacheappo diPlatone e di tutiie Platonicie fationon puoca memoria delli Demonii, acuinone-contrarioAristotele,m a anzifouentenefamen tione non solamente nella Ethica, Politica e Rethoricama anchor nell’altri luoghili qualihoranóscrivo. DICASTO. E ben vero che ne faniioricordo, ma sonoimperhoinques Sto differentiate dalli nostri dottori cioechequelliistimano aisianodelliDemonü buoniedellimaluagieperuersi.Ma noi diceno che cutri i demonii sono perversi, iniqui, e malegni. Liquali benche li nominamo sotto dicotetto nome Sat canasio e di diavoli pur piu chiaramente anchora sono SIGNIFICATI per questo nome “demonio”. Il perche dice il Propheta David, tutti li dei delle genti sono demonii e lo Apostolo Paulo anche egli scrive. Non uuoreidouentafticompagni del i demonii e in uno altro luogo dice, Credono e demonii, e tremanodi paura. Non fugia maiuerun huonofa uioche dubitaffe,chequandolimalificiincantadori,eStre gheeStregonirouinanolefruttacollisuoimaluagiincana elegano edipoisciolgono a suopiacerelibeni del cagioni  ? matrima nio,cioeche fannopermodo che licôgiugatinel matrimo nionon poffoliohauerehonefti piaceriinsieme,edipoiqui dolepiaceglidanno facultadipuoterli hauere,etche an. chora tormentano lecreaturefuoridelconsuetomodo del lanatura chenonsianofattedettecoseconpattieconuen tionidellDemonii.Boperqueftoetanche permoltealtre cagionisonofateordinatemolte altrecosecontradicotefti teretiniquihuomenje donine dalliTheologgi cosi antichi c o m e moderni etanchora dalla facra scrittura, edalleleggi Canonice della santa Romana Chiesa etanchordalleleg giImperialt.Imperbo cheritroviamoilcomandamentode Iddio nelDeuteronomiocome fedebbonoucciderelima. leficietincantatori_ilfimilecomanda nellLeutico,cioeche SranolapidatiliAriolie, quellichihanno ilfpitico Phitonico, dioe lidiuinatori. E Gratiano radunaaffaicosenella vigesima festa causa de decreti contro dicoteftifcelerati malefici. Anchora sepoffonouederequelle cose chescriue SantoAgostione libridellaCittadiDio;edelladottrina Chriftiana diqueftamaladetragenerationed /perchefepor fon piu p u o c h e cose raccontare oltra di quello , che h a esso fantiffimoe doctissimo huomo scrittoinquejluoghi. Iocacı giolimoderni Theologgi liqualinon puoco hanno scritto contra dellimaleficietincantatori,eparimente anche con trodellimaleficiter incantamenti sono anchora constituce leggicontradieffumaleficiemathematicinelleCiuilileg.: gicioenel Codigo di Giustiniano Imperadore: FRONIMO. Anchor se vedono affaicolene libride moderni philosophi.colide Platonici come de Peripatetici, cioedilambli co di Proclo, e di Porphinio, lequali poffoneffer'moltoapro pofito. APISTIO. Sicomeiononnegoche siano e demonii e chepoffonfareaffaicofeconlafuaperfidamaliciacosián theio defidecochemifano dechiarate quellecose, chipro, priamentepentengonoa quefte Streghe, cioesedannoal giuoco ouero uisiano portate con ilcorpo enonfolamente con la uolontao con una imaginatione, e finta reprefenta tione. DICASTO.Suole dare gran faftidioquefta queftio. ne ecagionaregrandubioinmoltepersonetragendoneof calionedalleparole del Concilio dell equaline faicoquanti mētione. Lequaliparoleleggonfinellaquintaquestiondel LaurigesimafefaCausa.Ilperchecredonoalcuni noefferui presentialli dettigiuochiqueftedonnuzze ehyomuzzicon il corpo,una solamente con lainagniatione.M a alcuni altri diconoeffercocefto giuocounanuouafpeciediHereliadi  versa da quella antica superftitione. Anchorà altrinuoletto chelafiatotalmente quellamedememacheiuifiafatiofo lamételaquerellaetimpoftalaperda quellicheistimano essere Diana Dea overo Herodia, ferebbediuerfanaturadelcapro dadiuerfopeco cipiouscita.Vero echesonoportatialliballieconuiti,etal <lilafciuipiaceridellanorteuuolendo euigilando. Il perchie Fronimo e dame approuata la tua diftin&ione della disputa rionedihieticonlaqualeconchiudefticontecoteftogiud codelle streghee malefiche e antico quanto alla essential e oftantiamare nuouo quanto alliaccidenticide quanto - lecerimonie. FRONIMO .Sehoritrouatonellantichefu, pecftilionidej Demonio ilcerchio,lounguento !, lincanto, il caminare de lcl iorpi humani per il spacio dell a r t a , li conviti apparecchiati di piaceri carnali donati all’huomeni e donne dalli demonii in figura de maschi e di femine chi cosa ci manca piu accionoiftimamoessereantico ilcommertiot familiarita dellis piritimaluagie scelerati colliperuerfiet in quihuomini?M a percheseritrovano alcunecofe in questo vituperoso etis communicato spettacolo di demonii hora da moltinarrate; lequalinon fileggono fussero anticamente dimostrate ho detto lacagione, cioecheiltuttoseattribuiffe allagrandiffima afturia emalignita, delsceleratoeperuerfo n e m i c o dellhuomo.ilquale in diuersitempi a diuerfiordim e gradidi huomini haue apparecchia tomoke aru, e modi dingannardi accio che cosicondettiuarii coftumiecondi uecli ingannie piaceritrageffe efli huomeni delle precipito ferovine delli peccati. DICASTO. Per cotefta ragione assai  ouerochicredonochi.fi cangianoe trasformanoe corpi humaninęlicotpidi Gatge ode alorianimali, per opera del demonio e anchoraquel liche affermaucnodiefferforfipentalmodo difcetuto il rapto della mente quando sefachefeipuo bên conoscereic reconoscerepereffofel fia portato il corpoinquelluogodo Disalisselamente consciosiachedicaSanpauloapoftolodi n o n sapere cotesto:M a quefte Streghe q u a n d o sono portál te con ilcorponon sonorapitecom låninocioe ficome G fuoledirenon sono in fpirito, ma purse. Fussero rapite in questo modo ami  al 01 tel do od th que Ich til che ON efto ad LO me ol fal ad cit ced era din hadi ad 20 il a m i e piaciuto quello chehaidetto APISTIO. D u g uoi cerdetechesianoportaticolaconilcorpo DICAS Sicre dochesiano portatialcunauolraconilcorpo etalcuirauol ta che cosi facilmenre posson esser ingannati cioe che rendo naadamente illurae schernitala imaginaria potemiase pene fano, e gli parediessere portati corporalmente oltro di Carr gatacheier nodelli colli del Morite idea, et anchorglipa reditraparfareloAscaniolagodi Frigia,etanchodiandare oltro dello ululatodelloaltiffimoMonte Caucaso dellai n diacollarmi delle Amazoni. E péfano,diuolare colle penne di Dedalo sicome lepare nel sonno. Ma per queste coseno fono perseguitatineprelidalli Inquisitori neanchorefsami nati, ne tormentacinecondentatiouero giudicati.MAPer Questonoicerchiamoconogni diligentiacocesti STREGONI E e Malefic iperche hanno renegato lafede di Chrifto chipigliatononiel fantiffimo battesimo,e promiTonodiferuaria.eranchorperchehanno ischernicoc beffaro Wlagraniéti della santa Chiesa, et hanno sprezzato Christouero dioeuerohuomoredétoredelmodo ethino adorato il nefandissimo e spur i f li mo demonio invece de Iddio,et anchora permoliialtrimaleficii che hannofarro liquali serebbono troppo longhida douerliraccărare. PER Quelle cose Et Altre fimilifatte contro de Iddioe dellasua trionphantillima fede noili perseguitamo,elieffaminamo e facciamo liprocessi e cosidipoiretrouati e conuinri nelle lorofceleritadepertalmodo che non lopofson negare, dia moli nelle mani delli Reggi, Signori, PrencipieBaronio gerodelliloro ufficialiaccioli puniscano egli diano la penitentia secondo che comandano non solamente le leggi an . sichedella Chiesama anchoralenuoue etanchorane no. ftrigiornirinunuate,primeramenteda Papa Innocencio Otrauo, ed a Papa Giulio secondo.Vero-echetiammonia sco che ben auerufle da iftimare,che non sianoporrato al giuoco corporalmente la maggiore parte di coreftirei huomini. FRONIMO. Il nostro Dicasto hieriammoni Apistio egli feci intédere.comne n o doueffe fprezzare e farfi beffe di  I. quellochịe creduto da tutti o uedr’alla maggior parte probabile cioechelepoffa fareintaleeralmodo. Concioliachg ersententiadi Aristotele, come non erin tutto falsoquello chi-e decto da tutti. Il che intendendo quel Glorioso Thomaso Acquistato annouerato frallisanciper lasua bonta e piet ta ,&anchor p lasuaegreggia dottrinarepucato frallieccel lenriffimidottoriiftimoefferedelliDemonii,liqualidaua nocarnalipiaceriallhuomeni& alledonne ineffigiadima . fchiedifemine:dertiIncubi esucubi equestomaggiormés teconfermonelsecondo libro delle sententie, percheuiera. No molti saggi, prodi, & anchordorti huomenidicotefta oppenione. I perche o Apiftio,non vuole contradirea quello chive-statorenuroueroconiantapublicafama,& anchorap prouato con ilcosentimientodicanti eccellenidottori.DICASTO.Ben etottimamentelhaiammonito .M a anchor accio se posta haver maggior certezzadicotefta cosa,uien qui dame stregae giura allisantiu angelii de Dio, liq uali ho posto fo r c o l e r u a m a n i come tu vedi , di racontare, e di respondere il vero di quello ferai interrogata. Esappiqualme tefeiubbrigara atalegiuramento chesetune mentiraiedi raipur unam e n o m a bugia,no ritrouaraiperdono,ne remis fione; appo dinoi,& anchorpurpensa dinonritrouarlanel Jaltromodo appo de Iddio. Ho giarato, E cosisia ricerticheno uiingānaco;neanchorm i.DICASTO  Dunn que dimmieratuportara'algiuococonilcorpo,ouerofajn lamente con lanima o sia con la imagination. Con ilcorpoinsiemecon lanima.DIGASTO .Come puotu saperedieffereftataportataperariacola con il corpo congiunto con l’anima Perchejo toccava con que mani il demonio detto Ludovico. DICASTO. Deh, chi co s a t o c c a u i t u r  Il corpo di quello. DICASTO. E m o quel tale, quale e ciascun delli nostri. E porpiumolle. DICASTO .Vieranoquiuidellialtri colli corpi r O l i fi in g r a n moltitudine. DICASTO. E cosi diconotuttilaloricheho giamai essaminato, anchor sanza darlinerunmartorio & il simile anche diconodi Inquisioridelaleriluoghi,cioechieframinando quellidi questamaladetra compagnia comesimilmentehanno di [posti,vo discostandosi da quello cheh a mconfessatoquel liinquesto medememodo. BENCHE SAPÍAMO checo teftanone la cagioneperlaqualedebbianoeffermartoriati e puniti, ma anci per havervi o l a t a e t o t a l a fede promessa nel facto battesimo non dimeno imperho tuttie maschi e le femine di queftafceleratiffimaradunanzae compagnia.co fidiquestoCaftellocomedellaltriluoghidelmondo,coli dellicaliacome fuori di essa dicono inqueftomodo etcone fermano esser il vero di esservi portati corporalmente con quell’altre cose, delle quale ne ha detto la strega. Et a c c i o maggiormente lo poffeti crederevi voglio narrare unahifto siachenó fu favola ne anchorae cosaancicamangoua,Gia puochi mesi paffari eta porcato nelle brazza della madre un faciulito maschio, fi comesifuole aquella fortiffimaroc ca diquesto nostro castello chi'c circodata di larghiffime fosseet incorniata di fortiffimeetanchoraaltiffimemura, hora vedendo detto fanciullinoquello fceleratiflimo Don Benedetto Bernio ,ilqualefudipoibrugiaroperle suemale magieopereficomeauanti diceflimo) che parlava all’hora copil Castellano della coccafuo parente, gliuieneincontinente una brammosa e bestiale voglia di asciucarli il sangue. Al perche moltogliparuipiulongoquelgiorno che non pa reaquelliJigualidebbono receuere lamercededellesue Atentarefatichepertantobeftialeappetitoe desiderioham uça diguftare dellinnocente sangue del destofanciullino. Hor sendo pur alfinegiunto laoscura notte dellescelerira. de madref, efeceportarperaria al demonio efermarfinel Ja casa doue giaceua ilmischinello fanciullo nella cuna.Et asciugotantsoangue daquello infelice bambino,cheroma Sefi comeunatrasparente ombra,che preko preftopalla, non hauendoeffigiahumana.Ma nomaiimpo faconosciu itala cagione dellinfirmitadieffone della pallidezza perin finochenon fugiudicatoecondannatoeffomaluagiohuo. m o al fuogo. Perche allhoraelloaddimaudo perdonanza al padre del fanciullino, per il male havea farco. Ecosiandoe ri cornoperariapassandofouradiquellealtemura dellanuje   detta rocca laqualeuedericola. Vadimo auantarfilantiqui cadelli antropophaggicive de quelli popoli di Scithia chi magnaveno le carni dell’huomini, et anchora purmaraue gliatlilanottraetadiquellihuominįhoraritrouatinelle110 de detmare Eoicide orientale che ancheessisecibano colle carnihumaineconcioliachenelmezzo dellaItaliain una regiunemoltohabitataefrequeritatadalli mortali, discolo da ogniferitae bestialica, fi-e ritrovata una gradiliima c o m pagtira d’huomim cosi maschi come femine laquale/e-par sciucapinftigatione del demonio disanguehuinano. M a ritorijateStrega.Che piacerihaueuitunclloprelafciuccó un corpodiaria STREGA. Non soc on chi corpo. Malo ben questo che havea molto maggiori piaceri con lui che con il mio marito: DIGASTO Non faueuiumai paura,et horrore efpauonto conoscendochi quello era il demonio, icon ilquale cu haueui questi iscommunicati e sceleracipira c e r i : No. C o c i o sia che n o u e d e u a a l t r o c h e una figura di huono. cccettochenepiedi,liqualinon pareuano am eficonelafacciailperco, el altre membra. APISTIO. O chi figura o chi aspetto o chi effiggia di finuto animale, er di finta bestia. FRONIMO. Eglie imperho taleche nascon de lacrudeleaetasprezza edimostraunagentileforma,et fuauemolilia con altribeltadedallequalif.noquellidol cemente tiratielusengati.Fingono lantichiche essercitarse Venere lufficio dicacciatrice cercando per le Selve li lasci uti piaceri di Adono, ac c i o n e t r a g g e f f e à fe il cacciatore. H perche dicelo ingenioso poeta. Noda il gignocchio al modo di Diana Cintralauefte,ecaniellanimali. Della predafecuraadhorta, e inganna. Et anchora non alorimére inganno ilpaftore Anchise,eccet t o c h e in q uel modo, che e’aggradevole ad un huomo che habitasse nella villa. Cohanchorcalitafsiinun cerco Hii Hio da Homero inchemodoferapresentopuressaVenereaus tididetto Anchiseineffiggia egrandezzadiAdmeta uergi nie.llpcheiuisiritrouano quelleparole greche lequali hora Jetaccio. DICAS. Dehpertuafedeegentilezza,fiacontéto  di   Simile a Adameta fanciulla pura. DICASTO. Chicora pensi tu uuolefli SIGNIFICARE quellasimi Jitudine del Poeta: FRON .Non puo coildimoftranoquel le coseavanti precedono,& anche quelle che seguitano. Conciofiache addomando coluichi caminaua solo disco Ato dallisuoi buoi eloeccito efuegliocon ilsplendore e con Na gratiae lotiro a douerfi inarauigliare, fingendoff mors  ditrafferricleinbolgaré. APISTIO. Horfudilleinquel modo che face f t i h ieri, quando tu dice f t i q u e l l altri p u t greche nel nostro volgare. FRONIMO. Non semprese accorda talacerra,ficomefisuoledireperdouerefuonarene anche Temipresuccedennapiacevolmenteesecondoildifioleco Yefatte allaf provedurae prefontyofainéte, Cojneltrasferim t ë i patlare greco in latino et in volgare n o n sid e b b e face enzabuonpenserb esageublezzaditempo. DICASTO. Priegoti cheluoglihoratrafferiregiustamente fepuoi,feair choranonpuoifarecome uuoi,faalmegliotifiapoffibile. FRONIMO.Io son contento,pernonparere diefferofti. nato. Cofiuuoledire. Dar Sre Venere nata delconante Gioue. Avanti di Anchifein forma e figura, taleecosidipoihauendoliraccontarolageneratione,esuc ceffionedelli fuoi antichi con longhe fauole ,lo conduffe alfineallilasciuipiaceri. APISTIO. Holettocome feciA n chise la meriteuole penitentia per dette cose,conciosia che f u p e r cof f o d al fu l g u r e e cosi ritro o che gli fu a nnonciato qualmente cofiglidouea interuenite.Ilperche ritrouiamo queluerso scritto in greco, loquale hora hora cofi lo dico it? nolgare perchefo uiferamoltoaggrado.LoadicatoGioue fediffecon lardente fulgure.E benche dimostra chiello d o ideaefferpercoffo con talepena epunitione perrefpettodel peccato chi era manifeatato, non dimenoanchora inanji fignifica c o m e colui ferebbe punito dalli dei, il quale d e fideratebbe diuuolerehauere amorofi piaceri elibidinofe deleteationicoeffiDei:Penichecôigegnofee maravigliose fauole fingonolantichiqualmėte per simili cofe fuffjuccisa Semele figliuoladiCadmodallo fulgure.N e anchorasong cótrarioa Callimacho,inquella cosa che se narra di Tiresia at . ce che 710 qui Erg hon havuto figliuoli, conciofiache foué tefe leggi delli figliuoli delli Dei. Anchemi ricordoqual méte giadoidifadicellicomeerapurqualchefondamento delle favole. Pe č i l c h e s e g l i c q u a l c h e fondamento d e c h i Cortijslono.  Thebano cioechisupriuatodesuederedallaDea Giunone perchehaueahauutoamorofipiacericon Pallade,oalman cohauea cercatodihauerlibenchealtramenteloracconi taCuidio.Vero-e-chi Callimacho,finge questa cosacon 'piuhoneftoparlaredicêdochecofigli interueneffe, perche uide Pallade ignuda. FRONIMO. Chicosa ne hauemp per queata facola? APIS IO. Io te lo dico. Havemo questo al mio parere chejopensoo al manco dubitochehanocge te quefte cose efimulateefinite. FRONIMO. Ifimatuche apparefseno li Demonii in quelliantichitempidiquelliB a Toni di Troia e di Grecia Li quali demoniic redoche tufen do Chriftiano sianofermamenteda tetenuti effere una ria emaluagiaschiattae generatione de spiritie APISTIO. O si. fi fermamente lo credo. FRONIMO. De b n o n ti r i n f cresca di rispondere. Da chi procede che pare tu non uogliccedere, chequellimaluagiTpiritidefideraffino,etanchecers cassinodidarelafciuipiacerialledonne informa dihuomi ni & allhuominiineffigia didonnecAPISTI0.Doh cbi e'beni gran cosa questa da doverti rispondere. Io te lo dico. Per ciono locredo, perche non sapiamo qual menrenolonjo i demonii di carnenedioffa, comenoi.Ilperchenon sipossono delentareincoresticarnalipiaceri. FRONIMO. Egliepur una gran cosa Api f t i o che tu n o n ti u u o i r a mentare di quello che f o u e n t e h a u e m o d e ciall perche se tute lo ricordafi, noti maraueglia restine anchor direfti, quello che horadi. Gia fpeffeuokre-e-ftatodetto, comedannoeflimaladeeti nemici de Iddio erdellihuomini coteftifceleratipiacericar naliallihuomeni,er alle donne n o n per delectatione,chi habbianoeflireispiriti ma solamenteperingannaregli huomeni e conducerlinepeccati eralfinehell inferno dove efli sono confinatii n perpetuo. APISTIO. Il mio Frenimo ti pregono t i turbare, Pur anche io ho un dubio, Se l n o fussiperaltroeccettochep qirarelhuomeninellipeccatino se ditebbe che haueffero .   l fono dong figliuoli quelli detti figliuoli delli Dei, pche lispi ricisenza carne &oftanópoffono generare: FRON. Core Atanó epuoca dubitatione, cociolia che facendo Moises, mer moria nel Genesisdelli figlioli didioedellifigliolidell’homi ni furono alcuni che istimarono fuffero SIGNIFICATI peili alli piaceri carnali hauutifralli demoniie le donne, & altci,uno Jenofianosignificatililibidinosipiacerichehaueano lhomj. Nidellagiustagenerationeeftirpedi Sech:collefeminedel laingiuitagenerationedellaschiatadiÇainIlperche seale cunauoltafeleggediqualchuno,chefulle decto figliuoloo di Gioue o di Apolline non perhosedebbecrederechecoftui ueraméte fianato delsangue delliDemonii,cóciohache nó hanno sangue,m a sedebbe iftimare chelsia nato del semç di qualche huomo, dacuilhaueranpigliaro. Serebbonoass Saicosedar accontare delmodo de cuipaiono esse regenerati gli figliuoli dalli demonii che hanno libidinosi piaceri colle donne :m ape c non aggravare le orecchi e del pudico lettore paream etitacerlene parlar volgare. Anchorpuo effe rche qualcheuoltaquellichesono ftaroreputatifigliolidellidei odelleDee:ssanoftatocubbati fendofanciullioidalle loro madre,peri Demonii,sendoanchoressenelparto, etoccul, taméte postisottodiquelledóne.che ingánauano etledaua n o libidinosi piaceri facédole parere cħefli lhaueffono gene ratidiquellee cosico doppia le st mm De 70 li al frode leingånauano,cioe pri mieramenre facendole parere che glicócepiffeno e parcuri scenoedipoifacendolinudrigareinuecede suoifendo de altrui. Ma se p r f u f f i q u a l c h u n o che vuolesse dice che in verita fuffero faci generaci quelli chiamati dalla antichita fi gliuolie figliuoledelliDei,edelleDee,enon efferstarafro deinportarli,ma checosifufferogeneratidalli Dei e dee (ben che credo che sia il falso conci o s i a che conosco come sono alfaicose fauole)direicome furonogeneratidelseme del JiuerihuominiportatodalliDemonii nel tempo della concettione, quando dauano lasciui piaceri aquelle,E cosi in questomodo sedefenderebbedaefliilnascimentodiEnea nellAsia e quello diAchillenella Grecia, li quali furono digniffimi huominine tempi heroici, o siadiquelli eccellenti   Baroni,cosidiTroiacome dellaGrecia: Alichorfepúotreb: bedirequalmentein questo modoconcepilaReinaOlim p i a m o g l i e d i Philippo, Alessandro Magno, nella Macedonia e nella Italia lainadre del grande Scipione Africano. DICASTO. Il nostro Fronimo cercamente paiono corefte cose che tu hai raccorato molte semiglianti a quelle che narra santo Agostino. FRONIMO. Dirotti anchor molto piu quanti come non solamente tirauano a fe li Demoni t i n i q u i e fceleraci le femine collilasciuie carnali piacerim a anchor tentaueno l’huomini del'maladetto uitio della sodomia, colli maschi. Il perche facilmente era persuaso alli mortali cotesto sozzo e uergognoso amore de fanciulli coll’essempio dequel lili quali erano tentati dalli demonii dicendo che pigliaua. no il fioredies li fanciulli. Hebbe questo vergognoso e seele rato uicio di contra natura primieramente origine dell’Asia, e' deindi nella Grecia e nella Italia, e poi i puoco spatio dite po introperinfino nelli Celti popoli della Gallia. Per il che non e dubbio che la captura e presa di Ganimede in Troia non sia antica e non solamente e manifesto lo molto antico incendio e ruina con il fuogo di Sodoma, di Gomorra ,edi quelle altreCitade della āfia, appo delli Christiani e delli Giudei,m a anchoreramentatodalliGentili.Fu primo au thore appreffodelliThracicosidi questopuzzulentouitio, come delculto& honoredelliDei, Orpheo sendo andato di Asia nellaThracia,Veroe che sonoalcuni altrichiuuole no fuffiilprimo inuentoredieffofcelerarissimopeccato,np Orpheo,ma Thamira. Fugiapercotalmodouolgatoemãe nifeftatoqueftotantofceleratiffimo uiio,che eracredutb dallireiemaluaggihuominichelfuffilicito. E cosi'pareja appreffo delliCeltichelfuffefatizauerun punto dipeccato, ficome dice Ariftotele.Veroeficomecrediamochesiaistin to eruinatoinquellipaesiperilbeneficiodellafantissimafe de diChristo, cosimaggiormente uie-ftacoinconsuetudine appodelliPerfi,perlagiaanticasceleritae perchenon uie ftarafermalaleggedimefferGiesu Christo perlaquale fan tiffimalegge conoscemo quellochie bono,eche sedebbese guitareeparimêreintédemo quello chiemaloepeccato e chi  fedebbe fugire.E costilDemoniorio eperuersonon sol laniente ritrouo quelli maladetti giuochi e quelli scelerati piacericarnalipertirarealecosimilipiaceri quellefemine erano inclinate alla libidine & anchoriquicandole alla ge. neratione dellifigliuolilanatura ,m a anchora ritrouo questa abomizatione dellasozza esporçalibidine contra natura. E non contento anchor di hauerla solamente ritrouatam a facciomaggiormente ne tiraffiIhuomeni,anchorprometre? jua diuersipremii,aquellichesefusserográdemetedelletrati & efferciratiinefa.llperchepromesse adalcunila perpetua vita,cioelaimmortalita,sıcomefeceaGanimede De quira scontano liibri qualmente crederonolantichi,uonmácoim piamentechescioccamétechelfullportatojucielo.Ad al trianchorpromesseloindiuinare,ficomeaBranco pastore, D e cuidiconocolle fue faliole che glifuinspiratoilu perche loistimocheben sipuo suonarelarecolta,(licomecomuna mentefedice quandosehaueratrascorsodallitempi Heroi cicioeda quelli temp iquando furono quelli Baroni e huoi miniriputaci Dei,ecapitaniiforciflimipecinsinoaScipione, perchecredonon hritrouanochesianopiuftatesimilecofe. DIGASTO. Chi cosaditurTudebbe sapere comesonoin teruenuteinognitempo,& inognieta qualchenotabilico ke.APISTIO. Ma perchenon losano DICASTO, Affaibe fonomanifeftemanoimphotutte.APISTIO.Da chipce de chenosianomanifeftate DICASTO. Perhora occorce noa me duaragioni.Vnaeche sendo fcagiato ilDemonio malegno nemico dell’huomo dalla segnoria del mondo p forza del sanguee dell atrjófantemortedimeßer Giesu Christo non cofi importunaméte epublicamétecollesueillusioni ingánalhuomo,Percheficomefcacciatoebaditobabitanel Jiluoghinascostiedeserti,m a anticamente era adorato sot tospeciedidiuinita.Laltraragioneeperche giaistendeuale retidello amore lafciuoatuttele generationi dellbuomini,   Ito 1 di Appolline APISTIO. Io ti priego non parcarepiudicote fecofelequalesicomefonomanifesteam e colifonomnara uigliofe, Ma uoreiintéderedi quellechesonooccorse peral tritëp Ci, óciofiachecredosianopocheroseoccorse Haticinio . 1 te $ mmi  ma horaforzasigrandementedipore lilaciuolifolamente perpigliaredue generationidhuoniinicioeliottimieliper limi . lo ad domando ottimi que gli che se sono dedicati e cosegrati ad Iddio con tutte le sue forze havendo conculcato esprezaroturteledelectationiepiacerianchor boneftidi questo mondo. Efa continuamente a q u e s t i aspera e crudele guerra. M a sendofactaquesta guerra danascostoetoccul tamente nosimanifestauerunacosadiquelle,eccettoche alcuna volta per essempio e per salute delli altri. Poi io chiamo quell’altra generatione pellima, cio e quella delle becer ghe edelli Seregonidelliquali hora parlamo,Ta sai ben quanteminacie,equantitormétifienobisognoper cauatı lifuoridellaboccaquellifuoiindiauolatiamori efceleratiffi mi piaceri.Ilperchenon parlanoliberalmentedi quelli non liraccoranocome fonio,eccettochecollisuoinefandiffi micompagnidelgiuoco. APISTIO.Dung anchor iftéde J a r e t e d e l l a s c i u o amore il demoni o alli f a n t i huomini e t a figura della ingainatrice Venereshauendosi pinto le guan c i e e le l a b r a c o n la c e r u facio e con un bello colore, e c o n il  quellichitotalmentesefonoaugotatiaDior DICASTO . fetu hauefli cognitionedelleuiteedelloperediquelliiscrit tenellilibrinon hauereftipuntodi dubitatione.M a accio tu ne conosciqualchepartesepiunó lhauerai conosciuto,a uogliopurraccontarealcune puoche cofe diquesti ottimi huominie fanti, cioeinchemodo sefforzasse il demonio di doverli pigliare con lareteelaciuolodellalibidineelasciuo amore. Narra Sufpitio Seuero, come fece ogni forza esso nemico dellhuomo per ingánare quello gloriofifsimouescouo santo Martino in figura diGiouedi Mercurio,diPallade,e di Venere,Dimmiilmio Apistio non iftimituchequando fefingeuade esser Giove no gli promettesse delli Reamie dellelignoriere che quando sedimoftrauaineffigiadi Mercurio chegliprometesselaeloquentia eladottrinaecogni tiondei tuttelescientiehumane equandoseappresentaua in sunilitudine diPallade che non glioffereffela fapientia,e laprestancianellartemilitarelaqualegiahaueuasprezzato e renunciaror Chi cosa puo tu pensare gli promettestesottola purpuriffo con lo quale tingono le femine le maffelle con il bomagio, eccetto che diletteuoli elasciui piaceri N o n penso tuchelfingefsediesserueftirodericcherobbe eueftimétidi diuerficolori,ethauesse anche fintoin questa imagine liua ghielusingheuoliocchipertirarlonellasciuo amoreset an chorchel ragionale delasciui & libidinosi piacerisTi dira Athanafiosanto,conquantiuariinodi tentoilmalegno spi ritoquellogloriofoabbate.S.Antonio nel deserto ,ilquale Athanafiofcriffelauicaecostumidiquello.Anchore buon teftimoniolafreddaneue diquátofuogodilibidinetentaffe ilserafico Franciefco nella quale accio iltingueffeloincen / dio dieffo,segligeto dentro ignudo.Te inligaara anchor il cespugliodellepungenti spinne quanta delicatezzadiamoro fipiaceri presentaffe auantidellocchidellamente del pudi coe cafto santo Benedetto ,collequaleritrouo ilgioueuoleri medio controditanta Cozzacosacruciandolapropria pelle delsuodelicatocorpo. Non crediariimperhochelmanca di punco anchehoradicicarealcunidellaturba emoltirudire nello pazze s c o a m o r e é volgari piaceri carnali, pur che veda di possere, ma anzi di continuo grandemente cerca con milli modi e con mille arti percoducerlinellasuamaluagia eriauoglia. FRONIMO.Vi voglio narrare una cosa intervenuta ne nostri giorni a comfermatione di quelloche ha detto il nostro Dicasto. Ho conosciuto uno huomo molto essere citato nella militia, a piedi il qualehammi dico fovente di haver havuto piaceri libidinosi o n il demonio, *credendo che* lfuffs una vera femina. E fu in cotesto modo sicome egli narrava, chi era huomo semplice e senza malitia. Sendo ello nella Toscana e caminando peralcune sue occurrentie verso Pisa e venendo da un castello pur del Pisano, dovi havea perduto nel giuoco de dadili danari, eco si molto di mala voglia lamentandosi dellifanti& anchor ed Iddio per la per dutadielli, ecco rivede seguitare dopo lui dui a cavallo che parevano mercatanti, e parevano che cavalcaflino molto infretta, doue adietro diunodjeflisedeuaingroppadelcas uallo una femina la quale dimostrando dinon poterepiyol troftarea canalloperlagran fretra che facevano paruiche 3 scendeffe interra. Hor costuiuedendola bella & anche sola pigliandola per la mane caminauano insieme e la inuito allo allogiamente seco quando serebollo a Pisa, e cofi parupi che quella gratiofamemreaccecai se l’invito. Eco si pur oltca caminando insieme e anchor piacevolmente ragionando, canto colui se in siammo di amore di lei, che senza ver un freno della giusta ragione, ec iecamente chiedendola de piaceri dishonnestie quella consentendo linediuiénea quello che tanto pazzescamence bramata. Ma' uditi cosa meravegliosa, come hebbe havuto li suo i s c e l e r a t i d i s u r e  i s c o s t i da ogni ragione di huomo, ecco che incotenenti quasi tramortie diurene tanto manco di animockegiacque nel campo dovi la vea comesso il fozzo peccato dalejhore come mezzo morso.Vero eche foura giungendo e suoi compagni chi ne venevano dopo lui d a longhi e ritrovandolo in coral modo giacere fanza forze corporali, il portarono alla citta e fusei meti infermo, e gli cascarono tutti gli pelli dalla persona e narrava come per tal modo vi fussero brugiate le calze nella soperficie disoura comme selfulfiftatoil fuogo vero l’havesse brugiare. Dipoi diceva comesericor dava che quella femina, ma piu presto quel diavolo in forma di femina l’havea molto pregato cheldevesse getare a terra una haftateneuaiimane douiuieranel Ja cima un ferro in forma di croce, cioe un pedo, li corne noi diciano promettendoli di darli una molto piu bella lanza segliubidiua. APISTIO. Molto mi ritrouo fatisfactoquae toallipiacericarnaliprocuratidalli Demonii dalprincipio dellaniquita. FRONIMO. Hor voglio chetuintèdicome ha ilDemonioquestausanzaperdouerpigliareThuomini, di ufare ogni frodo nel conuerfare collhuomirificome iften desseuna reteperinuilupparli.Ilperchenon solamente usa queftonelli piaceri carnalim a anchor intutte le altre fami: liaritade. Etacciotupoffi conoscerechelfia vervooghioh o racomenzare dalle bataglie di Troia. Che penfitu uuolefle SIGNIFICARE quell Dragone di altezza di fette gomiti canto dia mestico chibeueuacóAiaceLocrese& andaualiauantinel liuiaggi demoftrådoltlauiarecoliftaua tantodimefticame teconlui, ficomefuffiftatouncagnuolo. Che cosauogliono dimostrare le penne diDedalo:e lealidelPegafloretuttel . laltcicose,annouerate frallimoftri delle fauole Et anche quelli tapti prodigii emiracoli delli Philosophi C h e crediçu uuoleffe direquellotantoaceleratouiaggio che fece Pythagora andando e ritornando per u n aviam o l t o longa d a (t a . Jiaperinsino nella Isola de Sicilia in cosi puoco tempo.Cor m e pensi tu puotesse caminare tanto spario di paese cosiuelo cementeri come uno uccello Empedocle inchemodoisti mitucheandaffecon tanta uelocitalicomelaborea Abaro fouradiunafaetadi Appolline a vificare Pythagora. Di che luogo creditu uscisse quella voce, che refiro Socrate, ma non losforzor Ghi vuol dire quel genio e familiare spirito di Plotitro: Che significaquella Occa che habitava tanto dimesticamente con Jacy de philosophore fic ome fono puochie philosophi in comparatione dellaltci huomeni,cosianchor questoperuerfonemico dell’huomo tirauamolto piu delli mortali nella uoragine precipitosa della sporcha libidine che litentaffidi vanagloria. Enonfolamentelitencauaisteriormente e visibilmente, ma anchor f o u e n t e interiormente e invisibilmente. E se tu pensarai che puoco importa siano tentati l’huomin idal demonio dilasciuiaedi. Carnali piaceri o interriormenteo veco isteriormente, te lasaperadire que itadifferentia Santo Geronimo Il quale chiaramente scrisse ledicedi quelli fantiheremite,doujraccontale grandi ten tationipatirononeldesertodalliDemonii,ecoteftofeceper ammonitione di quelli doueano uenire,Atchor 11on m a n coeglifcriffequellegranditentationichelfuftene,dicendo qualmente inuna carne quasi morta solamente bugliua. noliincendii& asperifuoghi della fozza libidine. APISTIO. Dung feaffatico anchor Venere, cio e il demonio di u u o l e r combatare con Santo Geronim o colli dardi del a puzzolente libidine? FRONIMO .E bensefforzo difaretutto quello puote & anche non fece manco cru delleguerra con ilglorioso Pontifice.SantoMartino,sotto questo n o m e di Venere ficome racconta Severo doveder scriue li laciuoli e itele retida quello nemico in effigia di Venere. Ma chelfedimoftrafiea santo Geronimo vi fibilmenteoueroiltentaffe interiormente, non Ihaveto chiaro.Vero echecredotuhabbilettonelliantiquissimiau thoridelliGentili,come hauea consuetudine Venere dim o were lhuomini interiormente & ancoisteriorméte.Ma eglie ben ueroche quando serapresentaalliocchicorporali,efaci lecoladadouer conoscerem a quandosolamentesedimo A t r a nella imaginatione, & e c c i t c a e m u o u e li sentimenti i n t e riorinonsonocosi facilmenteconosciutidaogniunolisecre *titradimentietaftureinsidiediquella.Ilpercheeglie detto pellihinnidiOrpheo Venereuifibileet inuisibile. Et anchora e detto che li amori u s c i f f e n o d i quella f e c i s c o n o l a n i m e colle intellettualisaete. Imperhodice Orpheo in quell altro himo greco coli in volgate noftrohorada me trasferito, aparente e non aparenteo vero paiono e non paiono. E pur ancheinun altrohinnocosiscriueingreco quello che hora diro volgarmente uuolendo dimostrare che sianopercorso lanime colliintellecualidardi,queste fedissenolanime colle intellettualisaete. Anchor feuedonoquelliuersi di Procolo Platoniconellhinnofatto alla licia Venere in Greco uiauia da me co f i i n volgare tra dotti acci o si manifestano le intellettuali nozze. Hauendo INDICIO delle intellettuali nozze edel liincelletcualihymenei, cio e delli intellettuali Dei delle nozze. APISTIO. Dice Apulegio che qlo spirito ilquale couet s a u a t a t o d i m e s t i c a mente con SOCRATE era dio e no il demonio. FRONIMO. Ma pel contrario scrive il Plutarco & a n Co Massimo Tirio chiamadolo il demonio. Decujunodieffi ne hascrittoun libro,elalcrodui. Perqualcagionefedicech unaltro demonio pigliafféilpatrocinioegouernodiplatone o di Zenone ouer di Diogene Perche fu un altro demonio inolto domestico di Plotino s9i veriraui dico che questo fa ceuanope ringanarli. Sono tutte menzogne quellechedie cono alcuni comesonouarielenature del Demonio , cioe che alcuni dieslisedeletranodigouernare le Cittade, ele co sedomeftice, efamiliarieraltriuolentierifeoccupanonelle coferufticaneedella uilla,etalquantiallegramente se in tromettono nellopre della terra,et anchora fono reputati molti che habbino cur adelle cose marinesche. Sono tutte  coteste cose   & aliri ale loeffercitarsi nellarmi della battaglia. Ilperche fauolescame tenarrauano, cheinspirasseperlifomnijlamedicina Esculapio e Podalicio, e che fussero T o u r a f t a n e i a l l e p r o c e l l o s e o n d e etépeste delmare li Dioscuri, cioe Castore e Poluce figliuoli di Gioue, et anchor dicevano che essercitasseno le opere della guerra dopo la morte Rheslo & Achille, & in antichi tempi di Troia, Theseo. ueroecheraccotauanochequelliprimi nascostamenteeffcrcitauanolarme,m a questoultimoaper tamente enellampio campo. Racconialianchor perfama checombatreffenellicampiepianuradi Marathono laeffi giadi Theseoper li Atheniefi contradelli Medi, equeftoan che scriffe il Plurarcho. Deh vedi una gran pazzia. Credeuano foftoro che li demonii fuffero lanime separatedallicorpill., gerche diceuano che Asculapio medicaua, Minone e Rhal damáto giudicaua,Scacciaua le gragnuole etépefteli Dioscurio sia Castore e Polluce, Diuinaua Amphilocho, Mopro, Orpheo, eT rophonio,elebattaglie eguerre trattaua Rhei fo, Achille,e Theseo .Ditutte coteste cose era authore ilD e r monio,Ecacciolifuffero preftatelorecchie edato fede,ecoli maggiormentefusserotiratilhuominieglifaceffinolifagri ficiilicomeallanime delli Baroni signori & eccellenti huomini con una cerca vana speranza f , ing e vano tutte queste cose. Dalle quali superstiitioni e inganni, non furono contrarii Platone et Aristotele, e maggiormente scrivendo li libri delie publice leggie disputando delle institutioni & artici uiliecittadinesche. Anchor e cosa publica,comene noftri giorni son ftato tenuti e portati delli demonii nelle guasta , deo sianoualidiuctro enelle annelli,& inaltrecose, & anie chorcomequellineinici dell’huomini hanno dato resposte perilgérre,perlacosta,&altrimembri dellimortali ficomie dalspiritodi PythiaodiApolline,acciopoffemofacilmente coteste cose elalorisimilisonniidellisciocchiepazziGecilie pagani,propriamente semilia quelli narrati daalchunifa uolescaméte,qualmente alquanti diquellifeeffeccicauano nella medicina,& alirihaueano cura e gouerno delli naui. Gheuolilegnie delli gouernator idieffi, & chealquantierat no sourastantialdiuinare,enon puochialleleggi,   cono s c e r e come il f c e l e r a c o nemco de Dio e dell'humana generatione ha pensato in diuersi tempi diverse vie e modi de ingannare Ibuomofouo specie di familiarita. APISTIO. In uerita cosiancheioistimo, DICASTO. Nó dubitarem a siapurdibuona uoglia,cóciosiacheapuocoapuoco ne ue. rainella nostra ferma oppenione e vera sententia. APISTIO. Ma nongiain questomodo.Maegliebenuerochemilasto coducere dalleragionie dalliteftimonii.  DICASTO. Vieni qui Strega, esappiacome fei coffretracon quelmedeno giurainento cheeriauanniesappia qualmente in brieuisem raipunicaconilnostrofuogo,edipoiincontinenciconquell altro che mani o n mancara: fe tu mentirai in pun to d i q u e k locheteinterrogarodeluoftromaladecco giuoco, I doso,enon houerun dubbioin questa cola. DICASTO. Dimmi. Magirali e beueti cola al giuoco uostro scele ratorVero echequantoallipiacericarnaliaffaisiamofacil fatto.E cosipiu non bisogna diaddimandartine. Simangiauadainquelmedemomodo ebeueua comeera cófueto dimīgiareincasaconilmiomarito ,econlimieifir gluoli. FRONIMO. HieritipropofiApistio iefsempio quel lamensadelsole cotanto noininarae iamentara da Heroi doro,edaSolino,& anchordaPomponioMela.Ilperchetu debbe (appere qualmenteil Demonioastuto ne cira affai dellipoueri e delcozza uolgo collipiaceri della gola olico dellasperanza lo chiariffeneanchor dicecheufcisfenoledittecarnifuo kidellaterrane che saliscenosouradicffamesa béchelodi caHerodoco.VeroechePomponioMelae, GaioSotivo dicono cheeranodiuinaméteportatedittecarni.Machies coluidi cosicozzoingegno chinon adaerciscacome fussero quelleuiuandeecibilusingheuoliingamida ingannareil gufto dellaignoranteturba,Et anche chi'e-coluidicofipuo R e promissionidelledelettationicarnali.Che cosa pođemo istimare uyolessunosignificare quelle carni poste souradellapridettamensadel Solerde cuilefameir tione fanto Geronimo fcriuendo a Paulino,ficomedi una cosamolto uolgata,emolto marauegliofarMachicofa fuffe nó co discorso   co discorso, il quale veda Solino contrario ad Herodoto, et il Mela contrario di Solino chenon coilofcacomeuariament tee dimostrata quefta fuperftitioner cóciofiache quello fcri ua qualmente eranoiuiportelecarni nelpratoappo della citadalmagiftratonellaoscura notte,chesemangiauano nelgiorno,echedipoieradetto daquellidel paesfeu,ffero uscitefuoridellaterrasEgliebenuerochediceSolinocome e quellaméfainunluogodellombre,etiersempreapparec chiata abondantemente di lauri,dolei, etaggradeuoli cibi, et uiuande,dellequaline puomágiareciascunchevuole et atuetasuauoglia,ebenchenefianomágiatein grancopia da quellicheneuuoleno,non dimeno imperho non mai mancano, ma sempre iuicresconodiuinamente. Ma Pomponio non dicepurunamejionaparoladoue fifa questa mensa,o apreffodellaCittaouernoellaoscuracarcereeca cetto che dice com e divinamente iui nascono li cibi.  E ben o che cotetti Scrittorinon convienono insiemein ogni cosa, purimperho eglie fermamentedacuttiquellicenuto feno za contrarierac,omeèunamarauegliosacofa,&anzidiuis nalantidetto conuito del sole. Ilchere-molto conueneuol le conquesto di Diana, sorella di Phebo o del Sole sicome egli dicevano. Anchora istimono essere puoco a noftro proposito quello che racconta PomponioMelanelladescricio, niedel Mondo cioeche seritrovaunluogodoni continua mente tilpiandono grandi fuoghinellaoscuranotteetpaio noefferiuiquafieffercitidi soldati chi occupano ampiopa ose eriuifiano fermati suonandocimbalitamburini,fiauti, e trombeche paionomoltomaggioredequelli cheusano Thuomini. Dimoftrauano anchora una fimilitudine diC o n uito lincantamentiemagicheopere deOliffe,sendofpar foilsangueintornointorno. Nelqualeluogo ui ueneuono li demonii, e t f i demostravano in diverse et varie figure. In qual modo diceva il Vinitore, che conuerfaffi l’anima di Olisse cauata da Homero collombre &imaginidi Pro tefilaoedellialcriBaronificomedicePhiloftrato.Ma hora lescelerateemaladetteStreghee Stregonidenoftritempi,  TI ro fir Tiel TOY MU feron ii be KTOV DIO  I cavano il sangue dalli fanciullini, epermaggiorpartelocon servano nelliuafiperfarequelmaladettounguento, E bep che paiono coteftecoseaffaisofficienci, per hauernarrato il detto convito, non dimeno imperhouoglioanchorloggiun gere la mensa di Achille. APISTIO. Che cosa s e c a m o g u e. fta fiammo pucadudire. FRONIMO. Non ti marabigliare E t anchorari pricgonon uoglisprezzare quello ,che uoglio nafcare conciosiachenon fingouerunacosa Ipera che senonmivuoicredereaddimadalotua Maflimo Tirio, Il che fe f u f a r a i, te l o raccontara, ma anzi te lo dimostrara colle suecatre scritctei o e iinarrara dimia certecosaiferittapermo lu i secoli, ci o e avant i d i mill e s a n n i c o m e a c f u o i tempi fiz manifefta la Mensa di Achille che eramolto simile a quella delle ftreghedouidicono chehocauiseggiono mangiano'e beueno APISTIO. Il mio Fronimo io creda alle tue parole. FRONIMO. Puc quando anchornonmiuuolesti credere, ioti moftrarebbi il libro dell’antidetro authoree Greco e anche latino cbieapreffodim e. Nelquale anchorvie foritto di unacerta isoladelmare Euffindouie il Tempio di Achille Nella quale Cove n t e e f t a t o u c d u t o d a l u i, esso Achil e ch e ha fatto conuiro a quellihuomini iuiandauano & che ha cono sciutoP atroclo figluolo di Thete e altri demoni (& fico meeglidice) lichoridelliDemonii.cio elemoltitudinidief ft& anchobaneucduto di Dioscurichedannoagiatorioal., lenani chepericolquotio,accioiolascidiramentarequello cheeffofcriffc.comeera confuetudine diefferueduto nello Ili o le forze di Hertore. Ma co r e f t e c o s e n o n p e r t e n g o n o a l conuito delleLemuri.APIST.Nó pareno queftecolemol. todiscosto dalconuito diNereo edelloceano,delliqualine fannomemoria diuerst-poeti.FRONIMO.Réfo I lmaligno Saftuto nemicodellhuomocoreftivelenatiConuiti,accio priuaffeIbuomodelloeccellentifmocouitodiChristo che: ha apparecchiato f o u r a d e l l a mensa s u na e l suo R e a m o. M a h o r a, u r voglio raccontare, non un convito finto e scrito dalli poeti ma w a maraveglosa cosa gia puochi anni passati ha mi narrata da un grande huomo ornato cosi di eccellentedi gnitacome didouitiae di ricchezze. Fuunbuonfacerdote nelle    nelle Alpi Rhetie cioe di Germania gia dodicianni fa ilqua le dovendo portareilfagrosantouiarico del corpo di Messer Giesu Christo adunogravementeinfernio: &efTendolimola to discosto, eaedendo dinon poterlo cosiprefto portare ca minando apiedi,sicomeerailbisogno,falisuilcauallo e le goflralcolloinona affaihonoreuolecaffetta dilegnos fan , tiffimosagramento, e comenzoaffaiinfreta di caminareper f a c i s f a r e a l d e b i t o f u o. H o r s e n d o a l quanto caminato f e g l i f e r ceincontrauno che loinuitoascienderegiu del cauallo, et andare cô luiper uedere uno marauegliofo fpetracolo.Ilche imprudentemente eglifacendo per uedere cotefta curiosa cofacome fufcielo, ecco incontenentisentidiesserportato perariainfiemeconcoliche Thauea inuitato, & in puoco spacio d itempo feue diporre foura la cima diun akiflimo monte dovie rauna molto ampia & ameneuole pianura, in/ c o r n i a r a da altissimi alberi e con pavente voli ruppi se trata . Nel mezzo de coi ui fiue devano diversi e varii balli, & an c h o t u t e le maniere de g i u o c h i c o l l e n i e n s e apparecchiate dilautirdiuecficibi, & ancheseudiwanotutre le generationi de fuoni e di deletteuoli canticono gni dolcezzaetrastullo cbrieuemenite semteuasi & udeuafitutte quellecose, lequali suolenorallegrarelianime dellhuomiui.Dilchenjoliomara uegliandosiilbuonefemplicefacerdotee purnonhauendo ardimento diparlareperlagrannjaraueghia,& sendomez zo fuoridi feifteffo glifuchiedutodal copagno, che lhauea condotto quiuifeuvoleuaadorareefarerinerentiaallaM a donna cheera jui, & ufferitliqualcheduono,fecondo che fa ceuanolaltriEraasederenelmezzo unabellissimaReinari c a m e n t e u e f t i t a f, o u r a d i u n a r e a l e f e g g e , a c u i l e p r e f e n t a u a ciascunaduoiaduoioaquattroaquattro conuarioordine areuerirla & ad adorarla presentandolidiuerfi duoni. Horudendo costuitainentare la Madonna e uedendola ornata ditantofpiandoriedatantisergentiferuita istimochelafus filagloriofamadrediDio eReinadelcieloedellaterra,cô ciofiachenon sapeva checotestecosefufferoinaencioniere trouidelli Demroni ilpercheselohaveffeiftimato,novaise rebbeandato.Horafrafeben pensandochecofaglidouelle  presentareperifdoi non puoterleoffericepiuaggradeuole presenteallamadre che ilcorpo fagratiffimodelluounige n i c o figliuolo, e c o l i a n d o d o u e f e d e u a q u e l l a e t a d o r o l lia n ginocchiadoli alli piedi; edipoileuádolidalcollolacafferra doueerail-fagrauiffimocorpodi Misser Giesu Christo, divotamente u i l pa o f e n e l g r e m i o. O di cosa meravigliora, ecco che incontinenti, come la hebbe poftasoura del gremio di quellaReina,coliprestofparuilafeggedi oro elaReina erauifu con tuttaquella moletudine,etcon ognicosa che pareuaiui,epiunonfuuedutopurun puoco diueftigiodi quellinedelļicóukinedeli giuochi, neapparui quelloche fuffe fatrodelcompagnio. Hor conoscendo ilfemplizzotro p r e t e come full e stata quest caos a opera del demonio tutto smarrito e mezz o fuoridife fteffo comentio di pregare Ido dio che non lo abbandonasse in quellifilueftri luoghipriui diognihabitationedemortali.Ecosigirádohorindiequin dilocchi,eandadomo qui,noliperquelliaspriluoghiper uedere sepuoteuaritrouare qualcheueftigiodihuomini ac cioplotesse intenderedove fuffe, eritrouandofi sempre in maggioriruineeboschie feluealfinpurranto caminoper quelle precipitose ruppi, che dopo molto longa fatica, edoi po longospatioditempo con grauiaffanniritrouo unpaz Atoredacuiintese,comeeradiscostoda quelluogodoue andaua a portare ilcorpo di Christo da circa cento miglia , Poi che fu ritornia:o con gran strache zza alla fuahabitatio ne andodalMagistratodiMassimiliano Imperarore,erae coiolíiltuttoper ordineficome horaio honartaro. Ma che coteste cosepoffoirefferfattedal Demonio telo dirano Hi Theologgiliqualimostrano comelanatura dellicorpieub bediente alla uolonta delle foftantie separate dalla materia quanroimpechó pertene almouere daluogo aluogo.A n chora puotraiintêdereallaiessempiidellicorpihamanipot tatiperaria da luogoaluogo,seryutoraidallilibridiFras teArrigo,etdi FrateGiacopo Thodeschi eccellenti Theo Soggi dellordine'de Frati Predicatori chiamati il maltello, loquale fecero,confirmandolocon affaiteftimoniodimoke cole che effi uideno colliproprii occhi .Loquale maltello puotrai hauere,fetulouuoraiusarecontrodiquellicheso noduri,enon uogliono credereiluero acciochetu lipieghi à douer crederequellochesono abbrigaci ouero lilpacchi in cento migliara de pezzi. APISTIO. Cenamentehoudij tounamarauigliosa cosa, laqualenon puooffuscare la sera nottene anchose puo direche fusseun fomnio nechesalu ta cófeffataper paura,ouero permatrocio,operqualche al trafintacagione.Ma uorebbiintenderedachepuotepros cedere che sparislinotutte quelle cosenel toccare diquella hoftia fagraca, concioliache li demonii, non solamentete m a n o il toccare d i quella ma ancho cercano . e c o m a n da no che siano portate assai di quelle al giuocoe di poi le fa m o gettare in terracon grādi scherni e lifanno dare foucadelli piedi elifan faretuttequelle uergogne siposson fare,fico m e disouraha parrato la Strega. DICASTO. Tunáti deb biper questomarauigliare conciofiachefapiamo come se (pauentanoeDemonii perilsegnodella santissima Croce,e nondimeno anchora qualche uolta apparisconoinfiguradi Chrifto crocifisso accio piu facilmére posson ingånare lhuol. mini.Inueritatidicochetunon timacauegliarestisetu ha. Yefli Jettoleopereelauicadi santo Martino e di. S. Francesco di molti altri santi eseancho. tuhauefliben effaininato come Messer Giesu Christo sendo anchor in questa mortale CarneilqualescariaualiDemonii silasciotétatead esso De monio eglipmeffecheloportafferouradelpinnacolodel Tempio,edeindipoi'sourdaelmonte,& anchepermesle maggiorcosa,cioeche fuffemalerattato da quelliperfidi Giudeiferui del demonio e tormentato, et ultima menrecrocifico. Olcrodecio tupresupponichelaStreghenarrano cheliDemoniiconculcano,ediano dellipiedisoucadelle hostie consegrare, ma non e c o l i, con c i o l i a che non fanno corefto li Demonii m a/elbenverochelofa questo lamay legnita dell’huomini asuggestione dieffiDemonii.Anchos racredochecosicomefalafedeinsiemecon lariuerentia che fanno l’huomi in essa santissima Croce,enella fagrolan (a hostia consagrata che il maladecto demonio se ne fugge: cos ianchor uifaccifaretantiuituperiieffoperlagranmalistia de essi, eper ilricuperio lifanno. Ma quanto al semplice u coprere. Credo chefuflila semplicita diquello cagioneche sparefsinotutti quelli apparecchiamenti, etuttequellalerico fé,emaggiormiére la forzadellafedefecechenon solamente non f u ingannato in suo danno, ma anchor fece c h e f u p e r e serunoacciopuotes le narrare allialorie dechiarare come quella cofa dequihocą parlamehepareua effermoltodu biofa, cioelele streghe e STREGONI vano al giuoco con il cor poouero solamente con la fantasia & imaginatione ouero se vi possono andare punefleruera, & e verae non una imaginatione. Auchar permette alcuna uolta la possanza de id dio,chesiaschernitoilsagramento elaCroce,ellaltricose diuine, &alcunavoltano:segondochealuipare.E perchela fa,sepuosempredarequalcheragioneingenerale,mianon re puo imperhosempre isplicarein particolare, conciolia chi e tanto rozzo e grosso l’occhiodell intelletto poftro, a dovere INVESTIGARE li secreti della divina magiesta. APISTIO. Hormai son satisfattocon queste ragioni, ecitrouomi conten to rendouscitodellenere& ofcurecauernedelledubitatio pi.FRONIMO.Ben uedisetuhaialtrodubbio,efupresto chiedelachiarezzaa Dicasto, perchegia glimolto poffenti euelocicaualliquasi hannotiratoilcarrodelsoleappo del suo SEGNO, quabto al nostro hemispherio, accio non bisognali poi remanere quicoteftanotte, sendo ferate le porte del castello. Il percheftareffimomolto maleagevoli,questanotte delfinuerno,in cotesto Monastero a pena comenzato doui non stritrouaanchor uerun letto. APISTIO. Hamnipare. che non cifiaaltroda chiedere eccetto che delliueneficii o fano incanti. DICASTO. Di che cosa dubith. APISTIO. Se fouofatti veramenteo purchepaionoesserfacti solamente con la imaginatione. Conciona che affai ha manifeftato la forza delladiuinaGiusticiasempregiustaenon sempre co: nosciuta perche Iddio alcuna volta permetta, fepursefallo, & alcuna volta il prohibisca. FRONIMO. Non te ricordi di: Lucio Samofateno, e di Lucio Madautefo. APISTIO. Si ben. Et ancho mi ricordo di hauere alcunauoltaletto dette  5 cose, & anchegiaduoigiornifaleho uditoramentarea te. Ma egli e ben vero che dubito affainon fianofauolee che in ueritanó fufferofattecofiquellecoseche se narrano in quel asino greco et anche latino. FRONIMO. Coli come iono dubito che siano assai cose finte emoltopiudiquellochelo Etanchor sepurcoliuuoi che sianotutte quellecose che for n o ne detti libri fauole et imaginationi, cosi anche credo che dett e favole e f i t c i of n i i a n o c a nate da qual che vero fondamento.Conciosia che il nostro Divo Aurelio Agostino iftir mo chequelle trasformacioni e tramutationiiscritteda Varrone cio edelliaugelli di Diomede, delle bestie di Circee delli lupi di Archadia pigliaffono origine e principio da qual, che cofa uera. Et anchor raccontanel decimo otcauo libro della Citta di Dio, comeerausanzanetepi' suoi difaremol te coseaffaifimilia quellechenarraouerofingea pulegio. Veroe che dice, come gli demonii non possono fare ver una cora con la forza della sua natura se non la permette Iddio. Lioccolti giudici di cui, fono infinitie non uisiritrouaimpe tho verun dieffiingiufto. IIperchesepare che li demoni fa ciono qualche cosa similea quelleche ha creatolomnipo. tente euero Iddio, eche pare chemutano una speciedi uno animaleinunaltra:ouerotramutanouna creatura in unal tan,on euerochecofi,fia,maebenuerochecosifaappare teouero imprimendo dettefpecieefigurefintenellimagi, natione e fantasia, overo mettendo avanti li occh i corporali un altraf inta specie e figura. E cosi  io ile di 5 lui che ha conturbata la fantasia, diesser una cosa in luogo di analera & il simile parera allaltci. non dimeno fera imperho quel medemo, overo gli prepora una similitudine auktiloco chi la quale di continuoglifaraparereefferecofi, ecosicre. deca dieffer veduto anchedall altri.E coteftanon egramel raueglia,percheseun corpo puo ingannarelifeptimeci corporali e farli parere una cosa altrimento di quello che e-fico m e vediamo che failuietro, il quale imprime quell suocolore nellocchio percotalmodoche fa parere tuttelaltrecosefimi leaTenelcolore, benche fianoaltrimentoinsecolorate,quá t o maggior mete i spiriti ignudi da ogni corpo, cio e li demo qualche uolta pareraacoi  nit Quotrano conturbare la fantasia er ingannare l’occhi elal trisentimenti delle creature inferioris E coliin cotéfto modo iftimaraifuffero quelle operediquei Almi, e di quella specie di quello prestance cauallo, chiporcaua li gradi pesi ladispu tatione del philosopho, chdiifpucaua senza corpo le cose di Platone le astute opere delli lupi di Arcadia, e liuerfi di Circe che trafformaronoli compagni di Oliffe. Ecosituttecol tefte cosefedebbono attribuire al spirito imaginario, ouero alla fantasia. che cosi era ingannata a cui pareua essere quel la cosa che non era. Il simile anchor diremo della cerva in uecede Iphigenia, e li augelli i uece delli compagni di Olisse, cioe chefufferoposte simili imaginie figure dalli demonii auktilocchidellhuomini,opur ancheforliuifuffipoftauna uera cerua,etancheueriaugellinóuiapparëdoIphigenia nelicompagnidiOliffe,o sendoiuipresente,oueroportati in aloriluoghi. DICASTO. O quanto ben , e quanto brieueme tehaicuraccontatoquellecosdei santoAgoftino,enóman co uere ficomeio iftimo.Eglie ferma cóclufione tenuta dal li theologgiqualmente sono soggietti naturalmente i sentimenti dell’huomini e la imaginatione e fantasia alla poffanza delli demonii, perche sono essi sentimenti e imaginatione inferiorie manconobili di dettefoftārie separate eprine di ogni corpo eco si sendo piunobili,glisonosoggietrequei Accosemen nobili,Iipercheanchor uoglionarrare alcune verissime coseacoteft opposito per confermare quello che havemo detto Eglietaccotatonelleuitedesati Padri come fuacconciataunagiouenenper incanti incoralinodo ch epare g a u n a sfrenar a cavalla. I perche sendo presentata avanti di santo Machario, perle orationi dieffu fuleuato d avanti l’occhi diciascun quel prestigio, equellaillusione del demonio, eco si pareva in quel modo sicome era in verita. Puote il demonio commovere li interiori sentimenti a molti, alliqua lipareuafufli altrimentequellameschinagiouine di quello che eram a non puote mouere imperhoeffisentimentiinte tioridisanto Machario fortificati principalmene con loadiu torio di Iddio aface parere quello che non era Anchor non aftregnega la finta figura di quel huomo, che paceua uno asino nella Citta di Salamina della Isola di Cipro,liocchi diciascuncheloucdeuadaiftimarecbelfuffeun Alino.eca cetto di quella donna m a g a el incadratrice laquale glih a . uea per talmodo conturbato la fantasia colli suoi maleficii, che anchealuipareyadi esser douentato uno asino, ecosi portaua le legna in vece di giumento.Vero erchefaugiutato per prudentia dialcuni niercatanti Genoueh, liquali ue: la Chiesa perfareriuerétiaetadorare Iddio iftimaronoche quello non fufleuna vera bestia, eco si cercarono di agiutar. e difareportarelamerite uole pena alla incantatrice. In verita ui dico che possono fare li m alegni demonii appare temoltecose altrimente di quello che fono,epossonom o ueremoltecoseerappresentarlenella fantasia,efareparece u n a cosa in altro m o d o di quello chi-e-et anchora fare i li mile nelli corporali senrimenti in un medelimo huomo. Oltro dicio occorre che fono ingannati liocchi di quelli che vedono, et ancho e conturbato l’occhio della mente, fendomoffa la imaginatione. Anchorsıcome,giaauantidi ceffimo,puo esserportatoilcorpo per diuerfiluoghi.Ilger cheinteruiene che quelliliqualinon ben e sollicitamente ellaminanoquestecosea parteaperparte facilmente sono ingannati ecosi non ben chiaramentec onsiderando lilibri delli doreielitterati huomininon possondcitta mente giudicare quanta differentia e fralle cose create, equelle che uscis seno da qualche natura delle creature efra quello chi e intiero, e quello chilerparte,efra iluero,e quello che erfimile aluero,equellochedimostra lasuaimagine,equello che dimoftraquelladaltrui.Enon ben pesanocon la giustabio y lanza la forza di tutta la natura nelaportanza delli demonii Er alfineanchonon confiderano ligiudiciide Iddio,liquali speffe uolte sono occultissimi anoi,ma impho sempresono fatlicolomma giustitia. FRON. Hormaise appropinquala fera egia comencia di apparere la oscura noite il oche l’hora tarda ciinuita di ritornare a casa. Siche Apistio se non seifatis Gattopģīta nostra longa disputatione n ó poflo piu ueder che. Chi inginocchiare e prostrare in terra aukti la porta del coradobbian fareacciopollieffercôtéto.Cöcioliachetuhal poffutoconoscere come queftomaladetto eriscommunica to giuoconon efictionene fauola. coliperli libri dell’antichi, con e per l’opere fatte ne tempi nostri, e come egli e in sostantia antichissimo e nuouo per molte conditionier che e Atato mutaro secondo la maligna e perversa volonta delli demonii, eforsianchorlomutara, percheetantalaasturiaelucili tadieffoiniquo inganrratoredell’huomini che continuamen e cerca nuovi modi daposferingannarenoi. Ho dimoftrato a te li Cerchi li unguenti, le parole magiche et incanti liu i a g o giperligrandifpatidellariali lascivie libidinosi piaceri del li demonii che sisonoritrouaricosi' ne tempi nostri, comene tempi delli Baroni antichi. E tho dimostrato qualmente pen Saronolipecaerfi demoni di douer calonniaree uituperare l’humana generationedallaprimaantiquitacioedalprimo huomo perinfinoadhora.E comehaingannato Ihuomo collesueresposte,colliragionamenti con lafamiliarita edi mestichezza,ecome ha cercatoperogniuiaemodo di ingå nare ognifeffo,etognieracollifimulacri euarie imagini,et che seesforzatodiufurpareladiuinita,e farsiadorarecome Dio,etche ha fatto nuoceuoliconuitiallimortali,etcheliba portatoasimilitudinediun giumento chehabbialeali, eco me hadesideratodihauer lisceleratiffimipiacericarnalicolo lihuomini.M a perche iotiueggiohoramolto Atracco per tantouiaggiochehaifactocon lanimotuoin diuerseregio nie paesi della [calia della Sicilia,etiolcrodel Ionio mare e dello Eulino e tan cho r perche te ho codoico colli mei ragionamenti nell’Africa nell'Asia, e perinsino alli Hiperborei Mode dovi non ci ho condotto. Il perch es e ra h o ma i tempo ne debbicitornaremeco acasa. APISTIO. Tudiiluero, liben hormaiehora.E cositecone uengo,emolto satisfaco. DICASTO. Se i tudung content di quello chehauemodetto: Ec in uericaneuieninellanoftra oppenione. APISTIO. Si certamente son contento, et inueritauidico, che credo quello che e statodetto. DICASTO. Dicupurdado vero o pergivoco. APISTIO. Puo effer quefto Dicasto, che tu iltimiche io dica quello per iscrizo e giuoco che ha creduto tutta l’antiquita e tutta anchor la pofterit ad Io dico quello che ancho confermano colli isperimenti & efsempii, li Poesi, Oratori, Hiftocici leggitti, philosophi,theologgi, Ihuominipruden tili soldati lirufticie contadini, beniche le ritrouano alcuni Sauioli, liqualiripucandosi piu dotiefauiiditurcilaltri,che queftoniegano, DICASTO. Dung ficome io uedo tu hai mutato oppenione. APISTIO. Che bisogna piu affirmarlo, Gia te l’ho detto, Eco sipercheioho uefitolanimomiodi un altrohabitocuesta, epareame dihauerritrouatola verita di quello cheprima non credeuo in questa cosa giacendo nella nera et oscura tenebradella igriorantia e della fallita, desiderograndemetediunutareilnome edipigliarneuna tro conueneuoleaquefto nuovo habito, de cui hora son vefito. DICASTO. Molto mi piace , Eco li per fatiffare alla tu  honesta voglia cidarounnome conuenientesicome addj mandi. Dug perlo auenire serai chiamato. PISTICO. APISTIO.O. quantohammi piace queftonome.Horacoliper ognimodouoglioefferchiamato. FRONIMO. Se piu non cirestacosa alcuna de cuitu habbi desiderio de intendere. egli e hora che ci partiamo con buon al i centia del Reverendo padre Inquisitore e che presto retorniamo al castello, Il perche Vale Reverende padre. DICASTO. Ite tan in pace. Leandro Alberti. Alberti. Keywords: diavolo, satana, mefistofele, angelo caduto, demonio, eudemonico. Refs. Luigi Speranza, “Grice ed Alberti” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.

 

Alberti (Genova). Filosofo. Grice: “I like [Leon Battista] Alberti; of course he is from Genova – Liguaria being the heart of my Italy, or the Italy of my heart!” – Grice: “I like Alberti’s ramblings on love to his lawyer friend – a full page without a p.s. – and it’s none of the Kantian conversational maxims or Ovidian tactics, but just a prohibition to mingle with the ladies!” --  Italian philosopher, on ‘aesthetics.’ Cf. Grice on sensation. Grice: “No one can fail to be enchanted by Lusini’s great likeness of Alberti at the loggiato of the uffizi! Ah, if we had the same at Oxford!” -- Genova-born essential Italian philosopherGrice, “I love his “De statua”it’s more philosophical anthropology than aesthetics!” «Ci è un uomo che per la sua universalità parrebbe volesse abbracciarlo tutto, dico Leon Battista Alberti, pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo e letterato»  (Francesco de Sanctis, Storia della letteratura italiana). Filosofo. Una delle figure artistiche più poliedriche del Rinascimento. Il suo primo nome si trova spesso, soprattutto in testi stranieri, come Leone.  Alberti fa parte della seconda generazione di umanisti (quella successiva a Vergerio, Bruni, Bracciolini, Francesco Barbaro), di cui fu una figura emblematica per il suo interesse nelle più varie discipline.  Un suo costante interesse era la ricerca delle regole, teoriche o pratiche, in grado di guidare il lavoro degli artisti. Nelle sue opere menzionò alcuni canoni, ad esempio: nel "De statua" espose le proporzioni del corpo umano, nel "De pictura" fornì la prima definizione della prospettiva scientifica e infine nel "De re aedificatoria" (opera cui lavorò fino alla morte, nel 1472), descrisse tutta la casistica relativa all'architettura moderna, sottolineando l'importanza del progetto e le diverse tipologie di edifici a seconda della loro funzione. Tale opera lo renderà immortale nei secoli e motivo di studio a livello internazionale da artisti come Eugène Viollet-le-Duc e John Ruskin. Come architetto, Alberti viene considerato, accanto a Brunelleschi, il fondatore dell'architettura rinascimentale.  L'aspetto innovativo delle sue proposte, soprattutto sia in ambito architettonico che umanistico, consisteva nella rielaborazione moderna dell'antico, cercato come modello da emulare e non semplicemente da replicare.  La classe sociale a cui Alberti faceva riferimento è comunque un'aristocrazia e alta "borghesia" illuminata. Egli lavorò per committenti quali i Gonzaga a Mantova e (per la tribuna della SS. Annunziata) a Firenze, i Malatesta a Rimini, i Rucellai a Firenze. Presunto autoritratto su placchetta, (Parigi, Cabinet des Medailles). Leon Battista nacque a Genova, figlio di Lorenzo Alberti, di una ricca famiglia di mercanti e banchieri fiorentini banditi dalla città toscana a partire dal 1388 per motivi politici, e da Bianca Fieschi, appartenente ad una delle più nobili casate genovesi.  I primi studi furono di tipo letterario, dapprima a Venezia e poi a Padova, alla scuola dell'umanista Gasparino Barzizza, dove apprese il latino e forse anche il greco. Si trasferì poi a Bologna dove studiò diritto, coltivando parallelamente il suo amore per molte altre discipline artistiche quali la musica, la pittura, la scultura, la matematica, la grammatica e la letteratura in generale. Si dedicò all'attività letteraria sin da giovane: a Bologna, infatti, già intorno ai vent'anni scrisse una commedia autobiografica in latino, la Philodoxeos fabula. Compose in latino il Momus, un originalissimo e avvincente romanzo mitologico, e le Intercoenales; in volgare, compose un'importante serie di dialoghi (De familia, Theogenius, Profugiorum ab ærumna libri, Cena familiaris, De iciarchia, dai titoli rigorosamente in latino) e alcuni scritti amatori, tra cui la Deiphira, ove raccoglie i precetti utili a fuggire da un amore mal iniziato.  Dopo la morte del padre, avvenuta nel 1421, l'Alberti trascorse alcuni anni di difficoltà, entrando in forte contrasto con i parenti che non volevano riconoscere i suoi diritti ereditari né favorire i suoi studi. In questi anni coltivò soprattutto gli studi scientifici, astronomici e matematici. Sembra si sia tuttavia concretamente laureato in diritto nel 1428 a Bologna, o forse a Ferrara, nonostante le difficoltà economiche e di salute. Tra Padova e Bologna intrecciò amicizie con molti importanti intellettuali, come Paolo Dal Pozzo Toscanelli, Tommaso Parentuccelli, futuro papa Nicolò V e probabilmente Niccolò Cusano.  Per gli anni 1428-1431 poco si sa, benché debba escludersi che si sia recato a Firenze dopo il ritiro del bandi contro gli Alberti, nel 1428, e sia del pari assai poco probabile che al seguito del cardinal Albergati abbia viaggiato in Francia e nel Nord Europa.  A Roma Nel 1431 diventò segretario del patriarca di Grado e, trasferitosi a Roma con questi, nel 1432 fu nominato abbreviatore apostolico (il cui ruolo consisteva per l'appunto nel redigere i brevi apostolici). Così entrò nel prestigioso ambiente umanistico della curia di papa Eugenio IV, che lo nominò (1432) titolare della pieve di San Martino a Gangalandi a Lastra a Signa, nei pressi di Firenze, beneficio di cui godette fino alla morte.  Vivendo prevalentemente a Roma ma spostandosi per periodi anche lunghi e per varie incombenze a Ferrara, Bologna, Venezia, Firenze, Mantova, Rimini e Napoli.  Le prime opere letterarie Tra il 1433 e il 1434, scrisse in pochi mesi i primi tre libri de Familia, un dialogo in volgare completato con un quarto libro nel 1437. Il dialogo è ambientato a Padova, nel 1421; vi partecipano vari componenti della famiglia Alberti, personaggi realmente esistiti, scontrandosi su due visioni diverse: da un lato c'è la mentalità moderna e borghese e dall'altro la tradizione, aristocratica e legata al passato. L'analisi che il libro offre è una visione dei principali aspetti e istituzioni della vita sociale dell'epoca, quali il matrimonio, la famiglia, l'educazione, la gestione economica, l'amicizia e in genere i rapporti sociali: l'Alberti esprime qui un punto di vista "filosofico" pienamente umanistico, che ricorre in tutte le sue opere di carattere morale e che consiste nella convinzione che gli uomini siano responsabili della propria sorte e che la virtù sia insita nell'uomo e debba essere realizzata attraverso l'operosità, la volontà e la ragione.  A Firenze  Statua di Leon Battista Alberti, piazza degli Uffizi a Firenze. Alberti visse prevalentemente a Firenze e Ferrara, al seguito della curia papale che fra l'altro partecipò al Concilio, ossia alle sedute ferrarese e fiorentina del concilio ecumenico (1438-39) che dovevano riappacificare la chiesa latina e le chiese cristiano-orientali, in particolare quella greca.  In questo periodo l'Alberti assimila parte della cultura fiorentina, cercando (invero con moderato successo) d'inserirsi nell'ambiente intellettuale e artistico della città; sono verosimilmente gli anni in cui nascono i suoi interessi artistici, che si traducono da subito nella duplice redazione (latina e volgare) del De pictura (1435-36). Nel prologo della versione in volgare, dedica l'opera a Brunelleschi e menziona anche i grandi innovatori delle arti del tempo: Donatello, Masaccio (morto già nel 1428) e i Della Robbia.  Intorno al 1443, al seguito del pontefice Eugenio IV lasciò Firenze, ma con la città continuò ad avere intensi rapporti legati anche ai cantieri dei suoi progetti.  De pictura Magnifying glass icon mgx2.svg  De pictura. Del 1435-1436 è il De pictura, scritto verosimilmente dapprima in latino e tradotto poi in volgare; se la redazione latina, senza ombra di dubbio la più importante e ricca, sarà dedicata al Gonzaga marchese di Mantova, per quella volgare l'Alberti redasse una dedica al Brunelleschi che, trasmessa da un solo codice strettamente legato al laboratorio personale dell'Alberti, forse non fu mai inviata. Il De pictura rappresenta la prima trattazione di una disciplina artistica non intesa solo come tecnica manuale, ma anche come ricerca intellettuale e culturale, e sarebbe difficile immaginarla fuori dallo straordinario contesto fiorentino e scritta da un autore diverso dall'Alberti, grande intellettuale umanista e artista egli stesso, anche se la sua attività nel campo delle arti figurative—attestata (benché in modi non lusinghieri) già dal Vasari—dovette essere ridotta. Il trattato è organizzato in tre "libri". Il primo contiene la più antica trattazione della prospettiva. Nel secondo libro l'Alberti tratta di “circoscrizione, composizione, e ricezione dei lumi”, cioè dei tre principi che regolano l'arte pittorica:  la circumscriptio consiste nel tracciare il contorno dei corpi; la compositio è il disegno delle linee che uniscono i contorni dei corpi e perciò la disposizione narrativa della scena pittorica, la cui importanza è qui espressa per la prima volta con piena lucidità intellettuale; la receptio luminum tratta dei colori e della luce. Il terzo libro è relativo alla figura del pittore di cui si rivendica il ruolo di vero artista e non, semplicemente, di artigiano. Con questo trattato Alberti influenzerà non solo il Rinascimento ma tutto quanto si sarebbe detto sulla pittura sino ai nostri giorni.  La questione del volgare Pur scrivendo numerosi testi in latino, lingua alla quale riconosceva il valore culturale e le specifiche qualità espressive, l'Alberti fu un fervente sostenitore del volgare. La duplice redazione in latino e in volgare del De pictura manifesta il suo interesse per il dibattito allora in corso tra gli umanisti sulla possibilità di usare il volgare nella trattazione di ogni materia. In un dibattito avvenuto a Firenze tra gli umanisti della curia, Flavio Biondo aveva affermato la diretta discendenza del volgare dal latino e l'Alberti, ne dimostra genialmente la tesi componendo la prima grammatica del volgare (1437-41), e ne riprende gli argomenti difendendo l'uso del volgare nella dedicatoria del libro III de Familia a Francesco d'Altobianco Alberti (1435-39 circa).  Da qui deriva la significativa esperienza del Certame coronario, una gara di poesia sul tema dell'amicizia, organizzata a Firenze nell'ottobre 1441 dall'Alberti con il più o meno tacito concorso di Piero de' Medici, una gara che doveva servire all'affermazione del volgare, soprattutto in poesia, e alla quale va associata la composizione dei sedici Esametri sull'amicizia da parte dell'AlbertiEsametri ora pubblicati fra le sue Rime, innovative tanto nello stile quanto nella metrica, che costituiscono uno dei primissimi tentativi di adattare i metri greco-latini alla poesia volgare (metrica «barbara»).  Nonostante ciò, l'Alberti continuò a scrivere naturalmente in latino, come fece per gli Apologi centum, una sorta di breviario della sua filosofia di vita, composti intorno al 1437.  Ritorno a Roma Chiusosi il concilio a Firenze, ritornò con la curia papale a Roma. continuando a ricoprire il ruolo di abbreviatore apostolico per ben 34 anni, fino al 1464, quando il collegio degli abbreviatori fu soppresso. Durante la permanenza a Roma ebbe modo di coltivare i propri interessi propriamente architettonici, che lo indussero a proseguire lo studio delle rovine della Roma classica, come dimostra la stessa Descriptio urbis Romae, risalente al 1450 circa, in cui l'Alberti tentò con successo, per la prima volta nella storia, una ricostruzione della topografia di Roma antica, mediante un sistema di coordinate polari e radiali che permettono di ricostruire il disegno da lui tracciato. I suoi interessi archeologici lo portarono anche a tentare il recupero delle navi romane affondate nel lago di Nemi.  Questi interessi per l'architettura che diventeranno prevalenti negli ultimi due decenni della sua vita, non impedirono una ricchissima produzione letteraria. Tra il 1443 e la morte compone una delle sue opere più interessanti, il Momus, un romanzo satirico in lingua latina, che tratta in maniera abbastanza amara e disincantata della società umana e degli stessi esseri umani.  Dopo l'elezione di Niccolò V, l'Alberti, come antico conoscente, entrò nella cerchia ristretta del papa, dal quale ricevette anche la carica di priore di Borgo San Lorenzo. Tuttavia i rapporti con il papa sono considerati piuttosto controversi dagli storici, sia per quel che riguarda gli aspetti politici che per l'adesione o la collaborazione dell'Alberti al vasto programma di rinnovamento urbano voluto da Niccolò V. Forse venne impiegato durante il restauro del palazzo papale e dell'acquedotto romano e della fontana dell'Acqua Vergine, disegnata in maniera semplice e lineare, creando la base sulla quale, in età Barocca, sarebbe stata costruita la Fontana di Trevi.  Intorno al 1450 Alberti cominciò ad occuparsi più attivamente di architettura con numerosi progetti da eseguire fuori Roma, a Firenze, Rimini e Mantova, città in cui si recò varie volte durante gli ultimi decenni della sua vita.  In tal modo dopo la metà del secolo l'Alberti fu la figura-guida dell'architettura. Questo riconosciuto primato rende anche difficile distinguere, nella sua opera, l'attività di progettazione dalle tante consulenze e dall'influenza più o meno diretta che dovette avere, per esempio, sulle opere promosse a Roma, sotto Niccolò V, come il restauro di Santa Maria Maggiore e Santo Stefano Rotondo o come la costruzione di Palazzo Venezia, il rinnovamento della basilica di San Pietro, del Borgo e del Campidoglio. Potrebbe forse essere stato il consulente che indica alcune linee-guida o, ma ben più difficilmente, aver avuto un ruolo anche meno indiretto. Sicuramente il prestigio della sua opera e del suo pensiero teorico condizionarono direttamente l'opera di progettisti come Francesco del Borgo e Bernardo Rossellino, influenzando anche Giuliano da Sangallo.  Morì a Roma, all'età di 68 anni.  Il De re aedificatoria  Frontespizio  Matteo de' Pasti, Medaglia di Leon Battista Alberti. Magnifying glass icon mgx2.svg  De re aedificatoria. Le sue riflessioni teoriche trovarono espressione nel De re aedificatoria, un trattato di architettura in latino, scritto prevalentemente a Roma, cui l'Alberti lavorò fino alla morte e che è rivolto anche al pubblico colto di educazione umanistica. Il trattato fu concepito sul modello del De architectura di Vitruvio. L'opera, considerata il trattato architettonico più significativo della cultura umanistica, è divisa anch'essa in dieci libri: nei primi tre si parla della scelta del terreno, dei materiali da utilizzare e delle fondazioni (potrebbero corrispondere alla categoria vitruviana della firmitas); i libri IV e V si soffermano sui vari tipi di edifici in relazione alla loro funzione (utilitas); il libro VI tratta la bellezza architettonica (venustas), intesa come un'armonia esprimibile matematicamente grazie alla scienza delle proporzioni, con l'aggiunta di una trattazione sulle macchine per costruire; i libri VII, VIII e IX parlano della costruzione dei fabbricati, suddividendoli in chiese, edifici pubblici ed edifici privati; il libro X tratta dell'idraulica.  Nel trattato si trova anche uno studio basato sulle misurazioni dei monumenti antichi per proporre nuovi tipi di edifici moderni ispirati all'antico, fra i quali le prigioni, che cercò di rendere più umane, gli ospedali e altri luoghi di pubblica utilità.  Il trattato fu stampato a Firenze nel 1485, con una prefazione del Poliziano a Lorenzo il Magnifico, e poi a Parigi e a Strasburgo. Venne in seguito tradotto in varie lingue e diventò ben presto imprescindibile nella cultura architettonica moderna e contemporanea.  Nel De re aedificatoria, l'Alberti affronta anche il tema delle architetture difensive e intuisce come le armi da fuoco rivoluzioneranno l'aspetto delle fortificazioni. Per aumentare l'efficacia difensiva indica che le difese dovrebbero essere "costruite lungo linee irregolari, come i denti di una sega" anticipando così i principi della fortificazione alla moderna.  L'attività come architetto a Firenze A Firenze lavorò come architetto soprattutto per Giovanni Rucellai, ricchissimo mercante e mecenate, intimo amico suo e della sua famiglia. Le opere fiorentine saranno le sole dell'Alberti a essere compiute prima della sua morte.  Palazzo Rucellai  Facciata di palazzo Rucellai. Forse sin dal 1439-1442 gli venne commissionata la costruzione del palazzo della famiglia Rucellai, da ricavarsi da una serie di case-torri acquistate da Giovanni Rucellai in via della Vigna Nuova. Il suo intervento si concentrò sulla facciata, posta su un basamento che imita l'opus reticulatum romano, realizzata tra il 1450 e il 1460. È formata da tre piani sovrapposti, separati orizzontalmente da cornici marcapiano e ritmati verticalmente da lesene di ordine diverso; la sovrapposizione degli ordini è di origine classica come nel Colosseo o nel Teatro di Marcello, ed è quella teorizzata da Vitruvio: al piano terreno lesene doriche, ioniche al piano nobile e corinzie al secondo. Esse inquadrano porzioni di muro bugnato a conci levigati, in cui si aprono finestre in forma di bifora nel piano nobile e nel secondo piano. Le lesene decrescono progressivamente verso i piani superiori, in modo da creare nell'osservatore l'illusione che il palazzo sia più alto di quanto non sia in realtà. Al di sopra di un forte cornicione aggettante si trova un attico, caratteristicamente arretrato rispetto al piano della facciata. Il palazzo creò un modello per tutte le successive dimore signorili del Rinascimento, venendo addirittura citato pedissequamente da Bernardo Rossellino, suo collaboratore, per il suo palazzo Piccolomini a Pienza (post 1459).  Attribuita all'Alberti è anche l'antistante Loggia Rucellai, o per lo meno il suo disegno. Loggia e palazzo andavano così costituendo una sorta di piazzetta celebrante la casata, che viene riconosciuta come uno dei primi interventi urbanistici rinascimentali.  Facciata di Santa Maria Novella  Facciata di Santa Maria Novella, Firenze. Su commissione del Rucellai, progettò anche il completamento della facciata della basilica di Santa Maria Novella, rimasta incompiuta nel 1365 al primo ordine di arcatelle, caratterizzate dall'alternarsi di fasce di marmo bianco e di marmo verde, secondo la secolare tradizione fiorentina. I lavori iniziarono intorno al 1457. Si presentava il problema di integrare, in un disegno generale e classicheggiante, i nuovi interventi con gli elementi esistenti di epoca precedente: in basso vi erano gli avelli inquadrati da archi a sesto acuto e i portali laterali, sempre a sesto acuto, mentre nella parte superiore era già aperto il rosone, seppur spoglio di ogni decorazione. Alberti inserì al centro della facciata inferiore un  di proporzioni classiche, inquadrato da semicolonne, in cui inserì incrostazioni in marmo rosso per rompere la bicromia. Per terminare la fascia inferiore pose una serie di archetti a tutto sesto a conclusione delle lesene. Poiché la parte superiore della facciata risultava arretrata rispetto al basamento (un tema molto comune nell'architettura albertiana, derivata dai monumenti della romanità) inserì una fascia di separazione a tarsie marmoree che recano una teoria di vele gonfie al vento, l'insegna personale di Giovanni Rucellai; il livello superiore, scandito da un secondo ordine di lesene che non hanno corrispondenza in quella inferiore, sorregge un timpano triangolare. Ai lati, due doppie volute raccordano l'ordine inferiore, più largo, all'ordine superiore più alto e stretto, conferendo alla facciata un moto ascendente conforme alle proporzioni; non mascherano come spesso si è detto erroneamente gli spioventi laterali che risultano più bassi, come si evince osservando la facciata dal lato posteriore. La composizione con incrostazioni a tarsia marmorea ispirate al romanico fiorentino, necessaria in questo caso per armonizzare le nuove parti al già costruito, rimase una costante nelle opere fiorentine dell'Alberti.  Secondo Rudolf Wittkower: "L'intero edificio sta rispetto alle sue parti principali nel rapporto di uno a due, vale a dire nella relazione musicale dell'ottava, e questa proporzione si ripete nel rapporto tra la larghezza del piano superiore e quella dell'inferiore". La facciata si inscrive infatti in un quadrato avente per lato la base della facciata stessa. Dividendo in quattro tale quadrato, si ottengono quattro quadrati minori; la zona inferiore ha una superficie equivalente a due quadrati, quella superiore a un quadrato. Altri rapporti si possono trovare nella facciata tanto da realizzare una perfetta proporzione. Secondo Franco Borsi: "L'esigenza teorica dell'Alberti di mantenere in tutto l'edificio la medesima proporzione è qui stata osservata ed è appunto la stretta applicazione di una serie continua di rapporti che denuncia il carattere non medievale di questa facciata pseudo-protorinascimentale e ne fa il primo grande esempio di eurythmia classica del Rinascimento".  Altre opere  Il tempietto del Santo Sepolcro. Attribuito all'Alberti è il progetto dell'abside della pieve di San Martino a Gangalandi presso Lastra a Signa. L'Alberti fu rettore di San Martino dal 1432 fino alla sua morte. La chiesa, di origine medievale, ha il suo punto focale nell'abside, chiusa in alto da un arco a tutto sesto con decorazione a motivi di candelabro e con lesene in pietra serena sorreggenti un architrave che reca un'iscrizione a lettere capitali dorate, ornata alle due estremità dalle arme degli Alberti. L'abside è ricordata incepta et quasi perfecta nel testamento di Leon Battista Alberti, e fu infatti terminata dopo la sua morte, tra il 1472 e il 1478.  Del 1467 è un'altra opera per i Rucellai, il tempietto del Santo Sepolcro nella chiesa di San Pancrazio a Firenze, costruito secondo un parallelepipedo spartito da paraste corinzie. La decorazione è a tarsie marmoree, con figure geometriche in rapporto aureo; le decorazioni geometriche, come per la facciata di Santa Maria Novella, secondo l'Alberti inducono a meditare sui misteri della fede.  Ferrara  Il campanile del duomo di Ferrara. L'Alberti fu a Ferrara a varie riprese, e sicuramente tra il 1438 e il 1439, stringendo amicizie alla corte estense. Vi ritorna nel 1441 e forse nel 1443, chiamato a giudicare la gara per un monumento equestre a Niccolò III d'Este. In tale occasione forse dette indicazioni per il rinnovo della facciata del Palazzo Municipale, allora residenza degli Estensi.  A lui è stato attribuito da insigni storici dell'arte, ma esclusivamente su basi stilistiche, anche l'incompleto campanile del duomo, dai volumi nitidi e dalla bicromia di marmi rosa e bianchi.  Rimini  Tempio Malatestiano, Rimini. Nel 1450 l'Alberti venne chiamato a Rimini da Sigismondo Pandolfo Malatesta per trasformare la chiesa di San Francesco in un tempio in onore e gloria sua e della sua famiglia. Alla morte del signore (1468) il tempio fu lasciato incompiuto mancando della parte superiore della facciata, della fiancata sinistra e della tribuna. Conosciamo il progetto albertiano attraverso una medaglia incisa da Matteo de' Pasti, l'architetto a cui erano stati affidati gli ampliamenti interni della chiesa e in generale tutto il cantiere.   Tempio malatestiano sulla medaglia di Matteo de' Pasti. L'Alberti ideò un involucro marmoreo che lasciasse intatto l'edificio preesistente. L'opera prevedeva in facciata una tripartizione con archi scanditi da semicolonne corinzie, mentre nella parte superiore era previsto una specie di frontone con arco al centro affiancato da paraste e forse due volute curve. Punto focale era il  centrale, con timpano triangolare e riccamente ornato da lastre marmoree policrome nello stile della Roma imperiale. Ai lati due archi minori avrebbero dovuto inquadrare i sepolcri di Sigismondo e della moglie Isotta, ma furono poi tamponati.  Le fiancate invece sono composte da una sequenza di archi su pilastri, ispirati alla serialità degli acquedotti romani, destid accogliere i sarcofagi dei più alti dignitari di corte. Fianchi e facciata sono unificati da un alto zoccolo che isola la costruzione dallo spazio circostante. Ricorre la ghirlanda circolare, emblema dei Malatesta, qui usata come oculo. Interessante è notare come Alberti traesse spunto dall'architettura classica, ma affidandosi a spunti locali, come l'arco di Augusto, il cui modulo è triplicato in facciata. Una particolarità di questo intervento è che il rivestimento non tiene conto delle precedenti aperture gotiche: infatti, il passo delle arcate laterali non è lo stesso delle finestre ogivali, che risultano posizionate in maniera sempre diversa. Del resto Alberti scrive a Matteo de' Pasti che «queste larghezze et altezze delle Chappelle mi perturbano».  Per l'abside era prevista una grande rotonda coperta da cupola emisferica simile a quella del Pantheon. Se completata, la navata avrebbe allora assunto un ruolo di semplice accesso al maestoso edificio circolare e sarebbe stata molto più evidente la funzione celebrativa dell'edificio, anche in rapporto allo skyline cittadino.  Mantova  Chiesa di San Sebastiano, Mantova.  Basilica di Sant'Andrea, Mantova. Nel 1459 Alberti fu chiamato a Mantova da Ludovico III Gonzaga, nell'ambito dei progetti di abbellimento cittadino per il Concilio di Mantova.  San Sebastiano Il primo intervento mantovano riguardò la chiesa di San Sebastiano, cappella privata dei Gonzaga, iniziata nel 1460. L'edificio fece da fondamento per le riflessioni rinascimentali sugli edifici a croce greca: è infatti diviso in due piani, uno dei quali interrato, con tre bracci absidati attorno ad un corpo cubico con volta a crociera; il braccio anteriore è preceduto da un portico, oggi con cinque aperture.  La parte superiore della facciata, spartita da lesene di ordine gigante, è originale del progetto albertiano e ricorda un'elaborazione del tempio classico, con architrave spezzata, timpano e un arco siriaco, a testimonianza dell'estrema libertà con cui l'architetto disponeva gli elementi. Forse l'ispirazione fu un'opera tardo-antica, come l'arco di Orange. I due scaloni di collegamento che permettono l'accesso al portico non fanno parte del progetto originario, ma furono aggiunte posteriori.  Sant'Andrea Il secondo intervento, sempre su commissione dei Gonzaga, fu la basilica di Sant'Andrea, eretta in sostituzione di un precedente sacrario in cui si venerava una reliquia del sangue di Cristo. L'Alberti creò il suo progetto «... più capace più eterno più degno più lieto ...» ispirandosi al modello del tempio etrusco ripreso da Vitruvio e contrapponendosi al precedente progetto di Antonio Manetti. Innanzitutto mutò l'orientamento della chiesa allineandola all'asse viario che collegava Palazzo Ducale al Tè.  La chiesa a croce latina, iniziata nel 1472, è a navata unica coperta a botte con lacunari, con cappelle laterali a base rettangolare con la funzione di reggere e scaricare le spinte della volta, inquadrate negli ingressi da un arco a tutto sesto, inquadrato da un lesene architravate. Il tema è ripreso dall'arco trionfale classico ad un solo fornice come l'arco di Traiano ad Ancona. La grande volta della navata e quelle del transetto e degli atri d'ingresso si ispiravano a modelli romani, come la Basilica di Massenzio.  Per caratterizzare l'importante posizione urbana, venne data particolare importanza alla facciata, dove ritorna il tema dell'arco: l'alta apertura centrale è affiancata da setti murari, con archetti sovrapposti tra lesene corinzie sopra i due portali laterali. Il tutto, coronato da un timpano triangolare a cui si sovrappone, per non lasciare scoperta l'altezza della volta, un nuovo arco. Questa soluzione, che enfatizza la solennità dell'arco di trionfo e il suo moto ascensionale, permetteva anche l'illuminazione della navata. Sotto l'arco venne a formarsi uno spesso atrio, diventato il punto di filtraggio tra interno ed esterno.  La facciata è inscrivibile in un quadrato e tutte le misure della navata, sia in pianta che in alzato, si conformano ad un preciso modulo metrico. La tribuna e la cupola (comunque prevista da Alberti) vennero completate nei secoli successivi, secondo un disegno estraneo all'Alberti.  I caratteri dell'architettura albertiana Le opere più mature di Alberti evidenziano una forte evoluzione verso un classicismo consapevole e maturo in cui, dallo studio dei monumenti antichi romani, l'Alberti ricavò un senso delle masse murarie ben diverso dalla semplicità dello stile brunelleschiano. I modi originali albertiani precorsero l'arte del Bramante. I caratteri innovativi di Alberti furono: La colonna deve sostenere la trabeazione e deve essere usata come ornamento per le fabbriche; l'arco deve essere costruito sopra i pilastri.  Il De statua Il trattato, scritto in latino, è relativo alla teoria della scultura e risale al1450 circa. Nel De statua, l'Alberti rielaborò profondamente le concezioni e le teorie relative alla scultura tenendo conto delle innovazioni artistiche del Rinascimento, attingendo anche ad una rilettura critica delle fonti classiche e riconoscendo, tra i primi dignità intellettuale alla scultura, prima di allora sempre condizionata dal pregiudizio verso un'attività tanto manuale.  Nel trattato che si compone di 19 capitoli, l'Alberti parte, sulla scorta di Plinio, dalla definizione dell'arte plastica tridimensionale distinguendo la scultura o per via di porre o per via di levare, dividendola secondo la tecnica utilizzata:  togliere e aggiungere: sculture con materie molli, terra e cera eseguita dai "modellatori" levare: scultura in pietra, eseguita dagli "scultori" Tale distinzione fu determinante nella concezione artistica di molti scultori come Michelangelo e non era mai stata espressa con tanta chiarezza.   Il definitor, lo strumento inventato da Leon Battista Alberti. Relativamente al metodo da utilizzare per raggiungere il fine ultimo della scultura che è l'imitazione della natura, l'Alberti distingue:  la dimensio (misura) che definisce le proporzioni generali dell'oggetto rappresentato mediante l’exempeda, una riga diritta modulare atta a rilevare le lunghezze e squadre mobili a forma di compassi (normae), con cui misurare spessori, distanze e diametri. la finitio, definizione individuale dei particolari e dei movimenti dell'oggetto rappresentato, per la quale Alberti suggerisce uno strumento da lui ideato: il definitor o finitorium, un disco circolare cui è fissata un'asta graduata rotante, da cui pende un filo a piombo. Con esso si può determinare qualsiasi punto sul modello mediante una combinazione di coordinate polari e assiali, rendendo possibile un trasferimento meccanico dal modello alla scultura. Alberti sembra anticipare i temi relativi alla raffigurazione 'scientifica' della figura umana che è uno dei temi che percorre la cultura figurativa rinascimentale. e addirittura aspetti dell'industrializzazione e addirittura della digitalizzazione, visto che il definitor trasformava i punti rilevati sul modello in dati alfanumerici.  L'opera fu tradotta in volgare nel 1568 da Cosimo Bartoli. Il testo latino originale fu stampato solo alla fine del XIX secolo, mentre solo recentemente sono state pubblicate traduzioni moderne. I sistemi di definizione meccanica dei volumi proposti dall'Alberti, appassionarono Leonardo che approntò, come si può rilevare dai suoi disegni, dei sistemi alternativi, sviluppati a partire dal trattato albertiano e utilizzò le "Tabulae dimensionum hominis" del "De statua" per realizzare il celeberrimo "Uomo vitruviano".  Il Crittografo Alberti fu inoltre un geniale crittografo e inventò un metodo per generare messaggi criptati con l'aiuto di un apparecchio, il disco cifrante. Sua fu infatti l'idea di passare da una crittografia con tecnica "monoalfabetica" (Cifrario di Cesare) ad una con tecnica "polialfabetica", codificata teoricamente parecchi anni dopo da Blaise de Vigenère. In The Codebreakers. The Story of Secret Writing, lo storico della crittologia David Kahn attribuisce all'Alberti il titolo di Father of Western Cryptology (Padre della crittologia occidentale). Kahn ribadisce questa definizione, sottolineando le ragioni che la giustificano, nella prefazione all'edizione italiana del testo albertiano: «Questo volume elegante e sottile riproduce il testo più importante di tutta la storia della crittologia; un primato che il De cifris di Leon Battista Alberti ben si merita per i tre temi cruciali che tratta: l'invenzione della sostituzione polialfabetica, l'uso della crittanalisi, la descrizione di un codice sopracifrato.»  Tra le altre attività di Alberti ci fu anche la musica, per la quale fu considerato uno dei primi organisti della sua epoca. Disegnò anche delle mappe e collaborò con il grande cartografo Paolo Toscanelli.  De iciarchia Iciarco e Iciarchia sono due termini usati dall'Alberti nel dialogo De iciarchia composto nel 1470 circa, pochi anni prima della sua morte (avvenuta nel 1472) e ambientato nella Firenze medicea di quegli anni. Le due parole sono di origine greca ("Pogniàngli nome tolto da' Greci, iciarco: vuol dire supremo omo e primario principe della famiglia sua", libro III), e sono formate da oîkos o oikía "casa, famiglia" e arkhós "capo supremo, principe, principio".  Il nome stesso di iciarco vuole esprimere quello che secondo il parere dell'autore è il governante ideale: colui che sia come un padre di famiglia nei confronti dello Stato. Secondo le parole dell'Alberti, "il suo compito sarà (...) provedere alla salute, quiete, e onestamento di tutta la famiglia, fare sì che amando e benificando è suoi, tutti amino lui, e tutti lo reputino e osservino come padre" (ivi).  Questo ruolo di "padre di famiglia" del governante ideale era finalizzato, nella sua visione politica, ad una stabilità, in definitiva "conservatrice", che permetterebbe di governare senza discordie che, dilaniando lo Stato, nuocerebbero a tutto il corpo sociale ("Inoltre la prima cura sua sarà che la famiglia sia senza niuna discordia unitissima. Non esser unita la famiglia circa le cose (...) che giovano, nuoce sopra modo molto., ivi).  Il termine iciarco, nato coll'Alberti e strettamente legato alla sua visione "paternalistica" del governo dello Stato, non ebbe comunque alcun seguito e non risulta che sia mai più stato impiegato nel lessico politico.  Opere: “Apologi centum”;  “Cena familiaris”; “De amore”; “De equo animante (Il cavallo vivo); “De Iciarchia”; “De componendis cifris”; “Deiphira”; “De picture”; “Porcaria coniuratio”; “De re aedificatoria”; “De statua”; “Descriptio urbis Romae”; “Ecatomphile”; “Elementa picturae”; “Epistola consolatoria”; “Grammatica della lingua toscana” (meglio nota come Grammatichetta vaticana); “Intercoenales”; “De familia libri IV”; “Ex ludis rerum mathematicorum”; “Momus”; “Philodoxeos fabula”; “Profugiorum ab ærumna libri III”; “Sentenze pitagoriche”; “Sophrona”; “Theogenius Villa” -- Opere architettoniche Palazzo Rucellai, Firenze, Via della Vigna Nuova Loggia Rucellai, Firenze, Via della Vigna Nuova Facciata di Santa Maria Novella, Firenze, Santa Maria Novella Abside di San Martino, 1472-1478, Lastra a Signa, Pieve di San Martino a Gangalandi Tempietto del Santo Sepolcro, Firenze, Chiesa di San Pancrazio Tempio Malatestiano (incompiuto), iniziato nel 1450 circa, Rimini, Tempio Malatestiano Chiesa di San Sebastiano, 1460 circa, Mantova, Chiesa di San Sebastiano Basilica di Sant'Andrea, 1472-1732, Mantova, Basilica di Sant'Andrea (Mantova) Palazzo Romei, Vibo Valentia Manoscritti Liber de iure, scriptus Bononiae anno 1437, XV secolo, Milano, Biblioteca Ambrosiana, Fondo manoscritti, Trivia senatoria, XV secolo, Milano, Biblioteca Ambrosiana, Fondo manoscritti. Cecil Grayson, Studi su Leon Battista Alberti, Firenze, Olschki,  L.B. Alberti, De pictura, C. Grayson, Laterza, 1980: versione on line Copia archiviata, su liberliber. Christoph L. Frommel, Architettura e committenza da Alberti a Bramante, Olschki, 2006,  Bernardo Rucellai, De bello italico, Donatella Coppini, Firenze University Press, De re Aedificatoria  In tale occasione manifestò il suo interesse per la morfologia e l'allevamento dei cavalli con il breve trattato De equo animante dedicato a Leonello d'Este.  De Vecchi-Cerchiari, cit.95.  De Vecchi-Cerchiari, cit.104  Rudolf Wittkower, op. cit. 1993  Rudolf Wittkower,op. cit. 1993  Leon Battista Alberti, De statua, M. Collareta, 1998  Mario Carpo, L'architettura dell'età della stampa: oralità, scrittura, libro stampato e riproduzione meccanica dell'immagine nella storia delle teorie architettoniche, 1998.  Simon Singh, Codici e Segreti45 David Kahn, The Codebreakers, Scribner. Il nome deriva dal fatto che il libello, di appena 16 carte, è conservato in una copia del 1508 in un codice in ottavo della Biblioteca vaticana. Lo scritto non ha epigrafe, pertanto il titolo è stato assegnato in seguito: fu riscoperto infatti nel 1850 e dato alle stampe solo nel 1908.  viviamolacalabria.blogspot.com, viviamolacalabria.blogspot.com//09/esempio-tangibile-di-palazzo-nobiliare.html?m=1. Leon Battista Alberti, De re aedificatoria, Argentorati, excudebat M. Iacobus Cammerlander Moguntinus, 1541.  Leon Battista Alberti, De re aedificatoria, Florentiae, accuratissime impressum opera magistri Nicolai Laurentii Alamani. Leon Battista Alberti, Opere volgari. 1, Firenze, Tipografia Galileiana, Leon Battista Alberti, Opere volgari. 2, Firenze, Tipografia Galileiana, Leon Battista Alberti, Opere volgari. 4, Firenze, Tipografia Galileiana, 1847. Leon Battista Alberti, Opere volgari. 5, Firenze, Tipografia Galileiana, Leon Battista Alberti, Opere, Florentiae, J. C. 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Roberto Rossellini gli ha dedicato un film- documentario per la TV nintitolato "L'età di Cosimo dei Medici" (88').   Architettura rinascimentale Rinascimento fiorentino Rinascimento riminese Rinascimento mantovano Medaglia di Leon Battista Alberti.TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Leon Battista Alberti, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Leon Battista Alberti, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Leon Battista Alberti, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Leon Battista Alberti, su MacTutor, University of St Andrews, Scotland.  Opere di Leon Battista Alberti, su Liber Liber.  Opere di Leon Battista Alberti, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Leon Battista Alberti, . su Leon Battista Alberti, su Les Archives de littérature du Moyen Âge. 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Qual cosa simile fecero gl'ingegni grandi e studiosi presso a' Greci prima e po' presso de e' Latini, e chiamornoqueste simili ammonizioni, atte a scrivere e favellare senza corruttela, suo nome, grammatica. Questa arte, quale ella sia in la lingua nostra, leggetemi e intenderetela.    I. Ordine delle lettere. i r t d b v  n u m  p q g c e o a x z l s f ç ch gh   concordanze II. Vocali.   Ogni parola e dizione toscana finisce in vocale. Solo alcuni articoli de' nomiin l e alcune preposizioni finiscono in d, n, r.  Le cose in molta parte hanno in lingua toscana que' medesimi nomi che in latino.  Non hanno e' Toscani fra e' nomi altro che masculino e femminino. E' neutrilatini si fanno masculini.  Pigliasi in ogni nome latino lo ablativo singulare, e questo s'usa in ogni casosingulare, così al masculino come al femminino.  A e' nomi masculini l'ultima vocale si converte in i, e questo s'usa in tutti e' casi plurali.  A e' nomi femminini l'ultima vocale si converte in e, e questo s'usa in ogni caso plurale per e' femminini.  Alcuni nomi femminini in plurale non fanno in e: come, la mano fa le mani.  E ogni nome femminino, quale in singulare finisca in e, fa in plurale in i: come la orazione, le orazioni; stagione, stagioni; confusioni, e simili.  E' casi de' nomi si notano co' suoi articoli, dei quali sono vari e' masculini da e' femminini.  Item e' masculini, che cominciano da consonante, hanno certi articoli non fatti come quando e' cominciano da vocale.  Item e' nomi propri sono vari dagli appellativi.  Masculini che cominciano da consonante hanno articoli simili a questo:  1. SINGULARE.   EL cielo DEL cielo AL cielo EL cielo O cielo DAL cielo.  2. PLURALE.   E' cieli DE' cieli A' cieli E' cieli O cieli DA' cieli.  Masculini, che cominciano da vocale, fanno in singulare simile a questo:  3. SINGULARE.   LO orizzonte DELLO orizonte ALLO orizonte LO orizonte O orizonte DALLO orizonte.  PLURALE.   GLI orizonti DEGLI orizonti AGLI orizonti GLI orizonti O orizonti DAGLI orizonti.  E' nomi masculini che cominciano da s preposta a una consonante hanno articoli simili a quei che cominciano da vocale, e dicesi: LO spedo, LO stocco, GLI spedi, e simile.  Questi vedesti che sono vari da quei di sopra nel singulare, el primo articoloe anche el quarto; ma nel plurale variorono tutti gli articoli.  Nomi propri masculini non hanno el primo articolo, né anche el quarto, e fanno simili a questi:  Propri masculini, che cominciano da consonante, in singulare fanno così:  Cesare DI Cesare A Cesare Cesare O Cesare DA Cesare.  Nomi propri, che cominciano da vocale, nulla variano da' consonanti, eccetto che al terzo vi si aggiugne d, e dicesi:  Agrippa DI Agrippa AD Agrippa, ecc.  In plurale non s'adoperano e' nomi propri, e se pur s'adoperassero, tutti fanno come appellativi.  E' nomi femminini, o propri o appellativi, o in vocale o in consonante che e' cominciano, tutti fanno simile a questo:  rdanze 5. SINGULARE.   LA stella DELLA stella ALLA stella LA stella O stella DALLA stella.  LA aura DELLA aura ALLA aura LA aura O aura DALLA aura.  PLURALE.   LE stelle DELLE stelle ALLE stelle LE stelle O stelle DALLE stelle.  LE aure DELLE aure ALLE aure LE aure O aure DALLE aure.  E' nomi delle terre s'usano come propri, e dicesi: Roma superò Cartagine.  E simili a' nomi propri s'usano e' nomi de' numeri: uno, due, tre, e cento e mille, e simili; e dicesi: tre persone, uno Dio, nove cieli, e simili.  E quei nomi che si referiscono a' numeri non determinati come ogni, ciascuno, qualunque, niuno, e simili, e come tutti, parecchi, pochi, molti, e simili, tutti si pronunziano simili a e' nomi propri senza primo e quartoarticolo.  E' nomi che importano seco interrogazione come chi e che e quale e quanto e simili, quei nomi che si riferiscono a questi interrogatori, come tale e tanto e cotale e cotanto, si pronunciano simili a e' propri nomi, pur senza primo e quarto articolo, e dicesi:  Io sono tale quale voresti essere tu; e amai tale che odiava me.   Chi s'usa circa alle persone, e dicesi: Chi scrisse?  Che significa quanto presso a e' Latini Qui e Quid. Significando Quid, s'usa circa alle cose, e dicesi: Che leggi? Significando Qui, s'usa circa alle persone, e dicesi: Io sono colui che scrissi.  Chi di sua natura serve al masculino, ma aggiunto a questo verbo sono, sei, è, serve al masculino e al femminino, e dicesi:  Chi sarà tua sposa? Chi fu el maestro?  Chi sempre si prepone al verbo. Che si prepone e pospone.  Che, preposto al verbo, significa quanto presso a e' Latini Quid e Quantum e Quale, come: Che dice? Che leggi? Che uomo ti paio? Che ti costa?  Che, posposto al verbo, significa quanto apresso e' Latini Ut e Quod, come dicendo: I' voglio che tu mi legga. Scio che tu me amerai.  E' nomi, quando e' dimostrano cosa non certa e diterminata, si pronunziano senza primo e quarto articolo, come dicendo:  Io sono studioso. Invidia lo move. Tu mi porti amore. Ma quando egli importano dimostrazione certa e diterminata, allora si pronunzianocoll'articolo come qui: Io sono lo studioso e tu el dotto.  E' nomi simili a questo: primo, secondo, vigesimo, posti dietro a questo verbo sono, sei, è, non raro si pronunziano senza el primo articolo, e dicesi: Tu fusti terzo e io secondo; e ancora si dice: Costui fu el quarto, elprimo, el secondo, ecc.  Uno, due, tre, e simili, quando e' significano ordine, vi si pone l'articolo, e dicesi: Tu fusti el tre, e io l'uno. Il dua è numero paro, ecc.  Fra tutti gli altri nomi appellativi, questo nome Dio s'usa come proprio, e dicesi: Lodato Dio. Io adoro Dio.  Gli articoli hanno molta convenienza co' pronomi, e ancora e' pronomihanno grande similitudine con questi nomi relativi qui recitati. Adonquesuggiungeremogli.  De' pronomi, e' primitivi sono questi: io tu esso questo quello costui lui colui. Mutasi l'ultima vocale in a e fassi il femminino, e dicesi: questa, quella, essa. Solo io e tu, in una voce, serve al masculino e al femminino.  E' plurali di questi primitivi pronomi sono vari, e anche e' singulari. Declinansi così:  Io e i': di me: a me e mi: me e mi: da me.  Noi: di noi: a noi e ci: noi e ci: da noi.  Tu: di te: a te e ti: te e ti: o tu: da te.  Voi: di voi: a voi e vi: voi e vi: o voi: da voi.  Esso ed e': di se e si: se e si: da se; ed Egli.  Non troverrai in tutta la lingua toscana casi mutati in voce altrove che in questi tre pronomi: io, tu, esso.  Gli altri primitivi se declinano così:  Questo: di questo: a questo: questo: da questo.  Quello: di quello: a quello: quello: da quello.  Muta o in i e arai el plurale, e dirai:  Questi: di questi: a questi: questi: da questi.  E il somigliante fa quelli.  E così sarà costui e lui e colui, simili a quegli in singulare; ma in pluralecostui fa costoro, lui fa loro, colui fa coloro, di coloro, a coloro, coloro, da coloro.  Questo e quello mutano o in a e fassi el femminino singulare, e dicesi:questa e quella; e fassi il suo plurale: queste, di quelle, a quelle.  Lui, costui, colui, mutano u in e e fassi el singulare femminino, e dicesi: costei, lei, colei, di colei, ecc. In plurale hanno quella voce che e' masculini, cioè: loro, coloro, costoro, di costoro, a costoro, ecc.  Vedesti come, simile a' nomi propri, questi pronomi primitivi non hanno el primo articolo né anche el quarto. A questa similitudine fanno e' pronomi derivativi, quando e' sono subiunti a e' propri nomi. Ma quando si giungono agli appellativi, si pronunziano co' suoi articoli.  Derivativi pronomi sono questi, e declinansi così:  El mio, del mio, ecc., e plurale: e' miei, de' miei, ecc.  El nostro, del nostro, ecc. E plurale: e' nostri, de' nostri, ecc.  El tuo. Plurale: e' tuoi. El vostro. Plurale: e' vostri.   El suo. E pluraliter: e' suoi, ecc.  Mutasi, come a e' nomi, l'ultima in a, e fassi el singulare femminino: qual a, converso in e, fassi el plurale, e dicesi: mia e mie; vostra, vostre; sua e sue.  In uso s'adropano questi pronomi non tutti a un modo.  E' derivativi, giunti a questi nomi, padre, madre, fratello, zio, e simili, si pronunziano senza articolo, e dicesi: mio padre, nostra madre, e tuo zio, ecc.  Mi e me, ti e te, ci e noi, vi e voi, si e sé sono dativi insieme e accusativi, come di sopra gli vedesti notati. Ma hanno questo uso che, preposti al verbo, si dice mi, ti, ci, ecc.; come qui: e' mi chiama; e' ti vuole; que' vi chieggono; io mi sto; e' si crede.  Posposti al verbo, se a quel verbo sarà inanzi altro pronome o nome, si dirà come qui: io amo te, e voglio voi.  Si al verbo non sarà aggiunto inanzi altro nome o pronome si dirà: -i, come qui: aspettaci, restaci, scrivetemi.  Lui e colui dimostrano persone, come dicendo: lui andò, colei venne.  Questo e quello serve a ogni dimostrazione, e dicesi: Questo essercitopredò quella provincia, e: Questo Scipione superò quello Annibale.  E' ed el, lo e la, le e gli, quali, giunti a' nomi, sono articoli, quando si giungono a e' verbi, diventano pronomi e significano quello, quella, quelle, ecc. E dicesi: Io la amai; Tu le biasimi: Chi gli vuole?  Ma di questi, egli ed e' hanno significato singulare e plurale; e, prepostialla consonante, diremo e', come qui: e' fa bene; e' sono. E, preposti alla vocale, si giugne e' e gli, e dicesi: egli andò; egli udivano.  E quando segue loro s preposta a una consonante, ancora diremo: egli spiega; egli stavano.  Potrei in questi pronomi essere prolisso, investigando più cose quali s'osservano, simili a queste:  Vi preposto a' presenti singulari indicativi, d'una sillaba, si scrive in la prima e terza persona per due v, e simile in la seconda persona presenteimperativa, come stavvi e vavvi; e ne' verbi, d'una e di più sillabe, la prima singulare indicativa del futuro, come amerovvi, leggerovvi, darotti, adoperrocci, e simile. Ma forse di queste cose più particulari diremoaltrove.  III. Seguitano e’ verbi.   Non ha la lingua toscana verbi passivi, in voce; ma, per esprimere elpassivo, compone con questo verbo sono, sei, è, el participio preteritopassivo tolto da e' Latini, in questo modo: Io sono amato; Tu sei pregiato; Colei è odiata. E simile, si giugne a tutti e' numeri e tempi e modi di questo verbo. Adonque lo porremo qui distinto.  1. INDICATIVO.   Sono, sei, è. Plurale: siamo, sete, sono.  Ero, eri, era. Plurale: eravamo e savamo, eravate e savate, erano.   Fui, fusti, fu. Plurale: fumo, fusti, furono.  Ero, eri, era stato. Plurale: eravamo e savamo, eravate e savate, erano stati.  Sarò, sarai, sarà. Plurale: saremo, sarete, saranno.  Hanno e' Toscani, in voce, uno preterito quasi testé, quale, in questo verbo, si dice così:  Sono, sei, è stato. Plurale: siamo, sete, sono stati.  E dicesi: Ieri fui ad Ostia; oggi sono stato a Tibuli.  ndere i link alle concordanze 2. IMPERATIVO.   Sie tu, sia lui. Plurale: siamo, siate, siano.  Sarai tu, sarà lui. Plurale: saremo, ecc.  3. OTTATIVO.   Dio ch 'io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale: fussimo, fussi, fussero.  Dio ch'io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo, siate, siano stati.  Dio ch'io fussi, fussi, fusse stato. Plurale: fussimo, fussi, fussero stati.  Dio ch'io sia, sii, sia. Plurale: siamo, siate, siano.  4. SUBIENTIVO.   Bench'io, tu, lui sia. Plurale: siamo, siate, siano.  Bench'io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale: fussimo, fussi, fussero.  Bench'io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo, siate, siano stati.  Bench'io fussi, fussi, fusse stato. Plurale: fussimo, fussi, fussero stati.  Bench'io sarò, sarai, sarà stato. Plurale: saremo, sarete, saranno stati.  E usasi tutto l'indicativo di questo e d'ogni altro verbo, quasi come subientivo, prepostovi qualche una di queste dizioni: se, quando, benché, e simili. E dicesi: bench'io fui; se e' sono; quando e' saranno.  5. INFINITO.   Essere, essere stato.  6. GERUNDIO.   Essendo   7. PARTICIPIO.   Essente  Dirassi adonque, per dimostrare el passivo: Io sono stato amato; fui pregiato; e sarò lodato; tu sei reverito.  Hanno e' Toscani certo modo subientivo, in voce, non notato da e' Latini; e parmi da nominarlo asseverativo, come questo: Sarei, saresti, sarebbe. Plurale: saremo, saresti, sarebbero.  E dirassi così: Stu fussi dotto, saresti pregiato. Se fussero amatori dellapatria, e' sarebbero più felici.   IV. Seguitano e’ verbi attivi.   Le coniugazioni de' verbi attivi in lingua toscana si formano dal gerundio latino, levatone le ultime tre lettere ndo, e quel che resta si fa terza persona singulare indicativa e presente. Ecco l'essemplo: amandolevane ndo, resta ama; scrivendo resta scrive.  Sono adonque due coniugazioni: una che finisce in a, l'altra finisce in e.  Alla coniugazione in a, quello a si muta in o, e fassi la prima personasingulare indicativa e presente; e mutasi in i, e fassi la seconda; e così si forma tutto il verbo, come vedrai la similitudine qui, in questo esposto:    1. INDICATIVO.   Amo, ami, ama. Plurale: amiamo, amate, amano.  Amavo, amavi, amava. Plurale: amavamo, amavate, amavano.   Amai, amasti, amò. Plurale: amamo, amasti, amarono.  Ho, hai, ha amato. Plurale: abbiamo, avete, hanno amato.   Amerò, amerai, amerà. Plurale: ameremo, amerete, ameranno.  In questa lingua ogni verbo finisce in o la prima indicativa presente, e in questa coniugazione prima, finisce ancora in o la terza singulare indicativadel preterito.  Ma ècci differenza, ché quella del preterito fa el suo o longo, e quella del presente lo fa o breve.  2. IMPERATIVO.   Ama tu, ami lui. Plurale: amiamo, amate, amino.  Amerai tu, amerà colui. Plurale: ameremo, ecc.  3. OTTATIVO.   Dio ch'io amassi, tu amassi, lui amasse. Plurale: Dio che noi amassimo, voi amassi, loro amassero.  Dio ch'io abbia, tu abbi, lui abbia amato. Plurale: Dio che noi abbiamo, abbiate, abbino amato.  Dio ch'io avessi, tu avessi, lui avesse amato. Plurale: Dio che noi avessimo, avessi, avessero amato.  Dio ch'io, tu, lui ami. Plurale: amiamo, amiate, amino.  4. SUBIENTIVO.   Bench'io, tu, lui ami. Plurale: amiamo, amiate, amino.   Bench'io, tu amassi, lui amasse. Plurale: amassimo, amassi, amassero.  Bench'io abbia, abbi, abbia amato. Plurale: abbiamo, abbiate, abbino amato.  Bench'io avessi, tu avessi, lui avesse amato. Plurale: avessimo, avessi, avessero amato.  Bench'io arò, arai, arà amato. Plurale: aremo, arete, aranno amato.  5. ASSERTIVO.   Amerei, ameresti, amerebbe. Plurale: ameremo, ameresti, amerebbero.  6. INFINITO.   Amare, avere amato.  7. GERUNDIO.   Amando.  8. PARTICIPIO.   Amante.  Vedi come a e' tempi testé perfetti e al futuro del subientivo mancano sue proprie voci, e per questo si composero simile a' verbi passivi: el suo participio co' tempi e voci di questo verbo ho, hai, ha.  Qual verbo, benché e' sia della coniugazione in a, pur non sequita la regola esimilitudine degli altri, però che egli è verbo d'una sillaba, e così tutti e'monosillabi sono anormali.  Né troverrai in tutta la lingua toscana verbi monosillabi altri che questi sei: Do; Fo; Ho; Vo; Sto; Tro. Porremogli adonque qui sotto distinti.  Ma, per esser breve, notiamo che e' sono insieme dissimili ne e' preteritiperfetti indicativi, e ne' singulari degli imperativi, e nel singulare del futuroottativo, ne' quali e' fanno così:  DO: diedi, desti, dette. Plurale: demo, desti, dettero.  FO: feci, facesti, fece. Plurale: facemo, facesti, fecero.  HO: ebbi, avesti, ebbe. Plurale: avemo, avesti, ebbero.  VO: andai, andasti, andò. Plurale: andamo, andasti, andarono.  STO: stetti, stesti, stette. Plurale: stemo, stesti, stettero.  TRO: tretti, traesti, trette. Plurale: traemo, traesti, trettero.  In tutti e' verbi, come fa la seconda persona singulare del preterito, così fa la seconda sua plurale; come amasti, desti, leggesti.  DO: da tu, dia lui.  FO: fa tu, faccia lui.  HO: abbi tu, abbia lui.  VO: va tu, vada lui.  STO: sta tu, stia lui.  TRO: tra tu, tria lui.  DO: Dio ch'io dia, tu dia, lui dia.  FO: faccia, facci, faccia.  HO: abbia, abbi, abbia.  VO: vada, vadi, vada.  STO: stia, stii, stia.  TRO: tragga, tragghi, tragga.  V. Seguita la coniugazione in e.   Questa si forma simile alla coniugazione in a. Mutasi quello e in o, e fassi la prima presente indicativa. Mutasi in i, e fassi la seconda, come qui: leggente e scrivente, levatone nte, resta legge, scrive; onde si fa leggo, leggi, leggeva, leggerò, ecc. Solo varia dalla coniugazione in ain que' luoghi dove variano e' monosillabi. Ma questa coniugazione in e varia in più modi, benché comune faccia e' preteriti perfetti indicativiin -ssi, per due s, come: leggo, lessi; scrivo, scrissi. Ma que' verbi che finiscono in -sco fanno e' preteriti in -ii per due i, come esco, uscii;ardisco, ardii; anighittisco, anighittii. Ma, per più suavità, nella linguatoscana non si pronunziano due iunte vocali. Da questi verbi si eccettuano cresco ed e' suoi compositi, rincresco, accresco, e simili, quali finiscono, a' preteriti perfetti, in -bbi, come crebbi, rincrebbi.  Item, nasco fa nacqui, e conosco fa conobbi. E que' verbi che finiscono in mo fanno e' preteriti in -etti, come premo, premetti; e quei che finiscono in do fanno e' preteriti in -si, per uno s, come ardo, arsi; spargo, sparsi; eccetto vedo fa vidi; odo, udi'; cado, caddi; godo, godei e godetti. E quegli che finiscono in ndo fanno preteriti -si, per uno s: prendo, presi; rispondo, risposi; eccetto vendo fa vendei e vendetti.  Sonci di queste regole forse altre eccezioni, ma per ora basti questo principio di tanta cosa. Chi che sia, a cui diletterà ornare la patrianostra, aggiugnerà qui quello che ci manchi.  Dicemo de' preteriti, resta a dire degli altri.  1. IMPERATIVO.   Leggi tu, legga colui.  2. OTTATIVO.   Futuro singulare: Dio ch'io scriva, tu scriva, lui scriva. E così fanno tutti.  Verbi impersonali si formano della terza persona del verbo attivo in tutti e' modi e tempi, giuntovi si, come: amasi, leggevasi, scrivasi. Ma questo si suole trasporlo innanzi al verbo, giuntovi e', e dicesi: e' si legge; e' si corre; e massime nell'ottativo e subientivo sempre si prepone, e dicesi: Dio che e' s'ami; quando e' si leggera', e simile.  VI. Seguitano le preposizioni.   Di queste alcune non caggiono in composizione, e sono queste: oltre, sino, dietro, doppo, presso, verso, 'nanzi, fuori, circa.   Preposizioni che caggiono in composizione e ancora s'adoperano seiunte, sono di una sillaba o di più.  D'una sillaba sono queste:  DE: de' nostri; detrattori.  AD: ad altri; admiratori.  CON: con certi; conservatori.  PER: per tutti; pertinace.  DI: di tanti; diminuti.  IN: in casa; importati.  Di, preposto allo infinito, ha significato quasi come a' Latini ut. E dicono: Io mi sforzo d'essere amato.  Quelle de più sillabe sono queste:  SOTTO sottoposto  SOPRA sopraposto  e dicesi  ENTRO entromesso  CONTRO contraposto  Preposizioni quali s'adoperano solo in composizione:  Re, sub, ob, se, am, tras, ab, dis, ex, pre, circum; onde si dice: trasposi e circumspetto.  VII. Seguitano gli avverbi.   Per e' tempi, si dice: oggi, testé, ora, ieri, crai, tardi, omai, già, allora, prima, poi, mai, sempre, presto, subito.  Per e' luoghi, si dice: costì, colà, altrove, indi, entro, fuori, circa, quinci, costinci, e qui e ci, e ivi e vi. Onde si dice: Io voglio starci, io ci starò, pro qui; e verrovvi e io vi starò, pro ivi.  Pelle cose, si dice: assai, molto, poco, più, meno.  Negando, si dice: nulla, no, niente, né.  Affirmando, si dice: sì, anzi, certo, alla fe'.  Domandando, si dice: perché, onde, quando, come, quanto.  Dubitando: forse.  Narrando, si dice: insieme, pari, come, quasi, così, bene, male, peggio, meglio, ottime, pessime, tale, tanto.  Usa la lingua toscana questi avverbi, in luogo di nomi, giuntovi l'articolo, e dice: el bene, del bene, ecc.; qual cosa ella ancora fa degli infiniti, e dicono: el leggere, del leggere.  Ma a più nomi, pronomi e infiniti giunti insieme, solo in principio della loro coniunzione usa preporre non più che uno articolo, e dicesi: el tuo buono amare mi piace.  Item, a similitudine della lingua gallica, piglia el Toscano e' nomisingulari femminini adiettivi e aggiungevi -mente, e usagli per avverbi, come saviamente, bellamente, magramente.  VIII. Interiezioni.   Sono queste: hen, hei, ha, o, hau, ma, do.  IX. Coniunzioni.   Sono queste: mentre, perché, senza, se, però, benché, certo, adonque, ancora, ma, come, e, né, o, segi (sic).  E congiunge; né disiunge; o divide; senza si lega solo a' nomi e agli infiniti. E dicesi: senza più scrivere; tu e io studieremo; che né lui né lei siano indotti; o piaccia o dispiaccia questa mia invenzione.  E questo ne ha vario significato e vario uso. Se si prepone simplice a' nomi, a' verbi, a' pronomi, significa negazione, come qui: né tu né io meritiamo invidia. E significa in; ma, aggiuntovi l, serve a' singularimasculini e femminini; e senza l, serve a' plurali quali comincino da consonante. A tutti gli altri plurali, masculini e femminini si dice nel-; e quando s sarà preposta alla consonante, pur si dice: nello spazzo, nelle camere, ne' letti, nello essercito di Dario, negli orti.  E questo ne, se sarà subiunto a nome o al pronome, significa di qui, di questo, di quello, secondo che l'altre dizioni vi si adatteranno, come chi dice: Cesare ne va, Pompeio ne viene.  E questo ne, posposto al verbo, sarà o doppo a monosillabi o doppo a quei di più sillabe; e più, o significa interrogazione o affirmazione o precetto. Adonque, doppo l'indicativo monosillabo, la interrogazione si scrive, in la prima e terza persona, per due n, la seconda per uno n, come, interrogando, si dice: vonne io? va' ne tu? vanne colui? Nello imperativo si scrive la seconda per due n, e dicesi: vanne, danne. La terza si scrive per uno, e dicesi: diane lui, traggane. E questi monosillabi, la prima indicativa presente, affirmando, si scrive per due n, e dicono: fonne, vonne, honne.  Se sarà el verbo di più sillabe, la interrogazione e affirmazione si scrive per uno n in tutti e' tempi, eccetto la affirmazione in lo futuro, quale si scrive per due n, come dicendo: portera' ne tu? porteronne. E questo sino qui detto s'intenda per e' singulari, però che a' plurali siscrive quello ne sempre per uno n, come andiamone.  Non mi stendo negli altri simili usi a questi. Basti quinci intendere e' principi d'investigare lo avanzo.  E' vizi del favellare in ogni lingua sono o quando s'introducono alle cose nuovi nomi, o quando gli usitati si adoperano male. Adoperanosimale, discordando persone e tempi, come chi dicesse: tu ieri andaremoalla mercati. E adoperanosi male usandogli in altro significato alieno, come chi dice: processione pro possessione. Introduconsi nuovi nomio in tutto alieni e incogniti o in qualunque parte mutati.  Alieni sono in Toscana più nomi barberi, lasciativi da gente Germana, quale più tempo militò in Italia, come elm, vulasc, sacoman, bandier, e simili. In qualche parte mutati saranno quando alle dizionis'aggiungerà o minuirà qualche lettera, come chi dicesse: paire pro patre, e maire pro matre. E mutati saranno come chi dicesse: replubicapro republica, e occusfato pro offuscato; e quando si ponesse una lettera per un'altra, come chi dicesse: aldisco pro ardisco, inimisi pro inimici.  Molto studia la lingua toscana d'essere breve ed espedita, e per questo scorre non raro in qualche nuova figura, qual sente di vizio. Ma questivizi in alcune dizioni e prolazioni rendono la lingua più atta, come chi, diminuendo, dice spirto pro spirito; e massime l'ultima vocale, e dice papi, e Zanobi pro Zanobio; credon far quel bene. Onde s'usa che a tutti gl'infiniti, quando loro segue alcuno pronome in i, allora si gettal'ultima vocale e dicesi: farti, amarvi, starci, ecc.  E, mutando lettere, dicono mie pro mio e mia, chieggo pro chiedo,paio pro paro, inchiuso pro incluso, chiave pro clave. E, aggiugnendo, dice vuole pro vole, scuola pro scola, cielo pro celo. E, in tuttotroncando le dizioni, dice vi pro quivi, e similiter, stievi pro stia ivi.  Si questo nostro opuscolo sarà tanto grato a chi mi leggerà, quanto fu laborioso a me el congettarlo, certo mi diletterà averlo promulgato, tanto quanto mi dilettava investigare e raccorre queste cose, a mio iudizio, degne e da pregiarle.  Laudo Dio che in la nostra lingua abbiamo omai e' primi principi: di quello ch'io al tutto mi disfidava potere assequire.  Cittadini miei, pregovi, se presso di voi hanno luogo le mie fatighe, abbiate a grado questo animo mio, cupido di onorare la patria nostra. E insieme, piacciavi emendarmi più che biasimarmi, se in parte alcuna ci vedete errore.  Que’ che affermano la lingua latina non essere stata comune a tutti e’ populi latini, ma solo propria di certi dotti scolastici, come oggi la vediamo in pochi, credo deporranno quello errore vedendo questo nostro opuscolo, in quale io raccolsi l’uso della lingua nostra in brevissime annotazioni. Qual cosa simile fecero gl’ingegni grandi e studiosi presso a’ Greci prima e po’ presso de e’ Latini, e chiamorno queste simili ammonizioni, atte a scrivere e favellare senza corruttela, suo nome, grammatica. Questa arte, quale ella sia in la lingua nostra, leggetemi e intenderetela. Ordine delle lettere I r t d b v n u m p q g c e o a x z l s f ç ch gh Vocali a ę ẻ i o ô u ę è é ę Coniunctio ể Verbum ẻ Articulus el ghiro girò al çio el zembo. e volse pôrci a’ porci quèllo chẻ ể pẻlla pelle. [p. facsimile1]  Tavv. 1-2. Roma, Bibl. Vaticana, Cod. Vat. Reginense Lat. 1370, «Della thoscana senza auttore», cc 1r-v (cfr. p. 361)  [p. 178] Ogni parola e dizione toscana finisce in vocale. Solo alcuni articoli de’ nomi in l e alcune preposizioni finiscono in d, n, r.  Le cose in molta parte hanno in lingua toscana que’ medesimi nomi che in latino.  Non hanno e’ Toscani fra e’ nomi altro che masculino e femminino. E’ neutri latini si fanno masculini.  Pigliasi in ogni nome latino lo ablativo singulare, e questo s’usa in ogni caso singulare, così al masculino come al femminino.  A e’ nomi masculini l’ultima vocale si converte in i, e questo s’usa in tutti e’ casi plurali.  A e’ nomi femminini l’ultima vocale si converte in e, e questo s’usa in ogni caso plurale per e’ femminini.  Alcuni nomi femminini in plurale non fanno in e: come, la mano fa le mani.  E ogni nome femminino, quale in singulare finisca in e, fa in plurale in i: come la orazione, le orazioni; stagione, stagioni; confusioni, e simili.  E’ casi de’ nomi si notano co’ suoi articoli, dei quali sono vari e’ masculini da e’ femminini.  Item e’ masculini, che cominciano da consonante, hanno certi articoli non fatti come quando e’ cominciano da vocale.  Item e’ nomi propri sono vari dagli appellativi.  Masculini che cominciano da consonante hanno articoli simili a questo:    singulare    EL cielo DEL cielo AL cielo EL cielo O cieloDAL cielo   Plurale    E’ cieli DE’ cieli A’ cieli E’ cieli O cieli DA’ cieli. Masculini, che cominciano da vocale, fanno in singulare simile a questo: [p. 179]    Singulare   LO orizzonte DELLO orizonte ALLO orizonteLO orizonte O orizonte DALLO orizonte    Plurale   GLI orizonti DEGLI orizonti AGLI orizontiGLI orizonti O orizonti DAGLI orizonti.  E’ nomi masculini che cominciano da s preposta a una consonante hanno articoli simili a quei che cominciano da vocale, e dicesi: LO spedo, LO stocco, GLI spedi, e simile.  Questi vedesti che sono vari da quei di sopra nel singulare, el primo articolo e anche el quarto; ma nel plurale variorono tutti gli articoli.  Nomi propri masculini non hanno el primo articolo, né anche el quarto, e fanno simili a questi:  Propri masculini, che cominciano da consonante, in singulare fanno così:  Cesare DI Cesare A Cesare Cesare O CesareDA Cesare. Nomi propri, che cominciano da vocale, nulla variano da’ consonanti, eccetto che al terzo vi si aggiugne d, e dicesi:  Agrippa DI Agrippa AD Agrippa, ecc. In plurale non s’adoperano e’ nomi propri, e se pur s’adoperassero, tutti fanno come appellativi.  E’ nomi femminini, o propri o appellativi, o in vocale o in consonante che e’ cominciano, tutti fanno simile a questo:    Singulare    LA stella DELLA stella ALLA stella LA stellaO stella DALLA stella. LA aura DELLA aura ALLA aura LA aura O auraDALLA aura. [p. 180]  Plurale  LE stelle DELLE stelle ALLE stelle LE stelle O stelleDALLE stelle. LE aure DELLE aure ALLE aure LE aure O aureDALLE aure. E’ nomi delle terre s’usano come propri, e dicesi: Roma superò Cartagine.  E simili a’ nomi propri s’usano e’ nomi de’ numeri: uno, due, tre, e cento e mille, e simili; e dicesi: tre persone, uno Dio, nove cieli, e simili.  E quei nomi che si referiscono a’ numeri non determinati come ogni, ciascuno, qualunque, niuno, e simili, e come tutti, parecchi, pochi, molti, e simili, tutti si pronunziano simili a e’ nomi propri senza primo e quarto articolo.  E’ nomi che importano seco interrogazione come chi e che e quale e quanto e simili, quei nomi che si riferiscono a questi interrogatori, come tale e tanto e cotale e cotanto, si pronunciano simili a e’ propri nomi, pur senza primo e quarto articolo, e dicesi:  Io sono tale quale voresti essere tu; e amai tale che odiava me.  Chi s’usa circa alle persone, e dicesi: Chi scrisse?  Che significa quanto presso a e’ Latini Qui e Quid. Significando Quid, s’usa circa alle cose, e dicesi: Che leggi? Significando Qui, s’usa circa alle persone, e dicesi: Io sono colui che scrissi.  Chi di sua natura serve al masculino, ma aggiunto a questo verbo sono, sei, è, serve al masculino e al femminino, e dicesi: Chi sarà tua sposa? Chi fu el maestro?  Chi sempre si prepone al verbo. Che si prepone e pospone.  Che, preposto al verbo, significa quanto presso a e’ Latini Quid e Quantum e Quale, come: Che dice? Che leggi? Che uomo ti paio? Che ti costa?  Che, posposto al verbo, significa quanto apresso e’ Latini Ut e Quod, come dicendo: I’ voglio che tu mi legga. Scio che tu me amerai.  E’ nomi, quando e’ dimostrano cosa non certa e diterminata, [p. 181]si pronunziano senza primo e quarto articolo, come dicendo: Io sono studioso. Invidia lo move. Tu mi porti amore. Ma quando egli importano dimostrazione certa e diterminata, allora si pronunziano coll’articolo come qui: Io sono lo studioso e tu el dotto.  E’ nomi simili a questo: primo, secondo, vigesimo, posti dietro a questo verbo sono, sei, è, non raro si pronunziano senza el primo articolo, e dicesi: Tu fusti terzo e io secondo; e ancora si dice: Costui fu el quarto, el primo, el secondo, ecc.  Uno, due, tre, e simili, quando e’ significano ordine, vi si pone l’articolo, e dicesi: Tu fusti el tre, e io l’uno. Il dua è numero paro, ecc.  Fra tutti gli altri nomi appellativi, questo nome Dio s’usa come proprio, e dicesi: Lodato Dio. Io adoro Dio.  Gli articoli hanno molta convenienza co’ pronomi, e ancora e’ pronomi hanno grande similitudine con questi nomi relativi zs qui recitati. Adonque suggiungeremogli.  De’ pronomi, e’ primitivi sono questi: io tu esso questo quello costui lui colui. Mutasi l’ultima vocale in a e fassi il femminino, e dicesi: questa, quella, essa. Solo io e tu, in una voce, serve al masculino e al femminino.  E’ plurali di questi primitivi pronomi sono vari, e anche e’ singulari. Declinansi così:  Io e i’: di me: a me e mi: me e mi: dame. Noi: di noi: a noi e ci: noi e ci: da noi. Tu: di te: a te e ti: te e ti: o tu: da te. Voi: di voi: a voi e vi: voi e vi: o voi: da voi. Esso ed e’: di se e si: se e si: da se; ed Egli.  Non troverrai in tutta la lingua toscana casi mutati in voce altrove che in questi tre pronomi: io, tu, esso.  Gli altri primitivi se declinano così:   Questo: di questo: a questo: questo: da questo. Quello: di quello: a quello: quello: da quello.  Muta o in i e arai el plurale, e dirai:   Questi: di questi: a questi: questi: da questi. [p. 182]  E il somigliante fa quelli  E così sarà costui e lui e colui, simili a quegli in singulare; ma in plurale costui fa costoro, lui fa loro, colui fa coloro, di coloro, a coloro, coloro, da coloro.  Questo e quello mutano o in a e fassi el femminino singulare, e dicesi: questa e quella; e fassi il suo plurale: queste, di quelle, a quelle.  Lui, costui, colui, mutano u in e e fassi el singulare femminino, e dicesi: costei, lei, colei, di colei, ecc. In plurale hanno quella voce che e’ masculini, cioè: loro, coloro, costoro, di costoro, a costoro, ecc.  Vedesti come, simile a’ nomi propri, questi pronomi primitivi non hanno el primo articolo né anche el quarto. A questa similitudine fanno e’ pronomi derivativi, quando e’ sono subiunti a e’ propri nomi. Ma quando si giungono agli appellativi, si pronunziano co’ suoi articoli.  Derivativi pronomi sono questi, e declinansi così:  El mio, del mio, ecc., e plurale: e’ miei, de’ miei,ecc. El nostro, del nostro, ecc. E plurale: e’ nostri, de’ nostri, ecc. El tuo. Plurale: e’ tuoi. El vostro. Plurale: e’ vostri. El suo. E pluraliter: e’ suoi, ecc.  Mutasi, come a e’ nomi, l’ultima in a, e fassi el singulare femminino: qual a, converso in e, fassi el plurale, e dicesi: mia e mie; vostra, vostre; sua e sue.  In uso s’adropano questi pronomi non tutti a un modo.  E’ derivativi, giunti a questi nomi, padre, madre, fratello, zio, e simili, si pronunziano senza articolo, e dicesi: mio padre, nostra madre, e tuo zio, ecc.  Mi e me, ti e te, ci e noi, vi e voi, si e sé sono dativi insieme e accusativi, come di sopra gli vedesti notati. Ma hanno questo uso che, preposti al verbo, si dice mi, ti, ci, ecc.; come qui: e’ mi chiama; e’ ti vuole; que’ vi chieggono; io mi sto; e’ si crede.  Posposti al verbo, se a quel verbo sarà inanzi altro pronome o nome, si dirà come qui: io amo te, e voglio voi. [p. 183]  Si al verbo non sarà aggiunto inanzi altro nome o pronome, si dirà: -i, come qui: aspettaci, restaci, scrivetemi.  Lui e colui dimostrano persone, come dicendo: lui andò, colei venne.  Questo e quello serve a ogni dimostrazione, e dicesi: Questo essercito predò quella provincia, e: Questo Scipione superò quello Annibale.  E’ ed el, lo e la, le e gli, quali, giunti a’ nomi, sono articoli, quando si giungono a e’ verbi, diventano ·pronomi e significano quello, quella, quelle, ecc. E dicesi: Io la amai; Tu le biasimi; Chi gli vuole?  Ma di questi, egli ed e’ hanno significato singulare e plurale; e, preposti alla consonante, diremo e’, come qui: e’ fa bene; e’ corsono. E, preposti alla vocale, si giugne e’ e gli, e dicesi: egli andò; egli udivano.  E quando segue loro s preposta a una consonante, ancora diremo: egli spiega; egli stavano.  Potrei in questi pronomi essere prolisso, investigando più cose quali s’osservano, simili a queste:  Vi preposto a’ presenti singulari indicativi, d’una sillaba, si scrive in la prima e terza persona per due v, e simile in la seconda persona presente imperativa, come stavvi e vavvi; e ne’ verbi, d’una e di più sillabe, la prima singulare indicativa del futuro, come amerovvi, leggerovvi, darotti, adoperrocci, e simile. Ma forse di queste cose più particulari diremo altrove.    Sequitano e’ Verbi    Non ha la lingua toscana verbi passivi, in voce; ma, per esprimere el passivo, compone con questo verbo sono, sei, è, el participio preterito passivo tolto da e’ Latini, in questo modo: Io sono amato; Tu sei pregiato; Colei è odiata. E simile, si giugne a tutti e’ numeri e tempi e modi di questo verbo. Adonque lo porremo qui distinto. [p. 184]    Indicativo    Sono, sei, è. Plurale: siamo, sete, sono.  Ero, eri, era. Plurale: eravamo e savamo, eravate e savate, erano.  Fui, fusti, fu. Plurale: fumo, fusti, furono.  Ero, eri, era stato. Plurale: eravamo e savamo, eravate e savate, erano stati.  Sarò, sarai, sarà. Plurale: saremo, sarete, saranno.  Hanno e’ Toscani, in voce, uno preterito quasi testé, quale, in questo verbo, si dice cosi:  Sono, sei, è stato. Plurale: siamo, sete, sono stati.  E dicesi: Ieri fui ad Ostia; oggi sono stato a Tibuli.    Imperativo    Sie tu, sia lui. Plurale: siamo, siate, siano.  Sarai tu, sarà lui. Plurale: saremo, ecc.    Ottativo    Dio ch’io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale: fussimo, fussi, fussero.  Dio ch’io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo, siate, siano stati.  Dio ch’io fussi, fusse stato. Plurale: fussimo, fussi, fussero stati.   Dio ch’io sia, sii, sia. Plurale: siamo, siate, siano.    Subientivo    Bench’io, tu, lui sia. Plurale: siamo, siate, siano.  Bench’io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale: fussimo, fussi, fussero.  Bench’io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo, siate, siano stati. [p. 185]  Bench’io fussi, fussi, fusse stato. Plurale: fussimo, fussi, fussero stati.  Bench’io sarò, sarai, sarà stato. Plurale: saremo, sarete, saranno stati.  E usasi tutto l’indicativo di questo e d’ogni altro verbo, quasi s come subientivo, prepostovi qualche una di queste dizioni: se, quando, benché, e simili. E dicesi: bench’io fui; se e’ sono; quando e’ saranno.    Infinito   Essere, essere stato    Gerundio   Essendo    Participio   Essente  Dirassi adonque, per dimostrare el passivo: Io sono stato amato; fui pregiato; e sarò lodato; tu sei reverito.  Hanno e’ Toscani certo modo subientivo, in voce, non notato da e’ Latini; e parmi da nominarlo asseverativo, come questo: Sarei, saresti, sarebbe. Plurale: saremo, saresti, sarebbero.  E dirassi così: Stu fussi dotto, saresti pregiato. Se fussero amatori della patria, e’ sarebbero più felici.    Sequitano e’ verbi attivi    Le coniugazioni de’ verbi attivi in lingua toscana si formano dal gerundio latino, levatone le ultime tre ·lettere ndo, e quel che resta si fa terza persona singulare indicativa e presente. Ecco l’essemplo: amando, levane ndo, resta ama; scrivendo, resta scrive. [p. 186]  Sono adonque due coniugazioni: una che finisce in a, l’altra finisce in e.  Alla coniugazione in a, quello a si muta in o, e fassi la prima persona singulare indicativa e presente; e mutasi in i, e fassi la seconda; e così si forma tutto il verbo, come vedrai la similitudine qui, in questo esposto:    Indicativo  Amo, ami, ama. Plurale: amiamo, amate, amano.  Amavo, amavi, amava. Plurale: amavamo, amavate, amavano.  Amai, amasti, amò. Plurale: amamo, amasti, amarono.  Ho, hai, ha amato. Plurale: abbiamo, avete, hanno amato.  Amerò, amerai, amerà. Plurale: ameremo, amerete, ameranno.  In questa lingua ogni verbo finisce in o la prima indicativa presente, e in questa coniugazione prima, finisce ancora in o la terza singulare indicativa del preterito.  Ma ècci differenza, ché quella del preterito fa el suo o longo, e quella del presente lo fa o breve.    Imperativo  Ama tu, ami lui. Plurale: amiamo, amate, amino.  Amerai tu, amerà colui. Plurale: ameremo, ecc.    Ottativo  Dio ch’io amassi, tu amassi, lui amasse. Plurale: Dio che noi amassimo, voi amassi, loro amassero.  Dio ch’io abbia, tu abbi, lui abbia amato. Plurale: Dio che noiu abbiamo, abbiate, abbino amato.  Dio ch’io avessi, tu avessi, lui avesse amato. Plurale: Dio che noi avessimo, avessi, avessero amato.  Dio ch’io, tu, lui ami. Plurale: amiamo, amiate, amino. [p. 187]    Subientivo  Bench’io, tu, lui ami. Plurale: amiamo, amiate, amino.  Bench’io, tu amassi, lui amasse. Plurale: amassimo, amassi, amassero.  Bench’io abbia, abbi, abbia amato. Plurale: abbiamo, abbiate, abbino amato.  Bench’io avessi, tu avessi, lui avesse amato. Plurale: avessimo, avessi, avessero amato.  Bench’io arò, arai, arà amato. Plurale: aremo, arete, aranno amato.    Assertivo  Amerei, ameresti, amerebbe. Plurale: ameremo, ameresti, amerebbero.  Infinito  amare, avere amato.  Gerundio  Amando.  Indicativo  Amante.   Vedi come a e’ tempi testé perfetti e al futuro del subientivo mancano sue proprie voci, e per questo si composero simile a’ verbi passivi: el suo participio co’ tempi e voci di questo verbo ho, hai, ha.  Qual verbo, benché e’ sia della coniugazione in a, pur non sequita la regola e similitudine degli altri, però che egli è verbo d’una sillaba, e così tutti e’ monosillabi sono anormali. [p. 188]  Né troverrai in tutta la lingua toscana verbi monosillabi altri che questi sei: Do; Fo; Ho; Vo; Sto; Tro. Porremogli adonque qui sotto distinti.  Ma, per esser breve, notiamo che e’ sono insieme dissimili ne e’ preteriti perfetti indicativi, e ne’ singulari degli imperativi, e nel singulare del futuro ottativo, ne’ quali e’ fanno così:  Do: diedi, desti, dette. Plurale: demo, desti, dettero.  Fo: feci, facesti, fece. Plurale: facemo, facesti, fecero.  Ho: ebbi, avesti, ebbe. Plurale: avemo, avesti, ebbero.  Vo: andai, andasti, andò. Plurale: andamo, andasti, andarono.  Sto: stetti, stesti, stette. Plurale: stemo, stesti, stettero.  Tro: tretti, traesti, trette. Plurale: traemo, traesti, trettero.  In tutti e’ verbi, come fa la seconda persona singulare del preterito, così fa la seconda sua plurale; come amasti, desti, leggesti.  Do: da tu, dia lui.  Fo: fa tu, faccia lui.  Ho: abbi tu, abbia lui.  Vo: va tu, vada lui.  Sto: sta tu, stia lui.    Tro: tra tu, tria lui.  Do: Dio ch’io dia, tu dia, lui dia.  Fo: faccia, facci, faccia.  Ho: abbia, abbi, abbia.  Vo: vada, vadi, vada.  Sto: stia, stii, stia.  Tro: tragga, tragghi, tragga.    Sequita la coniugazione in e.  Questa si forma simile alla coniugazione in a. Mutasi quello e in o, e fassi la prima presente indicativa. Mutasi in i, e fassi la [p. 189]seconda, come qui: leggente e scrivente, levatone nte, resta legge, scrive; onde si fa leggo, leggi, leggeva, leggerò, ecc. Solo varia dalla coniugazione in a in que’ luoghi dove variano e’ monosillabi. Ma questa coniugazione in evaria in più modi, benché comune faccia e’ preteriti perfetti indicativi in -ssi, per due s, come: leggo, lessi; scrivo, scrissi. Ma que’ verbi che finiscono in -scofanno e’ preteriti in -ii per due i, come esco, uscii; ardisco, ardii; anighittisco, anighittii. Ma, per più suavità, nella lingua toscana non si pronunziano due iunte vocali. Da questi verbi si eccettuano cresco ed e’ suoi compositi, rincresco, accresco, e simili, quali finiscono, a’ preteriti perfetti, in -bbi, come crebbi, rincrebbi.  Item, nasco fa nacqui, e conosco fa conobbi. E que’ verbi che finiscono in mo fanno e’ preteriti in -etti, come premo, premetti; e quei che finiscono in dofanno e’ preteriti in -si, per uno s, come ardo, arsi; spargo, sparsi; eccetto vedo fa vidi; odo, udi’; cado, caddi; godo, godei e godetti. E quegli che finiscono in ndo fanno preteriti -si, per uno s: prendo, presi; rispondo, risposi; eccetto vendo fa vendei e vendetti.  Sonci di queste regole forse altre eccezioni, ma per ora basti questo principio di tanta cosa. Chi che sia, a cui diletterà ornare la patria nostra, aggiugnerà qui quello che ci manchi.  Dicemo de’ preteriti, resta a dire degli altri.  Imperativo  Leggi tu, legga colui.    Ottativo  Futuro singulare: Dio ch’io scriva, tu scriva, lui scriva. E così fanno tutti. Verbi impersonali si formano della terza persona del verbo attivo in tutti e’ modi e tempi, giuntavi si, come: amasi, leggevasi, scrivasi. Ma questo si suole trasporlo innanzi al verbo, giuntovi e’, e dicesi: e’ si legge; e’ si corre; e massime nell’ottativo e [p. 190]subientivo sempre si prepone, e dicesi: Dio che e’ s’ami; quando e’ si leggerà, e simile.  sequitano le preposizioni    Di queste alcune non caggiono in composizione, e sono queste: oltre, sino, dietro, doppo, presso, verso, ’nanzi, fuori, circa.  Preposizioni che caggiono in composizione e ancora s’adoperano seiunte, sono di una sillaba o di più.  D’una sillaba sono queste:  De: de’ nostri; detrattori. Ad: ad altri; admiratori. Con: con certi; conservatori. Per: per tutti; pertinace. Di: di tanti; diminuti. In: in casa; importati. Di, preposto allo infinito, ha significato quasi come a’ Latini ut. E dicono: Io mi sforzo d’essere amato.  Quelle de più sillabe sono queste:  Sotto sottoposto Sopra sopraposto e dicesi Entro                              entromesso Contro contraposto Preposizioni quali s’adoperano solo in composizione: Re, sub, ob, se, am, tras, ab, dis, ex, pre, circum; onde si dice: trasposi e circumspetto.    Sequitano gli avverbi    Per e’ tempi, si dice: oggi, testé, ora, ieri, crai, tardi, omai, già, allora, prima, poi, mai, sempre, presto, subito. [p. 191]  Per e’ luoghi, si dice: costì, colà, altrove, indi, entro, fuori, circa, quinci, costinci, e qui e ci, e ivi e vi. Onde si dice: Io voglio starci, io ci starò, pro qui; e verrovvi e io vi starò, pro ivi.  Pelle cose, si dice: assai, molto, poco, più, meno.  Negando, si dice: nulla, no, niente, né.  Affirmando, si dice: sì, anzi, certo, alla fe’.  Domandando, si dice: perché, onde, quando, come, quanto.  Dubitando: forse.  Narrando, si dice: insieme, pari, come, quasi, così, bene, male, peggio, meglio, ottime, pessime, tale, tanto.  Usa la lingua toscana questi avverbi, in luogo di nomi, giuntavi l’articolo, e dice: el bene, del bene, ecc.; qual cosa ella ancora fa degli infiniti, e dicono: el leggere, del leggere.  Ma a più nomi, pronomi e infiniti giunti insieme, solo in principio della loro coniunzione usa preporre non più che uno articolo, e dicesi: el tuo buono amare mi piace.  Item, a similitudine della lingua gallica, piglia el Toscano e’ nomi singulari femminini adiettivi e aggiungevi -mente, e usagli per avverbi, come saviamente, bellamente, magramente. Interiezioni    Sono queste: hen, hei, ha, o, hau, ma, do.    Coniunzioni    Sono queste: mentre, perché, senza, se, però, benché, certo, adonque, ancora, ma, come, e, né, o, segi (sic).  E congiunge; né disiunge; o divide; senza si lega solo a’ nomi e agli infiniti. E dicesi: senza più scrivere; tu e io studieremo; che né lui né lei siano indotti; o piaccia o dispiaccia questa mia invenzione.  E questo ne ha vario significato e vario uso. Se si prepone simplice a’ nomi, a’ verbi, a’ pronomi, significa negazione, come [p. 192]qui: né tu né io meritiamo invidia. E significa in; ma, aggiuntovi t, serve a’ singulari masculini e femminini; e senza l, serve a’ plurali quali comincino da consonante. A tutti gli altri plurali, masculini e femminini si dice nel-; e quando s sarà preposta alla consonante, pur si dice: nello spazzo, nelle camere, ne’ letti, nello essercito di Dario, negli orti.  E questo ne, se sarà subiunto a nome o al pronome, significa di qui, di questo, di quello, secondo che l’altre dizioni vi si adatteranno, come chi dice: Cesare ne va, Pompeio ne viene.  E questo ne, posposto al verbo, sarà o doppo a monosillabi o doppo a quei di più sillabe; e più, o significa interrogazione o affirmazione o precetto. Adonque, doppo l’indicativo monosillabo, la interrogazione si scrive, in la prima e terza persona, per due n, la seconda per uno n, come, interrogando, si dice: vonne io? va’ ne tu? vanne colui? Nello imperativo si scrive la seconda per due n, e dicesi: vanne, danne. La terza si scrive per uno, e dicesi: diane lui, traggane. E questi monosillabi, la prima indicativa presente, affirmando, si scrive per due n, e dicono: fonne, vonne, honne.  Se sarà el verbo di più sillabe, la interrogazione e affirmazione si scrive per uno n in tutti e’ tempi, eccetto la affirmazione in lo futuro, quale si scrive per due n, come dicendo: portera’ ne tu? porteronne. E questo sino qui detto s’intenda per e’ singulari, però che a’ plurali si scrive quello ne sempre per uno n, come andiamone.  Non mi stendo negli altri simili usi a questi. Basti quinci intendere e’ principi d’investigare lo avanzo.  E’ vizi del favellare in ogni lingua sono o quando s’introducono alle cose nuovi nomi,o quando gli usitati si adoperano male. Adoperanosi male, discordando persone e tempi, come chi dicesse:  tu ieri andaremo alla mercati. E adoperanosi male usandogli in altro significato alieno, come chi dice: processione pro possessione.  Introduconsi nuovi nomi o in tutto alieni e incogniti o in qualunque parte mutati.  Alieni sono in Toscana più nomi barberi, lasciativi da gente Germana, quale più tempo militò in Italia, come elm, vulasc, [p. 193]sacoman, bandier, e simili. In qualche parte mutati saranno quando alle dizioni s’aggiungerà o minuirà qualche lettera, come chi dicesse: paire pro patre, e maire pro matre. E mutati saranno come chi dicesse: replubica pro republica, e occusfato pro offuscato; e quando si ponesse una lettera per un’altra, come chi dicesse: aldisco pro ardisco, inimisi, pro inimici.  Molto studia la lingua toscana d’essere breve ed espedita, e per questo scorre non raro in qualche nuova figura, qual sente di vizio. Ma questi vizi in alcune dizioni e prolazioni rendono la lingua più atta, come chi, diminuendo, dice spirto pro spirito; e massime l’ultima vocale, e dice papi, e Zanobi pro Zanobio; credon far quel bene. Onde s’usa che a tutti gl’infiniti, quando loro segue alcuno pronome in i, allora si getta l’ultima vocale e dicesi: farti, amarvi, starei, ecc.  E, mutando lettere, dicono mie pro mio e mia, chieggo pro chiedo, paio pro paro, inchiuso pro incluso, chiave pro clave. E, aggiugnendo, dice vuolepro vole, scuola pro scola, cielo pro celo.  E, in tutto troncando le dizioni, dice vi pro quivi, e similiter, stievi pro stia ivi.  Si questo questo nostro opuscolo sarà tanto grato a chi mi leggerà, quanto fu laborioso a me el congettarlo, certo mi diletterà averlo promulgato, tanto quanto mi dilettava investigare e raccorre queste cose, a mio iudizio, degne e da pregiarle.  Laudo Dio che in la nostra lingua abbiamo omai e’ primi principi: di quello ch’io al tutto mi disfidava potere assequire.  Cittadini miei, pregavi, se presso di voi hanno luogo le mie fatighe, abbiate a grado questo animo mio, cupido di onorare la patria nostra. E insieme, piacciavi emendarmi più che biasimarmi, se in parte alcuna ci vedete errore.  Della Thoscana senza auttore; cc. 55r-94v: Ant. Galateus de Sìtu Iapigiae; cc. 95r-104v: Ant. Turcheti Oratio; cc. 105r-108v: Iusti Baldini [Oratio]; cc. 109r-113v: una rassegna delle regioni di Roma antica, attribuita a Paulus Victor. Per la descrizione e la storia del codice vedi l’ed. del 1964, pp. xi-xviii, cit. qui sotto. [p. 362]    Firenze Biblioteca Riccardiana 2. Cod. Moreni 2. Cod. cart. sec. XV, contenente tre opere dell’Alberti precedute da un foglio di guardia in pergamena, ora num. I, al cui verso:figura l’abbozzo autografo dell’Ordine delle Lettere, corrispondente con alcune varianti all’inizio della grammatica nel cod. Vaticano. Per la descrizione del cod. vedi vol. II, pp. 405 sgg. della presente edizione e cfr. C. Colombo, L. B . Alberti e la prima grammatica italiana, in «Studi Linguistici Italiani)), III, 1962, pp. I76-87, e la nostra ed. cit. qui sotto, pp. vi-viii.  edizioni  1. C . Trabalza, Storia della grammatica italiana, Firenze, 1908, pp. 531-48.  2. L. B. Alberti, La prima grammatica della lingua volgare, a cura di C. Grayson, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1964.  B) LA PRESENTE EDIZIONE  Il testo della presente edizione è in sostanza quello medesimo da noi pubblicato nel 1964. Ci siamo limitati a correggere alcune sviste ed errori tipografici e ad introdurre qualche lieve emendamento in seguito alle osservazioni fatte in recensioni a quella edizione del 1964, tra cui l’attento esame particolareggiato di Ghino Ghinassi in «Lingua Nostra», XXVI, pp. 31-32. Quanto scrivemmo allora intorno alla data del cod. Vaticano andrebbe ora qualificato seguendo il giudizio del compianto Roberto Weiss, cioè che si tratta di copia fatta più tardi di un manoscritto, ora perduto, copiato nel 15081. Tale precisazione però non incide sulla costituzione del testo né cambia i criteri adottati nella presentazione della grammatica quale figura nel cod. Vaticano. A parte qualche correzione e integrazione, di cui diamo ragione nell’apparato, abbiamo  [p. 363]seguito fedelmente il manoscritto, ritoccando soltanto la grafia nei casi seguenti: distinguendo u da v, togliendo e aggiungendo h secondo i casi, livellando in doppia qualche scempia inerte smentita da doppia corretta (e viceversa). Abbiamo pure rammodernato la punteggiatura irregolare del codice, e modificato gli accenti salvo nello specchio delle Vocali, dove è indispensabile rispettare l’originale. Riguardo a questo specchio, perché il lettore possa apprezzare pienamente le varianti col frammento del cod. Mor. 2, riproduciamo a p. sg. il facsimile dell’Ordine delle lettere pella lingua toschana, che dovette rappresentare una prima stesura dell’inizio della grammatica quale appare nel cod. Vaticano2.  La scoperta di questo frammento autografo, aggiunta alle prove interne, soprattutto di carattere linguistico, da noi esposte minutamente nella edizione citata, hanno reso oramai certa l’attribuzione di questa grammatica all’Alberti. Non occorre qui insistere su un problema già risolto definitivamente; basti rimandare per ogni ulteriore informazione alla introduzione a quella edizione. Né avremmo altri elementi da aggiungere alla ipotesi ivi formulata che l’Alberti abbia steso questa grammatica durante il quinto decennio del sec. XV, o comunque non più tardi del nov. 1454, data in cui scrivendo a Matteo de’ Pasti (vedi pp. 291 sgg. di questo volume) adoperò lo spirito aspro greco per distinguere è verbo da earticolo, proprio come nella grammatica. Per l’importanza di questa innovazione e per la piena illustrazione del testo della grammatica, si veda l’edizione citata. L’opera è priva di titolo nei codici. Le diamo qui quello di Grammatica della lingua toscana, fondandoci suglì accenni interni, nel 1° paragrafo per la «grammatica» e passim per la «lingua toscana».  C) APPARATO CRITICO  p. 177. 14. Alla forma particolare del g per significare il suono gutturale sostituiamo, sull’analogia di ch, gh(cfr. facsimile Cod. Mor. 2) rg. Cod. giro giro alcio(ma cfr. Cod. Mor. 2). p. 179. 6. Il copista avrà saltato per sbaglio il vocativo. p. 180. 25. Cod. sono e sei e serve. [p. 364]  firenze, Bibl. Riccardiana, Cod. Moreni 2. Foglio grammaticale autografo di L. B . Alberti (cfr. p. 177-78). [p. 365] p. 181. 15. Cod. similitudini com 25-26. L'analogia delle altre serie consiglia le integrazioni. p. 183. 2. Cod. aspettoci, che potrebbe anche correggersi in aspettati (come propone il Ghinassi) 16. Accogliamo l'integrazione già proposta dal Trabalza, op. cit., p. 540 19. Cod. quasi s'osservano30. Cod. si giugni. p. 184. 18. Cod. fussimo fussir fussero stati. p. 183. 3. Cod. saremo, sarete, sareste stati 6. Cod. questi. p. 186. 9. Cod. amàvamo, con l'accento sulla terzultima, dopo aver cancel- lato l'accento sulla penultima (sono d'accordo ora col Ghinassi che sarebbe difficile sostenere che l'accento sulla terzultima risalga senza dubbio all'originale) 10. Introduco le forme del preterito, sal- tato dal copista (ma se ne parla subito dopo alle r. 16-17) 28. Cod. Dio ch'io ami tu lui ami (cfr. 187, 3). p. 187. 11. Cod. amerai. p. 188. 2. Nel marg. del cod. il copista ha scritto So, per indicare l'omissione di questo verbo nella serie di verbi monosillabi 4. Cod. notamo, che non può valere come perfetto qui, e perciò va corretto in notiamo 26. Cod. tragga traggi tragga. p. 189 7-8. Cod. anigittisco anigittii 19. Cod. forsi. p. 190. s. Cod. sine 23. Cod. quale. p. 191. 3. Cod. verrovi (ma sarebbe contro la regola già stabilita a p. 183) 6. Cod. affirimando 24. Cod. ne osegi, da cui si deve staccar l’o per quel che si dice subito appresso, lasciando un segi problematico (forse errore di trascrizione per e.g. o per etc.?). p. 192 s. Cod. camemere 10. Cod. preposto, ma, come osserva il Ghinassi, deve essere un errore 17. Cod. lezione incerta tra siane, diane 36. Cod. Vulase saceman; correggiamo il primo in vulasc per conformità con la serie di 'nomi barberi' tutti terminanti in consonante, senza però poterne spiegare il significato; il secondo (p. 193, I) in sacoman anziché supporre una forma sachemanaltrimenti non attestata. p. 193. 11 . La lezione papi è chiara nel cod. ma difficile a spiegare (si è pensato a pabbio, papeo, papiro). ↑ Vedi «Italian Studies», XX, 1965, pp. 109-10. ↑ Per la discussione e illustrazione del foglio autografo del cod. Mor. 2 vedi l’art. cit. sopra di C. Colombo.   InFirenze,tragliuomini di studio,educati cioèaglistudi umani,sidistinseroaquestopropositogl'ingegniliberida ogni abito di pedantería,che non s'erano allontantanati con superbo fastidio dalla fonte di quelle vene, soprattutto gli artisti e gliuomini d'azione.E tra questi,chi meglio conobbe ilvalore di questo luminoso mezzo che il suo popolo gli offriva, e insieme intravide il lavoro che la mente e la volontà fanno nella formazione e nell'uso della parola, fu l'antico grande cittadino nato in esilio, l'umanista architetto, l'abbreviatore · moralista della famiglia, il raccoglitore e innovatore della ·F. TORBACA,Rimatori napoletani del secolo X V ,in Discus sioni e ricerche letterarie, Livorno, Vigo,1888,pagg.166 e 135 eseguenti.  217   tradizione formatasi a Santa Maria Novella?,cioè Leon Bat: tista Alberti. Egli primo, o più preparato e franco di tutti, si mosse a difesa del « volgare idioma »,che sentiva « degno d'onore » con « vere ragioni », « in diverse maniere » pro vando 2 : e una di queste maniere fu probabilmente quella di far riconoscere nella lingua che per lui era paterna, l'ordine grammaticale ; che cioè l'uso di quella lingua è ordinato e legittimo non meno del latino,e che si può raccogliere in « ammonizioni atte a scrivere e favellare senza corruttela »; che insomma in quest'uso comune e stabile sono applicate leggi di ragione. Intendo che probabilmente a lui si devono quei Primi principij della grammatica o della lingua toscana, cioè quel geniale « saggio... d'una grammatica dell'uso vivo di Firenze 3 » che i Medici conservarono a noi, e che ora Le prime linee del suo trattato della Famiglia l'Alberti le tolse dall'opuscolo di Giovanni Dominici a Bartolomea Obizzi negli Alberti,noto col titolo Regola del governo di cura famigliare. V.lo nell'ediz. SALVI, Firenze, Garinei, 1860. 2 Queste parole sono di Michele del Giogante.V. FR .FLAMINI, La lirica toscana del Rinasciniento anteriore ai tempi del Magni. fico,Pisa,Nistri,1891,pagg.8-9.Cfr.O. Bacci,op.cit.,pag.86. *L.MORANDI.LorenzoilMagnifico,Leonardoda Vincie la prima grammatica italiana;Leonardo eiprimi vocabolari:ricerche: Città di Castello,Lapi,1900,pag.146. Ma cfr.F. SENSI,Ancora di L. Alberti grammatico, in Rendiconti del R. Ist. lombardo, Serie II,vol.XLII (1909).L'opuscolo è pubblicato in appendice alla Storia della grammatica italiana di C. TRABALZA,Milano, Hoepli, 1908. Propongo qui l'opinione che mi par più probabile,anche dopo che il Morandi ha difeso la sua nell'articolo Per Leonardo da Vinci e per la « Gramatica di Lorenzo de' Medici », nella Nuova Antologia 1° ottobre 1909. Il titolo,che la copia vaticana dell'opu. scolo ha,non esemplato dall'originale,e nel foglio di guardia da altra mano che quella dell’amanuense segnato,DELLA THOSCANA SENZA AUTTORE,mi pare si possa desumere qual era nella mente di questo autore dal ringraziamento finale (c.16a):«LaudoDio che in la nostra lingua habbiamo homai e' primi principij; di  218 1   dimostra in chi l'ha dato l'antico cittadino italiano e il filo logo moderno. Così Leon Battista dette primo alla patria sua,fuori della quale era nato, la corona della lingua: e da lui n'ereditò la difesa ilgiovanetto figlio di Piero dei Medici (cioè del fautore di lui in quest'opera) e di Lucrezia Tornabuoni : il quale, seguendo il suo genio nativo,che lo conduceva all'acquisto della grandezza, cercò esser popolare 1 »; e de'suoi grandi intendimenti,e delle cure che gl'imponeva ilprincipato nella sua città, voluto e mantenuto ad ogni costo, non credeva nu trito », « aggiungendosi ... prospero successo ed augumento al fiorentino imperio 2 » si estendesse e diventasse comune ad altre città e province, come Roma avea fatto della quello ch'io al tutto m i disfidaua potere assequire ». Ch'egli poi le ammonitioni » di quest' a arte » anche « in la lingua nostra » chiamasse «suo nome,Grammatica » lo dice espressamente nel proemio ; e quest'esempio ci dà facoltà d'argomentare per a n a logia, che anche l'Alberti indicando un suo lavoro con le parole De litteris atque coeteris principiis grammaticae abbia potuto intendere aquesta arte... in la lingua nostra ».Del resto, una annotazione assaisimileadaltradellaGrammatichetta,traquelle del Colocci, nel vatic.4817 (c.68a;sotto iltitolo aLingue de variiBarbari »),mi fa supporre ch'egli conoscesse quell'opuscolo, perluiprezioso,cheeranellaLibreriadeMedici «senzaauttore»; egli che,in Roma,quella libreria frequentava, come prova, se non altro,l'indicazione che sitrova nell'altrosuo ms.,ilvat.3217 (c. 329 b): a Bapta Alberto in libreria de medici de Rythmis ». A proposito della quale opera,altrove (4817,c.139),dice che stima facesse dell'autore: «Leon Alberto huomo alli tempi nostri di dottrina et d'ingegno a nullo inferiore ». Questo sia detto col rispetto dovuto all'autorità di Luigi Morandi, nel comune amore del vero. 1 GINO CAPPONI, Storia della repubblica fiorentina, Firenze, Barbèra,1875,t.II,pag.191. Cfr.0. BACCI,Op.cit.,pag.69. 2 Commento del Mco L. DE M. sopra alcuni de'suoi sonetti, nelle sue Opere,Firenze,Molini,1825,vol.IV. ultima questa, che la lingua « nella quale era nato e  219   220 latina. Allo stesso modo poi il figliuolo suo Giovanni, che venne veramente, come allora si diceva, a capo delle cose del mondo col nome di Leon X , voleva tenuta in onore diffusa la lingua latina serbata nella ecclesiastica e allora restaurata secondo l'esemplare augustèo 1: inter caeteras curas, quas in hac humanarum rerum curatione divinitus nobis concessa, subimus, non in postremis hanc quoque habendam ducimus, ut latina lingua nostro Pontificatu dicatur facta auctior . Così dunque Lorenzo raccolse l'eredità dell'antica lingua fiorentina da Leon Battista e dagli altri generosi custodi e difensori di essa della generazione anteriore, e ne fece la lingua dotta della sua corte popolana, uno strumento di regno. Quanto il suo esempio fosse efficace sui prìncipi con temporanei, lo dice un cortigiano della generazione a lui se guente,Vincenzo Colli oda ColledettoilCalmeta,chedisegnò e difese l'ideale della lingua cortigiana : « La vulgar poesia et arte oratoria, dal Petrarca e Boccaccio in qua quasi adulte . rata, prima da Laurentio Medice e suoi coetanei, poi m e diante la emulatione di questa et altre singularissime donne di nostra etade, su la pristina dignitade essere ritornata se comprehende2».E questadonnaeraBeatriced’Este,lagio vane sposa di Ludovico il Moro, e le principali tra le altre erano la sorella maggiore di lei sposa del marchese Francesco Gonzaga,Isabella,ed Elisabetta Gonzaga sposa di Guidubaldo da Montefeltro duca d'Urbino. Breve a Franc.De Rosis scritto dal Sadoleto,citato dal PASTOR, Storia dei Papi dalla fine del M. evo,vol. IV,p. Nella Vita di Serafino Aquilano in fronte alle Rime di lui, ediz.cit.,  (Leon X ),trad.Mercati,Roma,Lefebvre,1908,pag.410. I e 1 pag.11.. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, "Grice ed Alberti," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Albertini (Pavia). Filosofo. Grice: “H. L. A. Hart calls Albertini a Proudhonian!” -- Grice: “I like Albertini; like me, he has dedicated his life to ‘fides,’ or ‘una federazione di due,’ “a garden of Eden just meant for two” – fiducia, fedes – what Remo asked from Romolo, but failed!” Filosofo. Insegna a  Pavia. Sostene un progetto di unione federalista per l'Europa alla guida del Movimento Federalista Europeo e della Unione dei Federalisti Europei. Adiere al Movimento federalista europeo. Di idee liberali, lascia tuttavia il Partito Liberale dopo la decisione di quest'ultimo di appoggiare la monarchia nel referendum. Dopo la laurea in filosofia divenne docente di Storia contemporanea, Dottrina dello Stato, Scienza della Politica e Filosofia della politica a Pavia. In seguito alla sconfitta sul progetto di Esercito Europeo, la CED, e alle dimissioni di Spinelli, lo sostitue alla guida del Movimento Federalista Europeo. A Milano con un gruppo di militanti del Movimento federalista europeo fonda Il Federalista che si occupa del dibattito sui temi di fondo del federalismo.  Diresse il Mfe italiano. Presidente dell'Unione dei Federalisti Europei. È poi rimasto come figura di riferimento e d'indirizzo all'interno del Mfe. A livello teorico, fin dalle pagine taglienti e polemiche su Lo Stato nazionale, sostene, sulla scia di Einaudi, che a furia di voler custodire una sterile sovranità, lo stato italiano e ridotto a "polvere senza sostanza". Da lì l'esigenza di guardare all'unificazione europea come alla medicina d'urto indispensabile. Maestro di federalismo, articolo di Arturo Colombo, Corriere della Sera, Archivio storico.  Lo Stato nazionale, La politica, Giuffré, Il federalismo e lo stato federale, Giuffré, Che cos'è il federalismo, L'integrazione europea, Proudhon, Vallecchi, Tutti gli scritti, Nicoletta Mosconi, Il Mulino, Movimento Federalista Europeo Unione dei Federalisti Europei  Centro studi sul federalismo: perspectives on federalism , su on-federalism.eu. Il Federalista: "Mario Albertini teorico e militante" di Nicoletta Mosconi su thefederalist.eu. Centro studi sul federalismo: Opere di Mario Albertini, su csfederalismo. youtube: 1985 Mario Albertini commenta la manifestazione federalista di Piazza Duomo, su youtube.com. V D M Logo MFE.svg Federalismo europeo Flag of Europe.svg. E’ per me un grande onore essere stato invitato a fare una relazione a questo convegno per ricordare Mario Albertini, un uomo che ha fatto tanto per noi federalisti, per l’Europa e per l’umanità intera. Questo onore è particolarmente significativo per me perché egli, come Altiero Spinelli, ha fatto del pensiero della scuola inglese degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta, insieme a quello dei Padri fondatori americani, la base del suo pensiero federalista. Albertini spiegò che mentre il pensiero fondato sulla fonte inglese ha dato una risposta alla domanda “perché creare la Federazione europea?”, quello fondato sulla fonte americana ha dato una risposta alla domanda “come crearla?”[1]. Quanto alla domanda “quale forma di federazione?”, la risposta, per Albertini come per gli inglesi, era contenuta nella Costituzione degli Stati Uniti d’America.  Il problema che oggi voglio affrontare riguarda il modo in cui il pensiero di Albertini ha sviluppato queste due tradizioni federaliste. In generale si può dire che egli è stato il massimo esponente del pensiero hamiltoniano della seconda metà del Novecento, oltre che il creatore della scuola federalista italiana. Egli è stato non solo un esponente, ma anche un innovatore, spesso illuminando il pensiero di altre scuole, in altri casi differenziandosi con contributi originali.    Quale forma di federazione.  Per Albertini, come per Spinelli e per la scuola inglese, la questione centrale era la trasformazione di Stati a sovranità assoluta in Stati federati in uno Stato federale. Per loro il federalismo di Althusius o di Proudhon – considerato da Albertini come “una tecnica… per il decentramento del potere politico”[2] – non era di grande rilievo. Albertini sosteneva che Proudhon “era rimasto, quanto alla concezione dello Stato, un anarchico”, benché egli lo abbia definito anche un “grande presbite” che “ha previsto quale sarebbe stato il limite tragico della democrazia nazionale qualora non avesse trovato i suoi correttivi nella democrazia locale e nella democrazia europea”. Albertini affermava inoltre che il federalismo richiede “la creazione di orbite di governo democratico locale ad ogni livello di manifestazione concreta delle relazioni umane”[3]. Ma egli concentrò il suo pensiero sulla creazione di una federazione tra Stati sovrani, essenziale per garantire la pace fra loro.  Mentre gli scrittori della scuola inglese si erano attenuti ad un’esposizione classica della forma di una tale federazione, Albertini ne fece la migliore rielaborazione della seconda metà del Novecento[4]. Sia la scuola inglese, sia Albertini, condividevano la preferenza per il sistema europeo basato su un esecutivo parlamentare piuttosto che quello presidenziale americano, pur accettando per il resto gli elementi principali della Costituzione americana. Albertini riteneva cioè più valido un “governo responsabile di fronte al Parlamento europeo… come istanza di controllo democratico dell’attività dell’Unione”[5].  Egli arricchì il pensiero federalista anche con la sua analisi della relazione tra nazione e Stato[6]. Secondo lui, lo Stato nazionale, con il suo dispotismo, danneggia la vita dei cittadini, ponendo restrizioni allo sviluppo economico e provocando la guerra[7]. I suoi limiti si manifestano anche nella “contraddizione tra l’affermazione della democrazia nel quadro nazionale e la sua negazione nel quadro internazionale”, che pregiudica anche l’affermazione del liberalismo e del socialismo a livello nazionale[8]. Lo Stato nazionale dovrebbe essere sostituito con uno Stato federale plurinazionale; la Federazione europea sarebbe “un popolo di nazioni, un popolo federale”, e non “un popolo nazionale”; il federalismo prevede una struttura di Stati democratici plurinazionali fino al livello mondiale[9]. Il pensiero della scuola inglese su questo tema non era diverso, ma l’analisi di Albertini è più approfondita.  Negli anni Trenta, la scuola inglese indicò nel federalismo la soluzione alproblema della guerra. Dal punto di vista logico, l'obiettivo finale non può che essere una federazione mondiale, ma essa è realizzabile solo nel lungo periodo. Parecchi, quindi, sostenevano la proposta di Clarence Streit per una federazione di quindici democrazie, Stati Uniti inclusi, per impedire una guerra provocata dall’Asse. Ma l’America isolazionista non era disponibile e nel 1939 i leader della scuola inglese si indirizzarono verso l’ipotesi di una federazione delle democrazie europee, in attesa dell’adesione degli Stati allora fascisti dopo il loro ritorno alla democrazia.  Questo fu naturalmente il punto di partenza per Albertini che, dopo il rifiuto del Regno Unito di partecipare alla Comunità europea, prefigurò, per cominciare, “una Federazione europea comprendente almeno i sei paesi che hanno preso la testa del processo di unificazione”, e poi la sua “estensione graduale a tutta l’Europa”[10]. Quando il Regno Unito entrò nella Comunità, egli aggiunse che “bisogna attendere che l’adesione alla Comunità dia i suoi frutti”[11]. Attendiamo ancora questi frutti – e speriamo bene!  Kenneth Wheare indicava “la somiglianza di istituzioni politiche” fra gli Stati membri come una condizione della formazione di una federazione[12]. Albertini fu più preciso, affermando che era necessaria, sia nella federazione che negli Stati membri, “l’attribuzione della sovranità al popolo nel quadro del regime rappresentativo, con la possibilità di sdoppiare la rappresentanza mediante la doppia cittadinanza di ogni elettore”[13]. Questa condizione è divenuta particolarmente rilevante per quanto riguarda le nuove democrazie candidate all’adesione all’Unione, e rimane un problema cruciale per la creazione di una federazione mondiale.    Perché la federazione.  Nel 1937 Lionel Robbins pubblicò il libro Economic Planning and International Order, analizzando le ragioni per le quali il quadro di una federazione internazionale era essenziale per il buon governo di un’economia internazionale. Nel 1939, in The Economic Causes of War, egli spiegò perché la causa della guerra non fosse il capitalismo, bensì la sovranità nazionale, e concluse con un appello appassionato per una Federazione europea[14]. Albertini ha ricordato che questi libri furono le più importanti fonti federalistiche per Spinelli, quando era al confino sull’isola di Ventotene[15].  Per la scuola inglese del dopoguerra, come per Robbins nel1939, la pace era lo scopo del federalismo. La pace era il “valore centrale” e “l’obiettivo supremo” del federalismo anche per Albertini[16], la complessità del cui pensiero era talvolta nascosta dalla semplicità delle sue formulazioni. Egli ha ricalcato il pensiero di Lord Lothian definendo la pace non come “il semplice fatto che la guerra non è in atto”, ma come “l’organizzazione di potere che trasforma i rapporti di forza fra gli Stati in rapporti giuridici veri e propri”[17]. A partire dal 1981, Albertini riconobbe che “con la lotta per l’unificazione europea si sono ottenute le prime forme di politica europea e la fine della rivalità militare fra i vecchi Stati nazionali dell’Europa occidentale”[18]. Cioè, per quanto riguarda i rapporti reciproci fra questi ultimi, l’obiettivo della pace era già stato raggiunto, mentre per alcuni Stati dell’Europa orientale, e soprattutto per il mondo intero, esso rimaneva l’obiettivo supremo.  Per i cittadini dell’attuale Unione, dunque, altri obiettivi sono diventati più importanti. Albertini ha citato dal Manifesto di Ventotene l’affermazione che la questione di chi controlla la pianificazione economica è la “questione centrale”[19] (lo stesso quesito che Robbins aveva proposto nel 1937), ma ha anche individuato altri valori essenziali del federalismo contemporaneo: la sicurezza ecologica[20], il rifiuto dell’egemonia (vedi le preoccupazioni di Carlo Cattaneo e dei Padri fondatori americani)[21] e la democrazia negli Stati nazionali, che la loro interdipendenza sta indebolendo sempre più[22]. Mi pare che questi costituiscano gli elementi per spiegare i valori federalisti ai cittadini dell’Unione europea di oggi. Per quanto riguarda alcuni Stati dell’Europa centrale e orientale, invece, e soprattutto per il federalismo mondiale, la pace rimane l’obiettivo di maggiore rilievo.    La Federazione mondiale.  Nel suo libro The Price of Peace, pubblicato nel 1945, William Beveridge spiegò che la sovranità nazionale è la causa della guerra, e la rinuncia ad essa in una federazione mondiale il metodo per abolirla[23]. Benché egli riconoscesse che questo obiettivo era lontano e che nel frattempo solo una confederazione sarebbe stata realizzabile, questo libro mi fece avvicinare al federalismo come risposta alla terribile esperienza della guerra. Dopo Hiroshima e Nagasaki, la federazione mondiale sembrava una necessità urgente a milioni di persone, di cui circa mezzo milione comprò Anatomy of Peace di Emery Reves[24].  Nacquero movimenti per la federazione mondiale, soprattutto nei paesi anglosassoni e in Giappone, leader politici come l’ex-primo ministro Clement Attlee ne diventarono sostenitori, e si sviluppò una letteratura mondialista. Ma il clima della Guerra fredda scoraggiò la maggior parte di coloro che caldeggiavano quell’obiettivo e il pensiero federalistico quasi lo abbandonò.  Albertini fu un’eccezione. Egli era più coerente, più tenace, più risoluto di altri nel confrontarsi con i fatti del potere e con le sue conseguenze. Per lui, “il rischio della distruzione del genere umano” legato alla bomba atomica era “assolutamente inaccettabile”[25]. Ma egli riconobbe, come Beveridge, che le condizioni per creare la Federazione mondiale non erano presenti e che la lotta per un’Assemblea costituente, fondamentale per la sua dottrina per quanto riguarda la Federazione europea, non era ancora praticabile. La sua strategia per il federalismo mondiale era dunque simile a quella dei federalisti anglosassoni: “il rafforzamento dell’ONU”, insieme ad altri “obiettivi intermedi” nel “processo di superamento degli Stati nazionali esclusivi”, processo che aveva “già raggiunto uno stadio molto avanzato” nella Comunità europea[26]. Tipica del suo pensiero federalistico era l’enfasi sui militanti federalisti, sulla necessità “di costruire… un’avanguardia politica mondiale” per la creazione di una Federazione mondiale[27].    Come creare la Federazione.  Albertini e la scuola inglese erano generalmente d’accordo sulla forma e sul perché della Federazione. Ma le loro idee erano diverse sul come crearla.  Gli inglesi cercavano di influenzare il loro governo, negli anni Trenta e Quaranta, perché adottasse una politica federalista per dare l’avvio ad una federazione, e in seguito per costruire elementi pre-federali nelle istituzioni e nelle competenze della Comunità. I principi fondamentali di Albertini erano invece l’Assemblea costituente e il fatto che i federalisti dovevano rimanere estranei alla lotta per il potere nazionale.  Spinelli ha scritto che nel periodo che va dal 1947 al 1954, egli aveva “lavorato sull’ipotesi che i principali ministri moderati si sarebbero accinti alla costruzione federale”[28]: un metodo assai simile a quello dei federalisti inglesi. Poi, dopo il fallimento, nel 1954, del progetto per una Comunità politica europea, egli avviò il Congresso del popolo europeo e lanciò la campagna per dar vita a un’Assemblea costituente attraverso “una protesta popolare crescente… diretta contro la legittimità stessa degli Stati nazionali”[29]. Quando diventò evidente a Spinelli che la campagna non aveva il successo da lui sperato, concepì la proposta che i federalisti acquisissero il potere in un numero crescente di municipi importanti, come base per una successiva campagna. Albertini non poteva accettare questa idea, che contraddiceva tutti i fondamentali principi federalisti, e il Movimento federalista europeo fu d’accordo con lui. Spinelli, infastidito, scrisse nel suo diario che per Albertini, “tentare di preparare l’evento (della lotta finale) era sporco opportunismo, occorreva preparare sé stessi all’evento”[30]. Spinelli era un politico geniale, capace di concepire e condurre campagne d’azione culminate nello straordinario successo della sua ultima battaglia, quella per il Progetto di Trattato per l’Unione europea al Parlamento europeo. Ma egli non restava all’interno di regole stabilite, e la sua tendenza ad iniziare successivi “nuovi corsi” e a impostare nuove strategie presentava troppe difficoltà per un Movimento come il MFE. Albertini era assolutamente convinto che bisogna rispettare certi principi fondamentali, che egli seguiva con una coerenza e una tenacia eccezionali. Queste caratteristiche furono cruciali per la sua posizione nella storia del pensiero federalistico, mettendolo in grado non solo di sviluppare la propria opera intellettuale, ma anche di fondare la scuola italiana del federalismo hamiltoniano.  Una differenza fra Albertini e gli inglesi era legata alla sua concezione del pensiero storico, basata sul metodo weberiano secondo il quale, nelle sue parole, “non ci sono conoscenze storiche senza quadri teorici di riferimento specifico per ordinare i fatti e completarne il significato (‘tipi ideali’)”, anche se “l’elaborazione teorica deve esser condotta solo sino al punto nel quale essa rende possibile la conoscenza storica e non oltre, perché al di là di questo punto essa si convertirebbe nella pretesa di sostituire la conoscenza storica… con la conoscenza teorica”[31]. Alla tradizione empirica inglese non manca la capacità di sviluppare teorie. L’evoluzione darwiniana e il liberalismo sono testimonianze di questo. Ma mi pare che nella tradizione weberiana lo sviluppo della teoria precede il suo adattamento ai fatti, e forse questo approccio fu una causa delle differenze fra Albertini e gli inglesi.    Lo sviluppo della Comunità europea e del pensiero di Albertini.  Benché gli inglesi abbiano sviluppato la loro democrazia attraverso un processo riformista, senza un’Assemblea costituente, l’idea di una tale Assemblea era ritenuta accettabile da molti. Nel 1948, Mackay, un importante federalista membro del Parlamento inglese, ottenne il sostegno di un terzo dei membri del Parlamento per una risoluzione che chiedeva un’Assemblea costituente europea[32]. Ma mentre per gli inglesi un processo riformista, a iniziare dalla CECA, sarebbe stato utile, il punto di partenza per Albertini, nel 1961, era soltanto “il conferimento del potere costituente al popolo europeo… o tutto o niente”; bisognava rifiutare “pseudostazioni intermedie… sino a che non si riusciva ad ottenere tutto il potere (ossia quello costituente)”; la soluzione della Comunità “ispirata dal cosiddetto ‘funzionalismo’ (la geniale idea di fare l’Europa a pezzettini…) era sbagliata” e le Comunità economiche erano “parole vuote”[33]. Ma da buon weberiano egli era disposto ad adattare la teoria ai fatti, e nel 1965 scrisse che la CECA aveva stabilito una “unità di fatto… così solida da poter sorreggere l’inizio di un processo vero e proprio di integrazione economica”, la quale “fu un fatto capitale per la vita dell’Europa”[34]. E un anno dopo scrisse che “l’integrazione europea è il processo di superamento della contraddizione tra la dimensione dei problemi e quella degli Stati nazionali”, cioè “i fatti dell’integrazione europea” minano i poteri nazionali esclusivi, “creando nel contempo, con l’unità di fatto, un potere europeo di fatto”, che i federalisti possono sfruttare politicamente[35]. Nello stesso saggio egli individuò il trasferimento del controllo dell’esercito, della moneta e di parte delle entrate dai governi nazionali a un governo europeo come elementi cruciali del trasferimento della sovranità[36]; e nel 1971, considerando la prospettiva delle elezioni dirette del Parlamento europeo, egli scrisse che una tale situazione “può essere considerata pre-costituzionale perché dove si manifesta l’intervento diretto dei partiti e dei cittadini si manifesta anche la tendenza alla formazione di un assetto costituzionale”[37]. E’ interessante, perfino commovente, osservare come, mentre gli inglesi, nella loro situazione diversa, trascuravano l’idea della Costituente, Albertini stava modificando la sua teoria alla luce dei fatti, cioè del successo crescente della Comunità europea. Questo lo ha condotto verso un contributo molto importante al pensiero federalistico: una sintesi dell’approccio di Spinelli e di quello di Monnet.    Verso una sintesi di spinellismo e monnetismo.  Le sue idee sulla moneta forniscono un altro esempio dello sviluppo del suo pensiero. Nel 1968 egli scrisse che “non c’è mercato comune senza moneta comune, e moneta comune senza governo comune, dunque il punto di partenza è il governo comune”[38]. Ma quattro anni più tardi egli affermò che l’Unione monetaria avrebbe potuto “spingere le forze politiche su un piano inclinato” perché, impegnando qualcuno per qualcosa che implica il potere politico, può accadere che finisca “per trovarsi, suo malgrado, nella necessità di crearlo”. Sul terreno monetario, sarebbero stati possibili “dei passi avanti di natura istituzionale, tangibile, europea, ad esempio nella direzione indicata da Triffin”, cioè un sistema europeo di riserve, che sarebbe stato scambiato dalla classe politica “per una tappa sulla via della creazione di una moneta europea”; e si poteva prevedere, dunque, “un punto scivoloso verso una situazione che si potrebbe chiamare di ‘Costituente strisciante’ “[39].  Albertini stava “preparando l’evento”, anche se non nel modo approvato da Spinelli, il cui progetto era allora diverso e che scrisse nel suo diario che Albertini aveva ridotto il MFE in “sciocchi seguaci di Werner”[40], nel cui Rapporto erano indicate le tappe verso l’Unione economico-monetaria. Ma la riconciliazione fra i due non era lontana, grazie alle imminenti elezioni dirette del Parlamento europeo e al grande Progetto di Trattato per l’Unione europea elaborato da Spinelli.  Già nel 1973 Albertini, nella sua analisi dell’Unione monetaria, aveva individuato le elezioni dirette come punto decisivo “perché riguarda la fonte stessa della formazione della volontà pubblica democratica”[41]. Le elezioni del Parlamento europeo sarebbero state una delle chiavi, dunque, insieme alla moneta e all’esercito, per il trasferimento della sovranità. Nel 1976, il Consiglio europeo decise le elezioni e Spinelli si imbarcò nel suo quinto e ultimo nuovo corso[42]. Albertini osservò che era “iniziata la fase politica – per definizione costituente – del processo di integrazione europea”, e concluse che la Comunità sarebbe stata la base della Federazione europea, attraverso “singoli atti costituenti che rafforzano il grado costituente del processo rendendo possibili ulteriori atti costituenti e così via”, e che “solo con una prima forma di Stato europeo (da istituire con un atto costituente ad hoc) si può avviare il processo di formazione dello Stato europeo per così dire definitivo”: cioè bisogna accettare “il paradosso di ‘fare uno Stato per fare lo Stato’”. Egli rese esplicito il ruolo della Comunità in questo processo, nella “costruzione graduale, e via via pari al grado di unione raggiunto, di un apparato politico e amministrativo europeo”: un processo che “si può in teoria considerare finito solo quando lo Stato iniziale europeo (con sovranità monetaria, ma non in materia di difesa), si sia trasformato nello Stato europeo definitivo, con tutte le competenze necessarie per l’azione di un governo federale normale”[43].  Il cammino weberiano di Albertini conduceva, dunque, verso una sintesi feconda fra lo spinellismo e il monnetismo attraverso “l’idea di sfruttare le possibilità del funzionalismo per giungere al costituzionalismo”, perché “l’unificazione europea è un processo di integrazione… strettamente collegato con un processo di costruzione degli elementi istituzionali a volta a volta indispensabili…”[44]. Egli era pronto per spiegare in termini teorici l’ultima opera di Spinelli, cioè il Progetto di Trattato per l’Unione europea del Parlamento europeo.    Dal progetto di Trattato alla Convenzione di Laeken.  Albertini riteneva che il progetto fosse realistico, perché proponeva “il minimo istituzionale indispensabile per fondare le decisioni europee sul consenso dei cittadini”. Il “pregio maggiore del progetto” stava nel fatto che “affidava al Parlamento a) il potere legislativo”, detto oggi codecisione, in modo che “l’attuale Consiglio dei Ministri… per questo rispetto, funzionerebbe come un Senato federale”, e “b) il potere che risulta dal controllo parlamentare della Commissione, che comincerebbe ad assumere la forma di un governo europeo”. Il progetto era “ragionevole”, perché “solo quando l’Unione avrà dimostrato di saper funzionare bene, sarà possibile disporre della grande maggioranza necessaria per attribuire all’Unione la sovranità anche in materia di politica estera e di difesa”[45]. Esso conteneva, dunque, l’idea accennata prima di “fare uno Stato per fare lo Stato”.  Il genio politico di Spinelli, manifestato nel progetto di Trattato, non solo ha favorito la riconciliazione fra lui e Albertini, ma ha anche portato a un esito concreto un elemento molto importante del pensiero federalistico di Albertini, cioè la relazione fra l’azione politica e la filosofia di Monnet e di Spinelli. E’ tragico che Spinelli sia morto credendo che il progetto fosse fallito perché l’Atto unico era un “topolino morto”. Albertini è invece sopravvissuto finché si sono manifestate conseguenze veramente significative. In un documento pubblicato sull’Unità europea del dicembre 1990, egli ha potuto affermare che, “salvo catastrofi”, il potere di fare la politica monetaria sarebbe stato trasferito al livello europeo, e che dunque bisognava adeguare il meccanismo decisionale, “facendo funzionare la Comunità come una federazione nella sfera dove un potere europeo, in prospettiva, c’è già (quello economico-monetario con le sue implicazioni internazionali); e come una confederazione nella sfera nella quale un potere di questo genere non c’è e non ci sarà per un tempo indefinito (difesa)”. Il “Trattato-costituzione” del Parlamento – prosegue il documento – porterà ad una “evoluzione naturale delle istituzioni (il Consiglio europeo come presidente collegiale della Comunità o Unione, il Consiglio dei Ministri come Camera degli Stati, la Commissione come governo responsabile di fronte al Parlamento europeo, il Parlamento europeo come istanza di controllo democratico dell’attività dell’Unione e come detentore, insieme al Consiglio, del potere legislativo)”[46].  Si può registrare un progresso significativo di questa “evoluzione naturale” negli anni Novanta. Il voto a maggioranza qualificata è già applicabile nel Consiglio all’80% degli atti legislativi; il Parlamento ha un diritto di codecisione per più della metà degli atti legislativi e per il bilancio; la responsabilità della Commissione di fronte al Parlamento è stata clamorosamente dimostrata. La Comunità non funziona ancora “come una federazione nella sfera dove un potere europeo c’è già”, cioè in quella economica e monetaria; ma la Convenzione di Laeken apre la porta al compimento del processo.  La questione non è più se ci sarà un documento chiamato costituzione. Questo ora appare accettabile, oltre che per gli altri governi, anche per quello britannico. La questione cruciale è se le istituzioni saranno veramente federali, completando l’evoluzione prevista da Albertini, compresa la codecisione e il voto a maggioranza per tutte le decisioni legislative, insieme alla piena responsabilità della Commissione come governo di fronte al Parlamento.  La lotta federalista non è divenuta meno ardua, perché i sostenitori della dottrina intergovernativa includono, a quanto pare, non solo i governi britannico, danese e svedese, ma anche quello francese, e persino quello italiano. Bisogna persuadere i cittadini, le classi politiche, e infine i governi, che una costituzione basata sul principio della cooperazione intergovernativa sarebbe sia inefficace che antidemocratica. Grazie all’opera di Spinelli e di Albertini, e ai contributi di tanti altri, il MFE è senz’altro pronto a far fronte a questa sfida, in particolare per quanto riguarda i cittadini, la classe politica e soprattutto il governo italiano.    Albertini e la sua collocazione nella storia del pensiero federalistico.  Spero di avere dato qualche indicazione del ricco, ampio, profondo e colto contributo di Mario Albertini al pensiero federalista della sua epoca.  Forse è stata la scelta soggettiva di un federalista britannico l’aver sottolineato l’importanza particolare, per la storia di questo pensiero, della sintesi fatta da Albertini degli approcci dei due geniali federalisti della seconda metà del Novecento: Jean Monnet e Altiero Spinelli.  Oltre che con le sue opere, egli ha dato un contributo al pensiero federalista come fondatore della scuola moderna italiana. Al tempo stesso, dopo che Spinelli ha fondato, ispirato e guidato il MFE con un carisma eccezionale, Albertini ha creato e sostenuto il Movimento che è stato capace di organizzare la grande manifestazione di Milano, con la partecipazione di circa mezzo milione di persone, nel giugno del 1984, per chiedere al Consiglio europeo di sostenere il Progetto di Trattato di Spinelli; e, cinque anni dopo, di ottenere il consenso dell’88% dei votanti nel referendum italiano su un mandato costituente per il Parlamento europeo. Come e perché un solo uomo ha fatto tutte queste cose diverse? Forse l’impressione di un osservatore esterno potrebbe interessarvi.  Albertini nei suoi scritti ha messo in evidenza sia la ragione, sia la volontà[47]. Egli era orientato da entrambe e operava sulla base di entrambe, con enfasi sulla ragione per la sua opera intellettuale, e sulla volontà come Presidente del Movimento; e metteva entrambe al servizio della sua fede profonda nel federalismo come priorità essenziale per il benessere e per la sopravvivenza stessa del genere umano. Egli espresse questo atteggiamento in un modo non molto conosciuto fuori del MFE, sottolineando che servono “delle persone che fanno della contraddizione tra i fatti e i valori una questione personale”, in un contesto nel quale “il distacco tra ciò che è, e ciò che deve essere, è enorme”[48].  Albertini dedicò la sua vita all’impegno per risolvere questa contraddizione e aveva la capacità di persuadere altri a fare lo stesso. Egli era un oratore ispirato e, benché i suoi scritti fossero talvolta complicati, era anche capace di formulare concetti in modo semplice e appassionato, come quando ha scritto che “la federazione… ha realizzato istituzioni molto sagge, capaci di trasmettere a molte generazioni una forte esperienza di diversità nell’unità, di libertà, di pace”; che “soltanto la politica e solo nel massimo della sua espressione, può risolvere i problemi delle relazioni internazionali”; e inoltre che serve l’avanguardia mondiale “per il grande compito mondiale della costruzione della pace”[49].  La sua capacità di ispirare gli altri era basata sulla sua fede nel valore di ciascuno, nella fiducia che ogni persona avesse sia la capacità che la responsabilità di dare il proprio contributo[50]. Le sue idee sugli apporti di diverse persone e organizzazioni sono state una parte del suo contributo al pensiero federalista. C’era posto per quelli che accettavano passivamente il federalismo e per i leader occasionali. Ma la sua predilezione era per il nucleo duro dei militanti, la cui opera in particolare era basata sulla percezione della contraddizione tra fatti e valori. Egli trasmise un messaggio speciale agli intellettuali, ai quali ricordò la necessità dell’ “uscita nel campo aperto degli uomini di cultura per completare la politica come arte del possibile – la politica in senso stretto – con la politica in senso largo, cioè l’arte di far diventare possibile ciò che non lo è ancora”[51]. Per questi – per voi – l’enfasi era sulla volontà come sulla ragione.  Nel maggio del 1956 Spinelli scrisse nel suo diario: “Ho lanciato ad Albertini l’idea di costituire un ‘ordine federalista europeo’. Che sia questa una buona idea?”[52]. Spinelli era un grande innovatore, con notevole capacità di intuizione. Albertini aveva le caratteristiche per realizzare quell’idea: sincerità, integrità, coraggio, coerenza, devozione. Mi pare che egli abbia davvero creato una specie di ordine federalista.  La sua opera era un processo continuo di costruzione; e ora voi, i suoi colleghi e amici, avete la responsabilità di proseguirla senza di lui, considerandolo non come un monumento di erudizione e di impegno eccezionale ma come una tradizione vivente che voi dovete continuare a sviluppare.  Quanto a me, benché non sia d’accordo con tutte le sue idee, ho un tale apprezzamento per la sua opera e una tale convinzione della sua importanza che sto lavorando, con l’aiuto dell’Istituto Altiero Spinelli, su un’antologia in lingua inglese dei suoi saggi, perché queste idee siano meglio conosciute dal pubblico dei lettori che leggono, non l’italiano, ma la lingua che Albertini designò, nel primo numero del Federalistapubblicato anche in inglese, come la lingua universale necessaria nella sfera politica[53]. Spero che questa antologia non solo sarà utile per i federalisti non italiani, ma favorirà anche un giusto riconoscimento del contributo di Albertini nella storia del pensiero federalista[54].  E’ con grande piacere, in conclusione, che esprimo la mia ammirazione e gratitudine per la vita di Mario Albertini, e per la sua devozione esemplare alla nostra causa suprema del federalismo. Nelle parole incomparabili di Shakespeare: “He was a man, take him for all in all, (we) shall not look upon his like again”.     * Si tratta dell’intervento al convegno di studi organizzato l’8 aprile 2002 dalle Università di Milano e di Pavia e dal Movimento federalista europeo sulla figura di studioso e di militante di Mario Albertini a cinque anni dalla sua scomparsa.  [1] Cfr. Mario Albertini, L’unificazione europea e il potere costituente (1986), in Nazionalismo e Federalismo, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 302, 304. (Molti degli scritti di Albertini sono stati ripubblicati, con l’indicazione delle rispettive fonti, in due antologie: Nazionalismo e Federalismo e Una rivoluzione pacifica. Dalle nazioni all’Europa, da cui sono state tratte le citazioni. Si è posta tra parentesi, dopo il titolo, la data del saggio originale per aiutare i lettori a valutare il contesto e tracciare cronologicamente lo sviluppo del suo pensiero).  [2] Mario Albertini, Il Risorgimento e l’unità europea (1961), in Lo Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 184.  [3] Mario Albertini, La Federazione (1963) e Le radici storiche e culturali del federalismo europeo(1973), in Nazionalismo e Federalismo, cit., pp. 99, 114, 128.  [4] Mario Albertini, La Federazione, ibidem.  [5] Mario Albertini, Moneta europea e unione politica (1990), in Id., Una rivoluzione pacifica. Dalle Nazioni all’Europa, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 323.  [6] Mario Albertini, Lo Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1997, ristampa delle edizioni precedenti del 1960 e del 1980.  [7] Mario Albertini, La nazione, il feticcio ideologico del nostro tempo (1960), in Id., Nazionalismo e Federalismo, cit., p. 22.  [8] Mario Albertini, Le radici storiche (1973), op. cit., pp. 126-7; Id., L’integrazione europea, elementi per un inquadramento storico (1965), in Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit., p. 235; Id., Qu’est-ce que le fédéralisme? Recueil des textes choisis et annotés, Parigi, Société Européenne d’Etudes et d’Informations, 1963, p. 32.  [9] Mario Albertini, Per un uso controllato della terminologia nazionale e supernazionale (1961), in Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit., p. 30.  [10] Mario Albertini, La strategia della lotta per l’Europa (1966), in Id., Una rivoluzione pacifica, op. cit., p. 59.  [11] Mario Albertini, Il problema monetario e il problema politico europeo (1973), in Id., Una rivoluzione pacifica, op. cit., p. 185.  [12] Kenneth C. Wheare, Federal Government, Londra, Oxford University Press, 1951 (prima edizione 1946), p. 37; in italiano in Kenneth C. Wheare, Del governo federale, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 92.  [13] Mario Albertini, L’unificazione europea e il potere costituente (1986), in Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit., p. 296.  [14] Lionel Robbins, Economic Planning and International Order, Londra, Macmillan, 1937, e Id., The Economic Causes of War, Londra, Jonathan Cape, 1939; alcuni capitoli di ambedue in italiano in Lionel Robbins, Il federalismo e l’ordine economico internazionale, Bologna, Il Mulino, 1985.  [15] Cfr. Mario Albertini, L’unificazione europea(1986), op. cit., p. 302. Cfr. anche John Pinder (a cura di), Altiero Spinelli and the British Federalists: Writings by Beveridge, Robbins and Spinelli 1937-1943, Londra, Federal Trust, 1998, p. 46.  [16] Mario Albertini, Qu’est-ce que le fédéralisme? (1963), op. cit., p. 32; Id., Cultura della pace e cultura della guerra (1984), in Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit., p. 151.  [17] Mario Albertini, Le radici storiche (1984), op. cit., p. 114; Lord Lothian, Pacifism is not Enough (1935), ristampato in John Pinder e Andrea Bosco (a cura di), Pacifism is not Enough: Collected Lectures and Speeches of Lord Lothian(Philip Kerr), Londra, Lothian Foundation Press, 1990, p. 221. In italiano: Lord Lothian, Il pacifismo non basta, Bologna, Il Mulino, 1986.  [18] Mario Albetini, La pace come obiettivo supremo della lotta politica (1981), in Id. Nazionalismo e Federalismo, op. cit., p. 185.  [19] Mario Albertini, L’unificazione europea(1986), op. cit., p. 304.  [20] Mario Albertini, Cultura della pace e cultura della guerra (1984), op. cit., p. 161.  [21] Mario Albertini, Le radici storiche (1973), op. cit., p. 140.  [22] Mario Albertini, La strategia (1966), op. cit., pp. 63-4.  [23]William Beveridge, The Price of Peace, Londra, Pilot Press, 1945.  [24]Emery Reves, The Anatomy of Peace, New York, Harper, 1945; in italiano: Anatomia della pace, Bologna, Il Mulino, 1990.  [25] Mario Albertini, La pace come obiettivo supremo (1981), op. cit., p. 184.  [26] Mario Albertini, Verso un governo mondiale(1984), in Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit., pp. 203-4.  [27] Mario Albertini, Verso un governo mondiale, op. cit., p. 207.  [28] Altiero Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio. La goccia e la roccia, a cura di Edmondo Paolini, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 18.  [29] Loc. cit.  [30] Altiero Spinelli, Diario europeo, I, 1948-1969, a cura di Edmondo Paolini, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 417.  [31] Mario Albertini, L’unificazione europea e il potere costituente (1986), op. cit., pp. 293-4.  [32] Cfr. John Pinder, “Manifesta la verità ai potenti”: i federalisti britannici e l’establishment, in AA.VV., I movimenti per l’unità europea 1945-1954, a cura di Sergio Pistone, Milano, Jaca Book, 1992, p. 125.  [33] Mario Albertini, Quattro banalità e una conclusione sul Vertice europeo (1961), in Id., Nazionalismo e federalismo, op. cit., pp. 226, 228, 229, 232 n. 7.  [34] Mario Albertini, L’integrazione europea(1965), op. cit., pp. 249-50.  [35] Mario Albertini, La strategia (1966), op. cit., pp. 69, 71.  [36] Ibidem, pp. 66-7.  [37] Mario Albertini, Il Parlamento europeo. Profilo storico, giuridico e politico (1971), in Id., Una rivoluzione pacifica, op. cit., p. 216.  [38] Mario Albertini, L’aspetto di potere della programmazione europea (1968), Id., in Nazionalismo e Federalismo, op. cit., p. 262.  [39] Mario Albertini, Il problema monetario(1973), op. cit., pp. 184, 187, 191.  [40] Altiero Spinelli, Diario europeo, III, 1976-1986, p. 186.  [41] Mario Albertini, Il problema monetario(1973), op. cit., p. 192.  [42] Altiero Spinelli, La goccia e la roccia, op. cit., p. 18.  [43] Mario Albertini, Elezione europea, governo europeo e Stato europeo (1976), in Id., Una rivoluzione pacifica, op. cit., pp. 223, 225, 226.  [44] Mario Albertini, L’Europa sulla soglia dell’unione (1985), in Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit., pp. 274, 276.  [45] Ibidem, pp. 283-5.  [46] Moneta europea e unione politica. Un documento del Presidente Albertini in vista del Consiglio europeo di dicembre, in L’Unità europea, n. 202 (dicembre 1990), p. 20.  [47] Per esempio in Mario Albertini, Verso un governo mondiale (1984), op. cit., p. 205.  [48] Mario Albertini, La strategia (1966), op. cit., p. 72; Id., Le radici storiche (1973), op. cit., p. 136.  [49] Mario Albertini, La federazione (1963), op. cit., p. 100; Id., L’integrazione europea (1965), op. cit., p. 252; Id., Verso un governo mondiale(1984), op. cit., p. 207.  [50] Mario Albertini, La strategia (1966), op. cit., p. 59.  [51] Mario Albertini, Il Parlamento europeo(1971), op. cit., p. 204.  [52] Altiero Spinelli, Diario europeo, I, 1948-1969, op. cit., p. 297.  [53] Mario Albertini, un governo mondiale(1984), op. cit., p. 202.  [54] Non ho menzionato finora nessuno fra i federalisti italiani viventi, perché non sarebbe giusto individuare alcuni fra i tanti che hanno fatto cose importanti per il federalismo contemporaneo. Ma in questo contesto sarebbe del tutto ingiusto non menzionare il mio debito nei confronti di un federalista della nuova generazione che ha avanzato la proposta dell’antologia, per cui ha fatto una selezione di saggi (materiale eccellente anche per la preparazione di questo mio articolo), cioè Roberto Castaldi, che ha preso questa iniziativa quando studiava per la sua tesi di master sull’opera di Albertini all’Università di Reading. Mario Albertini. Albertini. Keywords: federale, italia federale, politica federalista, filosofia federalista, stato italiano, gli stati uniti d’America sono una repubblica federale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Albertini” – The Swimming-Pool Library.

 

Alderotti (Firenze). Filosofo. Grice: “I like Alderotti; but then his favourite treatise was Aristotle’s little thing to his son, Niccomaco – which Hardie instilled on me like a leech!” “Alderotti was what we would call a Florentine-Bologne-oriented Aristotelian; he thought, with Aristotle, that the heart trumps the head --  Grice: “What I like most about lderotti is his archiginnasio – no such thing at Oxford! So, as Speranza says in “Colloquenza all’archiginnasio,” Alderotti knew what he was doing, even if his pupils did not!”Scienziato e filosofo erudito, scrisse per l'amico e protettore Donati, uno dei primi testi di medicina in lingua volgare, il Della conservazione della salute. Il più conosciuto medico del Medioevo, tanto da meritarsi una citazione nel XII canto del Paradiso – v. 83 -- di Dante, insegna a Bologna, applicando, durante le sue lezioni di medicina, un innovativo metodo scolastico. Iniziava la lezione con una lectio o expositio di un passo tratto da un testo autorevole (di Ippocrate, Galeno, ecc.). Procede poi per quaestiones con riferimento alle quattro cause aristoteliche. La causa materiale (la materia della trattazione), la causa formale (la sua forma espositiva), la causa efficiente (l'autore dell'opera),  lacausa finale (il fine o lo scopo dell'argomento prescelto). A questo punto il maestro formula una serie di dubia, cui facevano seguito i momenti euristici della disputatio ed, infine, della solutio. Alighieri lo cita in modo dispregiativo nel Convivio (I, x 10): “Temendo che 'l volgare non fosse stato posto per alcuno che l'avesse laido fatto parere, come fece quelli che transmuta lo latino de l'etica ciò e Alderotti ipocratista provide. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere. Tra i primi volgarizzatori toscani è maestro Taddeo, il famoso medico fiorentino, pubblico professore di medicina nell'Università di Bologna, uno dei personaggi più notevoli del suo tempo ; egli è pure il primo traduttore italico della morale a Nicomaco , che volgarizzata entra oramai a far parte della cultura generale. Di traduzioni della Nicoma chea,c'eran ledue greco-latinedell'Ethica uetus edell'Ethi ca noua,frammentarie,e quella del liber Ethicorum com pletaletterale;ma ilvolgarizzatorenon poteacertamente servirsi di un testo incompleto o di traduzioni letterali che avrebbero evidentemente lasciato Aristotele oscurissimo nel volgare come lo era nell'originale greco e nelle traduzioni latine. C'erano le traduzioni arabe : quella del commentario di Averroe ; ma come si sarebbe potuto presentare per la primavoltaa'laici,incapacidicomprendereunvastosi stema filosofico, Aristotele con tutto il bagaglio delle sue dottrine logiche e metafisiche che servono di base all'Etica ? Restava il compendio alessandrino-arabo , e questo difatti ammesso alla facile diffusione del volgare divenne il testo morale aristotelico di moda più recente (1). Al principio della seconda metà del decimoterzo secolo maestro Taddeo ridusse in volgare toscano ilcompendio ales sandrino-arabo della morale a Nicomaco ; poco più tardi (1)Ho in un lavoro precedente trattato dell'Etica volgare e fran cese ; a quel lavoro modesto richiamo il lettore il quale , trattandosi di una questione già molto controversa,voglia con sicurezza accogliere le nostre conclusioni; giacchè ora alle conclusioni sono costretto dalle necessità e dall'economia dell'argomento. (C. MARCHESI, Il Compendio volgare dell'Etica Aristotelica e le fonti del VI libro del Tresor in Giorn. Stor.della lett.it.,vol.XLII,pp.1-74).  116 IL COMPENDIO ALESSANDRINO -ARABO   IL COMPENDIO ALESSANDRINO-ARABO 117 Brunetto Latini , nella seconda parte del Tresor accolse il volgare di Taddeo,modificato secondo il testo originale la tino ch'ei conobbe e a cui portò contributo di novissime m e ditazioni. Sicché tra i due compendi è una notevole diffe renza : una differenza che va tutta a favore di ser Bru netto il quale ebbe il vantaggio di lavorar dopo in un secolo in cui, per quella energia naturale delle letterature novelle, si progrediva assai rapidamente nel gusto e nella cultura . La traduzione di Taddeo in gran parte fedele al conte nuto, nella forma è condotta con una notevole indipendenza rispetto alla frase latina, e non di rado si vede la sicurezza ch'è nell'intendimento del traduttore e la buona conoscenza ch'egli ha del linguaggio filosofico: spesso compendia lam a teria, d'altra parte allarga tante volte la frase o ilconcetto e diluisce nel volgare il testo latino per bisogno di ripeti zioni e di esempi o di ampliamenti, servendosi, come fa in principio,di qualche altro rifacimento,e aggiungendo dichia razioni proprie. Taddeo non è un traduttore letterale che si preoccupi dalla frase e voglia mantenersi fedele alla pa- ! rola o al tenore dell'esposizione; egli è solo un interprete occupato del contenuto che pur vuole spesso acconciare dal lato espositivo nella maniera più rispondente,secondo lui,a'bisogni della chiarezza e della semplicità. General mente palesa una certa libertà nel compendiare e nel ren dere il concetto con espressioni diverse dall'originale,come quando per es.traduce uita scientiae et sapientiae con uita contemplatiua ; delle parti più confuse e difficili a inten dersi fa una parafrasi invertendo anche l'ordine delle idee e disponendole in maniera più agevole per la intelligenza finale, seguito in questo naturalmente da Brunetto. Ecco un esempio :    118 IL COMPENDIO ALESSANDRINO -ARABO Rerum quedam sunt co gniteapudnosetquedam sunt cognite apud natu ram .Oportet ergo ut a m a tor scientie ciuilis promtus sit ad res eximias et sciat opiniones rectas. Opinio nes autem recte sunt ut in arte ciuili incipiatur a re bus apud nos cognitis,et in consuetudinibus pulcris et honestis facta sit assuetu do,principium enim estet inceptio a qua res est. Ex manifesto existente suffi cienter quia res est,non indigeturpropterquid res est. Indiget autem homo ad promtitudinem habita tionis veritatis rerum bo narum aut aptitudine bone instrumentalitatis ex qua sciat uerum ,aut forma per quam accipiantur princi piarerumabeofacile.Qui za. uero neutram babuerit h a rum aptitudinum audiat sermonem Homeri (corr. Hesiodi)poete ubi dicit: quidem bonus est,hicau tem aptus ut bonus fiat. Qualche volta invece il concetto è più largamente defi nito per l'aggiunta di qualche breve dichiarazione che serve a chiarirne il contenuto e a precisarlo di più rispetto alle considerazioni precedenti; cosi il testo dice che l'uomo ri fugge dai luoghi solitarî o deserti o ermi,e Taddeo aggiunge: «perchè l'uomo naturalmente ama compagnia »; altrove è detto che beatitudine è cosa completa che non abbisogna  Sono cose lequali sono manifeste alla natura,e sono cose lequalisonomani feste a noi ; onde in questa scienza si dee cominciare dalle cose lequali sono manifeste a noi.L'uomoloqua lesideestudiarein questa scienza ed apprendere, si dee ausare nelle cose buone e giuste e oneste ; onde gli conviene avere l'a nima sua natural mente disposta a quella scienza : m a quello uomo che non hae neuna di queste cose,è inu tile a questa scien Iliachosesquisont connues å nature et sont choses qui sont conneues à nos ; par quoinosdevonsence ste science commen cier as choses qui sont conneues à nos,car qui se vuet estudier å savoir ceste science, il doit user des choses justes,droites et bon nes et honestes,où il li covient avoir l'ame natu raument ordenée à ceste science : mais cil qui n'a ne l'un ne l'autre regarde à cequeHomerusdist: Se li premiers est bons,liautresestap pareilliezàestrebons: mais qui de soi ne set neant, et qui n'aprent de ce que hom li en seigne,ilestdoutout mescheanz.   IL COMPENDIO ALESSANDRINO-ARABO 119 d'altra cosa ; e Taddeo chiarisce « di fuori da sè ,. Altre aggiunte , come quelle di aggettivi, tendono solo ad accre scere l'efficacia del concetto ; d'altra parte ilvolgarizzatore coordina spesso le frasi sciolte e le considerazioni staccate dell'originale latino nella continuata semplicità di un solo periodo. Brunetto riempie le lacune : molte espressioni trascu rate da Taddeo o tralasciate a dirittura per difficoltà d'in tendimento sono supplite nel Tresor ; per es. il testo fa una triplice divisione delle arti: « quedam habent se habitu dine generum et quedam habitudine specierum et quedam habitudine individuorum»:Taddeo omette quest'ultima ca tegoria delle arti,notando solo le generali e le particolari; Brunetto, traducendo anche con finezza letterale ed etimo logica,completa «et aucunes sont sanz deuision ».Altrove sono interi brani del tutto omessi nel volgare che Brunetto restituisce alla esposizione del compendio aristotelico. Dia mone un esempio. Arsciuilisnonpertinet La scienza da La science de cité go pueronequeprosecuto- reggerelacittade ridesideriiatqueuicto- non conviene a fantneàhomequivueille rie,eoquodamboigna- garzonenèauo mais Taddeo non vide nel compendio alessandrino il legame tra le due considerazioni,e omise l'ultima;difatti il com pendiatore o il traduttore latino butta giù una frase fuor di senso che non ha rapporto alcuno con l'originale; Aristotele dice:«non è acconcio l'uditore giovane perchè èinesperto delle azioni che riguardano la vita, e i discorsi della nostra verner ne afiert pas à en  1 risuntrerum seculi, mocheseguitile cequeanduisontnonsa neque proficit ipsis. Non son ensuirre sa volonté, por tem . que ilse torne me, enim intenuit ars ista scientiam sed conuersio . nem hominis ad bonita- suevolontadi,pe- chant des choses dou sie rò che non cle : car ceste ars ne qui savi nelle cose del ert pas la science de l'o secolo. à bonté.   120 IL COMPENDIO ALESSANDRINO -ARABO scienza da queste si tolgono e intorno a queste si aggirano (οι λόγοι δ'εκ τούτων και περί τούτων). Non pero tutte lelacune sono supplite da Brunetto : la omissione di qualche concetto importante nel volgare e nel francese , è giustificata dal fatto ch'esso si trova altre volte particolarmente espresso e dalla facilità di richiamarlo alla mente nei luoghi ov'esso è ripetuto ; cosi avviene per il principio più volte enunciato della eccellenza del bene voluto per sé , rispetto al bene voluto per altro. Brunetto elimina pure qualche ridondanza del volgare ; cosi « ars directiua ciuitatum , che Taddeo traduce «l'arte civile la quale insegna reggere la cittade » 1 è resa nel Tresor « l'art qui enseigne la cité à governer »; altre volte invece la espressione è più estesa in Brunetto , come quando traduce con «principaus et dame et soverai n e » il semplice « princeps » riferito all'arte civile, mentre più sicuro intendimento dell'espressione : dice il testo che la beatitudine , come l'uomo che dorme, non manifesta al cuna virtù quando l'uomo la possiede in abito e non in atto , e Brunetto aggiunge « ce est à dire quant il porroit bienfaireetilnelefaitmie»;epocoprimaalladefini zione della potenza razionale ch'è più degna quando si è in atto, aggiunge « chè il bene non è bene se non è fatto (car se il ne le fait, il n'est mie bons)».Talune espressioni proprie del traduttore francese vanno oltre i bisogni della chiarezza e la necessità dell'intendimento ; laddove il testo latino dice del bene dell'anima ch'è il più degno di tutti, Brunetto inserendo il concetto della divinità mette di suo la ragione « car ci est li biens de Dieu » , evidentemente per il bisogno di ribadire il principio che pone in dio il sommo bene e di asservire il trattato aristotelico alle idea  il volgare dice solo « principale e sovrana ». L'aggiunta * comunemente è fatta per maggiore precisione e per un   IL COMPENDIO ALESSANDRINO-ARABO 121 c o n « colui che sta nel travito » ; il francese si riconduce all'esatta interpretazione « li sages cham pions et fors ». Nello sfrondare le ridondanze del volgare e nel ridurre la materia alle proporzioni dell'originale la tino,Brunetto non sempre riesce a cogliere l'esatto inten dimento della parola , e riducendo smarrisce l'idea che vi èracchiusa;ilt.ha«quemadmodum peritiagonistaeatque « robusti coronantur quidem et accipiunt palmam apud actum agonisetuictorie»;Taddeo traduceaėsomigliantedi quello che sta nel travito a combattere ; chè solamente quelli che combatte et vince , quelli å la corona della vittoria », e fa vera illustrazione della frase finale «e se alcuno uomo sia più forte di colui che vince, non à perciò la corona , perch'egli sia più forte, s'egli non combatte, avvegna che egli abbia la potenzia di vincere >; Brunetto si ferma alla prima parte « si comme li sages champions et fors qui se combatetvaintemportelacoronedevictoire trascurando il significato particolare dell’apud che qui sta per post. Pure nellaintelligenza della parola latinailtestofran cese è generalmente più fine del volgare (1), nel quale tal volta si trova sconvolto l'ordine delle frasi e delle idee , (1)Un esempio:t.difficile:Tadd.impossibile,Brunet.dure chose; t. in omnibus artificibus, T. nelle cose artificiali, B. choses de mestier et de art.  lità contemporanee della fede. Generalmente Brunetto ha m a g g i o r i r i g u a r d i p e r il t e s t o , p e r c i ò c h e r i g u a r d a i c o n cetti semplici e le singole espressioni. Cosi egli corregge la frase talvolta malamente resa o ingiustamente compendiata e confusa da Taddeo . Questi si restringe talora a molto s e m plice espressione, impropria, che mal si adatta al concetto latino,come quando traduce « periti agonistae atque ro busti >   122 IL COMPENDIO ALESSANDRINO -ARABO per deviazione dal retto intendimento del latino. Riporto un brano . Brun.car il estdure chose que Taddeo traduce la seconda parte del periodo: ut pote. come se fosse esplicazione del concetto già espresso : opera decora exerceat; Brunetto la riferisce invece al precedente : absque materia.Nel volgare italicoetalvoltaanche,inma niera alquanto diversa , nel francese l'espressione latina è modificataquando apparisca troppo cruda.Infinedel compen dio aristotelico si parla di uomini che non si possono correg gere con parole, per cui occorre « assiduatio uerberum t a m quam in bestia »;Taddeo traduce vagamente «pena »; Brunetto è più civile ancora « menaces de torment ». Il volgarizzatore francese tende spesso,più che il medico fio |rentino, a modificare quelle che a lui sembrano asperità di giudizio o durezze d'espressione. Così,nello stesso brano, de'delinquenti per natura,di coloro che non possono cor reggersi con parole nė percastighi,diceilt.«tollendisunt de medio»,eTaddeoletteralmente«sondatorredimezzo »; Brunetto è meno severo «tel home doivent estre chastié si que il ne demourent avec autres gens ». È un riscontro ca suale; ma sinotiad ogni modo come l'urbanità dell'espres sione francese e la temperanza cortese di giudizio pare si accordi coi principî positivi di un diritto criminale molto recente ! E Brunetto si accorda talvolta con Taddeo nel m o  T. difficile est enim Tadd . perciò che non homini ut opera decora è possibile all'uomo exerceat absque mate ch'egli faccia belle o riautpotequodha pereech'egliabbia beatpartemcompeten arte la quale si con tem rerum bone uite pertinentiumetcopiam eabbondanzad'amici familieetparentumet ediparenti,eprospe prosperitatemfortune. rità di ventura sanza venga a buona vita, li beni di fuori. ne ... 5 1 l'on face b e lesoevres,seiln'ia gran part des choses avenables à bono vie et habondance d'avoir etd'amisetdeparenz, et prosperité de fortu   IL COMPENDIO ALESSANDRINO -ARABO 123 dificare le opinioni del testo , come quando fieri amendue della loro vita comunale, rinnegano il detto d'Aristotele che l'ottimo governo sia nel principato, affermando migliore il governo delle comunità. Un'osservazione finale. Brunetto qualche volta fa dei tagli al testo latino e al volgare , sopprimendone talune espressioninonperamoredibrevità,ma evidentemente perch'ei si rifiuta di accoglierne il giudizio. Ciò risulta chiaro dalla costanza con cui l'espressione è soppressa ogni qualvolta si presenti nell'intendimento voluto dal l'autore. Una prova : al principio del II° libro (cap. VII ediz. Gaiter) il compendio latino e con esso Taddeo fa una duplice divisione della virtù:virtù intellettuale,come sa pienza scienza e prudenza,e virtù morale come castità lar ghezza umiltà ; e poi lo esempio « quando noi volemo lodare un uomo di virtude intellettuale diciamo :questo è un savio uomo intendevile e sottile:quando volemo lodare un altro uomo di virtude morale, diciamo : questo è un casto uomo umile e largo » (1). Nell'uno e nell'altro caso Brunetto sop prime a dirittura l'espressione che racchiude il concetto della umiltà. La prima volta dice della virtù morale,ch'essa è « chastée et largesce »e soggiunge un po'infastiditoe non curante del testo « et autres choses semblables »; nella se conda parte dice semplicemente « ce est uns hom chastes et larges ».Ed è curioso e notevole documento questo d’uno tra ipiù illustri rappresentanti del laicato dotto del tem po, uomo di parte e d'azione tenace e bellicosa e guelfo ardente,che si rifiuta cosi chiaramente di accogliere l'umiltà tra le virtù morali, ribellandosi al giudizio che uomo umile ė uomo virtuoso. C'è qui l'alto sentire del laico e lo spi (1) « ex parte moralium largum uel castum uel humilem .uel m o destum eum appellamus ».    124 IL COMPENDIO ALESSANDRINO-ARABO ritosdegnosoelaboriacavallerescadeltempo,chesian nidava bensi nella fierezza solitaria e nella severa integritå dell'uom casto , o sorrideva nel magnifico gesto signorile d e l l ' u o m l a r g o e c o r t e s e , m a n o n si a c c o n c i a v a a i n d o s s a r e il saio dell'umile curvato.  Quale dei due traduttori abbia merito maggiore non possiam dire. Taddeo ha il merito dellapriorità;ma egli compendia troppo , abbrevia , toglie parte di considera zioni e di esempi al testo latino ; Brunetto che lavorò a p presso a lui è più fine e completo , e poi anche il fran cese si prestava allora assai meglio del volgare italico. Taddeo molte volte amplia o riduce la materia , Brunetto traduce con maggiore fedeltà sia nell'evitare le ripetizioni inutili del volgare sia nel colmarne le lacune rispetto all'ori ginale latino , le cui espressioni segue con attenzione e riproduce spesso con esattezza.Siamo nel periododeicom pendi e dell'enciclopedia. Un compendio fatto è fatica ri sparmiata al maestro che deve dire le «chose universali ». Brunetto,che aveva intelligenza fine,trasse il compendio italico alla lingua di Francia e l'incluse nell'opera sua e ne colmò le lacune e ne affinò i contorni e lo ripuli di fronte al testo latino da cui egli pompeggiandosi dicea di aver tratto la parte morale del Tresor . E non fa cenno di T a d deo : egli accoglie, corregge, assimila; d'altra parte è tutta una letteratura e una divulgazione anonima quella che dal l'ultimomedioevovaaltrecento,eidirittidi proprietà letteraria non sono ancor sorti. C'è però da osservare che nel ritocco della materia volgare Brunetto non va oltre qualche singola espressione o frase, trascurata o ridondante. Egli non si attenta mai a rimaneggiare e ad acconciare la materia nel contenuto ideale,per ilmodo con cui le idee furono esposte nel volgare o compendiate o disposte o in   IL COMPENDIO ALESSANDRINO -ARABO 125 terpretate.Questo dunque testimonia onorevolmente che Tad deo era allora ritenuto autorevole intenditore del trattato ari stotelico anche da un uomo per cultura famoso come ser Brunetto, sebbene al grande discepolo di costui non appa risse ugualmente felice dicitore del volgare.Tuttavia le m o dificazioni introdotte da Taddeo e assai più ancora da Bru netto non sono tali da farci notare la presenza di nuovi elementi etici o l'azione modificatrice diretta del tradut tore spinto da una evoluta coscienza sociale del tempo.Gli scrittori del medio evo accolgono e credono ; sono ansiosi di notizie come sono pieni di fede. Si accetta tutto, il vero e il falso, anzi più il falso che il vero ; a Taddeo che scrive un sonetto sulla pietra filosofale (1) risponde Brunetto che r a g i o n a s u l l e v i r t ù d e l l e p i e t r e . È a n c o r a i n t a t t o il m o r t o e d i ficio secolare della fede , che più tardi la critica del quat trocento ridurrà nei frantumi donde sorgerà la nuova co scienza degli individui e delle genti. (1)MAGLIABECH.XVI,7,75;cartac.sec.XV.«Carmina magistri Tadei de florentia super scientiam lapidis philosophorum ex Alberto Magno edita feliciter. «Soluete icorpi inaqua a tuti dico |Voi che in tendete di far sol et luna |Delle duo aque poi prendete l'una |Qual più vi piace e fate quel chio dico |Datella a ber a quel uostro inimico | Senza manzare i dicho cosa alguna |Morto larete e riuerso in bruna | Dentro dal cuore del lion Anticho |Poi su li fate la sua sepoltura |Si e in tal modo che tuto si sfacia |La polpa e lossa o tuta sua giuntu ra|La pietraareteedapoiquestosifacia(sic)|Deterraaquaetdaqua terra fare |Così la pietra uuol multiplicare |E qual intendera ben sto sonetto |Sera signor de quel a chi e suzetto ».  Il compendio alessandrino-arabo prestó dunque la ma- : teria etica aristotelica al volgare d'Italia e di Francia ; e la morale a Nicomaco potè cosi divenire libro di attualità adoperato e sfruttato, nella valutazione dei principi etici e nella decisione delle finalità umane, dai nuovi scrittori vol gari: tra questi ė Dante Alighieri,a cui Taddeo dié motivo   di presentare in più nobil veste il volgar di Toscana (1), e Brunetto Latini avea ad ora ad ora insegnato « c o m e l ' u o m s'eterna ».   IL COMPENDIO VOLGARE LE FONTI DEL VI LIBRO DEL " TRESOR , Il presente lavoro fa parte di un altro più esteso e completo sui rifacimenti aristotelici latini e volgari, il quale spero verrà presto a portare un contributo,non privo d'interesse,alla storia ell'aristotelismo nella pre-rinascita e a colmare qualche lacuna la conoscenza del movimento intellettuale che fu prima del quattrocento:giacchè ne'volgarizzamenti e ne'rifacimenti sta i cultura del trecento ; seguendo il volgarizzarsi e il diffondersi della cultura medievale e classica, specialmente, noi troveremo i sentiero ascoso che va da Dante teologo al Petrarca filologo. Ma ora ho fatto opera molto modesta; trattando solo le spi. ese questioni critiche agitate intorno al compendio volgare ell'Etica, ho inteso risolvere taluni dubbî,lungamente mante nūti, ed eliminare molti errori. Il lettore, che attende forse uno studio riassuntivo sulla influenza della morale aristotelica, comprenderà come questo sia possibile solo alla fine dell'opera, quando le ricerche già fatte e i risultati ottenuti ci metteranno in grado di poter volgere uno sguardo sicuro e sereno su quel grande campo dove la tradizione aristotelica alligno rigogliosa e tenace ramificandosi e abbarbicandosi per una serie copiosis. sima di rampolli viziosi e invadenti.  DELL'ETICA ARISTOTELICA C. MARCHESI. 1 E   2 C. MARCHESI Il compendio volgare dell'Elica nicomachea fu per la prima volta impresso a Lione (1568)a cura dell'editore Jean de Tournes, su di un manoscritto appartenente a Jacopo Corbinelli (1).Do menico Maria Manni stimo inutile, per le moltissime mende, la edizione francese,condotta inoltre su un solo manoscritto,e ristampò il trattato aristotelico valendosi principalmente di due codici Laurenziani,il 19 e il 23 del plut.XLII (2).L'ultima ediz.del 1844 fu condotta da Fr. Berlan su un cod.del sec.XIV e in base a un esemplare dell'ediz. lionese emendato e comple tato da Apostolo Zeno su un ms.del 1410 (3). Com'è noto,ilcompendio volgare dell'Elica aristotelica è quello stesso che forma il VI libro del Tresor volgarizzato, se condo la comune opinione, da Bono Giamboni ; pero si trova anche in tutte le edizioni del Tesoro volgare:Treviso,Gerardo Flandrino(de Lisa),1474;Venezia,Fratelli da Sabbio,1528;Ve. nezia,Marchio Sessa,1533;Venezia,1839acuradiLuigiCarrer il quale nel libro VI seguì anche le due edizioni, Lionese e del Manni;Bologna, 1878,ed.da Luigi Gaiter il quale si valse di tutte le stampe precedenti,de'mss.del Tesoro e di raffronti continui col testo francese. Eppure di questo compendio manca una stampa che ne ripro duca fedelmente e criticamente la lezione;giacchè a tutti gli editori dell'Elica,che eseguirono le loro stampe sulle precedenti o solo col sussidio di qualche ms.,sfuggi quella rigogliosa co munione di codici, che abbiam potuto noi esaminare, da' quali (1) L'Etica d'Aristotile ridotta in compendio da ser Brunetto Latini et altre tradutioni et scritti di quei tempi. Con alcuni dotti Avvertimenti intornoallalingua,Lione,Giov.deTornes,1568. (2) L'Etica d'Aristotile e la Rettorica di M. Tullio aggiuntovi il libro de' Costumi di Catone, Firenze, 1734. Dall'edizione lionese trasse la parte riguardante le quattro virtù un tal Luigi Ruozi che la pubblicò modifican dola nell'ortografia e nella lezione: Trattato delle quattro virtù cardinali compendiate da serBrunettoLatini sopra l'Eticad'Aristotile,Verona, 1837,pp.16. (3) Elica d'Aristotile compendiata da ser Brunetto Latini e due leggende di autore anonimo,Venezia,1844.  ---   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 3 sarà possibile, con un esame complessivo, trarre nella sua veste primitiva l'antico volgarizzamento toscano; d'altra parte gli editori più recenti del Tesoro nel curare la lezione del VI libro, ritenendolo, com'era naturale,volgarizzamento dal francese, come tutti gli altri libri, credettero opportuno acconciarne la lezione anche inbase al testo francese,alterandone laveste ori ginaria e originale. Intorno a questo antico e primo compendio volgare dell'Etica si è agitata una lunga e spinosa questione. Esso fin dalle prime stampe porta il nome di Brunotto Latini, e il fatto stesso poi che si trova inserito nel testo volgare del Tresor, di cui costi tuisce appunto la materia del VI libro,non ha mai fatto dubitare ai critici e agli editori ch'esso non si debba considerare come una parte del Tesoro e quindi,come tutti gli altri libri, volga rizzamento di Bono Giamboni.Solo il Mabillon,ritenendo che Brunetto stesso avesse volgarizzato il suo Tresor, credeva che ciò fosse pure avvenuto dell'Etica (1). Il primo dubbio intorno al traduttore del compendio francese in toscano fu mosso dal Manni, indotto da una nota del Salviati il quale « trovò in fronte « a un particolar testo dell'Etica : Qui comenza l'Elica di Ari. « stolile volgarizzata per maestro Taddeo medico e philosopho «dignissimo».Ad ogni modo egli si acqueta volentieri all'au. torità della Crusca che cita il Tesoro « tutto » stampato per traduzione di Bono Giamboni (2).Altri che vennero dopo nota rono che qualcuno dei mss. dell'Etica indicava un maestro Taddeo come il volgarizzatore dell'opera ; difatti il Lami ritiene che ilvero traduttore sia Taddeo (3),e ilMebus,seguito dal Maffei(4),sostieneche la versione di Taddeo,fatta probabil mente assai prima,venisse più tardi inserita nel Tesoro volga. rizzato,in tuttiglialtri libri,da Bono Giamboni (5).Lo Chabaille, (1)Museum Italicum,Paris,1687-89,vol.I,P. I,p.169. (2)Op.cit.,pp.xisgg. (3)Novelle letterarie,Firenze,1748,p.303. (4) Storia della lett. ital., 3a ediz., Firenze, 1853, 1, p. 35. (5)VitaAmbrosii Traversarii,p.CLVIII.    che curò la edizione critica francese del Tresor, dalla perfetta somiglianza ch'è tra l'Elica e il vi libro del Tesoro, deduce che Brunetto avesse tradotto Aristotile in italiano prima ancora di voltarlo in francese, e che quindi il compendio volgare del l'Etica dev'essere a lui attribuito (1).Il Paitoni,che scrisse sopra tale argomento un lungo articolo, finisce col non sapere da che parte decidersi (2).Giov.Battista Zannoni ha spinto in vece la questione molto avanti,servendosi di un passo del Conrito di Dante (Tratt.I,cap.10),dove è fatto cenno di un volgarizzamento dal latino dell'Etica per opera di Maestro Taddeo,ilcui volgare Dante chiama «laido».Lo Zannoni ri tiene « che Brunetto voltasse in francese il volgare di Taddeo « e che il Giamboni a questo desse luogo nella sua versione «delTesoro»(3).QuestacongetturaèancheaccoltadalPuc cinotti,ch'è stato il più accanito difensore di Taddeo (4).Il Sundby combatte tutte le opinioni precedenti:quella delloCha. baille e dello Zannoni,opponendo loro le parole stesse di Bru netto che,nella sua introduzione, assevera di aver tradotto dal latino in francese,de latin en romans;quella del Mehus, citando il passo di Dante il quale parla evidentemente di una traduzione dal latino. Egli reputa diversa da quella che abbiamo la traduzione di Taddeo,dicui sifacenno nel Convito;afferma recisamente che Brunetto ha tradotto Aristotile dal latino in francese e che il testo italiano dell'Etica è opera di Bono Giam boni(5).IlGaiter,ch'è ilpiùrecenteeditoredelTesoro,se guendo,come pare,lacongettura dello Chabaille,confonde la (1)Lilivresdou TresorparBrunettoLatini,Paris,1863,Introd.,p.xv. (2) Biblioteca degli autori antichi greci e latini volgarizzati, Venezia, 1766, vol.I,pp.103-29. (3) Il Tesoretto e il Favolello di ser Brunetto Latini, Firenze, 1824,Pre fazione,pp.XXXV sgg. (4)Storia della medicina,Firenze,1870,vol.I.  4 C. MARCHESI (5) Della vita e delle opere di Brunetto Latini, Firenze,1884,pp.139 sgg. La stessa opinione del Sundby aveva esposta prima V. Nannucci,Manuale, Firenze, 1858, vol. II, p. 383.   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 5 Nicomachea con ilLibro de'Vizi e delle Virtù e con il VI libro del Tesoro, il quale « fu prima compilato e poscia dall'autore «annestato nella maggior parte del Tesoretto»(1);e altrove ricorda una nota del Sorio che attribuiva a Brunetto Latini il volgarizzamento dell'Elica d'Aristotile (2); del resto non fa cenno dellaquestione.IlCecioni,perultimo,trattando delSecretum Secretorum , in una breve digressione sull'Elica volgare, dopo avere riassunto tutte le opinioni,assicura che Taddeo deve averne fatto una traduzione, poichè altrimenti sarebbe inesplicabile il motivo per cui parecchi codici di rispettabile antichità attribui. sconolatraduzioneaTaddeo;ma delrestoaffermachelaque. stione circa il volgarizzamento dell'Etica, che noi possediamo, rimane indecisa nè si potrà forse in alcun modo risolvere (3). Cosi scetticamente si chiude la questione, irresoluta. Dopo l'esame dei codici dell'Elica volgare e latina e del Te soro, non è più lecito dubitare di poter decidere la questione in modo definitivo, e a definirla concorrono parecchi dati positivi e sicuri; il primo, di capitale importanza : la tradizione m a n o scritta. Il compendio volgare della Nicomachea ci ha una ben larga ed evidente tradizione isolata.Nelle biblioteche di Firenze,ove il latino del testo aristotelico ebbe per la prima volta veste vol gare e popolare conoscenza, ben ventidue codici ci attestano della larga diffusione che il volgarizzamento ebbe come opera a sė, indipendente da altre opere più larghe che la integrassero. A'codici fiorentinisiaggiungonoaltrichehopotutoesaminare: due Ambrosiani,tre Marciani,uno della Nazionale di Napoli,uno della Comunale di Nicosia. Pochi altri mss.dell'Elica si trovano sparsi per le biblioteche d'Italia, ma da ragguagli cortesi che ho potuto avere di essi, è lecito dedurre come tutti quanti ade riscano per contenuto e per lezione al nucleo centrale e fonda mentale dei mss.fiorentini.  (1)Ediz.cit.del Tesoro,Prefaz.,p.xv. (2)Ivi,p.XLII. (3) Propugnatore, 1889, p.72.   Tutti icodici presentano una redazione unica del volgarizza- mento,che è quella stessa della edizione Manni, con la quale ho fattolacollazione(App.I).Le varianti frequentinellalezione,le inversioni,le omissioni reciproche,gli scambi,le lacune del testo a stampa sopra tutto, si debbono, oltre che alla bontà maggiore o minore del modello, a sbagli de' trascrittori, e non valgono dinanzi alla somiglianza e conformità dell'assieme.Molte lacune e accorciamenti si possono attribuire soltanto a sbada taggine de'copisti per le gravi difettosità che ne vengono al senso,e sono indubbiamente prodotte dalleespressioni consimili cheapocadistanza han prodottolafacileomissione:giacchè il copista credendo di proseguire saltava d'un tratto il brano. Accanto alle lacune (1), che dànno qualche volta luogo a strane combinazioni d'idee,va notato un buon numero di ampliamenti, di cui taluni sono ripetizioni di luoghi antecedenti.Qualche volta le parole si trovano collocate in maniera diversa nel periodo o sostituite con altre e mutate con lo scopo di abbreviare o modifi c a r e il c o s t r u t t o ( 2 ) ; l e m o l t e d i f f e r e n z e o r t o g r a f i c h e v a n n o r i f e r i t e al tempo della trascrizione. Fra i codici che più si accostano al testoastampa vanno notati 6.c.g.h.4.2.m .p.e specialmente d ed e,iquali hanno pure comuni con il testo Manni molte particolarità ortografiche.Le maggiori divergenze presentano i codd.7 e 1;in quest'ultimo è notevole un'aggiunta al libro sesto (3). Nel cod. V la lezione presenta spiccate differenze, (1) È da osservare come nel secondo libro (cap.IX del Tesoro)occorrano tre parole greche trascritte con caratteri latini:19)apeyrocalia (5. x.8. m .p.) oapeiorocalia(4.y.)edanche apeyrochilia(6)eapherocalia(g):in pa recchi codici tale parola è mancante perchè manca il brano che la contiene; 29)eutrapeles(x.y.4.m.p.)o eutrapelos(2.6.7.d.e.f.g.h.)ed anche eutrapelo (6) ed eutrapeleos (8); 3o recoples (y.x.5. 7. 8. c.d.f.h.4. 2. p.) orechoples(e.g.)ed anche recupes(6)erecopls(2).Inqualchecodice, come nel cod.1, il copista salta il passo dove avrebbe dovuto introdurre le parole greche. ( 2 ) C o m e s i n o t a a n c h e p a r t i c o l a r m e n t e n e l l ' A m b r . C . 2 1 , i n f ., c h ' è u n a trascrizione umanistica della seconda metà del '400, (3)Manni,p.39;Gaiter,p.115:«in questo cambio era grande brigaet  6 C. MARCHESI   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA specialmente nella seconda metà,dalla lezione comune,e risente dell'influenza dell'opera francese di Brunetto e dell'azione diretta modificatrice del trascrittore : l'influenza del francese in questo c o d i c e , c o m e n e l l ' A m b r o s . c . 2 1 i n f ., c i è a t t e s t a t a i n d u b b i a m e n t e dal fatto ch'essi vanno oltre il limite solito dell'Elica e prose guono con le stesse parole, intorno alla differenza tra la retorica e la scienza di fare le leggi, le quali chiudono il VI.libro del Tresor; ma possiam dire che per quanto la lezione di V sia in molti punti alterata,non presenta tuttavia una redazione diversa dalla comune dei mss.e delle stampe del Manni e del Gaiter, alla quale ultima specialmente aderisce verso la fine.Dall'esame critico della lezione risulta una somiglianza intima tra icodd.1 e 7 ; tenendo poi conto delle particolarità più comuni, possiamo stabilirediversi gruppi di codici:a)1.a.y.5.6.7.8.x.r. 9.checidannolapiùautorevolelezione;b)g.C.d.e.f.N.r. 2.s.;c)4.m.p. Come s'è detto, il compendio volgare dell'Etica si trova pure inserito nel volgarizzamento del Tresor, di cui forma la prima metà della seconda parte, o meglio il VI libro, secondo la indi. cazione comune.Dei venti codici del Tesoro da me esaminati, dodici solamente contengono il trattato aristotelico : gli altri sono mutili (App. II). La lezione dell'Etica ne' codici del Tesoro, tranne le solite Jivergenze omai notate come comuni in questa redazione del l'Etica volgare,è da collegarsi alla stessa famiglia dei codici isolati e de'testi a stampa.C'è da notare nel complesso un numero maggioredivarianti,omissioni,aggiunte,frequentissimi sbagli di trascrizione e qualche breve interpolazione del copista  «pero fue trouata una cosac'aguagliasse etquestacosasièildanaio. « percio che l'opera di colui che fa la chasa si aghuaglia ad opere di colui « che fae i calzari col danaio; chè per lo danaio puote l'uomo donare et « prendere le grandi cose e picciole, per cio che 'ldanaio è uno strumento «perloquale ilgiudicepuotefaregiustizia,perocheeldanaioèleggie «senz'anima.ma ilgiudiceèleggiech'àanimaetdiogloriososièleggie « uniuersale d'ongni cosa »,   stesso,che sidistingue subito permancanza di riscontroinaltri codici.Oltrere P,che servirono di base allastampa fiorentina, uno de'codici più fedeli all'ediz.del Manni è l'Ambros.G. 75 Sup.e Z ,dove pur si trova una grande confusione causata dallo spostamento di varie parti.Tra icodd.più scorretti dal lato ortografico e P. In base alle particolarità più comuni icodd.del Tesoro si possonodividere ne'seguenti gruppi:19)d.v.1. 2°)n. λ.π.φ.3ο)λ.μ.γ.Ρ.Ζ.ε.Ambr. Riassumendo,possiam dire: la lezione del testo aristotelico volgare appare generalmente, ne'codd.dell'Etica e del Tesoro, fluttuante,poco sicura.Ma lesolite differenze nella espressione, nella struttura del periodo, le frequenti omissioni e aggiunte di parola,gli spostamenti e le lacune,comuni alla maggior parte dei codici,riguardano più d'ogni cosa la bontà della copia,la correttezza del modello copiato, la esperienza o la libertà del l'amanuense, ma non compromettono in alcun modo l'unità del volgarizzamento. La materia dell'Etica si trova nella maggior parte dei codici ugualmente distribuita.Una grave inversione presentano 1. d. e.s.;inessiiltestodap.6Manni[Gaiter25:compimentoe forma di uirtu ] va d'un tratto a p. 18 (Gaiter 57 : ciascuno huomo che ingiusto et reo sie] e seguita sino a p.21 (Gait.66 : E pero è bestial cosa seguir troppo la dilettazione del tatto] donde torna indietroap.9 [Gait.34:La potenzia uae'innanzi all'acto] e prosegue sino a p. 18 [Gait. 57 : dee l'uomo essere punilo];quindi tornadinuovoap.6 (Gait.25:beatitudoècosa ferma et stabile] seguitando sino alla fine del primo libro [p.8 M ., 31 G.: Questièun casto huomo, humile et largo).È determi nato cosi uno scambio reciproco, nel principio, de'libri secondo e terzo.  'T 8 G. MARCHESI Un'altra inversione è nei codd.del Tesoro a.T. X. u.In essi iltestodell'Eticadallafinedelcap.XXIX (pp.M.35,G.101: l'uomo si uiene a fine con grande sottilglianza de li suoi in tendimentinelecoselequalisonbuonema questasottilglianza e cerlezza e sauere ragion diuina e le dilettationi che l'uomo   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 9 elegge per gratia d'altro.son queste ricchezza etc.... Jez.u] corred'untrattoalcap.XXXVIII (pp.M.41,G.121]eprosegue sino al primo periodo del cap.XXXIX (pp.M. 43,G. 125:per a u e r e l u n g a m e n t e u i n t i li d e s i d e r i d e l l a c a r n e . L o m a g n a n i m o serue bene.....u]; quindi ritorna al cap.XXXIV (pp.M. 37, G.110)evasinoalcap.XXXVIII (pp.M.41,G.120:inman. giare e in bere e in luxuria e tutle dilectationi corporali ne la misura delle quali l'uomo elegge per se medesimo.et quando ella e rea si detta callidita. ne le cose ree si come incanta menti.....u];dopo itre primi periodi del cap.XXXVIII torna cosi nuovamente al cap.XXIX (pp.M. 35,G. 101). La stessa i n v e r s i o n e n e l l ' o r d i n e d e l l a m a t e r i a h a il m s . V i s i a n i . I codici dell'Etica,in gran parte,presentano la solita divisione della materia in dodici libri,che non di rado è limitata alla semplice indicazione numerica,senza alcun accenno all'argo m e n t o s v o l t o ( h . 4 . ) ; i n p a r e c c h i c o d i c i ( y . c . e . h . 4 . m . r .) l a materia oltre che in libri è divisa in tanti capitoletti ; in altri (5. 6. I. v.) soltanto in rubriche le quali sono qualche volta costituite dalle stesse parole del testo,come in 5 e 6.Altri co. dici mancano di qualunque divisione sia in libri che in rubriche (p.8.Amb.166).L'Ambr.C.21inf.,delsec.XV,presentala partizione comune fino al decimo libro;la materia degli ultimi due è divisa in tre capitoli (c.53':tracta di la beatitudine la quale puo hauere in questo mondo : Di po la uirtu diciamo di labeatitudine;c.57"tractachesel'huomohabuonanatura la ha da dio : sonno huomini che sonno buoni per pauura ; c.57'diGouernamento dilacittade:lonobilehuomoetbuono regitore di la citta fa nobili et buoni cittadini). In d in luogo di libri è detto fioretti, e cosi pure al principio di v : Fioretti dell'Elicha d Aristotile del primo libro.  . Dei codici del Tesoro,taluni (e,u,n) non danno alcuna in dicazione sul modo con cui la materia è distribuita;altri (a,a) hanno un elenco delle rubriche posto in principio alla seconda parte dell'opera, vale a dire il VI libro; in 8 è un rubricario generale posto in principio del Tesoro; le rubriche di t fanno !   parte del testo,e una divisione in capitoli si trova in r (De leuilenominale deletrepotenziedel'anima Come lobene si diuide de la polenzia dell'anima de la uerlude intellec tuale |di che l'omo desidera tre cose |de le uerlude che ssono inabito comesitroualauerlude comel'omopuofarebene e male d e le tre isposizioni in operatione de le cose che conuienefareperforzaetc.).Induecodici(Z eAmb.)tutta la materia del VI libro è divisa in cinque capitoli : 1°) « Incipit «libro d'eticha Aristotile; 2) Secondo capitolo d'elicha Ari «stotile:sonooperationi lequali homo fa;39)Terzocapilolo « d'eticha : due sono le specie d'amista ; 4 ) Quarto capitolo de « eticha : la dilectatione è nata e notricata ; 5°) Quinto capitolo « de etica : Dopo le uirtù diciamo oggimai della beatitudine ».Altri codici presentano la divisione per libri o per rubriche che si trova nelle stampe. Riferiamo il titolo originario dei dodici libri dell’Etica, traen dolo da'codici più antichi ed autorevoli, del sec.XIV : « Prologo « sopra l'etica d'Aristotile Qui si finisce il prologo di questo « libro d'Aristotile. Qui appresso si comincia il primo libro e « tracta in questo primo libro della felicitade : le uite nominate ve famose.IQui comincia ilsecondo libro dell'Etica d'Aristo « tile e comincia a diterminare delle uirtudi e primieramente « mostra che ongni uirtu che noi abbiamo è per costumanza « d'opere:Concio siacosa che siano due uirtudi.|Qui comincia « il terzo libro dell'etica e tratta dell'operazioni le quali sono « uolontarie e che non sono uolontarie : Sono operazioni le quali « l'uomo fae sanza sua uolontade |Qui comincia il quarto libro « dell'etica d'Aristotile ove si ditermina di quella uertude la « quale è detta uertude della liberalitade :Larghezza è mezzo in « dare e in riceuere pecunia |Qui comincia il quinto libro del « l'etica e determina della giustizia la quale è uerti che dee « essere nell'operatione delli huomini : Iustizia si è abilo lau « d e u o l e | Q u i c o m i n c i a il s e s t o l i b r o d e l l ' E t i c a e c o m i n c i a a d e « terminare delle uertudi intellettuali per ciò che infino a quie «ellisiaediterminatodelleuirtudimorali:Due sonolespezie  10 C. MARCHESI   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 11 « delle uirtudi |Qui si comincia il settimo libro dell'etica del « s o m m o filosofo Aristotile e ditermina della uertude la quale è « detta uertude della contenenza : Li uizii de costumi molto « reil Qui comincia l'ottavo libro dell'etica d'Aristotile nel quale «ditermina dell'amistade la quale è cosa necessaria all'uomo: « Amistade si è una delle uertudi dell'uomo IQui comincia il « nono libro dell'etica d'Aristotile il quale ditermina della pro «prietade dell'amistade: Lo conueneuole agualliamento si « aguallia le spezie Qui comincia il decimo libro dell'etica « d'Aristotile nel quale tratta della dilettazione e della felicitade « per ciò che pare che queste due cose si sieno fine de la dilet. « tazione et dice qui che la dilectazione si è fine dell'operazione «virtuosa:La diletlazionesiènataenotricata|Quicomincia « l'undecimo libro dell'etica d'Aristotile nel quale ditermina della « beatitudine la quale puote l'uomo auere in questa uita. Et dice « qui che la beatitudine è cosa perfecta : Dopo le uirtudi di. « c i a m o o g g i m a i | Q u i c o m i n c i a il d o d e c i m o l i b r o d e l l ' E t i c a . E t « determina come l'uomo il quale à buona natura si l'ae dalla « grazia di dio, et questi cotali sono disposti ad acquistare uer. « tudi : Sono uomini che sono buoni per natura ». Del rubricario più comune diamo per saggio quello del primo libro:«Perqualescienziașireggelacittade delleuiteet « quale è laudabile |di due modi di bene che è beatitudine «dellepotentienaturalidell'anima demeritidelleoperationi aditrespeziedelbene Comes'acquistaetconserualabeati. « tudine |Onde uiene la beatitudine e di che à bisognio chi « non puote auere la beatitudine per che /che cose sono aspre « a sofferire |come ae similitudine l'uomo felice con dio onde « procede felicitade |in che comunica l'uomo colle piante et colle «bestieetincheno dell'animacom'aecontrarimouimenti « della uertu intellettuale e della morale ».Nel codice Marciano II,141,lamateriaèdiversamente distribuitaindodici«parti»; la prima non è indicata,poi «della forteça: Diciamo omai di « ciascuno habito della liberalità: largheça è meço in dare « del conuersare: dopo questo dobbiamo dire di quelle cose    «dellagiustitia:Justiciasièhabilolaudabile dellointellecto « dell'anima : Due sono le specie delle uirtudi |de tre uitii primi : «Vilii e costumi molto rei|dell'amistade:Amistade e una «delle uirtude dell'uomo e d'iddio |dello aguagliamento della «amistade:Loconueneuoleadguagliamento delladilectatione: « La dilectationesiènata enutricala |della beatitudine:Quando «noiauemodeterminato delcorreggimentodeVitii.depaura. « della pena : La scienzia delle uirtudi si a questa utilitade ». Ilcompendio volgare del Trattato Aristotelico,come si può desumere dall'incipit e dall'esplicit di ogni codice,veniva più comunementeindicatocoltitolodiElhicad'Aristotile,edanche: Etica del sommo phylosofo Aristotile; molto più raramente : Fioretti dell'Elica d'Aristotile. Occorre anche talvolta la indi cazione latina : Elhica Aristotilis, e più sovente quella di Liber E t h i c o r u m . N e ' c o d i c i d e l T e s o r o il t i t o l o p i ù c o m u n e è p u r e : l'Etichad'Aristotile,edanche:l'EtichadelgrandesauioAri slotile;in parecchi si trova l'indicazione latina:Ethica Ari stolilis. Nei codici dell'Etica manca ogni notizia intorno alle necessità e a'criteri dell'opera.Fa eccezione ilcod.Marciano II, 134 il quale contiene, solo fra tutti, l'epistola proemiale del volgarizzatore ad un amico,che a quella fatica del tradurre avevalo indotto. « Incipit proemium transductoris huius operis « uulgaris.— Più uolte essendo amicho mio da la tua gintileza « con grande instanzia infestato l'Eticha Iconomicha et politicha de « Aristotile de lingua latina in parlar (moderno] et uulgar ti « transducha. La quale richiesta considerando truouo la mala «sua axeuolezza uincere ogny mia faculta.Et anche hauendo « udito altri circha a questa opera auere insudato non m'è pa «ruto douerse seguire per fugire la riprensione de molti.Ma « pure la forza de la tua amicizia è tanta che mi constringie et «fami intraprendere quello che mi cognosco impossibile.Onde « la gratia superna inuocho al principio di tale faticha doue « mi mecto seguendo el uoler tuo iusta mia possa. Et perche el « dire de Aristotile è scropoloso et stranio molto dal modo del « nostro parlare, pure quanto potro ad esso mi acostero.Alcuna  12 C. MARCHESI   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA « uolta le sue proprie parole et alcun altra el senso dimostraro «suzinto,seruando la uerità del testo.Ma auanty che questo « cominci alquanto della persona et essere suo toccharo ad cio « che le sue opere pergrate siano da te riceuute ». Il prologo non ci porge alcuna notizia storica,e del resto sulla sua auten ticità ci lascia grandemente perplessi. Il fatto che,tra tanti manoscritti dell'Etica, noi lo troviamo solo in questo,abbastanza tardivo,della fine del sec.XV,può destare grave sospetto,ma non sarebbe ad ogni modo motivo sufficiente per indurci a rin negarlo senz'altro. Ben altri motivi non ci permettono di prestar fede all'autenticità del proemio Marciano. In esso il volgarizza tore dice di aver udito « altri circa a questa opera avere in « sudato » ; l'espressione è molto ambigua ; giacchè o si riferisce a precedenti volgarizzatori,e ciò non è possibile perchè Taddeo fuilprimoavolgarizzarl'Etica,oatraduttorilatini;ma per quanto sappiam noi in nessuna delle traduzioni latinedella Ni comachea si leggono accenni alle difficoltà del traduttore; solo Ermanno ilTedesco,nel prologodellasuaversione delCommen. tario d'Averroè alla Poetica d'Aristotele,dice della grande dif ficoltà da lui trovata « propter disconuenientiam modi metrifi «candiingraeco cum modometrificandiinarabo,etpropter auocabulorumobscuritates»(1);ma cisembrerebbeaffatto inopportuno scorgere nel prologo alla Poetica di Ermanno un rapportocolprologoall'EticadiTaddeo.Epoinel1200eneltre. cento è ben difficile trovare la nota individuale,sopratutto nelle traduzioni; furon più tardi gli umanisti che alteri del merito proprio rivelarono a quattro venti le difficoltà del lavoro da essi intrapreso e compiuto; del resto tutta la parte del pro logo, di cui ora parliamo,si connette con la praemunitio tanto comune agli scrittori del quattrocento, i quali nell'introduzione alle opere loro ci ricordano spesso la difficoltà dell'argomento e il timore della critica e la debolezza dell'ingegno e il riguardo 13  (1) Il prologo è pubblicato dal Jourdain (Recherches critiques sur l'age et l'origine des traductions,latines d'Aristote, Paris, 1843, p. 141).   amorevole per l'amico che la vince sulle giuste considerazioni e preoccupazioni dell'autore.È questo,ripeto,un motivo comune agli umanisti,a'quali l'aveva comunicato lo spirito retorico delle composizioni proemiali latine. Lo stile poi del proemio è assai diverso dal volgare di Taddeo, ch'è quale potea rampollare schietto di mezzo all'efflorescenza letteraria dell'ultimo dugento.Lo stile del prologo marciano ri. sente molto invece di quel volgare farneticante da scuola e da sacrestia che pretendea ingentilirsi nel '400 signorilmente, usur pando gli addobbi lessicali delle forme latine.C'è in fine un ultimo argomento decisivo. Nel titolo dell'epistola proemiale è adoperata la parola transductoris,e nel volgare stesso del pro logo si trova adoperato il verbo transducere. Ora nel sec. XIII e XIV la espressione latina traducere non è ancora passata col s i g n i f i c a t o m o d e r n o n e l l a t i n o e n e l v o l g a r e ; il p r i m o , c o m e p a r e , ad usare il vocabolo traducere con il significato di tradurre, fu il Bruni, fin dal 1405 ; d'allora soltanto s'introdusse nel latino e quindi nell'italiano (1). Sicchè possiamo affermare che il prologo Marciano è di avan. zata fattura quattrocentina.Come sia comparso non sappiamo, nè torna conto indagare e congetturare sulle cause e sulle ori gini di tutte lescritturecheapparveroingrande numero,affac cendate e moleste,in quel tempo di continue esercitazioni re toriche e di finzioni letterarie. Stabilita la unità del volgarizzamento contenuto ne'codd.del l'Eticaedel Tesoro,passiamooramai allaindicazionedell'autore. De' ventinove codici dell'Elica, da me esaminati, ventidue sono anonimi;uno,del sec.XIV (5),attribuisce la traduzione a un maestroGiovanniMin.(2);seicodici(4.y.&.g.m.p.)danno il nome del volgarizzatore dell'Elica, traslatata in uulgari a magistro Taddeo. (1) Vedi R. SABBADINI,Del tradurre iclassici antichi in Italia,in Atene e Roma,an.III,no 19-20,col.202. (2)ExplicitethicaAristotilistranslataamgio iohemin.uulgare.deo gratias.  14 C. MARCHESI   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 15 Dei codici del Tesoro,tre del sec.XIV,oltre la solita attri. buzione a Brunetto in principio di tutta l'opera, alla fine del sesto libro ci danno un'indicazione particolare del volgarizzatore, la quale è sfuggita a tutti gli studiosi del Tesoro ed è di molta importanza per la questione agitata intorno all'autore del com pendio volgare. Ecco dunque le soscrizioni.a:Explicit etica Aristotilis a magistro Taddeo in uulgare traslala ; T : Explicit hetica Aristotilis a magistro Taddeo in uolgare trasleclata ; 1:Explicit Elicha Aristotilis a magistro Tadeo in uulghari traslatlata. Dalla tradizione manoscritta si può dunque ricavare : 1o) che ilcompendio volgare della Nicomachea ebbe una larghissima diffusione come testo particolare, indipendente da altra opera ; 2°)ch'esso,quando non correva anonimo,veniva comunemente attribuito a maestro Taddeo. Ma da'codici del Tesoro balza fuori un nuovo cumulo d'in dizi gravi e sicuri, che infirmano seriamente l'unità del vol garizzamento dell'opera di Brunetto,attribuito sempre con cordemente per intero a Bono Giamboni : 19) Parecchi codici del sec. XIV danno, come s'è visto, il nome del volgarizzatore del l'Etica : Maestro Taddeo ; la soscrizione finale, perchè non si possa ritenere aggiunta posteriore,è sempre di mano del copista che ha trascritto il codice per intero.Questà attribuzione è l'unicachesitroviintuttoilms.,oltreaquellageneralecon cui va riferito il complesso dell'opera a Brunetto.Ciò è di spe. ciale importanza per noi : difatti, giacchè il copista solo per l'Etica sente il bisogno di riferire il nome del traduttore, vuol dire ch'ei sapeva che solo quella parte del Tesoro rimaneva estranea al volgarizzamento generale dell'opera, e il volgare di Taddeo vi si trovava come inserito. In qualche codice anepigr. e mutilo,come a,l'attribuzione a Taddeo è anzi l'unica indica zione di autore che sitrovi in tutta l'opera.2 ) Di solitoicodici mutili si fermano prima di giungere all'Elica; d'altra parte pa recchi mss.del Tesoro si arrestano alla fine del compendio aristotelico. Ciò dimostra che questo costituiva come un punto    di fermata, era un libro introdotto a parte, si che poteva benis simo arrestare al libro V l'amanuense che fosse sprovvisto del. l'originale, o determinare una pausa nella trascrizione,alla fine del libroVI(1).3o)Nel cod.r,miscellaneo,l'Elica è preceduta dal VII libro del Tesoro : si può notare dunque il distacco ch'è tra le due parti, non considerate come legate e dipendenti nella stessa opera.4°)In qualche ms.,come ri,precede una tavola della materia che giunge sino a tutto il libro V , escludendo la rimanente, dall'Elica in poi ; e ciò dimostra ancora che l'Elica arrestava quasi il corso regolare dell'opera volgarizzata ed era estraneaalvolgarizzamento del Tesoro.5°)Un particolare fon damentale:ilcod.d ha questa soscrizione dell'amanuense,al l'Etica: Ecplicit l'Etica Aristotile in questo tanto che io noe t r o u a t a ; c i ò s i g n i f i c a c h i a r a m e n t e c h e il c o p i s t a , p e r t r a s c r i v e r e la parte dell'opera che comprendeva il compendio aristotelico, era obbligato a ricorrere ad un altro testo che non era quello unico del Tesoro.6°)Ci resta finalmente da osservare che mentre tutti i codici del Tesoro differiscono quasi sempre e in m a niera notevole nella lezione, mostrano invece una concordanza molto maggiore nell'Etica; vuol dire che si tratta di un testo particolarmente prefisso a'trascrittori.Ciò dimostra ancora la maggiore divulgazione del testodell'Etica lacui lezione più re golare, rispetto alla lezione caotica del Tesoro, era fissata da una più grande diffusione delle copie. Concludiamo questa prima parte. Dall'esame dei codici e della materia manoscritta ci risulta che esisteva nel secolo XIV un compendio volgare della Nicomachea,attribuito a maestro Taddeo, che noi troviamo anche inserito integralmente nel Tresor vol garizzato, di cui costituisce il VI libro. Ma nèicodicidelTesoro,nèquellidell'Eticacidicono da ( 1 ) Il S o r i o d a q u e s t o p a r t i c o l a r e , c h ' e g l i o s s e r v ò n e l c o d . A m b r ., t r a s s e argomentoprincipalediattaccoallaautenticitàdelVIIlibrodel Tesoro.La opinione del Sorio fu combattuta dal Gaiter (Propugnatore, 1874,pp.334 sgg.) con argomenti dubbi ed indecisi: l'uno e l'altro eran difatti fuor di strada.  16 C. MARCHESI   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 17 che volgarizzó Taddeo.La questione è importantissima;data la identità tra l'Elica e il volgare del VI libro del Tresor non resta che una questione di priorità:0 Brunetto si servi di Taddeo, o Taddeo di Brunetto ; vale a dire,o maestro Taddeo volgarizzo il VI libro del Tresor, il quale ebbe così tradizione e fortuna isolata da tutto il resto del volgarizzamento, ch'è opera di Bono ; o Brunetto si servi per il suo Compendio francese del volgare di Taddeo,che fu introdotto però intatto nel Tesoro, in luogo di un volgarizzamento diretto dal francese. Nel Convito di Dante è unpasso che spinge molto avanti la questione: Tratt.I,cap.10:«La gelosia dell'amico fa l'uomo «sollecitoalungaprovvedenza:ondepensandocheperlode < siderio di intendere queste Canzoni alcuno inletterato avrebbe «fatto il comento latino trasmutare in volgare,e temendo che 'l « volgare non fosse stato posto per alcuno che l'avesse laido « fatto parere, come fece quelli che trasmutò il latino del «l'Etica,ciò fu Taddeo Ippocratista,provvididiponere «lui,fidandomi di me più che d'un altro».IlSundby,che vuole ad ogni costo ritenere di Bono tutto il volgarizzamento del Tresor,se ne sbriga assai piacevolmente: « Nel caso adunque « che il passo succitato del Convilo fosse esatto in tutte le sue « parti, la cosa sarebbe chiarissima : la traduzione di Taddeo « dovrebbe essere affatto diversa di quella di cui noi ci occu « piamo,e questa si dovrebbe attribuire a Bono Giamboni » (1). E non ci sarebbe niente da dire; resterebbe però fin ora da spiegare,se non altro,la tradizione manoscritta che,laddove non tace,dà il nome del volgarizzatore:Taddeo,accordandosi col passo di Dante ; e d'altra parte non sarebbe lecito trascurare quegl'indizi che non danno certamente più come sicura l'unità delvolgarizzamentodiBono.Nedevefareombra l'appellativo di « laido » dato da Dante al volgare di Taddeo, giacchè per C. MARCHESI.  ( 1 ) O p . c i t ., p . 1 4 2 . 2   certo questo non è il modello migliore di prosa trecentistica, e la opinione del Nannucci (1),di cui si fa forte il Sundby,può ri tenersi giustificata da un sistema di ammirazione proprio della fede e dell'entusiasmo delle generazioni passate per tutti i do cumenti letterarî del nostro trecento. Tutto dunque ci fa credere che il volgarizzatore sia maestro Taddeo : 1 ) Esiste una sola Etica volgare in tutti i codici; 2 )i codici che portano il nome del volgarizzatore l'attribuiscono a m a e s t r o T a d d e o ; 3 ) l a d i c h i a r a z i o n e e s p l i c i t a d i D a n t e , il q u a l e ha l'aria di parlarne come dell'unico,comunemente noto,vol. garizzamento ch'esistesse a suo tempo dell'Etica latina. kesta anche esclusa la prima congettura,che Taddeo volgarizzasse il francese di Brunetto ; Dante ce lo dice esplicitamente : « colui « che trasmutó lo latino dell'Etica ». Del resto, a prescinder da altriargomenti principaliedecisivi,ch'esporremosubito,ilcom: pendio volgare dell'Etica non può ritenersi come volgarizzamento del VI libro del Tresor per le frequenti differenze, non solo di forma ma di sostanza,che presenta rispetto al testo francese: e sono omissioni o aggiunte di pensieri,di esempi,di considera zioni, ampliamenti o riduzioni di concetti : e tutto questo non può ammettersi nella traduzione di un'opera,a meno che il traduttore non abbia voluto rimaneggiare per conto suo l'ori ginale. Dunque Taddeo volgarizzò e compendio da una delle redazioni l a t i n e d e l t e s t o a r i s t o t e l i c o , l a q u a l e e r a n o t a a l l o r a s o t t o il n o m e di Liber Ethicorum , nome ch'è anche particolarmente proprio di un'altra redazione latina della Nicomachea, letterale e molto o s c u r a , c u i il c o m m e n t o t o m i s t i c o a v e a s p i n t o a l l o r a a l l a m a s s i m a diffusione. Dal testo tomistico difatti il Sundby ( 2) fa derivare il compendio francese e volgare dell'Elica,e pone iraffronti;ve dremo appresso come il critico danese si sia messo su una falsa (1)Manuale della lett.italiana,vol.I,p.382. IlN. trova anzi l'Etica «adorna di molta purezza e semplicità di stile».  18 C. MARCHESI (2) Op. cit., pp. 144 sgg.   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 19 strada.Ad ogni modo che Taddeo abbia tradotto direttamente dal Jatino ci è confermato dal confronto tra l'Etica volgare e il Liber Ethicorum da cui dipende; se avessimo scarsezza di argomenti o mancanza di prove sicure potremmo anche valerci delle soscri zioni di taluni codici dell'Etica e del Tesoro che indicano il nostro volgarizzamento come Elhica Aristotilis e più spesso Liber Ethi corum ,facendoci sospettare lasua provenienza dal testo latino. Di maestro Taddeo i codici (4. y.) ci dicono soltanto che su « florentino » e Dante aggiunge ch'ei fu medico, « Ippocratista ». Di un Taddeo, d'Alderotto, fiorentino, « fisico massimo », scrisse, con la solita ingenuità,una breve vita Filippo Villani (1),il quale ce lo descrive di parenti oscuri, poverissimo, dedito ai mestieri più vili, e « col cerebro oppilato e tenebroso » fino ai trent'anni (2). Passati gli anni trenta « si consumarono quegli «umori grossi»;Taddeo divenne un altro uomo e rivelòilsuo ingegno dedicandosi allo studio delle arti liberali,della filosofia e per ultimo della medicina,che insegnò pubblicamente a Bo logna. Dice il Villani : « Fu costui de' primi infra' moderni che adimostrò le segretissime cose dell'arti nascoste sotto i detti « degli autori, e la spinosa terra e inculta solcando all'ottimo « futuro seme apparecchiò. Questi, sprezzati alcun tempo i so pravvegnenti guadagni,cupido di gloria e d'onore,si dette a « commentare gli autori di medicina. Nella qual cosa fu di tanta «autorità,che quello ch'egli scrisse è tenuto per ordinarie achiose,lequali furono postene'principali libridimedicina. « E fu in quell'arte di tanta reputazione, quanto nelle civili « leggi fu Accorso, al quale egli fu contemporaneo ». Il Villani ci riferisce inoltre un aneddoto molto curioso, riportato poi dal (1) Le Vite d'uomini illustri Fiorentini,colle annotazioni del co.G. M a z zucbelli,Firenze, 1847,pp.27-28. (2) Il Biscioni, in una nota sopra Taddeo, inserita nelle Prose di Dante e del Boccaccio, Firenze, 1723, vuol dimostrare che Taddeo era di famiglia cittadinesca,che possedeva effetti stabilieche prese per moglie una de'Ri goletti, il cui padre aveva il titolo di dominus, che in quei tempi si con cedevasoltantoa cavalieri.Cfr.notadelMazzuchelli,Op.cit.,p.98.    20 C. MARCHESI Negri (1) e dal Fabricio (2), intorno agli eccessivi compensi che Taddeo « tenuto come un altro Ippocrate da'Signori d'Italia in « fermi » (3), esigeva per le sue visite giornaliere ; e ci narra che chiamato a Roma dal pontefice,Onorio IV,richiese cento ducati d'oro al giorno; invece,dopo la guarigione del pontefice, n'ebbe in compenso diecimila (4).Il Villani non ci dà alcun cenno cronologico;dice solo che fu seppellito a Bologna d'anni ottanta.Giovanni Villani (Storie, VIII,cap.65),seguito dal Fa. bricio, dal Poccianti e dal Cinelli, pone l'anno della morte nel 1303;l'Alidosi sostiene invece che Taddeo morisse nel 1299,il Biscioni nel 1296 (5) e il Negri (6), per approssimazione, nella fine del sec.XIII.Delle opere di Taddeo ci attesta il Mazzu chelli (7) ch'esiste una raccolta a stampa col titolo « Expositiones «inarduumAphorismorumHippocratisvolumen.Indivinum « Prognosticorum Hippocratis librum . In praeclarum regi. a minis acutorum Hippocratis opus. In subtilissimum Iohan «nitiiIsagogarum libellumIohan.Bapt.Nicollini Salodiensis aoperainlucememissae.Venetis,apudLuc.Antonium Iuntam, «1527».Scrisseancheinci.Galeniartemparvam commen taria, Neapoli, 1522. Il Mazzuchelli, che attribuisce anch'egli a Taddeo la traduzione in volgare dell'Elica d'Aristotile,aggiunge che nella libreria dei pp.Minori Osservanti in Cesena si con serva un ms.intitolato Magistri Taddei Glossae in Galenum, eiusdem Aphorismata.Di maestro Taddeo si conservano in al cuni codici (8) parecchi trattatelli medicinali e fra questi è par (1)Istoria degli Scrittori Fiorentini,Ferrara,1722,p.508. (2)Biblioth.latinamediae etinfimaeaetatis,Patavii,1754,t.VI,p.221. (3)Notissimo anche un distico del Verino (de illustr.urbis Florent., lib.I)su Taddeo:«Est quoque Thadaei celeberrima fama,non alter For « sitan in medica reperitur ditior arte ». (4) A proposito di questo aneddoto vedi la erudita nota del Mazzuchelli, Op.cit.,pp.98 sgg.  (5)Cfr.Mazzuchelli,Op.cit.,pp.99 sgg. (6) Op. cit., loc. cit. (7) Op.cit.,p.98. (8)Biblioteca Angelica (Roma),1376 a c.321: Thaddaei de florentia   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 21 ticolarmente diffuso un libellus de seruanda sanitate o libellu's conseruandae sanitatis, dedicato a Corso Donati (1). Fra i m a noscritti che lo comprendono è di speciale importanza l'Ambro. siano J. 108 sup.,del sec.XIII (2),per una nota posta in principio, d i m a n o d e l l o s t e s s o c o p i s t a c h e t r a s c r i s s e t u t t o il c o d i c e : « I s t e « libellus |scriptus et compositus per probissimum et prudentis « simum uirum dominum magistrum Taddeum de Flor. doctorem « in arte medicine in ciuitate bononie | transmissus nobili militi « domino Curso donati de florentia », È notevole anche il proemio del trattato medicinale:« Quoniam passibilis et mutabilis a existit humani corporis conditio, complexionem et consisten « tiam quam a principio sue originis homo habuit non seruando, « necessarium extitit artem et scientiam inuenire,per quam in « sanitate et natura et corpus hominis conseruetur, motus igitur « precibus et amore cuiusdam mei amici,multa mihi dilectionis «teneritate coniuncti nec non pro utilitate aliorum hominum, « more uiuentium bestiarum ad conseruationem sanitatis et uite « in humanis corporibus libellum medicinalem inuenire disposui « de libris et dictis philosophorum breuiter compilatum ». Da queste ultime parole risulta ancor meglio l'identità ch'è tra l'autore del libellus, studioso sfruttatore e compendiatore di m a teria filosofica e l'autore del nostro compendio volgare dell'Etica. Il trattato di Taddeo,molto curioso,contiene quei precetti igienici che bisognerebbe osservare fin dal principio della giornata in torno alle abluzioni del capo,all'igiene della bocca,dello stomaco, libellus medicinalis ; 1506, c. 46t : Magistri Thaddaei de florentia de r e giminesanitatis;1489,c.160:Curacrepotorummagni Tadeiabeocom posita. (1)Riccardiana,1246;Magliabechiana,cl.21,cod.62;141. (2)Membran.a due colonne;contiene:19) Vegetii de re militari libri; 29) Isiderus de bellis; a c.31a segue la notissima epistola de cura et modo rei familiaris di Bernardo,al gratioso militi et felici domino Raimundo domino CastriAmbrosii;a c.32asegue iltrattatodiTaddeo.Ilcod.consta d i c c . 3 5 n . n u m ., l a c . 3 4 * e 3 5 a v u o t e . Q u e s t o c o d . s i t r o v a l e g a t o a s s i e m e con un altro membr.dello stesso formato,di cc.19 scritte perdisteso,con tenente i Saturnali di Macrobio.    22 C. MARCHESI de'cibi,delle bevande,della digestione,del sonno;sulle condi zioni del corpo umano durante le diverse stagioni e quindi sulla igiene delle stagioni. Segue a dire della efficacia terapeutica, molto larga,dialcune pillole,da prendersi avanti o anche dopo ilcibo,compostedaun«frateRobertodeAlamania»conuna quantità di sostanze vegetali e aromatiche. La parte trascritta nel cod.Ambros.finisce con la ricetta adatta «ad faciendum «cristerepropassioneyliaca». QuestoTaddeofamosissimo medicodelsuotempoedanchepoeta(1),autoredicommentari e di trattati, insegnante l'arte della medicina nell'Accademia di Bologna,fualtresìquellochetradussedallatinoinvolgare il compendio dell'Etica aristotelica. E veniamo al VI libro del Tresor. È noto ed è stato detto da tutti gli editori e gli studiosi del Tresor, ch'esso risulta da m o l teplici e varie compilazioni fatte in diverso tempo da Brunetto, su scrittori specialmente latini; poi riassunte e combinate nel compendio enciclopedico francese del maestro di Dante. Lo C h a baille anzi afferma che Brunetto avea preludiato alla compila zione del Tresor con opuscoli separati in prosa e in verso, fra cui l'Elica d'Aristotile,ch'egli dunque suppone,come parecchi altri,compendiata e volgarizzata da Brunetto Latini,prima della compilazione del Tresor (2). Ma su ciò non vale la pena discu tere,giacchè sarebbe combattere contro imulini a vento. ( 1 ) M a g l i a b e c h ., c l . X V I , c o d . 7 5 , T a d a e i m a g i s t r i d e F l o r e n t i a C a r m i n a . (2) Op. cit., Introd., p. vi.  Riferiamo un passostesso di Brunetto:Liv.I,cap.I:«Il « (cist livres) est autressi comme une bresche de miel cueillie « de diverses flors; car cist livres est compilés seulement de « mervilleus diz des autors qui devant nostre tens ont traitié « de philosophie, chascuns selonc ce qu'il en savoit partie ; car « toute ne la pueent savoir home terrien, porce que philosophie « est la racine d'où croissent toutes les sciences que home peut   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 23 « savoir ». Egli dunque non dice di essersi limitato a raccogliere e tradurre scritti latini soltanto; e si deve intendere anche di volgari. Fra questi è il compendio dell'Etica di maestro Taddeo che Brunetto, valendosi anche di raffronti continui con il testo latino originale,trasporto nel VI libro del suo Tresor. Allo Zannoni, il quale riteneva che Taddeo avesse tradotto Aristotile di latino in italiano e che Brunetto poscia voltasse il testo di Taddeo in francese (1), il Sundby opponeva le parole di Brunetto, che nel Prologo della seconda parte (il VI libro del Tesoro volgare)dichiara di tradurre il libro d'Aristotile de latin en romans (2).Per venire in aiuto di quanto abbiamo asserito non è necessario ricorrere alla sottile nota del Paitoni (3),ilquale sosteneva che il volgare italiano si chiamava anche « latino » ; giacchè essendosi Brunetto servito non solo del volgare di Taddeo, ma anche,come vedremo,della redazione originale latina,anzi avendo acconciato e rifatto in molti punti il volgare in base al t e s t o l a t i n o , è c h i a r o c o m e a b b i a p o t u t o d i r e d ' a v e r t r a t t o il s u o compendio dal latino,che del resto è anche l'originale dell'Etica diTaddeo. E poniamo lenostreconclusioni.Ilcompendiovolgaredell'Etica è la traduzione che maestro Taddeo fece di una delle redazioni latine del testoaristotelico,laquale ci è rimasta.La traduzione è in gran parte fedele al contenuto, nella forma è condotta al quanto liberamente: spesso il traduttore compendia la materia, d'altra parte allarga sempre la frase o il concetto e diluisce nel volgare il testo latino per bisogno di ripetizioni o di esempi o di ampliamenti,servendosi,come fa in principio,di qualche altro rifacimento o aggiungendo delle dichiarazioni proprie.Taddeo non è un traduttore letterale che si preoccupi della frase e voglia mantenersi fedele alla parola o al tenore dell'esposizione; egli (2) I codici del Tesoro traducono « di latino in uolgare », ovvero « di « latino in romanzo » o « di gramaticha in uolgare ».  (1)Op.cit.,c.s. ( 3 ) O p . c i t ., c . s .   è solo un interprete occupato del contenuto che pur vuole p a recchie volte acconciare dal lato espositivo nella maniera più rispondente, secondo lui, a'bisogni della chiarezza e della s e m plicità.È l'originale una traduzione latina,già compiuta nel l'anno 1243 o 44 (1), di un compendio alessandrino-arabo della Nicomachea,elementarissimo,semplice e piano,ridottoa una esposizione riassuntiva molto breve, e talvolta anche efficace, nonostante l'incertezza e la poca fedeltà di talune espressioni. Molti luoghi fondamentali, anzi diciam pure tutte le parti più notevoli per gravità e serietà di enunciati,per difficoltà di contenuto critico, vengono senz'altro omesse interamente, o ri dotte alla loro ultima e più semplice espressione. Cosi, per dare qualche esempio , nel 1° libro è saltato il passo importante al principio del cap.3,in cui Aristotile nega la possibilità diotte. nere una precisione assoluta nei giudizi e pone la necessità del giudizio per approssimazione ; altra omissione considerevole è quella della prima metà del cap.4,in cui Aristotile passa alla definizione del supremo de beni, alla critica del concetto di fe licità, e si accinge a discutere la dottrina platonica del bene assoluto; è tralasciata pure tutta la confutazione della dottrina platonica delle idee (cap.VI) e l'astrusa enunciazione fondamen tale dell'Eudaluovía aristotelica considerata come bene vero ed assoluto che comprende in sè, unificandoli, tutti gli altri beni necessari all'autarchia della vita ; e della seguente trattazione intorno a'principii (cap. VII) non è alcun cenno nel compendio . Dei brani accolti tuttavia è vero e proprio ampliamento. Ad ogni modo il testo si prestava benissimo all'intelligenza comune per l'intendimento più facile e semplice e la forma più piana che non l'oscurissimo Liber Ethicorum del commento tomistico. (1)Questo compendio fu conosciuto prima dal Jourdain (Op.cit.,p.144) in un codice,no 1771,della Sorbona; e più tardi dal Luquet (Hermann l'Allemand, in Revue de l'histoire des Religions, Paris, 1901, t.44,p.410) in due mss. della Biblioteca Nazionale : il n ° 12954, che pone la data della versionenel1244,eilno16581cheèforselostessovedutodalJourdain.  24 C. MARCHESI   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 25 Come compendio poteva anzi dirsi ben riuscito;giacché per ri durre allora in più brevi proporzioni l'Elica nicomachea, ch'è da per sè una condensazione poderosa delle norme logiche e de principi esposti nell'Organo, bisognava appunto sfrondarla di tutti i luoghi più ardui 'a spiegarsi e a comprendersi senza l'aiuto di richiami e di collegamenti, e semplificarne e chiarirne il contenuto eliminando la rassegna delle opinioni e la parte critica, sopprimendo le divisioni minori, togliendo il carico degli argomenti favorevoli o 'contrarî ad ogni problema e riducendo questo alla sua più semplice ed elementare espressione.Ilcom pendio arabo latinizzato era dunque il testo etico aristotelico di moda piùrecente.Essocièrimasto,sottoilnome diLiber Ethico r u m , i n u n c o d i c e L a u r e n z i a n o , g i à G a d d i a n o ( P l u t . 8 9 i n f ., 4 1 ) membr.in fol.del sec.XIII,a due colonne,di cc.scr.219,miscell. enontuttodiunamano;contiene:1)unaCronicadianonimo; 2)laHistoria troiana di Darete frigio,premessa un'epistola:Cor nelius Nepos Sallustio Crispo suo salutem ; 3) Graphia aureae urbisRomaeseuantiquitatesurbisRomae dianonimo;4)Eu tropii historia romanae Ciuitatis dilatata a Paullo Diacono : 5) Liber Alexandri regis ; 6) un'epistola di Alessandro ad Aristo tile intorno alle regioni e alle cose notevoli delle Indie ; 7) Liber Sibyllae, di Beda ; 8) un'epistola dell'abate Ioachim ; 9) un'ora zionediSenecaaNerone;10)iLibrideremilitaridiVegezio; 11)ilLiberEthicorum,d'Aristotile:vadac.131ac.142;la materia è distribuita in ventidue capitoli indicati dalla iniziale colorata;manca ognialtradivisione.Com.:Incipitliberprimus Ethicorum .R.;allafine:Incipiamus ergoetdicamus.Explicit prima pars nichomachie Ar.que se habet per modum theo rice et restat secunda pars que se habet per modum pratice. Et est expleta eius translatio ex arabico in latinum . Anno incarnationis uerbi M. CC.XLIII.Octaua die Aprilis. La soscrizione, importantissima per la storia di questa reda zione,è di mano dello stesso copista,scritta con lo stesso in chiostro e coi medesimi caratteri di tutto il testo aristotelico. Seguono di mano più recente e in carattere minuto alcune cita    zioni dell'andria e dall'Eunuco di Terenzio.La lezione dell'Etica verso la fine è molto incerta e in taluni punti a dirittura insa nabile. Dopo il Liber Elhicorum vengono le orazioni catilinarie e iltrattato de Senectute,l'orazione di Sallustio contro Cicerone, l'invettiva di Cicerone contro Sallustio, le orazioni pro Marcello , pro Ligario,proDeiotaro,ilibride Officiis,iParadoxa,epoi la Catilinaria e il Giugurtino di Sallustio; seguono, di mano del sec.XIV,alcune bolle di papa Bonifacio VIII. La versione dell'Etica, compiuta nel 1243, si deve con molta probabilità attribuire ad Ermanno ilTedesco (Hermannus Alemannus),il quale trovandosi in quel tempo nella Spagna,a Toledo,aveva due anni prima (nel 1241) ridotto in latino il commento di Averroè alla Nicomachea,e più tardi nel 1256 compi la versione di altri due testi arabi di Averroè relativi alla poetica e alla retorica d'Aristotile. La traduzione di Taddeo,che dovette essere di poco,meno di un ventennio, posteriore, corse ed ebbe fortuna e divulgazione ; ce lo attesta il buon numero di codici, l'uso che ne fece Brunetto, la dichiarazione di Dante che ne parla come di cosa comune mente nota,egli che molte espressioni del volgare di Taddeo ricorda nella sua Commedia . Brunetto Latini più tardi si accinse a svolgere nella parte morale del suo Tresor la dottrina etica di Aristotile. Egli si servi del volgare di Taddeo,ma prese anche i n m a n o il t e s t o l a t i n o : c e l o d i m o s t r a n o l e a g g i u n t e e l e m o dificazioni introdotte, che corrispondono in tutto con il Liber Ethicorum ; qualche altra volta ridusse il volgare di Taddeo e quindi con esso anche il latino della redazione araba. Nessuno vorrà certo ancora dubitare che l'Etica di Taddeo sia tratta dal compendio francese di Brunetto, rivendicando a questo la priorità; giacche,pur volendo saltare sul passo di Dante, sulla particolare designazione de'codici,sulla tradizione isolata dell'Elica volgare,rimane sempre una barriera dinanzi a cui bisogna fermarsi:la materia de'due Compendî.La dipendenza diretta dell'Elica dal testo latino ci è fra l'altro attestata dalle numerose espressioni latine trasportate di peso,quando corrispon  26 C. MARCHESI   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 27 dano nel lessico volgare, nel compendio di Taddeo; mentre Brunetto è costretto tante volte a tradurre dirersamente,m u tando la dizione, e dall'Elica e dal Liber Ethicorum . D'altra parte poi nell'Etica molte cose ci sono che mancano nel com pendio franceseeche pur dipendono dal testo latino.Un'ultima prova : tutti i codici dell'Elica e del Tesoro si chiudono allo stesso modo, con le stesse parole, e la chiusa non corrisponde al testo francese. Brunetto va più in là di Taddeo : egli include nel suo compendio tutta la fine del rifacimento latino. Se si do. vesse considerar l'Etica come un volgarizzamento del libro VI del Tresor,anzi che come un compendio indipendente,non si spiegherebbe più quella ostinata lacuna e quella costante diver genza alla fine. Solo cinque codici dell'Elica, di trascrizione al quanto tarda, seguono volgarizzando l'opera di Brunetto : i tre c o d i c i M a r c i a n i e i c o d d . 9 e A m b r o s . C 2 1 . i n f ., i q u a l i r i v e l a n o molto chiaramente l'influenza del testo francese. In essi il brano finale è volgarizzato in modo del tutto differente; ciò è na turale: giacchè nessun codice dell'Etica e del Tesoro dava quella parte del testo francese, i trascrittori, che tennero l'occhio al Tresor , dovettero pensare , ciascuno per conto proprio, a volgarizzarla.Anzi il Marciano II, 134 contiene tutto quanto ilcompendio di Taddeo,compreso ilbrano finale rias suntivo,che non si trova invece negli altri codici dell'Etica o del Tesoro iquali proseguono col testo francese sino alla fine; e questa nel Marc.II,134 ci appare evidentemente come una sovrapposizione voluta dal trascrittore. Naturalmente tutti i giudizi e i sospetti di ampliamenti, di aggiunte, di mutamenti arbitrarî del volgarizzatore, di sbagli continuati degli amanuensi, agitati dagli editori del Tesoro, ca dono innanzi all'entità e al valore storico diverso dei due com pendi, volgare e francese. E data la priorità del volgare, cadono anche meschinamente tutti i tentativi di emendazione apportati dagli editori alla lezione del VI libro in base al testo francese (1).  (1) Nel Propugnatore (1874, pp. 105 sgg.) il Gaiter, che accudiva allora   Quale dei due traduttori,in fine,abbia merito maggiore non possiam dire.Taddeo ha ilmerito della priorità;Brunetto che lavoròappresso a lui è più fineecompleto,e poi anche ilfran cese si prestava allora molto meglio del volgare italico.Taddeo qualche volta amplia o riduce la materia, Brunetto si richiama al testo.Siamo nel periodo de compendi e dell'enciclopedia. U n compendio fatto è fatica risparmiata al maestro che deve dire le«chose universali».Brunetto,che aveva intelligenza fine, trasse il compendio italico alla lingua di Francia e l'incluse n e l l'opera sua e ne colmo le lacune e ne affino i contorni e lo ripuli di fronte al testo latino,da cui egli pompeggiandosi dicea di aver tratto la parte morale del Tresor. E non fa cenno di Taddeo : egliaccoglie,corregge,assimila;d'altraparteètuttauna let teratura e una divulgazione anonima quella che dall'ultimo m e dievo va al trecento,e i diritti di proprietà letteraria non sonoancor sorti. E poi maestro Taddeo forse non appariva degno di menzionespecialealmaestrodiDante;echisa,forse,che in questo non dobbiamo trovare indizio di una lotta accademica, svoltasi di mezzo al laicato dotto della seconda metà del dugento e nel trecento,negli Studi pubblici,tra medici inchinevoli alle lettere e letterati avversi a'medici ? C'è però da osservare che nel ritocco della materia volgare,in base al testo latino, Bru netto non va oltre qualche singola espressione o frase, trascurata o ridondante. Egli non si attenta mai a rimaneggiare e ad ac conciare la materia nel contenuto ideale, per il modo con cui le idee furono rese nel volgare o compendiate o disposte o interpretate riguardo all'originale latino.Questo dunque testi monia onorevolmente che Taddeo era allora ritenuto autorevole  28 C. MARCHESI a preparare,con l'aiuto dei mss.e del testo francese,la sua edizione del l'operadiBrunetto,inunsaggiodicorrezionialVI libro,siscagliasempre, con taluni intendimenti spiritosi,contro l'amanuense che tanto strazio avea fatto del presunto volgare di Bono ; e con l'aiuto del testo francese si affanna a correggere gli sbagli e a colmare le lacune lasciate dai trascrittori e da Bono stesso.   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 29 ed esperto intenditore del trattato aristotelico anche da un uomo per cultura famoso come ser Brunetto, sebbene al grande di scepolo di costui non apparisse ugualmente felice dicitore del volgare. Dunque Brunetto si valse del volgare di Taddeo (1), ch'ei ri. dusse e acconciò in molti punti in conformità al testo latino, come si vedrà chiaramente dal confronto che faremo. Più tardi gli amanuensi del Tesoro,al posto del VI libro,introdussero il volgare già ben noto dell'Elica, essendo ben chiara e conosciuta la dipendenza del compendio francese dall'altro volgare.Cosi resta anche spiegato il fatto che parecchi codici del Tesoro si fermano all'Etica: Il compendio di Taddeo rimaneva, rispetto al VI libro del Tesoro, originale e fondamentale ; in un volgariz zamento italico dell'opera di Brunetto esso dovea necessariamente e naturalmente tenere il posto del francese che da esso proveniva. Già anche loChabaille noto come la seconda parte del Tresor, interamente consacrata alla morale, offre «plus d'ensemble « et plus d'unitė » (2); ed anche noi durante l'esame critico dei codici abbiamo potuto osservare come appunto il VI libro non presenti quella lezione così fluttuante, incerta, caotica degli altri libri;ciò è ben chiaro:icopisti avevano un testo già da lungo tempo fissato. Con questo se abbiamo voluto rilevare la differenza che l'Etica offre, nell'incertezza minore della lezione, rispetto a'libri volga rizzati del Tesoro,non intendiamo affermare che la lezione del compendio di Taddeo siacostante e sicura.La mancanza diuna lezione rigorosamente affine nella maggior parte dei codici si deve al fatto ch'essi servivano non ad uso letterario, nel qual caso la lezione avrebbe dovuto essere molto più rigorosa,ma ad uso morale;per cui itrascrittori,quando non erano affatto (1) Così lo studio accurato della questione e la inconfutabile testimonianza del documento son venuti a confermare in parte la fortunata ipotesi dello Zannoni. (2) Op. cit., p. xv.    30 C. MARCHESI Ho già detto che gli amanuensi introdussero il compendio di Taddeo nel posto del VI libro del Tresor ; ho detto gli amanuensi e non il volgarizzatore, giacchè non mancarono alcuni (non oso affermare se Bono od altri) i quali vollero volgarizzare tutta l'opera,compreso il VI libro; ma il nuovo volgare dell'opera francese,di fronte al comunissimo compendio originale di Taddeo , rimase eclissato e restò soltanto in pochi codici quattrocentini, che ho potuto rinvenire.I codici sono due,di valore e di con tenuto diverso. 1°) Magliabechiano 21. 8. 149 cartac.del sec.X V , in 4o,di cc.53 scritte ed 8 bianche,anepigrafo.Ilcod.contiene l'Etica tratta evidentemente dal Tresor, giacchè va oltre il limite del compendio di Taddeo, e comprende la chiusa del libroVI dell'originalefrancese.A c.46'segue,senzaalcuna par ticolare indicazione, il trattato sulla « doctrina di parlare > ad Alessandro;infineac.53':ExplicitAristotilisEuthica uul garisAmen.Lalezionesimantieneperunabuonametàfedele al testo comune dell'Elica; dal cap.47 (1)sino alla fine presenta una grande ed accentuala differenza e mostra evidentemente la (1) Secondo la edizione Gaiter.  ignoranti,semplificavano dove e come volevano,buttando giù il periodo anche ridotto, che sembrasse loro di rendere in ogni modo fedelmente l'idea espressa dall'autore e di significare lo stesso concetto. Nei codici dell'Etica si trovano molte espressioni qualche volta incerte, fluttuanti dalla differenza ortografica al periodo ridotto o allargato o smembrato o dissennato, che ci testimonia da una parte della negligenza o della caparbietà di trascrittori ignorantelli,in un tempo in cui tutti quanti tenevano un crogiolo dove manipolare la pasta morale delle dottrine ari. stoteliche o supposte tali, e dall'altra parte dello stato de' testi donde copiavano,che,data lagrande diffusionedell'opera,doveano a forza portare le tracce di cancellazioni,aggiunte,modifica zioni,lasciatevi dai possessori:filone di muffa questo che ci fa tante volte scivolare il piede lungo il percorso delle trascrizioni trecentistiche di autori ritenuti catechisti o morali.   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 31 L'Etica (ediz.Manni, Li Tresors. Liv. II, Magliabech. 21. 8. pp.52sgg.).L'uomo part.I,chap.XLI.Li 149. c.33 . ch'è buono si diletta in bons hom se delite en semedesimoabbiendo soimeisme,pensantas allegrezza delle buone bones choses; autressi operazioni,eseegliè sedeliteilavecsonami, buonomoltoallegrasi cuiiltientautressicom conl'amicosuo,loquale mesoimeismes.Maisli eglitienesiccomeun mauvaishomtozjorsest altrosè;mailreofugge enpaor,ets'esloignedes dallenobiliebuoneope- bonesoevres;etseilest razioni,os'eglièmolto moltmalvais,ils'esloi reosifuggedaseme- gnedesoimeisme;car desimo,peròchequando eglistasolosièripreso da ricordamento delle maleopere,ch'egliha fatto,enonamanèse, faites,etblasmesacon. nèaltrui,perciòchela science,etporcehetil natura del bene è tutta mortificatainluinel profondo della sua ini- quità;nènonsidiletta soiettozhomes;etce avientporcequelara cine de touz biens est ilnepuetseulsdemorer, sanztristesce,porceque illiremembredesmau vaisesoevresqueila  influenza continuata del testo francese, si che c'è da pensare a unanuovaredazionesovrapposta.Riportounbranochevalga a far notare meglio le differenze e le relazioni dell'Etica di Taddeo col testo francese e il volgare del cod.Magliabechiano. mortefiéeenlui,eten son mal ne se puet de. tutto el bene è mortifi. pienamente nel male ch'eglifa,perciòchela liter plainement, car cata in lui.etnel male naturadelmalesi'ltrae toutmaintenantque il nonsipuòdilettarepie. alcontrariodellasuadi- sedelite,enunechose namente,percioche lettazione,edèdiviso malfaite,lanaturede quand'eglisidilettadi insemedesimo,eperciò son mal si l'atrait au èinperpetuafaticaed contrairedeceluidelit. quellomalesieltrae angoscia,epienod'ama- Etàcequelimauvais al contrario di quella ritudineedisozzuradi estpartizensoimeisme, dilettatione.percioche perversità.Adunquea siconvientqueilsoitl'uomoreoèdiversoet L'uomo ch'è buono si diletta in se medesimo pensando nelle buone cose, et similmente si diletta coll'amico suo, el quale egli reputa se medesimo. Ma l'uomo ch'è reo sempre sta in paura et fuggie dall'o pere buone ; et s'egli ė molto reo fuggie da se medesimo et non può stare solo sanza tristizia, impercioch'egli si ricor da delle sue rie opere, ch'egli à fatte et ripren delo la coscienza sua. Et perciò vuole male a se medesimo et ad ogni altro huomo.Et questo èperchèlaradicedi uno male, la natura di   quello cotale uomo nes- en continuel travail de in se medesimo è m e sunopuoteessereamico, penseretplainsdemolt stierechesiaincontinua per ciò che l'amico deve insemedesimo,ecompi. ne se laisse cheoir en a lei.Lo cominciamento lla possa tornare a bene. doit efforcier chamentodellainiquità lettazione,laquale l'huo piglia accrescimento gars; mais li fermes mo ba nelle femmine, per usanza di tempo. liensquitozjorsestavec alqualesiuadinanzi L'officio del confortare l'amistiéetquipointne unodiletteuolesguarda  32 C. MARCHESI sance sensible ; et ce confortamento,ma pare cede loconfortamento poonsnosveoirpar.i. essereetsomigliarsia puoteesseredettaami- homequiaimeparamors llui;maelcomincia stade per similitudine, une dame,car tout avant mento dell'amista è di infinoatantoch'ella passeunsdelitablesre scunouomosideeguar- niuno huomo può essere chosequiàamerface. amicoaquellotale,per dare ch'egli non caggia in questo pelago d'ini- sere et en itele male niuna cosa la quale sia quità,anzi si dee isfor- zare di venire a finedi mecineparcuiilpuisse seria et tale infelicità bontà,perlaqualeabbia Certes, et en itele mi- cioch'egli non ha in se aventuren'aurailjà daamare.Ettalemi. ainz se felicitade.Adunquecia. queiln'aenluinule maliceetdeiniquitéque ch'eglinonsilascica mentononèamistà,ave- l'on ne puet raembre, dereinquestoistraboc gnachè egli si somigli inordinato! Addunque dilettazione e allegrezza àbienvenir:donques nonhamairimedioche chascuns se gart que il chascunsqueilviegne etdellamalicialaquale àlafindebontépar èsanzarimedio|anzisi dell'amistà si è diletta zionesensibileavutadi- quoiilsepuissedeliter del'uomo sforzare ac nanzi,si come l'amista mento d'allegrezza colli tel tresbuchement de suoi amici.Lo conforta. Addunque ciaschuno huomo si de guardare amertume,etyvresde fatichaetpensieroetsia avere in se cosa da a- laidesceetdeperversité, pieno di molta amari mare.E questo cotale etqueilsoitdestortpar tudineetèebbrodisoz hae in se tanta miseria, misere neant ordenée. zura di peruersita, et che non è rimedio niuno Donc nus ne puet estre sia distorto per miseria ch'egli possa venire a amisdetelhome,porce en soi meisme et avec cioch'elli uengha alla d'unafemina,allaquale sonami.Confors n'est finedellabontaper la v'hadinanzidilettevoli pasamistié,jàsoitce qualeeglisipossadi guardamenti,eladiletta- que illesembleàestre: lettareinsemedesimo, zionesièlegamedell'a- mais li commencemens et hauere compimento mistà,eseguitalainse- d'amistiéestunsdeliz didilettationecolsuo parabilemente.Ladispo- rasavorez par conois- amico.L'amistà non è sizione dalla quale pro   Gli huomini rei tardo s'accordano nelle oppi nioni : et sono sanza parte d'amista, et per  IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 33 se desevre, ce est deliz. si pertiene a colui ch'à insegravezzadicostumi ed esercizio di vertude, unità d'opinione e con cordia di mettere amore, perciò che le discordie dell'openione sono da trarre dalla nobile con. gregazione,acciòch'ella rimanga unita di pace e in concordia di volon tade. Quelle cose che danno altrui vera digni. tade da reggere,sisono le uirtudi e le loro opere e l'unità dell'oppinione; e questo si truova negli uomini buoni, concios sia ch'egli sono fermi e costanti in fra loro, e nelle cose di fuori, perciocch'egli uogliono bene continuamente.Ma rade volte addiviene che gli uomini si accordino in una oppinione,eper cagione di compiere gli loro desideri si soste: gnano molta briga e molta angoscia e molta fatica, ma non per ca. gionedivertude,ehanno moltesottilitadiinseper ingannare colui,con cui hanno a fare, e perciò sempre sono in rissa e in tenzone. C. MAECHESI. 3 .Cil habiz dont pre mierementnaistlicon fors puet estre apelez amistié par semblant jusqu'à tant que il croist par longuesce de tens. Et li ofices dou confort affiert au preudome et au ferme que il soit griez en moralité de sa vie et es proesces et es costumes et toutes ver tuz, et plains de science et de bone opinion et de concorde, desirrous d'a. mor ; por ce devroient estre ostées toutes des cordes et malvais pen. sers d'entre les nobles compaignies des homes, si que il puissent vivre en pais et en concorde de propre volonté,cele chose qui plus aide à maintenir et governer les dignitez des vertus et ses oevres.Et la con corde des opinions et es bons homes,porcequ'il sont parmenant dedans soi et es choses dehors ; car toutes foiz jugent et vuelent bien. mentoellegamechenon si parte e sempre con lei et la dilettazione (sic). L'abito dal quale pro ciede confortamento si può dire amista per si. militudine infino a tanto ch'elli crescie per lungo temporale. L'ufficio del confortatore s'appartie ne a buono huomo et al fermo, el quale è graue di costumi et exercitato nelle uirtu,et essere pie toso di scienza et auere accontamento d'oppinio. ni, et concordia intro ducta d'amore (sic),per. ciò che le discordie delle oppinioni sono per disfa re le diuisioni dell'opere le quali sono nella nobile congregazione in con cordia di uolontà .Quella cosa la quale aiuta reg. giereladignitàelavirtu et l'opere delle uirtu.et concordiadelleoppinioni si truoua negli huomini buoni et costanti intra se et nel desiderio delle cose di fuori, percio che perano bene et uogliono Limauvaishomepo bene. s'acordent à lor opinion ; car il n'ont en amistie nulepart,etporacom plir lor desirriers suef questi cotali sempre ado   frentilmaintespoines chagionedicompierele etmainttravailconmie leloroconchupiscienzie poramistié;etsontes eglisostengonomolte mauvaishommesmain- faticheetmoltitraua tes mauvaises soutil- gli:. per chagione d'a lancesporengigniercels mista, et molti scaltri quiàelsontàfaire,et mentietmoltesottilita. porcesontiltouzjors Etsonohuominireiper enpaineetenangoisse. chagione d'ingannare L'altro codice, che ci presenta una redazione affatto nuova e dipendente in tutto direttamente dal testo francese, è il Maglia bechiano II.II.47 (vecch.segn.VIII.1376),cartac.delsec.XV, a due colonne,di cc.scr.160 ; con le didascalie in rosso e rozzo disegno a colore nella prima iniziale e ne'margini della prima pagina.Contiene il Tesoro;precede un indice della materia:a c.5*:QuestolibrosichiamailTesoroilqualeèchauatoper lo maestro Burneto Latino di firenze di piu libri di filosofia che sono strati per li tempi; a c.59a : Qui comincia l'eticha di Aristotille; finisce l'Etica a c.76*: Qui finisce illibro dell'eticha d'Aristotille. La soscrizione finale a carta 160 4: Qui finisce il libro del Tesoro che fece il maestro bruneto Latino di firenze. dio ne sia lodato.La lezione offertaci dal ms.Mgl.è infelicis sima e costellata di sbagli, di contorcimenti e travisamenti di parola che pare non si possano attribuire tutti quanti al copista : il volgarizzatore in molti punti dà a vedere di essere poco felice conoscitore del volgare come poco esatto intenditore del francese.Molte espressioni francesi o sono adattate malamente all'idioma italico o lasciate intatte a dirittura e trasportate di peso nel volgarizzamento. Ma ciò vedrà il lettore nel con fronto che poniamo tra il testo del Liber Elhicorum e l'Elica di  34 C. MARCHESI coloro ch'anno a fare con loro.per cio sempre sono in brigha et in a n goscia.   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 35 Taddeo (1) col compendio francese di Brunetto e il volgare del VI libro del Tresor ; confronto da cui balza fuori un docu mento largo e complesso,vivo e certo della tradizione morale aristotelica, nel tempo in cui visse e conobbe e compose Dante A lighieri. (1) Dell'Etica di Taddeo do la lezionecritica,quale risulta da'codici più autorevoli dell'Etica e del Tesoro,diversa quindi da quella offertaci dalle stampe che si son succedute fin ora.     Liber Ethicorum . L'Etica d'Aristotile. Omnis ars et omnis incessus et Ogni arte e ogni dottrina e ogni omnissollicitudouelpropositumet operazioneeognielezionepareado quelibetactionumetomniselectio mandarealcunbene.Adunquebene ad bonum aliquod tendere uidetur. dissero li filosofi, che lo bene si è Optime ergo diffinierunt bonum di. quello lo quale disiderano tutte le centesquodipsumestquodintenditur cose.Secondodiverseartisonodiversi exmodisomnibus.Suntautemin- fini;chesonotalifinichesonoope tentaperartesmultasdiuersa.Que- razioniesonotalifinichenonsono damenimsuntactioipsametetque- operazioni,maseguitansialleopera damsuntipsumactum.Cumquesint zioni.Conciosiachosachesianomolte artes ac ipsarum actiones multe, artiemolteoperazioni,ciascunahae eruntintentaperipsasmulta.Ac losuofine.Verbigrazia:lamedicina tamenactuminipsisexistitmelius sihaeunsuofine,cioèfaresanitade, actione.Estigiturintentumperme- el'artedellacavallerialaqualein dicinamsanitasetperartemregiti- segnacombattere,sihaunsuofine uamuelredactiuamexercituumuic- perloqualeellaètrovata,cioèvit toriaetpernauium structiuam naui- toria,elascienzadifarelenavi,si gatioetperdomusrectiuamdiuitie; haeunaltrofinecioènavicare;ela etistasuntactahonorabilia.Que- scienzacheinsegnareggerelacasa damautemartiumhabentsehabi- suaelafamigliasuahaeunaltro tudinegenerumetquedamhabitu- fine,cioèricchezza.Sonoalquante dinespecierumetquedamhabitudine artilequalisonogeneraliesono indiuiduorum.Ideoque quedam ipsa. alquantelequalisonospecialiecon rum sunt sub aliis, ut sub militari factura frenorum et cetere artium instrumentorum militarium , et sub tengonsi sottoquelle.Verbigrazia:la scienzadellacavalleria siègenerale, sotto la quale si contengono altre arteexercitualicetereomnesbellice scienzeparticolari,siccomeèlascienza siuelitigatorie.Etsimpliciterhono- difarelifrenieleselleelespadee rabilissimaomniumartiumestcon- tuttel'altre,lequaliinsegnanofare stitutiuaetinstructiuaceterarum(1). cose,lequalisonomistieriabatta Etquemadmodum quibusque rebus glia;equesteartiuniversalisonopiù anaturaproductisestperfectioquam degneepiùonorevilidiquelle,im. persenaturaintendit,etintellegibi. perciocchèleparticolarisonfatteper libusestperfectioquamintenditper l'universali(1).Esiccomenellecose (1) In tutto il principio del compendio di Taddeo, e quindi anche del testo francese, si sente l'influenza diretta dell'altra redazione del Liber Ethicorum , che servì di base al commento di S. Tommaso. Ecco il latino di quest'altra redazione: « Omnis ars et omnis doctrina, similiter « autem et actus et electio, bonum quoddam appetere uidentur. Ideo bene enunciauerunt bonum ,  36 C. MARCHESI   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 37 beržalglio per suo adirizamento,tutto   Tutte arti e tutte opere e tutte in. Tous ars et toutes doctrines et tramesse sono per chiedere alcuno touteseuvresettouztriemenzsont bene.Dunquedissebeneilfilosafo porquerreaucunbien,donquesdis- chequeglichetuttelecosedeside trentbienliphilosophequeceque rano è ilbene.Secondo le diuerse touteschosesdesirrentestlebien. (arti)sonolefinidiverse.Chetalifini Seloncdiversars,lesfinssont di. sonoopere,talisonoch'esconodel verses;cartelesfinssonteneuvres, l'opere.Eperciochemoltesonol'arti ettelessontcelesquel'onensuitpar el'opereciascuna à suo fine.Che medicina ae una fine cioè a fare lesarsetlesoevres,chascune a sa santade.Elafinedelabatalgliasi fin;carmedicineaunefin,ceest ènetoria,el'artedifarenauià àfairesanté;etbatailleasafin, unaltrofine,cioènauichare.Ela les oevres ; et porce que maintes sont porquoielefutrovée,ceestvictoire; scienzacheinsengnaagouernarea et les ars de faire neis ont une autre l'uomo sua magione e sua familglia fin,ceestnagier;etlasciencequi àun'altrafinecioèricchezza.Etsono enseigneàhomeàgovernersamaison alcuneartichesonogieneralieal etsamaisnieauneautrefin,ceest cunechesonospezialli,cioèpersua richesce.Etsontaucunesarsquisont diuisione,eperòsonol'unasottol'al generaus,etaucunesquisontespe- trasicomelascienzadichaualleria ciaus,c'estparticuleres,etaucunes ch'ègienerale,edisottoaquella sontsarzdevision;etporcesont sonopiùaltrescienzepartichullari, lesunessouzlesautres;sicomme cioèlascienzadifarefrenieselle estlasciencedechevalerie,quiest espadeetuttel'altrecosecheinse generaus,etdesozlisontautres gnanoafarecosecheabattalglia sciencesparticuleres,ceestlascience bisongnano. de faire frains et seles et espées, et E l'arti universalli sono più dengne toutesautresarsquienseignentà epiùonoreuolichel'altre,percio fairechosesquiàbataillebesoignent. chelleparticullarisonotrouatteper Etcistartuniversalesontplusdigne leuniversali.Ecosìtuttelechose queliautre,porcequelesparticu. chesonofattepernaturaèunadi leressont troveesparlesuniversales. retana cosa per a che la natura in Ettoutaussicommeenchosesqui tendefinalmente.Altresituttelecose sontfaitesparnatureestunedar- chesonofatteperartièunafinale reinechoseàquoilanatureentent cosaachesonoordinatetuttelecose finelment,autressieschosesquisont diquellaarte.Esicomecoluiche faites par art est une finel chose à Li Tresors. Livre II, Part. I, Magliabech.1.1.47.c.59 sq. chap.III. quoi sont ordenées trestoutes les trae di sua arte a uno sengnio à uno   38 C. MARCHESI « quod omnia appetunt. Differentia uero quaedam uidetur finiam. Hi quidem enim sunt opera «tiones;hiueropraeterhasoperaquaedam.Quorum autemsuntfinesquidampraeteroperationes, « in his meliora existunt operationibus opera. Multis autem operationibus entibus et artibus et doctrinis,multi sunt et fines.Medicinalis quidem enim sanitas,nanifactiue uero nauigatio, •yconomicae uero diuitiae.Quaecumque autem sunt talium sub una quadam uirtute,quemad «modum sub equestrifrenifactiuaetquaecumque aliaeequestriuminstrumentorumsunt:haec « autem et omnis bellica operatio sub militari ; secundum eundem itaque modum aliae sub alteris. • In omnibus itaque architectonicarum fines omnibus sunt desiderabiliores his quae sunt sub ipsis. « Horum enim gratia et illa prosequuntur . (1) Quest'esempio, che manca nella nostra redazione latina, è tratto dal Liber Ethicorum del commentotomistico:«Igituretaduitamcognitioeiusmagnum habetincrementum,etquemad. • modum sagittatores signum habentes... »  seintellectus,eodem modorebusef. fattepernaturaèunoultimointen fectisabarteestperfectioquam per seintenditartificiumhumanum.Hac finalmente,cosìnellecosefatteper autemperfectioestbonumadquod arteèunointendimentofinale,al intenditur, et est optimum eorum que queruntur propter ipsum et di quelle arti; siccome l'uomo che ipsiuscausa.Scientiaigituristiusest saettahalosegnopersuodirizza scientiadiuinamaximiexistensiuua. mento(1),coşiciascunaartehae menti in uitaetconuersatione hu. unsuofinaleintendimento,loquale mana.Habentesigiturintentionem dirizzalesueoperazioni.Adunqua acpropositumdignum ualdeestut l'artecivile,laqualeinsegnareggere inueniamusinquisitioneremqueest lacittade,éprincipaleesovranadi perfectiouoluntatis.Arsigiturdi. tuttealtrearti,perciocchèsottolei rectiuaciuitatumprincepsestartium, sicontegnonomoltealtrearti,lequali eoquodsubhaccontinenturresho. sonoonorevili,siccomelascienzadi norabilesualideconsistentie;utpote farel'osteedireggerelafamiglia, arsexercitualisetarsfamiliedo- elarettoricaèanchenobile,percio mus dispensatiua ac rethorica,et ch'ellasiordinaedisponetuttel'altre eoquodipsautitarartibusactiuisomni- chesicontegnonosottolei,elosuo busetcomponitetordinatlegesearum compimentoàilfinedituttel'altre. atqueiuditia(sic)etdistinguitinter Adunquelobeneloqualesiseguita laudabilesetillaudabiles.Huius itaque artisperfectioacpropositumadpro- l'uomo,percioch'ellalocostringe priatpropositaomniumartiumreliqua- di fare bene e costringelo di non rum.Bonumigiturusitatumsecundum fare male.La recta dottrina sièche suum modum est bonum humanum ; l'uomo si proceda in essa,secondo ipsumnamqueeffectiuumestcetero- chelasuanaturapuotesostenere. rum bonorum omnium artium et Verbigrazia:l'uomocheinsegnageo saluatartificesnequidaganthorridum metriasideeprocedereperargo dimento lo quale la natura intende quale sono ordinate tutte l'operazioni diquestascienza,sièlobene del   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 39 chosesdecelart.Etaussicomme altresiciascunaarteaeunafinale cilquitraitdesonarcauseignala cosache'ndirizaquellaopera.Qui celui bersail por son adrescement, parla del gouernamento della citta tout autressi a chascune ars CCXVII.Dunque l'arte che insen finelchosequiadrescesesoevres. gnialacittagouernareèprincipale III. Donques l'art qui enseigne la cité àgovernerestprincipausetdame etsoverainedetoutesars,porceque desouzlisontcontenuesmaintesho- norablesars,sicomme rectoriqueet lasciencedefaireostetdegoverner e donna di tutte l'arti, peròchedisottoaleisonotuttii maestrionoreuoliecontiensisotto luituttemolteonorabillearti,sicome retoriccha e la scienza di fare oste edigouernaresuamasnada.E an samaisnie;etencoreestelenoble, coraènobileperoch'ellamettein porcequeelemetenordreetadresce toutesarsquisouzlisont,etlisiens compliemensetsafinssiestfinet compliementdesautres.Donquesest ele li biens de l'ome, porce que ele constraintdebienfaireetelecons- traint de non mal faire. Lidroizenseignemenzsiestque onailleselonccequesanaturele ordineeadirizzaartichesonosotto lui,eilsuocompimentodisuafine sièfineecompimentodel'altre. Dunqueilbene(che)diquestascienza uiene si è bene dell'uomo pero che 'l constringniedinonfarelomale. E il diritto insegniamento ch'ell'à inleisecondosuanaturalepuote soferire.Cioèadirechecoluiche puetsofrir;ceestàdirequecilqui insengnagouernaredeeandareper enseignegeometriedoitalerparar- suoiargomentichesonoapellatidi gumensquisontapelésdemonstra- mostrazioni.Erittorichadeeandare cions,etenrectoriquedoitalerpar perargomentieperragioneuedere argumenzetparraisonvoiresembla- senbiabille,eciòauienepercioche ble.Etceavientporcequechaschuns ciascunoartieregiudicabeneedicela artiensjugebienetditlaveritéde ueritàdiciòcheapartienealsuome cequiapartientàsonmestier,eten stiere,ecosiinciòèilsuosennosottile. ce est ses sens soutis.  une e sovrana La scienza di città governare non Lasciencedecitégovernerne sifamichaafanciullonedahuomo afiertpasàenfantneàhomequi chesegualesueuolontadi,percio vueilleensuirresavolenté,porceque che amendue sono non sacenti delle anduisontnonsachantdeschosesdou cossedelseculo,chequestaartenon siecle;carcestearsnequiertpasla chiedelasienzadell'uomo,mach'egli sciencedel'ome,maisqueilsetorne sitorniabontà.Esapiatechein àbonté.Etsachiésqueenfesestde. fateèinduemaniere,chel'uomo ij.manieres;carlihompuetbien puotebeneessereuechioditenpo estrevielsdeaageetenfesdemors; euechioperhonestavita.   40 C. MARCHESI autillaudabile.Et saluatioquidem mentifortiliqualisichiamanodimo. uniuslaudabilisexistit,quantomagis strazioni,elorettoricodeeprocedere gentiumacciuitatum.Rectadoctri. nellasuascienzaperargomentie natioestinquirereinunoquoquege- ragioniverisimili;equestosièpercio nerumiuxtamensuramquamsustinet checiascunoarteficegiudichibene naturailliusgeneris;etutexigitur etdicalaveritadediquellocheap. quidemamathematicodemonstratio partieneallasuaarte.Lascienzada et a rethore sufficientia persuasiua. reggere la cittade non conviene a Unusquisque enim artificumrecto garzonenèauomocheseguitilesue iuditio iudicat de eo quod est infra h a cose buone e giuste e oneste ; onde Rerumquedamsuntcogniteapud gliconvieneaverel'animasuanatu nos,etquedamsuntcogniteapud ralmentedispostaaquellascienza: naturam.Oportetergoutamator maquellouomochenonhaeneuna scientieciuilispromtussitadres diquestecose,èinutileaquesta eximiasetsciatopinionesrectas.Opi- scienza(1). (1)Questo ci prova chiaramente che Brunetto non ebbe tra mani altro testo latino fuor del compendio alessandrino-arabo; giacché le altre traduzioni greco-latine della Nicomachea gli avrebberodatolagiustaindicazionedel poeta:Esiodo.Maforsepertuttoilriferimento,che  son volontadi,peroche non > bitum suae scientiae,et in hoc est nellecosedel secolo.E notache gar perspicaxipsiusscientia.ludicans zonesidiceinduemodi,quantoal autemdeomnisapiensestomnipe- tempoequantoallicostumi,che ritiaimbutus.Arsciuilisnonpertinet puòtaloral'uomoesserevecchiodi pueronequeprosecutoridesideriiatque tempo e garzone di costumi, e tal uictorie,eoquodamboignarisunt fiatagarzoneditempoevecchiodi rerumseculi,nequeproficitipsis.Non costumi.Adunqueacoluisiconviene enimintenditarsistascientiamsed lascienzadireggerelacittade,lo conuersionemhominisadbonitatem; qualenonègarzonedicostumie nequediffertpueretateautinmo- chenonseguitalesuevolontadi,se ribuspueris,nonenimaduenitquidem nonquandosiconvieneequantosi defectusexpartetemporissedpropter conviene ed ove si conviene. usum uite in moribus puerilis;pueri ergodissolutietdesideriorumprose- cutoresnonproficiuntpenitusexarte ciuili. Qui autem utitur desiderio secundum quodoportetetquando Sono cose le quali sono manifeste allanatura,esonocoselequalisono manifeste a noi; onde in questa scienza si dee cominciare dalle cose, oportet,etquantumoportetetubi oportet,hicplurimumproficitex scientia artis ciuilis. loqualedeestudiareinquestascienza, edapprendere,sideeausarenelle lequalisonomanifesteanoi.L'uomo savi   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 41 et puet estre enfes par aage et viel Dunque la sienzia di città ghouer parbonevie.Donqueslasciencede nare è a fare huomo che non sia governer citez n'afiert à home qui fanciulo de cuore molle e che non estenfesensesfaizetquiensuie sesvolentės,selorsnonquantille covient faire et tant comme il co- vient,et là où il se covient,et si comme est covenable. seguasuauolontadi,senoquelliche siconuengonoetantocom'ellesi debono e la dove si conuiene e si come conueneuole. E sono chose che sono chonueneuoli a natura e cose chesonoconueneuolliannui;che Iliachosesquisontconnuesà natureetsontchosesquisontcon- chisivuolestudiareasaperequesta neuesànos;porquoinosdevonsen scienza,eglideeussarecosegiustee cestesciencecommencieraschoses buoneeoneste,ond'egligliconuiene quisontconneuesànos,carquise auerel'arminaturallementeaquesta vuetestudieràsavoircestescience, scienza,macoluichenonanèl'uno ildoituserdeschosesjustes,droites nèl'altroriguardiaciòchedee.Se etbonnesethonestes,oùillicovient 'lprimoèbuonoel'altroèapere avoirl'ame naturaument ordenée à gliato ad essere buono.Ma chi da cestescience;maiscilquin'ane ssenonsanienteenonaprendedi l'onnel'autreregardeàcequeHo- ciòchel'uomogl’insenguia,egliè merusdist:Selipremiersestbons, deltuttomecciante.- Quidicedelle liautresestappareilliezàestrebons; treuieCCXVIII. Dacontaresono maisquidesoinesetneant,etqui .ij.uie.L'unaèuiadichonchupi. n'aprentdecequehomlienseigne, senziaediconuotizia.L'altraèuita ilestdoutoutmescheanz(1).IV.Les cittadina,cioèdisennoediproeza viesnoméesquisontàcontersont ed'onore.Laterzaécontenpratiua. .ij.L'uneestviedeconcupiscenceet E più ujuono secondo la uita delle decovoitise;l'autresiestvieciteine, bestie,ch'èapellatauitadichonchu ceestdesensetdeproesceetd'onor; pisenzia,peròch'egliseghonolaloro la tierce est contemplative: et li uolontade e loro diletto. E chatuna plusorviventselonclaviedesbestes, diqueste.ij.uiteàsuapropriafine quiestapeléeviedeconcupiscence, diuersedal'altre,tuttoaltresìcome porcequeilensuientlorvolentezet [lasienzadiconbatteredi]medi lordeliz.Etchascunedeces.ij.vies cina à sua finediuersa dalla scienza asaproprefin,diversedesautres, delconbattere,chèquellabadaafare toutautressicomme medicineasa santà,equellaadauereuetoria.Qui findiversedelasciencedecombatre; diuisadelbeneCCXVIIII.Ubene carelebéeàfairesanté,etcele ėinduemaniere,che'unamaniera autreàvictoire.V.Libiensesten èch'èdisideratapersemedesimo[e ij.manieres;carunemanieredebien l'altra)eun'altramanieradibeneè    niones autem rectae sunt ut in arte Le vite nominate e famose sono ciuiliincipiaturarebusapudnos tre;l'unasièvitadiconcupiscenza, cognitis,etinconsuetudinibuspul- l'altrasièvitacittadina,cioèvita crisethonestisfactasitassuetudo diprodezzaed'onore;laterzasiè principium enim est et inceptio a vita contemplativa : e s o n o molti quaresest.Exmanifestoexistente uominichevivonosecondolavita sufficienterquiaresest,nonindigetur dellebestie,laqualesichiamavita propterquidresest.Indigetautem diconcupiscentia,perciòchesegui. homoadpromtitudinemhabitationis tanotuttelelorovolontadi;ecia leritatisrerumbonarumautaptitudine scunadiquestevitesihasuofine boneinstrumentalitatisexquasciat propriodiversodaglialtri,sicome uerum,autformaperquamaccipian- l'artedellamedicinahadiversofine turprincipiarerumabeofacile.Qui dallascienzadicombattere,chè'l veroneutramhabueritharumaptitu- finedellamedicinasièdifaresani. dinumaudiatsermonemHomeripoete tade,e'lfinedellascienzadifare ubidicit:Illequidem bonusest,hic battagliesièvittoria.Benesièse autem aptus ut bonus fiat. Vite condo due modi, chè è uno bene lo famosetressunt.Uitaconcupiscen- qualeuomovuoleperse,eunaltro tieetuoluptatis,uitaprobitatiset beneloqualel'uomovuoleperaltro. honoris,uitascientieetsapientie; Benepersesìcomelabeatitudine, pluresuerohominumseruisuntuo- beneperaltruisonodettiglionori luptatis uitam bestiarum eligentes elevertudi,perciòcheuomovuole inexecutionedelectationum.Sunt questecoseperaverebeatitudine. autem termini harum uitarum distan. Naturalcosa èall'uomoch'eglisia tesetbonaipsarumbonadiuersificata. cittadino,etconversicongliuomini Sicutergobonum quodestinarte artefici,econtralanaturadell'uomo exercitualiestaliudabonoquodest sièd'abitaresoloneldeserto,elà inartemedicinali,sicabinuicemalia ovenonsianogente,peròchel'uomo sunt bona trium uitarum . Et bonum naturalmente ama compagnia. quidem medicine est sanitas,bonum Beatitudo si è cosa compiuta,la exercitualisestuictoria.Estautem qualenonabbisognaneunacosadi bonumsecundumduosmodos:bonum fuoridase,perlaqualelavitadel per se et bonum propter aliud; et l'uomosièlaudabileegloriosa.Adun. quesitumquidemproptersemelius quelabeatitudinesièlomaggior estquesitopropteraliud.Nosuero beneelapiùsovranacosaelapiù manca nelcompendiodiTaddeo,BranettosivalseanchedelLiberminorum moralium :«.aduertat « intentionem poetae dicentis : Optimus est hominum qui a semet ipso intelligit quod expedit.Qui « autem ab altero hoc intelligit, est in uia directionis. Qui uero nec a semet ipso intelligit nec « ab altero recipit, hic uir est inutilis »,  42 C. MARCHESI  -  IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 43 est qui est desirrez por lui meisme, et une autre maniere de bien est qui est desirrez por autrui. Biens par lui est beatitude,qui est nostre fin,à quoi nos entendons;bien par autrui sont les honors et les vertuz; car ce desire li hom por avoir beatitude. Naturale cosa è a l'uomo ch'egli sia cittadino e ch'egli conuersi in tra le gienti, cioè intra gli uomini e intra gli artefici. E contra natura sarebe abitare in diserto oue non à persona,però che l'uomo naturale. mente si diletta in conpangnia. Bea tittudine è cosa conpiuta, si che non à niuno bisongnio d'altra cosa fuori di lui, per chui la uita degli uomini ė pregiabile e groliosa:dunque è beatitudine il magiore bene di tutti, e la più sourana cosa e la trasmil gliore di tutti i beni che sieno. Qui diuisa di treposanzie CCXX. Tutte le opere dell'uomo o sono malvagie o [buone.om .]. Colui che lle fa buone l'opere,egli è degno d'auere il compimento della uertu di  L'anima dell'uomoae.ij.posanze. L'una è uegiettative,e questa è co mune ad alberi ed a piante, ch'egli anno annima uigettatiua,altresìco m'àno gli uomini ; la seconda è apel latta sensitiua ; la terza è apellata r a zionabile,l'èperquestoche l'uomoè ragioneuole e diuisato da tutte le cose, per ciò che niuna altra cosa ae anima razionale se no l'uomo ;e questa possanza è alcuna uolta in natura e al cunauoltainpodere.Ma beatittudine è quand'ella è in opera e non miga quand'ella è in podere solamente; chè s ' e g l i n o 'l f a , e g l i n o n è m i c h a b u o n o . Naturel chose est à l'ome que il soit citeiens,etque ilconverseentre les homes et entre les artiens; car contre nature seroit de habiter en desers où il n'a nule gent,porce que li hom naturelmentsedeliteen com paignie. Beatitude est chose complie,si que ele n'a nul besoing d'autre chose fors de li,par quoie la vie des homes est puissanz et glorieuse: donques est beatitude li graindres biens de touz et la plus soveraine chose et la très mieudre de touz biens qui soient. V I . L ' a m e d e l ' o m e a j i j. p u i s s a n c e s . L'une est vegetative, et ce est c o m mun asarbresetasplantes,caril ont ame vegetative aussi come li home ont;lasecondeestapeléesen sitive, et est c o m m u n e à toutes bestes, car eles ont ames sensitives; la tierce est apelée rationable,et por ceste est li hom divers de toutes choses,porce que nule autre chose n'a ame ratio. nableselihom non.Etcestepuis sance rationable est aucune foiz en oevre et aucune foiz en pooir; mais beatitude est quant ele est en oevre, et non pas quant ele est en pooir seulement; car se il ne le fait, il n'est mie bons. ch'è disiderata per altrui. Bene per lui è beatitudine, ch'è nostra fine a che noi intendiamo.Bene per altrui sono gli onori e le uertu : chè questo si disidera per auere beatitudine. Toutes les oevres des homes ou   -44 C. MARCHESI Ogni operazione che l'uomo fae o ellaèbuonaoellaèrea;equello uomo lo quale fa buona la sua ope. razione, si è degno d'avere la perfe. zione della virtude di quella opera zione.Verbigrazia: lo buono cetera tore,quando egli cetera bene,si è degnacosach'egliabbiailcompimento di quella arte,e lo rio tutto il con. trario. Adunque se la vita dell'uomo è secondo l'operazione della ragione, allora si è laudabile la sua vita, quand'egli la mena secondo la sua propria vertude; ma quando molte vertudi si raunano insieme nell'animo dell'uomo, allora si è la vita dell'uo mo molto ottima e molto onorata,e molto degna,sicchè non puote essere più;perciò che una virtude non puote beatitudinem ultimam propter se uo lumus,cum sitfinisnosteretintentum à nobis; honores autem et uirtutes propter beatitudinem, eo quod per ipsas pertingimus ad illam. Homo naturaliter ciuilis est et con uiuithominibusetsocietatesexercet comel'uomo;lasecondapotenziasi cumartificibusdecenter,nequeap chiamaanimasensibilenellaquale petitsolitudinemnequedesertum participal'uomocontuttelebestie, neque heremum. perciòchetuttelebestiehannoanima Beatitudoestrescompleta,nullius sensibile;laterzasichiamapotenza indigens,perquamuitahominislau. razionale,perlaqualel'uomosiè dabilisexistit.Beatitudoigiturexce diversodatuttel'altrecose,perciò lentissimum est eligibilium et opti. che neuna altra cosa hae anima ra mumbonorum,cumsitperfectiore zionale,sicomel'uomo.E questa rumoperabilium.Sicutigiturestin potenziarazionalesiètalorainatto qualibetartiumbonumquodillaars etalorasièinpotenzia;ondela intendit,etsicutestcuilibetmem. beatitudinedell'uomosièquandoella brorumcorporisactuspropriusin vieneinatto,enonquandoellaèin quoeialiudnoncomunicat,sicest homini actus proprius in quo aliud ei non comunicat. Homini autem se cundum animam uegetabilem C O municant terrae nascentia,et secun dum animam sensibilem comunicant ei animalia; actus uero ei proprius, inquo nullum aliud ipsi comunicat, est actus secundum rationem et di scretionem. Ratio uero duplex est: potenzia: ratio uidelicet actualis et ratio poten tialis;dignior autem ad intentionem rationis et magis cognita est ratio actualis,ut pote actus hominis di. scernentis et agentis. Et omnis actio quam agit actor aut est bona aut est mala. Actor autem bene agens in omni arte meretur intentionem uir tutis, ut bene citharizans citharedus bonus ;citharizans autem male malus. ottima che l'uomo possa avere. L'a nima dell'uomo si ha tre potenzie; l'una si chiama potenzia vegetabile, nella quale comunica l'uomo cogli arbori e colle piante,perciò che tutte le piante hanno anima vegetabile,si    IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA bonesoumauvaisessont.Etcilqui quell'opera.Chècoluichebeneopera fait lesbonesoevres,ilestdignes èdegnod'auereilcompimentodisuo d'avoirlecomplimentdelavertude mestiere,equeglichemalfanno,il celeoevre;carcilquibiencitoleest contrario.Dunqueselauitadell'uomo dignesd'avoirlecomplimentdeson èsecondol'operadiragione,alora mestier,etciquimallefait,lecon- è da pregiare quand'eglila mena traire;doncselaviedel'omeest secondolapropriauertu.Maquando seloncl'oevrederaison,lorsestele mantieneuertusonogliuominisaui, prisablequantillamaineseloncla esauioebisongniabile,enorevolee propre vertu; mais quant maintes moltodengniosichepiùnonpotrebe vertuzsontenl'ome,savieestbesoi. essere;percidcheunasolauertunon gnableethonoréeetmultdigne,si puotefarel'uomodeltuttobeatone queplusneparroitestre,porceque perfetto.Chèunasolarondineche uneseulevertunepuetfairel'ome uengnianèunosologiornotemperato detoutebeatitudeneparfait;carune nondonaciertanainsengniadelprimo solearondelequivieigneneunsseus tenpo.Eperciòinunopocodiuita jorsatemprésnedonentcertaineen- d'uomoeinunopocoditenpoch'egli seignedouprintens;etporceenpo facciabuoneopere,nonpossiamoperò devied'ome,neenpodetensque direch'eglisiabeato.CCXXI.Qui ilfacebonesoevres,nepoonnosdire diuisa di tre maniere di bene.Il queilsoitbeates.VII.Libiensest beneèdiuisatointremaniere,che devisezen.iij.manieres,carliuns l'unoèilbenedell'anima,el'altro estbiensdel'ame,etliautresest delcorpo.Mailbenedell'animaèil doucors,etlitiersdehorslecors; piùdengniochenullodeglialtri, maislibiensdel'ameestplusdignes peròcheglièilbenedidio,esua quenusdesautres,carceestlibiens formanonèchonosutaseperl'opere deDieu,etsaformen'espasconneue separlesoevresvertueusesnon.Et sanzfaillebeatitudeestenquerre lesvertuzetenelsuser,maisquant beatitudeestenhabitetaupooir del'ome,etnonensesfaiz,ceest àdirequantilporroitbienfaireet ilnelefaitmie,lorsestvertuous aussicommecilquisedort,carses oevres ne ses vertuz ne se mostrent pas.Maisl'omquiestbeatescovient aussicommeparnecessitéqueilface uertudiose non.E sanza fallo beati tudineèinchiedereleuertuefarle. Maquandobeatitudineènell'abitoe inpoteredell'uomononèsenone fatti:questoèadire,quandoeglipuote benefareeno'lfaaloraèegliuer tudiosoaltresìcomecoluichedorme; chèsueopereesueuertunonsimo strano.Ma l'uomoch'èinbeatitudine conuiene altresì come per necissetà ch'eglifacciailbeneinoperaesi comeilsauiochampioneeforteche lebiensenoevre.Etsicommeli sichonbatteuuoleportarelacorona 45    46 C. MARCHESI Actusigiturhominisunaestuitarum l'uomo fare beato,nè perfetto,sic famosarum trium prenominatarum, una rondine quando appare uitascilicetrationisetscientieet sola,eunosolodietemperatonon sapientie.Etomnisquidemresbona dànnocertadimostranzachesiave. existitetdecorapropteruirtutemsibi propriam. Vita ergo hominis actus estanimeintellectiueperuirtutem sibipropriam;sedcumuirtutesani- memultesint,eritperoptimam et honoratissimam in fine et dignis- simaminfineperfectionisetcomple- menti.Unanempehyrundononpro- nosticaturuernequediesunicatem- peratiaeris,sicnecuitapaucaet lobenedell'animasièpiùdegno tempusmodicumsignumcertumsunt benedineuno,elaformadiquesto beatitudinis. bene si non si conosce se non nell'o Bonum tripliciter diuiditur; est perazioni, le quali sono con vertudi. bonum anime et bonum corporis et nutalaprimavera;ondeperciò nè. inpicciolavitadell'uomo,nè in pic ciolotempochel'uomofacciabuone operazioni,nonpotemodicereche l'uomosiabeato. Lo bene sidivide in tre parti,chè l'unosièbenedell'anima,l'altrosi èbenedelcorpo,el'altrosièbene difuoredalcorpo.Diquestitrebeni,  come bonum extra corpus. Bonum ergo delle vertudi e nell'uso loro; ma quoddignissimebonumdiciturest quandolabeatitudineènell'uomoin bonum anime,neque apparet forma abito,e non in atto,allora si è vir istiusboni,nisiinactibusquisunt tuosacomel'uomochedorme,lacui auirtute.Etbeatitudoquidemest operazioneevirtudenonsimani. inacquisitioneuirtutumetinusu festa;mal'uomobuonodinecessità earumsimul.Cumquefueritbeatitudo èbisognochel'aoperisecondol'atto, inhominetamquaminpossessioneet etèsomigliantediquellochesta habituetnonactu,tuncesttamquam neltravitoacombattere;chè sola uirtuosus dorniiens cu non apparet mente quelli che combatte et vince, actionequeuirtus.Beatusautemactu quelliàlacoronadellavittoria;e necessarioexercetbeatitudinem.Et sealcunouomosiapiùfortedicolui, quemadmodumperitiagonisteatque chevince,nonàperciòlacorona, robusticoronanturquidemetacci. perch'eglisiapiùforte,s'eglinon piuntpalmamapudactumagoniset combatte,avvegnach'egliabbiala uictorie,sicuirtuosielectiboniac potenziadivincere;ecosìlogui. beati laudantur et premia uirtutum derdone della virtude non ha l'uomo suscipiuntdumapparentoperationes senoninfinoatantoch'egliadopera ipsorum secundumueritatem;etisto. lavirtudeattualmente;equestosiè rumuitaestinseipsadelectabilis. perciòcheloloroguiderdoneela Unusquisqueenimhominumdelecta- lorobeatitudineèladilettazione,che La beatitudine si è nell'acquistare   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 47 della uettoria, tutto altresì l'uomo buono e beato ae il guiderdono e la loda della sua uertu ch'egli fae et mostra ueracemente per queste opere, perciò che il guiderdono delle sue opere e della beatittudine è ildiletto ch'egli n'atantoe com'egli opera la uertu ; chè ciascuno si dileta in cid ch'egli ama ; il giusto si dileta in giustizie e l'asagia e gli piacciono, e 'l uertudioso nelle uertu. Et tutte l'opere che sono per uertu sono belle e dilettabille in se medesime. Beatitudeestlachoseaumonde Beatitudineèlacosaalmondoche quiesttrèsdelitable,maislabeati tudequiestenterreabesoingdes biensdedehors;carilestdurechose quel'onfacebelesoevres,seiln'ia grant part des choses avenables à bonevieethabondanced'avoiret d'amisetdeporenz,etprosperitéde fortune, et por ce la sapience abe. soigned'aucunechosequifaceco perciòlasapienzaàbisongniod'al noistre sa valor et ses honors.Se cuna cosa che faccia conossere suo aucuns done as homes dou monde, ualore e suo onore.Se alcuno dona disgloriousetsoverainsfaiz,l'en ahuomodelmondodonogroliosoe doitbiencroirequecildonssoitbea. souranofattol'uomodebenecredere titude,porcecequeestlamieudre chequellodonosiabeatitudine,perciò chosequiestrepuisseaumonde;car ch'eglièlamigliorecosachepossa eleestmulthonorablechose,etest esserealmondo;ch'ell'èmoltoono. licompliemensetlaformedevertu; rabilecosa[essere]edèilcompimento neiln'estpasditdouchevalnes elaformadellauertu;nèeglinonè desautresbestes,nedesenfans,que michadettodelcaualloedel'altrebe ilsoient beates,porce qu'il ne font oevres de vertu. Beatitude est chose ferme et estable, tozjors en une fermeté, si que ele ne stie,nè degli fanciulli che sieno beati, perciò ch'egli non fanno opere di uertu . Beatitudo è cosa ferma et stabille . ( 1 ) A r r e s t i a m o q u i l a t r a s c r i z i o n e d e l c o d . M a g l i a b e c h ., s e m b r a n d o c i l a p a r t e t r a s c r i t t a s u f f i ciente ad attestare la propria dipendenza dal testo francese. milglioreepiugioiosaetradiletta bille:mallabeatitudinedeeessere interraebenidifuori.Chègliè dura cosa che l'uomo faccia belle opere e ch'egli abbia parte di cose aueneuolliahuonauitaedabondanza d'auereedabondanzad'amiciedi parenti e prosperita di fortuna, e  F sages champions et fors qui se combat et vaint emporte la corone de victoire, toutautressilihom bonsetbeatesa le guerredon et la loange de la vertu que il fait et mostre veraiement par ses oevres, porce que li guerredons de la beatitude est li deliz que l'om atentcomme iluevrelavertu,car chascuns se delite en ce que il aime : lijustessedeliteenjustise,etlisages en sapience,etlivertueusenvertu; et toute oevre qui est par vertu est bele et delitable en soi meisme. . (1)   virtude, si è bella e diletteuile in se Beatitudo autem omnium rerum est medesima. Beatitudo si è cosa ot optimaiocundissimaatquedelectabi- tima,giocundissimaedilettabilissima. lissima.Beatitudotamenqueesthic Labeatitudine,laqualeèinterra,si bonisexterioribusindiget;difficile abbisognadeglibenidifuori,perciò est enim homini ut opera decora che non è possibile all'uomo ch'egli exerceatabsquemateriautpotequod facciabelleopereech'egliabbia habeatpartemcompetentemrerum artelaqualesiconvengaabuona boneuitepertinentiumetcopiam vita,eabbondanzad'amiciedipa familie et parentum et prosperita- renti,eprosperitàdiventura,sanza temfortune.Ethacquidemdecausa libenidifuori;eperquestacagione indigetarssapientiearteregnandi, nonabbisognaalcunacosachefaccia ut apparere faciat honorificentiam manifestare il suo onore e lo suo va suiatqueualorem.Etsialiquarerum lore.Sealcundonoèfattodidome donata est hominibus a deo excelsa nedio glorioso e eccelso agli uomini etgloriosa,dignumestutbeatitudo delmondo,degnacosaèdacredere siuefelicitasdonumsitdiuinum se- chequellodonosiabeatitudine,im cundumquodipsaestoptimaomnium perciòch'ellasièlapiùottimacosa rerum humanarum ; est igitur de onorevole molto e compimento e rebus prehonorabilibus,cum sit com.  48 C. MARCHESI turineoquodestamatumapud eglihanno,infinoatantoch'egliado ipsum ; delectetur ergo iustus in perano la virtude; chè il giusto si justitiaetuirtuosusinuirtuteet dilettanellaiustiziae'lsavionella sapiensinsapientia.Etactionesfientes sapienza,elovirtuosonellavirtude; peruirtuteminseipsissuntdelecta. eognioperazione,laqualesifaper biles uenuste ac decore. forma di virtude. E neuna genera plementum uirtutis siue forma et zione d'animali puote avere beatitu fructusipsius— [Non)diciturautem dine,senonl'uomo,eneunogarzone deequonequedealioaliquoanima- nonhaebeatitudine,perciòcheneuno liumhuiusmodi,nequedepueris,quod animalenèneunogarzonenonado sintbeati,eoquodnequehuiusmodi perasecondovertude. animalia neque pueri agant opera Beatitudo si è cosa ferma e stabile uirtutis.Etbeatitudoestresfirma sempresecondounadisposizione,nella stabilissecundumdispositionemunam, qualenoncadevarietadenèpermu inquamnoncaditalteratioetpermu- tazione alcuna,e non v'ha talora tatio,etnoncomitanturipsameuen: beneetaloramale,matuttaviabene, tusuarii,etnuncbonitasnuncmalitia. equestosièperciòchelabonitade Etenimbonitasetmaliciaestinopere elareitadesiènellaoperazione hominis;etcolumpnabeatitudinis dell'uomo.Lacolonnadellabeatitu estoperasecundumuirtutem;co- dinesièl'operazione,chel'uomofae 1   se remue pas,et si n'est mie une foiz bien et autre mal, mais toutes foiz bien,porce que li muemenz de bonté ou de malice n'est pas se es oevres des homes non. Li pilers de beatitude est lesoevres que l'onfait selonc vertu,et la colone dou con traire est les oevres que l'on fait selonc vice; et la vertus ferme et estable est en l'ame de l'ome.Li hom vertueus ne se contorbe ne ne s'es maie por nule temporal chose qui li avieigne ; car il n'auroit jà beatitude se il s'esmaioit,car dolor et paor abatent l'oevre de vertu et la joie de beatitude. Felicités est une chose qui vient par vertu de l'ame, non pas dou cors ..... IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 49 Aucunes choses sont mult griez à sostenir;mais quant l'on les a bien sostenues,lors apert et se mostre la hautesce de son corage; et sont au tres choses qui ne sont griez à sos tenir, ne li hom qui les sueffre ne mostre pas que en lui soit force.Et jà soit ce que mort et maladies de filz soient griez à sostenir, ne doivent pas remuer l'ome de sa felicité; car bienetfelicité,ethome felixetDex glorious et benois sont tant digne chose et tant honorable que nulz pris ne nule loenge ne lor sofit pas; et nos devons reverer et magnifier et glorifier Dieu sor toutes choses et si devons croire que en lui sont tuit bien et toutes felicitez.,porce que il est commencemenz et achoisons de touz biens. C. MARCHESL 4    secondo virtude,e la colonna del con trario suo si è l'operazione, la quale l'uomo faesecondolovizio;equesta operazione si erma e stante nel. l'anima dell'uomo,et l'uomo virtuoso non si muove,e non si turba per cosa contraria temporale che gli possa a v venire, perciò che già non arebbe beatitudine, s'egli si conturbasse, perciò che la tristizia e la paura si toglie altrui l'allegrezza della beati. tudine. Sono cose le quali sono molto forti a sostenere; ma quando l'uomo l'à sostenute pazientemente, si dimostra la grandezza del suo cuore ; e sono altre cose le quali sono lievi a sostenere,e perché l'uomo le so. stegna non si mostra grande fortezza in lui,siccome morte di figliuoli e loro malitia.Queste cose,avegnache ellesiano forti,non permutano l'uomo di sua felicitade.La felicitade e l'uomo bene avventurato e domenedio bene detto e glorioso sono tanto degna cosa e tanto da onorare che le loro lodi non si possono dicere,e spezial mente si conviene a noi di reverire e magnificare messere domenedio sopra tutte cose, e dee l'uomo pen sare di lui, che nel suo pensare ha l'uomo tutto bene, e tutta felicitade, perciò ch'egli è cominciamento e ca gione di tutto bene.  50 C. MARCHESI lumpna uero contrarii beatitudinis est opera secundum contrarium uirtutis; et optima operationum secundum uir tutem est stabilissima earum in ani ma ;et uita beatorum continua est semperperactioneshonorabilesbonas; et uirtuosus perfectus absque ex tollentia speculatur in rebus virtuali bus et substinet irruentia mala et tollerat ea tollerantia decenti et non turbatur cor neque formidat ex ma. gnis calamitatibus ex temporis malitia occurrentibus ; nisi enim eas decenter sustinuerit conturbabitur eius felicitas et inducentur super ipsum meror et tristitiaque impedient secundum uir tutes operationes. Quedam autem actionum malitie difficiles sunt ad sufferendum : sed quando acciderint homini et eas sustinuerit,demonstrant eius magnanimitatem.Alie uero que. dam facilepossuntsufferrietheecum inciderint homini et eas sustinuerit, non demonstrant eius magnanimita tem ; et mortuis ex bonitate actionum filiorum et ex malitia ipsarum con tigit [modicum aliquid tante, in. quam,quantitatis].transmittetfelices a sua felicitate ad infelicitatem ; neque infelices a sua infelicitate ad felici tatem.Bonum etfelicitasatque felices et deus benedictus et excelsus digniora sunt et honoratiora quam ut lau dentur. Immo conuenit quidem uene rari deum et ipsum singulariter m a gnificare et eius intuitu felicitatem etfelicesetbonum,cum sintresdi. uine, et gratia quorum omnia alia aguntur;et creditur de eo quod est Felicitade si è un atto il quale procede da perfetta virtude dell'anima et non del corpo.   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 51    principiumbonorum etipsorumcausa, quod sit res diuina. Felicitas est quidem actus anime procedens a uirtute perfecta,non cor poris sed anime.  52 C. MARCHESI   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 53 Prima di passare al raffronto della parte finale nelle diverse redazioni, non sarà inopportuno riprodurre ancora un brano, del principio del secondo libro, che valga a confermare le diffe renze e le relazioni da noi stabilite tra i due compendi, volgare e francese, e il testo latino. Liber Ethicorum. Litresor,Liv.II,P.I, Virtusergoduplexest, chap.IX.-Porceapert uidelicetintellectualiset ilque.ij.manieressont moralis;intellectualis, devertuz:l'uneestde utsapientiaetprudentia l'entendementdel'home, etsimilia.Laudantese- ceestsapience,science nim hominem ex parte Et uirtutum quidem tuel,nos disons:ce est  uirium intellectualium eum appellamus. intellectualium genera prisierdevertu intellec uns sages hom etsoutis; par enseignement,et liumestperbonam et porcelicovientexpe honestam conuersatio- rience et lonc tens. La nem;nequesuntinno- vertudemoraliténaist bispernaturam.Res etcroistparbonuset enimnaturalesnonegre. honeste;car ele n'est diuntur a natura sua pas en nos par nature ; perassuetudinem,utpe- àcequechosenaturele tra,quaesempertendit nepuetestremuéede et sens ; l'autre est de sapientem eum dicimus autscientemaut(secun- choses semblables. Et dumaliquidhuiusmodi); cepuetchascunsveoir sed ex parte moralium clerement; car quant largumuelcastumuel un home humilem uel modestum mais quant nos le volons tioetincrementumfit prisierdemoralité,nos inhomineperdoctrinam etdisciplinam;ideoque chastesetlarges.X.La in eius acquisitione ex- vertu de l'entendement perimentoindigetettem- estengendréeetescreue pore longo. Generatio autem uirtutum mora en l'ome par doctrine et moralité,ce est chastée et largesce, et autres disons:ceestunshom nos volons L'Etica.– Due sono le virtudi; l'una si è dettaintellettuale,sicco me lasapienza e scienza e prudenza; l'altra si chiama morale,sicome castitade e larghezza ed umiltade; onde quando noivolemolodarealcuno uomo divertudeintellet. tuale,diciamo: questi è un saviouomo,intende vile e sottile; e quando noi volemo lodare un altro uomo di virtude morale,cioè de costumi, si diciamo:questi è un uomo umile e largo.- Concio siacosachesiano due vertudi,una intel lettuale e l'altra morale, la intellettuale si si in genera e cresce per dot. trina e insegnamento,e la virtude morale si si in. genera e cresce per b u o na usanza;e questa ver tude morale non è in noi per natura,percioc cbè natural cosa non si puote mutare della sua disposizione per contra   54 C. MARCHESI riausanza.Verbigrazia: ad centrum naturaliter, lanaturadellapietrasi etignisadcircumferen èl'andareingiuso,onde tia,numquam assue non la potrebbe l'uomo receptionem , et perfi questevirtudinonsono tiunturinnobisexbona in noi per natura,la po. (1) Taddeo amplio e chiarì meccanicamente l'esempio della pietra e del faoco, valendosi del latino del Liber Ethicorum del commento tomistico: « ..... puta lapis natura deorsum latus non autiqueassuescitsursumferri,nequesideciesmilliesassuescat quis,eumsursumiaciens»;e sopratutto del Liber minorum moralium : « Lapis enim qui naturaliter deorsam descendit quamvis « quis probiciat ipsum sursum uicibus innumerabilibus, quarum non comprehenditur multitudo, «uolens per hocassuefacereipsummouerisursum,numquamhabebitpossibilitateminhoc.Et « similiter ignis non est possibile at recipiat per assuetudinem diuersum motionis suae ». nos par usage; por quoijediqueces vertuz ne sont pas dou tout en nos sanz nature ne dou tout selonc nature ; mais li commencemenz et la racine de recoivre ces vertuz sont en nos par nature,et le lor c o m pliment est en nos par usage.Et touteschoses  tanto gittare in suso, situm; neque aliarum ch'ellaimprendessead rerumullaassuescetop. andareinalto;elana- positumnaturesue(1). turadelfuocosièd'an. Attamen cognationem dareinsuso,ondeno'l aliquamhabetconsue. potrebbe l'uomo tanto tudo cum natura et co trarreingiuso,ch'egli gnationemaliquamcum imparassedivenirein intellectu.Nonsuntita que in nobis uirtutes niunacosanaturalepuo- morales naturaliter,ne tenaturalmentefarelo quepreternaturam;sed contrario della sua na- nati sumus ad earum giuso;eduniversalmente tura.Mà avvenga che scunt huiusmodi oppo consuetudine.Itemomne puissanced'aprendrela tenziadiriceverleèin quodinnobisestnatura. estennousparnature, noipernatura,elocom- literpreextititinnobis etlicomplemenzesten pimentoèinnoiper potentialiter,deindeap usanza.Ondequestever. paretactualiter.Ethoc tudinonsonoinnoial manifestumestinsen postuttopernatura;ma sibus. Sensus enim in laradicee'lcomincia. nobisnonfiunteoquod mentodiriceverequeste uideamusuelaudiamus multociens,sed e con trariofitinnobis.Ha bemus enim eos prius naturaliteretpostmo. vertudi si è in noi per natura,e'lcompimento elaperfezionediqueste virtudisièinnoiper usanza.Ognicosala dumexercitamurineis. sonordreparusage con traire.Raison comment : la nature de la pierre est d'aler tozjors aval, ne nus ne la porrait tant giteramont que ele seust sus aler; et la nature doufeuestd'aleramont, ne nus ne leporroit tant avaler que il seust en aval metre la flamme. Et generalment nul na tural chose ne puet par usage aprendre à faire lecontraire de sa nature. Et jà soit ce que ceste vertuz ne soit en nous par nature, certes la   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 55 diusinterextremadicta, Etporunemeismechose  et d'oïr, et par celui quellapotenziaodee ethocmodoestinom- pooirvoitetoit,etnus vede,enonvedel'uomo nibus artificibus.Nam nevoitdevantqueilen prima eode,ch'egliab- hedificatores sumus ex ait le pooir. Donques bialapotenziadelve- usuhedificandietcytha. savonsnosquelipooir dereedell'udire.Dunque rediexusucytharizandi; est devant le faire.Mais vedemo già che la po- ex bene quidem facere es choses de moralité tenziavadinanziall'atto. hocbonisumusinbiis, estli contraires;car E nelle cose morali è ex male autem mali. l'uevre et li faiz est de. tutto locontrario,chè vant le pooir. Raison l'operazioneel'attova eadem fituirtusetcor- comment:aucunshom dinanzi alla potenzia. rumpitur.....autem a la vertu de justise, Verbigrazia:l'uomosi similiter(sanitatis).Et cor mentneleseustlimais. rumpunturexpaucitate tresseiln'eneustovré fatteprimacase,edal- etmultitudine,uttimi- autrefoiz.Autressi se trimenti non potrebbe ditas et procacitas. Ti- vent aucun bien citoler peravereeglimoltevolte averequellaarte,seegli midusenimfugitomnia, Exeisdemergoetper porce que il a devant hae la virtude che si actiones laudabiles cor- fait maintes cevres de chiamagiustiziapera- rumpunturproptersu- jostise;etunsautresa vereeglifattoinnanzi perfluitatemautdiminu- lavertudechastée,porce molteoperazionidigiu. tionem,utexercitia su- que il a devant fait stizia,edhael'uomola perfluaautdiminutaet maintesoevresdecha virtudechesichiama nutrimentisusceptiosu-stée.Toutautressiest castitadeperavereope- perfluaautdiminutafor- des choses de mestier rate dinanzi molte ope- m a m sanitatis corrum- et de art.On scet faire razionidicastitade;e punt,equalitasautem maisons,porcequeon cosiadivienedellecose ipsorumsanitatemfacit enamaintesfaitespre artificiali, chè l'uomo et auget et conseruat.Et mierement ; car autre hal'artedifarelecase uirtutes morales porce que il en sont non l'avessemoltevolte procax autem omnia in- molt usé.Et li hom est adoperata dinanzi;esi. uadit. Fortitudo autem bons por bien faire,et migliantemente l'arte qualeèinnoiperna- Virtutesautemacqui- quisontennosparna tura,sièprimaepoi rimusexfrequentatione turesontpremierement sivieneinatto,siccome actuumhabitusinducen- enpooiretpuisenfait, avviene de sensi del- tes. Iusti etenim sumus aussi comme li sens de l'uomo,chèprimaha exusuactuumiustitie, l'ome;cartoutavanta l'uomolapotenziadive. etcastisimiliter,scilicet lihom pooir de veoir dere e d'udire, e per ex usu actuum castitatis, del ceterare ha l'uomo inhisesthabitusme- mauvaispormalfaire.   et inest fortitudo ei qui scit fugere a fugiendis et inuadere inuadenda, ethichabitusacquiritur Per una medesima exconsuetudineuilipen cosasigeneranoinnoi di(sic)terribilia.Sicca levirtudi,esicorrom ponosequellacosasifa indiversimodi;eadi viene della virtude si comedellasanitade,che una medesima cosa in diversi modi fatta fa ella sanitade e corrompela. Verbigrazia: la fatica s'ella è temperata si in. genera sanitade nel corpo dell'uomo,e s'ella è più che non si con. viene o meno che non si conviene,si corrompe lasanitade;esìadiviene della virtude che si cor rompe per poco e per troppo, e conservase per tenere lo mezzo.Verbi. grazia: paura e ardi mento corrompono la prodezzadell'uomo;per cio che l'uomo che ha paura si fugge per tutte le cose, e l'uomo ch'è arditoassalisceognicosa e credelasi menare fine; e nè l'uno nè l'al. tro non èprodezza;ma la prodezza si è tenere lo mezzo intra l'ardi mentoelapaura;edee stitatishabitusacqui. ritur ex consuetudine retrahendiseauolupta tibus,etsimiliterseha betinceterishabitibus laudabilibus.....  56 C. MARCHESI per avere molte volte ceterato ; e l'uomo è buono per far bene,e lo rio per far male. naissent en nos et se cor rumpent les vertus,se cele chose est menée en diverses manieres;tout autressi c o m m e la santé ; car travailleratempree. ment engendre santé au corsdel'ome;maistra vailler o plus ou mains que mestiers n'est,cor ront la santé; mais meenneté la garde et acroist : autressi est de vertu, car ele corront et gaste par po et par trop,et si se conserve et maintient par la meenneté.Raison com ment : Paors et harde corrumpent la p r o e s c e d e l ' o m e ; c a r li hom qui a paor s'enfuit por toutes choses, ne n'ose nule emprendre; et li hardis emprent à faire toutes choses,et les cuide mener å fin. Et sachiez que l'une ne l'autre n'est pas proesce: mais proesce est aler entre hardement et paor. Et doit li hom foïr les choses qui sont à foïr, et envaïr les choses qui sont à envaïr. Et cist habiz est aquis par usage de desprisier les terri bles choses,et habiz de chastée est aquis par u a mens   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 57 l'altre virtudi ,siccome tu hai inteso della pro dezza ; chè tutte le virtù s'acquistanoesisalvano per tenere lo mezzo. Col raffronto del devez entendre de toutes vertuz. brano finale mettiamo termine a questo prospetto comparativo, che porta un contributo,non privo d'in teresse, alla conoscenza della fortuna aristotelica, ed è d'impor tanza fondamentale per la storia dei compendî neolatini del l'Elica nicomachea.  che sono da fuggire. E sage de retenir soi contre l'uomo fuggire le cose cosideiintendereintutte ses covoitises. Autressi   Liber Ethicorum . Educatio puerorum secundum no- Dee essere lo notricamento delli bilem legem necessaria est ad indu- garzoni secondo la nobile legge, e cendumeispermodumcastitatiset ausarliadoperazionidivirtù,ein non per modum continentie. Inde- questodeeesserepermododicastità, lectabilisenimestapudplureshomi. enonpermododicontinenzia,per. numususuirtutumpermodumcon- ciocchèl'usodellacontinenzianonè tinentie.Nequeabstrahendaesteis dilettevoleamoltiuomini,enonsi manus statim post pueritiam, sed dee ritrarre la mano di gastigare continuanda est eis usque ad con• il fanciullo via via dopo la fan sistentiam et robur uirilitatis. In ciullezza;anzi dee durare in fino al rectificandoquosdamsufficitredar- tempo,chel'uomoècompiuto.Sono gutioetcastigatiosermocinalis,in uominichesipossonocorreggere aliisautem quibusdam uixsufficitas. per parole e sono altri che non siduatiouerberumtamquaminbestia. si possono correggere per parole, Neutrouerohorummodorumrecti- anziv'èmistieripena.Esonoaltri ficabiles tollendi sunt de medio.No- che non si correggono in niuno di bilisetstrenuusrectorciuitatisciues questiduemodi,equesticotali(1) nobilesefficit,etbonioperatoresha- sonodatorredimezzo.Lonobilee'l benteslegemetoperalegisexer- buonoreggitoredellacittafanobili centesaduersantureisquicontraria cittadiniebuoni,liqualiservanola agunt,etsibonaagant.Inpluribus leggeefannol'operachecomanda ciuitatibus iam abiit regimen uite la legge e sono avversari a coloro hominum ideoque dissolute uiuunt che non osservano gli comandamenti etpropriassectanturuoluptates.Et dellalegge,avegnach'ellifacciano regimen quidem conuenientius est bene.Inmoltecittadièitoviailreg. communis prouisio moderata,cuius gimentodellavitadellihuomini,però usumobseruarepossibileestetnon chesivivonodissolutamenteese summedificile:etquodcupitquili. guitanolelorovolontadi.Lopiùcon betseruariinseetamicisetfiliiset venevolereggimentocheporresi familia.Etprecipueydoneusadtalis puotenellacittà,sièquellocheè regiminisconstitutionemestillequi temperatoprovedimento,intalmodo sciueritquoddictumestinhoclibro. chesipuoteosservareenonètroppo Scietenimcanonesuniuersalesad grave;equelloloqualedesidera particulariadistrahere.Communis l'uomochesiosserviinsèenelli  58 C. MARCHESI (1)Icodd.8. v.11:...ce questicotalisono rei perchè sonopartitiintuttodalmezo,et « debbono essery odiati si come sono li lupi et cacciati d'ongne buono luogo. Lo nobile etc. ). L'Etica d'Aristotile.   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 59 Li Tresors,Liv.II,P.I,chap.XLIV. Magliabech.,I,I,47. Et li norrissemens des enfans doit I nodrimenti da fanciulli debbono estrenoblesentelmanierequeil esserenobili,sichesiabeneapreso soientaprisàfaireetàuserlesbones afareedausodibuoneopereper oevresparchastéenonmieparcon- chastitaenomicapercontinuanza. tinance,carcontinancen'estmiecon- Checontinuanzanonemichaconue venablechoseasgens;etl'onne neuollecosaagienti;el'uomonon doitpasostercestusagenecest deemichaleuarequestausanzane chastiementmaintenantqueilont questochastighamentoimmantenente enfance passée, mais maintenir la ch'egliàlafanciullezasua,maman jusquesàtantquelidroizaagessoit tenerla insinoatantocheildiritto acompliz.Iliahomesquipueent estre governé par chastiement de paroles,etautresiaquinepueent mieestrechastiéparparoles,mais par menaces de torment; et autre homesontquel'onnepuetchastier neparl'unneparl'autre;ettelhome doiventestrechastiésiqueilnede- mourentavecautresgens.XLV.Li chacciatisich'eglinodimorinocon noblesgouverneresdelacitéfaitles l'altrigienti.Quidicedelgouerna citeiensnoblesetlesfaitbienoyrer mentodellacittaCCLXVIII.Ino. etgarderlaloietcontresterasautres biligouernamentidellacittadefanno quinelagardent,jàsoitcequeil icittadininobilieglifabeneoperare lefacentbien,Maintescitezsontoù eguardarelalegieecontradirea ligouvernementdelaviedel'ome quegliche nollaguardano,concio sontdestruit,etviventdissoluement, siacosach'eglifaccianobene.Molte car chascuns va après sa volenté. città sono oue il gouernatore della Liplusnoblesgovernemensquisoit ụitadell'uomoèdistrutaeuiuono enlaviedel'ome,etàmoinsde disolutamente,chè chattuno poineetdetravail,estcilquel'on apressosuauolonta.Ilpiùconuene consiredemaintenirsoietsamaisnie uollecomandamento egouernamento etsesamis,etcilpuetconvenable- chesianellauitadell'uomoeapena mentmaintenirgensquiaurala dipeneeditraualglioèquellache science de ce livre; porce que il l'uomo considera di mantenere se e saurajoindrelesenseignemensuni. suamasnadaesuoiamici;equeuli verselsaveclesparticulers;carci- puoteconueneuollementemantenere teiennecommuneestdiversedela gientecheàconsecolascienzadi particulere,aussicommeentozmes- questolibro;peròch'eglisapragiun agiosiacompiuto.Esonohuomini chepossonoesseregouernatipergha. stigamentodiparole,ealtrisonoche nopossonoesseregastigatiperpa role,maperminacieditormenti;e altrisonochel'uomononpuotees seregastigati nè per l'unonè per l'altro;etallihuominidebbonoessere  uae 1   60 C. MARCHESI (1)Taddeo riduce molto sensibilmente il testo latino e ne sopprime a dirittura la fine: forse egli ritenne compiuto a quel punto trattato aristotelico della morale e credette opportuno esclu. dere le parole seguenti; forse a lui melico e maestro fece ombra quell'accenno, in fine, all'arte della medicina. Probabilmente Taddeo rappresentava più da vicino il metodo pratico, e il libellus de servanda sanitate pnò darcene fede : s'è cosi, egli non poteva piacevolmente accogliere l'affer mazione aristotelica.  namqueciuilitasdiffertaparticulari suoifigliuolienegliamicisuoi.E quemadmoduminmedicinaetceteris lobuonoponitoredellaleggesiè potentiisoperatiuis;inhacintentione quegliloqualesaleregoleuniversali, nonmodicaestdifferentia.Inomnibus lequalisonodeterminate in questo ergo huius necessaria cognitio uni. libro,et salle coniungere alle cose uersalium simul et particularium. particulari le quali vegnono altrui Experientiaenimsolanonestsuffi- ciensinhiis,nequescientiauniuer- saliuminipsissecuraestetcerta absque experimento. Multi ergo m e dicorum sola freti experientia in se ipsis,quidem intendunt,bene uidentur operari et in aliis non proficiunt quicquam,eo quod naturam ignorant. Considerandum est itaque qualiter et per que erit quis peritus legis-lator. Erit autem hoc per noticiam rerum ciuilium,que subiectum sunt huius potentie. Quemadmodum se habet in ceteris artibus consimilibus huic, posse experientie in inuentione legis non estmodicum.Quidam putauerunt quod hac ars et rethorica sint unum et idem : in uno etiam putauerunt intralemani,peròcheabeneordi. esse uiliorem hanc rethorica : et leue quid reputarunt scientiam condendi le. ges.Non estautem sic;electionam que in arte qualibet actus nobilis est, et quidem per duo est,siue per scien tiam et experientiam: et per scien. tiam quidem est actus illius inuentio et per experientiam est ipsius directio et certificatio. Et universaliter con nareleleggisièmistieriragionee sperienza(1).   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 61 di uiuere coronpono ibuoni usi di  tiers;carenchascunechoseconvient gnierelo'nsigniamentouniuersale ilconoistrelesparticuleresetlesuni. cholparticullare;chèciertauitadi verseleschoses,porcequeseuleespe. comuneèdiuersadallaparticullare, riencen'estmiesoffisansence;et savoir lesuniverselschoses n'est pas altresicomeintuttimestieri,chèin ciascuna cosa conuiene conoscere li seurechosesanzl'esperience;ainsi commenosveonsmaintmirequipar particullariequesteuniuersalicose, perochesollasperanzanonèmica soficiente in cio; e sapere l'uniuersali cosenon è mica sicuracosasanza seule experience sevent maint bien faireenlormestieretenseignierne lesporroientasautres,porcequeil n'ontsciencedesuniversels.Donques l'esperienze;sìcomenoiueggiamo moltimedicichepersolasperanza seracilparfaizmaistresdelaloi neseguemoltobenefareinsuome. quiseitlesparticulerschosespar stiere,einsengniareno'lpotrebono experience et qui seit les choses agli altri, però ch'elgli non áno universels. scienza de l'uniuersali cose.Dunque Home furent qui cuidierent que sara quegli perfetto maestro della rectoriqueetlasciencedemaistrie legiechefaeleparticullaricose deloifussentunemeismechose,et persperienzaechesalecoseuni penserentquecestesciencefustle- uersali. giere;maislaveritén'estpasainsi, Huomini furonochecredottonoche porce que li maistres de la loi doit lla retoriccha e la scienza di m o estresemblablesàsesciteiens,et strarelegiefossonounacosa,epen doitsavoircestart,etquilesaura saronochequestascienzafossele liseraprofitable,etautrementnon; giere;ma llaueritanonècosi,però etseilcommencastàfaireloisanz cheimastridellalegiedebbonoes cestescience,ilneporroitdoitrement seresimilgliantialorocittadinie conoistrenejugierlabontédesana- ture,deacomplirladefautedesa science,maisporcequenoscuidons consirertouteshumaineschosespar legiesanzaquestascienzaeglinon guisedephilosophie,simetronstout potrebedirittamentegiudicharenė avantlesdizdesancienssages;et conosere dibontàdisuanaturane encepenseronsquelesdesordenées conpieladifaltadisuascienza.Ma manieresdevivrecorrumpentles perochenoiabbiamod'andarecon bons us des citez,etliconvenable siderandotutteumanecoseperguisa lesredrescent,etquiestl'achoison diphilosophia,simetonotut'auanti demaleviededanzlacitéetdela idettideliantichisauieciòpen bone,etparquoilaloiestsemblable seremonoicheledisordinatemaniere as costumes. debonosaperequestaarte:chilese guirrasaràprofitabileealtrimenti non.Es'eglicominciasonoafare   ditio legum similatur potentiis ciui libus, nec potest esse conditor legum qui non habuit scientiam istius artis. Qui uero habuit eam proficiet per experientiam et qui non, non. Et cum inceperintimponere legem absque habitu scientiali,non recte discernent. Neque bene iudicabit,nisibonitaset excellentia multa nature suppleat de. fectum scientie. At quantumcumque natura bene disposita sit,est tamen promtior et expeditior est in uere iudi. cando,cum secum habuerit certudinem artificialem .Quoniam itaque proponi mus speculari in rebus humanis modo philosophico, substinemus primitus dictaantiquoruminhoc;deindeconsi derabimus modos uiuendi,qui extant ; qui ipsorum corruptiui sintconsortii ciuilis in ciuitatibus quibusdam et rectificatiui in quibusdam, et qui corruptiui in omnibus et qui rectifi. catiui in omnibus, et que est causa bonae uite quarundam ciuitatum et que causa quarundam habentium se e contrario, et quarum leges con suetudinibus similantur. Incipiamus ergo et dicamus.  62 C. MARCHESI   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 63 cittadini,e le conueneuoli la dirizzano, e chi è chagione di malla uita dentro alla città e della buona, e perché la legie è sembiante a costumi. Da questo prospetto risulta chiaro quanto abbiamo prima af fermato,ed insieme con la questione dell'Etica volgare è risoluta quella non meno importante del volgarizzamento del VI libro del Tresor e delle fonti di esso,che il Sundby con molto buona volontà ma con poca fortuna rintracciava nel latino dell'altro Liber Ethicorum , del commento tomistico, e nelle chiose di S. Tommaso (1). È naturale che il critico danese ha qualche volta gridato all'impossibilità di trovare il passo corrispondente nell'originale(2),ch'egli rinveniva del resto molto malconcio e scompigliato nel francese di Brunetto. Nè il Sundby fu il primo a esser tratto in inganno circa le fonti del VI libro del Tresor.Già il Mehus parla di un'Etica latina di cui si valse Brunetto, compilata per incarico dell'im peratore Federico Inell'Università di Napoli,e di una traduzione dalgrecoinlatinodelLibermagnorum Ethicorum,fattasotto gli auspici di Manfredi da maestro Bartolomeo di Messina (3). Il Mehus è senza dubbio fuor di strada ; giacchè quest'ultima opera rimane estranea alla tradizione dell'Elica nostra, nè di quella prima imperiale versione d'Aristotile pare che non sia lecito dubitare. De'rifacimenti latini dell'Etica aristotelica dirò compiutamente in un prossimo lavoro; giacchè non è più possibile star paghi alle vecchie notizie,e d'altra parte le buone ricerche del Jour  (2) lvi,p. 149. (3) Op. cit., p. 155. 144 . p. (1) Op.cit.,   dain non sono affatto compiute e i risultati da lui ottenuti non sono più in buona parte sostenibili(1). Della Nicomachea si conoscono cinque redazioni latine nel 1300 ; delle quali tre derivano direttamente dal greco : l'Ethica uetus (2) che comprende solo il secondo e il terzo libro,l'Ethica noua (3)che contiene il primo libro, e il Liber Elhicorum che abbraccia tutti i libri e al posto dei primi tre inserisce con frequenti ritocchi e modificazioni il testo dell'Ethica noua e dell'Ethicauetus.IlLiberEthicorum,che fu commentato da Tommaso d'Aquino,ebbe larghissima diffusione,come pare anche dal numero e dalla importanza de'mss. che lo contengono (4), insieme col commento tomistico servi di testo fondamentale per l'instituto filosofico etico del tempo. Per il tramite arabo ci son pervenuti due rifacimenti latini della Nicomachea,d'indole ben diversa:il Liber Ethicorum , volgarizzato da Taddeo,che servi di fonte al VI libro del Tresor, eilLiberMinorum MoraliumoliberNickomachiae(5),tradotto dall'arabo in latino per opera di Ermanno il Tedesco (Herman nus Alemannus)nel 1240. È questa la parafrasi dell'Etica fatta da Averroè ; il rifacitore non volle solo tradurre l'opera m a intese altresi chiarirla e spiegarla,accrescendone e sviluppandone idati dimostrativi che nel testo sono ridotti a'risultati de'processi lo gici.Aristotile parve un po'contratto ;l'arabo ne distese imuscoli (4) Fin ora ho potuto esaminare ventidue mss.,di cui quattro del sec.XIII (Laurenzian.89,sup.44;XIII Sin.1;79,13;XIII Sin.6),diciassettedelse colo XIV (Ambrosian.F. 141 sup.; A. 204 inf.,di mano di Giovanni Boc caccio;Laurenz.XII Sin.7;XII Sin.9;Nazion.Napoli,VIII G. 11;G. 25; G.27:Riccard.III;Marciana (mss.lat.)cl.VI,39,41,43,44,122;Uni vers.Padova 679,788; Antoniana XX ,456; Capit.Padova G. 54; e uno del sec.XV :Ambros.R. 50. sup.). (5 ) L a u r e n z . 7 9 , 1 8 ; 8 9 , s u p . 4 9 . T r o v a s i p u r e i m p r e s s o i n t u t t e l e e d i z i o n i di Aristotele con ilcommentario di Averroès (Venezia,Andrea d'Asolo,1483 ; Giunta, 1550, 1560, 1562, 1574).  64 C. MARCHESI ( 1 ) O p . c i t ., p p . 5 9 - 6 2 , 7 6 - 7 7 , 1 4 4 , 1 7 9 - 1 8 1 . (2 ) L a u r e n z . X I I I , S i n . 1 2 ; V I I I , D e x t . 6 . (3)Ashburnham.1557.   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 65 e ne arrotondo icontorni,stemperandone la fibra. Aristotile,ada giatosi nella mollezza araba un po' adiposa, si presento all'in telligenza un po'incerta,bambina alquanto e stentata,delle nuove genti latine che con più agevolezza poterono,cosi in veste più larga,contemplarlo e comprenderlo; e l'opera aristotelica, accresciuta di quel po' di cemento della parafrasi araba che riempiva gl'interstizî apparenti della sua costruzione ideale,poté intendersi e premere sulle coscienze senza l'aiuto di un com mentario apposito che dissolvendone l'unità finale ne facesse a p parire gli elementi semplici di formazione. APPENDICE I. I CODICI DELL'ETICA Cod.Ashburnhamiano955[= 1]membr.sec.XIV,conlaprimapagina miniata.Tit.: L'Etica del sommo phylosofo Aristotile; la soscrizione finale si legge difficilmente; pare: Explicit liber Ethicorum Aristotelis phylo. sophj in uulgari idioma scriptus: di cc. scr. 48, le cui ultime presentano molte abrasioni. Cod.Magliabechiano 12.8.57 [52]membr.sec.XIV;titolieiniziali color.,di cc.scr.26. Com. Prolago sopra l'etichadel sommo phylosofo Aristotile; in fine: Explicit liber ethicorum Aristotilis. deo gratias. In fondo è ilnome del trascrittore «Sander me scrissit». Cod.MagliabechianoA.2.3.2[= 3]membr.sec.XIV;titolieiniziali in rosso,di cc.scr.22. Com.: Prolago sopra l'etica d'Aristotile; in fine: Qui finisce il libro dell'Etica del sommo filosafoAristotile il quale tratta delle uertudi che ssi conuegnono auere a cchostumi ed a buona vita delli huomini. In fondo « Giouanni di Lapo Arnolfi lo fece scriuere. Compiesi di < scriuere martedi di XXII di Giugno Anno MCCCXXXIX »; più sotto è indicato iltrascrittore«Sanderme scrissit»:è lostessodelcod.precedente.  5 C. MARCHESI.   Cod.Magliabechiano2.4.274[= 4)membr.sec.XIVexc.dicc.scr.44, miscell., contiene il Trattato sulle avversità della fortuna (c.1-16'). L'Etica com.: Incipit Ethica Aristotilis translata in uulgari a magistro Taddeo florentino;infine:ExplicitethicaAristotilistraslatatapermaestro Taddeo. deo grazias. A c.1a « Qui cominciano le robriche di tutto il libro dell'eticha « d'Aristotile traslatata per lo maestro Taddeo ». Cod.Marciano (mss.ital.)II,3 [= M]membr.sec.XIV,225 X 164,di cc.46 non numerate;anepigr.Precede il trattato «de la doctrina di tacere «etdi parlare»diAlbertano da Brescia;finisceac.11a:Quifiniscee libro de la doctrina di tacere et di parlare el quale fece messere Alber tano giudice da brescia nell'anno domini Millesimo CCXL V del mese di dicembre Deogratias Amen.Dopo un foglio vuoto,ac.13a seguono alcune « Sententie Tulij et Senece et aliqua dicta Aristotilis », che vanno sino a c.18a.L'Eticii,anepigrafa,vadac.18'ac.46t;iltestoèmolto guasto e scorretto,senza alcuna divisione in libri; in fine: Finitus est liber deo gratiasAmen. Cod.Palatino634[=5] membr.sec.XIV;rubricheeinizialicolorate: di cc. scr.27, più una bianca. Tit.: Incomincia l'eticha d'Aristotile in uol. gare ; in fine: Explicit ethica Aristotilis translata a mgio iohe min . deo gratias. Cod.Riccardiano 1538 [= 6;vecch.segn.S.III.47]membr.sec.XIV inc.,miscell.,con belle iniziali colorate e rabescate e numerose vignette intercalate nel testo,di cc. scr.231. Tit.: Incipit etthica Aristotalis. Segue a l l ' E t i c a il t r a t t a t o d e l l e q u a t t r o V i r t ù , il S e g r e t o d e S e g r e t i e d a l t r e s c r i t t u r e sacre e profane;il cod.,come sivede dalla soscrizione finale,appartenne a un Bertus de Blanchis che ne fu forse anche il trascrittore. Cod.Riccardiano 1651 [= 7;vecch.segn.N. IV.27]membr.sec.XIV, coninizialicolorateerabescate,dicc.scr.50.Tit.:Prolagosopra l'ethica d'Aristotile;infine:explicitliberEthicorum Aristotelis.Contieneinoltre: Egidio Romano, la esposizione della Canzone di Guido Cavalcanti. Cod.Laurenziano89Sup.110[= a]membr.sec.XV,dicc.42.Nella  66 C. MARCHESI C o d . R i c c a r d i a n o 1 2 7 0 [ = 8 ] m e m b r . s e c . X I V , m i s c e l l .; p r e s e n t a t r a c c e di quattro mani diverse;la più antica riempi ifogli dell'Etica (da c.5a a c . 3 0 ). C o m .: Q u i c o m i n c i a l ' e t i c h a d ' A r i s t o t i l e . Cod.Ambrosiano C.21.inf.[39]membr.del sec.XV,dicc.58,con la prima pagina fregiata e miniata,con lo stemma del possessore e il ri tratto del filosofo; le iniziali di ogni libro colorate e fregiate. Com .: La Prefatione di 'l primo libro di l'Ethica de Aristotele ad Nicomacho suo figliuolo; nessuna soscrizione finale.   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 67 prima pagina è lo stemma del possessore con la indicazione « Jacopo di « piero benciuenni ciptadino florentino spetiale a pie'del Ponte Vecchio 1488 ». Tit.:Prolago sopral'eticadelsommophylosofoAristotile;infondoporta la data della trascrizione: 1451. Cod. Laurenziano 76. 70 [= r] cartac. sec. X V , di cc. 118. Precede a p. 1 « Insegnamento delle uirtudi e mortificamento de'uitii secondo Aristo « tile e detti e autorità notabili di Santi et di molti saui et filosafi et poeti » cioè,ilVIIlibrodel Tesoro.L'Eticacominciaac.78:Quicomincial'etica d'Aristotile; in fine: Explicit l'etica d'Aristotile. Cod.Magliabechiano2.4.106[= m]cartac.sec.XV,dicc.77,miscell.; contienevolgarizzamentidioperesacre.L'Etica(c.54-72t)com.:Qui co mincia un'opera facta per lo grande sapiente Aristotile detta l'Eticha; in fine: Finita l'eticha d'Aristotile translatata per maestro Taddeo.deo gracias.Sottoèl'indicazionedell'anno Scrittadigennaio1459». Cod.Magliabechiano2.2.72[= p]cartac.sec.XV,miscell.:contiene ladottrinadelparlare(estrattadallaP.I,cap.13del Tesoro),ilSegreto de Segreti,ilvolgarizz.daVegezioFlavio,un librodelleAringherieetc. Si trova unito a questo un codicetto dello stesso formato, di cc. 18, conte nente una piccola storia o diario della città di Firenze dal 1300 al 1379. L ' E t i c a v a d a c . 5 4 a c . 3 6 ', a n e p i g r . I n f i n e : C o m p i u t a è l ' E t i c a d ' A r i s t o tile translatata in uolgare da maestro Taddeo. Cod.Magliabechiano21.9.90(= r]cartac.sec.XV exc.miscell.Con tiene una parte del trattato del Governo della famiglia di L. B. Alberti e dell'Etica solo il libro ottavo e nono ; vede bene che il trascrittore ha volutoestrarrelaparteriguardantel'Amicizia;ambedue ilibrisondivisi i n v e n t i d u e c a p i t o l e t t i. A c . 6 1 è l a s o s c r i z i o n e d e l c o p i s t a « G i o v a n n i S t r o z z i » , eladata:20maggio1482. CodiceMarciano(mss.ital.)I,134(= N)membr.sec.XV,205X 138, cc.64 non numerate,con le iniziali dei libri miniate e dorate. Com .: Incipit proemium transductorishuiusoperisuulgaris;iltestocom.ac.21:Libri Ethicorum siue Moralium Aristotelis qui sunt X in multa capitula diuisi, quiageneraliterdemoribussehabet.Nam inprimolibrodeterminatde felicitate morali et eius partibus. Segue a c. 47 un semplicissimo ristretto volgare degli Economici,indue libri:Incipiunt libri Ichonomicorum Ari. stotilis duo diuisi in aliqua capitula pertinentis ad gubernationem familie. Nam inprimolibrodeterminatdepartibusIconomiceetdeconiugatione mulieris et uiri,quae dicitur nuptialis,de coniugatione parentum ad filios quae dicitur paterna,et dominorum ad seruos quae dicitur dispotica. « La scientia di regiere la casa ha nome Iconomicha et è differente da la    « scientia di reggiere la cipta la quale ha nome polliticha. Non solamente « perchè una cio e la Iconomica considera el regimento de la casa et la « politica el regimento de la cipta,ma etiandio perché in reggiere la casa «nondieesseresenonuno.».A c.61asegueunExtractumAristotelis de libro Secreta Secretorum de arte cognoscendi qualitates hominum ad Alexandrum regem . In ultimo è questa soscrizione: « Ex Venetiis primo «IdusIulijMCCCCLXXIII finis». Codice Marciano (mss.ital.)II,141 (= V]cartac.sec.XV inc.,272X200, di cc.48 non numerate,con la iniziale miniata e il titolo rubricato : Hetica d'Aristotile; finisce a c.38 ': Qui finisce il libro detto Ethyca d'Aristotile. Composto per lo nobile phylosapho Aristotile greco Atheniense scritto nel M.CCCC.XVIIIecompiutoadiXXVIIId'aghosto. Nellestinche di firençe nel malleuato di sotto. Seguono due carte bianche, e a c. 41 il libro di sentenze, che si legge pure nel Marciano II, 3. Cod.Mediceo-Palatino43 [= y] membr.sec.XV,di cc.scr.54,più quattrovuote:ititolideilibriedeicapitolicolorati;scrittomolto nitida mente.Per incuriadichirilegòne'due primi quaderni è un'inversione cui pone riparo la opportuna numerazione delle pagine.C o m .: Incipit Ethyca Ari. stotilistranslatainuulgariamagistro Taddeoflorentino;infine:Explicit Ethica Aristotilis traslatata per magistro Taddeo.Deo gratias Amen. Cod.Palatino501 [= X]cartac.sec.XV,dicc.44,miscell.;contiene il libro di ammaestramenti,sentenze,il libro di Catone,il trattato delle quattro virtù, e altri volgarizzamenti di carattere morale. L'Etica (c. 1-224) com.: Questa si è l'etica d'Aristotile; in fine: Explicit etica Aristotilis translata a magistro Taddeo. Cod.Palatino510[= d]cartac.sec.XV inc.,dicc.111,miscell.;con. tiene volgarizzamenti da Boezio,Cicerone etc. L'Etica (c.82--1066)com.: Qui chominciano i fioretti dell'etica d'Aristotile; in fine: Finiti i fioretti dell'etica deo gratias. C o d . P a l a t i n o 7 2 9 [ = f] c a r t a c . s e c . X V , d i c c . 4 5 : i n i z i a l i c o l o r a t e e fregiate. Inc. Qui chomincia il proemio sopra l'ettichia di Aristotile Pren . cipe di filosafi; in fine: Finito e libro chiamato l'eticha d'Aristotile a di X X V d'ottobre mille quatrociento quarantacinque per le mani di filippo Adimari da firenze a uso e stanza di se e di suoi amici deo gratias. Cod.Riccardiano1084 [= c]cartac.sec.XV,dicc.49;inizialieru briche colorate. Inc. Comincia il prolago del libro della hetica d'Aristotile; in fine « deo gratias amen ». Cod.Riccardiano1357[= e]cartac.sec.XV,dicc.248,miscell.;con tiene scritture sacre.L'Etica va da c.49a a c.702. Com.: Prolagho sopra  68 C. MARCHESI   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 69 l'eticha del somo filosafo Aristotile; in fine: Finiscie l'eticha del sommo filosafo Aristotile deo grazias. Cod.Riccardiano 2323 [= g] sec.XV,di cc.51; rubriche e iniziali grandi colorate.Precede la Introduzione al dittare di «maestro Giouanni « bonandree da Bologna », con questa ottava al principio « Di Bologna natio «questoautore|nellacittastudiandodou'ènato conallegrezzaemaestral «amore|digiouaniscolarquestotrattato|brieuementecomposeilcui ti «nore conciedeachil'aurabenistudiato|sopraquelchelaepistolaadi. « manda |et sofficientemente in lei si spanda ». L'Etica è compresa da c.20 ac.51;infine:ExplicitEth.Ar.traslatataamagistro Taddeoinuulgare. Scribere qui nescit nullum putat esse laborem. Cod.Riccardiano1610[= h]cartac.sec.XV,dicc.26,miscell.;contiene il trattato delle quattro virtù.Com.: Incipit liber Ethicorum Aristotilis; infine:ExplicitliberEthicorum Aristotilis.Ilcopistafu«lulianusAndree a de Empoli > che lo scrisse « per sè e per i suoi consanguinei ». Cod.Riccardiano1585[= v]cartac.sec.XV,dicc.69:inizialierubriche colorate,con frequenti macchie d'acqua nel margine.Contiene il Segreto de Segreti(1"-44a)el'Etica(441-68a);com.:Fiorettidell'etichad'Aristotile del primo libro; in finc: Qui finiscie el libro dodecimo ed ultimo delle tichacompostoperlonobilefilosofoetsommo Aristotile.Amen. Cod. Ambrosiano J. 166 inf. Cartac., trascriz. rec. Il codice consta di più parti cucite insieme. L'ultimo quaderno contiene l’Etica, il Segreto,e il volgarizzamento dell'orazione pro Marcello. La trascrizione è fatta con molta probabilità su di un codice antico, fedelmente. L'Etica è anepigrafa ; in fine : Explicit Eth. Ar.Manca ogni divisione della materia. Cod.Erbitense [Biblioteca Comunale di Nicosia].Cartac.,trascriz.rec. Contiene il volgarizzam . toscano del de Amicitia e il compendio dell'Etica, che manca del primo libro. Cod.Napolitano Nasion.XII.E.35 [= s]:Copia recente d'un ms. quattrocentino posseduto dalla biblioteca di casa Bentivoglio. Contiene il trattato della fisimomia (sic), ch'è aggiunto in fine come tredicesimo libro dell'Etica.Inc.: Dell'Eticha del sommo filosofo AristotilelibriXIII;in fine : Qui son finiti i dodici libri dell'eticha del sommo Aristotile.    I CODICI DEL TESORO Cod.Ambrosiano G.75 Sup.(= Amb.)membr.sec.XIV,aduecolonne, con rubriche fregiate e colorate; di cc.scr.121. L'Etica va da c.56a « In « cipit libro d'eticha Aristotile » a c.73a « Expicit libro d'eticha Aristotile. « I n c i p i t l i b r o c o s t u m a n t i e » . L ' u l t i m o c a p i t o l o c o n c u i si c h i u d e il c o d i c e è : Come ilsignoredeestarearendereragione.Finisce(c.121a)«eprenderai « commiato dal consellio e dal comune de la citta e te ne anderai a gloria dea honore. FiniscelolibrodimaestroBrunectoLatinidaFiorenza». Cod.Ashburnhamiano 540 (= a)cartac.sec.XIV;anepigr.e mutilo, dicc.138.L'Eticafinisceac.73t:ExplicitelicaAristotilisa Magistro Taddeo in uulgare traslata. Il resto del Tesoro si arresta a cc.88 (lib.VII, cap.27]; a c.90 è un capitolo in terza rima di Dante : lo scrissi già d'amor pii uolte in rime,con una notizia sull'occasione ch'ebbe il poeta di scriver quella poesia;a c.94 è una legienda chome tre monaci andarono nel paradiso di lutiano. il qual e in terra ... Seguono altri scritti,tra cui un framm . del Fiore di filosofi. Cod.Gaddiano 83 (= €)cartac.sec.XIV,acef.e mut.; ilprimo foglio è aggiunto di mano diJacopo Gaddi,dicc.147,sciupatodall'acqua.Ilcodice si chiude con l'Etica,ed ha questa soscrizione: Finito el libro fatto e chon pulato per Maestro Brunetto Latino. Il cod.come si vede da un'indicazione sulla guardia,apparteneva a'figliuoli di « Giouanni di ser Andrea di Michele « Benci lanaiolo cittadino fiorentino ». Cod.Laurenziano42.23(= )membr.sec.XIV,contitoliinrossoe le iniziali colorate, e il ritratto del maestro, in principio, dipinto nell'atto che insegna ; di cc. 142. Il testo è diviso in tre parti: dopo la prima è un indice della materia precedente; un altro indice di tutta la rimanente m a teria trovasi alla fine del codice. L'Etica va da c. 59! « Cominciamento del « segondo libro del Tesoro lo quale e appella l'eticha che compuose Ari « slotile » a c.774 « Explicit hetica Aristotilis a magistro Taddeo in uol. «gare traslectata».Infinedelcod.:«Explicitlibroloqualefuecomposto per lo maestro Brunetto Latino di fiorenza et poi traslectato di fran ciescho in latino (Bondi pisano mi scrisse dio lo benedisse. Testario sopra nome, dio lo caui di gienoua di prigione. et a llui et a li autri che ui sono  70 C. MARCHESI APPENDICE JI.   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 71 e da dio abiano benizione.Amen amen). La soscrizione è di mano dello stesso copista. Cod.Laurenziano 90 Inf.46 (= d)cartac.sec.XIV exc.,aduecolonne; titoli in rosso e iniziali colorate ; di cc. 211. L'Etica va da c. 74+ (Qui co. mincia l'ectica d'Aristotile et est la segonda parte del Tesoro) a c. 100a (Explicit l'etica Aristotile in questo tanto che io noe trouata).In fine del codice: Qui fenisce lo sourano libro-Explicit lo libro del Tresoro. Cod. Magliabechiano 2. 8. 36 (vecch. segn. 25. 258] secc. XIII-XIV : acefalo e mutilo di cc.91. Comincia al lib.II, P. I,cap.19 efinisceal lib.III,P.II,cap.21. L'Etica finisceac.19a,senza alcuna soscrizione. Tra il compimento della prima parte e il principio della seconda (cc.44-75)sono della stessa mano alcune tavole planetarie e astrologiche, tavole ad lunam et ad Pascham inveniandas etc. Proven.Strozzi. Cod.Palatino585(= ^)cartac.sec.XIVexc.,dicc.214;miscell.Con tiene,oltre il Tesoro,ilLibro di amaestramenti di costumi,le cinque chiari della sapienza,iltrattatodelle quattro Virtù morali,lo libro di Chato. L'Etica va da c.87+ [Qui chominciano le robriche del secondo libro delTesoro,cioèd'etichad'Aristotile- epoi:Quisichomincialosecondo libro del Tesoro e primamente dell'ecitta d'Aristotile) a c.115a [Explicit E t i c h a A r i s t o t i l i s a M a g i s t r o T a d e o i n u u l g h a r i t r a s l a t t a t a d e o g r a z i a s ]. Finisce il Tesoro a c.175a.Al recto dell'ultima carta,dimano di poco po. steriore, si legge « Questo libro è di Giuliano di Giouanni Quaratesi : chi llo « achatta, piaccagli renderlo per l'amore di dio, e dalle lucerne e da' fan «ciullilorighuardi».Com.iltestodel Tesoro:«Questoèlolibrochessi «chiama Texoro loqualeèchauato dalla bibbiaede'libridifilosofi a che ssono stati per li tempi ». Cod.Riccardiano 2221 (= 2)membr.sec.XIV,di cc.127; iniziali co lorateefregiate.L'Eticavadac.58'«Incipit libbro elichaAristotile» a c.75'«Expicit libbrod'etichaAristotile».A c.1224:Qui finiscielo libro di mastro bruneto Latini da fiorensa. Si nota una grande confusione nella distribuzione della materia dell'Etica,prodotta dallo spostamento di varie parti.   Cod.Laurenziano 42. 19 (= P) membr.sec.XIV, a due colonne,con molte miniature e iniziali colorate; di cc.93. L`Etica va da c.40a « Qui « comincia la seconda parte del Tesoro di Burnetto Latino el quale libro e si chiama la ethica d'Aristotile » a c. 51a « Qui finisce l'Eticha d'Ari a stotile » . = u. membr. Cod.Casanatense1911(= )cart.sec.XV,dicc.130;anepigr.mutilo. L'Etica va da c.33*(Qui chomincia il nobile libro che fecie il sauio Ari.   stotilefilosafocioèl'Eticasua)ac.45 (fincieillibrodel'etica).Inun'av. vertenzaappostaalcodicestessoènotatalamancanzadellaparteche ri guarda la Politica (lib.IX); vi si trova la teologia,divisa in due parti; com.:Voiuorestich'ioviconfortassil'animeuostremaiodubito fare ilchontrario.;(in questo trattato si parla di dio,angeli,sacramenti, del l'anima).Nel fl.r.membr.della guardia è un indice della materia che giunge sino alla natura del delfino (V libro). Cod.Magliabechiano2.2.82(= n)cartac.sec.XV,dicc.111,mutilo; siarresta al principio dell'Elica(cap.1):sièinutileinquestascienza. Inc.: Qui comincia lo libro il quale fece ser Benedecto (sic) Latini di firense e parla della nascienza di tutte le chose e ae nome il Tesoro. L'Etica ha questo tit.: Qui comincia il sechondo libro del Tesoro facto per ser Brunetto latini di firenze il quale parla dell'ethica di Aristotile. Si trovano in questo codice altri volgarizzamenti da Seneca , Boezio, G e ronimo etc. Cod.Magliabechiano2.2.48(= v)cartac.sec.XV,dicc.153,mutilo; e x p l . « Q u i d i c i e d e l l a B r a n c h a c i o e d i c h o n c r u s i o n e » . I n c .: I n c o m i n c i a il Tesoro di ser Brunetto Latini da Firenze conpilato in francescho. L'Etica va da c.60a [Qui parlla il maestro della beatitudine.coe.parlla Aristotile sopra l'eticha] a c.81* [Qui finisce il secondo libro di questo trattato di ser Brunetto Latini oue brieuemente a trattato della beatitudine e d e l l e u i r t t u s o p r a l ' e t i c h a d ' A r i s s t o t i l e ]. A l m a r g . i n f . d e l l a p r i m a p a g i n a si legge il nome di un possessore: Concini. I CODICI MUTILI DEL TESORO. Cod.Leopold.Gaddiano IV (= 0)membr.sec.XIV,a due colonne,con la iniziale dorata e dentro essa l'effigie dell'autore; di cc.40. Inc.: Qui in. chomincia el Tesoro di ser burnetto Latino di firenze. E parla del na. scimento e de la natura di tutte le cose. Si arresta alle parole « allora «uegnonolichacciatoriefanno»,cioè al penultimocapitolodellaprima parte (de unicorno).Sul foglio di custodia in fine si legge il nome del possessore « Liber mei Angeli Zenobii de gaddis de florentia ». Cod.Leopold. Gaddiano 26 (= T)cartac.sec.XIV,a due colonne,di cc.88. Inc.: Questo libro si chiama il Tesoro maggiore il quale fece maestro brunetto Latini di firenze, e tratta della bibia e di filosofia e  72 C. MARCHESI   IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 7 3 delle uecchie istorie ad amaestramento di choloro che leggierano.Contiene tutta la prima parte e il prologo della seconda (c. 85): « E poi uerra il prolagho apresso a questo dicha de l'eticha del grande sauio Aristotole ». Cod.Laurenziano 42. 22 (= E)cartac.sec.XIV,di cc.165;titoli in rosso e iniziali colorate, con l'effigie dell'autore in principio ; mutilo. Inc.: In nomine Domini Amen . Qui comincia lo libro del Thesoro maggiore, lo quale libro fece maestro brunetto Latino di fiorenza. Questo primo libro fauella del nascimento di tutte le cose di filosophia et di sue parti. Prologue de la natura di tutte cose. Si arresta alla prima parte : « per « ragunare la secunda parte di questo thesoro che dia essere da pietre pre «tiosecioecharbonchi perlle diamanti».La lezione di questocodice in moltissimi punti si allontana da quella comune delle stampe e dei codici, non solo per diversità di espressioni,ma anche per copia e qualità di notizie. Cod.Laurenziano 42. 20 (= B)membr.sec.XIV,a due colonne,col ri. tratto dell'autore in principio; titoli in rosso e iniziali colorate, di cc. 112. Inc. « Questo libro e chiamato il tesoro magiore il quale fece ser burnetto . « Latini di firenze il quale tratta de la bibbia et di filosofia et del cho « minciamento del mondo e de l'antichita de le uecchie istorie et de le a nature di tutte chose insomma ad amaestramento e dottrina di molti. «Ed erechato di francescho in uolgare apertamente».Comprende la prima parte e il prologo della seconda : Qui parla alquanto d'eticha d'A ristotile.A c.112a è un elenco de're di Francia. Cod.Laurensinno 42. 21 (= p) cartac.sec.XV,di cc.70. Inc.: Qui comincia il libro del Tesoro il qual fe ser brunetto da fiorença e parla del nascimento di tutte le cose.Contiene fino a tutto il libro V. Molte varianti. Cod.Magliabech.VIII.1375 (= U)membr.sec.XIV.Anepigr.,acef., matilo,dicc.32,aduecolonne,con le iniziali colorate.Proven.Strozzi. C o m i n c i a a l l a f i n e d e l c a p . 9 ( p . 3 0 , e d i z . . R o m a g n ., B o l o g n a , 1 8 7 8 ) « n e «elliuengnano.Etperciononaeinloropuntodifermeçça ketuttecose ve tutte creature si muouono e si mutano in alimento percio dico ken « questi tre tempi cioe li passati e li presenti e quelli ke sono a uenire non a sono niente se del pensiero noe a chuelli souiene de le cose passate e in « guarda la presente ed atente quelle ke deono uenire » etc. . . . sino a c. 41 (p. 94, ed. cit.) « e la reina non uolse aconsentire al matrimonio anzi la « uolea donare ». Da questo punto ch'è evidentemente interrotto, per man . canza di nesso con la pagina seguente,la distribuzione e l'entità della m a teria sembra in gran parte diversa dalla comune del Tesoro. Riferiamo talune rubriche : a c. 5a il cod. seguita « dira qui apresso Lamet frate di    C o m e l o r e M a n f r e d i p r e g h a il p p c h e li c o n c e d e s s e il r e n g n o e t c . e t c . » . Seguita quindi a dire di Manfredi e della battaglia di Benevento e di Carlo d'Angiò e di Gianni da Procida e de'Vespri,lungamente.Vengono appresso altre narrazioni « Come si lamenta il conte Giordano Cod.Palatino 483 (= Q)cartac.sec.XV,dicc.65. Inc.:Quichomincia lo libro il quale fecie ser Benedetto Latini di firenze e parlla della n a scienza di tutte le chose e a'l nome il Tesoro. Comprende la prima parte e il prologo della seconda. Ne resta esclusa dunque l'Etica e il resto del Tesoro. Insieme con questo codice si trova legato un altro, di mano diversa, contenente iframmenti del Buouo d'Antona,in ga rima. Cod.Riccardiano2196(= w)membr.sec.XV,aduecolonne,dicc.67. Si ferma al punto ove parla del « modo di trovare l'acqua e delle cisterne » (lib. I I I?). È da notare che ci troviamo di fronte a una lezione ben diversa dalla più comune. CONCETTO MARCHESI.  «GiosepoefigliuolodiJacobetc.... Come sicominciai agioaltempo «diSaulediJerusalem– Loquintoagiosicominciaquandoigiudei «eranoinpregione Danielf.gesseediSaul ·delgloriosoreSalomone «profetta de elias deloredugidiTebas– dieliseusprofete. de « isaie profette de germie profette etc. etc. ». A c. 9 abbiamo un cata logo di pontefici: segue la storia della chiesa di Roma e di Costantino. Poi « Come franceschi perdero lo 'perio di lo re imperadore di Roma « primo taliano di beringhieri come perdeo la sengnoria e uenne amao «dotto di Sasogna Reame della mangna Arigho della mangna «Comeloredifranciafusconfitto Comelo'peradorepreseliparlati «difrancia Comelachiesauacantidibuonipastoritradivalo'peradore « tinuamente la natura lauora in tutte cose – »; seguono figure astrono miche,della luna,del mappamondo. Finisce a c.32. « Dell'altra citta di uerso nasce lo fiume di rodano e uassene dall'altra parte uerso borghon « Francia diuide in « gnia e per proenza molto correndo e anzi che lli sia a mare si «duepartiellamaggioreparteentrainmare presoadArlil'altrobraccio.». Qui si arresta il codice. Come con KLII,p.1 74.  THADDÆUS FLORENTINUS. qua fortuna . Sunt quivelint ex humili prorsus loco , & infima populi fæce.(6) Sed contra aliisvidetur editus exAiderotta gente,non patricia illa & primaria;duplex enim fuit;sed altera,minus quidem nobili,fedhonefta & liberali. (c) Alderottum certe patrem habuit , (d) & ex gente Alderotta di ctus est a Scriptoribus . Fuere Thaddæi fratres Simon & Bonaguida , homines obfcuri, quorum vix nomen ad nos pervenit. (e) Ac Thaddæum quoque ip sum narrant non minimam ætatis partem non folum inglorie , sed ignominiose etiam transegisse. Adeo enim ftupidum a natura fuiffe tradunt,ut totis triginta annis n e c literas didicerit , nec honetto ulli artificio aprus fit visus . Itaque v i ctitasse ajunt sordido & illiberali quæftu , occupatum præ foribus sacelli S. Mi. chaelis in Horto vendendis minutis candelis , quas ibi religionis causa accendi mos erat . Sed exactis triginta ætatis annis , quafi ex veteri somno experre ctum , & dissipata cerebri caligine , incredibili ardore excitatum ad literas , quarum discendarum ftudio Bononiam , adhuc rudem , & vix in Grammatica eruditum convolasse ajunt . Sed hæc, quæ de Thaddæo memoriæ tradidit Philip pus Villanius , quamquam & Florentinus , & non indiligens scriptor, & ad m o d u m antiquus , aliquis in dubium revocat , quod fabulis fimilia videan . tur ; (f) qua de re integrum erit unicuique judicium . IÌ. C u m igitur Bononiam venisset, ut optimarum artium ftudiis animum excoleret , in quo omnes consentiunt, Philosophiæ totum , ac Medicinæ le de dit. Incidit Thaddæi adventus ad fcholas noftras in illud tempus , cum M e d i ca facultas, quæ antea ufu fere & exercitatione peritorum tota continebatur , a Philosophis tractata, nova luce donari cæperat; fi tamen vetus illa Arabum Philosophia , quæ tunc scholas invaserat ,n o n ubique tenebras & caliginem offundere poterat . Sed ita persuasum erat hominibus , atque hæc potislima Thaddæi laus fuit , quod primus ex noftris Medicinam cum Philofophia arctissi m o fædere conjunxisse visus sit. (g) Tentaverant id quidem ante Thaddæum alii, (h) & erantin Academia noitra ante illum Phyficæ, five,ut dicere ama bant,Phyficalis ientiædoctores,& professores,quifacemThaddæoipfiprætu. lerant ; nec dubito , quin eorum aliquem in scholis noftris audierit . Sed ille unus plus operæ contulit inftaurandis Medicina ftudiis ad ejus fæculi guftum , q u a m fuperiores omnes . Extant adhuc ampla ejus commentaria in libros vete rum Magiftrorum artis Medicæ , partim typis edita , partim manu exarata in locupletiorum bibliothecarum pluteis , quæ primum inter docendum in scholis nusprotulitexlibroHH .p.338.Excerpt.Scriptur. (c) Annotaz. del Dot. Ant. M. Biscioni al Conventus S Crucis Flor. Vid. Ci.Mazuccbel,in Conv. di Dante . In Firenze 1723. p. 68.  XVI. "Haddæus Florentiæ natus eft paulo post initium sæculi XIII.,(a) incertum THE , Nnn 2 (a) Obiit anno MCCXCV., ut infra dice- teringum & c. Presentibus Mag. Salveto de tur.Cum igitur,Philippo genarius decesserit, natum oportet Villavio auctore , octo annoMCCXV. Com.Bonon. Ferraria & M a g . Santo de Cesena . Ex Mem . ab (b ) Pbilip. Villan, in lib. de laut.Florent. in Append. N. XII. (e)Ex tabulisanni MCCLI.,quas Biscio. PROFESSORES . 467 (d)An.MCCLXXXIII.die VIII.exeunt. (f) Vid.Ci. Mazuccbel. loc.cit. Jul.Mag.Thaddeus professor artis Medicine (g) Vid.Jo.Antr.Vunjted defair.viror. fil. qnd.d n .Alderotti de Florentia fecit Joan. illuftr. p. 312. & c. n e m dn. Anglonis fuum procuratorem ad re ( h ) Petri Hispani, qui anno M C C L X X V . cipiendam pacem & remifsionem a Loteren. Ro.Pontifexrenunciatus,di&tusifJeannesXXI., go qui dicitur Rigutius & a Bonino fuo fi commentaria babemus in librum Ifaac Medici ,quae lio & ab omnibus & fingulis aliis de consan- Jubtilitatibus dialecticis abundant. Ilm in hipo guinitate ipsorum ... de omni injuria , & pucratem w Arijtotelem scripufe dicitur ; nec du offenfione que dicebatur eise facta per M a g . bito , quin bæc fcripta aliquanto ante Tbs.ddæi Thaddeum vel B.naguidam fuum fratrem commentaria prolierint. Sed quantum bæc illis vel per aliquem de contanguinitate ipforum præjliterint , doctorum hominum judiciun postea vel q u æ diceretur eise facts p e r predictos L o vlendit. Tbadilæo Allerotto ,   ab eo tradita , m o x ab auditoribus excepta , incredibilem ei famam concilia runt. Id autem in eo potissimum mirabantur homines , quod ita Medicinam tractaret , ut ejus facultatis canones & præcepta ad severioris Philofophiæ ratio nes exigeret ; quod nemo ante illum magno fuccefsu perfecerat. III. In hunc m o d u m recepta eft in scholis noftris vetus illa Medicina Philosophica , fi ita appellare licet , quæ brevi tempore omnes Europæ Acade. mias pervafit, & innumeros Scriptores tulit. Hinc agmen interpretum in Hip pocratem , & Galenum , atque Avicennæ in primis , aliosque veterum Medico rum libros, Thaddæo duce; cui non satis ad laudem fuit interpretem dici,sed plufquum interpres a quibufdam dici amavit, (a) & ut alter Hippocrates apud Italos habitus eft. ( b) Ejus autem gloffæ , præcipuis Medicinæ libris adjectæ, in scholis communi suffragio receptæ sunt , & pro ordinariis, ut dicere folebant, longo tempore habitæ eodem loco fuerunt apud Medicinx Itudiofos , atque Ac curtianæ gloffæ legum libris appofitæ apud Juris Civilis professores. Magister etiam Medicorum jure di&us eft, (c) ob excellentium Medicorum copiam, qui ex ejus fchola prodierunt. Tanta denique ejus nominis fama, & inre Medica celebritas fuit, ut perinde esset in usu popularis fermonis Thaddæum fequi, (d) ac Medicinam profiteri. IV . Docere cæpit Thaddæus circiter annum M C C L X ., aut non multo fe rius ; eodemque tempore scribendo vacabat , neque operam fuam curandis V.Cum igituræquefelixincurandisægrotis,acdoctusinscholareputa retur , non folum in civitate noftra Medicinam fecit, sed paflim vocabatur ad curandos magnates , & viros principes per alias Italiæ civitates . Hinc aliquis de illo magnifice potius , quam verescriptum reliquit , non confuevisse illum aliis , quam principibus , & nobiliflimisviris curandis operam præftare. Sed il lud tamen indubium eft , non fivisse aliò fe abduci ad curandum quemquam , nifi pacta ingenti mercede , quæ non tam efiet pro loci diftantia, aut difficul tate curationis , q u a m pro fui dignitate , & facultatibus eorum , ad quos CU randos vocaretur. Neque far erat de mercede pacisci: nam fibi quoque cau. t u m volebat de itu & reditu , accepta ingentis pecuniæ sponsione pro fecurita: te itineris·Dignæ sunt, quæ legantur, tabulæ an. MCCLXXXV .scriptæ,cum Thaddæus Mutinam iturus esset ad curandum Gerardum Rangonum . In iisRan goni procuratores T h a d d æ o promittunt , fe facturos, ut liberum iter & expedi ium ad eam civitatem habeat, fufcipientes in se omne periculum , & impen sam : quod si pactis minime ftetiffent, promiserunt, fe eidem reftituturoster mille libras bononinorum , quas depofiti loco a Thaddæo ipfo accepisse fate bantur . Similes tabulas habemus anno MCCLXXXVIII .cum Mutinam rurfus ment. in Parad. Dantis C. XII., dou a vellutela . 1189  1 468 MEDICINE ! (a) Ita appellati:r aBenvenuto ImolenfiCum evo. apud Ercard. Corp. Histor. med. ævi col 1 1 lo ibid. Sed qui plusquam Commentator a Pbi. qui revera opus fuum tum inscripsit, is fuit Turrisanus Tbaddæi au ditor;de quo alibifermo erit. plufquam Commen M a per amor della verace manna (6) Hic homo , cum penes Italos, ut al. fundature, Paradisi C. XII, t e r H i p o c r a s h a b e r e t u r . P b i l i p . V i l l a n . d e L a u d . ( e ) T b a l i l æ u s a d c a l c e m C o m m e n t a r . ix A Florentiæ ,five de Cl. Florentin. (d) Non per lomondo, percuimo's'afo In picciol tempo gran dortorli feo. Dant.Aligber. de S.Dominico Ord.Prædicator. tis defiderari patiebatur . Docendi tamen , & scribendi laborem intermifit an no,utopinor,MCCLXXIV.cum civilebellum,aLambertacciis,&Jere. miensibusexcitatum,civitatemnoftrammiseranduminmodum conculit.(e)Sed ipfe quoque fatetur,se aliquando a scribendo ceffasse ob quæstum , quem curan dis ægrotis faciebat. (f) Atque hinc apparet, quæ fides habenda fit Philippo Villanio , cum scribit, Thaddæum , fpreto lucro, fe totum interpretandis vete. rum Magiftrorum libris dedille. (8 ) Fallitur etiam Villanius , cum scribit, Thaddæum ftipendio publice conftituto Bononiæ docuiffe ; nondum enim, eo vivente ,M e d i c i n æ profefforibus ftipendia attributa fuerant . lippo Villanio , aliisque Scriptoribus dictus et , fanna Diretro all'Ostiense et a Taldea (c!Eo anno Mag.Thaddæus Medicorum magitter moritur . Ricobald. Compilat.Cbronolog. pborismos Hippocrat. (f) bulm . (g ) Pbilip. Villan. loc. cit. ægro   evocaretur ad curandum Guidonem Guidonum . Utrasque in Appendice dabi mus .( a) Sed quis credat , in his contractibus bona fide actum ? Ego fraude caruisse non arbitror . Facit , ut ita credam , infignis Odofredi locus , ad fraudes pertinens Advocatorum sui temporis; qui cum immodicasmercedes præterjus falque pro suis advocationibus & patrociniis extorquere vellent a clientibus eos adigebant ad ftipendium , quali deberent ex causa mutui .(b) Eodem artificio usum arbitror Thaddæum , quem ne obulum quidem verisimile eft_deposuisse apud Rangoni , & Guidoni procuratores . Sed ego tamen existimo,Thaddæum , probum hominem & pium , non ita immitem fuiffe, ut tam ingentes pecu-, nias exigeret ab iis , quos curandos aggrederetur . Potius crediderim, hanc cau tionem voluiffe , ne jutta mercede fraudaretur , & damna fibi æquo jure præfta rentur, quæ quacumque ex causa pertulisset. V I. Vocatus aliquando ad curandum R o m a n u m Pontificem , negasse dici tur se iturum , nisi centum aurei nummi in dies fingulos penderentur. Quod cum immodicum videretur iis, quibus negotium datum erat, ut cum Thaddæo transigerent, neque ea de re conveniret ; concessit tamen Pontifex , grandem quantumvis pecuniam vitæ & incolumitati fuæ pofthabendam ratus . M o x au . tem , cum arnice Thaddæum argueret , quod tam magno operam suam locaret, ille admirationem fimulans; ego vero, inquit, multo magis obftupesco, cum ceteri fere viri nobiles , & minores Principes quinquaginta & amplius aureos nummos mihi in dies conferre soleant, tibi , qui maximus es Chriftianorum Principum,grave visum esse,quod centum petierim .Sed Pontifex,ubi Thad dæi ftudio optime convaluit , decem millia aureorum eidem rependi juffit, non tam ut tantum virum pro dignitate fua, & ejus meritis remuneraretur , quam ut o m n e m ab se averteret avaritiæ suspicionem . VII.Itanarrat PhilippusVillanius, (c) qui tamen Pontificis nomen filet• Sed hunc fuisse Honorium IV . alii Scriptores tradunt, & in primis Joannes Tortellius in libro de Medicina & Medicis ad Simonem Romanum .(d) Sunt etiam qui hæc tribuant Petro Apono illuftri Medico , de quo alio loco dice mus. Sedcredibilenon videtur,tum quiapotiormihiet auctoritasPhilippi Villanii , & Joannis Tortellii , quam aliorum multo recentiorum , qui hæc de Petro Apono scripserunt;tum quia Honorii IV.ætate Petrus Aponus nondum ad tantam f a m a m pervenire potuerat , ut ad curandum Pontificem accerseretur . Sunt qui immaniter augent pecuniam , q u a m Pontifex recuperata valetudine Thaddæo numerari jusserit; nec desunt qui non minus , quam ducenta millia aureorum accepisse dicant . Sed nimis multa mihi etiam videntur pro iis t e m poribus vel ea decem millia , quæ Villanius omnium modeftiffimus narrat. VIII. Thaddæus certe Medicinam faciens ad ingentes divitias pervenit;nec facile est reperire plures ejus facultatis professores, qui majores fint consecuti. Ejus autem commodis, & utilitatibus consuluit etiam non uno modo Populus Bononiensis . Ei nimirum , & ejus hæredibus concessa eft immunitas a vectiga libus, & remissio ab omni munere publico. Additum eft, ut libere a quovis intra fines Agri Bononienfis prædia , & fundos emere posset, quos vellet ; m o d o ne ab exulibus & profcriptis. Itaque eum voluerunt gaudere omnibus civium commodis ,neque iis oneribus obnoxium effe,quæ cives reipublicæ causa sustine re debebant . Ejus quoque discipulis eadem . privilegia , & immunitates populi beneficio concessæ sunt,quibus gaudebant ScholaresJuris Civilis & Canonici. Id autem , nominatim pro auditoribus M a g . Thaddæi ftatutum , aliorum Medicina profefforum auditoribus communicatum est. (e) Ita honor additus est Scholæ ad Simonem Romanum Medicum præftantif (b) Dicit advocatus , fi promittis mihi fimum . Ex Cot. Vatican. aput Apostol. Zenun milleaureosnominefalarii,nonteneris.Sed inDissert.Volpian.To.I.p.151. faciasmihiunum inftrumentum ,inquo con (e)ExStat.Pop.Bon.anniMCCLXXXVIII. tineatur, quod tu teneris mihi dare mille ex vel potius M C C L X X X U I ., in quibus eji Rubri. causamutui.Odofred.inl.Sifubfpecie.C.de cadeprivilegioMag.ThaddeiductorisFixi Polulando. (c) Pbilip, Villan, loc. cit. ce & diicipulorum ejus. Vid.Append.N. X X .  ProFESSORES. 469 / } (a)Vid.Append.annoMCCLXXXV.,dow (d)Jo.TortelliusdeMedicina& Medicis MCCLXXXVIII. Medi.   Medicæ,quæ Thaddæi potissimum opera magis aucta,& nobilitata,parigradu deinceps fuit cum scholis Legum , & Canonum . X. Nescio quid molettiæ illi etiam intulisse credo Clarellum quendam,ut opinor , Medicum , five quod ejus doctrinam impugnaret , five quod medendi rationem carperet . Queritur de illo in Commentariis ad Joannicii Ifago gen,(d) X I . Habere consuevit in familia sua Thaddæus Medicos aliquot , quibus adjutoribus uteretur five in scholæ muneribus , five in ægrotantium cura. Eo rum aliqua mentio eft in ejus teftamento , quod in Appendice damus . Dome ftica quoque negotia , ne quid esset , quo a suis ftudiis interpellaretur , per pro curatoresaliquando agere consuevit. Anno certe MCCXCII. procuratorem suum conftituit Octavantem Florentinum , (g) affinitati fibi conjunctum,eum, qui Jus Pontificium exeunte fæculo XIII. in scholis noftris docuit;de quo fuo loco diximus . (c)Vit.Append.Pertinethocadannum tisnominedñeAdelefuefilieipfiMag.Thad MCCXCII. dum numero , quo luci altitudő indicatur . (8)An.MCCXCII.dieXV.MajiMag. tia. bus dicitur Regalettus Bunaguide de Floren .  470 MEDICINA IX.Quamdiu vixit priinum dignitatis locum tenuit interMedicinæ profef fores; ac multum ei quoque tribuerunt professores aliarum disciplinarum . (a) Sed gravis offenfionis causa ei aliquando fuit cum Bartholomæo Varignana,qui ex ejus schola, ut verisinile eit,prodierat, & magiftro adhuc vivente ma gnopere celebraricceperat. Receperat ille in Medicina erudiendos quofdam , qui ad Thaddæi fcholam ante accesserant. Id ei magno crimini datum eft a Tnaddæo; ac fortasse erat contra leges scholafticas,vel Academiæ noftræ mo rem . Neque vero aliter to'li diffidium potuit,& sarciri injuria,qua affectum fe credebat Thaddæus , quam ubi Varignana promisisset omnem pænam pora'em , & fpiritualem ultro subiturum , q u a m in e u m ftatuissent Vicarius Ar. chidiaconi Bononienfis , & aliquot doctores ex Collegio Magiftrorum , (b) arbi tri ad tam rem delecti. (c) quæ cum scriberet , nondum , ut arbitror , id auctoritatis consecutus erat , ut hujusmodi obtrectatoris importunitatem fortasse Thaddæus natura suspiciofus, & ad inanes metus comparatus; quod,ni fallor , oftendunt etiam tot capta de securitate itinerum , & ftipendiorum fuo r u m caurelæ , & iterata fæpius testamenta , de quibus diximus . Id porro ex ejus corporis habitu , & temperamento quid fuisse, pro certo habeo . Ipfe enim de se fatetur, fe somnambulum fuil. fe , (e) & interdum ex alio loco dormientem fine fenfu cecidiile. (f) ipfe (a) Vide tabulassocietatisinterMag.Gen Thaddeus doctor Fixice fecitsuum procurato tilemdeCingulo,LouMagGuilielmumdeDeza reminomnibusfuiscaufis&negotiisdn. ra fcriptas anno MCCXCV. in Append. deo matrimonio unite trescentas libras Pifa. (d) Finitus eft tractatus de febribus do norum in forenis de duodecim .Pretereado m i n o Clarello , qui facit nos evigilare , & tran firepermentemnoftramquidquidmalipo. brasejusdemmonete.ErMen.Con.Bonon. test. Tbad. ir Isag. Joannic. c. 32. Fortale ad ( i ) O t a v a n t e m , q u i p u t e a c a n o n u m p r o f e f. eundem pertinent, quæ babetad finem cap.36. Hoc eft, inquit, quod dicit tallidicus, qui fa. tereaque Adelæ fratrem , intelligimus extabulis cit omnia mala trautire per mentem noftram . an.MCCLXXXIII.scriptis inMem.Com.Bon., (e)Dequartoficprocedo:videtur,quod inquibuslegitur:Dn.OctavantedñiGuidalo homo poflitdormiendo fentire, nam dorinien do movetur , ficut patet in furgentibus de no . čte,quorumegofuiunus.Ibid.in.c.10.p.362. Guidalottipater jam indeabannoMCCLXVI. (f) Ibid.Sed locus fortasse mendojus in pe Bunoniæ degebat, ex Mem . Com .Bonon.,inqui a se avertere poffet. Sed erat accidere debebat , in quo insolens ali navit eidem propter nuzias quinquaginta li. for fuit , Guirlalutti Florentini filium fuiffe,propo cti de Florentia scolaris Bonon... emit dige. ftum ... pretio lib.L. bon. Regalettusautem tem XII . Anno M C C L X X I V . Thaddæus fere sexagenarius uxorem duxit Ade lam Guidalotti Regaletti filiam ,(h) Octavantis, quem ante nominavimus,fo rorem , (i) ex eaque filiam suscepit Minam , quæ adhuc innupta erat, cum (b) Magiftrorum collegium jure tunc dice O &avantem deFlorentiasuumcognatum.Ex Mem , Com. Bonon. batur,nonautemMelicorum;quianonsolumMe (h) An.MCCLXXIV.XV.Jan.Mag. dicinæ ,fed alia,um quoque artium liberalium pro fesjures complectebatur , ut ex ipfis hujus controver Thaddeus artis Fixice professor fil. and. Alde rotti de Florentia fuit confeffus habuiife a dño fæ actisapparet,quæinAppendiceexbibentur. Guidalottoqnd.dňiRegalettideFlorentiado.   XIII, Teftamentum fæpius , nec uno in loco Thaddaus fecit. Et quoniam perpetuo domicilium Bononiæ habuit , cum aliò diverteret ad curandos magna tes , itinerum pericula reputans , propterea teftamentum sæpius fecisse videtur. Sed omnium poftremum Bononiæ condidit initio anni M C C X C I I ., quo cete ra omnia revocavit facta Bononiæ , (b) Florentiæ , Ferrariæ , R o m æ , Mediola ni , Venetiis , & alibi . Pro anima fua , & ad pias causas x. mille libras bonon. legavit : quæ immanis summa erat pro ætate illa , & privati hominis facultati bus. Ex his bis mille quingentas libras impendi voluit emendis prædiis pro pauperibus verecundis , quorum administrationem esse voluit penes Fratres de Pocnitentia . Viger ad hanc diem ut cum maxime pium hoc inftitutum,a pru dentissimis civibus adminiftratum in civitate noftra , quo consulitur egettati h o neftorum civium , quibus oitiatim mendicare victum vel natalium , vel ætatis , sexusve conditio fine pudore non finit. (c) Fratribus Minoribus , penes quos sepeliri voluit , ubicumque ejus obitus contigisset, multa legavit. Atque illud viri prudentiam m a x i m e demonftrat, quod præftari voluit in perpetuum ali menta uni ex Fratribus ejus Ordinis qui Parisiis Theologiæ studeret , fupra numerum eorum , qui ibidem facris ftudiis destinati esse solerent. Jisdem Fra. tribus Minoribus Conventum erigi voluit , in quo tresdecim Fratres ali possent. Viginti ex fuis scholaribus magis egentes ex albo panno vestiri in die obitus sui mandavit , itemque familiares suos omnes masculos, qui secum eo tempore futuri essent. Statuit etiam impensam funeris fibi apud Fratres Minores cele brandi ,& certam insuper summam , pro die feptimo obitus sui, trigesimo , cen tefimo , & anniversario , erogandam in Fratrum refectionem , ut iis diebus pro anima fua preces ad D e u m funderent ; qui mos ab antiquissimis temporibus ad eam ætatem pervenerat . (a)ExliterisNicolaiIV.inCodicediplom. quisibisuppetiasferrent,ubieffetopus,tumin docendo , tum in medendo . (b) Etiam Bononiæ anno M C C L X X . for (e) Hanc Biscionius in adnotat. ad Convi. talle , antequan iter aliquod susciperet, teflamen vium Dantis Adolam vocat. , sed in testamento tum fecerat, quod indicatum vidinius in Memor . Autograpbo en Adela . mff. Biblioth. publ. Bonon. C o m . Bonon . ejus anni . ( f) Quia Fratribus Minoribus quidquam pof (c) Jam inde ab anno M C C L V I . Uher- fidere non licebat, voluit ut medietas predicte tus facerdos Sanctæ Catharinæ de Saragotia contingentis ipfi Opizo perveniat ad Dominas legaverat X. corbes frumenti pauperibus vere cundis , ut ex ejus tejlamerto apud Fraires Mi- cujus dicte Domine nores : ex quo apparet ejus pii inflituti anti pendere pro necessitatibus Fratrum Minorum quitas . infirmorum fenum & forenfium . Vide teftam. (d) Hos duos Medicos in schola fua , uti Thaddæi in Append. credibile efl, eruditos , in sua familia babebat , & Sorores S. Clare civitatis Florentie fructus & Sorores teneantur ex  PROFESSORES . 471 1 mo N ipse extremum obiit diem . Sed ante illud tempus filium genuerat ex illegiti mo complexu.Hic patrisnomen geflit,& vulgo Thaddæolusdicebatur,cum que Nicolaus IV.anno MCCXC.jure legitimorum nataliumdonavit.(a) XIV.De bibliotheca sua in hunc modum ftatuit.Avicenna opera,quatuor voluminibus contenta , & Galeni item , quæ totidem voluminibus comprehensa erant ,Fratribus Minoribus ea conditione legavit,ne ullo umquam tempore alie nari , diftrahive possent, aut e Conventu ipfo exportari . Fratribus B. Marize Servis legavit Metaphysicam Avicenna , Ethicam Aristotelis, & Sextum de N a turalibus Avicenna in majori volumine . Magiftro Nicolao Faventino Glossas fuas omnes , quas scripserat in veterum Medicorum libros , & Almanforem suum , & Magiftro Johanni Affifinati (d) Serapionem suum ,& Sextum de N a turalibus Avicennæ in minori volumine , fi quidem uterque in familia sua esset tempore obitus sui. Adelæ (e) uxori fuæ,præter aliquam pecuniæ summam , cu biculi sui supellectilem omnem legavit,& veftes,& gemmas,exceptis dumta. xat valis aureis, & argenteis , & usumfructum domus Florentiæ in via S. Cru cis,& fundosinagroFlorentino.HæredesauteminftituitMinamfiliamsuam Thaddæolum filium naturalem , & Opizum Bonaguidæ fratris sui filium ; quibus , fi abfque filiis masculis legitimis decessissent, Fratres Minores , (f) & pauperes verecundos fubftituit. Nupfit hæc Thaddæi filia Dorgo Pulcio Florentino sum   X V . Obiit Thaddæus an.M C C X C V . (e) cum annos octoginta vixisset.(f) Fuit autem ejus mors repentina , ut narrat Benvenutus Imolenlis , Dantis inter pres . Tumulatus eft apud Fratres Minores, quos vivus magnopere dilexerat , & apud quos ægrotus etiam aliquando sub extremum vitæfuæ tempus jacue rat.(g)Sedejusfepulchrimagnifice extructi,& elegantis,quod eratprope januam Ecclefiæ , propter recentiora ædificia ibidem excitata , nulla jam vefti. (d) Manni degli antichi Sigilli To. XII. (b) Nicolaus V.annoMCDLIV.mandavit, pag. 117. utHofpitaleS.AntoniiPatavini,quodFratresTer (e)AnnoMCCXCV.dieXX.Marzii Thad tii Ordinis , five de Penitentia,ex bonis bæredita dæus erat in vivis , ut ex charta societatis in riis Mag.Tbudlæi Bononiæ erexerant,indomum ter Mag.Gentilem Cingulanum , g Mag. Gui. pro Sanétimonialibus Franciscanis , ex Monasterio lielmum Dexarensem , quam in Append. danus . FerrarienfiCorporisCbriflitra.lucendis,convertere. Af eodem annoaddiemXVII.Juliiinvivisef tur.Sed r jijtentibusFratribus,res ita compofita eft de defiderat, ut ex bis tabulis , quas indicavit infequentiannoperBifurionemBononiæLegatum, CI.Montius:An.MCCXCV,dieXVII.Jul. ut iratres Ecclefiam S. Antonii , cu aljacentes D. Ugolinus de Montezanico Dn . Novellonus ætes cum molicocenfuad bufpitalitatemexercen Megloris de Florentia Dn. Amadeus Poete damretinerent;fedbonareliqua,quæadeosex Dn.FraterRaynucciusqund.Deotaiuti com bereditate Mag.7budlæipervenerant, novo Par milfarii & executores testamenti egregii vi tbenoni pro SanctimonialibusCorporisChristi con ri& discreti Mag. Thaddei and.Alderotti Aruendo attribuerentur : quod anno M C D L V I .pero qui fuit de Florentia artis Filice profetforis featumest,CatharinaVigria,quamnuncinSan. fueruntconfeffihabuiffeadñoBartholomeo clarum Virginum album relatam veneramur , cum  472 MEDICINE mo genere nato.(a)Thaddæolus autem fivequod cælibem vitam duxerit,five quod filios non genuerit , aut pofteritatis memoria apud nos diu fuperftites non habuerit, certe nulla ejus superfuit. Sed opulenta M a g . Thaddæi hæreditas non ita humanis cafibus subjecta fuit , ut nobiles ejus reliquis non exiftant . Sanctillimum enim ad hanc diem civitatis noitræ Monasterium Corporis Chrifti, & Collegium Puellarum S. Crucis ex bonis hæreditariis M a g .Thaddæi initium legata insuper alia , q u æ legi poffunt in tefta quali acceperunt. (b ) Mittimus mento ipso, quod in Appendice exhibemus. (c) Unum addimus, quod maxi me memorandum videtur,aureosnempe florenos xv.in annos fingulos legatos Zco Scansalti Pisado , quamdiu futurus effer in Januensium carceribus , ex qui bus ubi eum liberari contigiffet, cc. libras bonon. eidem perfolvi a suis hæredia bus mandavit . Nota est ex eorum tima Pilanorum cum Januensibus rum vires miserandum in modum temporum scriptoribus infelix pugna mari annoMCCLXXXIV.pugnata,qua Pisano XVIII . pax convenit . Tunc bello capri , qui supererant , redditi funt , effæti prope enecti. Diligentissimus Mannius jam , & tam longi carceris incommodis proftratæ funt . Magna corum cædes fuit, abductus præfertim ex nobilioribus. N e atque ingens numerus in captivitatem que ullis conditionibus adduci potuere victores, ut captivos redderent. Ita enim confilium fuit sobolem invifæ primariis civibus detentis , ne procreandis liberis dare operam poffent, fuccide. civitatis impedire , totque fortissimis viris , ac re nervos civitatis , usque in illud tempus potentissimæ . Itaque non ante annos Sigillum Universitatis Carceratorum Januæ detentorum illustrat. (d) Ex eorum numero erat Zeus Scanfalti, amicus , ut opinor , Thaddæi ; qui quam pronus effet ad ferendam miseris opem , cum ex hoc , tum ex fingulis fere teftamenti sui capitibus liquet . (a) Dn.Mina quondam Mag.Thaddei Corporis Cbrisi, W Puellarum S. Crucis, quæ AlderottiuxorDorgiquondamDorgidePula vidit,lowindicavitCi.Montius. cis.Ex tabulisan.MCCCI.inarcbiv.publ.Flo vent. Inilicavit Cl. Biscion. loc. cit. (c ) Vide Append. gia > pauci supererant , Ecclefiam S. Antonii , d adja centes æles , bonaque omnia ad eum locum perti deus confeffus eft quod ipse emit quandam pe. tiam terre... Actum in loco Fratr. Minor, ! Blanchi Cofe for. auri cccc, depofitos ab ipfo aliquot aliis Monialibus ex Ferrariensi Monaste. Mag.Thaddeo & c.Ex Mem.Com.Bonon. rio in nouum buc noftrum commigrantibus . Anno autem MDXCII. Fratres sertii Ordinis,qui ( f) Pbilippus Villan. loc. cit. (g) An.MCCXCIII.die... Mag.Thad nentia,erigendoPuellarumpericlitantium domici in camara Ministri ubi Mag.Thaddeus ja lio libere tradiderunt , quod in via S. M a m æ a cebat infirmus prefentibus M a g . Bertolaccio , mæniffimo civitatis locu, non longe a Monasterio Fratris Venture M a g Nicolao de Faventia CorporisCbrijli,conjtructumest,a S.Crucisti. &c.ExMem.Com.Bonon. tulo infignitum . H æ c ex monumentis Monialium   gia supersunt. (a) Minime igitur audiendus eft Joannes Villanius , qui Thaddæi o b i t u m p r o t r a h i t a d a n n u m M C C C I I I . , ( b ) a u t fi q u i s e f t a l i u s , q u i i n a l i u d tempus referat. Paulo poft ejus mortem dillidium ortum est inter Fratres Ter tii Ordinis , five de Pænitentia , & Priorem fratrum Prædicatorum , ac G u a r dianum Fratrum Minorum in eligendis pauperibus ad præfcriptum teftamenti ip fius M a g . Thaddæi . Sed litem o m n e m fuftulit Dinus Mugellanus , clarus legum interpres , qui per illud tempus Bononiæ docebat , cui utraque pars arbitrium dederat . (c) X V . Possem hic plura Scriptorum teftimonia de Thaddæo admodum ho norifica afferre ; possem & Scriptores multos emendare , multos supplere,qui de illo vel minus diligenter , vel minus vere scripserunt; in quo numero sunt præsertim scriptores noftri Alidofius , & Ghirardaccius . Sed hæc curabunt , qui magis otio abundant. Nunc ejus scripta recensenda funt, quæ & multa fue. runt, & magno in pretio habita . TH4DD=1SCRIPTA. Expositio in arduum Ipocratis volumen. Galenus Aphorismos Hippocratis illuftri commentario exornavit . Thaddæus & Hippocratis Aphorismos, & Galeni commentarium diligenter exposuit.Cum autem in septem libros, fivepar ticulas Hippocratis volumen Aphorismorum diftributum fit, Thaddæus fcrip. to tradidit expofitionem suam in sex priora capita , eamque absolvit anno MCCLXXXIII.decimadieSeptemb.,utadejuscalcemadnotatum efttam in editis exemplaribus , q u a m in m a n u exarato , quod vidi in bibliotheca , Collegii Hispanorum Bononiæ . Eft autem hoc Thaddæi opus valde proli xum , cuiscribendo non uno tempore insudavit. Sic enim ad ejus finem ait : I n his particulis explanandis diversa fuerunt tempora . N a m cum efjorn in nono anno mei regiminis ( qui publice docebant regere tur) incepi gloffare Aphorismos a principio. Et infpatiofex menfium glossa. v i primam , fecundam , tertiam , a quartam particulas, a quintam usque ad illum Aphorismum : Mulieri menstrua fine colore. Tunc autem fupersedi, convertens me ad glosas , quas fuper Tegni feceram , completiores edendas ; quas perfeci usque ad illud capitulum caufarum : A d inventionem vero salu brium . Ibidem vero deftiti impeditus a guerra civitatis Bononiæ , au lucrati va operatione distractus. Poft vero placuit mihi refumere , ut complerem glof fas Aphorismorum , addendo ad eas , quas primo feceram . Et feci additiones Super primam , Be fecundam , no quartam particulam . In tertia vero particu la solum glossas veteres divis : Item in quinta particula super veteribies glosis quas feceram primo nullam additionem feci . Incepi autem de nova glosam in illo Aphorismo : Mulieri menftrua fine colore , ut dictum est. Quod hic habetde Bononiensium bello,pertinerevideturad Lambertacciorum, & Jeremienfium turbas , quibus anno M C C L X X I V . civitas noftra pæne d e solata eft. C u m autem nono anno poftquam docere cæperat , ad inter pretandum Hippocratis Aphorismos le contulerit, in eoque opere tempus aliquod impendere debuerit , & rursum eo dimiffo , librum Tegni interpre tandum susceperit , & in eo verfatus fit, quoad Bononiæ in otio quietus esse potuit ; subductis rationibus apparet , non multo poft annum M C C L X . debuisse illum publice docendi in scholis noftris munus suscipere , imo ditavit hortulanum fuum . Vixit autem renze , noftro cittadino , il quale fu s o m m o Fisiciano sopra tutti quelli de' Cristiani . Je. scholas diceban  4 . ооо annis PROFESSORES . 473 (a) Fuit Thaddæus medicus famosus , apud Murat. Antiq. med. ævi To. I. col. 1262. conterraneus auctoris , ( Dantis ) qui le ( b) In questo tempo morì in Bologna git& scripsitBononiæ& vocatuseitplus. M.TaddeodettodaBologna,ma eradiFi. quam commentator.Et factus est ditiflimus, & mortuus est morte repen Villan, ad an. MCCCIII. tina , & fepultus eft Bononiæ ante portam (c) Extar Dini confilium ,five fententia in Minorum in pulchra & marmorea sepultu- arcbivo Fratr. Prædicat. Bonon. ra . Benvenut. Imol. comment, in Purgat. Dantis Ad   Ad septimam particulam Aphorismorum quod attinet , Thaddæus perpetua in eam commentaria non reliquit , sed monuit auditores suos , fi quis voluif fet ex ore docentis excerpere , quæ in nenda in schola protulisset , fe deinde emendaturum , & utin ordinem re digerentur curaturum . Sic enim inquit: immediate Icribere intendo. Sed fi quis de meis auditoribus notare voluerit eas corrigam , o in petias redigi faciam . Hæc autem verba fcripfi, ut si alicubi minus completa expositio reperiatur, non adfcribatur ignorantiæ , fed potius novitati , a pigritiæ scriptoris. Sed Thaddæi commentaria in septi m a m partem Aphorismorum nufpiam apparent , & ejus loco circumferri solebat expofitio Alberti Zancarii , de q u o alio loco dicemus . Expositio in divinum Hipocratis Pronosticorum volumen , A d cujus finem ita ada notatum eft in editis exemplaribus . Explicit liber tertius yra ultimus Pro. nofticorum Hipocratis fecundum antiquam translationem a Thaddæo Florentina explanatus. Sed revera Thaddäus ipfe non unam translationem præ mani bus habuit , fed faltem duas . (a) A d extrema vero capita , seu textus libri tertii nihil adnotavit Thaddæus , aut certe nihil adnotatum reperio in edis tis exemplaribus ; manu enim scripta explorare non licuit. Thaddæi Florentini in præclarum regiminis acutorum morborum Hipocratis volu men expositio. Hanc Thaddæus in proæmio fatetur se maxime procudisse ut rem gratam faceret Bartholomæo Veronenfi , q u e m fibi dilectiffimum vocat , & pollentis ingenii ; aitque,non minimo fibi adjumento fuisse ad id operis perficiendum . N o n attigit T h a d d æ u s , nisi tres priores libros hujus operis, ratus fortasse, quartum non effe legitimum Hippocratis færum ,quod aliis visum erat , ut fatetur Galenus ipfe initio commentariorum in hunc quartum librum de regimine acutorum . Suam porro diligentiam oftendit Thaddæus in his commentariis exarandis, appellans ad verfionem Græcam , ubi in ea , quæ ex Arabica facta erat , vitium suspicabatur. (b) Atque hinc apparet , duplicem ejus libri interpretationem per illud tempus in doctorum manibus verfatam fuisse, quarum altera ex Græca, altera ex Ara. bica lingua ducta erat . In fubtiliffimum figogarum Johannicii libellum expositio. E a m fic concludit Thad dæus : Scio tamen , quod de his obscure dixi , Jed fellus f u m a deficit charta : misera excusatio , & vix fapienti homine digna . Q u æ hactenus recensuimus Thaddæi opera in unum volumen redacta Venetiis edita sunt per Lucam Antonium Junctam anno MDXXVII.curante Joan ne Baptista Nicolino Sallodienfi , qui in epiftola nuncupatoria ad Aliobel. lum Averoldum Polenfium Antiftitem , & Romani Pontificis Legatum ad Venetos , impense Thaddæum laudat , illumque dicit, nonnisi ad lapsam Extat hic Thaddæi liber in Codice Vaticano , (c) ejufque hæc eft æcono. mia . Initio agit de corpore sano, ejusque , ut ita dicam , essentia, & va. riis sanitatis gradibus ; tum pergit in hunc m o d u m : Nota quod dicit Johan nicius , quod fi unaquæque res naturalis propriam naturam jervaverit, facit fanitatem , fi vero ipfam dimiferit, facit ægritudinem , vel neutralitatem , fta tum fcilicet, quo necfanum eft, necægrum .Sequiturinhuncmodum usque ad finem libri : Nota quod dicit Galenus ; nota quod dicit Hipocras, Avicenna.Nota quod venæ non dicuntur oriri ab epate quod oriantur ex ea dem materia v c. Nota differentiam arteriarum ad venarum , originem nervorum W c. Nota quod partes totius capitis funt quatuor B c . Inter has notationes , in quibus totus hic liber decurrit, aliquas quæftiones interferit, (a) Ad text. X. lib. I. ita inquit : Alia quod patet per translationem Græcam . Liba translatio non ponit hic nifi duos colores & c. III. text. X. ea Aphorismorum particula expo Super feptima vero particula nihil  474 MEDICINE principum fanitatem recuperandam vocari consuevisse . Auctoritates are definitiones fuper libro Tegni , quamplures utiles dubitationes . uti (b) Unde dicendum quod litera Arabica , (c) Cod. Vatic. 1. 4445. ex qua fumitur illa auctoritas, elt corrupta , 1   uti est illa: Quæritur hic an dari poffit membrum , quod nec recipitur, nec tribuit . Nunquam editus eft hic Thaddæi liber , quem ne ipse quidem au ctor satis elimatum cenfuit. Itaque rurlus Artem parvam Galeni , sive li brum Tegni interpretandum suscepit. Habemus hoc Thaddæi opus typis editum Neapoli cum hoc titulo: Commentaria in artem parvam Galeni. NeapoliannoMDXXII.Horum initiofatetur,fepræmaturamaliamexpo fitionem Artis parvæ edidisse,hisverbis: Atveroquoniamfuper eundem librum expofitionem facere necessitas compulit præmaturam , in qua non ut expedit Galeni instituta patefeci". Ideo e c. Magiftri Thaddæi conflia. In Codice Vaticano (a) consilia Medica Thaddæi sunt centum quinquaginta sex.Minore numero,imo perpauca,lirecte memi ni , funt in codice bibliothecæ Cæsenaris Fratrum Minorum . Primum in utroque codice est de debilitate visus. Ultimum in codice Vaticano eft de virtute Aquæ vitis. Docet in eo modum præparandi alembicum cu. preum . Incipit : A d faciendam Aquam vitem , quæ alio nomine dicitur aqua ardens. Eft unum ex his consiliis de minctu urinæ cum fanguine. Incipit: Conqueftus est dn. Bartoločtus comes . Eft is Bartholottus comes Ripæ Insulæ Suzariæ & Bardinæ , de quo plura diximus , ubi de Rolandino Passagerio a r tis Notariæ doctore agebamus . Eft aliud Thaddæi confilium ad midtum f a n guinis pro Duce Venetiarum . Aliud item de impedimento loquelæ propter mollitiem linguæ . Incipit : C u r a comitis Bertholdi . In librum Galeni de crisi. Eft in codice Vaticano . (b) Magiftri Thaddæi de Florentia quæftio de augmento . Eft in codice Vatica Thaddæum artis Medicinæ in civitate Bononiæ doctorem . Eft in codice bi. bliothecæ Eftenfis, tefte Muratorio . (d) Idem Italice extat , scriptus in m o d u m epistolæ cuidam ex Neriis Florentinis . Incipit : Imperciocchè la con dizione del corpo umano . ( e) Extat etiam latine typis editus Bononiæ anno MCDLXXVII.cum libelló Mag.Benedicti de Nurlia ejusdem argumenti. N u m autem Italice scriptus fit libellus ifte ab auctore suo , an latine, mihi non conftat. Italica tamen lingua , quæ tum nitefcere , & a Scriptoribus nobilitari cceperat, delectatum constat Thaddæum , qui Ariftotelis Ethicam in eam linguam vertit; quamquam hunc ejus laborem haud magnopere laudandum exiftimarit Dantes in Convivio , ubi ait , velle se suum illum librum Italica , five, ut ipfe inquit, vulgari lingua donare , ne ab alio quopiam interprete vitietur, ut Ethicæ Ariftotelis contigit, quam Thad dæus Italicam fecit.(f) Eum purgare nititur Biscionius,vitio vertens non tam Thaddæo , qui Italicam ex Latina non bonam , quam veteri interpre ti,qui nihilo meliorem ex Græca Latinam fecerat Ariftotelis Ethicam .(8) Sed vix quisquam probabit hanc Biscionii defensionem . Id unum enim r e prehendit inThaddæo Dantes Aligherius, quod Italicam interpretationem ejus libri non bonam dederit . Nihil autem impedit , quominus librum aliquem , licet mendofiffimum , & maxime corruptum , optime , quod ad nitorem verborum attinet , interpretari , & in aliam linguam elegantissime quispiam convertere possit . Habuerat Thaddæus Aristotelis Ethicam ex Thesauro Brunetti Latini , ut observat Laurentius Mehus , qui de his abun de disserit in prolegomenis ad epiftolas Ambrofii Camaldulenfis, nuper Flo rentiæ editas . ( h )  no . (c) Libellus fanitatis conservandæ factus pay adinventus per probiffimum v i r u m M a g. (f)E temendo,cheilvolgarenonfosse dato posto per alcuno , che l'avelse laido fat. (g ) Ibidem : (h) Tv.I.pag. 156. 157. Epift.Ambrof.Cam . to parere, come fece quegli, che tramutò il Ooo 2 (a) Cod. Vatic. 2418. PROFESSORES 475 Expe latino dell'Etica , ciò fu Taddeo Ipocratita (c) Ibid. 4454. provvidi di ponere lui, fidandomi di me più (d) Murat.To.IX.Rer.Ital.Script.p.583. che d'un'altro.Convito di Dante.In Firenze (e) Vid.Biscion.Annot.alConvitodi Dan (b) Ibid. 4451. te.loc.cit. 1723. p.68. 1   Experimenta Mag. Thaddæi probata ab ipfo. Hunc titulum habet collectio ex. perimentorum Medicinalium Thaddæi in codice Vaticano . (a) Incipit: Omnes herbee a radices quæ debent prius coqui , abluantur mundentur Poit brevem præfationem , fire inftructionem , defcribere incipit p r i m u m Syrupos varii generis . Receptio Syrupi majoris fecundum M . T. Syrupus Jor. danus M . T. ad correctiones epatis aut fplenis @ c . Deinde describit electua ria, inter quæ hæc confectio locum habet : Confectio qua utuntur magna tes in curia Romana , vagy maxime convenit in æftate fanguinem mundificans , colera fuaviter educitur . R. pulpæ Caffic fi. 16. 2. Tamarindorum 3. pe. nidii.zuc.violati añş.x.Syrupi violati, Ġ .Mirrhæ s3 conficianturfive dissolvantur cum tali fucco . X. Prunorum.ios feminum ordei mundi. lic quir. añ i 2 cum ifta aqua decoquatur usque ad spissitudinem mellis. Dein pergit ad vina medicata . In his ett Aqua vitis ad calculum M . B. ideft, M a . giftri Bartholomæi de Varignana , ut opinor , medici celeberrimi, cujus infra mentionem faciemus. Tum de oleis agitur , ibidemque describitur Tragea M. T. & Tragea M . B., ideft , Magiftri Thaddæi , & Magiftri Bar. tholomæi . Pulveres fubinde varii , & pilulæ , & unguenta describuntur, tum remedia quædam ad peculiares morbos . N e c desunt fuperftitiofa quædam , & vanissima. Tale eft illud : Ut homo poffit ire super ignem fine læfio. ne . Dicas ifta verba . ter in nomine individuæ Trinitatis.Abyfon. Dalma. tiu, vel Magata , v e a s nudus. Emplaftra quædam poft hæc describuntur : fed in hujus libri extremis partibus vix ordo ullus apparet , ut conjicere liceat, aliena manu aliquid genuinis Thaddæi experimentis additum ; quo ex genere esse arbitror superftitiola illa , quæ dixi . De Interioribus libri VI.a mag.Thaddæo correcti. Ita in codice Vaticano.(b ) Thaddæus de Bononia de aquis , oleis , a vinis medicatis. Extat inter codices mo locorecensuitejusCommentariainIpocratem,moxCommentariain Avicennam ; n a m neque in alia Hippocratis opera fcripfit Thaddæus , quam quæ indicavimus, quæque vel iple Biscionius feorfim poftea enumerat; nec ulla in Avicennam Commentaria scripsisse comperio.Addit tamen idem Biscionius descriptionem pulveris mirabilis Mag.Thaddæi, quam re perit ad calcem libri M a g . Aldobrandini . E g o alterius pulveris descriptio n e m in hunc m o d u m reperi ad calcem Almansoris , ideft, libri Rasis in codice Vaticano.(d) Recepta quam mag.Taddeusreliquitpauperibus in te ftamento : R. Cinamomi eleli s Macis. Croci aš 3 ij. Sene s fiat pul vis poftea R u s Tartari albi fubtilissime pulverizati, a misce fimul. Dosis ejus eft ; 3 ij cum brodio poteftconfici cum zuccaro ut melius conserve tur . E u m d e m pulverem defcriptum vidi in codice bibliothecæ Cælepatis Fratrum Minorum inter confilia Medica Mag. Thaddæi ad libri marginem in hunc modum : Pulvis folutivusTaddei. R. Cinamomi :5. Macis .Cra ci añ 7. 3. 1. Sene ad pondus predictorum . Fiat pulvis, cui potes addere de zuccaro albo vel rubeo B eft delectabilior. DON  476 MEDICINE Thomæ Bodleii. (c) Auxit immaniter Biscionius paucis verbis catalogum operum Thaddæi, dum pri (c) To. I. mill. Angliæ . Cod. 2359. (d) Cod. Vatic.4425. Aderotti. Alderotti. Keywords: le quattro cause. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alderotti” – The Swimming-Pool Library.

 

Alfieri (Parma). Filosofo. Grice: “I like Alfieri; the enzo is vital – Vittorio alfieri has statues at Torino! V. Enzo Alfieri dedicated his life to prove that Democritus was more of a poet than a philosopher. ‘Indeed, I will go as far as to argue that he ain’t no philosopher!’ Unfortunately, Abbagnano ignored him, and Lucrezio stayed in the canon! Then Alfieri tried to study the idea of the ‘in-divisibile,’ the ‘atom’ and the ‘clinamen,’ and how Lucrezio was a good poet but a bad philosopher!” --  Filosofo. - allievo diCroce. Nato a Parma, visse la maggior parte della sua vita a Milano ove si laureò in filosofia e insegnò storia della filosofia alla Bocconi, per poi continuarne l'insegnamento presso l'Pavia.  Allievo di Piero Martinetti e di Benedetto Croce, di cui condivideva l'ideologia liberale e il pensiero filosofico, ma anche gentiliano non ortodosso secondo la definizione di Ugo Spirito, fu un oppositore del regime fascist che lo arrestò una prima volta nell'aprile del 1928 quando a Milano scoppiò una bomba all'ingresso della Fiera che fece sospettare che si trattasse di un fallito attentato al Re. Alfieri fu incarcerato a San Vittore assieme a Ugo La Malfa, Umberto Segre e Mario Vinciguerra. Fu liberato senza processo tre mesi dopo per l'interessamento di Benedetto Croce che tramite Marinetti aveva fatto intervenire Mussolini.  Il secondo arresto, per la scoperta di lettere ritenute compromettenti dalla censura fascista, avvenne nel 1936. Alfieri fu scarcerato dopo quindici giorni per l'intervento diretto di Gentile ma dovette lasciare entro due giorni l'insegnamento a Modena e trasferirsi a Milano dove riuscì a sopravvivere grazie all'aiuto di amici e di parenti che lo ospitarono.  A Milano ottenne il primo incarico universitario presso la facoltà di Lingue della Bocconi dove rimase per 13 anni fino al suo trasferimento a Pavia per la docenza di storia della filosofia.  Suoi amici, «maestri e testimoni di libertà», come lui stesso li definì, oltre a Croce, furono Giuseppe Prezzolini, Giuseppe Lombardo Radice, Francesco Flora, Pilo Albertelli, il giovane professore ucciso alle Fosse Ardeatine e, tra i più vicini e affezionati, Giovanni Spadolini.  Fortemente critico nei confronti del movimento sessantottino e impegnato attivamente per le riforme della scuola, Alfieri è stato il fondatore del "Movimento per la libertà e la riforma dell'università italiana" e del "Comitato nazionale per la difesa della scuola", e presidente dell'"Associazione amici dell'Gerusalemme".  Negli anni 1937-1938 collaborò alla rivista L'Italia che scrive che ancora in quel periodo riusciva a mantenere una certa autonomia nei confronti del fascismo. Monarchico, iscritto al Partito Liberale Italiano; nel dopoguerra si avvicinò agli ambienti della destra, aderendo al Sindacato Libero Scrittori Italiani e collaborando con la casa editrice di Giovanni Volpe e con la rivista Intervento di Fausto Gianfranceschi. Negli anni '70 fu collaboratore culturale per la filosofia de Il Giornale diretto da Indro Montanelli.  Tra le sue opere di filosofia vanno annoverati saggi sulla filosofia greca-romana antica, “La tristezza di Pindaro”; “Lucrezio”; “Gli atomisti” e opere di estetica, L'estetica dall'Illuminismo al Romanticismo. Ad Alfieri, oltre ad un suo epistolario con Croce, si devono due libri di memorie autobiografiche (“Maestri e testimoni di libertà” e “Nel nobile castello”) dove sono originalmente ritratti personaggi della vita culturale e politica italiana da Croce a Scotti, da Jacini a Casati, a Flora. Antonio Troiano, I 90 anni dell'ultimo allievo di Benedetto Croce, in Corriere della Sera, 10 maggio 199648.  Massimo Ferrari, Piero Martinetti e Antonio Banfi, in Il Contributo italiano alla storia del PensieroFilosofiaTreccani, .  Alessandra Tarquini, Gli sviluppi della scuola di Gentile: da Armando Carlini a Ugo Spirito, in Croce e GentileTreccani, .  Andrea Mariuzzo, La Scuola Normale di Pisa negli anni Trenta, in Croce e Gentile Treccani, .  Marcello Veneziani, 68 pensieri sul '68: un trentennio di sessantottite visto da destra, Firenze, Loggia de' Lanzi, 199846.  Michele d'Elia, Monarchici e partito, su Italia Reale.  Benedetto Croce, Vittorio Enzo Alfieri, Lettere,  Milazzo, Edizioni Spes, Aldo Garosci, Nel nobile castello, in Tempo presente, Forum in occasione del novantesimo compleanno di Vittorio Enzo Alfieri, in Rendiconti, parte generale e atti ufficiali,  130, 1996,  110-140. Maria Luisa Cicalese, Vittorio Enzo Alfieri maestro di studi e di vita, in Nuova Antologia, Vittorio Enzo Alfieri: maestro e testimone di libertà: atti del Convegno, Cremona, 22 novembre 1997, Cremona, Circolo Culturale Benedetto Croce, 1998. Margherita ardi Parente, Vittorio Enzo Alfieri e il nobile castello, in Belfagor.   Già Vittorio Enzo Alfieri, nell’introduzione al breve primo scritto bembiano incluso in una strenna dell’editore Sellerio, aveva colto una possibile connessione ai dialoghi platonici più ‘letterari’, dove a proposito del piacere ecfrastico del giovane scrittore per il podere di S. Maria del Non scriveva: «Bembo si compiace a descrivere il luogo a lui caro, il fresco riparo dalla calura estiva, il fiumicello, i pioppi piantati dal padre, il quale si stupisce che nella piana verso le pendici dell’Etna vi siano platani, che gli fanno forse risovvenire i platani d’Ilisso»321.L’intuizione diviene più 320 «Del resto l’opera stessa prima del Bembo, il De Aetna, aveva richiamato a quei molteplici interessi – spesso da e su testi greci – che avevano ispirato le Castigationes Plinianae. E la stessa felice ambientazione del dialogo già di per sé dilata i confini dell’oggetto esegetico e rilancia tutte le più vitali istanze di plenitudo culturale, di renovatio che il Barbaro stesso (e il Poliziano per suo conto) aveva indicato tra gli scopi della propria lezione (Mazzacurati). Sono una plenitudo e una renovatio che si muovono anche da quell’indirizzo filosofico e umanistico insieme che era stato così caratteristicamente veneziano, dal Barbaro a Giorgio Valla: nella ripresa di un tutto autentico Aristotele che Aldo aveva consacrato con la sua monumentale edizione delle opere aristoteliche (1495-1498) ispirata alla lezione di Ermolao e dedicata a Alberto Pio. Proprio sulla base della retorica e della poetica aristoteliche, ripresentate come esemplari dopo secoli e secoli sulla laguna, poteva svilupparsi anche la filologia più nuova del Bembo, tutta fondata sul concetto di creazione artistica, non come furor o inventio platoniche, ma come imitatio naturae e su una considerazione critica nuova della lingua», Branca, La sapienza civile, cit. 130-131. 321 Bembo Pietro. De Aetna: il testo di Pietro Bembo tradotto e presentato da Vittorio Enzo Alfieri, note di M. Carapezza e L. Sciascia (Palermo: Sellerio, 1981) 35. 132   concreta se posta a confronto con un altro testimone contemporaneo di Bembo, Gregorio Giglio Giraldi322. Questi infatti nella sua lettera introduttiva a Renata di Francia alla Historia Poetarum tam Graecorum quam Latinorum (1545), su uno sfondo tutto boccacciano -- l’occasione della peste e la conseguente riunione di una piccola brigada (il puer Pico della Mirandola e B. Piso) --, così si esprimeva nel presentare la cornice diegetica del trattato: L'Alfieri, critico verso la cecità dell'eruditismo dei vecchi filologi che si affannavano a congetturare e spostare, sminuzzare e riattaccare i luoghi del poema lucreziano ( op. cit., p. 17 ), sintetizza ancora : “Il canto del sonno e dei sogni (vv. 816-1036) si riattacca a quei canti precedenti, ai canti delle illusioni, e apre la via ai versi contro la più terribile delle illusioni: contro l'amore. Ecco come viene il sonno: una parte dell'anima è dispersa fuori, una parte si è raccolta nel profondo della sua sede, e le membra si sciolgono, e manca il senso, perché i l s e n s o è o p e r a d e l l'a n i m a; ma il senso non manca interamente, perché, se no, non si potrebbe riaccendere mai più e sarebbe la morte. La causa del sonno è la continua perdita di atomi da parte del corpo, perdita che avviene specialmente per le incessanti percosse degli atomi aerei; e questi versi sono bellissimi, nella narrazione dell'inavvertito conflitto, eppoi ( vv. 950-953 ) nella rappresentazione della sonnolenza, con versi rotti e con un verso finale di grande dolcezza: ' poplitesque cubanti / saepe tamen summittuntur virisque resolvunt, ' ' e quel che dorme si sente scioglier le ginocchia e venir meno tutte le forze'. E il sonno segue al cibo e alla stanchezza, perché allora è avvenuto un tanto più grave turbamento di atomi in noi. Qui passiamo alle illusioni. Ognuno si sogna quello che è la sua occupazione del giorno: gli avvocati sognano di trattar cause, il generale di guidare eserciti alla guerra, il marinaio di lottare coi venti, Lucrezio d'essere sveglio a scrivere il 'De rerum natura' ( vv. 962-970). Ed ecco quelli che si sognano i pubblici spettacoli, dopo essersene storditi per tanti giorni; i cavalli, che sognano le corse; i cani, che sognano la caccia e fiutano in aria ve si agitano; gli uccelli si sognano di sfuggire ai falchi. Così gli uomini: sanguinosi e paurosi sogni di re, sogni terrificanti di uomini che si credono alle prese con pantere e leoni, e gente che parla dormendo e svela tutti i propri segreti, e gente che immagina di morire o di precipitare da alti monti, e gente che ha sete e si sogna di essere presso un fiume e di bere infinitamente”. E' come se all'interno di un'argomentazione piana, di un'espressione variata, di un vocabolo già abusato, di un ritmo additivo irrompessero sistematicamente una rivendicazione terminologica, un elemento imprevisto, un segnale indecifrabile, un'interruzione del ritmo, un vestigio ad investigare. Non cessano infatti di stupire, per vistosità e normatività, un'accelerazione espressiva e un turbamento linguistico, i quali tuttavia, anziché disperdersi in una sorta di dadaismo originario o di impazzire nel gioco retorico, concorrono al prima e al poi della dimostrazione, alla proporzione del dettato, alla simmetria e regolarità del verso. Essi stessi riducibili a struttura, più simile ora ad un reticolo cristallino, ora ad una tavola aritmetica, ora ad un ordinamento geometrico. Questa compresenza dell'uno e del molteplice, del medesimo e del diverso, del codificato e del nuovo -- responsabilità morale di annunciare un nuovo mondo. Linguistica, che porta alla preoccupazione dell'iso-morfismo, al voler far combaciare vocabolo e oggetto segnato ↔ segnante ordine linguistico ↔ ordine cosmico. La eversibilità e convertibilità di ordine fisiologico o naturale, e di ordine “filologico” -- verbale. Anzi, la fisiologia irrelata e caotica sembra comporsi e prendere forma in un divenire “caosmico” proprio grazie alla filologia, la quale *ordina* sintammaticamente il molteplice -- il complesso nel semplice, nel semplicissimo (atomon, indivisum), domina il caos, resiste alla morte ed all'amore, e, anziché immaginare o assecondare l'esistente, lo ferma e se ne appropria. A ut noscas referre earum primordia rerum cum quibus et quali positura contineantur et quos inter se dent motus accipiantque, quin etiam refert nostris in versibus ipsis cum quibus et quali sint ordine quaeque locata. Namque eadem caelum mare terras flumina solem SIGNIFICANT, eadem fruges arbusta animantis. Si non omnia sunt, at multo maxima pars est consimilis. Verum positura discrepitant res. Sic ipsis in rebus item iam materiai intervalla vias conexus pondera plagas concursus motus ordo positura figurae cum permutantur, mutari res quoque debent. Atque eadem magni refert primordia saepe cum quibus et quali positura contineantur et quos inter se dent motus accipiantque. Namque eadem caelum mare terras flumina solem constituunt, eadem fruges arbusta animantis, verum aliis alioque modo commixta moventur. quin etiam passim nostris in versibus ipsis multa elementa vides multis communia verbis, cum tamen inter se versus ac verba necessest confiteare et re et sonitu distare sonanti. tantum elementa queunt permutato ordine solo; at rerum quae sunt primordia, plura adhibere possunt unde queant variae res quaeque creari. Analogia tra formazione di "verba" et versus e formazione res, espressa dagli eadem e dal parallelismo tra "significant" e constituunt resa esplicita nella spiegazione della paronomasia ignis/lignum iamne videas eadem paulo inter se mutata creare gnis et lignum?  Quo pacto verba quoque ipsa  inter se paulo mutatis sunt elementis, cum ligna atque ignis DISTINCTA VOCE NOTEMUS. Costituenti minimi semantica (parola, sillaba, articolazione, prima articolazione, seconda articolazione, terza articolazione) ↔ natura (radice -- atomo - molecula). Reversibilità dei co-efficienti dei costituenti minimi, positura, motus, ordo, che già nella metafisica aristotelica -- dell'aristotele perduto -- erano indicati come le sole e tutte differenze che possono presentare tra loro le lettere. Circolarità tra realtà fisica e linguistica con successione intrecciata delle argomentazioni nei due passi elemento -- ELEMENTUM (gr. stoicheion) è costituente originario sia di alfabeto che natura, secondo Democrito e Leucippo, fonte Metafisica, Aristotele. Lo stoicismo, nella sua lotta contro l'epicureismo, sostiene la legge finalistica del Logos come vera unica legge che indirizza la scrittura delle opere e la formazione delle cose. Platone sostene l'esperienza letteraria come micro-cosmo produttori del reale. Concurcus motus ordo positura figurae. Sono documentati come 'produttori' del 'reale' (res, rerum) in Leucippo, Democrito (dalla Metafisica) ed Epicuro e sono gli esatti sinonimi latini dei termini greci (individuum, atomon; elementum, stoicheion, simple, simplice, simplicissimum. Il verso è straordinario, dal punto di vista ritmico, tutto spondaico, e semantico, essendo costituito da soli sostantivi elencati a-sindeticamente, e culminante dal punto di vista fonico su ordo, quasi palindromo, appena bi-sillabo. Un verso icastico, che riprende i termini già esposti ma in ordine sparso e vi associa figurae, termine con una doppia valenza (ma monosemia) materiale e linguistica. Numerose testimonianze nei testi grammaticali latini fanno emergere la perfetta corrispondenza della terminologia atomistica e linguistica, in quanto tutti i term9ni "concurcus", "motus", "ordo" et "positura" sono specificamente grammaticali. motus concursus gramm: fenomeni fonetici: sinalefe (contrazione in un'unica sillaba di due vocali, solitamente dittonghi), sineresi (contrazione in un'unica sillaba della vocale terminante di una parola e di quella iniziale della successiva), iato (incontro di vocali forti successive). Il “distaccamento”, l'”accostamento”, il “mutamento” degli atomi convertono la natura delle cose nello stesso modo in cui l'”omissione”, l'”aggiunta”, il “mutamento” delle lettere convertono l'identità delle parole. Il modello grammaticale sembra in ogni caso essere preminente e fungere da paragonante per scoprire e chiarificare i meccanismi del mondo atomico, “ex apertis in obscura”, per rendere più semplice il passaggio dall'esperienza sensibile della littera scritta all'invisibilità degli infinitesimi atomi, elementa. Gramm: flessione (verbo) music: ritmo retor: figura retorica  ut potius multis communia corpora rebus multa putes esse, ut verbis elementa videmus. L'assimilazione tra verba et res fornisce una giustificazione e funzione della poesia, nonché annulla il divario tra poesia e filosofia, aprendo la strada della ben più successiva divulgazione scientifica. E' convinzione epicurea quella dell'iso-morfismo tra parole e cose, e tale risulta nella costituzione del poema intero, costruito come un cosmo vero e proprio. La valorizzazione di ogni singola parola, la sua attenta scelta si riflette in un innalzamento a materia poetabile delle realtà anche più umili, come “minerali, piante, fiumi, cielo, mare, terra, fiere, uomini”. Si crea così una democrazia linguistica ante litteram, lontana dal buonismo religioso, spesso degradato in ipocrisia, o dagli esperimenti novecenteschi degl'atomismo logico di Russell, che demolendo la sintassi o creando l'enumerazione caotica volevano demolire la società borghese e capitalistica e criticare la massificazione elevando ogni singola parola, pur immersa nella sua massa uniformemente bianca e nera che è il testo. Vittorio Enzo Alfieri. Alfieri. Keywords: Lucrezio, l’implicatura di Lucrezio, la folla di Lucrezio, Croce, filosofia romana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alfieri” – The Swimming-Pool Library.

 

Alfonso (Santa Severina). Filosofo. Grice: “I like Alfonso – no, he ain’t a Spaniard; the surname was pretty popular in Southern Italy after the roaming of the Spaniards! And it’s ultimately barbaric, that is, Goth!” “Typically, for a philosopher, a professional one, I mean, he started with logic for teenagers (il ginnasio ed il liceo), but with a twist – he called his lectures (his ancestor may testify) ‘logica reale,’ or colloquenza reale – and he tried to criticse “il Vera,” who had written “Il problema dell’assoluto.” “Like me, he has an interest in S is P and S is not P (questo uomo no est sensibile). His first utterance is actually, NOT ‘the fat cat sat on the mat, and as he sat on the mat, he saw a rat” – but the rather naïf ‘il sole e luminoso.’ He gives two other examples, which are easy to detect, since he does not use quotes but ITALICS!: “questo corpo est rotondo” and “questa pianta fiorisce.” His idea, like mine, or Peacocke’s,, or Speranza, is that that is pretty much enough to deal with the most serious problems in philosophy: the judicatum, and its component Concetto 1 e Concetto 2 – “Questa pianta fiorisce’” -- Un temperamento di spirito positivo e di evoluzionismo idealistico, che attesta l’origine del suo metodo e la serietà dei suoi studi, ma che dimostra pure quanto egli si sia discostato dall’indirizzo del Vera e dello Spaventa per accostarsi a quella che fu chiamata la sinistra hegeliana»  (Luigi Ferri). Filosofo. Autore di 67 pubblicazioni scientifiche e di numerosi articoli su riviste letterarie e quotidiani, alcuni dei quali sulla Calabria e sui personaggi delle tragedie di William Shakespeare, che gli fecero guadagnare l’attenzione internazionale per l’approccio singolare alle opere del grande drammaturgo inglese.   Nato a Santa Severina il 17 agosto 1853 da una famiglia di proprietari terrieri, molto giovane si dedicò all'approfondimento delle Sacre Scritture, grazie ai due fratelli del padre, don Michele e don Francesco d'Alfonso, entrambi canonici del Capitolo metropolitano della Cattedrale; questi studi, parte dei quali furono pubblicati con il titolo “Le donne dei Vangeli” (Firenze, Successori Le Monnier), manifestano un approccio *positivista* sull'analisi del testo biblico.  Terminati gli studi nel suo paese natale si trasferì a Catanzaro, dove fu allievo del letterato e patriota rocchitano Vincenzo Gallo-Arcuri. Frequenta poi il Liceo Ginnasio "Pasquale Galluppi", conseguendo la licenza ginnasiale. Ottenne in seguito la licenza liceale con lode al Liceo classico del Convitto nazionale "Vittorio Emanuele II" di Napoli, che gli fece valere, su concessione del Ministero della Pubblica Istruzione, la possibilità di iscriversi contemporaneamente alle facoltà di Medicina e di Lettere e Filosofia presso la Regia Napoli. Alla facoltà di Filosofia, dove, allievo di Sanctis, Vera e Spaventa, ottenne vari riconoscimenti.  Conseguì entrambe le lauree in Medicina e Chirurgia e Filosofia, a soli tre mesi di distanza l'una dall'altra. I Lincei gli assegono il Premio Reale per le Scienze filosofiche e morali, consistente in 4.000 lire, per lo studio dal titolo “Kant. I suoi antecessori e i suoi successori”. Su espressa volontà del padre fece ritorno a Santa Severina, dove esercita la professione di medico condotto. Ma la passione per la filosofia e l'insegnamento prevalse e partecipò ai concorsi a cattedra per i licei, iniziando a insegnare Filosofia in Sicilia (Caltanissetta, Messina e Catania). Da questa esperienza di insegnamento cominciarono ad evidenziarsi sempre di più le sue qualità didattiche, tant'è che il ministro della Pubblica Istruzione Paolo Boselli lo convocò a Roma per affidargli la cattedra di Filosofia nei licei della Capitale: prima al Liceo Ginnasio "Umberto I" (dove insegnò dal 1889 al 1909) e poi al Liceo "Ennio Quirino Visconti". Nello stesso periodo cominciò a collaborare con le più importanti riviste letterarie, tra cui il Nuovo Convito, la Rivista d’Italia, la Rivista moderna politica e letteraria, la Rivista italiana di filosofia, la Nuova Antologia, L’Educazione, la Rivista italiana di Sociologia, la Rivista di filosofia e scienze affini e con diversi quotidiani, tra cui L'Osservatore Romano.  Nel 1890 fu chiamato dal ministro della Pubblica Istruzione Paolo Boselli ad insegnare Pedagogia e Filosofia all'Istituto Superiore Femminile di Magistero, dove, in seguito a concorso, divenne Professore dal 1903 al 1923. Ebbe come colleghi Luigi Pirandello, Maria Montessori e Luigi Capuana. Durante i trantaquattro anni di insegnamento al Magistero, fu relatore di oltre trecento tesi. Per il Dizionario illustrato di Pedagogia, curato da Luigi Credaro e Antonio Martinazzoli, redasse la voce Istituti Superiori femminili di Magistero. Dal 1896 fu anche libero docente di Filosofia teoretica alla Regia Roma, dove insegnò ininterrottamente fino al 1933, anno della sua morte.  All'insegnamento affiancò sempre una prolifica attività di scrittore, pubblicando complessivamente sessantatré opere, recensite in Italia e all'estero, che spaziano dai temi dell'educazione e della morale all'economia politica, dagli studi sull'ambiente e sulle foreste all'analisi criminologica dei personaggi shakespeariani. Il suo Sommario delle lezioni di pedagogia generale (Loescher, 1912) fu giudicato dalla Reale Accademia dei Lincei «frutto d'amorosa meditazione e di mente abituata alla ricerca e alla costruzione filosofica, che esce dai confini degli ordinari trattati di pedagogia per elevarsi ad una sintesi mentale superiore».  Tenne la prolusione all'Universal Congress of Races di Londra, che fu poi pubblicata col titolo “Speculative psichology and the unity of races” (E. Loescher & Co), e fu membro del VI Congrès international du progrès religieux a Parigi. Fu consulente medico della Real Casa d'Italia durante il regno di Umberto I e del Palazzo Apostolico Vaticano sotto il pontificato di Benedetto XV.  Mai volle aderire ad alcuna corrente filosofica e politica, e fu fortemente avversato dal ministro della Pubblica Istruzione Gentile,che decise di mandarlo anzitempo in pensione con un provvedimento ad personam. Si tratta del Regio Decreto n. 736 del 13 marzo 1923, all'interno della Riforma Gentile, che anticipa, per i soli professori del Magistero, il collocamento a riposo al compimento del settantesimo anno anziché al settantacinquesimo, come per gli altri docenti universitari. Il suo posto fu immediatamente occupato da Radice, amico di Gentile. Anche Croce intervenne nella vicenda in favore di d'Alfonso, chiedendo a Gentile una deroga a tale decreto, ottenendo però risposta negativa. La salma fu portata sulla carrozza della Real Casa e seppellita nel Cimitero monumentale del Verano.  Il paese natale, Santa Severina, gli ha intitolato una via del centro storico e la Scuola elementare.  Opere: “Le donne dei Vangeli, Firenze, Successori Le Monnier); “Sonno e sogni” (Milano-Roma, E. Trevisini); “Principii di logica reale” (Roma, G. B., Paravia & C.); “Il re Lear” (Roma, Società editrice Dante, Alighieri); “La dottrina dei temperamenti” (Roma, Società editrice Dante, Alighieri); “Lezioni elementari di psicologia normale” (Torino, Fratelli Bocca editori);  “Pregiudizi sull'eredità psicologica (genio,delinquenza, follia)” (Roma, Società editrice Dante Alighieri); “I limiti dell'esperimento in psicologia” (Roma, Casa editrice E. Loescher); “Sommario delle lezioni di filosofia generale (la filosofia come economia)” (Roma, Casa editrice E. Loescher); “Lo spiritismo secondo Shakespeare, E. Loescher & C.); “Sommario delle lezioni di Psicologia criminale. Critica delle dottrine criminali positiviste, Roma, Casa editrice E. Loescher); “Il Cattolicismo e la filosofia, Roma, Casa editrice E. Loescher); “Otello delinquente, Casa libraria editrice E. Loescher e C. Sommario delle lezioni di pedagogia generale (L'educazione come economia)” (Roma, Casa editrice E. Loescher); “Note psicologiche, estetiche e criminali ai drammi di G. Shakespeare (Macbeth, Amleto, Re Lear, Otello)” (Milano, Società Editrice Libraria); “Principii economici dell’etica”; “Naturalismo economico”; “Principi naturali di Economia Politica” (Roma, Athenaeum); “Gli alberi e la Calabria dall'antichità a noi” (Roma, Angelo Signorelli editore); “La disoccupazione: cause e rimedi” (Torino, Fratelli Bocca editori. Nicolò d'AlfonsoIl  del Sud  Furio Pesci, Pedagogia capitolina. L'insegnamento della pedagogia nel Magistero di Roma, Parma, Ricerche pedagogiche, 1994  Francesco d'Alfonso, Nicolò d'Alfonso. Ritratto di un intellettuale indipendente, Bisignano, Apollo edizioni, , pag. 42  Francesco d'Alfonso, Nicolò d'Alfonso, cit Attilio Gallo-Cristiani, In memoria del filosofo Nicolò d'Alfonso, Roma, A. Signorelli editore, 1934  La vicenda del pensionamento di Nicolò d'Alfonso è ricostruita e ampiamente documentata in Nicolò d'Alfonso. Ritratto di un intellettuale indipendente, cit., cap. V  Francesco d'Alfonso, L'onesto solitario. Vita e opere del filosofo Nicolò d'Alfonso, Reggio Calabria, Città del Sole edizioni,  Francesco d'Alfonso, Nicolò d'Alfonso. Ritratto di un intellettuale indipendente, Bisignano, Apollo Edizioni,  Francesco d'Alfonso , Amleto e Ofelia. La critica shakespeariana negli scritti di Nicolò d'Alfonso, Reggio Calabria, Città del Sole edizioni,  Furio Pesci, Pedagogia capitolina. L'insegnamento della pedagogia nel Magistero di Roma  Parma, Ricerche pedagogiche, 1994 Attilio Gallo Cristiani, In memoria del filosofo Nicolò d'Alfonso, Roma, A. Signorelli editore, 1994 Mariantonella , Giovanni Marchesini e la «Rivista di filosofia e scienze affini», Franco Angeli  Daniele Macris, Nicolò d'Alfonso: uno studio introduttivo, in Quaderni Siberenensi, Catanzaro, Ursini, Francesco De Luca, Santa Severina. L'antica Siberene, Pubblisfera edizioni, Antonio Testa, La critica letteraria calabrese nel novecento, L. Pellegrini editore, 1968 Silvio Bernardo, Santa Severina dai tempi più remoti ai nostri giorni, Istituto editoriale del Mezzogiorno, 1960  Santa Severina Università La Sapienza di Roma Accademia dei Lincei Liceo classico Pilo Albertelli.   Il prof. Nicolò D'Alfonso presenta : 1) Note psicologiche, estetiche e crimi n a l i a i g r a m m i d i G . S h a k s p e a r e M a c b e t h , Amlet o , R e L e a r , O t e l l o - ( s t .) ; 2 ). U n a nuova fase dell'economia politica , (st.);3) Speculative psychology and the unity of races (st.); 4) « Il cattolicismo e l'insegnamento della storia del cristianesimo nell'Università di Roma , (st.);5) - La filosofia della storia nel nostro tempo -; 6) -G. C. Morgagni e la biologia moderna »;7) «In Calabria». Il prof. D'Alfonso, come già risulta dall'elenco dei lavori presentati, s'è occu pato di argomenti disparatissimi, senza che però, a giudizio unanime della Commis sione, egli sia riuscito a trattarne alcuno con metodo scientifico. Per la più parte sono articoli occasionali e informativi, discorsi, prelezioni, ma invano si cercherebbe un'indagine compiuta con intento scientifico. Le nole psicologiche sui drammi dello Shakspeare, che del resto sono una ristampa di articoli pubblicati già parecchi anni addietro, per molti rispetti sono pregevoli, contenendo osservazioni giuste, e in ogni modo attestano l'amoroso studio che l'A. ha fatto dei drammi dello Shakspeare ; ma , a giudizio unanime della Commissione, non sono titolo sufficiente per l'assegno del premio a cui il D'Alfonso aspira.D'ALFONSO NICOLA. -E'un insegnante che ha una lunga eonorata carriera,emolti s s i m e p u b b l i c a z i o n i. M a q u e s t e c h e p u r c o n t e n g o n o m o l t i p r e g i , r i g u a r d a n o l a p s i c o logia,lalogicaelapedagogia Lastessaoperaches'intitola:«Saggiodifilosofiamo. rale »,è un saggio di psicologia applicata alla critica dell'antropologia criminale.«Il Somm a r i o d e l l e l e z i o n i d i f i l o s o f i a g e n e r a l e ( l a f i l o s o f i a c o m e e c o n o m i a ) i n c u i il D ’ A l fonso espone i concetti cardinali del suo pensiero, non tratta propriamente problemi morali,al cui studio non arreca contributo notevole l'opuscolo « Principi economici dell'Etica ». Formulati in questo modo i giudizi riassuntivi intorno ai quattordici candidati, e vagliati comparativamente ititoli di ciascuno, e tenuto conto infine dell'esito della prova orale, la Commissione procedette alla votazione definitiva, secondo le norme dell'art. 113. La terna risultò così concepita in ordine alfabetico : Calò Giovanni con tre voti favorevoli e due contrari; Ferrari Giuseppe Michele, con tre voti favorevoli e due contrari ; Orestano Francesco, a voti unanimi. Due voti riportò ilcandidato Zini. Essendosi quindi proceduto alla graduazione dei tre candidati designati per la terna , in ordine di merito, si ebbe il seguente risultato : 1°Orestano Francesco con voti quattro contro uno; 20 Ferrari Giuseppe Michele con voti tre contro due ; 3°Calò Giovanni con voti tre contro due. Ilcandidato Calò ebbe un voto come primo nellaterna. La Commissione pertanto propone a V. E. di nominare il dott. Francesco Ore . stano professore straordinario di filosofia morale presso l'Università di Palermo. Roma, 11 aprile 1907. Il Consiglio Superiore di Pubblica Istruzione, esaminati gli atti del concorso,li riconobbe regolari e nell'adunanza dell'11 maggio 1907 deliberò di restituirli al Ministero senza vazioni.  La Commissione Osser.  -- quando un maggior numero di uomini si strinsero in rapporti fradi loro e furono animati dal *fine comune* (mutual goal) di *aiutarsi* (reciprocal helpfulness)  nel superare le difficoltà per la vita, onde sivideilgrande vantaggio del lavoro collettivo, questo fatto ebbe una grande importanza per quegli uomini e pei primordi dell'umanità in genere.Fu allora necessaria la dimora fissa in un luogo, ciò che dovea  A. LA STORIA DEL LINGUAGGIO.   diminuire loro idisagi e le incertezze del domani.Si preferi di dimorare presso le rive dei fiumi, dei laghi e del mare,che offrivano certi vantaggi. Risoluto il problema dell'esistenza nell'oggi, fu reso possibile il tentativo di produrre pel domani, allora si principio ad allevare il bestiume ed a coltivare la terra, prendendo insegnamento, come potevano, dalla natura. Allora fu reso maggiore il bisogno di *esprimersi* (express ourselves) e d'*intendersi* (comprehend ourselves) in un più largo ambito e nacque nell'uomo il desiderio di ben provvedere al suo avvenire, à quello della tribů o della piccola società ed a ricordare la vita passata per trarne insegnamento per l'avvenire. Fu reso ancora necessario il tradurre in segui materiali, e perció più memorabili, I rumori e le voci di *espressione* : prima origine della scrittura e della lettura. Ma,anche in questocaso,quando nonsitrattavadi do vereriprodurre l'immaginesensibiledelle cose,ma di u sare segni più o meno facili ad eseguire e da connettere alle parole, ciascuno dovette significare da principio in modo affattoarbitrarioedinintelligibileaglialtrilepro prie rappresentazioni; e solo posteriormente per mezzo di accordi alcuni *segni* (segnante/segnato) furono ricunosciuti da parecchi siccome *esprimenti* alcune date *rappresentazioni*. Si *stabilirono* (Grice – established procedure) cosi tanti segni (segnante, segnato) per quante erano le parole in uso. Però un cosiffatto costituirsi della società primitiva non avvenne per un aggruppamento solo, in un solo sito, di uomini e di famiglie. Dato invece il continuo dirimersi e disgregarsi degli uomini preistorici, bisogna ammettere che sia dovuto avvenire, isolatamente, in vari punti della superficie della terra; e per ciascuna piccola società dovettero stabilirsi speciali segni di scrittura e di lettura. Questi movimenti d’emigrazione e d'immigrazione, di conquiste, raggiunte con la violenza o con lacalma e l'astuzia, furono più frequenti nei primordi della storia; poichè in quei tempi non tutti i bisogni individuali e sociali dell'uomo potevano essere sollecitamente soddisfatti, quantunque fosse stato prepotente in lui il desiderio di soddisfarli. E poichè ogni gruppo sociale migrante, come avea un complesso di parole, cosi poteva avere un complesso di *segni* a quelle corrispondenti, avvenendo lo stesso per la società che subiva l'immigrazione o il dominio, con la mescolanza degli uomini dovette ancora avvenire una mescolanza di differenti linguaggi. In questo caso il gruppo sociale più potente dovea esercitare il suo dominio sul popolo nuovo arrivato o sul debole. Era necessario perciò che gl'imponesse anche la propria lingua, altrimenti non sarebbe stata possibile la comunicazione degli animi, prima condizione al vivere. Queste società col vivere a lungo in un sito andarono incontro ad alcuni disagi per lo sfruttamento del terreno non ancora coltivato secondo le leggi naturali o per la distruzione degli animali boschivi o infine perchè il loro sviluppo sociale dovea far loro avvertire nuovi bisogni o per dar nuove esplicazioni alle loro energie. Nacque perciò in loro o in parecchi di essi il bisogno di avvicinarsi ad altre società, sia per offrire a queste i prodotti particolari del loro suolo e della loro industria e rice verne altri; sia per offrire loro le proprie energie organiche dalle quali volevano trarre un profitto. L'avvicinamento e poi la reciproca compenetrazione degl’animi avvenne per via pacifica o per laviolenza e la forza, onde la società sopravvegnente sottomise a sè l'indigena.   -- sociale. Ma si deve anche ammettere che il popolo vinto o il nuovo abbia in parte contribuito a modificare la lingua dell'altro, non potendosi ammettere che esso si fosse potuto così facilmente e presto privare della sua lingua abituale e l'altro non ne avesse subita alcuna modificazione. Cosi,come la parola (del greco parabola), anche altri segni dovettero subire molteplici metamorfosi in ragione del vario congregarsi e disgregarsi degli uomini, in ra gione dei vari influssi che quelle società esercitarono fra di loro. E quando in mezzo alla vita indeterminata delle società primitive sorse un popolo energico e forte che acquisto di sè una coscienza superiore a quella degli altri popoli che si sforzò di soggiogare e di dominare ed impose loro i suoi costumi, le sue credenze, fu quello il primo popolo veramente storico e allora la lingua di esso fu imposta ai vinti ed ammesso riconosciuto da questi. Ma un popolo che sappia esercitare il suo dominioè destinato a vivere e a perpetuarsi. È necessario allora che esso diventi qualche cosa di organico, che abbia un ordinamento interno, che abbia leggi ed istituzioni. Un popolo cosi costituito è costretto a conservare ed a coltivare la propria lingua, dando un valore determinato alle proprie parole; perchè solo cosi è possibile il governo che deve implicare la stabilità delle leggi e della istituzioni alle quali deve perció connettersi una lingua determinate e fissa, altrimenti quel popolo ricadrebbe, come, malgradociò, tende sempre a ricadere, allo stato primitivo di disgregamento. In un popolo che vive e dura la lingua  deve non  solo fissarsi ma le parole di cui consta debbono moltiplicarsi. E ciò non può non ammettersi se si considera che una società che vive non può non compiere,per mezzo degli individui che la costituiscono, un'attività psicologica scrutativa e conoscitiva sulla natura circostante. Questa che da principio apparisce come qualche cosa di molto semplice, come un tutto a sè, in ragione che più si esercita l'attività umana sopra di essa,apparisce distinta in una molteplicità di gradi o di oggetti i quali alla loro volta da prima appariscono indeterminati nelle molte proprietà di cui risultano e, progressivamente, appariscono sempre più determinati. Tale è stato il movimento della conoscenza dai primordi della storia sino ai nostri tempi e non si è peranco arrestato. Di nessun oggetto si può dire che esso sia stato cosi studiato ed analizzato in tutte le sue note,in tutti i suoi rapporti, che un ulteriore studio nulla di nuovo potrebbe darci. Quantunque questo processo di scrutazione e di conoscenza si sia eseguito sopra ogni cosa, pure non tutti i popoli hanno all'istesso modo fatte le loro conquiste in ogni ramo della realtà. Giacchè alcuni hanno scrutato un ramo ed hanno lasciato intatto un altro di essa e, conseguentemente, la lingua si è più arricchita in quella regione della natura che non in un'altra. Inoltre è avvenuto nella storia che, come gli uomini hanno fatto un progresso nel campo della conoscenza, si sono ingegnati di servirsi delle loro cognizioni per modificare la natura esteriore a loro profitto, producendo una molteplicità di beni e sovrapponendo cosi all'opera della natura una nuova creazione che è quella dell'arte. Tutte le istituzioni sociali sono creazioni dello spirito,   -- Cosi quando un popolo emerge nell'arte della guerra e delle conquiste, come il popolo romano, deve anche creare una nomenclatura in cose militari e guerresche. Giacchè, anche in questo caso, ogni nuova veduta, ogni nuova invenzione, per quanto possa sembrare poco apprezzabile, pure deve essere contrassegnata dalla sua parola. Tale lingua non poteva riscontrarsi nei popoli che, nel movimento storico, precedettero quelli. Ed allora la nuova lingua potrà inprosieguo divenire patrimonio di nuovi popoli; perchè le conquiste di una nazione nel campo della conoscenza e dell'attività pratica tendono a divenire patrimonio ed eredità delle altre nazioni, Una nazione che emerga nel mondo pel suo dominio sul mare, ciò che non può avvenire senza la costruzione di vascelli di meravigliosa complicazione, come il popolo ligure, deve creare una nomenclatura marinaresca, sia per le varie parti e di vari apparecchi di cui consta un vascello, come per la loro funzione e per gli uomini che vi si addicono, nomenclatura che *prima della formazione di quei vascelli non avea ragion d'essere* e che ora deve essere accettata dalle altre nazioni che vogliono costruire  nelle quali se la natura interviene, essa non vi è come puramente tale, ma rianimata da un nuovo soffio. La storia ci fa vedere che ogni società civile ha prodotto qualche cosa di particolare in un ramo delle istituzioni sociali; o nelle leggi o nell'industria, nel commercio, nell'arte militare, nelle belle arti, nella religione, nella scienza. Corrispondentemente a questo progresso nell'attività intellettuale e pratica, nuove forme particolari debbono sorgere che contribuiscono ad accrescere la somma delle parole di un popolo. -- navi di quei tipi o forme, onde quelle parole genovese o ligure debbono in massima parte essere accettate come tali dalle altre nazioni. Anche una nuova e grande religione, come il culto di Marte, il dio della guerra dai romani, dovette formarsi una nuova lingua relativamente alle antiche religioni, quantunque alcune parole di queste siano state conservate nella nuova religione, all'istesso modo che qualche cosa del contenuto delle prime religioni si perpetua nel contenuto delle altre. E, poichè la religione, sopra tutto la religione istituta dal primo principe, Ottaviano, compe netra ed informa tutti gli aspetti della vita individuale e sociale, esercita la sua azione modificatrice nella lingua di tutte le istituzioni sociali. Nel culto romano di Marte troviamo parole che hanno un contenuto differente da quello che avevano nei popoli precedenti o che non ancora hanno accettato il Cristianesimo, quantunque le stesse parole possano prima essere state usate.E, poichè il Cristianesimo è stato il punto di partenza di un grande e lungo svolgimento artistico, teologico e filosofico, informato ai suoi principii, si è dovuto ancora produrre una lingua atta a rendere in tutti i loro elementi le nuove e grandi concezioni. Cosi l'attività pratica sociale e le istituzioni contribuiscono a fare arricchire la lingua latina dei romani. Ma infondo a questo progresso linguistico sociale dobbiamo trovare come principale fattore l'attività individuale di un Cicerone, di un Lucrezio, di un Varrone, di un Romolo! Come avviene delle nazioni che non fanno un passo innanzi nel progresso dell'umanità se non per l'opera dei grandi uomini che esse nondimeno hanno creato eeducato, avvieneanche pel progredire della lingua dialettale – o soziale – altre l’idioletto. Giacchè gl'individui in quanto vedono aspetti nuovi della natura o della vita s o  -- Però da principio essi hanno ricevuto dalla società in seno alla quale sono nati e cresciuti un linguaggio che era patrimonio comune a molti ; essi l'hanno solamente arricchito in quel ramo di attività nella quale hanno espli cato la loro energia e,se questa riguarda immediatamente la vita del popolo,potranno le nuove parole divenir popolari, altrimenti rimarranno sempre chiuse nella cerchia dei pensatori e degli studiosi. Così la lingua filosofica di Cicerone non è popolare o ordinario o volgare come non è popolare o ordinaria o volgare la filosofia, mentre il linguaggio della religione e dell'arte potrà più fa cilmente scendere sino al popolo e divenire suo patrimonio; perchè esse al popolo sopra tutto s'indirizzano ed in esso debbono trovare alimento. -- Pertanto se la lingua dell'arte, della filosofia, della storia differiscono in qualche modo fra di loro, differisce anche la lingua di un cultore di quella data branca di attività umana da quello di un altro.Così il idoletto o idioma di Platone differisce da quello di Aristotele e di Hegel. La lingua, l’idioletto, o l’idioma di Omero differisce da quello di Aligheri, di Shakespeare e di Goethe. La lingua, l’idioletto o l’idioma di Tucidide e di Erodoto differisce da quello di Livio, di Tacito, di Machiavelli. E ciò perchè ciascuno scrittore impiega nella realtà che studia e perciò nella lingua che trova e contribuisce a creare, quella sua attività particolare che  - - -47 -- ciale contribuiscono a formare la lingua ed imprimono parole nuove a nuovi fatti reali che si sono scoperti od escogitati. Ippocrate, che fu il fondatore della scienza medica nell'antichità, fu anche il creatore della lingua medica che si conserva in fondo alla compless lingua medica moderna. Cesare dette nuove determinazioni ed una più grande precisione alla lingua militare.   -- lo spinge ad usare nuove parole o a dare un nuovo contenuto o segnato a vecchie parole o it nobilitarle o a degradarle. In questo modo la lingua di un popolo che, come ogni conquista dell'uomo e dell'umanità, tende a sminuire e a perdersi, è sostenuto dalla vita nazionale ed è migliorato dal progresso che essa fa in ogni ramo dell'atti vità umana. Il suo progresso va di pari passo col progresso dell'umanità,  all'istesso modo che il decadere di questa trae seco il decadere della lingua. Una nazione mantiene integralmente la sua lingua quando una sola vita ed un solo pensiero circolano in essa quando vi è, cioè, unità nazionale, onde tutti i cittadini hanno la stessa educazione, la stessa coltura, le stesse aspirazioni, volgono la loro attività allo stesso fine collettivo, partecipano intimamente agli avvenimenti nazionali, sono animati dello stesso spirito religioso, artistico. Quando lo spirito nazionale si affievolisce o cade, tendendo allora la lingua a degradarsi, la scuola apparisce come una sostituzione alla vita sociale, la quale può creare il culto della lingua nazionale, facendo interpretare e gustare i capilavori letterari, storici e politici che quella data nazione possiede. In questo caso la scuola può creare un movimento per un nuovo risorgimento nazionale e per mezzo di essa può la lingua durare e vivere anche quando le istituzioni che la formarono e la sostennero son decadute. Ma se in quei casi la scuola manca, tutto va in rovina.  Nella scuola va incluso anche il culto per l'arte, quando questa non rappresenti il puntosalientedella vita nazionale, come avvenne in Grecia la quale dovette la popolarità di quella meravigliosa lingua primieramente al  culto per Omero I cui canti, artistici e religiosi insieme, venivano imparati a memoria e ripetuti e cantati da tutto il popolo. La religione ha anche essa una grande potenza a mantenere in vita una lingua, quando ogni altra istituzione sia perita in una nazione; perchè essa, tendendo a difondere un complesso organico di principii e di massime a tutto un popolo, in modo che tutti gl'individui vengano illuminati e spinti all'azione da essa (e già la religione esercita la sua azione in tutti i fatti della vita, onde la lingua religiosa penetra in ogni cosa), deve tenere perciò vivo il culto per la lingua nazionale. Quando queste condizioni mancano la lingua sidiscioglie,soprat tutto se quella nazione continua ad essere ilcentro d'im migrazionedialtripopoli,come avvennedell' Impero Ro mano dopo la sua caduta,in cui, con la invasione dei barbari, quando la scuola mancava, nuovi linguaggi e nuovi costumi penetrarono che dovettero affrettare la disorganizzazione di quella lingua in tanti linguaggi particolari a varie provincie e luoghi, varianti fra di loro secondo che varie erano le nuove condizioni di ciascuno. Alcuni di questi particolari dialetti più tardi divennero ancheessinuovelingue,quandoapparvero ipoeti,gli oratori,glistorici,ilegislatori,ireligiosi, i quali, per adattarsi al popolo al qualedoveano volgerel'operaloro, dovetterobeneconoscereilnuovolinguaggio ed,usan dolo, gli accrescevano prestigio e destavano il culto per esso. In questo modo una grande lingua si discioglie e gli altri linguaggi che vengon fuori da quella dissoluzione possono di nuovo nobilitarsi e divenire storici. La lingua tedesca non sarebbe divenuta una nobile e bella lingua se Lutero,col movimento religioso che egli. Risulta da quel che si è detto che non è stato un solo il popolo storico, ma vari,quantunque però si debba a m mettere che questi si sieno manifestati in una regione piuttosto che in un'altra del mondo e che vi sieno stati p o poli storici di cui non sono rimaste vestigia;perchè la parte che essi hanno rappresentato per la storia dell'u manità in genere non è stata di grande importanza, onde non sono divenuti centro di attrazione di altri popoli e non hanno avuto perciò l'energia di sottometterne e di dominarne altri. All'istesso modo che ogni popolo ha una storia parti colare e comparisce e sparisce dal teatro del mondo e ad un popolo si succedono altri popoli ed ognuno ha la ere dità degli altri ed ha insieme aspirazioni, tendenze ed uno spirito proprio,si foggia ancora in modo particolare la propria lingua. E come il suono o la voce è l'espres sione dello stato interiore psichico indeterminato dell'a  fondo ed inizio, in cui dovea avere gran parte la cultura del popolo, non avesse destato un culto per essa.I grandi poeti tedeschi, gli storici, i filosofi, gli scienziati,animati dallo spirito della riforma,contribuirono poi a rendere importante nel mondo e nella storia quella lingua. L'a vere la Grecia conservata, dopo la sua caduta, la sua antica lingua la quale, tenuto conto dei mutamenti necessari che in essa son dovuti avvenire pel progresso del pensiero umano, si è continuata nella lingua greca moderna, si deve all'essere essa, dopo la sua caduta, stata quasi tagliata fuori dal grande movimento del mondo, il cui centro divenne ROMA, e al non essere più essa stata fatta segno alle invasioni e alle immigrazioni di altri popoli. Quando, dopo la rovina dell'impero romano,il pen  - -- animale o dell'uomo, anche la lingua, nel complesso si stematico delle sue parole , è l'indice dello stato intellet tuale di un popolo,della sua storia,del grado dellasua eticità,della sua energia,delle sue aspirazioni economi che, artistiche, sociali, religiose, scientifiche. Sicchè, conosciuta la lingua di un popolo, ci è dato conoscere la sua vita naturale e spirituale; perchè nulla è nella vita naturale e spirituale degli uomini che non sia in qualche modo nel suo linguaggio. Diciamo in qualche modo,per «chè la lingua non è l'espressione perfetta della vita e del movimento della psiche. Le parole di cui il linguaggio consta sono sempre vi 'brazioni tradizionali,empiriche o convenzionali per espri mere alcune rappresentazioni o azioni o energie delle cose;'sono perciò involucri naturali ed estrinseci in cui si avvolge la coscienza e la mente per esprimere la realtà delle cose e degli avvenimenti ; la cui ricchezza di par tivolari, d'intrecci e di energie è profonda ed inesauribile. Sono perciò una pallida immagine della realtà e della mente,quantunque siano però qualche cosa di superiore e di più perfetto relativamente al linguaggio indetermi nato.Equandovièdissdiotrarealtàelingua,dimodo .che quella apparisce alla mente nel suo progresso di complicazione,mentre la lingua si pietrifica, questa diviene un impaccio alla espressione dellamente che di continuo si muove e si svolge; ed è solo rompendo questo in volucro sensibile e dandogli un valore più nuovo e più altochesi possonointendereemanifestarelepiùascose pieghedel pensieroedella mente;giacchè per inten dere il pensiero non vi vuole che il pensiero.  Ad ogni modo la mente nella sua progressiva forma-. zione si sforza di creare il suo linguaggio ; perchè il linguaggio serve pel pensiero ;e foggia nuove parole o nuove combinazioni di parole o dà un nuovo significato alle vecchie parole. E perció la storia ci fa vedere che quelle nazioni che sono state ricche di pensiero,co inella sfera di attività pubblica e sociale,come nella s'era artistica, religiosa, scientifica, hanno avuto una lingua an corariccadiparole,dilocuzioni,diflessioniper espri mere i più fuggevoli moti della realtà e dello spirito ; ed in quella nazione in cui la vita del pensiero è stata poverit o nascente si è ancora avuta una lingua povera . di parole e di uso. Ciascuno di questi gradi dell'evoluzione del linguaggio è l'espressione dello stato psichico e cerebrale di quei dati popoli, stato in parte ereditato in parte acquisito ; dello stato degli organi vocali e dell'ambiente cosi na turale come etico che gli uomini si sono creato ed in cui sono vissuti.Queste tre seriedi fattori hanno la parte principale nella storiadel linguaggioe,secondo il grado. -- del loro accordo dello sviluppo di esso, costitu'scono la lingua peculiare di un dato popolo.  --  siero cristiano che porto seco una nuova civiltà,più pro fonda e più complessa della romana, a poco a poco si sostituiva alle vecchie istituzioni, LA LINGUA DEL LAZIO non potè essere più adatta ad esprimere il nuovo pensiero, sopra tutto dopo le invasioni barbariche; e se fu colti vata dalla Chiesa e dai dotti,questi per entrare in re lazione col popolo e partecipare perciò alla vita.nazio nale, dovettero usare il vulgare. Qualche cosa di analogo avviene nella storia dell'in   è psicologicamente molto simile agli animali, emette an .che esso dei suoni indeterminati. Ma in ragione che ac . quistano maggior sviluppo i sistemi del suo organismo e gli organi vocali e le sensazioni acquistano maggior pre cisione funzionale, il bambino si assimila gli elementi delle voci o delle parole che ode intorno a sè,assimila zione che è resa facile da predisponenti condizioni ere ditarie, le riferisce alle cose con cui è in rapporto, le fissa nella memoria, si sforza di pronunciarle,riuscendovi male da principio;ma dopo unalunga esercitazione,ar riva a pronunziare bene ed a mano a mano non solo al cuni monosillabi, ma anche parole più o meno semplici. Nella storia del fanciullo si ha insomma come riepilogo quello che è avvenuto nella lunga storia dell'umanità ; cosi il bambino da poco nato non ha altro modo per esprimere isuoi stati interni che ilgrido,ilpianto,che sono poco più che un moto riflesso, una forte sensazione che si estrinseca per le vie del respiro.  - dividuo. Come il grido indefinibile che l'animale emette •è l'espressione dello stato indeterminato dei sentimenti che lo agitano e dello stato informe delle rappresenta zionichelomuovono,come dellapovertàdeicentridelsuo :sistema nervoso, cosi il bambino che nei suoi primi anni 53 Abbiamo usato promiscuamente la parola linguaggio e lingua ; m a è bene dichiarare che la lingua implica m a g giori determinazioni che non il linguaggio che è qualche cosa di più generale ed inderminato relativamente ad essa. La linguaè un linguaggio divenutoclassicoostorico,con nesso cioè ad una vita nazionale, per cui ogni parola ha una storia e le cui origini si possono seguire anche in altri linguaggi che sono presupposti della lingua che si   Dopo che le parole son divenute storiche, sono state cioè connesse ad un segno materiale,possono continuare, sopra tutto in tempi in cui le lingue si formano, ad a vere una storia circa alla loro struttura. Ed anzi tutto pare non si debba ammettere che , quando LA LINGUA PREISTORICA abbia principiato a divenire STORICA, si fossero tra dotte in segni materiali tutte le parole parlate. Invece si deve aminettere che queste dovettero essere moltissime neila lorogradazionedipronunziadaindividuoad iudiv'duo, da tribà a tribù, per la ragione detta precedentemente. E quando si volle tradurre in segni una parola la quale aveva immense gradazion ,essi furono appunto quasi una. somma di una molteplicitii di parole parlate le quali se: poterono fissarsi in segni non poterono però definitivamente fissarsi in un tipo di vibrazione fonica ad esse corrispon denti,quantunque pero questo fosse stato il fine dell'in venzione dei segni materiali e della scrittur a e questo. fosse anch e il fine dell'inseegnamento della lettura. Da ció segue che le parole parlate furono moltissime relativamente alle impresse. Stabilitasi la forma della parola parlata e della i m pressa non si tenne più alcuna ricordanza della deriva- . zione primitiva di essa nè si pensó più a modellare le: parole sulle forme delle vibrazioni naturali. Dovette per  - -- studia. Si può dire ‘lingua’ della natura, ‘lingua’ degli animali, ‘lingua’ dei bambini, ma non lingua senza quotazioni. L'uomo che per morbi perde la facoltà di parlare che prima posse deva in modo perfetto, non *parla* più la lingua, *ha* però una lingua. La condotta dell'uomo si può chiamare una ‘lingua’ in quanto manifesta per mezzo di una. serie di atti tutto un concetto interiore della vita.   -- ció necessariamente ammettersi che i primi popoli storici dovetterò averə ciascuno una nomenclatura e corrispondenti forme d'impressione e di scrittura e,nel loro con tinuo movimento di espansione e di concentrazione, tutto dovette mutare fino a che un popolo non raggiunse la sua stabilità. Ma anche allora la stabilità della lingua non fu definitiva. Abbiamo detto che la parola è qualcosa di molto più complesso del semplice suono o della semplice voce o esclamazione o della semplice imitazione di suoni o rumori naturali, quantunque derivi da essi -- è già un suono o più suoni e rumori connessi che complessivamente e sprimono una rappresentazione formata od un'azione od un concetto.Vi sono perciò parole di pure voci o suoni, altre di puri rumori ed altre infine risultanti degli uni e degli altri. Studiando l'acquisizione della loquela nel l'individuo vedremo come egli dall'attività più semplice passa alla più complessa, cosa che,come avviene ora nel l'individuo, si veritica anche nella storia dell'umanità in genere.Dovettero perciò iprimi uomini da principio pronunziareparolerisultantidipurevociodipuri ru mori; anche allora, o più tardi poterono pronunziarsi monosillabi,che sono l'unità di un rumore edi una voce. Il mono-sillabo è perció la parola più conforme alla possibiliti tisiologica e psicologica di esecuzione fonica dei popoli primitivi e rappresenta la vibrazione primitiva della cosa,trasformata dall'attività fisiologica e psicolo gica degli uomini.Le lingue dei primi popolifurono per cid monosillabiche.Ed a questo proposito possiamo noi indagare se le lingue primitive fossero più o meno ric che di parole delle lingue moderne o in generale delle lingue più complesse. E bisogna dire di si se si pensa che, quantunquepei primi popoli storici il mondo esteriore fosse qualche cosa di molto semplice, pure, nel ri produrre gli oggetti essi teneano conto solo della vibra zione la quale era varia d'intensità nelle cose ed era ancora più variamente ripetuta od imitata dagli uomini di una popolazione e dalle varie popolazioni. Onde varie parole doveano primitivamente indicare la stessa cosa. Anche perché, potendo una stessa cosa dare vibrazioni differenti, essa veniva indicata con quella tale vibrazione della quale più s'interessava il soggetto. Cosi il cavallo poteva essere indicato pel suo nitrire, per lo scalpitare, pel m ovimento della criniera, pel rumore che fa nei masticare il cibo, per la velocità nella corsa, ecc. cosa assumeva. In tal caso la parola monozillabica primitiva si dice  -- Per questa ragione le parole dovettero molto più delle cose esse represe in considerazione. Ma in tempi più progrediti abbiamo una lingua più complessa, in cui cioè le parola o la maggior parte di esse sono risultanti di più sillabe; e in questo caso le parole monosillabiche non spariscono. E questa le lingue poli-sillabiche o la agglutinante o l’articolata. Perchè in esse la sillaba si collegano o si articolano con la sillaba. La parola poli-sillabica potè divenir tale o perchè mono-sillabi di una lingua si vide che corrispondevano alla stessa cosa, di modo che, pronunziandole insieme due o più esigenze venivano conciliate. O perchè una sola sillaba assume una voce nuova secondo che la nuovi movimenti; perchè le cose assumono ancora nuove energie se l'attività scrutatrice del soggetto si esercita .su di esse.   radice la quale non cessa di essere parola, perchè esprime una rappresentazione, per quanto indeterminata, ma è considerata come una parola elementare la quale è come il ceppo comune ed originario di altre parole. Essa, entrando in rapporto con altre parole più o meno semplici o pure assumendo varie flessioni, si complica in modo da esprimere una rappresentazione più complessa o un concetto. Se la lingua mono-sillabica, esprimendo rappresentazioni indeterminate, e la LINGUA PRIMITIVA, la lingua agglutinante o articolata segnano un *progresso* relativamente alle precedenti. Perchè in essa, una parola poli-sillabe e un complesso di al meno due parole mono-sillabe e perció si parlano da quei popoli nei quali è più sviluppata l'attivitàr appresentativa, onde un solo mono-sillabo non sempre è sufficiente ad esprimere una rappresentazione molto complessa. La lingua del Lazio, la maggior parte delle cui parole hanno flessioni, in cui la “radice” e il “tema” assumono varie forme e una lingua flettente. E quella che han raggiunto il maggior sviluppo possibile e puo costituire l'espressione di una tela organica di concetti e di un pensiero dalle più ricche gradazioni e di sfumature appena apprezzabili. In tale lingua, il nome sostantivo o aggetivo ed il verbo assumono flessioni (declinazione e congiugazione) e mediante tali forme si esprimono i vari rapporti delle cose e l'avvenimento dell'azione nei vari gradi di tempo e di condizione in rapporto con l'avvenimento di altre azioni. Una lingua flettente e perció *posteriore* anche alla lingua agglutinante, quantunque non bisogna credere che, quando esse appariscano, le parolea gglutinanti e monosiilabiche non esistano più. Esse sono le ultime apparse nella storia  - Con lo sviluppo della lingua del Lazio va di pari passo lo sviluppo del mondo logico. Giacchè sono due aspettidiuna stessa cosa.. Il pensiero e la sua manifestazione sensibile. Non si può ben comprendere l'importanza della lingua del Lazio senza vedere l'importanza dell'energia logica che è inclusa in esso, la quale sottratta, l'attività della loquela rimarrebbe un fenomeno puramente fisico e *fisiologico* ma non umano, o pure sa rebbe l'espressione di uno stato interno indeterminato.  delle lingue, e sono state parlate e scritte da popoli ricchi di pensiero e di azione. Se dunque le lingue ultime dei popoli civili, che noi crediamo le più perfette, perchè ricche di flessioni (onde tra queste bisogna comprendere la latina o lingua del popolo del Lazio) ha avuto una così lunga e avventurosa istoria ed alla loro formazione hanno, piùo meno immediatamente, con corso tanti e cosi disparati elementi e lingue di minore perfezione e lingue anche complesse e ciascuna lingua, per quanto immediata sia, risulta di elementi molteplicissiini ed accidentalissimi (per quanto vi sia qualche cosa di costante),comparisce chiaro quanto debba essese difficile, fare una compiuta anatomia della lingua del Lazio ed assegnare a ciascuno elenento di essa, a ciascuna parola di cui essa risulta, il suo vero valore e la sua vera istoria. Bello stesso ; Sonno e sogni. E. Trevisini, Milano-Roma scolastico. E. Trevisini,Milano-Roma . Ilparlare, il leggere e lo scrivere nei bambini, saggio di 00 1 Saggi di pedagogia:(ilproblema dell'educazionemorale. Le donne dei Vangeli. Successori Le Monnier, Firenze. La rappresentazione psicologica è l'immagine che l'oggetto della percezione lascia di sè nel campo co sciente quando è sottratto all'azione stimolante che esso può esercitare sugli organi dei serisi del soggetto. Questa rappresentazione è tanto più indeterminata ed imprecisa per quanto più l'oggetto che l'à prodotta risulta di un numero grande di qualità e di note,per quanto più breve è stato il tempo che essa ha agito da stimolo sul soggetto, per quanto meno sviluppata è l'attività percettiva cosciente del soggetto e per quanto meno questa si è esercitata su di esso. Non vi è oggetto del mondo esterioreilquale,dopo l'osservazione volgare e dopo lo studio scientifico, non risulti di una molteplicità di note e di qualità ed in cui queste qualità non abbiano un determinato grado d'intensità; ma queste note non appariscono determi nate e distinte fra di loro innanzi al soggetto quando  I. 1.   l'oggetto gli si presenta d'innanzi per laprima volta o quando per la prima volta l'anima principia ad es sere attività cosciente;allora l'oggetto apparisce come un tutto indistinto,anzi apparisce come una nota sola. Cosi appariscono il mondo esteriore e gli oggetti di esso al bambino nel primo sbocciare della sua coscienza e cosi devono essere apparsi all'uopo primitivo che non ha avuto una potente attività scrutatrice; ed in questa stessa posizione è l'uomo moderno dirimpetto a quelle cose più o meno complicate che gli si parano d'innanzi per la prima volta e che non ha avuto il tempo di scrutare. In ragione che l'attività cosciente si esercita sempre più intensamente sul mondo este riore gli oggetti a mano a mano appariscono come distinti gli uni dagli altri ed in ciascuno oggetto la nota uniforme e primitiva che lo designava si pre senta progressivamente moltiplicata in più note dif ferenti.  a mano ad affievolirsi, a divenire sempre più imprecise, a perdere una parte delle note che le costituiscono e lentanente a sparire quando non vengano rianimate, mediante nuove percezioni degli stessi oggetti che le han prodotte, nella coscienza; 10 Se l'attività del soggetto si esercitasse sulla rap presentazione dell'oggetto già percepito piuttosto che sull'oggetto ripetutamente percepito, non vi sarebbe progresso nella scrutazione dell'oggetto, anzi vi sa rebbe regresso;perchè èlegge psicologica infallibile che le rappresentazioni degli oggetti già percepiti tendono a mano   mentre la ripetuta azione del soggetto sull'oggetto fa sempre scoprire di questo nuovi aspetti e nuove re lazioni;ed a questa condizione la rappresentazione dell'oggetto sempre più si arricchisce e si compie e risponde più precisamente all'oggetto reale. Si può fare a meno dal percepire più oltre l'og getto e considerare solo la rappresentazione in sè stessa quando esso è stato cosi studiato ed analizzato e scrutato che un ulteriore studio non aggiungerebbe nulla di nuovo allarappresentazione diesso,laquale però, perchè si mantenga integra, deve spesso ripro. dursi nel campo della coscienza.E ciò può sopra tutto avvenire quando l'oggetto che si studia risulta di poche qualità e determinazioni; ma quando l'oggetto è ricchissimo di struttura, di organi e di funzioni, quando presenta un vasto e ricco sistema di fatti e di fenomeni, riesce quasi impossibile rappresentarlo compintamente, senza che alcuni aspetti di esso non sfuggano alla coscienza o non spariscano da essa.In questo caso il soggetto, per quanti sforzi faccia ad apprendere e conservare la rappresentazione compiuta · dell'oggetto,non può fare a meno dal tornare a per cepire spesse volte l'oggetto del suo studio per sem pre meglio comprenderlo e conservarlo. Sicché,parlando qui della rappresentazione psico logica, non s'intende dire che quella rappresentazione la quale rimane nel soggetto dopo la ripetuta azione di esso sull'oggetto: ciò che è la rappresentazione dell'oggetto percepitu. Ed è questa la condizione pilt  - 11   importante perchè la rappresentazione psicologica possa divenire obbietto della logica, quantunque non sia primitivamente tale. La rappresentazione della sensazione pura o lo stimolo della sensazione non può mai divenire obbietto della logica; perchè la sensa zione non consta che di certi stati dell'anima, che sa distinguere e che anzi attribuisce a sė stessa, senza riferirli allo stimolo : e ciò per quegli animali che per tutta la loro vita rimangono nella cerchia della sensazione pura.Ma nell'animale e nel l'uomo che rimane solo temporaneamente nella cerchia della pura sensazione dove stimolo ed animo si con fondono e che oltrepassa questa cerchia per divenire percezione e coscienza che è dualità tra l'anima che ora diviene soggetto e lo stimolo che diviene oggetto, ciò che prima ha determinato la sensazione (lo stimolo) può divenire oggettodellapercezioneedellacoscienza e poi della logica ; anzi non vi è oggetto della logica che non sia oggetto della coscienza. Onde segue che la materia prima del mondo logico è fornita dall'oggetto della percezione che è l'oggetto della coscienza, senza del quale non potrebbe darsi attività logica di sorta; perchè l'attività logica del soggetto si deve esercitare sempre sopra un oggetto, come il soggetto non diviene attività logica senza la sua relazione coll'oggetto. Il soggetto cosi diviene at tività logica, non nasce tale e la sua attività dere esercitarsi o sull'oggetto naturale esteriore o sulla rappresentazione interiore di esso,  essa non 12   In una zona logica cosi ampia non va compreso solamente l'uomo superiore con la sua potente ener gia logica, nè solamente l'uomo medio con la sua or  -13- pura Però il passaggio nel soggetto dalla pura sensa zione alla logica non è rappresentato da una linea cosi precisa che si possa dire : Di là dalla linea vi è tutto il mondo delle sensazioni, di qua vi è tutto il mondo logico compiutamente formato; giacchè, come avviene in ogni sfera che passa in un'altra sfera, quella che passa non è completamente esclusa come tale da quella in cui passa. E non bisogna credere che, superato una volta il confine, questo sia supe rato per sempre; perchè la vita della o dellerappresentazionidisensazionipuòtornarecome puramente tale anche quando una volta si sia pene trati nel campo logico.Inoltre è difficile per lo stu dioso tracciare questa linea in cui l'anima cessa di essere meramente sensitiva e fa il primo ingresso nel campo logico. Come ogni grado dell'esistenza,la logica occupa una determinata zona, chiusa fra due determinati limiti, di cui l'uno rappresenta il minimo della logicità,tanto chedilàdaquestolimitenonvièattivitàlogicane obbietto logico e l'altro rappresenta l'entità logica nel suo più alto grado.Dal primo all'ultimo limite il mondo logico compie un processo che implica una progressiva perfezione,per cui, partendo dal fatto puramente sensitivo, si allontana sempre più da esso per divenire entità logica compiuta. sensazione   dinaria potenzialità logica; ma ancora l'uomo volgare, il fanciullo, gli animali superiori ed alcune specie degli animali inferiori che arrivano a percepire.Però se, come avviene in ogni sfera dell'esistenza che ha una serie di gradazioni, la sfera logica presenta un sistema cosi ricco di gradazioni le quali passano l'una nell'altra in modo appena apprezzabile, tanto che è quasi difficile distinguerle, pure si può dire che tutte queste gradazioni vanno comprese in tre grandi sot tozone le quali possono chiamarsi la logica meccanica o estrinseca, la logica chimica o intima e la logica organica. La prima zona,rappresentandoleformelogichepiù elementari, se può stare di per sè come pura logica meccanica, si ritrova però anche nelle due zone sus seguenti; e cosi la sfera chimica si ritrova ancora nella sfera organica che è la più compiuta. In generale si può dire che l'oggetto della perce zione ovvero la rappresentazione di esso principia a mostrare il primo movimento logico allorché cessa di apparire innanzi al soggetto come risultante di una sola qualità naturale,ma apparisce come distinto in due o più qualità connesse in qualsiasi modo fra di loro ed allora si ha la forma primitiva della rappre sentazionelogica.Una qualitàsolaedincomunicabile ad altre qualità e zon trasformabile non fornisce al cuna materia logica.E se un fatto naturale,secondo che è più scrutato dal soggetto, comparisce sempre più ricco di qualità e si vede la ragione intima per    15 cui le varie qualità convengono all'oggetto,è chiaro che esso diventa progressivamente obbietto di una entità logica superiore. Ma può avvenire ancora che,dopo uno studio più profondo e comprensivo fatto sull'oggetto,questo ap paia innanzi al soggetto come intimamente connesso ad altri fatti esteriori ad esso, tanto che senza di questi non potrebbe essere quello che è. E ,se vi sono oggetti le cui note ed i cui rapporti sono immobili e fissi, ve ne sono altri in cui le qualità che li costi tuiscono ed i loro molteplici rapporti con enti fuori di essi si trasformano e cangiano. È chiaro allora che l'entità logica dell'oggetto si accresce e si complica. Può avvenire ancora che l'oggetto che ora è studiato comparisca come l'ultimo risultato di una storia spe ciale propria o di una storia di altri enti simili o dis simili da esso; onde l'importanza delle note attuali che lo costituiscono si accresce e mostra cosi una n a tura assai più elevata.La rappresentazionelogicaha cosi una considerevole latitudine ; perchè principia quando il soggetto vede almeno due note nell'oggetto e si conserva ancora quando si è scoperto in esso un numero grandissimo di qualità. Si è detto e ripetuto che è il linguaggio che segna nell'uomo ilprimo apparire delle attivitàlogiche.Ma non si considera che la parola linguaggio, avendo un largo contenuto esignificandoqualsiasimanifestazione dei fatti interni psichici,siano sensitivi che rappresenta tivi ed emotivi,ha una larga applicazione cosi nel campo    animale come nel campo umano ;onde non si vede con determinazione la necessità del coesistere solamente nell'uomo del linguaggio e della funzione logica,si deve però ammettere che la lingua che è un linguaggio formato e divenuto classico (onde vi è differenza tra linguaelinguaggio),quandoèbeneusata dal sog getto uomo,può far vedere in questo le più grandi energie logiche,all'istesso modo che una lingua im perfetta o poveramente usata può manifestare nell'uomo rudimentali qualità logiche. Però non si può concedere che deva necessariamente intervenire la lingua per potersi trovare nella sfera logica e perpoterecompierefunzionilogiche.Individui nati muti o sordo-muti possono compiere con grande coerenza logica i loro atti, all'istesso modo che la lo quela non sempre rivela una perfetta energia logica, come avviene per disordini nervosi e mentali o per ritardato sviluppo di tutte le attività psichiche. Al l'incontro ciò che è indispensabile perchè il soggetto compia le più elementari funzioni logiche è l'oggetto della percezione e la rappresentazione molteplice del l'immagine di esso, come è manifestato dagli atti e dalla condotta che gli animali e l'uomo non ancora parlante hanno verso quegli oggetti sui quali si eser cita la loro attività e dal giovarsi che l'animale fa dialcunequalitàdeglioggetti.E larappresentazione molteplice dell'immagine degli oggetti è anzitutto necessaria ancora per l'uomo logico che parla,la r a p presentazione e l'esecuzione della parola udita, par  16   lata e scritta non essendo che un'altra specie di r a p presentazioni specialideglistessioggetti sopraggiunta alla prima;per cui illavoro psicologico elogicodel l'uomo è assai più complicato di quello dell'animale, anche perchè, per la sua grande energia psichica, l'uomo moltiplica le rappresentazioni relativamente semplici che delle cose hanno gli animali,onde il lin guaggio diventa nell'uomo assai più intricato e com plesso. Segue da ciò che il linguaggio umano è una nuova aggiunta che si fa alla rappresentazione pri mitiva dell'immagine delle cose; ma rimane sempre questa l'obbietto delle attività logiche cosi animali come umane. Questo è ancora dimostrato dalla patologia del lin guaggio umano;poichè è statoconstatatoche,quando l'uomo perde la memoria della immagine percepita delle cose e conserva la ricordanza della parola udita, parlata o scritta,che ad essa corrispondono, la sua lingua è divenuta un caos; perchè, essendo perduto il nesso tra la cosa e la sua parola udita e parlata, l'attività logica non si può esercitare sulle parole, perché non si può esercitare sulle cose, come allora è manifestato dalla sconnessione e dalla incoerenza del linguaggio.  -1   Del giudizio e dei suoi elementi. Quando il soggetto distingue per la prima volta un dualismo nell'oggetto, cioè da una parte quello che, prima di questo atto psichico,costituiva tutto l'og getto, indistinto nelle sue qualità, e dall'altra quello che scorge ora in esso mediante l'atto di distinzione e vede che questo è connesso con quello in modo che senza di esso non sarebbe,si fa quel che si dice un giudizio. Sicché per avere un giudizio occorrono due fatti distinti fra di loro ed un atto psicologico che li connetta.Però bisogna considerarequestitreelementi di cui consta il giudizio come dati tutti e tre insieme nello stesso atto. Dei due fatti che possono dirsi anche termini,perchè significati con parole, il primo, quello che prima del l'atto psicologico faceva una sola cosa con la qualità che ora si distingue da esso e che meglio osservato e scrutato può mostrare altre qualità inerenti a sé,onde può divenire obbietto di altri giudizii,si chiama sog getto;la nota che gli si attribuisce sidice aggettivo  - 18 II.   od attributo ; l'atto psicologico col quale gli si attri buisce è il verbo. Bisogna bene intendersi sul significato della parola soggetto che si usa nel giadizio. In generale soggetto significa ente attivo, ente operoso. Si chiama soggetto l'anima cosciente e distinguente sè dall'oggetto e nel l'istesso tempo l'anima che esercita la sua attività sul mondo esteriore che considera come suo oggetto. E poichè dall'animale inferiore all'uomoedall'uomoemi nente per pensiero e per azione questa attività cono scitiva ed operativa sempre più si afferma e cresce, è cosi che la parola soggetto,quantunque possa ap plicarsi indistintamente alla serie degli enti animali, pure compete in sommo grado all'uomo ed all'uomo che abbia la più grande energia nel campo del pen siero e dell'azione. Intesa cosi la soggettività, scendendo dall'animale alla pianta, sembra non essere più il caso di dovere applicare la parola soggetto;ma,poichè la pianta è un organismo dutato di attività la quale consiste nel compiere una serie di funzioni interiori per le quali è continuamente messa in rapporto coll'ambiente este riore ad esso (aria,luce,terreno)e manifesta, quan tunque in modo assai più imperfetto di quel che si compia nell'animale, per mezzo di una serie di feno meni esteriori, i suoi fatti interiori ed il suo orga nismo compie una storia, pure si può concedere il nome di soggetto alla pianta la quale cosi manifesta anche essa una certa energia.  19   Ma igrammatici ed ilogici hanno anche dato il nome di soggetto non solo ad ogni opera dell'uomo, che può considerarsi come un tutto armonico in sé, avente un determinato fine,ma ad ognipartediessa, ad ogni ente della natura inferiore ed inorganica o adunframmentodiessa,adogni minerale,adogni fatto ineccanico o chimico e financo hanno consi derato come soggetto le qualità e gli attributi stessi delle cose.Però l'uso che in questo caso i gram matici hanno fatto della parola soggetto può essere giustificato,considerando che ciascuno degli enti in feriori agli enti organici e psichici è sempre un com plesso, anche quando sia semplice parte, di qnalità o proprietà concentrate e connesse insieme; onde, rigo rosamente parlando, non si può negare ad essi una certa energia senza la quale le proprietà non potreb bero esistere in essi; possiamo chiamare questa energia, meccanica, fisica o chimica; ma è sempre una energia E non si può non concedere che le qualità stesse che si considerano come attributi delle cose possano essere considerate ancora esse come soggetti,quando si riconosce che ciascuna qualità,essendo inerente a molti soggetti i quali hanno altre proprietà differenti, contribuisce in modo differente all'energia di ciascuno di essi. Cosi quando si parla della gravità che è una proprietà dei corpi, si vede che essa si manifesta di versamente secondo che si tratta di an corpo gassoso o di una pietra o di un liquido o di un pendolo o del sistema planetario.  20-   Quando ilsoggettodelgiudizioèconsiderato o stu diato dal soggetto psichico allora può anche chiamarsi oggetto; perchè, quantunque attivo in sè, è sempre qualche cosa di passivo relativamente al soggetto psi chicoilqualeesercitalasua azionescrutatricesudiesso.  - 21 Il secondo termine del giudizio, cioè quella qualità o quella determinazione che, quantunque insita nel soggetto o estranea ma conveniente ad esso,per mezzo dell'atto psicologico gli si riconosce come connessa, è stata chiamata dai logici attributo o predicato.Rap presentando il soggetto un gruppo di proprietà dif ferenti, suscettivo di ulteriori giudizii,e l'attributo una sola qualità o determinazione,è chiaro che questo può essere applicabile a più soggetti, non essendo ciascun soggetto costituito di attributi assolutamente speciali a sé; ma in mezzo ai tanti attributi comuni a molti soggetti ha solo qualcuno che conviene esclu sivamente a lui. Dei molti attributi che costituiscono un soggetto una parte sono sensibili o percettibili per mezzo degli organi dei sensi. Ogni oggetto del mondo esteriore è fornito di peso,ha una grandezza variabile, una re sistenza, è situato ad una certa distanza dallo spet tatore, ha una forma fissa o cangiante,un colore,una composizione mineialogica, chimica o organica, può presentare una struttura determinata, uno stato ter mico, può vibrare in modo differente nella intimità clelle sue molecole, può esercitare un'azione più o meno irritante o elettrica o offensiva sull'organismo   del soggetto,può dare speciali odori,può essere gn. stato per mezzo della lingua. Ma vi sono altri attri buti i quali non sono percepiti per mezzo degli or gani dei sensi ma vengono compresi mediante un atto della mente, quantunque le attività percettive possano contribuire o avere contribuito alla comprensione di queste nuove specie di attributi. Sono tutte quelle qualità che riguardano la provenienza od il fine del soggetto,isuoirapporticon altrioggetti,lasuaazione favorevole o nociva su di essi o viceversa. Inoltre il soggetto acquista attributi non semplicemente sensi bili quando desta in noi stati interiori piacevoli o do lorosi,ricordanze,speranze etimori,ma qualche cosa di più che sensibile, poichè in quel caso viene scossa l'intimità della nostra vita interiore.  22 Quantunque a primo aspetto sembri che ogni at tributo sia una qualità semplice e non suddivisibile in altre qualità,benchè una qualità possa averevari gradi d'intensità, ciò che non la fa considerare come qualche cosa di fisso, pure può una qualità essere il risultato di un sistema di altre condizioni o attributi. Quando diciamo che l'animale è sensibile,la nota della sensibilità pare che sia una qualità sola; ma, se si pensa che per essere sensibile l'animale deve im plicare una serie di organi e di funzioni e di condi zioni esteriori all'organismo, si è costretti ad ammet tere che quest'attributo è come la risultante di fatti molto complessi, non è dunque un attributo semplice. Se diciamo che Giulio ė ragionevole quest'attributo è   2:3 Il soggetto e l'attributo non potrebbero costituire il giudizio senza l'atto psicologico col quale l'uno ė connesso con l'altro; senza questo atto i due termini non avrebbero fra di loro altro legame fuori quello accidentale della coesistenza e della successione, che è un legame psicologico, non logico. Rigorosamente parlando,è quest'atto che costituisce ilverogiudizio; però senza i ter.nini esso non potrebbe essere, non sarebbe che una mera possibilità. Questo atto che è espresso dal verbo è quella scrutazione che l'anima attiva fa tra i due termini, per la quale si riconosce che l'uno è connesso indissolubilmente,intimamente e necessariamente con l'altro.Questo nesso intimo che lega i due termini è un fatto obbiettivo delle cose, non è una pura produzione dell'atóività psicologica, però non si pno pervenire ad esso senza l'attività picologica. È questa un'alta attività a cui l'anima umana per viene;perché per mezzo di essa può internarsi nella natura dell'obbietto, vederne il movimento, compren derlo ed assimilarselo. Sicché non si arriva al fatto logico senza l'attività psicologica e senza di questa l'energia logica rimarrebbe nella inconsapevolezza delle cose naturali, rimarrebbe per sempre muta ed inco municabile ad alcuno, Per questo vgni atto giudica  di una natura cosi complessa che deve presupporre un ricco sistema di condizioni perchè possa darsi. L'attributo ragionevole perciò non implica un fatto cosi semplice come l'attributo pesante.   tivo non è un atto meramente psicologico,ma è anche obbiettivo, il suo contenuto cioè corrisponde al conte nuto delle cose;ed in quest'atto si uniscono e com penetrano l'energia psichica e l'energia delle cose. Con l'atto giudicativo, subbiettivo insieme ed ob biettivo, si entra nel vero campo logico e si può dire che è sul giudizio che poggia tutto l'organismo logico e che è il giudizio, considerato nel suo sistematico svolgimento,che costituisce la parte più importante della logica e che il primo prodursi della più rudi mentale attività giudicativa dell'uomo o dell'animale segna ilprimo apparire del mondo logico. In generale si può dire che sempre che ilsozgetto principia a giudicare l'oggetto della percezione o la  24- Però'seil giudizio come necessaria convenienza dell'attributo al soggetto è la forma più perfetta alla quale il soggetto pensante non arriva se non dopo una lunga educazione,vi sono molte forme di giudizio inferiori ad essa, che possono considerarsi come tanti tentativi che l'anima fa per penetrare nell'intimità delle cose ed impadronirsene. Ciò conferma il fatto che non vi è un limite netto tra la psicologia e la logica e che se vi è una parte della psicologia quella inferiore, in cui non vi è nulla di logico,e che se vi è un'altra parte della psicologia, quella ultima e più raffinata, in cui ogni energia o la più parte delle energie sono logiche, vi è una larga zona psicologica in cui si manifestano le prime tendenze logiche ed in cui il lavoro logico è eseguito allo stato bruto.   rappresentazione di esso,allora questa cessadiessere rappresentazione psicologica e diviene rappresenta zione logica ; e non vi è alcuna rappresentazione logica la quale non sia insieme, implicitamente od e s p l i c i t a m e n t e , g i u d i z i o . E , s e l ' i n f i m o g r a lo d e l l a r a p presentazione logica deve implicare un solo giudizio almeno nella sua forma primitiva e bruta,un'alta rap presentazione logica si ha quando essa implica un gran numero di giudizii. Delle tre parti in cui si può considerare divisa la logica (la meccanica, la chimica e l'organica), la rappresentazione logica cosi intesa esaurisce le due prime parti. Se l'anima non può principiare ad eseguire funzioni logiche dall'infimo al massimo grado se non quando è divenuta percettiva,perchè allora solamente distingue fra di loro i fatti del mondo esteriore e distingue al cune proprietà di ciascun fatto,giacchè senza la mol teplicità dell'obbietto non può eseguirsi funzione lo gica di sorta, nondimeno non in tutto quello che per cepisce od in tutto quello che si rappresenta nella coscienza interiore vi è energia logica o, quando vi è, non vi è all'istesso grado in tutto. L'anima vivente o va incontro ad una varietà di fatti e steriorioquestilesipresentano a caso ovvero a s siste ad un inovimento di rappresentazioni o fa l'una cosa e l'altra insieme ed intercorrentemente. Questi fatti si succedono o coesistono fra di loro e sono per cepiti dal soggetto nella loro successione o nella loro coesistenza. Ogni fatto deve perciò connettersi ad un  25   altro fatto; e questa connessione può essere di due specie,o casuale estrinseca,ovvero intima,vera,con veniente. Bisogna però distinguere la casualità e la estrin- sechezza,tra ifatti psichici,che rimane sempre tale pel soggetto, per quanto questo possa elevarsi alla più alta attività psichica,dalla casualità e dalla estrin sechezza che apparisce tale al soggetto solo tempo raneamente nel primo periodo della sua storia,quando non ancora è giunto al grado di potere compiere un lavoro psicologico cosi intenso da sapere vedere una connessione intima tra due fatti; onde questa gli si presenta estrinseca senza esser davvero tale e, con un ulteriore sviluppo dell'attività soggettiva,sparisce la estrinsechezza e comparisce la intimità. no Non si può non ammettere però che questa estrin sechezza vera è in certo modo relativa al grado di sviluppo dell'attività del soggetto psichico;perchè,a vendo ciascun soggetto nel mondo es'errore un campo  - 26 Nel caso della estrinsechezza vera, per quanto in oggetto si succeda ad altri od apparisca al soggetto in concomitanza con altri oggetti, anche con un ac curato studio, non si saprà mai trovare una ragione del succedersi di un avvenimento ad un altro o della coesistenza di un fatto con un altro, di una qualità con un oggetto;giacchè ciascuno oggetto apparisce come assolutamente indipendente dirimpetto all'altro, perchè non lo modifica in alcun modo nė ne ė dificato.   speciale nel quale si esercita la sua attività, onde é messo frequentemeate in rapporto di coscienza solo con un determinato aggruppamento di oggetti, egli può vedere meno di estrinsechezza tra questi oggetti che non tra quelli estranei alla sua azione.In ragione che il soggetto allarga sempre più il suo campo og gettivo e lo scruta con maggiore intensità l'estrinse chezza si allontana sempre.E quando l'obbietto del l'attività soggettiva è tutto l'universo allora il filo sofo,guardando le cose dal più alto punto di vista che è quello dell'unità,non vede più estrinsechezza di sorta tra le cose;perchè ogni cosa vi apparisce come organo di un vasto sistema ed è necessariamente connessa a tutti i gradi di esso. La intimità,laveritàelaconvenienzatradueog getti (e perciò tra due rappresentazioni) o tra un og getto ed una sua proprietà si ha allora quando l'uno non può essere in alcun modo indipendente dall'altro per cui sempre che è dato l'uno è dato l'altro o, se prima è dato l'uno, dopo verrà necessariamente dato l'altro. Ora questa intimità ha vari gradi che possiamo riepilogare in tre zone logiche principali,presentando ciascuna zona immense gradazioni.  27 La prima zona, quella più elementare in cui si de signano le prime linee del mondo logico, di là dalla quale vi è il puro mondo degli oggetti delle percezioni e delle loro rappresentazioni scomposte e sconnesse, ha questo di particolare che in essa alcuni oggetti o r a p p r e s e n t a z i o n i s o n o , è v e r o , l e g a t e , d a n e s s i i n t i m i, m a   28 questa intimità è al suo minimo grado,rasenta quasi la estrinsechezza;perchè della loro intimità non si vede altro che il semplice succedersi costantemente diuna rappresentazioneadun'altraodilsemplicecoe sistere di una rappresentazione con un'altra.E questa conquista il soggetto può avere fatto non solo per pro pria esperienza ma anche per tradizione o per quel che si è detto consenso degli uomini. Qui non si vede alcuna ragione della convenienza delle due rappre sentazioni,alla qualeilsoggettorimaneperfettamente estraneo; e tutta l'attività del soggetto si esaurisce nel vedere questo puro costante coesistere e succe dersi delle cose e perciò il giudizio che esso compie è semplicemente meccanico, non fa che constatare quanto avviene nel mondo naturale. Così l'attività del soggetto qui è meccanica e delle cose non afferra che il semplice meccanismo,l'energia più elementare della natura, il muoversi delle cose per la loro pura gravità o per la loro forza od il muoversi per forze estranee ad esse ma che agiscono su di esse. In questa zona logica va compresa anche quella elementare attività giudicatrice mediante la quale si scopre o constata qualche proprietà o qualità che in teressa gli organi sensibili e percettivi del soggetto, come il sole è luminoso ; è un'attività giudicativa molto elementare.A questa zona logica possono per venire gli animali superiori e quegli animali inferiori i quali si elevano alla percezione, quantunque gli a nimal¡ non possono esprimere con paroletaligiudizii,    poichè bastano certi atti o movimenti che l'animale esegue adimostrarecheessohacompiutoungiudizio. Ma questa attività meccanica logica non solamente rappresenta la prima epoca dell'energia logica umana e l'energia dialcuni animali,ma anche quando l'uomo è atto ad elevarsi ad una attività logica superiore compie ordinariamente giudizii logici meccanici. È questa la posizione dell'uomo incolto. Di tutti gli a v venimenti naturali ed umani ai quali egli assiste non può vedere altra intimità che quella meccanica ed estrinseca ; alla ragione intima dei fatti egli non perviene. La seconda zona che si dice chimica e che sta più in alto alla precedente ed alla quale non si perviene se non per mezzo della precedente rappresenta quel campo della logica in cui il soggetto può compiere un più complesso lavoro di penetrazione tra gli og getti, onde quei nessi intimi che prima vedeva in modo quasi estrinseco sono visti davvero nella loro intimità. La parola chimica sembra bene adoperata;perchè cor risponde a quello stato della energia della materia in cui gli elementi relativamente semplici si compe netrano ed uniscono insieme per formare un corpo di una più elevata natura ed in cui corpi di complessa natura si scindono nei loro elementi sem plici;ondelachimicadelcampo logico corrisponde a quel grado delle attività psicologiche per le quali il soggetto afferra la convenienza vera di un oggetto. e delle sue proprietà e vede le intime ragioni per le  29 nuovo   La zona chimica logica si evolve cosi dalla mec canica non solo, ma questa coesiste nella chimica; perchè, anche quando vediamo il rapporto chimico di duerappresentazioni,vièsempreillato meccanico, l'incontro cioè di due oggetti o di un oggetto ed una qualità,quantunque questo meccanismo sia assorbito e trasformato dal chimismo. Avviene nel campo lo gico quel che avviene nel campo naturale in cui il chimismo implica ilmeccanismo,quantunque non sia semplicemente tale,essendoilmeccanismotrasformato ed elevato ad un più alto grado di esistenza nel chi mismo il quale senza di esso non potrebbe darsi. Però non bisogna credere che, quando l'uomo è ar rivato alla zona chimica della logica tutti i suoi atti logici siano giudizii chimici;perchè questi,implicando una grande difficoltàacompiersi,nonpossonofarsida ciascun uomo che in un campo speciale che ha scelto come materia del suo studio e delle sue ricerche; il resto della sua attività logica è rappresentato sempre dal meccanismo e questo può intercorrere nel chimi smo logico od alternarsi ad esso.  - 30 quali il soggetto non può fare a meno di quellapro prietà e questa deve sempre necessariamente andare congiuntaalsoggettoinquellecondizioni.É questo, si può dire, il campo della conoscenza vera e della scienza dove il soggetto compie le più elevate forme di giudizio,risultato di una lunga scrutazione psico logica nei rapporti delle cose.   III. Il giudizio nella sua for.na più elevata, implicando quell'atto del soggetto cosciente mediante il quale si riconosce che ad un oggetto del mondo naturale o ad un ente spirituale che qui diviene soggetto logico con viene intimamente e necessariamente un dato at tributo, esprime un rapporto tra i due termini che nelle stesse condizioni,deve essere tale costantemente, sempre vero, oggi e sempre, qui ed ovunque. Per questa ragione il giudizio non va soggetto a m u t a zioni per tempo e perciò si esprime sempre com'è,in tempo presente.Ogni dubbio,'ogni incertezza circa alla concordanza perfetta dell'attributo col soggetto nondarebbeilverogiudizio;seperòilsoggetto ri conosce l'incertezza nel suo atto giudicativo e c e r c a di uscirne per addurre la verità , sforzandosi di eser. citare tutto il suo potere percettivo nella scrutazione dei termini e nel loro rapporto, allora l'incertezza è unbene,perchèciconducealverogiudizio.Per la stessa ragione, quando in un giudizio interviene il de  - -31 Considerazioni sul giudizio.   siderio o la speranza od iltimore,non siavrà ilvero giudizio.  - 32 I logici classici si sono molto occupati della nega zione nei giudizii e li hanno perciò distinti in affer mativi o positivi e negativi: affermativi sono stati detti quei giudizii in cui si riconosce che l'attributo conviene al soggetto, negativi quelli in cui questa convenienza non si ha.Ma evidentemente ilogicinon hanno ammesso che è sull'oggetto della percezione o della sua rappresentazione che primitivamente deve volgere ogni giudizio e che bisogna guardarsi bene dal giudicare prima di avere studiato e scrutato bene l'oggetto.Se questo sifacesse,sivedrebbelainutilità e la vacuità di una gran parte di qnesti giudizii ne gativi,come è dimostrato anche dal fatto che alcuni giudizii negativi possono tradursi in positivi.Quando si ammette che un dato corpo non è solido, implici tamente si ammette che è liquido o gassoso.Per que sta ragione i veri giudizii devono essere tutti positivi; perchè, rigorosamente parlando, lo scienziato deve conoscere quello che una cosa è non già quello che non è. Quando si tratta che il soggetto può avere uno di due attributi che sono fra di loro contrari e che se gli convieneuno di essi gli sconviene neces sariamente l'altro, si dice che allora si possono for mulare due giudizii,l'uno negativo e l'altro positivo. Ma è facile osservare che, fatto il giudizio positivo, è perfettamente inutile formulare il negativo ilquale con parole diverse,per mezzo della negazione,ripete la positività del primo giudizio.   33 Vi sono però dei casi in cui pare che il giudizio negativo dovrebbe aver luogo. Cosi noi sappiamo che una data pianta deve fiorire; se la guardiamo in un'e poca in cui il fiore non è apparso,dobbiamo dire che la pianta non è fiorita; ma d'altra parte è in es.a la possibilità di dovere fiorire; poichè in tutti i fatti che implicano uno svolgimento od una storia non tutte le qualità che devono costituirli possono essere date belle e compiute dal bel principio; perchè ciò escluderebbe la storia; a ciò pensando, la pura nega . tività di questo giudizio è spuntato. Che se poi guar diamo la pianta non fiorita come ci si presenta per cettivamente, allora non si ha alcuna ragione a par lare di negazione. Sappiamo inoltre che la sensibilità deve essere un attributonecessarioall'uomo;ma permalattiedelsi stema nervoso questa funzione può perdersi, onde il direalloraquest'uomonon sensibile,potrebbepa iere un giudizio negativo incontestabile; ma si tra scura di considerare che quani'o l'uomo è divenuto insensibile non è pixi l'uomo compiuto, ma l'uomo che è nel declivio della dissoluzione e della morte e che, dicendo che non è sensibile, si riconosce che la sua  Molti, parlando e scrivendo, anche di cose scienti fiche, fanno grande uso di questi giudizii negativi ; ma èquestaunaconsuetudinedilinguaggiochequalche volta fa anche vedere la poca sicurezza e la povertà delle nostre cognizioni; perchè il difficilc non sta nel dire quel che una cosa non è,ma qnelcheèdavvero.   attribuzione sarebbe la sensibilità e che questa si è perduta solo per condizioni morbose. Nondimeno se il giudizio negativo è possibile esso può solo avere laragionediessereinquesticasididissoluzione edi sfacelo degli organismi e delleistituzioni,quantunque anche allora,stando alla semplice percezione, si po trebbe semplicemente giudicare quel che l'oggetto pre senta di positivo ; m a allora il soggetto che pensa non può fare a meno dal paragonare la primitiva gran dezza o la perfezione tipica di una data cosa con la dissoluzione e la rovina presente, onde quel che è ora è la negazione di quel che era prima. Può avvenire lo stesso quando si tratta di paragonare varioggetti fra di loro. Il giudizio nella sua forma classica è rappresentato dal soggetto, dal presente del verbo essere e dall'at tributo. M a il soggetto per tenere avvinto a sè l'at tributo deve esercitare una certa energia che indica il vero nesso tra il soggetto ed il suo attributo ; ora il g i u d i z i o f o r m u l a t o i n q u e l m o d o n o n f a v e d e r e t u t t a questa attività del soggetto,ne fa vedere,si può dire, la minima parte. All'incontro sono i verbi attributivi i quali possono risolversi nel verbo essere e nell'at tributo, che manifestano la vera energia, la vera at tualità del soggetto, che costituisce il giudizio nella sua realtà vivente; perchè fanno vedere il soggetto che si manifesta nel suo attributo e fanno vedere l'at tributo vivificato dal soggetto.Per questa ragione il giudizio espresso nella sua forma classica trova più  - 34 -   ragione di essere applicato nelle sfere inferiori mec . caniche della natura,quelle che manifestano una energia più povera, relativamente alla energia animale ed umana erelativamente all'altaenergiadella vita dello spirito. Qui tutte le attività, tutte le funzioni che si esercitano e che si esprimono con verbo sono gin dizii viventi. Se diciamo questo corpo é rotondo l'a' tributo, quantunque inerente al soggetto, pure è con siderato come qualche cosa d'indifferente ad esso.Qui si tratta del giudizio nella sua primitiva forma. Ma se diciamo questa pianta fiorisce facciamo un giudizio della seconda forma, perchè qui vediamo il soggetto che crea il suo attributo e vive in esso Ammesso il concetto del giudizio qui dato, risulta evidente che ogni giudizio implica una sintesi ed una analisi insieme e nello stesso atto. L'analisi vi dà la dualità dei termini, siano nello stesso soggetto che tra due oggetti ; e l'analisi è un morrento necessario a l g i u d i z i o ; p o i c h è s e n z a il d u a l i s m o g i u d i z i o n o n v i sarebbe ; m a d'altra parte cesserebbe l'atto stesso del  e per esso. Più elevata e spirituale è la natura del soggetto e più è ricco di attività speciali e più verbi glisipos sono attribuire e più giudizii compie, svolgendosi e vivendo.Più ilsoggetto appartiene alle sfere della materia bruta e meno verbi gli si possono attribuire 35 più le sue qualità possono essere espresse con la forma classica del giudizio; ma ciò non toglie che anche giudizii di questa fatta possano eseguirsi sopra alcuni soggetti di elevata natura.   giudizio se questo non fosse insieme sintetico; cés sando la sintesi cesserebbe anche l'analisi e viceversa. Non vi sono perciò giudiziipuramente analiticinè pu ramente sintetici;per conseguenzailsoggettovivente compie continuamente un'analisi ed una sintesi delle sue qualità e lo scomparire dell'una o dell'altra ap porta la morte di esso. Quando diciamo giudizio diciamo ancora ragione, pensiero. Però come il giudizio consiste più nell'atto psicologico,corrispondente al nesso intimo che vi è tra due rappresentazioni, che nella distinzione dei ter miui, quantunque i termini siano necessari al giudizio e senza di essi giudizio non vi sarebbe,lo stesso deve dirsi del pensiero e della ragione. Se non che queste due parole, considerate come semplice giudizio,dicono molto meno di quel che dicono quando sono adoperate nel senso assoluto del loro contenuto. Quando diciamo il pensiero,la ragione si vuole intendere il sistema di tutti i nessi possibili di tutte le rappresentazioni delle cose della natura e dello spirito insieme, sog gettivamente ed oggettivamente considerate. Quando poi sono applicate come semplice giudizio equivalgono ad un pensiero,una ragione. Per alcuni logici la parola proposizione esprime la stessa cosa chela parola giudizio eperòsiadoperano promiscuamente queste due parole. Ma se vi sono verbi attributivi che possono ridursi a giudizio,ve ne sono però altri i quali non vi si possono ridurre, perchè non corrispondono pienamente a quel che siè detto dovere essere un giudizio. Quando conosciamo  36   Si comprende però che gli avvenimenti storici pos sono essere guardati dal punto di vista estrinseco e quasi accidentale come fanno gli storici che riprodu cono i fatti semplicemente nel modo come sono suc cessi;ma questistessifattipossono ancheesserestudiati scientificamente e filosoficamente, considerati cioè in quel che essi hanno di intimo,di necessario e di co stante; allora, entrando quei fatti nel dominio della scienza,possono divenire obbietto di giudizii,  37 le proprietà e le speciali energie dei fatti naturali o psichiciosociali,ecc.allora possiamo faregiudizii; perchè si hanno avvenimenti e fatti che sono sempre gli stessi nelle stesse condizioni e si manifestano co stantemente ad un modo; ma se narriamo le gesta di Annibale o di Alessandro, ciascun verbo che siamo costretti ad operare non può essere il verbo di un giudizio;perchè esprime un avvenimento singolo che non è stato prodotto che da quel tale individuo in quelle sue particolari condizioni ed in quelle condi zioni di tempo,di luogo,in quello stato speciale di un popolo,avvenimento che non può più riprodursi e perciò il giudizio non si ha quando si deve espri mere uii fenomeno che non può ripetersi frequente mente,che è avvenuto una volta e non piùequando non si vede alcuna necessità del suo ritorno. In questo caso,più cheillinguaggioscientificoelogico,abbiamo illinguaggio storico,ed allora,più che ilgiudiziosi ha la proposizione:cosi è spiccata la differenza tra il giudizio e la proposizione :questo esprime gli avve nimenti storici, quello i nessi logici.   Il soggetto che giudica é determinato dall'atto stesso del giudizio alla vitapratica.Ogni essere vivente,dal l'animale infimo all'uomo, si sforza, come è noto, una condotta assai elevata, presupponendo ciascun suo atto una molteplicità di giudizii;onde si vede l'intimo rapporto che passa tra una grande intellettualità e la vita pratica. ancora  38 sottomettere ai suoi bisogni la natura esteriore, ed ogni atto,ogni movimento che l'animale esegue,cer cando di fuggire il malessere e di addurre a sè il benessere,presuppone una distinzione negli oggetti concuièinrapporto.La formicachevaincercadel frumento, riconoscendo in questo la proprietà di n u trire,non solo compie un lavorogiudcativo ma anche un atto col quale manifesta tale lavoro psichico.In tutti i pericoli che gli animali schivano come in tutti i movimenti che fanno per prepararsi il nido o per andare in cerca del cibo e per conservarsi,sipossono riconoscere gli atti che presuppongono ilgiudizio,per quanto questo possa essere classificato tra i giudizii meccanici. I psicologi in questo caso parlano d'istinto; ina è sempre l'istinto nel giudizio. In questo senso gli atti degli animali equivalgono ad un linguaggio che esprime alcuni nessi logici,quantunque sia il lin guaggioin unaformabrutaemonca.Intuttigliatti che gli uomini fanno per raggiungere i loro fini e la loro felicità si può riconoscere la conseguenza di un giudizio.E si comprende come l'uomo eminente che ha una perfetta conoscenza delle cose possa avere di   IV. Formazione del concetto. Il soggetto può compiere sull'oggetto un numero grande di giudizii secondo che pixi educato e svilup pato è ilsuo potere di scrutazione e secondo che più complicata è la natura dell'oggetto. Cosi, vivendo e studiando, la rappresentazione psicologica primitiva che il soggetto ha delle cose si arricchisce di attributi e di qualità ovvero sirisolvein attributiiquali erano primitivamente confusi in quel che dicevamo oggetto e che costituivano tutto l'oggetto.Nondimeno durante e dopo questo processo di scrutazione l'oggetto rimane sempre come qualche cosa in cui alcune qualità sono distinte ed altre indistinte, potendo le qualità indi stinte ricomparire subito distinte secondo che l'attività giudicatrice si rivolge su di esse ed allora le distinte ritornano indistinte. Si verifica anche qui un'applicazione speciale di quella legge psicologica secondo la quale in una data unità di tempo il soggetto non può compiere che un lavoro limitato e,come non può scrutare che succes.  1 39   per la prima volta sipresentino allo studio del soggetto ; in questi casi è la legge generale che pre domina. Dopo che si è compiuto sopra un oggetto un n u mero considerevole di giudizii non si deve credere che allora l'oggetto sia conosciuto pienamente.Più chela conoscenza del soggetto, si ha allora la conoscenza di un mucchio di note coesistenti;perchè,se il giu dizio è un'alta funzione psicologica e lozica, non è però la più alta la quale si ha invece quando tutte le note di cui l'oggetto risulta appariscono in esso come organizzate, cioè si ha un organismo di giu  40 sivamente un dato numero di oggetti e di rappresen tazioni,per la stessa ragione non può compiere in una unità di tempo e nello stesso atto psichico che un numero limitato di giudizii, quantunque succes sivamente possano essere compiuti sopra un oggetto tuttiigiudiziidicuipuò esseresuscettivo.Perònon si può sconoscere che le abitudini della mente possono arrivare ad un'altezza cosi meravigliosa:da conside rare come compiuti una serie di giudizii che non si haavutoiltempodicompierepacatamenteodicom pierli in un breve atto : è il meccanismo che penetra nelle più elevate regioni psichiche ed in cui si sem plifica, per mezzo della ripetizione, il processo giu dicativo primario che è più lungo e difficile. Ma in questi casi si deve trattare di compiere sempre giu dizii già compiuti altre volte o negli stessi oggetti od in oggetti differenti già percepiti, non in oggetti che   dizii. In generale con la parola conoscenza si vuol dire non solo l'apprensione e la ritenzione delle pro prietà dell'oggetto e degli oggetti in connessione fra diloro,ma ancorailoronessiconlealtreproprietà dello stesso oggetto e con le proprietà delle altre cose, a differenza del pensare e delragionareincuisitiene pii conto dei nessi delle cose. Quando l'oggetto è un mucchio di proprietà, queste aderiscono a quel centro comune che primitivamente costituiva tutto l'oggetto indistinto in sè stesso ;e,se si ha qui il grande vantaggio che ciascuna nota e per mezzo dell'atto giudicativo connessa all'oggetto, non si vede la ragione del coesistere di tutte queste qualità nell'oggetto e non sivede alcuna ragione del l'incontro delle note fra di loro.La parola mescolanin che usano i naturalisti quando vogliono indicare il coesistereel'essere diparecchi corpi incontattol'uno dell'altro senza perdere la loro natura corrisponde a questa sfera dell'obbietto logico in cui si possono c o m piere molti giudizii sullo stesso obbietto, ma senza che l'uno eserciti una preponderanza sull'altro,senza che l'uno abbia un valore superiore all'altro,e perciò ciascun giudizio ha un valore per sè ; e considerati tutti fra di loro costituiscono una mescolanza. Quandoilsoggettocominciaa scorgerenellarap presentazione la proprietà più appariscente,quella sopra tutto per la quale l'oggetto ha costantemente un valore speciale ed un uso,ed intorno a questa nota costantemente si aggruppano, con nessi pi'i o  meno 3. - +1   intimi, altre note si principia a scorgere nell'oggettu i primi rudimenti del sistema il quale può darsi non solamente tra le note dello stesso oggetto, ma anche tra più oggetti, secondo il campo su cui si esercita l'attività soggettiva. Intendere logicamente il sistema significa fissarlo nel suo minimum primitivo ed in una forma più com plicata e seguirlo a mano a mano sinoallaforma piiz completa in cui cessa di essere puro sistema e di venta sistema funzionante, sistema di sistemi ed ganismo vivo.  un si OL 42 L'intendimento del sistema è stata una delle pii grandi conquiste che ha fatto il pensiero filosofico in generale ed il pensiero logico in particolare. Questa parola che primitivamente ha significato la molte plicità scomposta delle cose è stata ulteriormente usata ad indicare la molteplicità ordinata di esse. È la filosofia di Hegel che ha compreso il sis'ema nella sua forma più alta e come non era mai stato fatto prima. Considerando Hegel l'universo come stema, si è molto addentrato nella comprensione delle cose. E , come il sistema occupa una gran parte cosi nel mondo della natura come in quello dello spirito, perchè interviene in ogni grado di essi e senza il si stema nessuna cosa potrebbe intendersi, cosi costi tuisce anche una sfera del mondo logico, tanto che senza di esso non potrebbe intendersi il concetto che rappresenta in sommo grado l'energia logica. Il sistema nella sua forma primitiva trova il suo   In questa forma primitiva il sistema apparisee, anche al soggetto superiore, nel regno minerale ed inorganico od anche in tutto ciò che l'uomo, serven dosi di materiali bruti ed amorfi, foggia pei suoi bi sogni; poichè qui si hanno sempre forme inferiori di sistema.Qui le qualità connesse al sistema sono co stanti finchè dura l'oggetto ; non hanno una energia superiore a quella meccanica, fisica o del chimismo inferiore od inorganico. Il sistema solare presenta una forma più perfetta di sistema;perchè esso presenta una molteplicità,un centro ed una periferia e gli uni di cui risulta sono di visi fra di loro e dal centro per mezzo di grandi tratti di spazio e sono uniti al centro del sistema  - 13 riscontro nel regno minerale; il sistema della seconda forma trova il suo riscontro nel regno della vita ; ma anche qui si riproduce,quantunque trasformato, il sistema della prima maniera. La forma più rudi mentale di sistema si ha quando ilsoggetto aggruppa intimamente intorno alla nota più importante dell'og getto altre note secondarie od intorno ad un oggetto principale altri oggetti di secondaria importanza fra i quali passino rapporti più o meno estrinseci. È questo il sistema quale apparisce alla soggettività volgare la quale non sa considerare l'oggetto diver samente anche quando ha dinanzi a sè un sistema nella sua più alta forma quale può apparire allo scien ziato. per legge di gravitazione. Per quanto si osservi qui in la   alto grado di sistema, perchè ciascuno degli elementi non è autonomo,ma connesso al centro,pure serva tra le parti di cui il sistema risulta una grande estrinsechezza. Per trovare una più elevata forma di sistema dob biamo entrare nel regno della vita e nei tessuti che co stituiscono l'organismo animale o vegetale;ma anche qui il sistema si presenta in una grande e meravi gliosa graduazione ; perchè se in questa sfera gli ele menti che devono intervenire non sono,  - 4'1 si os non sono, come nelle formeprecedenti,esseriinorganici,ma entidotatidi vita e di una più o meno grande energia interiore e non sono divisi fra di loro per mezzo di distanzepiù o meno grandi,ma sono in qualche modo in contatto fradiloro,ilcentroperò che deve implicare ilsi stema non è sempre determinato, anzi non vi è nei sistemi dei tessuti vegetali o nei tessuti di un'impor tanza inferiore degli animali,comeperesempio iltes sutograssosoedilconnettivale.Per questa ragione ė più perfetto quel sistema in cui gli elementi istolo gici che sono dotati di vita sono non solamente con nessi od in contatto fra di loroma anche unitiinuna comunione funzionale e che vi sia un centro ove con vergano le attività degli elementi e che l'energia fun zionale dal centro s'irradii anche verso la periferia. E, come vi è una sola funzione, quantunque assai multiforme, che circola pel centro e per le parti che, per contrapporle al centro, possiamo chiamare peri feria, vi deve anche essere la stessa identità di co   stituzione chimica tra gli elementi istologici di cui risulta il sistema. I biologi distinguono il sistena dall'apparecchio il qnale consiste in un complesso di organi di varia strut tura,ordinatiinmodo fradiloroda compiere'una: funzione di complessa natura.Cosisidice apparecchio respiratorio, uditivo, visivo, ecc. Inteso l'apparecchio in questo senso, ha una importanza logica intermedia tra l'organo ed il sisteina, superiore a quello, infe riore a questo. Ma un siste.na della vita non ha che una funzione speciale e non autonoma; perchè è connesso agli altri sisteini e non può compiere questa funzione senza l'in tervento e l'aiuto di altri sistemi. È qui che l'auto nomia del sistema principia a venir meno ; perchè cia. scun sistema non fa che compiere una funzione spe ciale in un sisteina che co.nprende tutti i sistemi della vita, ciò che s'indica col no.ne di organismo. Anche dicendo sistema di sistemi si dice sempre meno di quel che dice la parola organismu, la quale include una grande intimità e reciprocità funzionale tra i singoli sistemi e tra gli elementi istologici di cui risulta il sistema.  - Da questo punto di vistasesideve riconoscere che il sistema circolatorio sanguigno sia un grande si stema si deve però ammettere che non vi è nell'orga nismo un sistema più compiuto del nervoso, sia per la elevatezza della funzione che per la meravigliosa struttura e per la ricchezza e bellezza delle forme che esso presenta.   Nel sistema una parte può venire sottratta senza cheilrestodies30vadainrovina;maun organo qualunque dell'organismo non può essere tolto senza che l'organismo non perda una nota fondamentale della vita, la quale induce una diminuzione generale della perfezione organica e funzionale e se l'organo ha una importanza grande nell'organismo adduce la caduta o la morte di esso. La parola fisiologismo adoperata nel senso moderno (non nel senso antico e greco secondo il quale signi fica semplice attività naturale) contrassegna la nota più saliente dell'organismo che è la vita animale.Però il fisiologismo non è una sfera naturale autonoma ed indipendente dalle altre zone inferiori naturali;in esso  -46 Sipuò dire che solamente in questo secolo,pei grandi progressi che si sono fatti negli studi sulla vita in senso largo, si è potuta comprendere la grande importanza dell'organismo. Quando si dice che l'uni verso èun organismosivuole indicare un fattodiuna natura assai più complessa ed elevata che quando si dice che esso è un sistema. Quegli elementi che nel sistema diciamo parti nell'organismo diventano organi iqualisono,èvero,parti,manonconnessialresto più o meno estrinsecamente, come avviene nel sistema ordinario ; e sono elementi attivi e funzionanti pel resto dell'organismo tanto che contribuiscono grandemente a tutta l'energia dell'organismo e viceversa, questo dà ad essi un alto significato che, fuori dell'organismo, non avrebbero.   Ilchimismo,quantunquerappresenti una seriedi fatti inferiori a ciò che costituisceilfisiologismo,pure costituisce parte integrante di questo, cosi nel senso scientifico come nelsenso logico,tanto che senzachi mismo non potrebbe darsi fisiologismo; poichè non vi è funzione fisiologica la quale non implichi una serie di complicazioni e riduzioni chimiche. E , poichè non vi è fatto chimico che non implichi nello stesso tempo fatti meccanici e fisici; il fisismo èparte integrale del chimismo,cosi scientificamente come logicamente,e per conseguenza anche dell'organismo. Ed il fisismo si trova nel fisiologismo non solo come assorbito dal chimismo, ma anche come indipendente da questo. Cosi nell'organismo, oltre ai fatti chimici si trovano fatti anche puramente fisici, quantunque questi si tro vino in complicazione coi fatti chimici e fisiologici ; ma però il soggetto può fissarlied isolarli dagli aitri fatti e considerarli come puramente fisici. Avviene cosi nell'organismo logico quel che avviene nella natura in generale in cui le zone inferiori sono ciascuna autonoma e per sè e nell'istesso tempo in al troeper altro.La meccanicaela fisicarappresentano  - 47 invece sono implicate il chimismo ed il meccanismo ofisismo (adoperando anche questa parola nel senso m o d e r n o n o n n e l s e n s o a n t i c o s e c o n d o il q u a l e v o r r e b b e indicare semplicemente il fatto naturale. Si sa che la fisica moderna studia solamente alcuni fatti della n a tura, come la gravità, il calorico, la dinamica, l'elet tricità,la luce,la vibrazione dei corpi,ecc.).   alcuni gradi della natura dove si manifestano in tutto il loro potere.Ed anche la chimica è una zona per sé della natura,ma frattanto in questa devono ne cessariamente intervenire le sfere precedenti, mecca nica e fisica, altrimenti non potrebbe sussistere come chimica.E similmente i fatti più complessi della na tura quali sono la vita vegetale ed animale non po trebbero sussistere senza le due zone precedenti ; giac chè non vi è fenomeno vegetale ed animale senza che v'intervengano fatti fisici e chimici. Ifisiologi,inquestiultimitempi,avendo riscon trato fatti meccanici nell'organismo ed una certa so miglianza dell'organismo al meccanismo, si sono stu diati a tracciare le differenze che passano tra l'orga nismo ed il meccanismo ed hanno conchiuso che l'organismo non è un meccanismo. Per quanto giuste sieno state le osservazioni fatte, pure avrebbero rag. giunta una più vera conoscenza dell'organismo se avessero detto che esso implica ilmeccanismo, quan tunque il meccanismo che si trova nell'organismo non sia come quello che si trova nei congegni meccanici, ma trasformatoecomplicatodaifattidellavita;ondeé sempre una sfera dell'organismo.  18 Nel campo psicologico si raggiunge la sfera della perfezione quando l'anima èdivenuta organismo degli stati suoi, di sè stessa e dell'oggetto, ciò che è la mente; e non si raggiunge questo punto senza essere passati pel meccanismo psichico prima e pel chimismo poi;enondimeno queste due formediattivitàpsichica   esistono sempre nella mente come due sfere subordi nateefondamentali per essa,tanto che quando l'or ganismo mentale comincia a decadere, permanentemente o temporaneamente, ricomparisce il chimismo prima e poi gradatamente il meccanismo come forme autonome psichiche,e,quandoperunaincompiuta educazione psicologica,l'uomo non raggiunge la mente, si arre sta al chimismo. Il meccanismo psichico pure contras segna la vita animale e l'ultimo stadio di decadimento della mente già compiuta. La parola organismo trova più propriamentelasua applicazione, che non la parola sistema, quando si vuole significare in modo saliente quel che sia la fa miglia,lasocietàoloStato.La molteplicitàdegliin dividui funzionanti di cui una società risulta,l'essere questi individui animati da un fine comune che è lo spiritonazionaleecheècomeilcentrodelle individua lità,la varietà di classi,di funzioni, di aspirazioni, di attività in cui si possono scorgere tanti fini secon dari o aspetti speciali e necessari del fine comune,onde non tutti gl'individui partecipano all'istesso modo al raggiungimento di questo fine, ilpermanere dello spi rito nazionale mentre gl'individui che vivono in esso e per esso muoiono erinascono, fa diuno stato un or ganismo assai più complesso e di un'assai più elevata natura che non l'organismo animale. E più lo stato ė organico in questo senso e più è perfetto. Si può dire anzi che,dal primo costituirsi dello stato sino allo stato come può essere ai giorni nostri, si nota una  tendenza a raggiungere la forma perfetta della orga nicità . Quando si parla di organismo, sia che si tratti del l'organismo vegetale od animale, che dell'organismo eticosihad'innanziunaltro fattopiù complessochene rende più difficile la conoscenza ed è che l'organismo non può essere conosciuto in sè stesso se non è messo in relazione con tutto ciò che lo circonda. La pianta non può essere conosciuta se non si conoscono le sue relazioni con l'aria,col terreno,col calorico, ecc.La vita animale non sipuò conoscere pienamente se non si vedono irapporti che la legano al cibo che rappre senta il mondo esteriore, all'atmosfera, al clima, al luogo.Sisa che l'animaleassorbisce qualche cosadal mondo esteriore e lo rende ad esso per altri modi e per altre vie.Anche gli organismi etici non possono sussistere senza un ambiente non solo naturale, ma anche etico. Uno stato non può esistere senza il suo territorio,senza un determinatoclima,senzaiprodotti delsuolo,come non pno aver una vita spirituale propria senza assimilarsi il pensiero degli altri stati, senza essere in rapporto con essi e senza esercitare un'azione sugli altri stati. Il soggetto, passando dall'oggetto in cui questo è una mescolanza a quello in cui è un sistema ed a quello in cui è un organismo, compie un lavoro giu dicativo chimico progressivamente intenso.Conseguen temente larappresentazione dell'oggetto sidetermina sempre più e diventa anche essa sistematica ed or   --   Perchè si abbia il concetto logico le note di cui il concetto risulta devono essere comprese tutte nel loro organismo, di ognuna di esse deve vedersi la neces sità e l'importanza; poichè se di qualche nota non si sa vedere la necessità,cioè se non si vede diessa laconnessionealtuttoedallepartioaglialtri or gani od alle altre parti dell'oggetto,mediante un giu dizio intimo od una serie di giudizii, non si ha più ilconcettologico;siha alloralarappresentazione logica. Sicchè la rappresentazione logica si ha non solamente quando delle proprietà che costituiscono l'oggetto una o parecchie sono viste nella loro con nessione intima con esso e le altre sono viste acci dentalmente, ma anche se l'oggetto è compreso,nella maggioranza delle sue note, nel suo sistema e nel suo organismo e solamente una nota di esso non è vista nel sistema o nell'organismo, non si può dire che si abbia allora la conoscenza compiuta dell'og getto;sihasempre una conoscenza inferiore cheè  ganica non solo in sè stessa, ma anche in connes sione con altre rappresentazioni ; cosi anche a m a n o à mano la rappresentazione bruta e puramente psico logica diventa rappresentazione logica. Ma quando l'oggetto o la rappresentazione di esso è un sistema od un organismo, allora siamo innanzi ad una nuova zona logica che è il concetto che vuol dire conoscenza sistematica ed organica delle cose.Cosi si può fare una distinzione precisa tra la rappresentazione logica ed il concetto logico.   Poichè la conoscenza sistematica ed organica del l'oggetto è l'ultima a raggiungersi dal soggetto,s'in tende che prima di averlo pienamente raggiunto, un certo numero di note ha dovuto essere considerato come inesplicato od accidentale e non è stato espli cato se non dopo un ulteriore studio del soggetto. La perfetta conoscenza di un oggetto o di un fatto può non essere stata raggiunta dall'individuo che pensa;ma può possedersi dagli scienziati o conser varsi negli annali della scienza ; può ancora non es sere stata raggiunta dagli scienziati. In tutti e due questi casi si è nella sfera della rappresentazione lo gica,non del concetto. Finora i logici non han fatto distinzione tra r'ap presentazione e concetto ed han contrassegnato l'una e l'altro insieme con la parola idea. Si sa che la pa rola idea è stata largamente usata dai filosofi greci, dai filosoa del Medio-Evo e del Rinascimento e dai filosofi moderni e contemporanei. Quantunque dallo studio delle opere di Platone e di Aristotele appari sca che questi due grandi filosofi abbiano bene di stinto quel che ora si dice conoscenza rappresenta tiva dalla conoscenza perfetta delle cose,la opinione dalla verità,pure essi,usando la parola idea, pare  32 la rappresentazione logica. In questo caso una o pa recchie note sono considerate come inesplicabili ed accidentali, mentre le altre sono considerate come ne cessarie ed esplicate (la nota esplicata è la nota con nessa all'oggetto mediante l'atto giudicativo).   che non abbiano tenuto conto di questa distinzione e l'abbiano invece adoperata per indicare indistinta mente l'una cosa e l'altra : ciò che, trattandosi di un fatto di tanta gravità per la scienza, non può non ingenerare confusione ed equivoci nella mente del lettore. Gli stessi equivoci hanno sostenuto, adoperando la parola idea ifilo:ofidelMedio-Evo,delRinascimento, i filosofi moderni e contemporanei.Non si deve però noverare tra questi l'Hegel il quale frequen:emente nei suoi libri accenna alla differenza che deve pas sare tra la rappresentazione e la nozione od il col cetto.E se è vero che anche egli fa moltissimo uso della parola idea, l'adopera però per indicare il si stema od i vari gradi del sistema dell'universo; ed in questo caso è chiaro che la parola idea deve corri spondere al concetto. Ma,anche posteriormente all'Hegel,ilogici, ado perando la parola idea, non han creduto necessario dichiarare se essa deve corrispondere alla rappresen tazione od al concetto; però nel fatto l'hanno adope rata per indicare l'una cosa e l'altra indistintamente come si vede dai trattati di logica che circolano per le scuole di tutte le nazioni. E vi sono anche alcuni logici che adoperano promiscuamente le parole idea e concetto;ma non si può dire che la parola concetto che essi usano corrisponda a quel che si è detto do vere essere il concetto, anzi, stando a certe divisioni che essi ne fanno, si deve conchiudere che per co:  53   cetto essi intendono la rappresentazione. Cosi essi, tra le altre divisioni dei concetti, ne fanno una in concetti chiari ed oscuri,distinti e confusi,completi ed incompleti ; ma un concetto che sia oscuro o con fuso od incompleto deve essere una rappresentazione non un concetto. Per l'uso equivoco che della parola idea si è fatto per tanti secoli e perchè può ancora ingenerare con fusione nella mente, sembra necessario il non doverla più adoperare,tanto più che le parole rappresentazione e concetto,che sono anche esse due parole classiche, corrispondono benissimo a distinguere due gradi dif ferenti di quello che i logici hanno indicato con la parola idea. La parola concetto ha nella lingua latina ed ita liana un significato assai profondo e complesso ;poiché esprime l'ultimo e più compiuto risultato di un pro cesso,diuna seriediavvenimentiiqualihannoavuto il loro punto di partenza in un fatto che è il loro presuppostonecessarioelaloropossibilità.E questi avvenimenti devono essere legati fra di loro con legame tale di successione che ciascuno di essi non può rappresentare che un dato grado del processo, non può prodursi cioè prima che si sieno dati altri gradiod avvenimenti più o meno elementari che esso pre suppone e da esso devono prodursi altri gradi più c o m plessi i quali menano al pieno risultato del processo. Cosi si vede che la parola concetto include w a storia e che questo processo concettuale si riscontra non solo nella natura, nel suo insieme, ma anche in ogni grado di essa con questo diparticolare che più ci eleviamo nelle sfere alte della natura, quali sono la sfera della vita e dell'umanità,più questo processo. Del Concetto lin   si esegue compiutamente e, relativamente, in breve tratto di tempo ed ogni proprietà di ciascuno entedi queste importanti zone della natura compie insieme con le altre proprietà una storia. Quel processo che avviene nella vita dell'animale e della pianta risponde bene a quel che è un concetto. Si sa che la pianta ha il suo punto di partenza nel germe che può considerarsi come il grado infimo di essa,di là dal quale non vi è nulla della pianta. Partendo dal germe la pianta attraversa una serie di gradi,lo sviluppo delle foglie e la trasformazione di esse nel fusto, nei rami, nei fiori e nel frutto che racchiude il seme, ciò che segna il grado ed il limite ultimo dell'esistenza della pianta; onde essa parte dal germe e ritorna al germe. Si può dire che nel germe sono implicati tutti i gradi della pianta e che il grado che segue alla trasformazione del germe lo include come un presupposto necessario e cosi pos siamo dire del grado successivo relativamente ad es:a. È stato dimostrato che il fiore è una trasformazione della foglia ed il frutto è una trasformazione del fiore e perciò anche della foglia e che anche il seme sia una foglia trasformata; onde nel frutto sitrova come un grado ad un presupposto necessario il fiore e perciò anche la foglia, all'istesso modo che nel fiore sitrovalapossibilitàdelfrutto.Ora lastoria com piuta della pianta si ha quando essa attraversa tutti questi gradi e si considera uno di essi come quello a cui mirano i gradi precedenti, cioè il frutto ed allora  56   possiamo dire di avere il vero concetto della pianta. Cosi quando diciamo concetto diciamo anche sviluppo. Da ciò si vede che il processo del concetto che è il concetto stesso delle cose non deve essere inteso come una progressione aritmetica.Da un grado non sipassa all'altro mediante una aggiunzione di qualche cosa a  -- Ma gli avvenimenti di cui risulta il concetto non solo devono essere legati fradi loro pel nesso di suc cessione ma anche pel nesso di coesistenza; giacchè, quando il concetto è dato,esso rappresenta un com plesso di avvenimenti o di proprietà le quali ha con quistato e conservato nel suo processo,di cui ciascuna è necessaria, benchè non necessaria all'istesso modo chelealtre,perl'attualitàdelconcetto;enon po trebbe mancare senza che il concetto venisse sconvolto o degradato. Però bisogna bene intendere questo conservare che il concetto fa delle proprietà che acquista, nell'at traversare tutti i gradi necessari prima di attuarsi pienamente; giacchè le proprietà di un grado non sono conservate come precisamente tali nel grado seguente, ma sono conservate ed insieme trasformate e complicate. Cosi nel fiore non abbiamo la somma delle qualità della foglia insieme con quelle del fiore; ma lequalitàdellafogliasisonotrasformateinquelle del fiore, di modo che vi si conservano ma non come puramente tali,son divenute cioè proprietà nuove.E questa trasformazione avviene in tutti i gradi che il concetto attraversa.   qualchecosaltro il quale, dopo l'aggiunta,rimanga come puramente tale insieme con la cosa aggiunta, di modo che l'ultimo grado possa essere considerato comelasommadeigradiprecedentiedincuiigradi precedenti si conservino come puramente tali. In vero iprimi filosofi hanno compreso il mondo come una progressione quantitativa;peressilaveritàdelle cose non era che un risultato di una moltiplicazione o di una sottrazione dell'istesso principio naturale ; e l'esplicazione dell'universo dal punto di vista m a t e matico e quantitativo è stato quasi sempre tenuto di mira dai pensatori e dagli scienziati.Anche aitempi nostri in cui le scienze particolari possono dare larghi contributi per arrivare ad una concezione organica delle cose e dell'universo, è sempre il punto di vista quantitativo che esercita le più grandi attrattive su gli scienziati, anche quando si tratti di argomenti i più complessi ed ipiù remoti dalla quantità pura,come la vita sociale o nazionale o la vita organica ; si sa che anche ai giorni nostri ilcervello,come organo supremo dellavitaorganicaementale dell'uomo,sicrede non po tersi altrimenti intendere che considerandolo dal puuto divistaquantitativo.Ma ènotochePlatoneedAristo teleavevanointravistochelamatematicaedilnumero sono insufficienti per la comprensione piena delle cose e che l'HegeleilVera,apiùriprese,hanno molto insi stito nel far vedere l'importanza limitata della mate matica nel sistema dell'Universo e nel far vedere che il sistema delle cose non può essere compreso che dal  58   punto di vista qualitativo e specifico il quale però presuppone come un elemento subordinato la mate matica, ciò che è ben diverso.  a numero, quantità a quantità, mentre la chimica va dall'identico al non identico, che è il vero processo delle cose. Il processo chimico non esclude il processo matematico;perchè non può esservi processo chimico senza il processo matematico ; si sa che la chimica procede aggiungendo atomi ad atomi, molecole a molecole,ciò che èprocesso quan titativo e, mentre nella sfera della quantità, aggiun gendo quantità a quantità, questa è semplicemente aggiunta o sovrapposta a quella la quale,dopo questa nuova aggiunzione, nulla acquista enulla perde della sua natura qualitativa primitiva;aggiungendo all'in contro chimicamente atomi o molecole specifiche ad atomi ed a molecole specifiche, viene come risultato un corpo avente proprietà nuove, tutte diverse dalle proprietà che avevano gli elementi di cui si compone il nuovo corpo. Si sa che l'idrogeno e l'ossigeno di cui sicompone chimicamente l'acqua hanno proprietà diverse dalle proprietà che ha l'acqua. E ciò si può dire di tutti i corpi composti relativamente ai corpi semplicidicuirisultano.È questoillatoimportante e meraviglioso del processo chimico. 39 Noi crediamo che il principio chimico,la cui impor tanza era sfuggita agli antichi e si è vista solo ai tempi moderni,possa, più del principio matematico, esprimere bene il vero svolgimento delle cose ;giacchè la matematica procede dall'identico all'identico, ag giungendo numero a numero,   Sembra ora assodato dalla scienza chimica che l'im mensa varietà dei corpi composti inorganici ed orga nici sipossano tutti scomporre in quei pochi e deter minati corpi semplici ora conosciuti.Ebbene,in qual modo con cosi pochi corpi semplici si possono otte nere corpi innumerevoli con proprietà differentissime gli uni dagli altri?Semplicemente mutando ledispo sizionichimicheomolecolari;odaggiungendo sem plicemente una molecola di un nuovo corpo a molecole costituenti prima un altro corpo o moltiplicando una molecola specifica di un corpo composto di determi natemolecoleosottraendonealcuneadalcune.È questo processo che ci dà corpi di natura tanto differenti e diversi.  60 Ma se la chimica occupa un largo campo nellana tura,dallamateriaprimaallamateriacheraggiunge la più alta forma complicativa, alla sostanza nervosa,dap pertutto nella natura essendovi più o meno lente e conti nue complicazioni osemplificazionichimiche,ilprincipio però chimico,quello secondo il quale di due o più cose od elementi che si uniscono si forma un nuovo grado ilqualeha proprietànuoveedifferentidaquelli dai quali risulta,rimane non solamente nella natura ma anche nella storia delle cose naturali ed in quelle dello spirito. L'animale non s'intende aggiungendo alle note che costituiscono la pianta, la sensibilità ed ilmovimento;eseèveroche alcune qualità della pianta si trovano nell'animale, queste hanno assunto ụną naturą tutta nuova nell'animale, tanto che,rigo   rosamente parlando, ciò che costituisce la vita della pianta non si rinviene punto come tale nell'animale; perchè quelle note che costituiscono la pianta sono nell'animale elevate ad una nuova zona e vivificate e complicate e moltiplicate da una nuova vita.La nu trizione dell'animale è tutta differente dalla nutri zione della pianta, all'istesso modo che la struttura organica della pianta differisce dalla struttura animale. Ciò portanecessariamenteunadifferenzanotevolenella storia della pianta ed in quella dell'animale; sicchè tutto è nuovo nell'animale relativamente alla pianta e si ha nell'animale una nuova e complessa serie di proprietà tutte differentidalle proprietàvegetali.Cosi una proprietà che si aggiunga modifica tutte le altre proprietà, come fa la sottrazione di una data proprietà o funzione nell'animale.  -61 Nella storia organica e psicologica del regno ani male troviamo dominare lo stesso principio; giacche, se vi è una vasta scala di specie animali,in ciascuna specie la modificazione di una data proprietà organica e psichica,relativamente ad altre specie,adduce con sė una corrispondente trasformazione di tutte le altre proprietà organiche,funzionali e psichiche.Cosi laforma esteriore degli animali non è indifferente al loro grado di energia funzionale e di energia psichica; la sensi bilità è varia secondo le varie forme organiche,,se condo le varie forme di sistema nervoso ; i movimenti sono vari secondo che è varia la sensibilità ed è vario il sistema scheletrico ed il sistema muscolare. Una   Inoltre l'individuo come tale ha attribuzioni che non  --62-- varietà organica dunque non si ha senza avere unà varietà di tutte le altre proprietà e funzioni dell'ani male; cosi di ogni proprietà animale. Si sa inoltre che alla vita di uno stato devono con correretantecondizioni,tantifattori; ma c'inganniamo se crediamo che ciascuna condizione non eserciti se condo il suo grado alcuna azione determinante su tutte le altre condizioni e perciò su tutta la vita nazionale. L a ricchezza non è nè il solo fine né il solo fattore di una nazione;ma uno statoricco può avere un gran mezzo per creare condizioni necessarie ad elevare lo spirito di una nazione in tutti i suoi aspetti, a far felice la fa miglia e gl'individui; e d'altra parte uno spirito n a zionale elevato trova molte vie aperte all'acquisto della ricchezza.I grandi individui contribuiscono a far grande una nazione e d'altra parte sono le grandi nazioni che fanno le grandi individualità. Un'alta vita reli giosa non può intendersi e compiersi che nelle grandi nazioni e d'altra parte lo spirito religioso dà un ele vato contenuto all'arte,allaletteratura,spingegliuo mini alle investigazioni scientifiche e filosofiche, può dare indirizzi nuovi alla vita politica, commerciale, economica dei popoli, può dare un'impronta speciale a quel che sidicespiritonazionale.Ciascunfattoredella vita sociale dunque, mentre è modificato dagli altri fattori, dal loro grado di energia o di decadimento, contribuisce a modificare,svolgendosi,quale che sia il suo grado, gli altri fattori.   63 ha come faciente parte della famiglia in cui acquista nuove e più alte qualità,onde,senza il sacrifizio e senza l'abnegazione dell'individuo,lafamiglianon può vivere una vita rigogliosa. Cosi le attribuzioni della famiglia sono differenti da quelle dello stato, quan tunque senza la famiglia lo stato non potrebbe essere, essendo questo costituito di una moltitudine di fa miglie e perciò d'individui, i quali nello stato acqui stano nuove e più alte qualità; onde nello stato le famiglie e gl'individui non sono come sono fuori dello stato, Il principio chimico domina cosi la vita della n a tura e dello spirito,non ilprincipio matematico, quan tunque la chimica implichi e presupponga lamatema tica senza la quale né il chimismo, nè la natura, nè lo spirito stesso potrebbero essere.Onde,sepuò dirsi che il chimismo è lo schema dell'organismo delle cose, la matematica può dare lo schema quantitativo del chimismo e per conseguenzadellecose;ma perquesto è più lontana che non la chimica dalla realtà che non può intendere e che è sopra tutto qualitativa; ed è la chimica che fa intendere il concetto e che costi tuisce la seconda zona logica e che è parte integrante della vita del concetto più che la quantità la quale può corrispondere alla prima zona logica. S'intende che qui si parla del chimismo logico, non della chi mica come sfera della natura, la quale ha anche essa il suo concetto, come qui si parla della matematica come principio logico;non della matematica come sfera    speciale del pensiero e delle cose; poichè come tale ha anche essa il suo concetto. Sicché non si nega che la matematica possa dare un certo schema della realtà e che perciò non sia una certa logica ; si afferma solamente che essa ci dà uno schema assai povero della realtà, che non ce la fa intendere. In vero la logica classica non è stata che la logica matematica e se vi sono oggi dei logici i quali, coltivando la logica intesa matematicamente, credono di coltivare una nuova logica,essi s'ingannano, quantunque però diano nuovi svolgimenti alla vec chialogicalaquale,se nonpuòesserelalogicadella vita e dello spirito,può essere però la logica delle sfere inferiori della natura,della meccanica, in tutti i suoi gradi, e della fisica intesa come grado della natura in generale. Si sa che tutti i fatti meccanici e fisici possono ridursi a formole matematiche, quan tunque allora non saranno la meccanica e la fisica che ci guadagneranno, le quali sono sfere molto più con crete e ricche che le matematiche pure; onde,ridotti i f e n o m e n i m' e c c a n i c i e f i s i c i a s c h e m i m a t e m a t i c i , e s s i perdono la loro concretezza, perchè sono semplificati (le cose non potendo essere intesa che dal punto di vista semplificativo ecomplicativoinsieme;onde,s'in tende la meccanica e la fisica non solamente quando sono intese matematicamente, ma quando sono intese matematicamente ed insieme meccanicamente e fisica mente; in quel caso guadagna però la matematica la quale estende i suoi confini).  64   6.3 I fatti però meccanici e fisici dell'organismo non sono cosi facilmente riducibili a schemi matematici; non avendosi allora il meccanismo ed il fisismo puro od inferiore, ma ilmeccanismo ed ilfisismo come gradi dell'organismo,onde quei fatti sono allora determi nati da cause chimiche ed insieme fisiologiche e per ciò sono di una provenienza oscurissima e complica tissima; perchè il fatto meccanico o fisico può essere effetto di moltissime e svariate condizioni organiche e sono nello stesso tempo effetto e causa di altri fe nomeniorganici.Cosisipuòdiredei fenomeni psi chici e sociali; onde, per quanti sforzi la matematica faccia per entrare in questo regno, essa non potrà impadronirsene mai, potrà però calcolare matematica mente i fenomeni estrinseci di essi.Ciò conferma sem pre più il principio che non può essere la matema tica lo schema della realtà; ma è il chimismo. Aristotele, il primo grande logico dell'antichità e quasi il fondatore della logica, le cui dottrine per 22 secoli hanno doininato e dominano ancora nelle scuole, perché non si possedeva ai suoi tempi una conoscenza profonda della natura e dello spirito come si possiede ora, non poteva darci che la logica quantitativa che si può considerare come il grado primitivo e più ele  È lo studio profondo dei fenomeni biologici come in gran parte è stato compiuto ai nostri tempi, che può farci vedere la grande importanza del processo logico chimico per raggiungere il vero concetto delle cose;e ciò non era possibile prima dei nostri tempi.   mentare della logica. L'Hegel poi può dirsi il fonda tore della nuova logica più per avere fatto vedere l'insufficienza della logica classica ad intendere la realtà anzichè per averci dato compiuta la nuova lo gica;e ciò perchè anche ai suoi tempi gli studi na turali e biologici non avevano raggiunto quell'alto grado cheraggiunseroposteriormente.Nondimeno l'ap parire della logica di Hegel segna nella storia un'e poca grandiosa;poichè,per mezzo di essa sono state poste le basi e si sono fatti i primi passi della lo. gica reale come può aversi e svolgersi ai nostri tempi. Inteso il concetto come l'ultimo risultato del pro cesso storico e chimico delle cose non ha più quel l'importanza che ha nella logica classica il capitolo della comprensione e della estensione dei concetti, in cui il concetto è inteso solo quantitativamente. Bisogna distinguere il concetto che sta per co.n piersi dal concetto compiuto ; quello può essere chia mato concezione o concepimento che indica appunto l'atto del compiersi del concetto. Ora nell'atto che il concetto si forma attraversa vari gradi di cui cia scuno, se è considerato come arrestato nel suo c a m mino,può essereconsiderato come unconcettopersė; e si considera come grado di un altro concetto se as sume qualità e forme nuove di esistenza tanto che puòcorrispondere adun concettopiù compiutodiesso; ed in questo caso esso fa parte della concezione o del concepimento del nuovo concetto ; e ciò può dirsi di ogni concetto.  ĜO !   Considerando da questo punto di vista l'universo, si scorge facilmente che ogni sfera,ogni grado di esso è insieme concepimento e concetto, cioè è assorbito e complicato chimicamente in un concetto più alto e nello stesso tempo può essere considerato come un con cetto in sè. Questo duplice fatto forma dell'universo un vasto sistema e nell'istesso tempo un grandioso organismo;perchè ciascun concetto è in sè e per sè ed insieme in altro e per altro. conce  -67 Questo principio si osserva con evidenza in tutte le zone delle mondo della natura. I minerali ed i feno meni fisici sono insieme in sè e per sè in una deter minata zona della natura (concetti);ma essi sono per la chimica relativamente alla quale sono pimento.Cosi la chimica rappresenta anche una de terminata zona del mondo naturale ;ma, mentre è in sè, e perciò è un concetto,è anche concezione ;perchè la chimica è per la vita della pianta e dell'animale e perciò,mediatamente,anche ilminerale èperlavita. Nel regno della vita questo processo diconcepimento continua ; perchè,quando è data la forma infima della vita vegetale, si passa da forme vegetali semplici a forme gradatamente e successivamente più complesse sino all'ultima forma vegetale che potrà dirsi la più compiuta.In questo processo quei gradi che inatura listi dicono specie rappresentano appunto la conce zione della pianta;per cui ciascuna specie èinsieme concetto e grado del concetto superiore.Lo stesso può dirsi dellapiantarelativamenteall'animaleedelmondo della vita animale in generale.   Quando siconsideral'uomonell'ordinedellanatura sembra cheinluisiabbial'ultimorisultatodellastoria e del processo naturale ; ma d'altra parte l'uomo non è per sè solamente ; perchè egli è quel che è per la famiglia e per lo spirito nazionale che egli contribuisce a formare ed in cui vive e si muove,all'istesso modo che lo spirito nazionale è per Dio che è il puro per fetto spirito in cui perciò si ha il vero concetto ed a cui tutta la concezione dell'universo aspira; perchè Dio non è più per altro ma per sè ovvero ė inaltro per sè ; e tutta la vita ed il movimento della natura e dello spirito terreno non sono che un processo di ele vazione a lui e fuori di lui non sarebbero e non po trebbero esplicarsi. Cosi vi è un solo concetto e l'universo è una serie di concepimenti che sono relativamente concetti.E questi concetti costituiscono un processo di compli cazione che è chiuso tra due limiti estremi, il massimo ed il minimo. Il limite minimo si ha nell'elemento primo della naturaeperciò del pensiero,diqna dal quale vi è il sistema e l'organismo dei concetti, di là dal quale vi è il nulla della natura e del pen siero. Come tale questo limite minimo dei concetti può essere concepimento od elemento del concetto che segue ma non concetto.Il limite massimo ècostituito dal concetto assoluto, di là dal quale vi ha del pari il nulla e di quà dal quale vi è tutto ilsistema e l'or ganismo dei concetti. Ciò posto i concetti sono nella natura e nello spi    Le cose sono cosi in se stesse,obbiettivamente, con cezione e concetti ; ed il soggetto, volendo conoscerle, deve seguire lo sviluppo di ciascuna di esse, dal suo primo ed infimo grado sino alla sua più compiuta realtà;deve seguire il processo del formarsi e del trasformarsi delle proprietà costituenti l'oggetto che siconcepiscesinoalsuoultimostato,come avviene degli enti morti o sino al massimo grado della sua energia, come avviene degli esseri viventi o degli or ganismi etici.Quandoilsoggettoavràcompiutoquesto lavoro psicologico insieme elogico di concezione in modo che questo processo corrisponda alprocesso obbiettivo  rito,eperciònelpensiero,dispostiinmodo seriale; onde ciascun concetto che è tra i limiti ha un prima ed un dopo ed è concetto del concepimento 'precedente e concepimento del concetto seguente.Non sipuò dire però che il concetto che precede sia compreso come tale e nel senso della logica classica e con tutti i concetti precedenti dal concetto seguente ; poichè il chimismo che domina il processo dei concetti non a m mette lacomprensionenelsensoclassico,cheè conside ratain senso puramente quantitativo. Del pari non si può dire che ciascun concetto si estenda in altri concetti; perchè esso è chimicamente assorbito e trasformato dal concetto che segue immediatamente e non si può tro vare come semplicemente tale in altri concetti'; onde la estensione secondo la logica dei secoli non risponde al vero ; perchè in questa i concetti sono estrinseci gliuniagli altri,percuinonvièorganismodiconcetti. 69   70 d e l l a c o s a , e g l i a l l o r a a v r à r a g g i u n t o il c o n c e t t o d i e s s a : ciò che può dirsi cosi dei singoli concetti o di un si stema di concetti che del concetto assoluto.  L’economia nella vita dell’animale e dell’uomo.    L’ attività economica è una nota propria e fondamentale  della vita animale ed umana. Essa è rappresentata prima dalla  fisiologia, cioè dalle funzioni dell’organismo. Ogni funzione or-  ganica, studiata analiticamente, dimostra una dualità, cioè due  termini: l’organismo vivente che rappresenta l’unità degli or-  gani funzionanti; e il mondo a lui esteriore con cui è in con-  tinuo rapporto (alimento, ossigeno dell’aria, acqua, calore, luce,  ecc.). L’ uno dei due termini scisso dall’ altro annullerebbe in-  sieme con la vita l’attività economica; e l’organismo dovrebbe  disfarsi.   La vita, sostenuta da organi di elevata struttura e costi-  tuzione chimica, implica l’ unità degli elementi istologici, dei  tessuti, dei sistemi e degli organi che la rappresentano. Ma la  funzione di ciascun organo e sistema, mentre ha un fine che si  esercita o dentro l’organismo, in aiuto ad altre funzioni, o fuori  dell’organismo, contro il mondo esteriore per dominarlo e farlo  servire ai suoi bisogni, deve implicare una continua perdita  materiale degli organi funzionanti, che si riduce contempora-  neamente in una degradazione chimica di sostanze componenti  i tessuti e gli organi, dallo stato di elevata natura a quello di  più elementare costituzione molecolare. Nello stesso tempo deve  associarsi ad uno sviluppo di forze fisiche (forza meccanica,  vibrazioni molecolari, calorico, elettricità).   In tal modo i due termini debbono entrare in un rapporto  molto intimo e continuo fra di loro ; giacché il termine esterno  naturale, rappresentato dall’alimento, dall’ossigeno dell’aria, dal-  l’acqua, deve diventare interno. Infatti l’alimento da sostanza  esterna e morta, quantunque di elevata costituzione chimica.      ti    r   I ^    I  giacché è stata vivente, come la carne, le uova, il latte, le erbe,  frutta e semi di varie piante, modificati esternamente e poi in-  geriti dall’animale e dall’uomo, vengono ancora modificati, ri-  dotti in sostanze relativamente semplici. Passate poi nel circolo  sanguigno vengono ancora modificate dalla presenza dell’ ossi-  geno che i globuli rossi del sangue hanno fissato per nutrire i  tessuti in contatto dei quali sono messi e dai quali si compie  l’assimilazione. In tal modo il cibo raggiunge la sua massima  elevcizione; da termine esterno e morto diventa interno e vivo.  Ma qui comincia la scissura interiore, onde il termine interno  diventa per mezzo della funzione anche esso morto in alcuni  suoi elementi e le sostanze che lo costituiscono, decadute e sem-  plificate, vengono così restituite al mondo esterno, per mezzo  dei reni, della cute, del polmone e ancora modificate dalle glan-  dolo di speciale segrezione; all’ istesso modo che l’energia che  costituiva il termine interiore si risolve in forze meccaniche e  fisiche le quali si spengono entro l’organismo stesso e nel mondo  esteriore, anche per mezzo del lavoro.   Il termine interiore che da prima è un organismo vivente   di elevata struttura, perchè è e sussiste, si può chiamare bene,   secondo lo scrittore del j)rimo capitolo della Genesi, per cui è   bene tutto ciò che è creato da Dio ; ed il termine esteriore,   perchè anche esso è e sussiste, si deve anche esso chiamare   bene; ma, poiché deve essere degradato come tale, e trasfor-   %   maio e ridotto nei suoi elementi; diviene male. E male il deca-  dere, lo scomporsi, il menomarsi degli enti. Ma, poiché dai suoi  elementi di nuovo si ricompone, si organizza ed alimenta la  vita, diviene di nuovo bene; ma bene interno, come il bene in-  terno si trasforma in male interno airorganismo da prima, poi  in male esterno; perchè nei suoi elementi primi si trasforma in  male esterno, cioè in elementi inorganici senza una finalità su-  periore. Ma di nuovo può divenire bene esterno, perchè per  mezzo di essi si possono ricostituire i beni esterni più elevati  (piante, animali, ecc.). Il bene cosi si trasforma in male e questo  in bene. L'antico detto corruptio unius gene ratio alterius espri-  me un principio che domina il regno della vita vegetale ed  animale, giacché anche la pianta si trova in una posizione dua-  listica tra sè e il mondo a lei esteriore (il terreno, Tarla, la luce) ed è perciò in lotta con esso che tende a conquistare,   come questo è in lotta con la pianta. L'animale è in una lotta   più intensa col suo termine esteriore, la natura, come questa   %   è in lotta contro Tanimale. E questo lo schema più semplice  della vita vegetale ed animale.   Distinta cosi T attività economica in due termini e fatta  Tanalisi di questi, apparisce più chiaro il concetto generico di  economia. Quantunque questa parola sia stata adoperata la prima  volta in Grecia ed intesa come legge, amministrazione della  casa, implica anche il concetto di soddisfazione, di godimento,  che gli animali e noi abbiamo di qualche cosa che dalTesterno  penetri nel nostro organismo. Coinvolge anche il concetto d'in-  tegramento, conservazione, elevazione di qualche cosa di ma-  teriale per mezzo del lavoro delTuomo o per opera della na-  tura stessa, ma che rimane sempre nel mondo esterno alTuomo  e di cui questi può cercare di godere.   Importa notare la differenza tra Teconomia della vita ani-  male e quella delTuomo, che implica insieme con la vita orga-  nica 0 animale, qualche cosa di superiore o mentale. Benché  una grande differenza vi sia anche nel regno stesso delTani-  malità, nelle sue varie specie, dalTaniraale infimo a quello della  più complessa organizzazione, giacché dalla prima alla seconda  specie il processo della vita si va sempre più complicando e  specificando, alT istesso modo che si complica ed aumenta di  volume Torganisrao nei suoi tessuti e nei suoi organi ; onde si  ha un'organizzazione più vasta e complessa, pure in quest'ara-  pia graduazione di animali lo schema dell* economia della vita  è identico in tutti; benché varia sia la quantità dell' alimento  ingerito ed assimilato e poi consumato e ridotto ad elementi  semplici, come corrispondentemente varia sia la somma delle  forze fisiche esplicate.   L'animale infatti, a qualunque genere o specie appartenga,  non vive che monotonamente, sempre nel presente, benché va-  ria sia la sua attività esplicata per vivere, secondo la natura  della specie a cui appartiene, e vario sia l'ambiente naturale e  climatico in cui vive. Esso non ha cura che per conservarsi e  per fuggire i pericoli che lo minacciano; cerca la tana, il cibo,  e l’acqua per dissetarsi ; alleva con molta cura i suoi nati e provvede per il loro alimento; li protegge contro le insidie degli  altri animali sino a che essi non possano vivere da sè. Non  provvede pel suo avvenire e, durante la vita, non è suscettivo,  a causa delle limitate sue condizioni psicologiche, a migliorare  la sua posizione economica, come è avvenuto pel suo passato  in cui si è riprodotto sempre identicamente lo stesso tipo e  la forma del suo organismo.   Dall’animale all’ uomo si fa un passo gigantesco; giacché  questi, a causa della superiorità della struttura del suo organi-  smo e della sua intelligenza, si volge a studiare continuamente  sè e il mondo esteriore. Avendo il suo organismo molteplici bi-  sogni, egli si sforza di soddisfarli per mezzo delle sostanze che  trova nel mondo esterno; e, a differenza dell’animale, prevede  i suoi bisogni avvenire e provvede come può affinchè nulla  abbia a mancargli pel futuro. E, se tende da prima a sfruttare  la natura, come fa l’ animale, di poi, apprendendo da essa stessa  i suoi metodi, si sforza di produrre ciò di cui ha bisogno per  vivere (piante ed animali speciali). Si apn; cosi all’ uomo il   campo della produzione dei beni naturali di cui ha bisogno, e   %   che può ottenere per mezzo deir ingegno e del lavoro. E una  lotta che egli deve sostenere contro la natura, che ha avuto  principio col suo primo apparire sulla terra, che è andata sem-  pre crescendo ed intensificandosi lungo il processo della storia  e con lo sviluppo della civiltà; e che non avrà mai fine, finché  dura la vita umana. La materia economica non può perciò essere intesa fuori  della sua storia, anzi essa fa una sola cosa con la storia del-  r umanità ; giacché questa ha la sua base nell' economia e  senza di questa non potrebbe essere; all' istesso modo che nes-  sun aspetto 0 grado del mondo naturale ed umano sfugge alla  storia e fuori di questa non potrebbe comprendersi. La scienza  economica dunque deve trattarsi storicamente. È questo un ten-  tativo che può farsi solo oggi, in tempo di un grande sviluppo  dell'esperienza e della rifiessione umana, in cui il pensatore acqui-  sta coscienza di sé, dei propri bisogni fisiologici e mentali e del  mondo esterno naturale, in ciò che può soddisfare i detti bisogni.  V f Questa materia cosi deve essere studiata nei suoi due ter-   mini, il soggetto e l'oggetto, economici, ciascuno nella sua storia  e nel suo rapporto con l'altro, senza del quale nessuno dei due  termini potrebbe sussistere sotto l'aspetto economico; e questo  rapporto é tutto tra i due termini, per lo quale questi si uni-  scono e dividono continuamente. È la storia deU’umanità e della  natura insieme nel loro aspetto drammatico.   Nel trattare i principii naturali di economia bisogna trarre  insegnamento prima dello studio della storia deH'umanità. Ma  nella storia fatta dagli storici più valorosi e rinomati l'aspetto  economico non è messo gran fatto in evidenza; come se per loro  » * non avesse avuto che un' importanza trascurabile; non veniva   perciò compreso e considerato nella sua obbiettività e non si  sognava che un giorno i posteri sarebbero stati curiosi di cono-  scere, nei suoi particolari, il metodo e la materia dell' attività  economica dei popoli di cui si narrava la storia. Si credeva  che il cibo e gli altri beni di cui l'umanità ha bisogno sarebbero  stati sempre abbondanti e perciò non meritava che gli uomini se ne preoccupassero. Del resto anche gli storici più recenti  si sono cosi condotti verso l’aspetto economico della popola-  zione. Pure in ogni scrittore non possiamo non trovare qualche  accenno alla vita economica delle nazioni di cui si narra la storia  0, se non alla economia normale, aireconomia patologica, come la  carestia, la pestilenza, i risultati della guerra, le emigrazioni e le  immigrazioni, i perturbamenti della natura fatti per opera della  mano deiruomo, che, facendo vedere la deviazione del processo  economico normale e naturale nella storia, fanno meglio vedere  le necessità di questo. Avviene così nel campo economico quel  che avviene nel regno della vita, per cui le malattie che sono la  deviazione funzionale degli organi dal processo tipico normale  della vita, che apportano anche una corrispondente alterazione  chimica, istologica ed anatomica degli organi, hanno dato non  pochi contributi alla conoscenza delle funzioni normali della vita.   Vi sono poi le grandi crisi economiche nazionali o univer-  sali, come quella che ora si attraversa sull’ incarimento del  costo della vita, un fenomeno nuovo e gigantesco che non ha  avuto l’eguale nella storia, la cui origine oscura ci obbliga a  riflettere e a meditare per risolvere Tenigma. Vi sono inoltre  gli errori della storia che il popolo stesso compie per suo prò-  prio istinto o che compiono gli uomini di governo, errori di cui  è piena la storia e che, con le loro conseguenze patologiche,  fanno meglio comprendere il processo logico e progressivo della  storia come avrebbe dovuto essere. Cosi è stato disastroso per  la vita dei popoli il non avere compreso la natura propria della  moneta che si è voluta sempre di metallo prezioso, per cui  alla scarsezza di questa si debbono alcune rivoluzioni ed un  arresto nello sviluppo del lavoro e della produzione dei beni e  r arricchirsi di alcune nazioni che ne hanno molta a danno di  altre che ne hanno poca. Ma il presente stato economico del  mondo in cui l’ industrialismo ha raggiunto un grado di vitalità •   esuberante da per tutto ed attira l’energia e V operosità del  maggior numero degli uomini i quali affluiscono nelle industrie  e nelle città disertando i campi e i villaggi, ci spinge a stu-  diare il presente fenomeno e, mettendolo in relazione col pas-  sato economico, ci apre la via ad intendere la storia econo-  mica deir umanità.  Ma la storia economica che fa una sola cosa con la storia *   politica, artistica ed intellettuale delle nazioni, nell’ aggregarsi  o disgregarsi continuo di queste, è certo un grande e cospicuo  periodo del processo logico della storia del mondo ed è anche  quello più memorabile: quello cioè che, per essere stato esperi-  mentato primitivamente da alcuni uomini, riconosciuto e pro-  vato da altri, aggruppati da prima in piccole tribù o società, e  poi esteso, ad altri, è trasmesso a mano a mano ai posteri col  contatto degli uomini, attraverso il loro nascere, crescere e  morire. E l’attività economica che è stata sempre viva nella sto-  ria, quantunque abbia operato in modo inconscio agli uomini,  negli ultimi due secoli ha raggiunto uno sviluppo considerevole  insieme con lo sviluppo industriale e con l’estendersi del com-  mercio nel mondo. Questa da prima si è sviluppata istintiva-  mente ed impulsivamente per mezzo dell' ingegno dell’ uomo  che ha saputo trovare ed aprire le vie; poi è venuta la scienza  dell' economia industriale e commerciale, che ha riconosciuto i  fatti compiuti e ne ha formulato e cercato di spiegare le leggi.   Sicché non è stata la scienza economica che ha destato l’atti-  vità economica, bensì questa ha dato origine a quella.   Si può rintracciare dunque, attraverso la storia intellettuale,  politica e pratica dell’umanità, una storia economica. Ma la sto-  ria politica rappresenta il processo degli avvenimenti umani di  cui si conserva memoria; si è perciò innanzi ad un’epoca molto  avanzata dalla storia, quella in cui l’uomo ha cominciato ad    acquistare consapevolezza della sua superiorità sulla natura e  della possibilità del suo dominio sugli uomini inferiori per in-  gegno ed attività pratica. Ma la storia memorabile e memorata  presuppone la preistoria, che è di là dalla memoria degli uo-  mini e che nondimeno ha dovuto preesistere alla storia. Come  nessun aspetto della civiltà e delle istituzioni umane sfugge alla  preistoria, quale il linguaggio, la politica, l’arte, la religione, ecc.,  così avviene dell’economia e della scienza economica. E la sto-  ria d’altra parte si connette alla preistoria di cui è continua-  zione e complicazione, onde si può dire che nella preistoria si  trovano i principii economici più semplici ed elementari che  nella storia progressivamente si sono andati complicando ; ma  che sono sempre vivi ed attivi nella storia ulteriore: ed appariscono nella loro semplicità nelle grandi crisi di economia so-  ciale, quando si sente il bisogno di tornare alla vita naturale  e primitiva. Non bisogna però ammettere una barriera tra la  preistoria e la storia. Ciò che fu il principio è la base odierna  deir edificio economico.   Quantunque la preistoria pura e primitiva sfugga alla no-  stra osservazione, pure, come è avvenuto pel linguaggio, stru-  mento fondamentale deirintelligenza e deirattività pratica umana  e del progresso scientifico, si può rintracciarla prendendo le  mosse daireconomia naturale che può avere rappresentato essa  sola neirepoca preistorica tutta T umanità, che di poi divenne  storica, economia che anche oggi deve essere considerata come  il sostegno deireconomia storica, industriale odierna, e senza la  quale questa è destinata a fallire. In questo senso, guidati dalla  logica della realtà delle cose e dalla psicologia speculativa, si  può rintracciare il processo preistorico dell’ economia. Il punto  di partenza è qui Teconomia fisiologica, comune da prima al-  Tanimale e airuomo, giacché ambidue sono soggetti economici  che hanno la natura come termine a loro opposto. Ma, mentre,  come si è detto, la soggettività animale ha un arresto nel suo  sviluppo, la soggettività umana all’ incontro prosegue senza li-  miti, cercando di conoscere la natura ed adattarla alla soddi-  stazione dei suoi bisogni, che con la sua intelligenza sa scoprire  in sé, nel suo organismo e nella sua mente, nuove lacune da  colmare. A differenza però deiranimale in cui Torganismo si svi-  luppa rapidamente, onde breve è per esso il periodo in cui ha  bisogno delle cure dei genitori, perchè ben presto può fare uso  delle sue forze e rendersi indipendente, onde vive guidato dai  suoi istinti, l'uomo all’ incontro ha bisogno di un certo numero  di anni per potere da sé provvedersi del cibo e colmare tutti  i suoi bisogni. Ben presto morrebbe se, appena nato, non avesse  le cure materne, ed anche se venisse abbandonato a sé stesso  neH'infanzia e neiradolescenza. Molte altre cure poi richiede,  ed anche un certo numero d’anni, se egli vuole educarsi, eser-  citare un facile mestiere od una difficile professione; e volesse  elevarsi nella sfera dell’ alta cultura, dell’arte o della scienza.  In questo lungo periodo della sua vita il giovanetto è allevato  e educato dalla famiglia, o dalle istituzioni di beneficenza, dal-  r insegnamento pubblico e dalla religione. In tutto questo periodo dell’infanzia e della fanciullezza  il dualismo è rappresentato dal fanciullo, ente passivo nella sua  attività, e dalle istituzioni familiari e sociali, che sono il termine  veramente attivo, il quale, servendosi di elementi c vie naturali,  eleva e conduce il bambino all’attività pratica, affinchè possa  col tempo provvedere ai suoi bisogni. Il giovanetto, diventato  adulto, deve da sè solo risolvere il problema dell’esistenza, per  quanto possa essere agevolato dalle istituzioni ; allora egli si  trova d’innanzi alla natura alla quale domanda i mezzi di vita  0 di conservazione. Questi sono rappresentati dal ricovero e  dall’alimento che è fornito dagli animali e dai frutti e semi di  piante; e vegetali di una elevata costituzione chimica. Qui co-  mincia la lotta tra 1’ uomo e la natura. Questa è da prima prov-  vida madre per lui, onde gli concede facilmente ciò di cui ha  bisogno, ma non senza che egli taccia qualche sforzo, qualche  fatica, andando in cerca deU’alimento, sottomettendosi anche a  gravi pericoli e spesso rimanendo vittima delle intemperie o  degli animali che egli ha cercato di abbattere e conquistare.   E questa la condizione dell’ uomo primitivo che non ha a-  vuto dal passato insegnamenti e tradizioni; per cui l’esperienza  e l’osservazione debbono cominciare da lui che è fornito di un  organismo che si presta ad una grande varietà di lavori; e di  intelligenza che gli è guida all’ attività pratica, allo studio ed  alla conoscenza della natura della quale cosi può meglio ser-  virsi; e conserva memoria delle sue conquiste, passate e pre-  senti. Ma la natura, dà all’ uomo i mezzi di vita, purché li cer-  chi, non glieli assicura per sempre. Comincia cosi l’attività per  la ricerca del cibo e comincia ancora un’epoca di disgregamento per la ricerca dei luoghi dove la natura fosso più ferace di ve-  g'etabili e di animali, atti a far vivere l’uomo. In quest’ epoca,  certamente non breve, si ha un grande disgregamento del ge-  nere umano, in tutta la superficie della terra, per quei luoghi  dove la vita fosse possibile; giacché in quest’epoca in cui il la-  voro collettivo non era ancora principiato, l’uomo voleva essere  solo con la sua famiglia a conquistare e a godersi la preda.   D altra parte 1’ uomo in lotta con la natura primitiva, che  si slanciava ad imprese difficili ed audaci, in tempi in cui l’aria  sulla superficie della terra era buona ed in cui ralimentazione  era prevalentemente carnea, dovea dare al suo organismo uno  sviluppo ed una resistenza ammirevole, che lo rendeva atto a  trionfare dei più grandi ostacoli che nel suo cammino potesse  incontrare. Grande era anche la potenza generativa, per cui gli  uomini si moltiplicavano facilmente. Quel genere di vita tutto  naturale dava un’educazione anche naturale all’ uomo, che gli  dava la massima resistenza all’ impresa e lo rendeva refrattario  agli stimoli morbosi sino alla vecchiezza, se fosse riuscito a su-  perare il periodo della fanciullezza, flrano i tempi di Ercole.  In tutto questo lungo periodo egli cerca, con l’ ingegno che la  vita nomade e mal sicura dell’ avvenire rendono più acuto, a  modificare minerali e legna per costruire strumenti che rendes-  sero più facile il conseguimento del fine di vivere ; a rendere  alcuni animali adatti ad essere guidati, a viaggiare, a portare  masserizie ed a ottenere la prole di essi, anche per potersene  alimentare.   Finché si é in questo stato di vita nomade ed incerta in  cui non si può essere sicuri della vita avvenire ed in cui gli  uomini tendono continuamente a dividersi, le conquiste iiella  conoscenza dei metodi per servirsi della natura vanno perdute  e non é necessario il linguaggio che é possibile quando é data  una certa associazione di uomini i quali, a intendersi scambie-  volmente, conservino la tradizione delle precedenti attività li-  mane che agevolano la vita. Tutto questo lungo periodo della  vita umana sulla terra, di una larga estensione sulla medesima,  può essere indicato col nome di 'preistoria dell’ umanità. La  quale bisogna intendere non come ristretta in un solo angolo  della superfìcie della terra, ma come diffusa da per tutto, e dove la vita dell’ uomo fosse possibile, e rappresenta la fami-  glia da per tutto disgregata in famiglie, di cui ciascuna aspirerà  più tardi ad entrare nella storia e da nomade diventare fìssa.   In tutta questa lunga epoca i due termini dell’attività eco-  nomica sono r uomo e la natura; 1’ uomo il quale é uscito da  quello stato di felicità del periodo della sua fanciullezza in cui  vive a spese della sua famiglia o della carità altrui; ma l’uomo  che deve fare uno sforzo per andare in cerca dei mezzi di sus-  sistenza; deve cioè andare incontro ad una perdita di forza mu-  -..-.•V scolare e psichica, che, aggiunta alla perdita che apporta la vita   in sé stessa, apporta una perdita maggiore o un male interiore  maggiore. La natura, dando da viv^ere all’uomo, ha una perdita  in sé 0 una degradazione, quantunque parziale e limitata; ma  questa perdita apporta all’uomo un bene interiore.   La mancanza di sicurezza dell’alimento pel domani in que-  sto periodo della preistoria in cui non ancora si erano conosciuti  i metodi e non si possedevano i mezzi per ottenere gli animali  di cui avrebbero potuto servirsi e nutrirsi e né anco si sape-  vano conservare le carni degli animali di cui si era andati in  caccia, é la nota preminente di questo cosi largo periodo dell’umanità. La storia della civiltà ha per fondamento la storia  dell alimentazione. Il passaggio dalla preistoria alla storia, dalla  vita naturate allo stato di civiltà, si ebbe quando si potè pro\’-  vedere ad un alimento che potesse conservarsi per qualche anno,  assicurando così il prolungarsi della vita umana ed il fissarsi  di alcune popolazioni in dati siti della superficie della terra do-  ve la produzione di date sostanze alimentari potesse avvenire. Scambio e stimoli economici    Si eiiira cosi in un altra c più elevata sfera deH’attività  economica che è quella dello scambio (e questo avviene cosi  nella zona industriale propriamente detta che in quella naturale  ed agricola). Si cominciano così a formare dei piccoli mercati  in cui r uomo vende e compra. Jla s’ intende che, prima che  nella storia si stabilissero dei veri mercati, queste operazioni  di scambio avvenivano egualmente, quantunque in modo più   vago, appetiii ai)parve la libertà e l’ elezione nel lavoro del-  r uomo.   Nella sfera dello scambio si ha una maggiore facoltà di  acquisto ed un risparmio di tempo e di forza (ciò che è propria-  mente r attività economica); perchè il soggetto economico vende  ciò che ha prodotto facilmente e bene per acquistare ciò che da  sè stesso non avrebbe i)otuto produrre che male e con molta per-  dita di tempo. E ciò in generale ; perchè l’ ingegno umano po-  ti ebbe in ciò darci una smentita, non essendo molto rari quegli  uomini che hanno saputo tanto bene educare il loro ingegno e  1.1 loio attività pratica da diventare valenti produttori di una  varietà di beni e in modo perfetto. E questo avviene cosi per  la produzione dei beni inferiori e materiali che dei beni supe-  riori ed artistici.   Importa notare che lo scambio può avvenire tra questi e  quelli, come con le attività intellettuali dell’uomo. Cosi il lette-  rato, r uomo istruito e dotto, l’ insegnante, il medico, l’ inge-  gniere, l’ avvocato, scambiano il loro sapere, la loro dottrina  e l’arte, con beni materiali. Anche nella sfera dello scambio,  l’acquisto implica una perdita, quantunque la perdita sia ridotta  al minimo; perchè quello che il produttore perde gli è costato relativamente poco lavoro, mentre quello che acquista è per lui  un guadagno, perchè ha un prodotto che si suppone buono, che  egli non avrebbe potuto eseguire, anche perdendo molto tempo.   Per mezzo del lavoro artistico dunque la produzione dei  beni si specializza, mentre questi si possono moltiplicare senza  limiti, perchè ognuno può trovare nell’uomo una sorgente di  bisogni da colmare e nuove comodità che si desiderano, nuovi  beni che riescono a quel fine. E poiché in tutti gli uomini si ha  r istesso metodo e perciò gli stessi bisogni che si tende a sod-  disfare, i nuovi beni prodotti sono ambiti da tutti. Ma qui deve  intervenire l’opera dell’istruzione che sveglia e fa riconoscere  aU’uomo i propri bisogni e fa sviluppare in lui il desiderio di  soddisfarli.   Moltiplicandosi i beni che l’uomo ambisce, egli può acqui-  starli tutti col suo prodotto particolare che alla sua volta viene  ambito dai produttori dello merci altrui, con le quali egli scam-  bia la sua. Il principio economico qui non solo si conserva, ma  si eleva ad una più alta potenza di acquisto.   Ma più tardi 1 ’ uomo ha avuto un istrumento d’acquisto non  solo nel suo ingegno e nelle sue forze muscolari, ma anche nella  macchina che egli, aiutato dalla conoscenza delle leggi mecca-  niche ha prodotto ed applica ancora alla produzione di una  grande varietà di beni.   E necessario qui promettere che la macchina come inven-  zione umana è stata preceduta dalla macchina che è insieme  nell’organismo animale ed umano. L’ organismo infatti è insieme  meccanismo; e se come organismo è qualche cosa di più elevato  del meccanismo che implica, come meccanismo non cessa di  essere macchina; macchina organica si, ma sempre macchina.  Lo schema della macchina si ha infatti in tutti gli organi e i  sistemi più importanti deH’organismo ; nel cuore col sistema va-  saio annesso ; neU’apparecchio digestivo con le sue glandolo, co-  me in ciascuna glandola; nell’apparecchio respiratorio ; nei reni  e nella vescica; nel sistema osseo-muscolare-nervoso. L’occhio è  una macchina, come l’orecchio. Anche nel cervello si trovano  gli elementi più complicati della macchina; all’istesso modo che  le funzioni di tali organi sono insieme funzione e meccanismo. È  proprio della macchina costruita dall’ ingegno umano il venir    "•uw'mo'' • ‘‘‘ Hìacchina die è or-   moNe oigan.smo, anche essa per mez^o di questo .nuove   l.i macchina esteriore, sia immediatamente che mediatamente  per mezzo delle forze fisiche. ^uiawmente,   L’apparire della macchina è stato accolto con grande entu-  ..asmo da tutto il mondo, perchè ha portato una fraudo rivo  uz.one nel campo della produzione, poiché l’A accresciuta co.isi-  erc^olmcnte; ma ha anche contribuito ad una maggiore spe-  CK hzzaz.one d. produzione. E poiché la macchina è stata appli-  c a anche al trasporto dei beni in tutto il mondo, per mare e  PCI terra, ha anche contribuito ad accrescere in modo come  non era possibile prima, il commercio mondiale. Sicché ol!  e solamente possibile a pochi uomini godere di una grande   J-h nomi I che sono nel mondo. Si ha cioè il grandioso feno-  meno de la umversalizzazione del godimento dei beni. È questo  nsuUato di una lunga storia nell'attivirà degli scambi che  pimcipiata in modo limitato, tra individuo e individuo, per una’   lunpo tra vari aggruppamenti umani, tra varie popolazioni e  mi/ioiii , e tra tutte le parti del mondo. È questa veramente la   pffffcernza.''"’ « dell’industrialismo   S’intende che se prima lo scambio comincia cedendo merce  per merce, e in certe condizioni questo può sempre avvenire  lo scambio e .1 commercio che rendono accessibili le merci da  |.cr t„„o, h„„ dovuti avvenire con la moneta che é ,m mé.t  tei mine, inventato da. governi, tra due merci o più merci; per cui  «1 lavora, cioè si danno le proprie forze, il proprio ingegno e   a propria produzione, per guadagnare danaro e si ambisce que-  sto per provvedersi di tutti i beni di cui si ha bisogno. Segue  ancora che, in ragione che la produzione, gli scambi e il cL-   moneta ìr^nmiido; È qui necessario far notare che, se la parola stimolo inter-  lene a ogni passo nella trattazione dei fenomeni fisiologici e  pa ologici, come nei fenomeni psicologici, intendendo la psicoogia in tutta la sua ampiezza, in tutte le sue forme e in tutti i  suoi gradi, apparisce chiara la necessità dell’ intervento frequente  di questa stessa parola anche nello studio dei fenomeni econo-  mici, giacché anche questi hanno un fondamento fisiologico e  psicologico, senza il quale non potrebbero essere. Così nella pro-  duzione si ha uno stimolo interiore a produrre, il bisogno inte-  riore organico e psicologico, immediato o prossimo, che deve  sparire, facendo col lavoro esistente il bene che si desidera: l’im-  magine interiore cioè deve tradursi in atto col lavoro produttivo  e che diventa anche stimolo esteriore, la materia esteriore otte-  nuta col lavoro, per mezzo della coltura (sostanze vegetali) o con  rallevamento del bestiame (sostanze organiche). Queste debbono  alimentare e far vivere 1’ uomo, trasformando la materia morta  e bruta che deve dargli alcune comodità o godimenti dell’ animo.   Si ]Hiò dire che sono gli stimoli e gli stati interiori a spin-  gere 1 uomo all attivila; e più questi sono numerosi ed elevati  più muovono l’individuo al raggiungimento dei suoi materiali od  alti filli che egli vorrebbe vedere tradotti nel mondo reale. Ma  alla sua volta gli stimoli interiori sono il riflesso di stimoli este-  riori, di oggetti già percepiti o immaginati. È questo ciò che si  esprime con la parola ambizione umana la quale, se è la nota  preminente dei grandi uomini è anche una nota importante degli  uomini mediocri e d’ infimo ordine, giacché ogni uomo, secondo  il grado della sua costituzione mentale e della conoscenza del  mondo esteriore, naturale ed umano, vorrebbe far suoi tutti i  beni che conosce, sia di basso che di elevato ordine. Il cibo è uno  stimolo per l’alimentazione e la fame è uno stimolo per provve-  dersi del cibo. Cosi il gusto letterario e le conoscenze scientifiche  possono essere uno stimolo interiore per ajiprofondirsi nel campo  dell’arte e delle .scienze.   Non solo sono stimoli i due termini economici, oggetto e  soggetto, 1 uno per 1 altro: nia è anche stimolo il mezzo termine  fra le due merci o tra il soggetto e l’oggetto, cioè la moneta.  L come è nota della natura umana l’insaziabilità dei beni mate-  riali e spirituali, quando questi siano conosciuti ; ciò che è dif-  ficile, come 1 illimitatezza nell’acquisto, cosi avv^iene per la mo-  neta. Di questa anche 1 uomo non è mai sazio di possederne ;  perchè riconosce in essa una possibilità ed uno stimolo per    66     acquistare altri beni. Ed il possesso è di vari gradi. Vi è il pos-  sesso limitato della moneta, per quanto questa possa essere grande,  e di essa 1 uomo si contenta e che vuole o conservare o spen-   deie, 0 di questa egli si serve come stimolo per la produzione  di nuove ricchezze.   Proprio quando la vita economica, industriale, commerciale,  è molto complessa ed estesa, e tutto il mondo umano sembra  un grande mercato come è ora, per cui grandi sono i bisogni c  le richieste dei beni da per tutto; e l’ambizione umana si estende  ed intensifica ovunque, allora la ricchezza può essere adoperata  come strumento (stimolo) per acquistare nuove ricchezze. Cosi  viene stimolata la sete deH’uorno per l’acquisto indefinito della  ricchezza; perchè vi è richiesta di tutti i beni che egli conosce  e di cui vuole godere, come da per tutto viene apprezzato e  richiesto il lavoro dell’uomo. .Si comprende in tal modo come  piu sovrabbonda il danaro in una società, più gli uomini .sono  spinti all attività pratica e cresce la loro ambizione per guada-  gnare e godere. Uomini che hanno quest’aspirazione e non hanno  danaro, ma riconoscono di avere ingegno, forza muscolare e  tempo per arricchirsi, ricorrono al prestito del danaro. Ma cosi  si entra in una categoria economica più elevati, quale è appunto  il presfito, il cui polo opposto è il capitale. Il semplice possesso  della ricchezza, sia questa rappresentata dalla moneta o da altre  specie di beni immobili e mobili o da prodotti industriali od  artistici, se è come semplice servizio personale o della famiglia,  non merita il nome di capitale. Si richiede invece che essa si.a  data in prestito.      XV.    Il capitale-prestito,    11 capitale-prestito cosi rappresenta un più alto grado dello  scambio; e, come in questo, ciascuno dei due termini o soggetti  economici acquista e perde, cosi avviene nel capitale-prestito;  ma anche qui la categoria di acquisto e perdita implica una più  elevata economicità. Cosi colui che prende in prestito acquista la  ricchezza ma la perdita e rimandata aH’avvenire ; si ha cioè il  bene presente ; ma la perdita che dovrà aversi nell’ avvenire  consisterà non solo nella restituzione del capitale, ma anche  nell’ interesse convenuto. Frattanto l’uso provvido ed economico  del capitale avrà dovuto fargli acquistare nuove ricchezze. An-  che nuove ricchezze acquista il capitalista, cedendo tempora-  neamente la sua ricchezza ad altri; ma va incontro anche ad  una perdita temporanea della sua ricchezza durante il periodo  della sua cessione; perchè non se ne può servire.   Col capitale e col prestito l’attività economica da una sfera  limitata e quasi individuale, quale è quella dello scambio, da  prima in una ristretta cerchia, s’ingigantisce ed estende da pri-  ma in ciascuna nazione e più tardi gradatamente in tutto il  mondo; con la fondazione o moltiplicazione delle banche che  dànno una grande diffusione al capitale e al credito, stimolando  l’attività economica produttiva e portando la diffusione delle  merci da per tutto. E ciò con l’aiuto della macchina che ha  moltiplicato e specializzato la produzione dei beni industriali e  li fa penetrare, come vi fa penetrare anche i beni naturali, in  tutto il mondo umano. Ma per quest’attività si richiede l’ ingegno;  all’ istesso modo che 1’ esercizio di essa fa sviluppare Tingegno.   La produzione dunque della ricchezza capitalizzata e capi-  talizzante, per cui si tende sempre a ridurre al minimo la    — 68 —     perdita, nello stesso tempo che si tende a jiortare al massimo  l’acquisto, deve essere sempre l’obbietto dell’attività del soggetto  economico. Me questa che già fece esistente il capitale si affie-  volisce, 1 oggetto per mancanza di governo e di direzione tende  ad arrestarsi nel suo processo e, per le mutate condizioni este-  riori, tende a deviare, a perdere la sua potenzialità di acqui-  stare ed a venire cosi scemato come semplice ricchezza.   Sicché, se dalla produzione diretta primitiva alla produzione  capitalistica si ha una progressione per cui pare che la ricchezza  si produca da sé, indipendentemente dal soggetto, pure l’attività  di questo deve intervenire, cercando di farla progredire ed ac-  crescere. Deve prevedere il cammino che si può e si deve fare    e provvedere alla conservazione della ricchezza ed alla sua dif-  lusione proficua; ciò che è il lavoro di critica e di speculazione  che il soggetto deve tare. Ad ogni modo questo lavoro, se im-  plica una piccola perdita di tempo e di forza organica e psichica,  pure riduce con l’esercizio al minimo questa perdita; onde si  può dire che se il lavoro di produzione che da prima è grande,  secondo la quantità e la specificità d’impiego del capitale, esso  è di poi menomato e perciò agevolato; anzi deve al meccani-  smo, guidato dall’ intelligenza, il suo grande sviluppo.   All’incontro nella produzione naturale il soggetto deve so-    stenere una lotta intensa contro il suo oggetto, la natura indo-    mita e ribelle, che può essere vinta temporaneamente ma non  definitivamente ; giacché essa offre sempre nuove difficoltà al  soggetto produttore, anzi si può dire che dai primi tempi della  \ ita umana sulla terra, queste difficoltà si sono andate sempre  accentuando. E ciò perchè, se la natura da prima, dopo uscita  dal suo stato selvaggio, dava facilmente all’ uomo i suoi pro-  dotti, col progresso del tempo gliene ha dato sempre meno, an-  che essendosi moltiplicato l’ ingegno e il lavoro dell’ uomo volto  contro di essa. E ciò mentre gli uomini si moltiplicavano ed ac-  crescevano con la loro associazione i loro sforzi per la produ-  zione agricola.   Sembra che d’ oggi innanzi il lavoro dell’ uomo contro la  natura per obbligarla a produrre ciò di cui ha bisogno diverrà  sempre più intenso ed i mezzi più necessari alla vita diverran-  no sempre più difficili a conquistare. In altri termini la lotta tra    T    — 69 —    l’uomo e la natura diverrà sempre più intensa; perchè la fina-  lità di questa è in opposizione alla finalità di quello; ed una con-  ciliazione solamente è possibile alla condizione che ciascuno dei  due termini conceda all’ altro qualche cosa di sé, senza annul-  larsi, anzi sostenendosi l’ uno con l’altro. Questo fa vedere che  r uomo deve essere limitato nelle sue pretese verso la natura e  che, se questa deve dare qualche parte di sé all’ uomo, non  può e non deve dare tutta sé stessa se non a costo di annullarsi ;  perchè allora anche la natura, dominata dall’ uomo ed alla quale  questi domanda i mozzi di vita, dovrà venir meno alle sue pro-  messe, producendo in lui le più grandi delusioni.   Frattanto, mentre i prodotti dell’ industria si moltiplicano  indefinitamente e progressivamente da per tutto, in quantità e  qualità, richiedendo questa un esiguo lavoro muscolare e meno  tempo, ciò che incoraggia l’ irregimentazione dei lavoratori, tanto  più perchè questi vi hanno la promessa di una vita agiata e  comoda, quasi sempre in città, senza sospettare che un giorno  avessero a scarseggiare gli alimenti necessari alla vita, i lavo-  ratori delta terra, all’ incontro debbono sostenere una lotta lunga  faticosa ed intensa per procacciarsi di che vivere. Del valore e delle sue forme inferiori   Le attività economiche, come quelle fisiologiche, sono cosi  connesse ecl intralciate fra di loro che l'esposizione logica e siste-  matica ne riesce oltremodo difficile, Non si può trattare un a-  spetto, una categoria economica se in essa non intervengano,  sottintese o manifeste, altre categorie. Sicché da prima si può  avere una conoscenza parziale o sconnessa di alcune funzioni;  e solamente dopo che si è raggiunta la piena conoscenza di  tutte, si può principiare a vederle ordinatamente. È que.sta la  ragione della difficoltà nello spiegarsi i fenomeni economici. E  l’ordine consiste neH’universalizzazione dei vari principii e nel  1’ unificazione di que.sti in tutte le loro gradazioni, in tutti i loro  movimenti, nei loro reciproci rapporti, tanto da apparire come  lo svolgimento di un principio solo. Sotto quest’aspetto molto  importante è il principio del valore in economia politica, cosi  in quella naturale come in quella industriale; e in tutte le isti-  tuzioni umane nelle quali questo concetto interviene. Ma solo una  esposizione storica e sistematica, in che consiste la vera tratta-  zione logica della dottrina, può farcela intendere in tutti i suoi  gradi ed aspetti.   Negli ultimi tempi si è parlato di valore in materia di arte  di scienza, di filosofia, di religione; ma poiché in tali rami di  attività umana, cosi come sono stati trattati, la dottrina del va-  lore non é dedotta da un principio più univ^ersale che comprenda  e questi e tutti gli altri rami del mondo naturale ed umano,  quella trattazione riesce incomprensibile e vana. E, benché si  possa dire che la filosofia e la religione implichino la più alta  sfera del valore, pure, se esse v^engono considerate come per  sé, senza alcuna comunicazione col resto del mondo, non come          !    1    — 71    il risultato di uno svolgimento e di una storia, il concetto del  valore che da esse si può trarre non deve essere soddisfacente.  E se il valore è una categoria universale che interviene in tutti  i gradi deiressere, nel mondo metafisico, come nel fisico e nello  spirituale, in ciascun grado ha un aspetto particolare, ha qualche  cosa d'identico e di differente con la stessa categoria di valore  degli altri gradi del mondo reale. Far distinguere perciò le dif-  ferenze dall’ identità del valore in ciascun grado della realtà è  il dovere di colui che tratta questa materia.   Da prima potrebbe sembrare che la teoria del valore si  identificasse con quella del bene; ed in vero vi è molta identità  fra le due categorie. Però del bene i filosofi e i moralisti hanno  dato più un concetto comprensivo che analitico e storico; ed  alcuni Tànno identificato con Dio stesso, il sommo bene. Essi  hanno anche fatto notare la varietà dei beni che sono nel  mondo e l'ànno anche sistematizzati; hanno messo il bene e tutti  i gradi di esso in correlazione col male e con tutti i mali pos-  sibili. Ma la dottrina del valore include quella del bene e del  male insieme, però le compie, mettendole in una posizione dua-  listica ed unitaria insieme, quasi drammatica; scinde cioè la ma-  teria in due termini in lotta fra di loro, rorganismo e il mondo  esterno che ha valore per quello, può cioè tornargli a bene ;  vede una dualità tra l'anima, la mente e il mondo esterno. E se  nella prima zona Torganismo vivente deve accettare e subire il  mondo esterno quale è, pure reagendo contro di esso; nella se-  conda zona r anima e la mente possono modificare per sè il  mondo esterno, elevandolo; o produrre addirittura qualità nuo-  ve neiroggetto.   %   E questo l’aspetto nuovo ed originale della dottrina del va-  lore, il cui regno in verità é quello della vita organica, vegetale  ed animale, le zone cioè superiori della natura; ed anche quello  deH’aniraa umana, nelle sue attività inferiori e nelle superiori,  intellettive, pratiche ed anche creative, che sono i gradi più  eminenti del mondo umano. L’attività umana perciò diventa essa  stessa una forma altissima di bene, il bene attivo, limitrofo a Dio  stesso: non il bene immobile che può anche menomare se stesso  e il suo termine opposto che presuppone e per cui è ; può pro-  durre cioè il male, dal quale può, è vero, di nuovo nascere il  bene che rientra nella sua ricostituzione storica e progressiva.  Ma, se r organismo e la mente rappresentano il regno e la  vitalità del valore, essi non esauriscono tutta la natura; vi è  in questa qualche cosa che essi presuppongono, senza di che  non potrebbero essere e muoversi; e che si può dire il loro  presupposto. E se si va a fondo nello studio della natura questo  che noi chiamiamo presupposto si risolve in una serie di pre-  supposti, una serie di gradi di cui ciascuno è presupposto e  presuppone altri. E questa è pure un’ ampia zona del valore  che si può dire puramente naturale, la quale, studiata, apparisce  come l’unità e la sistematizzazione di altre sottozone. Si ha cosi  la zona fisica la quale comprende e quella della materia e quella  delle forze. Sembra a prima vista che questa sia come chiusa  in sè ed isolata dal regno della vita e perciò fuori il mondo  del valore. Forme superiori del valore   Il processo ascensivo e discensivo, chimico, minerale, il quale,  non bisogna dimenticarlo, è sempre un processo di elevazione  e di menomazione insieme del valore, diventa più intenso in  quella sfera più elevata della chimica che è 1’ organica in cui  entra in composizione il carbonio. Pure quest’ attività è relativa-  mente qualche cosa di semplice se si studia in sostanze singole  che sono fuori dell’ organismo vegetale ed animale o estratte  da questi. Ma se si .studia entro di questi, l’ intensità trasforma-  trice del movimento chimico e di valore organico diventa stra-  ordinariamente complessa, quantunque questa complessità sia  minore nella pianta e maggiore nell’ animale. In quella è con-  siderato il lavorio complicati vo mentre è vivente; e con la morto  si ha il lavorio analitico. Nella vita interna dell’animale albi  contro intensissimo è il lavorio di scomposizione, come è quello  di composizione e di reintegramento, in tutti gli atti della vita,  sia considerata in ciascuna cellula e in ciascuna fibra che in  ciascun organo o sistema e nell’ unità funzionale di questi. Qui  il concetto del valore, cosi in ciascuno elemento della vita,  come in ciascun organo e tessuto e nell’ insieme dell’organismo  vivente, diviene di tanta molteplicità, complessità e varietà, che  la mente umana non può seguirlo in tutti i suoi elementi e in  tutti i suoi intimi processi.   Vi è una più alta regione della natura, rappresentata dalla  vita animale e vegetale nel loro insieme, come si svolge nel  mare dove vivono insieme piante ed animali in lotta fra loro;  e sulla superficie della terra che è rappresentata dal bosco nel  cui mezzo gli animali vivono e prosperano, come è avvenuto  nelle epoche primitive della natura vegetale ed animale. Qui     •V   ciascun animale, ciascuna pianta, è un elemento della vita na-  tumle, animale e vegetale, nel suo insieme e nella sua univer-  salità, nella quale si può riscontrare, in proporzioni ancora vaste  ed universali, il processo di elevazione e di riduzione, che si ha  in ciascuno organismo vivente, onde piante e generazioni di  piante muoiono ed altre nascono, come animali e generazioni di  ammali muoiono ed altri nascono ; ed alcuni servono di cibo  (hanno un valore) per altri : la corruzione degli uni è la vene-  razione degli altri. Ma per la vita vegetale ed animale hanno  un valore ancora il clima, le condizioni atmosferiche, le condi-  zioni del suolo ed anche le condizioni storiche di questo; giac-  che la vita vegetale ed animale nella loro lunga storia, come  elidono a modificare lo stato del terreno, contribuiscono ancora  a modificare la vita vegetale ed animale, onde animali si nu-  trono m modo più 0 meno rigoglioso di piante e di altri ani-  mali ; e la dissoluzione delle piante e degli animali rende più  energica la vitalità delle piante.   hin qui vi ò un processo puramente inconscio di movimenti  naturali e di elementi, di cui gli uni hanno valore per gli altri,  -la, benché l’animale distingua ciò che può avere un valore  Ku- lui (positivo 0 negativo), come l’alimento, l’acqua, la tana,   .1 c ura pei figli, la ricerca del clima a lui propizio, la fuga dai  leiicoli, alcune di queste cose sono un prodotto puramente na-  urale, che l’animale trova d’ innanzi a sé; solo alcuni animali  ivendo il potere limitato di costruirsi il nido e la tana • altre  i Olio tenomeni istintivi. ’ Apparso l’uomo con l’intelligenza di cui è dotato, che egli  < sercita e sul mondo circostante e su sé stes.so, il suo organismo  I sua anima, e tutto ciò che ha fiuto suo, nel mondo esterno  Ultra la natura e gli elementi che la costituiscono, acquistano  I 11 pili alto valore. Studiando sé stesso, egli non può non av-  ' crtire e scoprire i bisogni, le lacune che si generano conti-  1 uamento nel suo organismo e nel campo della sua mente; e  con la sua intelligenza prevede i bisogni avvenire. Nello stesso  t ‘inpo, essendo messo in rapporto col mondo esterno, egli studia  questo negli elementi, nelle qualità e proprietà, che lo costitui-  s-ono, nei suoi movimenti; cerca di adattarlo a sé ; e non solo  d colmare i suoi bi.sogni per mezzo di qualche cosa, di qualche   elemento di esso; ma anche di elevare il proprio benessere, di  assicurarlo per sè ed i suoi per l’ avvenire. Tutto questo processo  è avvenuto dal principio della storia dell’ uomo sulla terra e si  è andato progressivamente affermando, intensificando e svolgen-  do, sino a noi. E non solo non si è arrestato ; ma con lo studio  progressivo della natura, nella sua materia e nelle sue forze,  .sembra voglia assumere proporzioni più vaste anche nel nostro  tempo in cui non si lascia nulla di tentare e di studiare per  applicarlo al miglioramento ed al progresso umano.   Questo lavoro l’uomo ha compiuto empiricamente ed incon-  sapevolmente dai primi tempi ; e più tardi in modo più o meno  scientifico, organico e progressivo. Cosi deve essere inteso il  progresso che l’ umanità ha fatto nel campo del sapere. A questo  progresso nel regno della conoscenza si è andato sempre asso-  ciando un progresso nell’ attività pratica la quale è divenuta  anche materia di studio per l’ uomo ; questi due ordini di  attività essendo 1’ uno indivisibile da 1’ altro e 1’ uno stimolando  1 altro nel suo sviluppo. A questo processo coiioscitivm e pratico,  che implica un lavoro distintivo delle cose si è associato un  progresso nel linguaggio. Ad ogni atto distintivo o cosa distinta  applicandosi una nuovni parola, ciò ha contribuito al lavoro di  associazione e di conservazione delle conoscenze e delle atti-  vità umane.   Sarebbe un lavoro importante ma lungo seguire questo  fenomeno nella storia, per cui si è riconosciuto un valore ad un  dato minerale, ad una data pianta o animale, che hanno con-  tribuito alla soddisfazione di un bisogno organico o al mantelli  mento della vita o a dare certe comodità. Si è riconosciuto nelle  parti di alcune piante e nelle sostanze animali un valore nutri-  tivo e conservativo. E il primo valore che l’uomo ha cercato  nelle cose è stato quello che ha potuto contribuire a mantenerlo  in vita, come ha tatto 1 animale. Sono state cioè le cose neces-  sarie che egli ha cercato. Fatto sicuro del vivere, egli ha cercato  a ben vivere; quindi la ricerca e 1’ uso delle cose utili. Ma, ac-  canto a questa attività, si è sviluppata quella inventiva, per cui  egli, aiutato sia dal suo ingegno che dalle scoperte scientifiche,  ha cercato di costruire istrumenti, congegni, apparecchi e più  tardi, macchine, che contribuissero a modificare le inatGrie che    I     — 80 —   dovessero essergli utili. Sicché da una parte ha impiegato le  sue attività intellettive a scoprire, nei regni delia natura, ele-  menti, sostanze, energie, che potessero giovargli, dall’altra ha  cercato di trovare i mezzi per servirsene.   Queste attività dal loro più primitivo inizio nella storia  sino a noi, attraverso i millenni, si sono andate svolgendo ed esten-  dendo con l’estendersi delle comunicazioni e delle associazioni  umane. Sarebbe una ricerca importante seguire nella storia il  processo per cui 1’ uomo, singolo da prima, ha trovato un’utilità  in un dato animale, in una pianta o in un minerale. Si può rin-  tracciare questo cammino nelle letterature antiche, medioevali e  moderne di tutte le nazioni; giacché in varie epoche si vedono  nominati speciali metalli, piante ed animali, ai (]uali o alle parti  dei quali 1 uomo ha attribuito un valore e di cui si é servito. Così  l’uomo mano a mano ha aggiunto al valore delle cose, latente ed  inconscio, un nuovo valore. E, se da prima questo era qualche  cosa di limitato, più tardi al primitivo valore si sono aggiunti  nuovi valori, nuovi usi della cosa; nuovi congegni si sono in-  ventati, nuovi metodi si sono adoperati per poter estrarre la  cosa, modificarla, farla servire ai vari usi della vita ; metterla  in commercio affinché tutti gli uomini ne godano. Tanti metalli  e metalloidi che dalle epoche primitive della natura erano se-  polti nelle viscere della terra, aventi una semplice potenzialità  di valore chimico, vengono disseiipelliti dall’ uomo ed ai quali  la civiltà moderna dà alte attribuzioni economiche, come l’oro,   1 argento, il ferro, il rame, il solfo, il carbonio, ecc. Hi sa che  se presentemente ipiesta sola unica sostanza, il carbonio, veni.sse  a mancare, tutto il ritmo della vita contemporanea verrebbe  arrestato ; giacché é un istrumento di moltiplicissime attività  tisiche, meccaniche, chimiche e perciò, si può dire, rende possi-  bile la vita economica del nostro tempo. Ma questi bisogni ac-  ciescono 1 attività umana la quale si volge a rintracciare le  •sostanze di cui ha bisogno, da per tutto, cosi sulla superficie  ionie nelle vi.scere della terra. Anche le forze fìsiche le quali  prima erano in balla della natura, come le forze meccaniche,  il calorico, la elettricità, .sono state non solo conquistate e domi-  nate dall’uomo ma ancora dirette e specializzate per la produzione  di certi dati movimenti, beni o comodità della vita. La forza       V     meccanica e l’elettricità hanno dato un impulso straordinario  alla civiltà odierna. Più tardi 1’ uomo crea e dà certe attribuzioni di valore alle cose, come fa con la moneta, tanto necessaria  al mondo economico. Inoltre il v^alore acquista un nuovo e più  alto contenuto ed un significato nuovo nel mondo psicologico  ed artistico, come nella sfera religiosa. Ma in queste ultime e  così alte sfere dell’attività umana tale dottrina merita una trat-  tazione a parte. Nicolò Raffaele Angelo D’Alfonso. N. R. D’Alfonso. Nicolò d'Alfonso. Keywords: principii economici dell’etica, valore superiore, valore inferiore, economia, principio di economia di sforzo razionale – scambio, exchange – worth, assiologia, valore economico, l’economia di Platone, l’economia di Aristotele, linceo, dissertazione su Kant ai lincei – naturalismo economico – no positivista – critica a la psicologia criminologica positivista, Amleto, lo spettro di Amleto, Macbeth. Linguaggio e mente, il sole luminoso, l’oggetto rotondo, la pianta fiorisce – logica reale – psicologia del linguaggio, la storia del linguaggio, storia e prestoria. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alfonso” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Algarotti (Venezia). Filosofo. Grice: “You’ve got to love ‘il conte Algarotti’; he is the typical Italian philosopher of language, relishing on ‘la bella lingua,’ by which they do not mean the Roman! “La Latina, in bocca di un popolo di soldati, e concise e ardimentosa.’” Grice: “Algarotti thinks that the Florentines have enriched it – ‘Imagine Aligheri in Latin!” – Grice: “All that should be lost on Oxonians, but it ain’t!” – Consider ‘conciseness.’ One of my conversational maxims is indeed, ‘be concise, i. e. or viz., avoid unnecessary prolixity [sic].” – So, if the Roman tongue was the tongue of soldiers, and a soldier needs to be concise in communicating with another soldier – The justification of the maxim is in the practice of ‘soldiering.’ With ‘ardimentosa’ we have moer of a problem!” – Grice: “In any case, Algarotti’s excellent point is that each conversational maxim has its root in the practice of the corresponding conversants!” -- Grice: “Nobody can fail to be enchanted by the drawing by Richardson of Algarotti!” -- essential Italian philosopher. Grice: “I don’t have a monicker, but Algarotti had two: il cigno di Padova and il Socrate veneziano. Filosofo. Spirito illuminista, erudito dotato di conoscenze che spaziavano dal newtonianismo all'architettura, alla musica, era amico delle personalità più grandi dell'epoca: Voltaire, Jean-Baptiste Boyer d'Argens, Pierre Louis Moreau de Maupertuis, Julien Offray de La Mettrie. Tra i suoi corrispondenti vi erano Lord Chesterfield, Thomas Gray, George Lyttelton, Thomas Hollis, Metastasio, Benedetto XIV, Heinrich von Brühl, Federico II di Prussia.   Saggi, 1963 (testo completo) Nacque da una famiglia di commercianti. Dopo un primo periodo di studio a Roma continua gli studi a Bologna, dove affronta le diverse discipline scientifiche nella loro vastità. Si trasfere a Firenze per completare la propria preparazione letteraria.  Inizia a viaggiare, raggiungendo Parigi. Presentare il proprio newtonianismo, opera di divulgazione scientifica brillante. L'opera fu prima apprezzata, e poi denigrata da Voltaire, che dal lavoro del suo caro cigno di Padova — come era solito appellarlo — trasse alcuni temi dei suoi Elementi della filosofia di Newton. Voltaire e Algarotti si erano conosciuti personalmente a Cirey nello stesso periodo in cui l'italiano preparava il saggio. Dopo il periodo trascorso in Francia, Algarotti si reca in Inghilterra, per soggiornare per qualche tempo a Londra, dove fu accolto nella Societa Reale. Tornato in Italia si dedica alla pubblicazione del Newtonianesimo. Dopo un breve ritorno a Londra, andò a visitare alcune zone della Russia (fermandosi in particolare a San Pietroburgo) e della Prussia.  Quando il re Federico si recò a Königsberg a incoronarsi, Algarotti si trova in mezzo gli applausi e il giubilo di quella potente e valorosa nazione misto e confuso coi principi della famiglia reale, e stette nel palco col re, spargendo al popolo sottoposto le monete con l'immagine di Federico. Fu in tale congiuntura che questi conferì a lui, quanto al fratello Bonomo e ai discendenti della famiglia Algarotti, il titolo di “conte”, meno vano quando è premio del sapere, e lo fece suo ciambellano e cavaliere dell'ordine del merito, mentr'era alla corte di Dresda col titolo di consigliere intimo di guerra. Dal momento che conosce Federico né l'amicizia, né la stima del re, né la gratitudine, la devozione e il sincero affetto del cortigiano vennero meno, né soffersero mai alcuna alterazione. L’amicizia fra Algarotti ed il re e estesa anche alla sfera più intima. Il re lo volle non solo a compagno degli studi e dei viaggi, ma altresì dei suoi più segreti piaceri, essendoché della corte di Potsdam, ora fa un peripato, ed ora la converte in un tempio di Gnido, il che significa: in un tempio di Venere. Utilizza la propria influenza anche a favore degli oppositori filosofici a Venezia, Bologna, e Pisa. Altre opere: “Viaggi di Russia”; “Il Congresso di Citera” -- un romanzo dedicato ai costumi galanti e amorosi rivisitati secondo quanto osservato nei diversi luoci in cui soggiorna. Altre opere: edizione in 17 volume con indice analitico – reproduzione anastatica -- Poesie -- Epistole in versi -- Annotazioni alle epistole -- Rime giusta l'ediz. di Bologna -- Elegia ad Francisci Marive Zanotti Carmina -- Dialoghi sopra l'ottica Neutoniana -- Breve storia della Fisica ed esposizione dell' ipotesi del Cartesio sopra la natura della luce e de' colori. I principi generali dell'ottica -- La struttura dell'occhio e la maniera onde si vede ; e si confutano le ipotesi del Cartesio e del Malebranchio intorno alla natura della luce e de colori -- Esposizione del sistema d'ottica neutoniano. Il principio universale dell'attrazione -- Applicazione di questo principio all'ottica -- Si confutano alcune ipotesi intorno la natura de colori, e si riconferma il sistema del Neutono -- Opuscoli spettanti al neutonianismo. Caritea, ovvero dialogo in cui spiega come da noi si veggano dritti gli oggetti che nell'occhio si dipingono capovolti e come solo si vegga *un* oggetto, non ostante che negli occhi se ne dipingano *due* immagini -- Dissertatio de colorum immutabilitate eorum que diversa refrangibilitate -- Memoire sur la recherche entreprise par m. Du fay, s'il n'y a effectivement dans la lumie re que trois couleurs primitives -- Sur les sept couleurs primitives, pour servir de réponse à ce que m. Dufay a dit à ce sujet dans la feuille du Pour et contre -- Le belle arti -- L'Architettura --  La Pittura -- L'Accademia di Francia ch'è in Roma. L'opera in musica. Enea in Troja. Ifigenia in en Aulide: opera -- Sopra la necessità di scrivere nella propria lingua -- La lingua francese -- La Rima -- La durata de' regni de' re di Roma -- L'impero degl'incas -- Perchè i grandi ingegni a certi tempi sorgono tutti ad un trat o e fioriscono insieme -- se le qualità varie de' popoli originate sieno dall' influsso del clima, ovveramente dalle virtù della legislazione -- Il gentilesimo. Il Commercio -- Cartesio -- Orazio -- La scienza militare del segretario fiorentino. Discorso militare -- La ricchezza della lingua italiana ne' termini militari -- Se sia miglior partito schierarsi con l'ordinanza piena oppure con intervalli -- La colonna del cav. Folfrd -- Gli studj fatti da Andrea Palladio nelle cose militari -- L'impresa disegnata da Giulio Cesare contro a' Parti -- L'ordine di battaglia di Koulicano contro ad Asraffo capo degli Aguani. L'ordine di battaglia di Koulicano a Leilam contro Topal Osmano. Gl'esercizi militari de' prussiani in tempo di pace -- Carlo XII re di Svezia -- La presa di Bergenopzoom. La potenza militare in Asia delle compagnie mercantili di Europa -- L'ammiraglio Anson -- La scienza militare di Virgilio -- La guerra insorta l'anno MDCCLV tra l'Inghilterra e la Francia -- Il principio della guerra fatta al re di Prussia dall' Austria, dalla Francia , dalla Russia , etc. -- Gl'effetti della giornata di Lobositz -- La condotta militare e politica del ministro Pitt -- Il poema dell'arte daila guerra -- Il fatto d'armi di Maxen -- La pace conchiusa l'anno MDCCLXII tra l'Inghilterra e la Francia -- La giornata di Zamara -- Viaggi di Russia -- Storia metallica della Russia -- Lettere a milord Hervey sopra la Russia -- Lettere al marchese Scipione Maffei sullo stesso argomento -- Congresso di Citera -- Giudicio di Amore sopra il Congresso di Citera -- Vita di Stefano Benedetto Pallavicini -- Sinopsi di una introduzione alla Nereidologia -- Lettera sopra il prospetto o Sinopsi della Nereidologia . 387 Risposta dell' Autore -- Gl'effetti dell'invasione dei goti e de'vandali in Italia -- Le Accademie -- Michelagnolo Buonarroti -- Gl'italiani -- Il passaggio al sud per il norte -- L'industria. Gl'inglesi -- Bernini -- Metastasio -- Gl'abusi introdottisi nelle scienze e nelle arti -- Le donne celebri nella letteratura -- La difficoltà delle traduzioni -- Il commercio -- Fontenelle -- La forza della consuetudine -- L'utilità dell' Affrica per il commercio -- Il secolo del seicento -- Ovidio -- Cicerone -- Plutarco -- I romani -- L'etimologie -- I  principi dotti -- L'eleganza nello scrivere del Vasari e del Palladio -- Galilei -- La maniera onde si venre a popolar l'America -- Dante Alighieri --  La lingua francese -- Voltaire -- Euclide -- Le misure itinerarie degli antichi -- La questione della preferenza tra gli antichi e i moderni -- Il secolo presente -- Omero -- Lettere di Polianzio ad Ermogene intorno alla traduzione dell'Eneide del Caro -- La Pittura -- Descrizione dei quadri acquistati per la Galleria di Dresda -- La prospettiva degli antichi -- Pitture ed altre curiosità di Parma -- Pitture di Mauro Tesi -- Pitture di Cento -- Pitture di Bologna -- Pitture di varie città di Romagna -- L'Architettura -- Un'antica pianta di Venezia, prete so intaglio di Alberto Durero -- L'uso dello appajar le colonne -- L'origine delle basi delle colonne -- Descrizione dei disegni di Palladio ed altri per la facciata di s. Petronio di Bologna -- Delle antichità ed altri edifizj di Rimini -- Delle cose più osservabili di Pisa -- Progetto per ridurre a compimento il R. Museo di Dresda -- Argomenti di quadri dati a dipingere a' più celebri Pittori moderni per la R. Galleria di Dresda -- Lettere scientifiche -- Lettere erudite -- Il Cesare tragedia di Voltaire -- EUSTACHIO MANFREDI -- Saggio tritico sulle facoltà della mente umana dello Swift -- L'opera de natura lucis del Vossio -- Omero -- I poemi del Tasso -- Milton -- La traduzione di Omero fatta dal Salvi -- Il poema le Api del Rucellai -- Iscrizioni ed epitaffj rimarcabili -- Sandersono -- Iscrizioni per la chiesa cattolica di Berlino -- Le traduzioni delle sue opere -- Il moto dell'apogeo della luna -- Le comparazioni -- Gli Scrittori italiani del cinquecento -- L'ANTI- LUCREZIO del card. di Polignac -- Gl'abitanti del Paraguai -- Alcuni plagiati de' francesi -- Le cose che i irancesi hanno imparato dagl'italiani -- L'invenzione degli specchj ustorj di Buffon -- L'Edipo di Sofocle -- L'ULISSE del Lazzarini -- L'elettricità -- Il CATONE dell' Addison -- Elogio di Giovanni Emo -- I fosfori -- La doppia rifrazione de' prismi di cristallo di rocca. -- La diffrazione della luce . 355 rocca -- Le Poesie di Gio: Pietro Zanotti -- Pope -- Lo stile di Dante -- L'opinioni del Rizzetti intorno la luce -- La stranezza di alcuni paralelli -- Il poema di Milton -- Il libro De orli et progressu morum del p. Stellini -- Elogio del Caldani -- Gl'influssi della luna -- L'abuso della filosofia nella poesia -- Il Poema del Trissino -- La maniera di seminare insegnata da Alessandro del Borro -- L'operetta Il Congresso di Citera -- Pregi degli scrittori toscani -- Le due tragedie di Mason r Elfrida ed il Carattaco -- L'odi di Tommaso Gray -- La necessità di arricchire di voci toscane il dizionario della Crusca -- La deformità di Guglielmo Hay. Il gnomone di Firenze rettificato dal p. Ximenes -- Storia de' Dialoghi dell' Autore sopra la luce e i colori -- L'origine dell'Accademia della Crusca -- Carteggio con Mauro ('Maurino') Tesi -- Lettere ad Eustachio Zanotti -- Lettere all'ab. Antonio Conti -- Carteggio con il p. d. Paolo Frisi. Lettere. Di Eustachio Manfredi al co. Algarotti -- Di Giampietro Zanotti al co. Algarotti -- Di Francesco Maria Zanotti al co: Algarotti -- Del co: Algarotti a Giampietro Zanotti -- Del co : Algarotti a Francesco Maria Zanotti -- OPERE INEDITE . Lettere . Di Francesco Maria Zanotti al co : Algarotti -- Di Eustachio Zanotti al co: Algarotti -- Della marchesa Elisabetta Ercolani Ratta -- Del co: Algarotti a Francesco Maria Zanotti -- Dell' ab. Metastasio al co: Algarotti -- Dell' ab . Frugoni -- Di Alessandro Fabri -- Di Flaminio Scarselli -- Di Benedetto XIV. Sommo Pontefice . -- Del co: Agostino Paradisi -- Del co: Giammaria Mazzuchelli -- Di mons. Michelangelo Giacomelli . 361 Del co: Algarotti a Flaminio Scarselli -- Del co: Algarotti a Benedetto XIV -- Del co: Algarotti al co: Giammaria Mazzuchelli . Dell ab . Clemente Sibiliato al co : Algarot -- Dell'ab . Saverio Bettinelli -- Del consigliere don Giuseppe Pecis -- Di Gio: Beccari -- Del marchese Scipione Maffei -- Del co: Aurelio Bernieri -- Del co : Paolo Brazolo . 277 , 279 Di Lodovico Bianconi.. 282 , 296 , 308 Del padre Paolo Paciaudi . 285 Del marchese Gio: Poleni. 288 Di Antonio Cocchi . 291 Del doge Marco Foscarini . 293 Dell' ab . Giammaria Ortes . 315 Del marchese Girolamo Grimaldi . 317 Dell' 300 , 6 GENERAL E. pag. 320 354 387 Dell' ab. Metastasio . Del padre Jacopo Belgrado . 335 Di Giovanni Bianchi . 338 Di Tommaso Temanza . 342 , 345 , 348 Del padre Antonio Golini . 350 Dell'ab. Gaspero Patriarchi. Di Giuseppe Bartoli . 369 Del co: Girolamo dal Pozzo . 373 Del marchese Bernardo Tanucci . 383 Dell'ab . Spallanzani . Di Jacopo Martorelli. 439 Del canonico Andrea Lazzarini. 443 Del co: Algarotti all'ab. Sibiliato . 3 Del co : Algarotti all'ab. Bettinelli -- Del co: Algärotti al consigliere Pecis --Del co : Algarotti al co : Aurelio Bernieri. -- Di Federico II. Re di Prussia al co: Algarotti -- Del Principe Guglielmo di Prussia -- Del Principe Ferdinando di Prussia -- Del Principe Enrico di Prussia -- Del Principe Ferdinando di Brünswic -- Del cardinale di Bernis -- Del sig. du Tillot . Del co: Algarotti a Federigo II -- Del co: Algarotti al Principe Guglielmo -- Del co: Algarotti al Principe Ferdinando -- Dello stesso al Principe Enrico -- Dello stesso al Principe Ferdinando di Brünswic -- Dello stesso al cardinale di Bernis -- Della marchesa di Châtelet . pag. 3 a 61 Di Voltaire -- Di Maupertuis -- Di Formey -- Di madama Du Boccage -- Del.co: Algarotti a Voltaire -- Del co : Algarotti a Formey -- Dello stesso a madama Du Boccage -- Di mad. Du Boccage al co: Algarotți --  Del co. Algarotti alla stessa -- Del triumvirato di CRÀSSO, POMPEO E CESARE.  Fu sepolto nel camposanto di Pisa in un monumento di stile archeologizzante, tradotto in marmo di Carrara. L'epitaffio è quello che per lui dettò il re di Prussia: “Algarotto Ovidii aemulo” --  Neutoni discipulo, Federicus rex". Algarotti medesimo si era preparato il disegno del sepolcro e l'epitafio, non già per orgoglio, ma spinto dal sacro amore del bello che anche in faccia alla morte non poteva intiepidirsi nel suo petto. Aperto al progresso e alla conoscenza razionale, esperto del bello (si prodiga come fautore di Palladio), fu rispetto alla filosofia un grande assertore delle teorie di Newton, sul conto del quale scrisse uno dei suoi più noti saggi, Il newtonianesimo. Viene considerato una sorta di Socrate veneziano e per comprendere la sua statura di insigne filosofo con un'infinita sete di sapere e divulgare è sufficiente porsi davanti al suo innumerevole campo di interessi. Al di là del suo ruolo di spicco nell'illuminismo filosofico, fu anche un diplomatico e un procacciatore d'arte. In particolare viaggia cercando antichita romani per conto di Augusto III di Sassonia. È noto che fu a comprare a Venezia il capolavoro di Liotard, il pastello de La cioccolataia, che poi divenne una delle perle a Dresda. Di bell'aspetto, dotato di un aristocratico naso aquilino (esiste al Rijksmuseum uno suo ritratto a pastello, sempre di Liotard, nel Saggio sopra Orazio non perde occasione di far notare come questi fosse ambi-destro, e tanto lodava i vantaggi di questa disposizione, che c'è chi suppone che egli la condividesse. Ebbe a filosofare praticamente su tutto, affrontandocon l'acuta attenzione dello scienziato presso ché ogni aspetto dello scibile umano. Basti ricordare i saggi “Sopra la pittura”; “Sopra l'architettura”; “Sopra l'opera in musica”; “Sopra il commercio”; “Poesie”. Il demone ben temperato. tra scienza e letteratura, Italia ed Europa, Sinestesie,  Note  Umberto Renda e Piero Operti, Dizionario storico della letteratura italiana, Torino, Paravia, 195226.  Ugo Baldini, BRESSANI, Gregorio, in Dizionario biografico degli italiani,  14, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Francesco Algarotti, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Francesco Algarotti, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Francesco Algarotti, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Francesco Algarotti, su Find a Grave.  Opere di Francesco Algarotti, su Liber Liber.  Opere di Francesco Algarotti / Francesco Algarotti (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Francesco Algarotti, . Spartiti o libretti di Francesco Algarotti, su International Music Score Library Project, Project Petrucci LLC.  Progetto per ridurre a compimento il Regio Museo di Dresda su horti-hesperidum.com. Sito Algarotti dell'Treviri, su algarotti.uni-trier.de. La casa di Francesco Algarotti è aperta da settembre  come alloggio turistico. Algarotti e Palladio , su cisapalladio.org. Il newtonianismo per le dame, su google.com. Opere del conte Algarotti, su google.com. Corrispondenza con Federico II di Prussia (testo francese e tedesco) V D M Illuministi italiani --  LGBT  LGBT Letteratura  Letteratura Teatro  Teatro Categorie: Scrittori italiani del XVIII secoloSaggisti italiani del XVIII secoloCollezionisti d'arte italiani Venezia PisaTeorici del restauroIlluministiScrittori trattanti tematiche LGBTMembri della Royal SocietyViaggiatori italianiMercanti d'arte italiani. Il conte Algarotti adunque per più ragioni, secondo che egli dice, entra in pensiero, che della metà a un di presso s'avesse ad accorciar la durata de’ regni de’ re di Roma. Alcune di queste possono considerarsi come certi sguardi, che getta ad un traito sopra tutto il corso degli anni, che. E per trattare ordinatamente la quistione reputo necessario l'accennare prima ditutto il cammino, che ho avvisato dover battere per giungere al vero. Breve lavoro sarebbe pertanto i l rispondere alle opposizioni della prima maniera, che fa contro le epoche dagli antichi fissate alla storia de' re, in ispecie a quelle, che sono in principio del suo saggio, le quali sono tratte, direi cosi, dalla sola natura del soggetto. P r ciocchè alcune ch'egli aggiugne in fine del suo saggio, quantunque risguardino in genere tutto il tempo della durata de' sette regni, contuttociò tratte sono dagli avvenimenti narrati dagli storici, e sono come un  fidicono passati. Sotto cotesti Re. Altre, e queste sono in maggior copia, risguardano più particolarmente ciascun regno, e s'in gegna con tutto questo di dimostrare, com e i fatti, che dagli storici, e principalmente da Livio ci furono tramandati, facciano guerra alle epoche assegnate da esso altri scrittori di quelle storie; le quali ragioni io non istimo Livio medesimo, e dagli essere di tal peso, che s'abbia -perciò ad infringere l'autorità degli storici, ed abbre viare della metà circa la durata de'mentovati Regni .  un risultato delle osservazioni sue sopra ciascun regno. Ma riesce poi più lunga faccenda il togliere quelle contraddizioni, e ripugnanze, che dice ritrovarsi tra i fat tiregistrarinegli annali  degli storici, e le epoche da elli assegnate. Ben è vero, che per questo rispetto chi volesse restringersi unicamente a mettere la cosa in dubbio, quella stessa facilità, con cui prese per guida que’.foli Storici, che gli andavano a grado, e fece scelta di que ' foli luoghi di questi, che gli erano favorevoli, potrebbe appigliarsi ad altro Scrittore, oppure ammertendo gli stesii sceglier da quelli que'luoghi (che al certo non gli mancherebbono), i quali favorissero l'antico cronologico sistema. Ma questo sarebbe porre folianto, c o m e disli, in dubbio la cosa ; anzi il far vedere , che non mancano testimonianze in favore sia dell'una , che dell'altra opinione , riuscireb be di non poca confusione , e darebbe a credere a' poco avveduti , che la quistione definir non sipossa. Onde io credo, che far si debba un passo più oltre , vale a dire non appagarsi di ridur la cosa a tal segno soltanto ,che vengano ad indebolirfi le ra gioni addotte dal Conte Algarotti contro l'antico Cronologico Sistema , per m o d o che non    che per l'altra , o pure anche che venga non fiavi per una parte ragion più forte , a rendersi più probabile l'antico Sistema, m a di più innalzarlo al grado delle cose più fi cure , che affermar si possano di quella pri ma età di Roma :ilche per recare adef fetto si dovrebbono esaminare le qualità , ed il particolarcaratteredi ciascuno degli Sto rici , che scrissero gli avvenimenti di que' secoli, e confrontandone i luoghi, far ragio ne dal tempo , in cui vissero , dal fine,per cui presero a dettare le loro Storie , in s o m m a adoperarsi per conciliarli fra di loro , ed accertarsi per mezzo di una sana Critica della verità de'fatti, onde chiaramente siscopra, se questi, ove sieno ben accertati , sieno poi tali , che all'epoche ripugnino . Ora adunque seguendo lo stesso ordine te nuto dall'Autore nelSaggio suo , allorchè mi sarò ingegnato di rispondere a quelle g e n e rali opposizioni , ch'egli fa, e dopo che avrò delineato non dirò già un ritratto , m a un lieve abbozzo de'tre principali Scrittoridelle Storie di Roma sottoi Re , mi farò distin tamente ad esaminare quelle irragionevolez ze ; ed anche ripugnanze, com'ei le chiama , per cui stimò doversi abbreviar ciascun R e gno , e per conseguente di molto , cioèdella  i b metà   metà forse, doversi scemar la durata di tutti fette iRegni . Si risponde ad alcune obbiezioni , che fa il Conte Algarotti coniro l'antico dero  no , CAPO Cronologico Sistema. P e r farci a considerar quelle ragioni, che adduce prima di tutto l'Autor nostro nel suo Saggio , e che tutta la quistione abbraccia fa d' ilpremettere , uopo , e che gli mette troppo bene a conto , ed è che i fatti fieno staticonservati illesi dalla semplice tradizione , che tro egli chiama vaga , senza ajuto degli A n nali ,i quali perirono nelle fiamme, cui die 1 noftri ultimi tempi alcuni Letterati Francesi dell'antica avanti Pirro osservato Storia molti luoghi avendo Roma farono doverne dubitar della certezza nel qual dubbio se fosse per avventura 'egli en trato , non opporre che , essendo il tutto dubbioso egualmente egli un partito Ora è da avvertire prender che a questi di sottilmente, p e n più ragionevolmente potrebbe i fatti dagli Storici narrati all'epo di mezzo per al  dero in preda i Galli la Città di Roma , e le epoche sieno state interamente distrutte da quell'incendio , nè per quelte sole tradi zioni veruna valendo , abbiano dovuto gli Storici posteriori immaginarsele a senno loro. Il qual partito , soggiugne il noitro Autore , ben volentieri presero essi, trovando modo di appagar con questo quel natural deside rio,che,nonmeno diciascuna famiglia, ha ciascun popolo di spingere, come e'fece ro , tant'oltre quanto poterono nella oscuri rità de'tempi la propria origine . E quello che è più lidà a credere,che a ciò fare giustificati fossero dalla opinione , la quale ei dice ch'essi aveano , che tante generazio ni corressero quanti Re ; onde circa tre R e gni largamente in ogni secolo si avessero a porre , essendo ogni generazione di trentatrè anni : laddove egli pensa , che più brevi di molto sieno di Regni , non giungendo questi l'uno fagguagliato coll'altro se non ai di. ciotto o vent'anni , secondo che scrisse il Neurone (a), la qual legge , segue egli a dire , si vede confermata in quella unga fe rie d'Imperadori , che da Yao infino a ' di b2 (a) “The Chronology of the ancient kingdoms of Rome, amended by Newton. Veggansi le due tavole Cronologiche in fine .  ..  nostri tennero il vasto Impero della China , D a tutto questo si raccoglie fupporsi dall'Au tor noftro , che quella vaga tradizione , la quale conservò gli avvenimenti , comechè facili a ricevere alterazioni , a cagion delle molte circostanze , che fogliono a c c o m p a gnarli , anzi che conservò , c o m e di alcuni dovrem notare le epoche precise , in cui non abbia potuto conservare le altre epoche più notabili, vale a dire la durata di ciascun Regno , e per conseguen te la somma dello spazio di tempo ,che ab bracciarono tutti isette Regni insieme,quan tunque cosa non meno importante di m o l tiffimi fatti, che pur furono da cotesta sua tradizion conservari, e non capace di pren dere come ifatti diverso alpetto passando per le bocche degli uomini. Non troppo ra gionevole pertanto mi sembra la sua preten. fione , e per asserire, che gli Storicidique' primi tempi di R o m a non fossero informati di queste epoche , farebbe mestieri produrre qualche testimonianza , o almeno congettura , da cui si potesse chiaramente inferire che di quelle veramente informati non fossero , la qual cosa non facendo egli , io ftimo , che non maggior ragion fiavi per credere a' fatti, che alle epoche . Cie seguiti sono 1 Ciò posto o è l'antica Storia di Roma del pari tutta dubbiofa , e d in questo caso inutili sono le osservazioni sue , o è del pari certa tanto a' farti , ed rispetto alle epoche allora non hassi a dire,che le , quanto i che sieno state supposte ci . Senzachè se gli Storici si fossero i m m a ginato a piacer loro le durate de'Regni se condo la legge delle generazioni, com'egli pensa , non si sarebbono tolto la briga di far registro di quanti anni precisamente sia stato ilRegno diciascun Re, edavrebbonodato qualche cenno d' aver seguita una tal legge ; fe pur non vogliam credere , non che seguit sero una regola da essi giudicata sicura,ma che avessero concepito di tessere un dolce inganno a'contemporanei loro , il che , senza che se ne adducano le prove , conceder non si dee a giudizio mio per modo nessuno . epo da'pofteriori Stori- * il malizioso disegno 1 Quantunque però sia abbastanza Ito , che , quand'anche tutta l'antica Storia di Roma fi fosse, non solo ugualmente per semplice tradizione conservata instrutti della Cronologia , che de'fatti por si debbano gli Storici mentovati ; nulla dimeno , fia per salvar dalle fiamme questa Cronologia , d a cui divorata ,ma anche più manife la presume ľ sup Aus b   due (6)Quae incommentariisPontificumaliisquepublicisprive. tisque erant monumentis incenfa urbe pleraeque interiere. T.Liy.Dec. I.Lib.VI.inprinc. ()Plut.inNuma inprinc.  non che vorrà negare . 22 RAGIONAM,CONTRO IL CONTE Autor noftro , sia perchè resti maggiormen te confermata la certezza dell'antica Storia di R o m a ( la quale a vero dire già ha a v u to troppo più valorosi difensori di quello ch'io m i sia ) stimo pregio dell'opera il *mostrare , che non fu poi , qual per alcuni si dipinge,si funesto l'incendio de'Galli per gli annali di Roma . E per cominciar da Livio , della testimo nianza di cui si fiancheggia in prima il no ftro Autore , oltrechè mostreremo fra breve , che a lui non poco premeva di fare passar per dubbiosi gli antichi avvenimenti seguiti avanti l'incendio de'Galli , se si considera no attentamente le parole di lui (b) , que ste non vengono a dir altro , se buona parte de'monumenti perì in quelle . fiamme,ilche nè io, nè alcuno, penso, Plutarco poi non dice altro (c), se non che , secondo quello , che avea osservato un certo Clodio ,supposte erano alcune m e m o rie appartenenti a Numa , essendo le vere mancate nella presa di R o m a . Se da questi   ро ALGAROTTI . CAPO II. 23 due luoghi di Livio , e di Plutarco si possa inferire , che abbiano gli Archivj di R o m a fofferto un generale incendio , lo lascio al giudicio de'giusti estimatori delle cose . Se R o m a fosse itata inaspettatamente presa di asfalto , non riuscirebbe forse difficile ilcon cepirlo;ma ad ognuno è noto,che iRo mani , dopo l'infaufta giornata di Allia, in cui furono da’Barbari sconficci, vedendo di ·non potere per modo nessuno difendere la Città dal vittorioso esercito de'Galli,ebbero ancora tale spazio di tempo (d) (tre giorni diconoDiodoroSiculo (e),ePlutarco)da po ter fornire di munizioni il Campidoglio,m e t tervi alla difesa il miglior nerbo della solda tesca , i più valorosi Senatori , e la più vi gorosa gioventù , ove ancora per teftimo nianza del medesimo Diodoro posero in fal v o quant' oro , argento , vesti preziose , e cose rare , che s'avessero (f) : ebbero t e m b4 Diodor. Sicul, loc, cif, non  le Vertali di ricoverarsi a Cere , non r é itando nella Città fe non que'venerandi v e c chị, che vollero rimanervi . Ora adunque (1) T. Liv. Dec. 1. Lib. V. cap. 21. 22. ) Diodor. Sicul. Bibliot. Stor. Lib .XIV.n. 115. p.729. tom . I. ed. Amft. 1746. Plut. in Camillo . >   ed incerta , ma poco o nulla men pregevole delle Storie medesime , di cui a b biamo fatto parola sopra, e per mezzo di cui , secondo quello che abbiamo osservato , riesce  24 RAQIONAM. CONTRO IL CONTE non avranno o i guerrieri rinchiusi nella roca o quelli, che lisottrassero colla fuga. all' eccidio della Città , falvati dalle f i a m m e quegli antichi Annali ? I n verità bisognereb be far forza a noi medesimi per idearci Romani accesi com'erano dell'amor Patria , e solleciti di ogni cosa , che potesse fervire alla gloria di quella , così ( 8) V o f f i u s d e H i f t . L a t . L i b . I. C a p . I. T o m . I V . O p a i della ca, ranti delle proprie poco Storie.M a supponiamo cu che,che questi an fossero periti ; il f a m o so Vossio Annali (g) osserva tacciar non per questo tica Storia dubbia credibile l'an avessero di Roma , essendo pur anche i loro Annali , che le circon fi dovrebbe vicine Città , con tuto ad un bisogno loro ; ed in secondo alle luogo non essereda cre dere , che coloro fra'Romani , i q u a l i li l e g g e vano , custodiyano duto la memoria , scriveano del tutto : ed ci riduciamo a quella tradizione vaga , , non però ,che di falsa, o cui i Romani abbiano mancanze supplire , avessero in tal caso po per ed, Amst. 1699   (4)Cic.de Orat.Lib.II.,de Legib.Lib.I. Nulla enim lex neque pax , neque bellum , nequè res ficnotata : Corn. Nep. in Attico n. 18. (1) SenexHistoriasfcribereinstituit,quarumsuntlibrisep.  M a che serve affaticarsi di provare con congetture una cosa , di cui abbiamo cost chiare , e sicure testimonianze ? N o n giunse ro gli Annali Maslimi .a'rempi di Cicerone , e non ne reca egli giudizio (h) in più luoghi. delle opere sue? Onde Fabio Pirrore , Lu cio Pilon Frugi , Valerio Anziate Scrittori che furono tra lemani dị Dionigi,ediLi vio, avranno prese le memorie per dettare le Storie loro , se non da'monumenti , che avanti l'incendio esistessero? Pomponio A t tico intrinseco amico di Cicerone , che se condo Cornelio Nipote (i) non tralasciò in certo suo libro di porre sotto l'epoca pre cisa cosa alcuna riguardevole del popolo R o m a n o , C a t o n e , il p r i m o l i b r o d e l l e S t o r i e d i cui comprendevaifattide'Re diRoma come riferisce lo stesso Cornelio (k), onde avran tratto i materiali per quest' opere loro ? Varrone il più dotro de'Romani , uomo al ALĞAROTTİ . CAPO II. 25 tiesce non solo ugualmente , m a più credi bile eziandio la Cronologia de'fatti. certo ili luftris estpopuli Romani, quae non in eo,fuo tempore com,primus continet res gestasRegum populi Romani Corn. Nep . in Cat . n. 3.  certo di non facile contentatura,su che avrà fondato l'opinion sua contraria a quella di Catone circa al tempo della fondazion di R o m a , se non sopra monumenti ,che a'suoi tempi ancora esistessero, in cui fosse accura tamente descritta quella prima età ? E , v a gliami per ultimo l'autorità di quel diligen te investigatore delle antichitàRomane Dio. nigi d'Alicarnasso , quante tenebre egli non dilegua coi Commentarj de’Censori, e con altre memorie , le quali pajono anteriori alla famosa irruzione de'Galli , o almeno sopra quelle compilate ? E non è forse da crede. re , che a quel Dionigi , il quale dovendo per mezzo di un suo computo fissar la giu Ata epoca della fondazione di R o m a , fi Itu dia di portare tanti monumenti , per venire in cognizione del numero d'anni , che cor sero dalla deposizion di Tarquinio insino all' incendiodiRoma (1),echecircaalladu, rata de'Regni non muove la minima que stione , anzi concordando con Livio , gli af segna il medesimo numero di anni ;a quel Dionigi,cui è data la lode di esattissimo nel fissar le epoche , come più sotto vedremo , (9)Dionyf.Halic:Antiq.Rom.Lib.I. p. 60. ex ed, RAGIONAM , CONTRO IL CONTE non Graeco-Lat. Friderici Sylburgii Lipfiae 1691, امی ju ALGAROTTI , CAPO II. C h e poi per vantare antichità abbiano gli Storici allungata la Cronologia , è noto a d ognuno esserregola dell'Arte Critica, doverfi presumere , che alcuno abbia ingan, nato sulla fola luogo bio , non ܕ nato in suo pro l'ingannare , m a doversi a d d'aver egli.veramente ciò fatto ; ed oltre a questo non può cade dur prove manifeste sopra Dionigi., come quello , ch'essendo straniero re per modo nessuno un talsospetto non era tentato dall'amor della patria a m e n tire per adularla , e che fece un particolare ftudio di chiarire l'antica Storia di Roma . che sarebbetor non mancassero i suoi fondamenti per accer tartaldurata,come cosa fuord'ognidub congettura , Non istimo ora del resto dover parlare della diversità , che l'Autor nostro dice c o r Tere tra le generazioni , e le successioni de' Regni;giacchè è manifesto non aver gli Storici seguito una tal regola , e quand'an . che seguita l'avessero potendosi far veder di leggieri , che se per alcuni motivi da lui e dal Neutone addotti sembra , che iRegni debbano riuscir più brevi , che le , per altri rispetti potrebbe più lunghi restassero tazioni . Tanto più che dovrò accennare in generazio succedere, che i Regni , che le gene ni  luogo più opportuno quelle regole ch'io stimo doverli osservare , nel fiffar queste g e nerazioni , potendosi queste sotto diversi a f petti riguardar da ' Cronologi . (mn)Description de l'Empire de la Chine par le P.Dus Halde. Tom .I. Faites de la Monarchie Chinoise  28 RAGIONAM,CONTRO IL CONTE per dare a divedere , che quella rego Mi basterà per ora notare , ch' in quella lunga serie degli Imperadori della Cina s'in • contrano n o n una volta sola , m a diverse fiare sette Regni di seguito , i quali se non giungono, si avvicinano però assai allo spa zio di tempo , che tolti insieme durarono i Regni de'Re diRoma :per comprovarla qual cosa giova il recarne alcuni esempj, che m'è venuto fatto di ritrovare ne'fatti di quella Monarchia descritti dall'accurato P . Du-Halde (m).Nellaprima.DinastíadaTi Pou-Kiang insino a Kiè corsero dugento e dodici anni. Nella seconda da Tching-Tang infino a Tai-Vou passarono dugento e quat tro anni ; e nella terza Dinastía dugento 'e venticinque da Tchao -Vang insino a Li-Vang. Facilmente non saranno questi foli i casi, in cui,non uscendo dalla serie degli Imperadori della Cina , fecte Regni di seguito abbiano abbracciato più di due secoli ; tanto però basta la ,   ALGAROTTI. CAPO II, 2.9 gi  la , la quale pure è vera , trattandosi di l u n ghissimo spazio di tempo , riesce falsa nelle itesse Tavole Cronologiche degli Imperadori Cinesi , quando si reftringa a fette soli R e gni . Ed ecco come si vengono a sciogliere tutte quelle diffico'tà inosse dall'Avior no stro per diminuir la credenza , che prestar fi dee agli Storici , e rendere improbabile in genere la lunghezza di questi Regni . O r a fa di mestieri farsi a considerare quelle ragioni , ch'ei deduce dalla ripugnanza dei fatti, di cui fecero gli antichi Scrittori re gistro,alleepoche,per venireadaccorciar ciascunRegno:Seiodicesli,che concor dando a un dipresso tutti gli Storici nelle epoche principali , e circa la durata de'Re- . gni , e discordando ne'fatti, ilconsenso loro nello afferir la durata dee meritar. troppo maggior fede, e pertanto doversi come lup-, posti rigettar quegli avvenimenti , e quelle epoche particolari di alcun fatto , che taluno fra essilasciò ne'suoilibri descritte, che ripugnano a quello , la di cui certezza è chiaramente ,e concordemente da essi affe rita; se jo ciò dicefli, mi servirei di una ragione più atta a far forza , che a persua dere . Perciocchè resterebbe sempre una c o tal nebbia , ed oscurità nella mente de'Lega   gitori, non vedendo eglino quali oltre a que ito fieno i motivi , per cui come falsi s'ab biano'a rigettar questi fatti, che falli certa mente avrebbono a d essere , quando ad una verità fi opponeffero . Laonde è convenien te o farne vedere per altre ragioni la fal fità , o mostrarne la non ripugnanza , quan do , come di alcuni veri dovrò fare meno avvedutamente ripugnanti, sieno stati dall'Au tor nokro creduti .Per condurre a fine le quali cose , siccome è d'uopo far uso delle regole , che prescrive l'Arte Critica , stimo pregio dell'opera il premetter quella , la quale più d'ogni altra ttimali necessaria , ed è il chiarir bene a quale Scrittore s'ab bia per CAPO (n) Si unus aut alius (Hiftoricus) adverfus plures teftifi: Centur , Historicorum conferendae dotes , fecundum cas je dicandum . Genuenfis in Arte Logico-Crit. Lib.IV, Cap. II. § . 19. can . 2.  30 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE COSI . l'antica Storia Latina , i di cui av. venimenti cadono nella nostra quiltione, a ri correre , ed in caso di disparere, a quale fi debba prestar maggior fede (n).   CAPO Trattasi della credenza , che prestar fi dee a Tito Livio , Dionigi d'Alicarnaso Plutarco , per rispetto ai fatti , che R a gli Scrittori , in cui troviamo descritti i principi di quella Nazione, al di cui co fpecto dovea tremar l'Universo , primeggia no Tito Livio , Plutarco per le vite , che stese de'due primi Re , eDionigidiAlicar naffo . Penso adunque esser buona cosa l'in .vestigare prima di tutto il vero carattere di ciascuno di questi, per rispetto al m a g g i o re o minor caso , che far si vuole della au torità di taluno di effi per riguardo a tal altro,ne’racconti,che pressodiloro sitrovano. per (a) Come Livio scrive, che non erra , Dante Inf. cant.  che non Fra ALGAROTTI, *31 cądono nella presente quistione. Se farò poi in questa disamiņa precedere Tito Livio agli altri due , si è , perchè di lui fi pregia più che d'ogni altro l'Autor nostro , e glid à ad una voce col creatore della nostraLingua,non meno chedellano Itra Poesia la lode di Scrittore 2 erra (a), la qual lode se vera se giusta sia 2 28. V. 124 III.   ( 5) Livius etiam , & Curtius artem declamatoriam affe&taffe videntur.Nimiam ftyli.curam in Hiftorico fufpettam ho beo ,Genuens. in Arce Logico-Crit. Lib.IV . Cap. 2o $.18.  32. RAGIONAM . CONTRO IL CONTE per rispetto a quel tratto della Storia Latina', che cade sotto la controversia noftra , verrà brevemente esaminando . pol L'andar dietro alle quistioni , e dubbie tà , che s'incontrano nella Storia de primi tempi di Roma, il diradar lenebbie,incui si avvolgeva quell'oscuro secolo , era cofa , che ripugnava all'indole di Livio , il qual certamente più compiacevafi nel dipingere con quel luo vivo , e maestoso itile i bei giorni di R o m a , che in ricercarne sottilmen te le origini traendo alla luce gli avveni menti , che succeduti erano in quelle rimote età . Pare veramente ch'egli dovesse te mer forte non i suoi lettorifi disgustassero, se egli si fosse messo in un tale intricato sen tiero , sentiero , che male egli avrebbe p o tuto spargere di tutti i fiori della sua E l o quenza ; la quale fua Eloquenza però , per dirlo alla sfuggita , rende sospetta a tal C r i tico la veritàde'fatti da lui narrati (b). Principale intendimento era adunque di lui lo stendere la Storia più luminosa di R o ma , vale a dire allor quando falira a gran   possanza , ed a grande onore questa R e p u b blica cominciò a stender le ali  Pontificum libros annosa volumina Storia in fine , la quale troppo più che l'antica era confacente algeniodi Livio, ed alcomun desiderio dei Romani de'suoi tempi, per cui preso avea a dettarla .Che se Tacito parago nando le Storie de'tempi suoi a quelle di que sto secolo , di cui favelliamo , dice , che m i nute,e poco memorevoli farebbono sembrate le per cose , 1Uni verso . Quando , domati finalmente i feroci popoli dell'Italia, qual rinchiuso fuoco, che rovescia ogni ostacolo più forte, avventò le fiamme in grembo all'emula Cartagine, ed a Corinto , e loggiogata parte coll'armi , par te coll' accortezza la Grecia tutta , e corsa l' Asia trionfando , essendo , per servirmi delle parole di Tacito , l'antica , e natural ansietà ne'mortali della potenza cresciuta e scoppia ta colla grandezza dell'Impero (c), sidivise in quelle fazioni , che tanti e si gran casi somministrarono alla Storia. Storia di gran di imprese , di gran personaggi , e di gran di avvenimenti ripiena ; Storia non troppo lontana dal secolo , in cui egli vivea , e per cui non avea a rivoltare ALGAROTTI . CAPO III. 33 T a c i t . H i f t. L i b . I I . C a p . 3 8 . n . 1 . ҫ   RAGIONAM. CONTRO IL CONTE te nimia obfcuras , velut , quae magno ex intervallo'lo ci vix cernuntur ; tum quod , & rarae por cadem tempo ra literae fuere ,u n a custodia fidelis memoria rerum g e ftarum ; & quod etiam fiquaein commentariis Pontificum, aliisque publicis, privatisque erant monumentis incenja urbe pleraeque interiere . Clariora deinceps certioraque ab secun 'da origine velut ab ftirpibus laetius feraciusque renatas urbis , gefta domi militiaeque exponentur,  1 34 mo cose , ch'egli avea a raccontare , e che non erano da eguagliarsi le Storie sue agli A n nali antichi diR o m a (d), poichè gli Scrit tori di quelle narravano guerre grosse, Città sforzate , R e prefi, e sconfitti, e dentro di scordie di Consoli con Tribuni , leggi a'fru menti , zuffe della plebe co'grandi,larghilli mi campi , scarso all'incontro e stretto effe re il suo : che ne avrà dovuto pensar Livio paragonandole a quelle di que'rimoti , ed oscuri secoli ? Se non tralasciò pertanto del tutto di far menzione de'principj de'R o m a ni, non altra ragione , penso io, averlo a ciò moffo , fe non per non incorrer la tac cia d'aver composta una Storia mancante , e per potersi in certo modo fpianar la ftra da a descrivere le susseguenti famose impre se di quel popolo d'Eroi . Ed in fatti dalle sue stesse parole fi rac coglie (e) non aver egli troppo dibuon ani (d)Tacit.Annal.Lib.IV.Cap. 32. n.1. & . . cum vetufla   ALGAROTTI . CAPO III. 35 m o lavorato a ftendere quel tratto delle sue Storie . Cofe le chiama oscure per troppa antichità , e che , per così dire , a cagione della grande distanza appena più sivedeano. Parla di quelli avvenimenti in modo che fi scorge , che poco o nessun conto ne fa cea , tanto più dicendo , ch'esporrà più l u minose , ed accertate gelta della quafi da più fertili , e rigogliole radici rinata Città dopo l'incendio de'Galli. Poco, ei dice, scriveasi avanti l'irruzione de' Galli , e se al cune memorie eranvi negli Annali de'P o n tefici , ed in altri pubblici , e privati m o n u menti,buona parte di queste peri nelle fiam me. La qualcosa , posto che veramente molte memorie ancora esistessero a'suoi gior ni di que'tempi, come ben feppe rinvenirle Dionigi , dà non lieve motivo d i dubitare non il dire , che molti di questi monumenti periti fossero in quell'incendio sia un mendi cato pretesto di lui per ispacciarsi in poche parole di quelle antichità . Per raccogliere il tutto in breve non p a re , che in questo tratto di Storia almeno Livio sia quel Livio , che non erra , e che a più buona ragione , che non quel verso diDante, adattar fe gli .patrebbe ilgiudicio  di с2   di Quintiliano (f), ove dice ,che quella dol ce facondia di Livio non sarà mai per a p pagare colui , che non la venuftà del dire , m a la verità cerca nella Storia . Perlaqual cosa a giudicio non solo del P.Rapino(g), m a di quasi tutti i più valenti Critici, e per l'accuratezza , e per lo discernimento , e per la verità delle cose narrateanteporre fidee a Livio Dionigi d'Alicarnaffo . Questo Storico è appunto il nostro caso . Perito egli era della lingua, e de'costumi de'Latini,fra cui fece lunga dimora.Con temporaneo di Livio, Critico eccellente p r e se a trattar quella parte della Storia Latina , ch'era più oscura per la lontananza de'tem consultò tutti gli antichi Romani Scrit tori diligentemente ; e siccome si scorge , se condo quello, che abbiam notato , che l'in tenzion di Livio era di trattar principalmen te la Storia di R o m a dopo l'incendio de' Galli , così il fine di Dionigi era d'inftrui re i suoi lettori nelle antichità soltanto di quella Nazione, per le quali sue doti ftimò  36 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE pi ? il Neque illa Livii lattea ubertas fatis docebit eum , qui non speciem expofitionis , fed fidem quaerit. Quiptil.Lib. X. Cap. I. (8) Rapin. Réflex. sur l'Hift. n. 28.   Sto . il Bodino (h) di doverlo in questa parte pre ferire a tutti gli altri Storici Greci e Latini. E se per avventura non è , come osservò il Rollin (i), nella lingua lua si eloquente, e si colto come Livio nella Latina , in quanto all'accuratezza , e diligenza il vince sicura mente d'affai.Che poi più cose, e più ac intorno antichità presso di lui , che presso Livio fi curatamente descritte ritrovino,èancheilparerediquel Varro ne dell'Ollanda Gerardo Vossio (k), ilqual coll' autori tà di Eusebio , e dello Scaligero , l'ultimo fuo sentimento egli fiancheggia de quali lo commenda appunto per quella dote , di cui noi abbisogniamo , voglio dire per essere stato egli più d'ogni altro dili gente nel fissar le epoche. M a a che serve andar raccogliendo le testimonianze de'Cri tici ? Niuno v'ha fra' letterari, che ignori quanto Dionigi sia benemerito delle R o m a ne antichità , e che non sappia esser egli alla C3 alle Romane ALGAROTTI : CAPO III, 37 (h) Dionyfius Halicarnasseus antiquitates Romanorum ab ipfius urbis origine tanta diligentia confcripfit, ut Graecos omnes , ac Latinos fuperaffe videatur. John B o d i n . M e t h . a d f a c i l. H i f t . c o g n . C a p . I V . (i) Rollin Histoire Anciene tom.XII. (A)VoffiusdeHift.GraecisLib. II.Cap.V.,&ibi Euseb. in prep. Evang., & Scaligerin animad.Euseb., il qual dice : Curatius co niemo tempora obfervavit ,    38 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE E'ben vero esservi taluno fra'moderni,il quale non fa gran calo dell'autorità di lui per riguardo a ciò , che scrive intorno alle origini de'popoli d'Italia , avendo a parer suo Dionigi ,per gloria della propria nazio ne , dato luogo troppo leggermente alle con getture , per derivar dalla Grecia i primi abitatori dell'Italia (l) . Lascio ad altri il giudicare le giusta fia, o no quest'accusa ; m a , quanrunque fosse ben fondata , non so avrebbe per questo a dubitare delle cose n a r rate da lui , le quali cadono nella nostra qui ftione : perciocchè in quella parte dell'Ope ra sua, di cui servir ci dobbiamo , n o n trattasi più delle prime origini de' popoli Italici , m a delle origini soltanto primi tempi di Roma; onde non può più aver luogo quel sospetto , ch'egli abbia v o luto adulare la nazion sua , non essendovi piùlagloriadiquellainteressata in modo nessuno . Questo Storico pertanto , quantun que venga una volta fola in campo nel Saga  Storia Latina de primi tempi quello , che è alla Storia d'Italia de'secoli di mezzo l'eru dito , e diligente.Muratori . e dei gio (1) Guarnacci Origini Italiche Lib. I. Cap. I. De 4   Veniamo ora finalmente a Plutarco .M o l to discordanti sono i giudici, che di lui re cato hanno i Critici :perciocchè , se a molti Letterati di grido siattribuisce per una par te quel detto , che se in uno universale in cendio di tutti i libri un solo scampar se ne potesse dalle fiamme, si vorrebbono falvare le vite di Plutarco ; non manca per altra parte chi ne rechi troppo più vantaggioso giudicio , e fra gli altri un celebre Lettera to Inglese il Signor Midleton (n) giunse a chiamar l'Opera di lui un abbozzo piuttosto , che il compimento di un gran disegno . A chi fu (m) Saggio sopra la durata de'Regni de'Re di Roma p. 142-3. del tomo III.delle Op. del Conte Alga rotti ediz. di Livorno 1764 Nella edizione fatta di questo Saggio in Firenze nel 1746. non è mai citato Dionigi , anzi nella lettera al Signor Zanotti dice P Autore : che non avea voluto leggere altri scrittori , cheparlafferode'Re diRomafuorchèLivio,ePlutarco. (a) Conyers Midleton prefaz, álla Vita di Cicerone , per  ALGAROTTI CAPO .III, 39 gio del nostro Autore (m ), sarà però quello , che più d'ogni altro ci additerà la strada , che li vuol battere per giungere al vero nella presente materia , c o m e quello , il quale più giustamente di Livio merita il nome di P a dre di Romana Storia . ! altro pon mente alle belle qualità , per cui fu lodato, ed a'diferti, perliquali C4   D e l resto per giungere a farci una chia ra idea del merito di questo Autore fa d' uopo prendere d'alquanto più alto i princi p j .Quantunque pertanto pregio essenziale della Storia sia la verità de'fatti, si voglio no con tutto ciò offervare e la scelta che fa l'Autore di questi, e le rifleffioni , e l'ordi ne , con cui dispone ogni cosa , e la dici tura , di cui si serve , del che tutto nell'al tra nostra Opera abbiamo copiosamente ra. gionato . O r a per parlar soltanto delle riflel fioni, queste son quelle , che danno a vede re il giudicio dell'Autore intorno alle cose narrate, giudicio ,che resta più o meno de gno di stima a misura , che viene ad esser fondato sopra valide ragioni , e che non esce di quella scienza , a cui ènoto aver con Jode dato opera lo Storico . Le considera  1 40 RAĞIONAM , CONTRO IL CONTE fu ripreso , riuscirà agevole il comporre i lorodispareri. Vero è, che ilSignorMidle ton ne recò più svantaggioso giudizio di al cun altro , perchè forle non ritrovò in lui, come bramato egli avrebbe, abbastanza en comiato l'Eroe , a gloria di cui egli consa crò una sua assai lunga , ed elaborata o p e ra , nella quale però sembra ad alcuni , che ne tefla egli piuttosto il Panegirico , che la Storia . zioni,   zioni di un Polibio , o di un Cesare sopra l'arte della guerra , o di un Tacito sul  ALGAROTTI , CAPO III, Inoltre dalla scelta , che fa de'fatti , fi (6) Arte Poetica del Signor Francefco Maria Zanotti verno de'popoli intanto degne sono di c o m tore le manifeste , in quanto hanno essi fama di ef mendazione fere stati di quelle facoltà ottimi conoscitori M a fupponiamo , che sitralascino . dallo Scrita riflessioni,non èforsevero, è per così dir forzato lo Sto che narrando rico a dar segni della approvazione fapprovazion ,odi sua ? Cosi pensa quel dotto , e Scrittore, uno de'primi lumi d' leggiadro Italia, cui il Conte fto fuo Saggio (o). Ora que ognun Algarotti indirizzo ciò posto professò principalmente sa , che Plutarco fcienza de'costumi ; questa cui le altre tutte qual più direttamente s'hanno a riferire , come raggi d'un meno cerchio al centro , esercita l'impero suo so pra le azioni tutte degli uomini, ond'è m a nifesto , che anche supposto , che Plutarco alcuna osservazione do reca giudicio dell'azione non aggiugnesse fcrivendo , e giudicio, di cui non piccol caso facoltà ,narran ', che va de uscito dalla penna di un F i far fi dee,come losofo de'più rinomati dell'antichità . go la poi , a , qual viene Rag.IV.pag.261,Bologna 1768.  qual dà maggiormente a conosce re il bellicofo genio di quell'Alessandro del Settentrione Carlo XII.,loggiugne (p), che tal cosa lasciato non avrebbe d'inserire nella vita di lui un Plutarco . remmo 6)Opere delConte Algar.tom.IV.Discordimilitari Disc,IX,pag.230 . 42 RAGIONAM , CONTRO IL CONTE ز e nel formare il carattere de'perso naggi , di cui stende la vita . Egli non sia p paga delle azioni pubbliche , e ftrepitose , nè si ferma intorno alla sola corteccia , m a seguendo , per dir così, i suoi Eroi in ogni lu go , e non temendo di abbassarsi col de. scrivere certe minute particolarità , entra ne? più fecreti ripostigli dell'animo loro, e pre fentà al lectore ad un tempo medesimo un fedel ritratto e di esli , e della umana na. tura . E questa singolar dote di Plutarco fu giàdal nostroAutore osservata; poichènar rando in un suo discorso un tal fatto parti colare , il qual dà viene in cognizione della perizia di lui nello scoprire le più nascoste proprietà del cuore umano , e nel formare Questo è il favorevole aspetto , fotto cui riguardar fi possono le vite da lui scritte,e gli encomj,di cui gli furono cortefi iCrie tici,vengono a ridurlia questo.Ma sevo leffimo poi in materie dubbie , ed oscure ri poläre interamente sulla fede di lui, corre  altri . ALGAROTTI . CAPO I11. 43 remmo non piccolo pericolo d'ingannarsi. Plutarco , con ben raro esempio , congiun geva un ingegno straordinario ad una credu lità somma (difetto , da cui i rari ingegni fogliono per altro andar esenti, cadendo più sovente nell' eccesso contrario ). Forse ritene va in questo parte degli influfli del Cielo di Beozia . Occupato da'negozji, ch' ebbe a trattare , e dall'impiego di dare lezioni di Filosofia , poco tempo gli rimaneva per ac certarsi della verirà delle cose , che s'accin geva adescrivere.Sifa,ed eglistessolo con feffa , che ignorava la lingua Latina , nè o b bligato era dalla necessitàa d iftudiarla , ava vegnachè dimorasse in R o m a , servendo la lingua Greca a que' tempi presso i Latini di lingua,come fuoldirsidiCorte,cioè par lata dalla più leggiadra , e brillante parte delpopoloRomano,edi linguadotta.La (ciopensare di quanti sbaglj una tale igno ranza possa essere itato cagione . Che della fola autorità di lui pertanto non si debba far molco caso , è il sentimento del dotto Bodino (9), del Rualdo , del Dacier , e di (1)Joh.Bodin.Method.Hist.Cap.IV..Interdum etiam in Romanorum antiquitatelabitur.Ruald.animad.inPlut. Dacier nelle note alla fua traduzion francese delle Vite di Plutarco . Vero    RAGIONAM. CONTRO IL CONTE Vero è, che l'erudito Giureconsulto Ei neccio (r) per salvar dalle accuse de'Critici un luogo di Plutarco , ove narra questo Sto rico aver N u m a concesso certi privilegj alle Vestali , i quali si sa indubitatamente non essere stati ad effe concessi senon dopo que sto R e , avvisofli di fare una mutazione nel teito di lui,di modo che seavantidiceva: aver conceduro grandi onori alle vergini V e Itali, veniffe a dire : loro concedettero ( i R o mani ei sottointende ) molti onori , e fog giugne , che per sì fatta maniera salvar li possono molti luoghi di questo Storico .cen Turati dagli eruditi. M a lasciando stare , che molti non saran no quelli,che con una talcurafanarfipof fano ; non so , perchè con tanta facilitànon . essendo il luogo di Plutarco un frammento di qualche antico Giureconsulto , il qual a b bia necessariamente cogli altri a concordare , si avventuri da lui questa emendazione , fen za addurne altra ragione, fe non che ilfal varsi con questa l'autoritàdi Plutarco.Am mesfa una tal Critica si fanno scomparire con poca fatica tutti gli sbaglj de'libri, che ci restano dell'antichità . (5)Heineccius ad legem Papiam Poppaeam Lib.I.Cap,  II, p. 27.Amít, apud Wetftenios,   ALGAROTTI . CAPO III. 45 Sia adunque per la ignoranza della lingua Latina , lia molto più per lo genio credulo , e poco critico , anzi qualora trattasi di Sto rie lontane da tempi fuoi portato al m e r a viglioso Plutarco, non è guida ficura per chi vuol penetrare nelle più rimote istoriche n o tizie . Quella Storia favolosa , che dic' egli rinvenirli (S ). nelle origini delle nazioni prende , e li ftende troppo negli scritti di lui sopra i diritti della vera Storia maggior mente sgombra dalle finzioni presso altri Scrit tori . M a per riguardo a quella parte della Storia di Roma , i di cui avvenimenti ca d o n o nella nostra quistione , potea troppo qui  cilmente schivar gli errori . N o n avea egli nella sua stessa lingua le accurate fatiche d i Dionigi di Alicarnasso Scrittore , che ben d o vea esfergli noto , e noto veramente gli era , facendone egli menzione ? Perchè adunque n o n fi restrinse a lui solo , tralasciando quelle fue popolari , e favolose tradizioni? Niuno dubiterà pertanto , che in questa parte della R o m a n a Storia pofpor si debba Plutarco a Dionigi. E ben riuscirà singolar cosa , fe recherò in mezzo l'autorità dello stesso Algarotti, il quale , fuori di questa fa (S ) Plut, in Theseo in princ.   quistione non lasciò di rendere il dovuto omaggio a Dionigi, e di mostrare il poco caso , che far fi dee della sola autorità di Plutarcone'fattide'Romani,efefarò ve dere aver egli in cofamolto più recente negato credenza a quel Plutarco, a cui tan to s'affida per rispetto ad avvenimenti ri motissimi dalla età di lui. Bafta per chiarirfi di quanto ho detto dar un'occhiata a ciò , che scrisse l'Autor nostro intorno all'impre fa di Cesare contro a'Parti (t). Questo è quanto ho io stimato dover pre mettere circa la fede, che prestar fidee agli Storici , innanzi di farmi ad esaminare . la verità , o falsità de'fatti , e la ripugnan ża o non ripugnanza di questi alle epoche il che mi studierò quanto più brevemente per me sipossa di recare ad effetto. Alicarnasco, Polibio ...... danno una più esatta contez fa delleragioni dei costumi Romani che non fanno i Romani medefimi ..... M a quei Greci sapeano a fondo la lingna Latina , buona parte della vita erano viffura co'Romani ec.  46 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE CAPO (*)Alg.Op.tom.IV.Disc.Milit.Disc.V. soprala impresadisegnata da Giulio Cesare contro a'Partipo 178-9. La verità si è , che ognuno si può effere ac corto quanto nelle cose dei Romani fia poco efatro Plu tarcoec.,epag.180. Egliècerto,chedellecoseRo mane le migliori informazionisi può dire che le dob biamo a' Greci. Ed è naturale che cosìfia. A forestieri ogni cosa giugne nuovo ec, D i qui èche Dionigi   ALGAROTTI 47 D i s cIsecnedndeenndo ora coll'Autor -noftro al para ricolare , ci si fa innanzi il Regno del bel licoso Fondatore della R o m a n a grandezza , e sarà secondo quello , ch'io Atimo Indole guerriera , dic'egli , danno ad una voce tuttigli Storici al Fondatore di quella Impero , che dovea coll'armi fare la con. quista del M o n d o . Questa indole bellicosa piùnonfipuò celebrareinRomolo,quando fi mostrasseaver eglipassatolamaggior par te del suo Regno in grembo alla pace:ora le prime guerre di lui contro i Sabini, che ridomandavano le donne loro , e contro al quni altri popoli per gelosia d'Impero, furo no tutte breviffime , e dellapenultima guer ra contro a'Camerj ce ne dà l' tarco (a) , che non cade più in là dell'anno sedicesimo dalla fondazione di R o m a . N e dopo questa si ha notizia di alira guerra , falvo  CAPO Regno di Romolo . ? cagio ne di non piccola maraviglia il farsi a c o n siderar la prima venir ad abbreviare la durata . ragione,ch'egliadduce per epoca Plu. @ Plut.inRomulo, IV.   salvo di quellaco'Vejemi , i quali doman davano , che fosse loro restituita Fidene , c o me Cittàdilorragione,dicuiRomolos' era impadronito , avanti che egli s'impadro niffe di Camerio . E questa guerra non si ha da porre più tardi , che sotto l'anno d i ciassettesimo dalla fondazione di R o m a 0 là in quel torno non essendo verisimile che una nazione potente com'erano iVejenti tardasse gran t e m p o a cercare di riavere il suo . Senzachè ognun ben fa, che le guer re tra que popoli erano subitanee , tra loro la vendetta non tardava molto a seguitar l'offesa . Posto adunque , ei soggiu gre , che l'ultima guerra fatta da Romolo cadeffe nell'anno diciassettesimo del suo R e gno , se non vogliamo , che i Romani fie no stati più lungo tempo in pace che in guerra fotto il reggimento dilui,nonsivuo le farlo regnar trentotto anni , m a della m e tà circa il Regno di lui accorciar fi dee 'Questa è la prima ragione , che adduce l'Autor noftro per abbreviar la durata del Regno di Romolo , a proposito di cui,,co m e già disli, strana riuscir dee a chi pon mente quella epoca , su cui fonda egli ilsuo argomento , ed è ľ  48 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE epoca della e che tro i Camerj somministrata guerra con da Plutarco . Il Conte   d ALGAROTTI . CAPO IV. Conte Algarotti , che la durata del Regno · di Romolo attestata da tutti gli Storici vuol distruggere , adopera per mandarla in rovi na un'epoca di un fatto particolare,dicui niuno fa menzione , fuorchè il solo Plutarco Storico a tutti iCritici , ed a lui medesimo sospecto . E d in fatti di questa guerra contro i Camerj Livio non ne parla punto nè p o co , prova forse della trascuratezza di lui nel tessere l'antica Storia. Dionigi (b) poi, il quale nel collocarla frale guerre co'Fide nati , e co'Vejenti da Plutarco non discor da ,non dice però , che questa precisamen te seguita sia l'anno sedicesimo d i R o m a . V e d e pertanto ognuno ,ch'io potrei , rifiu tando la testimonianza di Plutarco, togliere ogni fondamento a questa ripugnanza , m a conveniente mi pare di mostrarmi cortese ful bel principio delle osservazioni mie . Concediamo adunque , che nell'anno fe dicesimo di Romolo succeduta appunto sia questa guerra coi Camerj : .con qual ragio ne si prova , che tantosto abbiano impugna te le armi i Vejenti ? Forse perchè avendo i Vejenti mosso contro i Romani per riaver Fi... 49 (6) Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 117.    Dice Plutarco , che i popoli circonvicini vedendo (c) riuscir bene tutte le guerre a Romolo ,da invidia,e da timore agitati, ftimarono non essere la sua crescente gran dezza da guardar con occhio indifferente , e doversi opprimere una potenza , era ne' suoi principi formidabile Laon de i Vejenti,i qualitenevano un ampio paese , ed erano de'più potenti fra' Tosca ni , mosfero contro Romolo , chiedendo la restituzion di Fidene che dicevano essere di giurisdizion loro ; il che , foggiugne P l u tarco , non solamente ingiusto ,m a ridicolo era , poichè domandavano come ad efli sper tante una Città , che non avean difeso, quan  50 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE che già do Fidene come Citrà di lor ragione soggioga ta da Romolo innanzi a Camerio , non è da credere , che un popolo potente come quello abbia tardato molto a farsi rendere il fuo , essendo le guerre a que'tempi fubitanee,nè tardando molto la vendetta a seguitar l'of fela? Ora io intendo dimostrare,anchecollo stesso Plutarco , effer piuttosto da credere , che alla guerra co' Camerj seguita fia las guerra co'Vejenti dopo qualche notabile spa zio di tempo . ( ) Plut. in Romulo .   do da Romolo era stata assalita , e lasciati in quel tempo gli uomini in balia de'nemi ci,aspettavano allora a pretenderne lemura. Livio poi dice , che presero le armi i V e jenti (d) , non perchè fossero possessori di Fidene loro tolta da Romolo , ma perchè i Fidenati erano anche Toscani , e quel che è più , perchè temevano non le armi de' Romani avessero ad esser fatali alle vicine nazioni ; e Dionigi in fine (e) dice , che il pretesto della guerra fu la strage de' Fide nati . Ora adunque , poichè siamo certi,che per gelosíad'Impero , e non per altro im pugnarono le armi i Vejenti , li dee piutto Ito credere effere questa gưerra fucceduta qualche tempo notabile dopo quella coi Ca. meri ; perciocchè stava ad osservare questo popolo , le poteva assicurarsi della sua forte Tenza arrischiar nulla, e se riusciva a qual che altra nazione di abbattere i Romani : veggendo poi , che s'erano felicemente sbri gati da quelle , e che anzi salivano ogni sanguinitate ( nam Fidenates quoque Etrufci fuerunt ), & quodipfapropinquitasloci,fiRomana armaomnibusin.  d 2 gior ALGAROTTI , CAPO IV. 51 (d)T. Liv.Lib.I.Dec. I. Cap.VI.n.15. Belli Pidenatis contagione irritaii Vejentium animi , & con festafinitimis effent,fimulabat. (e) Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 117.   RAGIONAM. CONTRO IL CONTE Oltr' a ciò , avvegnachè seguita fosse., come si dà a credere l'Autor noftro ,questa guerra circa all'anno diciassettesimo dalla fondazione di R o m a , chi ci assicura , che altre non ce ne sieno state , le quali ,come di non gran conseguenza,n o n sieno state dagli Storici giudicate degne di entrare negli A11 nali loro ? Pretende pure egli stesso, che non fisia tenuto accurato registro de'fatti , anzi confervari fi fieno per mezzo di una cotal vaga , ed incerta tradizione ? Veda adunque non se gli possano ritorcere le sue stesse ar mi , e ch'egli medesimo ammetter debba p o ter offer fucceduti cali da cotefta fua vaga tradizione non conservati.  giorno a maggior buona cosa il non lasciarli fortificar nella grandezza stimò esfer pa ce . Se ruppe adunque per propria sua ial vezza la guerra , è probabile , che ciò non abbia fatto se non dopo un qualche conside rabil tratto di tempo , nel quale abbia ve duto , che nessuno s'arrischiava di sfidar R o molo a battaglia . Queste osservazioni,a me pare,bastar po trebbono per dimostrare, cheleirragionevo lezze ręcate in mezzo dal nostro Autore non sono di tal peso , che vagliano ad in fringere la Cronologia , e sminuir la durata del   'ALGAROTTI CAPO IV. 53 del Regno di Romolo : nulladimeno stimo pregio dell'opera , acciocchè maggiormen te appaja la verità , fare una luppolizione , Orsù adunque abbiasi per non detto tutto ciò , di cui abbiamo ragionato sin ora.Dianli per invincibili le ragioni del nostro Autore. Concedafi la presa di Camerio esser seguita ; com'ei pretende,l'anno sedicesimo di Ro m a , l'anno seguente la guerra co'Vejenti , e dopo questopace profonda ; che ne segui rà per ciò ? Si opporrà questo per avventu ra a quell  + ' indole bellicosa, che gli Scrittori danno ad una voce al Fondatore del R o m a no Imperio ? Non potrà un Principe dopo essere felicemente riuscito in molte pericolo se imprese , dopo essersi procacciato stima , e venerazione presso le vicine nazioni colla fua bravura , goder de'frutti delle sue vit torie , e riposando all'ombra allori 9. col mantenere il guerriero valore vivo , e rigoglioso ne'suoi soggetti, fare in modo,che la fama diprode ,ed invittoac quistatası, ed il sapersi esser egli a guerega giare sempre apparecchiato , gli proccurino una pace non inquieta,turbata , e vergogno fa,ma ferma,ftabile,sicura,pienadiglo ria, e di virtù . Troppo sarebber funesti all? uman genere gli Eroi , e troppo infelice vi de'conquistati ta d 3   (f)Op.del Conte Algar.tom.VIII.Epistoleinverfa ep.16. sopra ilCommerciopag.147, (8)Dionyf. Halic,Lib.II.p.82.  54 RAGIONAM .CONTRO IL CONTE se per guerra fosse valente , ce ne assicura D i o nigi (g) , ove con quanti modi studiato fi di sia ta avrebbono eglino stessi a menare , acquistarsi tal n o m e , viver dovessero o g n o ratra le stragi, e tra 'l sangue. E non eb be lo stesso Autor nostro a lodare l'amor delle bell'arti, la profonda Scienza Politica , e le altre civili virtù di quel bellicoso Prin cipe , il quale tanto, vivo , il processe, ed in tanto illustre modo , morto ,rese celebre la memoria di lui? E non fu la verità ster fa , che animò la sua tromba , quando ce. lebrò quel paese (f). Dove un Eroe audace , e saggio Nestore , e Achille in un fa fede al Mondo, Che l'Italo valor non è ancor morto . Troppo fiera fu adunque l'idea , ch'egli fi formò in questo suo Saggio di un Principe guerriero,potendo esseremoltobene,eche Romolo abbia la maggior parte del suo R e gno passato in pace , e che ciò non ostan te a sminuir non si venga la gloria milita re, dicui gode presso gli Storici. E chenell'artinonmenodipace,che 4   fia di ordinare lo stato va divisando . N e meno di un Romolo vi avrebbe voluto,per assodare , ed unire con faldi nodi una sì mal ferma società , e per ispirare la dovuta f o m missione , una sola foggia di vivere, di pen fare in certo modo , l'amordella patriaido. lo de'Romani ., e fonte di tutte levirtù loro, in uomini di varie nazioni , di non ottimi costumi,per l'armi,eperlevittorieferoci. N è quelle parole , che Plutarco mette in bocca di N u m a (h), quando per sottrarsi dallo accettare il Regno offertogli insiste, di cendo, chedi un uomo di spiritiardenti,e insulfiordell'età,che non diunRe,ma di un condottier di esercito avean di biso gno i Romani per fronteggiar que'potenti nemici , che Romolo avea lasciato loro sulle braccia ; quelle parole , dico , non sono da t a n t o , c o m e si c r e d e l ’ A u t o r n o s t r o , c h e , a n che concedendo non esservi ftata dopo l' anno diciassettesimo del Regno di Romolo guerra alcuna , perciò ritrar debbasi la m o r te di lui al diciottesimo, o ventesimo anno del suo Regno . Temeva Numa , che i po poli circonvicini, i quali non s'attentavano di moleftar i Romani , poichè ben sapevane  qual d4 ALGAROTTI , CAPO IV. 55 (5) Plut. in N u m a ,   56 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE Storici , che finsero aver que'personaggi, i quali a favel lare introducono , ragionato secondo le cir costanze , e giusta l'indole loro . Dalle m a l sime , che nel corso del suo Regno dimostrò Numa , dalla non curanza di luiper gli ono ri ricavo Plutarco questa parlata da lui fat ta , rifiutandoil Regno offertogli da'Romani. A proposito del qual nulla trovarsi appreffo Livio , altra prova. forse della sua trascuratezza , e che Dionigi (1) rifiuto è d a notare 2 qual prode Principe li reggeffe , non pren dessero animo dal genere di vita tranquillo , e filosofico, che noto era ad ognuno essere da lui professato , e non volessero lasciarsi sfuggir di mano una occafione sì favorevo le di abbattere un popolo , il quale già d a to avea tanti non dubbj fegni di voler fot tomettere le confinanti nazioni , ed in q u e to modo è da intendere , che Romolo la sciato avesse potenti nemici sulle braccia a' Romani . Senzachè , per non ripeter quello , che già disfi , e di nuovo mi converrà dire intorno al poco credito , che far sidee della autorità di Plutarco , certa cosa è , che quelle parole , le quali presso di lui si leggono c o me diNuma,s'hanno ariguardarealpari delle altre concioni,sia di Livio, chedilui, quai lavori della mente degli Storici 1    ALGAROTTI . CAPO IV. 57 ) firestringeadire,che avendoperbuo no spazio di tempo ricusato ilRegno , s'in duffe poi ad incaricarsene a persuasione de' fuoi , è inutil cofa riuscirebbe cercar in Lo stesso Plutarco poi è quello,che fom miniitra il fondamento ad un'altra ragione , con cui ftudiasi il noitro Autore di abbre viare il Regno di Romolo . Ammette .egli adunque , che nel cinquantesimoquarto anno dellasua età giunto siaa morte Romolo, ma conceder poi non vuole,che difolidi ciassette anni abbia cominciato a regnare , la qual cosa è forza dire , quando foftener si voglia , che di anni trentotto stata sia la durata del Regno di lui. Le ragioni , che egli adduce per mostrare non poter R o m o lo esser cosìper tempo falitolulTrono,non fono altre, se non che ciò ammesso ,non po. terli quelle tante cose , che questo Principe facea secondo Plutarco (k) con sì tenera età conciliare ; ed essere maggiormente impro babile , che si giovane abbia fondato u n a Città , fiasi fatio Capo di un popolo , ed  pone Plutarco . 1 abbia sto Storico quelle parole , che in bocca gli (1) Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 121. (1) Plut. in Romulo . que   (1) Op.delConte Alg.tom .IV.Disc,milit.Disc.V.sopra cit.p. 180. Per via della conversazione , dic'egli ( Plu tarco)convieneinstruirsidelleparticolarità,chesonosfug gite agli Storici  58 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE abbia guidato difficilissime imprese , c o m e a tutti è noto . M a io non so ritrovare in primo luogo ripugnanza veruna tra la età , e la condot ta di Romolo innanzi a'principi del suo R e ' gno,principalmente se vogliamo attenersi a ciò che di lui narrano Livio , e Dionigi , e non ricorrere a Plutarco quale pren dendo le notizie dalla bocca di que'R o m a ni,con cui conversava , come stesso'noftro che dalla venerazione , in cui quelli tenevano dell' Imperio leggiadro Autore (1) , ben è da credere , ogni cosa , che appartenesse al Fondatore loro,sia Scrittor erudita, ed elegante (m ), diceva , che la grandezza sero i Romani cia , e dell'Alia dopo le conquiste , avea (parfo voluttà non ebbe , e di gloria fu que'pri lume di chiarezza de’ m i loro antenari posteri, qual rozzo , e barbaro popolo sem il , i quali senza la fama avverti lo .Un , che in fatto di stato ingannato Francese pari , a cui giun della G r e per così dire un Non so s e i moderni noftri Critici ileClerc , é i Muratorigli avessero menato buono tal fuo Criterio. (m) S. Euremont Ouvres mélées , pre   ALGAROTTI , CAPO IV. 59 (n) Montesq.Consid. surlescausesde lagrand,desRom. a segnes venando peragrare falous : hinc robore corporis bus animisque fumo jam , non feras tantum fubfiftere, fed in latrones praeda onuftos impetum facere, pastorie busque rapta dividere, & c u m his crescente in dies grege juvenum ferias, ac jocos celebrare,  pre 1 farebbono stati riguardati dalle colte n a zioni . Io non voglio per niun modo adot tare il parere di lui , anzi penfo , che lo stesso Signor Montesquieu , il quale osservò c o n occhio si filosofico tutto il corso della Romana Storia , abbia avvilito di non Chap.I. ( 0 ) D i o n y f. H a l i c . L i b . I. p a g . 7 2 . 8 ful bel principio della sua Opera (n) l'ori gine di quella Città Regina ; m a credo Tuttavia di potere a buona ragione sospetta fondato sopra popolari tradizioni , e proveniente dalla b o c re del racconto di Plutarco ca di coloro,che qual Nume Romolo ado ravano , quando nè Dionigi , e nè pur Li vio danno di ciò il minimo cenno . Ed in fatti Dionigi (6) ci fa sapere soltanto , che i due giovani Principi furono condotti Città de'Gabj , perchè loro s'insegnassero leLettere,laMusica,ed ilmaneggiarle armi alla foggia Greca insino a tanto che pervenissero alla pubertà , e tutti que'p r e gi , i quali attribuisce loro Livio (p) , T. Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.3.1.4. Quum primum adolevit aetas nec inftabulis , nec ad peco troppo alla   disconvengono punto alla giovanile età , a n zi più diquella,ched'ogni altracomecor porali esercizj fon convenienti . M a su via concedasi per vero ciò , che dice Plutarco , sarebbe poi da farne le maraviglie, che un giovane d'ottimo ingegno fornito cominci a dar segni di quella prudenza , che ha da tilucere un giorno in lui.Educato Romolo , come fu , non v'ha inverisimiglianza nessu na,cheinlui,avvegnachè giovanetto,sfa villasse un raggio di qualche cosa maggior del comune M a dirà egli, per quanto , e dalla natura di belle doti fornito ,e dalla educazione in strutto suppor si yoglia Romolo , che abbia edificato una nuova Città , che si sia fatto Capo d'un popolo , che abbia guidato diffi cilissime imprese , sempre con si tenera età mal potrafficoncordare. Non sipuò nega re , che di troppo maggior forza , che non  60 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE e cominciassero a svilupparsi que'semi di generosità , che dalla sua prin cipesca origine avea tratto? Oltre di che quan te volte il corso dello ingegno è più velo ce di quello degli anni ? U n a illustre prova ben ce ne diede lo stesso noftro Conte Al garotri , il quale nella sua prima età in m o l te , e varie facoltà dimostrò l'acume , e la perfpicacia dell'ingegno suo . la   la precedente sia questa ragione : vediamo con tutto ciò il modo , con cui Romolo di venne Re , e non parrà più forse tanto dif ficile il concepire , che si giovane sia giun to a tanta grandezza ; e prina d'ogni cosa prendiamo le più sicure notizie di quello , che è succeduto dalla nascita di Romolo in Gino al tempo , in cui fu innalzato alTrono. A tutti que'racconti della infanzia diR o molo io ltimo doversi preferire quello di F a bio antico Storico seguito da molti , come dice Dionigi , ed acui più propende egli medesimo ( 9), come quello , che favole chia m a le narrazioni degli altri Scrittori . Egli adunque rigettando quella poetica finzione della Lupa , nega insino , che fieno stati ef posti i due gemelli ; che anzi afferma aver Numitore per destro modo sottoposti altri fanciulli , i quali furono da Amulio spieta tamente trucidati . Quindi essere stati i due Principi da Faustulo educati , ed inviati, perché ricevessero una insticuzione , secondo che richiedeva la origine loro,alla Città de' G a b j ; il qual Fauftulo , per dirlo alla sfuga gita , quaprunque pastore de'Regj armenti, è da credere fosse poco meno di un uomo  ALGAROTTI . CAPO IV. 63 (9) Dionyf. Halic. Lib, I. pag. 70-12 di   di stato de'nostri dì, attesa lasemplicitàde* costumi di que'tempi . Ritornati poi dalla Città de'Gabi , legue a dir Fabio presso Dionigi , di consenso dello stesso Numitore , i due giovani Principi fi azzuffarono co'p a stori d i lui , e gli sforzarono di ritirarsi in un co'loro armenti dà certi pascoli tuttoc chè comuni . Questo aver fatto Numitore per poterli accufare , e trovar m o d o di far entrare senza dar sopetto tutti que' pastori nella Città . Ordita una tal trama , esser v e nuto Numitore dal fratello Amulio a lagnarsi, e chiedere a lui , che gli dovesse consegna Te que'due Fratelli col Padre loro , i quali l'aveano sì villanamente oltraggiato , e d a n neggiato nelle cose sue, se pure seguito era ciò senza colpa di esso Amulio .Amulio per dare a divedere , che avuto non ne avea al cuna parte , manda tosto per esli ,  62 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE dando,che nella Città venir dovessero non il solo Faustulo co'suoi supporti figliuoli, m a tutti coloro eziandio , i quali erano di tale delitto accagionati . E con tal mezzo essen dosi , oltre a 'rei , grandissima moltitudine nella Città introdotta , Numitore , dopo aver a' giovani l'origine loro , i loro cali , e le offele da Amulio ricevute , averli scoperto animati alla vendetta , ed averli persuasi a esli , coman non   ALGAROTTI. CAPO IV. 63 non lasciarsi sfuggir di mano sì favorevole occasione di eftirpar quel Tiranno come fe cero . Questo è quanto si raccoglie da Fabio presso Dionigi ; narrazione , lia per la quali tà del testimonio, sia per la veritimiglianza , da antiporsi sicuramente a quella di Plutar co (r), che porta in se stessa scolpito ilca rattere della finzione , e che al primo aspet to si dà a conoscere per lavoro della fanta sía de'Romani de'suoi tempi , da cui attin geva questo Storico le sue notizie, i ogni cosa nel loro Fondatore finsero straordi naria , e maravigliosa . N o n fu adunque solo Romolo in quella impresa , anzi fu a quella stimolato dall'Avo , e fu diretto da quello il suo valore , perchè produr potesse non solo discordie, e sangue, ma utilità, e fi curezza . quali  con Non voglio poi ora parlare diquellaopi nione accennata da Dionigi (1 ) , e se non -abbracciata , n e m m e n o riprovata da lui, che R o m a stata sia anteriore a Romolo ; onde egli non Fondatore diquellaCittà,ma Capo soltanto d'una colonia chiamar 'si debba ; (1) Plut, in Romulo . ( 8) Dionys. Halic. Lib. I. pag.60. ..   concedo, che ne sia stato ilFondatore,ma è da sapersi, che , ha l'idea di edificare una Città , lia i mezzi per condurla a fine, fu rono opera di Numitore , e non diRomolo. Dionigi (1) di questo ci assicura , dicendoci , che due fini il mossero a ciò fare ; primie ramente per dare un ricetto degno di loro a'due giovani Principi , in secondo luogo per isgravare la troppo grande popolazione della Città di Alba , allontanando principal. mente coloro , che avean seguito le parti di Amulio , ond'egli poteffe regnare libero di ogni sospetto. La qual cosa è, avvegnachè oscuramente accennata da Livio (u) : per ciocchè dicendo questo contro l'autorità però e di Fabio , e di Dionigi , i quali per ianti rispetti degni sono di maggior fede , che il disegno di fabbricare una nuova Città fu pure Numitore ,  64 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE opera della mente dei due Fratelli,m a n i felto indizio , che troppo non erasi studiato di diradar le tenebredi que'primi secoli, soggiugne , ch'eravi allora una gran molti tudine diAlbani,e di altri,con cui pote vano popolarla. Nè mancó Lores quoque accefferant, come. (1) Dionyf. Hasic. Lib. I.pag. 72. (u) T. Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.III.n.6. Supererat multitudo Albanorum ,Latinorumque , ad id p e r   come attesta Dionigi, di somministrar loro e danari,ed armi,ed ognialtra cosa,che abbisognasse per edificareuna Città (x).Ed a quella parte di popolo , che seco condot ta avea Romolo , fra cui eranvi non po chi de' principali di Alba , iecondo il parer dell'Avo , ragionò sul cominciare della edi ficazione (y ) . Dal tutto il fin.qui detto pertanto ftati  e (3) Dionyf. Halic. Lib. I pag. 72. (y) Dionys. Halic.Lib. II.pag.78. ) Dionyf, Halic. Lib. II, pag. 119. ALGAROTTI . CAPO IV. 69 ramente ne risalta non esserpunto cosa in verisimile , che di soli diciassette anni , o di diciotto abbia potuto Romolo farquello,che pur fece, se lipon mente, che in quelle sue prime imprese ebbe sempre a'fianchi l' A v o , ed ogni cota secondo il consiglio di lui esegui;fu egli l'Achille d'ogni impre fa,Numitore ilChirone. Tanto ho stimato dovermi stendere su que ho particolare , perchè non è Plutarco il solo, che ciò scriva ; ma lo stesso Dionigi chiaramente attesta aver Romolo incomincia to il fuo Regno di foli diciotto anni (z). Vero è , che se si dovessero togliere dagli anni , che corsero avanti N u m a cinquanta giorni , i quali vogliono molti Autori essere 1 chia.   66 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE stari aggiunti da questo R e , oltre ad undi ci giorni, che pur mancavano all'anno fe condo la riforma , ch'egli ne fece , tre anni fi vorrebbono togliere dalla età di Romolo , quando ascese al Trono , nè vi farebbe per venuto di diciassette, o diciotto anni , di quattordici , o quindici . Anche ciò con cesso nel modo , che divenne Re , non sa rebbe gran meraviglia , che divenuto lo foffe in età si tenera , non avendo forse altro egli fatto, senon imprestare ilsuonome alieim presedell'Avo:ma dipiùsivuolnotare che quegli Autori , da cui raccogliesi esser giunto al Solio R o m o l o di soli diciassette , • diciott'anni, non sono di parere , che tanti giorni mancassero all'anno avanti N u m a . za  r Dionigi , il qual dice (aa) essere il Fon dator di R o m a morto di cinquantacinque anni dopo averne regnato trentafette , e che aggiugne sulla testimonianza di tutti gli a n tichi Scrittori , i quali parlarono di lui, che molto giovane fu innalzato al Solio vale a dire di soli diciott' anni, di questa rifor ma dell'anno fatta da Numa , per quanto io ne abbia osservato , non ne dà alcun cen no , silenzio , che congiunto colla accuratez (aa) Dionyf. Halic. loc. cit, 2   ALGAROTTI.CAPO IV. 67 (bb) Plut. in Roinulo . (cc) Plut. in N u m a . (dd)T. Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.19. (ee) Macrob.Salurnal. Lib.I. Cap.XIII.Numa ......quin quaginta dies addidit , ut in trecentos quinquaginta qua. suor dies za di lui mi mette in dubbio della verità della cosa.Plutarco poi , che dice esseregli morto di cinquantaquattro anni (bb), onde abbia dovuto incominciare ilsuo Regno di diciassette , parla di questa riforma (cc), m a vuole , che Numa altro non abbia fatto,le non aggiugnere gli undici giorni , che m a n cavano all'anno, e togliere l'irregolarità de' mesi , che erano in uso , essendovene tale , che non giungeva a venti giorni , e tale , che giungeva a trentacinque e più . Che al tro egli non abbiafatto,cheregolareimesi, ed aggiungervi alcuni pochi giorni, è quello pure , c h e intorno a questo raccogliere fi possa da Livio (dd) . So , che molti Scrittori , come Macrobio (ee) , 'Ovidio , Censorino , ed altri furono di contrario parere . Si dee però distinguere tra quelli , che asserirono , che l'anno avanti Numa era di soli dieci mesi, e quelli,che dissero precisamente di quanti giorni fosse composto , perchè potrebbe essere , trattan e2 dosi ....annus extenderetur,Ovid.Falt.Lib.I.    dosi di Scrittori molto lontani da'tempi di Numa , che da quelli , i quali lasciarono scritto essere stato l ' anno avanti N u m a di soli dieci mesi , abbiano altri , come forse Macrobio,argomentato , che l'anno foffe di foli trecento e quattro giorni , la qual c o n getturą ognun può vedere , quanto sarebbe · fallace, potendo esser benissimo, che fi fa. cessero avanti N u m a dei mesi più lunghi a l fai del convenevole , e si venisse a compor re con foli dieci mesi l'anno di trecento cinquantaquattro giorni, non di foli trecento e quattro . Del resto il.Signor Dacier (ff) afferma , che alla opinione, che di soli trecento e quattro giorni fosse composto l'anno avanti N u m a prevalse quella, che giugnesse ai trecento cinquantaquattro per l'autorità principalmen te di Fenestella , e di Licinio Macro . Cre do pertanto , che ciò basti per togliere quello 'o m b r a d'inverisimiglianza , c h ' altri ritrovar potesse tra l'età di Romclo , e l'elier egli giunto ad ottener la Corona , dovendosi, le condo la più comune opinione, togliere fol tanto pochi mesi , che risultano dagli undici giorni , i quali mancavano all'anno avanti (f) Dacier nelle note alla vita di Nuina di Plutarco ,  68 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE ! Numa ,   ALGAROTTI CAPO IV, 69 e3 CAPO (88) Così dice il Signor Dacier nelle mentovate sue annotazioni doversi leggere Plutarco , e non trecento e s e s s a n t a , c o m e m o l t o b e n e l o d à a d i v e d e r e il c o n tetto ,  Numa , e non tre anni dalla età di diciotto . Senzachè a me baita , come già disfi , che da quegli Autori , da cui fi rica- . va questa età di Romolo quando fali sul Trono , non fi può l'obbiezione dedurre in modo alcuno, anzi il primo glıtoglieilfon damento , non parlando di questa riforma. lui di dell' anno , te , il secondo la confuta espressamen dicendo, che l'anno avantiNuma giun geva ai trecento cinquantaquattro giorni (gg ). O n d e mi pare a sufficienza dimostrato , che tuttique'fatti,iqualirecatisono inmez z o dall'Autor nostro c o m e ripugnanti alla d u rata del Regno del primo Re diRoma ,ot timamente con questa possono conciliarsi, e vengono a perdere .ogni lor forza, e a di. leguarsi cutte le contrarie ragioni .   RAGIONAM . CONTRO IL CONTE (a)L'Ami desHommes Tom.III.Chap.V.DesPro cui  V. Fondare Regno di Numa. CAPO Ondare un Regno , e dargli le leggi sono due operazioni cosi fra loro diverse dice un valente Politico (a) , che richiedono per lo più due distinti Principi per eseguirle. Nascono ordinariamente gl'Imperj nella fe. rocia de'popoli tra la discordia,e learmi: laddove la Legislazione ( intendo io di quella , che veramente meriti un tal nome ), è uno de'piùpreziosifruttidellapace.Ed èben conveniente , che ciò , che rende per quan to si può gli uomini felici , tra quello for ger mal poffa , che ne fa l'infelicità m a g giore . Ed in effetto le leggi di Romolo ,. di cui abbiam sopra fatto parola , riguarda vano soltanto lo stato corrente degli affari, erano leggi , che abbisognavano , p e r così dire, allagiornata . Numa si che fu poi quello , che concepì una vasta pianta di L e gislazione , un general Sistema , il quale m i rar dovea alla eternità ; Sistema , che sotto di se comprendeva eziandio la Religione ,di hibitions .   ALGAROTTI. CAPO Y. 71 M a l'Autor noftro , quafichè ridur non si possa a credere , che senza alcuno indirizzo ira popoli feroci , e pressochè barbari, g i u n gere Per  fia potuto Numa a tanto senno da cui egli secondo l'uso de' Legislatori,iquali furono a' tempi degli Dei bugiardi, utilmen te fi servi per fiancheggiarne quelle leggi , quegli instituti , que'coitumi, e quelle opi nioni, che a parer fuo doveano maggiormen te contribuire alla felicità della Nazione : per se , mette in campo quella tradizione, che correva per bocca de'Romani insin da'tem pi di Augusto , secondo cui dicevasi essere Itato ilRe Numa uditor di Pitagora:onde le belle doti , le quali rilussero in lui, frutto fieno stato degli ammaestramenti di quel F i losofo , la qual tradizione torna molto in a v vantaggio del suo Sistema . Perciocchè , dic' egli , posto che N u m a sia stato discepolo di Pitagora, siccome sappiamo da Cicerone, Livio , e da altri Scrittori esser giunto q u e Ito Filosofo in Italia in età molto lontana dal tempo , in cui comunemente fi pone . N u m a , dee questo far accorciare almeno la durata de'cinque susseguenti Regni , perchè il Filosofo possa essere contemporaneo del Re Legislatore . еА 3 da   Per rispetto al qual suo ragionamento dei che se egli si fosse soltanto servito di quella tradi zione , secondo cui dicevasi N u m a essere Itato uditor di Pitagora , da questo n o n avrebbe potuto inferirne cosa alcuna in fa vore del suo Sistema , potendosi una tal v o ce concordar molto bene coll'antica C r o n o logia , cioè dicendo , che Pitagora venne in Italia in que'tempi , in cui secondo questa , fi crede regnasse N u m a ; facendo ascendere in una parolaPitagora a'tempi di lui.Ma siccome egli desiderava farlo discendere a’ tempi pofteriori , non bastavagli questa s e m plice tradizione , bisognava , che d'altronde in cui coreito raccoglier potesse il tempo , Filosofo venne in Italia : preselo da Cicero ne , e da Livio , ma non s'avvide, che vo. lendo servirsi della autoritàloro,erapoi for za rinunciare a quella tradizione base avea posto alla obbiezion sua. Percioc chè vero è bensì , ch'essi dicono esser giun to questo Filosofo molto più tardi in Italia di quel tempo , in cui secondo l'antica C r o nologia regnava N u m a , m a in tanto l'asse riscono in quanto l'uno lo fa contemporaneo di Servio , di Tarquinio il Superbo , o ,del Console Bruto l'altro. Volendo pertanto at gno è di particolar considerazione .  72 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE che per 9 te   266., ed ivi Giamblico , e Diodoro . () Diogen. Laert. inPythagora Lib.VIII.Clem.Alex,  + il qual venne Pitagora in Italia , poichè ne lia l'epoca , come bene osservò incerta il dotto P. Gerdil (b) , non però Scritto gran fatto fra loro i più accreditati far ri, i quali di tal sua venuta dovertero fessagesimaleconda te concordano quale asserisce piade 'feffagefima Clemente Alessandri . Diodoro menzione piade sesfagefimaprima sotto la facilmen no , che lo mette conda , e finalmente fotto la pone forto , Giamblico l’Olim , le quali epoche (c), il aver egli fiorito fotro l'Olim con Diogene Laerzio con variano la fessagesimale con Eusebio dice esfer egli morto nel quarto anno della fettantesima Olimpiade Diogene mentovato - ottanta o novant'anni . Livio poi , Cicero- in cui quantunque del (d) in età di , e per attestato Laerzio ne , ALGAROTTI CAPO V. renerli ad effi , non v'era ragione per a b bracciare soltanto il tempo , e n o n di qual R e fu contemporaneo questo Filosofo le non il tornar questo in avvantaggio del suo Sistema . lo pon parlerò qui del tempo , (1) Introduz. allo Studio della Relig. Lib. III. $. 2. p. Strom .Lib.1. (4) Diogen. Laert.loc.cit.   ed altri Scrittori in tanto ci danno 19 epoca inquanto,come ho accennato,cidi con di qual Re fu Pitagora contemporaneo le quali epoche però da loro fissate non ef cono dagli anni , che secondo la Cronolo gia comunemente ricevuta , corsero dal fine del Regno diServio, insinoalprincipiodel Consolato ; del che niente è da maravigliarsi, poichè essendo probabile aver dimorato in Italia questo Filosofo un notabile spazio di tempo , tale Scrittore avrà tolto l'epoca , di cui fece registro, dall'anno della sua v e nuta,tal altro da un fatto accaduto essendo lui in Italia , tal altro dalla sua partenza , o dal tempo di mezzo della sua dimora , onde possono aver detto tutti ilvero ,quando fiasi fermato in Italia non più di venticinque a n ni , che tanti ne corsero appunto dalla m o r te di Servio infino al principio del Consolaro . Tutto questo adunque io lafcierò da par te .Concedo , che ammettendo per vera quella popolar voce , essa dovesse piuttosto far discender N u m a a'tempi di Pitagora , che far ascender Pitagora a'tempi di N u m a . M a quello , a cui principalmente badar fi dee , è , che questa tradizione medesima non è fondata sopra alcuna autorevole testimo nianza , che la renda credibile . Vero è,che ne  74 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE 2 al.   verità  nelsuo gover ALGAROTTI , CAPO V. 75 alcuni rammentati da Livio , da Dionigi , e da Plutarco (e) furono di parere , che da Pitagora , il quale in quella parte d'Italia , che M a g n a Grecia nomavası , gittò ifonda menti della sua filosofica serta , N u m a ricevu to avesse quelle maflime di Religione , e di Politica , che pose in opera no . M a è da considerarsi negar Livio ciò apertamente , p.120. non essendo secondo luivenu to Pitagora in Italia,se non sotto ilRegno di. Servio Tullio , e dopo alcune ragioni , con cui studiasi di mostrar l'insusistenza della opinione di costoro, soggiugne, che di sua natura inclinato fosse alla virtù cotesto Re , nè bisogno avesse di straniera instituzione bastandogli la dura , e severa disciplina degli antichi Sabini , de' quali non v'avea una vol ta più incorrotta nazione (f ) . E questa se (e)T.Liv.Dec.I. Lib.I.Cap.7.8. 18. Dionyf. lic.Lib.II. Plut.in Numa . (f) T.Liv.loc.cit.Auétoremdoctrinaeejus,quianonexa taralius ,falfo Samium Pythagoram edunt: quem Servio Tullioregnante Romaecentumampliuspoftannos inul tima Italiae ora ....... juvenum emulantium ftudia coetus habuiffe conftat ....... fuopte igitur ingenio , temperatum animum virtutibusfuisfeopinormagis, instru&tumquenon tam peregrinis artibus, quam disciplina teirica , ac tristi veterum Sabinorum , quo genere nullum quondam incorru. prius fuis.   verità origine ebbe per avventura da una Colonia di Spartani venuta in Italia a't e m pi di Licurgo , come appare dalle memorie antiche nazionali portate da Dionigi , e di cui anche ne dà un cenno Plutarco (8 ) , la qual Colonia è da credere che trasfufo avesse ne'Sabini buona parte de'costumi de' Lacedemoni . Cicerone poi in più luoghi delle opere sue afferma fuor di alcun d u b bio esser giunto questo Filosofo in Italia sot to ilRegno di Tarquinio ilSuperbo,eche in Italiapur era a que’tempi,in cuiBruto diedelalibertà a'Romani(h).SottoilCon solato di Bruto lo mette pure Solino , ed Aulo Gellio in fine dice effer venuto questo Filosofo in Italia sotto il R e g n o dello stesso Tarquinio Superbo . Dirà forse taluno , che l'alterigia de'R o (8) Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 113. Plut. in N u m a in piternum Hanc opinionem discipulus ejus Pythagoras maxime confirmavit,quicum ·Superbo regnanteinItalian veniffet tenait magnam illam Graeciam ec. Cic. Tusc . Brutuspatriam liberavit:ld.ibid.Lib.IV.Aulus Ge lius Noet. Attic.Lib.XVII.Cap.21.PofteaPytagoras Samius in Italiam venit Tarquinii filio regnum obtinente , cui cognomento Superbus fuit ,  76 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE mani princ. (h) Ferecides Syrus primum dixit animos hominum ellefema Quaeft. Lib. I. Pythagoras , qui fuit in Italia temporibus iisdem , quibus L.   mani fu cagione del non darsi credenza a questa tradizione dai dori, quafichè ellite messero non venir con questo a scemare la gloria di que'primi secoli ,, riconoscendo da un Greco l'Institutore della Religione , ed il più favio de'Re loro . Quantunque questa non paja ragion bastante per negare ciò , che gli Scrittori Romani ci dicono: poichè ammessa questa regola , rifiutar fi potrebbe come supporto tutto ciò , che uno Storico narra di avvantaggioso per la nazion sua , v e diam tuttavia ciò , che ne dissero iGreci. E' da credere ; che questi sisarebbono recato ad, onore l'aver dato a Romani il Maestro di N u m a : che per Greco passò presso Dionigi e Plutarco Picagora , che che ne sia della opinione di alcuni moderni , i quali nè G r e co.il. vogliono , e nè,pure di quelle Greche Colonie fondate negli ultimi confini d'Italia.  pal ALGAROTTI , CAPO V. 77 Ora ciò non oftantePlutarco(i)nonscio glie la quistione, e reca foltanto in mezzo le varie opinioni , che a'suoi di correvano , fra le quali degna è di considerazione quella di coloro , che asserivano essere venuto in Italia un certo Pitagora Spartano , il quale avea nella Olimpiade sedicesima riportata la (i) Plus,in Numar   bre (k) Dacier nelle annotazioni alla sua traduzione francese delle vite di Plutarco ; alla vita di Nuina .  78 RAGIONAM .CONTRO IL CONTE palma ne'giuochi Olimpici , fotto Numa terzo anno appunto del Regno di lui il Il Signor Dacier (k) fi ride di una tale opinione , fembrando a questo Critico ripu gnanza da non potersi comportare , che u n personaggio atto a dare instruzioni ad un R e , e ad un Re,qual fuNuma,abbiagareggia to in Olimpia per ootttenere il premio del corso.Ma a me pare con buona avendo Spartani questi additato parecchj al Re ftrato fondamento uli degli sommini Legislatore alla favola . , abbia ed pace di 'un tanto uomo , che le usanze moderne lo abbiano ingannato nel giudicar delle antiche. A tutti è noto , che Socrate il più rinoma to Filosofo della Grecia non isdegnava di suonar la cetra , e che anzi non lasciò di esercitarsi nella lotta ; ed oltre a ciò non era poi mestieri, che fosse un gran scien ziato costui per instruire N u m a delle leggi degli Spartani . Si sa , che quel popolo nella rigidezza de' costumi, e privazione di prel so che tutte le cose, le quali rendono dol ce la vita , godeva per altro dell'avvantag gio d'aver leggi , che per la semplicità , e   ALGAROTTI , CAPO V. .79 con  brevità loro , e per la cura del governo nel farle apprendere a'fanciulli erano note a tutti coloro, che doveano obbedirvi. N o n farei pertanto lontano dall'ammettere que fta opinione ,se altro non vi fosse in con trario , fuorchè questa ripugnanza ritrovata dal Signor Dacier ; m a rinunciar vi fi dee per troppo più forte motivo , ed è la te stimonianza di Dionigi , il qual dice non ri levarsi da alcuna memorabile Istoria , che stato vi sia in Italia altro Pitagora anterio re al famoso Filosofo (l). Del resto,cheilcelebreFilosofodi que sto nome nonsia stato a'tempi di Numa , con molte , ed incontrastabili ragioni Atelio Dionigisiprova (m), e di più ac cenna ciò , c h e diede occasione a questa v o ce sparsası nel volgo , e sono la venuta di Pitagora in Italia , la sapienza di N u m a fuori dell'usato della nazion sua, a cui sipuò ag . giugnere la conformità della dottrina, ed il ritrovarsi presso alcuni antichi Scrittori , da cui non dissente Dionigi (n) , che N u m a fu chiamato al R e g n o il terzo anno della fedi cesima Olimpiade , il qual anno designarono dallo (1) Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 121. (12)Idem loc.cit. (n) Idein Lib.II.pag. 120.   con dire , che fu quello appunto , in cui quel certo Pitagora Spartano avea riportato il premio de'giuochi Olimpici .E le pure è fondata quella taccia data a Dionigi di derivare da'Greci assai più di quello , che ragion voglia delle cosede'Romani ,Greco d a lui efsendo Pitagora stimato , ben è da credere , che nel secolo, in cui eglivivea, fossero i dotii,uomini sicuri della falsità di questa popolar tradizione . Chiaro è a d u n q u e abbastanza , che nessun caso si volea fare di questa , quando da'più dotti fra' R o mani , e fra' Greci fu non solo rigettata , m 3 confutata eziandio , e quando fondato sopra l'unanime consenso loro già esitato , non avea l'erudito Stanlejo di chiamarla fas vola folenne (0) Quello , di cui abbiamo infino ad ora raa gionato,non risguardailRegno diNuma, m a tendeva ad accorciare i cinque seguenti Regni,ed inquestoluogo se*o'èdovuto trattare , perchè da cosa appartenente a lui ricavata era l'obbiezione.Facciamoci ora a considerare quelle ragioni , per cui accorciar debbasi il Regno diN u m a medesimo . Pare adunque primieramente all'Autor nostro, che non () Stanlejus in Hift.Philosoph.part.VIII.Cap,X.  80 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE   ALGAROTTI . CAPO V. 81 Io non fo rispondere altro a queste ragio ni,se non lasciare al giudicio di chiha fior di senno,sesianon solo maraviglioso, eri pugnante , m a soltanto fuori dell'ordinario corso delle cose , che , quando un uomo fia stato di singolare ingegno dalla natura for nito , e quand'esso abbia posto cura in col tivarlo , giunga in età di quarant'anni ad acquistarsi il grido di favio : tanto più che sappiamo aver N u m a avuto l'arte di conci liarsi venerazione presso gente rozza , e per conseguente superstiziosa , collo sfuggire il con  non potesse esser fornito nella fresca età,ei dice , di quarant'anni questo R e di tanta fcienza , e di cosi alto lenno 2 che già ri suonaffe la sua fama non folo pressoi suoi nazionali , m a ancora presso gli stranieri, e che il suo nome già dovesse far tacere in un subito ogni particolar riguardo , e le ani mosità delle parti , che per lo spazio di un anno intero contefo aveano fra loro dello Imperio . Che tale fosse la riputazione , che si avea della sua scienza, nelle cose divine , ed umane , che quantunque i Padri vedes sero la grandezza , che tornava togliendo il Re dalla nazion loro,nondime n o niuno ebbe ardire di preporre ad un tal uomo . alcuno a'Sabini , 7 f   consorzio degli uomini , dimorando ne'sagri boschi, col disprezzar le pompe , M a questo non è il tutto , segue a dire il nostro Autore . Tazio , che reggeva R o m a insieme con Romolo , preso al grido della fapienza di N u m a , gli ditde Tazia unica sua figliuola in moglie ; ed ancorchè dalla Storia non abbiasi in qual tempo ciò preci samente avveniffe , si p u ò affermare senza tema di errore , questo essere avvenuto nei primi anni del Regno di Romolo dacchè Tazio morì prima della guerra co'Fidenati, e co'Camerį , cioè prima dell'anno sedice 6)Tacit.Annal.Lib.III.Cap.26. Nobis Romulus ut  82 RAGIONAM.CONTRO IL CONTE e le 1 gran dezze , e lasciar che corresse la voce dei suoi pretesi congressi colla Ninfa Egeria.La fama della sua giustizia non era tale da afa sicurar i Romani , che non sarebbono stati molestati da 'Sabini , quantunque essi avesse ro tolto il Re della nazion loro? Doveano finalmente concordare una volta i Padri , e stanchi forse i Romani , e mal foddisfatti , come quelli, che dato ne aveano non dubbj segni,del governo diRomolo,ilqualpen deva al tirannico (p), fi contentarono di eleggere a R e loro un Filosofo . fimo , libitum imperitaverat .   fimo , o diciassettesimo del Regno di R o m o lo ; e Plutarco (9) inoltre atteita , che T a zia era morta , quando N u m a fu chiamato al Regno , e che era vissutacon effo luilo spazio di ben tredici anni. Quindi ei rac coglie , che gran tempo innanzi fioriva la fama della fapienza di Numa , e dice,che, volendosi ritenere il compuro di Plutarco , sarebbe di necessità asserire contro ogni ve. risimiglianza , che all'età di soli venticinque anni la fama della fapienza di N u m a fosse già tanta da indur Tazio Re ad allogare una fua unica figliuola con lui u o m o priva Ed ecco altre opposizioni,a cuidàsem pre il fondamento il folo Plutarco . E che fede fi dee prestar m a i a questo Scrittore ,  to , f2 е ALGAROTTI , CAPO V. 83 onde conchiude non potersi fare a m e no di non dare un sessant'anni almeno a Numa , quando ad una voce fu eletto Re di Roma , e ne deduce , che se vogliamo , che , come s'ha dagli Storici , sia vissuto in fino all'età di ottantatré anni , avendo vent' anni più tardi, che non è la comune cre denza, incominciato a regnare , è neceffario , che di altrettanti fi venga ad accorciare il suo Regno. ( 1) P l u t . i n N u m a .   84 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE avanti lui ? Per formarci una chiara idea della falsità del ragionamento del nostro A u tore , connettiamo alcune delle epoche di Plutarco , che è il suo Achille per questi due primi Regni col suo Sistema Cronologico . Tredici e più anni avanti alla morte di Romolo ei raccoglie da questo Storicoesser seguite le nozze di Numa con Tazia. Que sto Storico medesimo dice esser nato N u m a nello stesso tempo che Romolo innalzava le mura dell'alta sua Roma (n): ma vuole il nostro Autore , che di foli diciannove anni circa stato sia il Regno di Romolo , dunque ne seguirebbe a ritenere tutte queste e p o che di Plutarco ,e congiungerle col suo S i stema , che nel fefto, o fettimo anno della età  e per rispetto almatrimonio di Numa con Tazia , e per rispetto all'esatto numero di anni , che vissero insieme , minute particola rità , le quali sfuggono agli stessi contempo sanei? D'onde ebbe egli si particolarinoti zie,che aver non potè non già ilsoloLi vio,ma nè pure l'accuratoDionigi,ilqua le tanta maggior diligenza usò nello stende re le sue Storie , che di maggior criterio è fornito, e che visse notabile spazio di tem po ( ) Plut. in N u m a . 1   ALGAROTTI , CAPO V. 85 età fua N u m a avesse menato moglie , ridi colo affurdo , ed inverisimiglianza troppo maggiore al certo, che non sia quellad' averla menata nell' anno vigesimoquinto . So che rigetterà egli quest'epoca , poichè chia ramente scorgesi doversi secondo il suo Si Itema porre  f 3 la nascita di N u m a quarant'anni innanzi alla fondazione di Roma ; ma è da riflettere ,che se di quelle , direi così , m i nute epoche , di cui favella Plutarco , non ne danno gli altri Scrittori un minimo cen no ,nel mettere la nascita diNuma alprin cipio del Regno di Romolo , o là in quel torno , concordano tutti ; poichè tanto asse risce Dione (s ) , lo stesso si raccoglie a un dipresso da Livio , ed infine l'accurato D i o nigi dice,che Numa,quando giunsealSo lio , era vicino al quarantesimo anno , onde non essendovi, come a luo luogo opportu no abbiam mostrato ragione alcuna di ab breviare il Regno di Romolo , fi vuol pure secondo lui mettere circa a'prinċipj di R o m a la nascita di N u m a . Perlaqualcosa stra no dee riuscire, che l'Autor noftro rifiuti (1) Dion. Cocej. in fragm . Peiresc. pag. 8. ex ed.Rei. quella mari Hamburg. 1750. T.Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.8.n.21, Dionys, Halic, Lib, II. pag. 129.   quella epoca di Plutarco , la quale è atte Iata dagraviffimi Scrittori,ed ammetta quel le , nello asserir le quali trovasi solo questo Stórico. E' adunque forza rigettare le epo che di Plutarco , e queste sue minute noti zie,non solo perchè incerte,ma perchèfe fi colgono tutte insieme mal congiungerli possono col Sistema del nostro Autore . Per rispetto poi a quelle parole di questo R e presso Plutarco , con cui rifiuta il R e gno , le quali pajono a lui disdicevoli i n bocca  86 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE M a concediamo , che queste particolarità accertate fieno , e n o n ripugnino col Sitte m a di lui le epoche stesse di Plutarco , che grande assurdo ne seguirebbe poi ? Che T a zio avrebbe data lasua figliuola in isposa a Numa , mentre questi era di soli venti cinque anni;a Numa de'principali fra' Sa bini; a N u m a , che già erasi acquistato per avventura riputazion d i fapiente ; a N u m a infine, che quantunque giovane , ben si può far ragione dal gran renno, che poscia di mostrò , che di venticinque anni uguagliasse molti uomini , i quali già fossero avanti nell' età . Qui mi pare in una parola , che la grandezza moderna abbia offuscato l'intellet to del nostro Autore nel recar giudizio dell' antica semplicità .   E' ben vero però , che fa d'uopo fer marsi ancora alquanto intorno ad una sua considerazione, la quale entrambi gli abbrac cia,ma spero,chemi verràfattodidimo,  ALGAROTTI . CAPO V 87 bocca di un uomo di soli quarant'anni,già ne abbiamo sopra ragionato(1).Basteràag giugnere , che quantunque proferite le avel le questo Re Filosofo in taleesà,male non gli sarebbono state in bocca. Forse tuttigli uomini hanno da potersi vantare di militar bravura?E quando vantatosenefosse,non era egli noto , che mai vissuto non avea fra l'armi? Concedası , che questa dote fosse necessaria ad un Principe in quelle circostan ed egli appunto mostrò di stimarla tale e per questo accettar non volea l'offertagli Corona . Non hanno pertanto da parer disdi cevoli, e vergognose in bocca di un Filo sofo di quarant'anni , mentre N u m a di tutt' altro pregiavasi , che di stare in full armi , ed avea preso b e n diverso cammino per giungere alla gloria . Laonde mi pare , che già li fia fatto chiaramente vedere , che per quello , che spetta a'due primi Regni , non avea l'Autor noftro per accorciarli. alcun bastantemotivo Itrare ze , f A (+) Cap ly.   RAGIONAM. CONTRO IL CONTE strare non aver questa maggior forza delle altre sue obbiezioni. Pare adunque all'Au tor noftro improbabile ,  D 88 Tullo Ostilioriaccendere petti de'Romani (nervati che abbia la bellica virtù ne® di sessantacinque anni dice risultare l'antica Crono logia da quarantatré anni del Regno di N u m a , da un anno d'interregno , e da ven tuno pacifici già da unapace anni, iquali sessantacinque di Romolo . secondo potuto samente potuto Tullo Ostilio delta re dopo sì gran tempo Romani , e guidarli come ei fece si animo alla vittoria : fi ponga però soltan to mente alla pace , da cui uscivano i R o mani,e biano interrotto l'ardor guerriero n e ' per qual guerra una e chiaramente fi verrà a comprendere, come ciò fia poflibile. tal pace ab Lasciando ora da parte , se quegli ultimi anni di Romolo sieno stati cosi pacifici c o me si dà a credere il nostro Autore , o fe almeno , come abbiamo sopra mostrato, non abbia quel bellicolo Principe mantenuti vivi gli spiriti marziali ne'suoi Soggetti ; venia mo a vedere, fe ammettendo questasilun ga pace,ne risulti tale inverisimiglianza, per cui abbiasene a negar la possibilità . Tutta la ripugnanza consiste nel concepi come abbia те , 2 La   ALGAROTTI, CAPO V. 89 La pace de'Romani non era nata dall' ozio,èdaltimore,ma eraunapace,che ben lungi dal paventar de'nemici era in istato di farsi temer da quelli :onde non d o vea pure sembrare improbabile al nostro A u tore , che le circonvicine nazioni gelose della grandezza di R o m a non ne abbiano turba ta la tranquillità . E che senno sarebbe stato il loro di romper guerra con un popolo pol sente , e valoroso , che vivea in pace bensi, m a in una pace lontana dalle morbidezze , dura , rigida ,anzi feroce, che non le of fendeva in cosa alcuna , che dava speranza in fine di voler depor l'armi, confervar l' acquistato , nè più curarsi di estendere i c o n fini ? Aggiungafi inoltre di quai belle doti a b bia il saggio N u m a fornito i suoi soggetti p e n d e n t e il s u o p a c i f i c o R e g n o . N u m a a c conciò il popolo a Religione , e Divinità, per servirmi delle parole di Tacito,(u) fu, vale a dire, datore di quel freno , e {pro ne sì necessario, promosse, favorì , e ftudioffi in ogni modo di farfiorirel’Agricoltura,co me hassi non già dal solo Plutarco, ma da Dionigi eziandio (v). Ora ciò posto non iscriffe Plut, in N u m a , Dionyf, Halic. Lib.II, pag. 133  (w)Tacit.Annal.Lib.III.Cap. 26.n.3: lo   Che (a) Alg. Op. tom . III. Saggio sopra il Gentilefiro  go RAGIONAM . CONTRO IL CONTE lo stesso noftro Algarotti (x ), seguendo il parere del Segretario Fiorentino , che , se dove sono le armi, e non Religione, con dif ficoltà fi può quella introdurre, dove è R e ligione, facilmente si possono introdurre le armi? E in quanto allo avere un popolo di agricoltorinon avrà egliavuto probabilmen te sotto gli occhi una riflessione veramente aurea diPlutarco,laqualequestopiùFilo. fofo , che Storico inserisce nella vita di N u m a , ed è , che , se in villa si perde quella temerità , e malnata voglia , che ci spinge a rapire le sostanze altrui , fi conserva però ottimamente tutto il necessario coraggio per difender le proprie ? Che più? Non diceegli stesso , che quel Principe , che ha uomini può farne presto de'soldati (y ) , che un zappatore , un contadino li avvezza agevole mente a marciare, a patir caldo e gelo, alle fatiche , ed agli ordini della milizia ? Ecco in qual maniera da que'robusti contadini , della Religion loro veneratori , amanti della patria abbia Tullo Ofilio potuto ben tosto crarre un poderoso esercito. pag.273: ( y ) A l g . O p . c o m . V . V i a g g i di R u s i a p a g . 5 8 - 9 ;   ra , avere ALGAROTTI , CAPO V , C h e se altri poi si volgerà a considerare , per qual guerra abbia questo R e rotti gli ozj dellapatria, e spintii Romani all'ar mi, come s'esprime Virgilio, vedrà,che ca de rovinata del tutto la ripugnanza i m m a ginata dal nostro Autore . Nella prima guer che ebbero i Romani dopo ilRegno di N u m a , non trattossi di uscire dal proprio paese,e andarad invaderecon armata ma no l'altrui , trattosli di difendere i propri confini dagli Albani', che per gelosía d'ima pero vollero la guerra con esli, e le per avventura non si-sarebbono questi accinti di buon animo ad una straniera espedizione , è da credere , che non avendo ne'campi perduto il necessario coraggio per difende re il suo , con tanto maggior ardore moffi G fieno a rintuzzare la forza degli ingiusti aggressori. Che tali poi fieno stati gli Alba ni , avvegnachè Livio (7) secondo l'usanza fua distintamente non ne favelli , non ce ne lasciano dubitare e Diodoro Siculo , e lo Atesso tante volte lodato Dionigi (aa). Per ciocchè il primo dice, che finfero gli Alba ni di aver motiyo di lagnarside'Romani per (z)T.Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.9.n.22. ( a a ) D i o d. S i c u l. e x c e r p . L e g a t. t o m . I. p . 6 1 8 . Dionys Halic.Lib.II.p.137.    iR o m a ni sia per gara di primato , sia a cagione di questo stesso maltalento , che contro esli gli Albani dimostravano , non mancassero di corrisponder loro in malevolenza , e già in questo modo fparli fossero que'semi di odio , i quali scoppiarono poi in guerra manifesta. Nè tralasciarfidee,cheilnuovoReTullo Ostilio già erasi colle sue belle qualità cat tivato l'affetto de'Romani , e col distribui re a'bisognosi cittadini certe terre, le quali aveano appartenuto a'due primi Re , come scrive Dionigi (bb), avea già dato ad effi  92 RAGIONAM , CONTRO IL CONTE avere un pretesto di muovere contro esli, c o m e quelli , che portavano invidia alla p o •tenza loro ; e Dionigi attesta , che Cluilio Dittator di Alba volle la guerra co’Roma ni, e permise a'suoi di dare il sacco impu nemente alle terre loro.Aggiungafi, che gli Albani, come sopra abbiam cacciato una parte del popolo loro , la qua le a persuasion di Numitore , che per rego la dibuon governo volea purgarne laCittà lua,era ita con Romolo probabile , che vedessero di mal occhio cre sciuta a tanta grandezza una Città formata de’rifiuti loro , e che d'altra parte riferito , avean a Roma, onde è mo 1 (bb) Diony. Halic. Lib. III. pag.137 1   motivo di sperare di dover condurre una vita felice sotto il governo di lui . In abbiano CAPO VI. Regni di Tullo Ostilio, Anco Marzio , Ccoci ora giunti al Regno di quel Tullo Oftilio , che meritò di nuovo corona per la sua perizia militare , e guidò alla vittoria (a). pure il nostro Autore , che d'alcun poco s'ac (a) Virg. Lib. VI. Aeneid,  potuto cor Patria si cara , e che già per le civili , e militari virtù di Romolo , e per lo senno di Numa salita era ingrande stima,ed ono re presso le vicine nazioni. difendere una Eccoci ALGAROTTI . CAPO V. e Tarquinio Prisco. que Ita maniera resta verisimile , che i Romani robusti, e valorofi com'erano dilornatura, offesi da un popolo ad essi odioso , governa ti , e retti da un favio , e prode Principe , che amavano , Agmina J a m desueta triumphis QuestoRegno adunquenon meno diquello del suo fucceffore Anco Marzio defidera   Vero è , che si potrebbe in primo luogo fospettare e dell'età si avanzata di Anco e della stessa asserzione , che questo R e alla morte sua non avesse un figliuolo, il quale giunto fosse alla pubertà . Perciocchè il n o Itro Autore da un'epoca del suo Plutarco raccoglie, che giunto già foffe Anco all' anno sessantesimoprimo dell' età sua , quan do venne a morte , prestando intera fede a questo Storico , allorchè dice , che Anco ni pote di N u m a per parte di una figliuola alla morte dell'Avo già era nel quintoanno dell' età fua (b); minuta particolarità , di cui egli folo c'instruisce , non facendone motto non solo Livio , m a nè pure Dionigi , entrambi  94 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE corcino , avvegnachè non possano chiamarfi di lunga durata , non giungendo ilprimo se non a trentadue anni , ed il secondo a ven tiquattro, secondo la Cronología c o m u n e m e n te ricevuta ; e la ragione , che lo spinge ad abbreviarli , non è altra , se non l'improba bilità , che , secondo lui , risulta dal doversi ! fupporre nell'antico Sistema , che il R e A n co Marzio fia morto nella età di anni fel fantuno senza aver figliuoli , i quali già p e r venuti fossero alla pubertà . (6) Plut. in Numa in fine. i   fe dati questi per ne nyf. Halic. Lib. 1. p. 136. (d) 'T. Liv. Dec. I. Lib. I. Cap. 14. n. 35. Jam filii ALGAROTTI , CAPO VI. 95 i quali fi restringono a dire , che questo R e nipote era per via di una figliuola del Re Numa (c).Nè certaèpurequell'altraal serzione del nostro Autore , che alla morte di Anco non fosse ancora alcun suo figliuo lo giunto alla pubertà : perciocchè , te L i v i o descrivendo non troppo accuratamente quel primo secolo di R o m a secondo l'ufan za fua,diceallasfuggita,cheifigliuolidi Anco erano vicini alla pubertà (d), Dioni gi , il quale con occhio più diligente scorse que'tempi , attefta , che uno de'sopraccen nati figliuoli era già pervenuto alla pubertà , e l'altro ancora fanciullo (e) . Dubbiosi sono pertanto,per nondirfalsi,ifondamentidella difficoltà. Vediamo ora , veri fia almeno questa convincente". Perdo nimi il Conte Algarotti; ma io debbo con fessare , che quando lessi questa parte del suo Saggio,non potei fare a meno di non com piangere m é c o stesso la deplorabil sorte della umana ragione , non potendosi coloro , che © T.Liv.Dec.ILib.I.Cap.13.n.32.NumaePom pilii Regis Nepos filia ortus Ancus Martius erat.Dio prope puberem aetatem erant . (e) Dionys, Halic.Lib.III.pag.184.    ne fanno la gloria , qual certamente egli era liberare da'pregiudizi pienamente . Grave presunzioneinvero controallagiustiziadella causa si è l'esser forzato un u o m o del suo senno a ricorrere a tali ragioni per sostenerla. La grande impressione , che avea fatto in lui il Sistema Cronologico del Neutone , 1' opinione , che aveva della dottrina di q u e fto Filosofo fecero sì , che lasciò sfuggir dalla penna certe ragioni , le quali eglim e desimo, le altri gliele avesse opposte , non avrebbe né m e n o degnate di risposta se è da credere , che tutti gli uomini facciano , e d Anco medesimo abbia fatto quello ,che pru dentemente far fi dovrebbe . Se finalmente anche concesso , che ne'giovani suoi anni abbia  96 RAGIONAM.CONTRO IL CONTE Lascio pertanto al giudizio de'giusti matori delle cose , se l'esser morto il Re Anco Marzio in età di anni sessantuno fen za aver figliuoli,iqualitrapassasseroiquac tordici ami, sia tale inverisimiglianza, che ci sforzi a negar fede a'più gravi Scrittori delle cose Romane di que'tempi , e lascio per conseguente pure al giudicio loro , fe , fupposto , cheil partito prudente fosse di tor moglie, essendo egliancor giovane perpo terlasciare , come l'Autor nostro s'esprime, dopo le figliuoli attial governo , esti   ALGAROTTI , CAPO VI. 97 abbia tolto moglie , sia cosa inverisimile , che se non tardi abbia avuti figliuoli,o pu re morti fieno avanti lui i primi,non rima nendovi che gli ultimi . Tutte queste cose , come dicea ,io le lascio al giudicio de'let tori , e mi reftringerò soltanto a dimostrare , che la speranza , la quale prudentemente a y rebbe potuto nodrire , c h e i suoi figliuoli poteffero succedergli nel Regno , non era tale da spingerlo a tor moglie affai per tempo , la qualcosa per recare ad effetto mi con verrà indagare attentamente quelle leggi , o per dir meglio costumanze ,secondo cuicrea vanli i R e di R o m a ; tanto più che , oltre all' effere materia per se importante , non ci riuscirà forse inutile l'averla trattata nel de. corso di queste osservazioni . Chi dunque prende a considerare la con ftituzione del governo di Roma a que tem pi,hadapormente innanziditutto,che le cose non erano ordinate , come sono negli Statide'giorninoftri,ma chesenonrego lavansi gli affari del tutto all' avventura , elea  forza, e l'accortezza aveano per l'ordina rio'non poca parte nelle deliberazioni .Dif ficile pertanto sarebbe trovare le leggi fone damentali , secondo cui fissata fosse la suc cessione al Trono , ovvero il modo della la g   A due capi ridur si può la base della constituzione di qualunque Stato : al m o d o , con cui si eleggono, od intendonsi eletti quel Principe , o que' Magistrati , che hanno da reggerlo , ed alla autorità , che questi hanno sopra i loro soggerti. Della autorità , che i Re di Roma avessero soprailorosog getti, non appartenendo punto alla presente quistione, io non farò parola . Chi deside raffe per avventura d'esserne informato, p o trà ricorrere al Grozio , ed al Cellario (1) ed a que'luoghi degli antichi Scrittori da essi accennati . Mi volgerò bensì a mostra che H. Grotius de Jure Belli & Pacis Lib. I. Cap.III. Chriftoph. Ceilar.Breviar.Antiq.Roman.Cap.II.feff.1.  98 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE 1 elezione : tuttavia connettendo alcuni luoghi degli Scrittori , e facendovi sopra alcune ri flessioni , verremo in chiaro , per quanto comportar lo possa un si rimoto secolo, di quelle consuetudini , le quali , secondo c h e io stimo , tenevano luogo presso i Romani di leggi fondamentali . per quanto raccoglier si poffa dalle scarse notizie di quella età il Regno di R o m a piuttosto elettivo , che altro chiamar li dee . re , 1 E 03.120. n.5 S. 2.   ma ALGAROTTI . CAPO VI. 92 E prima di tutto, le dalla qualitàde'Re, i quali fuccedettero l'uno all'altro , si può ricavare alcuno indizio , certa cosa è , che in que'sette Regni mai figliuolo non succe dette al padre , che anzi tutti furono di di verle famiglie. N o n parlo di Tarquinio il Superbo , il quale non per giusta strada, m a colla forza , e per mezzo delle scelleratezze giunse al Trono , a cui mai sarebbe in al tro modo pervenuto .Veda adunque l'Au tor noftro , se dalla elezione di Anco , che nipote era per via di una figliuola di N u che non subito dopo il Regno dell' Avo ,ma dopo quello diServioTullioasce se al Trono , inferir se ne possa, che piut tosto pendesse ad essere successivo il Regno di Roma . Che se Tarquinio Prisco allonta nò da Roma i figliuoli di Anco nella ele zione del nuovo Re , la qual precauzione egli s'avvisa dimostrar , che vantassero que sti giovani diritto al T r o n o ,si vuol notare , che tutto facea per li figliuoli di Anco ,per muovere i Romani a conceder loro il R e g n o , e tutto era contrario a Tarquinio . Erano i primi discendenti da N u m a figli uoli di Anco Principe , che congiunto avea le più belle qualità de'suoi antecessori, o n de è detto da Livio uguale a qualunque de' pal. g 2    Pa (8)T.Liv. Dec. I. Lib.I.Cap.13. n.32. Medium erat in Anco ingenium ,& Numae , & Romuli memor. Id. ibid. Cap . 14. n. 35. Cuilibet fuperiorum Regum belli ) Dionyf. Halic. Lib. III, pag. 184.  1 Too RAGIONAM , CONTRO IL CONTE passati R e nella gloria delle arti sia di Sequitur jactantior Ancus Nunc quoque jam nimium gaudens popu laribus auris . Uno di questi poi secondo Dionigi (1) già era alla pubertà pervenuto.Laddove Tar quinio oltre ad essere straniero essendo stato dal morto Anco fuo fingolar benefattore d e ftinato per tutore a'suoi figliuoli , la qual cosa fece per avventura , lusingandosi, che avrebbe egli tentato ogni modo di aprir loro la strada al Trono ,nè per gratitudine questo dovendofi fupporre ignoto a' R o m a ni , certa cosa è , che eravi ragion di teme re per lui di non poter ottenere il suo in tento , quantunque il Regno fosse elettivo , se i figliuoli di Anco avessero potuto chia marlo , esponendo a' Romani i meriti del paces che di guerra (g), e quello , che è più grandemente amato dal popolo ,secondo che disse Virgilio in que'suoi versi, ove più da Storico , che da Poeta favella (h) . pacisque,& artibus, & gloriapar. (h) Virgil.Aeneid.Lib.VI.   'ALGAROTTI . CAPO VI. 101 Padre loro, la di cui memoria era ad effi si cara . Sapea benissimo l'astuto, ed a m bizioso Tarquinio , qual impressione far p o tea nel popolo l'aspetto de' giovani Princi pi , ed il rinfacciargli, che avrebbono fatto la sua ingratitudine . T e m è pertanto la pre senza loro giustamente , e trovò m o d o di allontanarli da’ Comizj . Dal fin quì detto chiaramente risulta, che non ostante i pregj , che vantavano i figliuoli di Anco , essendo stati esclusi dal Trono , a cui quantunque per molti motivi gliene dovesse esser chiusa la strada (k), fu innalzato Tarquinio , ben lungi dall'inferire da questo allontanamento, che nella elezio . ne del R e i voti stessero ordinariamente per la ftirpe Reale , 'avendo un tale allontana mento bastato ad escluderli, se ne dovea a più buona ragione dedurre , che i Romani niun riguardo avessero al sangue Regio nella elezione del R e loro . min (k),Alienum quod exaétum: alienioremquod ortum Corin tho :faftidiendum quod mercatore genitum : erubefcendum quodetiam exule Demararo narum patre , Valer. Mas xim , Lib.III,Cap.IV.  M a veniamo ora con testimonianze degli Storici a dimostrar maggiormente il diritto de'Romani nell'elezione de'Re loro,eco.. g3   RAGIONAM, CONTRO IL CONTE ininciando da Livio:(1) Servio Tullio , dice questo Storico , avvegnachè foffe coll'uso al possesso del Regno , tuttavia perchè sa peva , che il giovane Tarquinio andava dif ieminando esso regnare senza ordine espres so del Popolo , conciliatosi il buon voler della plebe col distribuir certe terre tolte a’ nemici , fi arrischio di porre in deliberazio ne a'Romani , fe volevano , ed ordinavano , che regnasse o no , e con tanto general c o n senso , con quanto per lo innanzi alcun al tro giammai Re fu dichiarato . Ove è da notare ,che Tarquinio il Superbo per farsi strada al Trono non vanta già i suoi diritti come figliuolo di Re , nè taccia Servio di usurpatore, perchè coll'occasione di a m m i nistrar la tutela di lui era giunto al Princi pato , m a dice , che fenza espressa elezione del popolo Servio Tullio governava il R e gno : e Servio per dileguar que'rumori ,non risponde già non essere un tal consenso n e cessario , m a , assicuratosi prima dell'affetto quam jam ufu haud dubie Regnum poffederat; tamen quia interdum jactari voces  1 102 (1)T. Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.18.n.46.Serviusquam del a juvene Tarquinioaudiebat fe injusu populi regnare , conciliata prius voluntate plebis , agro capto ex hoftibus viritim diviso, aufus eft ferre ad populum , vellent juberentne fe regnare : santoque consena fui, quanto haud quisquam alius ante, Rex eft declarcius;   # Questo è quanto dice Livio lo Storico , di cui l'Autor nostro maggiormente si pre gia ; m a per dare a vedere con alcun altro Scrittore la verità medesima , a chi della a u torità del solo Livio non si volesse appaga consideriamo c o m e parla lo ítesso S e r vio presso Dionigi per difendersi dalle accu fe di Tarquinio : mentre io era disposto (ei dice adunque a Tarquinio ) a rinunciare il Regno (m) iRomani mi trattennero , sulqual Regno essi hanno diritto , e non voi altri, o Tarquinj ; quindi prosegue : siccome al vostro A v o ( cioè a Tarquinio Prisco ) fu dato il Regno , quantunque estero , ed alie nisfimo dalla cognazione diAnco , sprezzati i figliuoli di Anco non fanciulli e nipoti , m a nel fiore dell'età loro , nello stesso m o d o a m e f u c o n c e s s o , p e r c h è il P o p o l o R o mano non un erede del Padre metre algo verno della Repubblica , m a un personaggio veramente degno del Principato. Tutto questo vien confermato dalla con g4  'ALGAROTTI. CAPO VI. 103 del popolo , pone in deliberazione a ' R o m a ni , le volevano , che seguitasse a reggerli , cose tutte , che l'autorità del popolo nella elezione de'Re appieno dimostrano . dotta 1 re , (in) Dionyf.Halic.Lib.IV.pag.237. 1   RAGIONAM. CONTRO IL CONTE dotta di Tarquinio Prisco verso i figliuoli di Anco ; chi si vorrebbe dare a credere , che un uomo cosi accorto avesse commesso tale inconsideratezza di lasciar dimorare in R o m a questi Principi, e non proccurare di al lontanarli per destro m o d o d a quella Città se avesse loro usurpato il R e g n o ? Bisogna credere , ch'ei s'avvisasse dinon esser reo d'ingiustizia veruna contro d'essi, non altro avendo fatto , se non usare una destrezza per ottener dal Popolo una cosa , di cui questo poteva liberamente disporre. Vero è , che sia Anco Marzio , fia Tare. quinio Prisco , destinando per tutori de'pro pri figliuoli personaggi, i quali doveano ef sere per ogni ragione ad elli tenuti grande mente , si lusingarono, che questi proccurasse roa'lorofigliuoli quelRegno, cheime desimi procacciarono per fe , servendosi p e r l'appunto del credito acquistatofi penden te il governo de'benefattori loro . M a que sta cura medesima , ed il non aver sortito l'effetto desiderato da que’ due R e , dimo-. ftra vie più il poco riguardo , ch'avea il Popolo Romano al sangue Reale nelle ele, zioni de’nuovi Principi . Del resto , se da quel general ritratto de? costumi de'Romani di que'tempi , che racs  1 104 1 CO   Troppo parrà a taluno , che dilungato mi fia in questa materia , la quale in vero non avrei trattato così ampiamente , se non mi fosli dato a credere , che anche prescinden (7) Montes Esprit des Loix Liv.XI.Chap. 12,  ALGAROTTI . CAPO VI. 105 cogliesi dalla Storia , si può trarre qualche congettura , essendo propria di popoli rozzi peranco e semibarbari una costituzione in forme di governo , non è da credere , che la successione al Trono di padre in figliuo lo stabilita fosse tra esli, essendo questa frut to di secoli più colti , e per recar finalmen . te la testimonianza di qualche moderno Scrit tore ', che questa verità abbia riconoíciuto , basterà per tutte quella del Montesquieu (n), il quale asserisce chiaramente e fuori di v e r u n d u b b i o , c h e il R e g n o d i R o m a e r a e l e t tivo . Veda adunque l'assennato lettore , se la speranza di lasciar figliuoli atti al R e g n o allamorte fua era tanta da muover Anco a tor moglie assai per tempo , e se anche c o n cedendo tutte le conseguenze , che da que Ro matrimonio cosi per tempo contratto ne deduce il nostro Autore , le quali altri forse non avrebbe alcun ribrezzo a negare il fon damento , che a queste ei pose, siastabile, e fermo fufficientemente . do   106 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE do dalla nostra quistione , non sarebbe per avventura riuscito discaro il veder posto in pieno lume untal punto. Tempo è ora, che veniamo al Regno di Tarquinio Prisco. Se de'Regni di Tullo Ostilio, ed Anco Marzio toccò per così dire soltanto alla sfug gita il nostro Autore , di troppo più forti r a gioni fi crede afforzato per accorciar la d u rata di quest'ultimo . E qui debbo di n u o vo avvertire , che l'essersi egli appagato degli scarsi racconti di Livio , e il non aver rivolto l'occhio a quel lume , che mena di ritto per l'oscuro calle di que' primi tempi di Roma , voglio dire a Dionigi , è stato cagione dell'aver egli ritrovate ripugnanze , che non vi sono . Strana a lui pare , per istringere le sue ragioni in breve,la disfimu lazione de' figliuoli di Anco , che per tren totto anni aspettarono luogo e t e m p o vendetta , e vendetta ei dice eseguita c o n tro un usurpatore del R e g n o in pregiudizio loro , avvegnachè fosse itato instituito tor di essi dal Padre medesimo . E d'altra parte a lui pare , che troppo grande disdet ta sia stata la loro, che di tanta dissimula zione dopo aver indugiato intino alla età di cinquant'anni ad operar quel fatto , non ne abbiano colto frutto alcuno alla tu . tuttociò essendo cona rimasi esclusi dal Trono .    per altro grido di accurato nel r a c cogliere i fatti descritti dagli Antichi (p), e il di cui difetto non è la brevità , cioè, ch'essendo stato ucciso il famoso Augure Accio Nevio colui , di cui si racconta il prodigio vero o supporto della cote tagliata col rasojo , i figliuoli di A n c o attribuirono questa uccisione a Tarquinio , fia perchè , essendo il R e entrato in pensiero di far m u tazioni nelle leggi , temeva non gli dovesse di  "ALGAROTTI , CAPO VI, 107 M a se avesse egli consultato Dionigi, avrebbe veduto , che vero è bensì aver in terposto i figliuoli di Anco trent'otto anni tra la ingiuria, e la vendetta in questo fen fo , che potessero recate ad effetto le loro crame, ma vero poinon è, che in questo frattempo questa medesima scelleratezza altre volte macchinato non avessero ,laqual cosa non sivenne a sapere,se non dopochè eb bero eseguita quella tragedia : Chiaramente in farti asferisce Dionigi , ove narra la m o r te di Tarquinio (o), che coteíti figliuoli di Anco più volte aveano tentato di togliergli la vita , che anzi aggiugne questa partico larità , omeffa da uno Storico moderno , il quale ha (1) Dionyf. Halic. Lib. IV . p. 204-5; ( 0) Rollin Hift. Rom.   RAGIONAM . CONTRO IL CONTE di nuovo efier contrario questo Augure,coa m e altre volte trovato lo avea , sia perchè egli non fece le necessarie ricerche per stato a  1 conoscere, e punirne gli uccisori . Riconci liolli Servio Tullio con Tarquinio , m a a v e n dolo ritrovato facile al perdono , dopo tre anni il messero a morte nel modo , che de scrive Livio . Dirà taluno non esser da cre dere , che abbia Tarquinio sì facilmente p e r donato un tale attentato a'figliuoli di Anco ; m a forse vero era ciò , di cui l'accagiona vano , e se ne avesse mostrato risentimento , avrebbe dato peso all' accusa . Del rimanen te è da credere , che note non fossero a Tarquinio le antecedenti macchinazioni , p e r chè dicendo Dionigi unicamente a proposi to di quest' ultima , che lo ritrovarono fa cile al perdono , dimostra , che le altre giun te non erano a cognizione di lui ; onde cagion di quella accusa , ben avesse egli m o tivo di tenerli per malcontenti , m a n o n a segno di volergli toglier la vita . ri che allora pre Anzi di più è da notare cipitarono l'impresaifigliuolidiAnco,quan do sividero chiusa lastrada dipoteredopo la morte del vecchio R e , esponendo i m e riti del Padre loro , procacciarsi il Regno ; voglio dire quando giunto Servio inalto   stato presso a Tarquinio , ed instituito tutor re de'figliuolidilui,vedevano,chequesti amato , e ten Tutto questo succeduto non sarebbe , se fosse stato, come pensa l'Autor noftro , Tar quinio un usurpatore , poichè non avrebbo no dovuto tentare tante obblique strade, usar tanta diffimulazione, ed è da credere , che più facilmente , e più presto sarebbono forse venuti a capo de'loro disegni . M a già so pra abbiam messo in chiaro , ch'elettivo ef Tendo ilRegno di Roma ingrato bensi, e sconoscente ad Anco fuo benefattore non usurpatore chiamar fi può Tarquinio Prisco . Strano pertanto non dee riuscire che abbiano frapposto i figliuoli di Anco trentore'anni non già tra l' ingiuria , e la  ALGAROTTI . CAPO VI, 709 e riverito da'Romani poteva con tro esli servirsi del credito rante ilRegnodi Tarquinio.Fecero per tanto pensiero di arrischiare il tutto iare , le poteva loro venir fatto con una d i {perata impresa di far levare il popolo a r u more,presso cui(prestando fededileggie ri l'uomo a quello , che spera ) stimato a v ranno , potere ancor molto la memoria del di quel Trono, a cui avvisavano di non poter giugnere in Padre , e così impadronirsi altro modo . acquistatofi du ma de   deliberazione , che fecero di vendicarsi ,m a tra l'ingiuria , ed il vedere la vendetta loro eseguita non sarebbe questo il solo esempio , che delle contraddizioni c'instruisca dello spirito umano . Non avete, dice pure egli stesso (1) Alg.Op.tom.IV.Disc,milit.Disc.XIX.Soprala Giornata di Maxen .  II. RAGIONAM . CONTRO IL CONTE N o n fa ora quasi più mestieri di farmi a dimostrare , che per non aver esli colto al cun frutto dalla loro lunga dissimulazione , non sidee,come fa l'Autornoftro,negare, che di trentotto anni stato non zio di tempo , il qual corse dalla morte di A n c o a quella di Tarquinio Prisco . E chi non sa , che moltissime volte non riescono ad uomini avvedutissimi i loro disegni ? Dice pure lo stesso Conte Algarotti , che l'efito il quale importa il tutto innanzi agli occhi del volgo , è nulla innanzi a quelli del fa vio ? (9) E d ancorchè fuppor fi volesse , che i figliuoli di Anco , i quali aveano per si lungo tempo con tanta cautela l'affare , non avessero poi usate condotto le dovute della c o n giura , non farebbe questo , per servirmi di avvertenze nell'ultimo scoppiar nuovo delle parole di lui in altra sua o p e sia lo spa tan ra   ALGAROTTI . CAPO VI. tante volte veduto la medesima nazione , il medesimo uomo prudentissimoragionevolisii m o in una cosa, imprudente , ed irragione vole in un'altra , benchè in ammendue gli dovessero pur esser di regola le stesse m a l fime , gli itefli principi (r)? Del rimanente chi la , se non si farebbo no gli uccisori impadroniti del Trono, quan do Servio Tullio , e Tanaquilla non foliero stati così avveduti , come e'furono ? A tutti è noto , che Tanaquilla fece correr voce , che Tarquinio ancor vivea , affinchè niente si tentaffe di nuovo , e Servio avesse c a m ро di premunirsi. Onde possiam conchiude re,chenèpureinquestoRegno diTar quinio vi è ripugnanza tale tra i farti , e le epoche , che ci sforzi ad abbreviarlo . Regni di Servio Tullio , e di Tarquinio E il non aver consultato Dionigi traffe più volte l'Autor noftro in errore , secondo () Alg.Op.tom.I.Dialoghi sopra l'OtticaNeuron,  C A Pp Oo quello , SE Superbo . VII. Dialog.IV.pag.140.   Per venire adunque prima di tutto alle ragioni , per cui giudica l'Autor nostro d o versi abbreviare il R e g n o di Servio Tullio : fu Servio , ei dice , ucciso da Lucio Tarqui n i o , d i p o i c o g n o m i n a t o il S u p e r b o , c h e v o leva ricuperare il R e g n o paterno toltogli d a effo Tullio, uomo intruso, e dischiattaser vile,e fu ucciso dopo un indugio di qua rantaquattro anni , il che , segue eglia dire , vie maggiormente pare inverifimile a chi fa considerazione, che questo Tarquinio era già u o m o da menar moglie , allorchè Servia Tullio divenne Re , ch'egliera dispiritiol tre  112 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE 1 quello , che abbiam sopra dimostrato , onde ritrovò irragionevolezze, ed inverisimiglian ze tali , che stimò doversi di sì lungo trat to di tempo abbreviar la durata de'Regni de'RediRoma,ilnon aver rivolto lo sguardo a questo Storico assurdi gli fece rinvenire in questi due ulti mi Regni. Perciocchè in vero gliere le difficoltà mosse de'cinque primi Regni contro la durata non avrebbe molte volte fairo mestieri d i mente a Dionigi ; m a più difficile riuscireb b e il rispondervi per rispetto ultimi,se nonsifacefleusodellaautorità di lui. troppo maggiori ricorrere necessaria. a questi due , per iscio 1   che abbrancato Servio nel mezzo della persona lo si portò di peso fuor della C u ria,e gittollo giù perli gradini;ora sea quarantaquattro anni del R e g n o di Servio si aggiungono venti circa , ch' eidovea ave re alla morte di Tarquinio Prisco,verrà ad esser vecchio di sessantaquattro anni , allor chè dimostrò tanta gagliardía . Questi sono i motivi, per cuistima l’Au tor nostro esser più inverisimile aver Servio regnato quarantaquattro anni , che Tarqui nioPrisco trentotto.Già abbiamosopradi mostrato non esser punto contraria a'fatti la durata del Regno di Tarquinio , ora verre mo a far vedere effer non meno verisimile la durata del Regno di Servio, che quella non  ALGAROTTI . CAPO VII. '113 tremodo ardenti , ed ambiziosissimo , .e v e niva tuttodi stimolato ad occupare ilRegno da Tullia sua moglie femmina trista fopra ogni credere , e malvagia . Dal che ne c o n chiude esser m e n o probabile , che Servio Tullio abbia potuto regnare quarantaquattro anni , che Tarquinio Prisco trentotto . Oltre di questo ei riflette, che Lucio Tarquinio , il quale vivente Servio Tullio è sempre q u a lificato giovane , fosse tuttavia giovane , e robusto alla fine del Regno di quello , la qual cosa egli arguisce da ciò , che fi leg ge , h   114 RAGIONAM, CONTRO IL CONTE a ) T. Liv. Dec. I. Lib. I. Cap. 17. n. 42. O T.Liv.Dec.I.Lib.I.Cap.16.n.41.Tuumeft..... non sia del suo antecessore. Desidererei per tanto prima di tutto lapere , onde abbia r a c colto l'Autor noftro quella particolarità ,c h e al principio del Regno di Servio già fosse Lucio Tarquinio in età da menar moglie . Di questo non m i venne fatto di ritrovarne parola presso gli Storici, e non mi posso persuadere , che perchè Livio (a) descriven do le azioni di Servio pone prima di tut to aver egli date in ispose due sue figliuo le a Lucio , ed Arunte , per questo abbia l' Autor nostro stimato di poter mettere q u e sti due matrimoni al principio del Regno di Servio : perciocchè in questo caso ognun vedrebbe sopra quanto fallace congettura egli avrebbe avventuraro questo fatto . M a quando pure da Livio ciò ricavar fi potesse , vorrei di più , ch'altri mi sciogliel se questo nodo, cioè se a tale età già per venuto era Tarquinio Superbo alla morte di Tarquinio Prisco , c o m e riuscir poffa proba bile , che Tanaquilla con quelle si eloquenti parole eforti presso Livio Servio Tullio (6) a Servi fi vir es Regnum , non eorum , qui alienis mani . bus peffimum facinus fecere: erige'te Deosque duces re. quere , qui clarum hoc fore caput divino quondam circum 1    ALGAROTTI . CAPO VII. Desidererei pure , ch'altri insegnar mi sa pesse ilmodo dicomporre insieme l'aver Tanaquilla un figliuolo giunto alla luccenna ta età , ed il proccurar, ch'ella fa il R e gno a Servio piuttosto , che a Tarquinio suo figliuolo . E d ecco che senza rivolgere al tro Storico , che il folo Livio , dando vento anni circa a Tarquinio Superbo al princi pio del Regno di Servio , ne risultano in verisimiglianze grandissime, per toglier le quali altro far non si potrebbe , che suppor re fanciullo Tarquinio Superbo alla morte di Tarquinio Prisco ; il qual partito essendo h2 115  - a prendere le redini del Regno ancor manti del sangue di Tarquinio Prisco , e a vendicar la morte dell'uccilo fuo marito , A m e sembra , che ad una tal vendetta ad ogni m o d o piuttosto ella proprio figliuolo , se questi già pervenuto era al ventesimo anno dell'erà sua , ed è ben da credere , che u n giovane Principe nel fior de'suoi anni facesse troppo più m e morabil vendetta della uccisione del Padre di quello , che fosse per fare Servio Tullio . fufo igni portenderunt : nunc te illa coeleftisexcitesflama ma:nuncexpergifcerevere:& nosperegriniregnavimus: qui fis non unde natus fis, reputa : Si iua , re subita 2 confilia torpent, at tu mea confiliafequere. animar dovesse il fu quello ,   '116 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE Posto ora adunque , che ancor fanciullo fosse TarquinioSuperbo alprincipio delRe. gno di Servio Tullio , ne segue , che da lui allevato , non avendo vedute. le grandezze del R e g n o dell'Avo , del quale lapea. aver Servio vendicata la morte collo allontanarne dal Trono gli uccisori , e per ultimo stret to seco lui in vincolo di parentado , e spe rando di succedere ad un uomo già oltre negli anni per commettere la scelleratezza che commise , dovettero concorrere questi due impulsi, vale a dired' avere a lato una malvagia , ed ambiziosa femmina , e d'ef fer fuori di speranza di poter succedere a Servio Tullio , avendo questi, come ce ne affi e  quello , che toglie tutte le ripugnanze , d altra parte non raccogliendosi dagli Stori ci , di qual' età precisamente ei fosse alla morte di Tarquinio Prisco , sarebbe quello , che prendere li dovrebbe .M a non abbia m o bisogno di congetture , poiché , che T a r quinio Superbo fosse per anco fanciullo , non figliuolo, ma nipote di Tarquinio Pri sco , chiaramente viene attestato d a D i o n i gi (c); il che dovremo di nuovo notar più fotto . ( c) D i o n y f. H a l i c . L i b . I V . p a g . 2 1 1 . 2 1 3 .   re frapposto qualche indugio , affinchè m a • nifeftamente n o n risaltassero agli occhi i d e suno  5 che ci dicono gli Storici (e) , per potere stringere quel scellerato matrimonio , fra l'una delle quali , e l'altra avranno p u ALGAROTTI , CAPO VII. 117 assicurano Livio , e Dionigi (d), fatto pen fiero di rinunciare il Regno , e dare la lic bertà a Romani . M a è da avvertire , che forse qualche notabil tempo trascorse oltre il ventefimo anno del Regno di Servio,in-· nanzi che si congiungessero con quelle infa m i nozze Lucio Tarquinio , e Tullia : per. ciocchè , fupponendo , che avanti al vente fimo anno del Regno suo non abbia Servio date le sue figliuole in ispose a' Tarquinj, ad ognuno è noto , che Tullia moglie era di Arunte , e non di Lucio , e Lucio a m m o gliato era coll'altra figliuola di Servio , o n de ebbero a passare per tutte quelle scelle ratezze , litti loro . Credo poi veramente , che dopo ch' ebbero coronate le commesse iniquità colle nozze , non si debbano per modo nef h3 (d) T. Liv. Dec. I. Lib. I.Cap. 18. n.48. Idipfum tani mite tam moderatum imperium deponere eum inani. mo habuisse quidam Auctores funt, ni fcelus intestinum li. berandae patriae confilia agitanti interveniffet . Dionyfi Halic. Lib. IV. pag. 243. (c)T. Liv.Dec. 1.Lib.I.Cap.18.n.46 Dionyf.Halic.Lib.IV.pag.232,234,   che la ragione , per cui finalmente val sero preffo Tarquinio le persuasioni della sua rea moglie , fu l'aver questi inteso c h e Servio volea dar la libertà a'Romani , alla qual risoluzione forse fu egli spinto princi. palmente dalle malvagità della figliuola , e di Tarquinio . Vedeva egli benislimo che Tarquinio da lui giudicato indegno del T r o no,appunto perchè tristo,giàdovea forse essersi formato una fazione di ribaldi pari suoi , e che dopo la morte di lui o avreb be forzato i Romani ad eleggerlo a Re lo ro , o pure quando avessero avuto tanto co raggio di eleggerne un altro , prevedeva , che avrebbe tentato ogni mezzo, ed anche accesa una civil guerra per giungere al T r o no . E d'altra parte Tarquinio Superbo, se con questa risoluzione di Servio non sifosse veduta tagliata ogni strada , non avrebbe avventurata la sua fortuna e la sua vita G T .Liv.Dec.I.Lib.I.Cap.18.n.46.Initiumcura  138 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE suno passar sotto silenzio i continui stimoli di una donna , quale si era Tullia , onde a buona ragione abbia detto Livio ( F) , che il principio di sconvolgere ogni cosa da una donna ebbe origine : m a contuttociò io sti me mo, bandi omnia a foemina orium ift   Tolti ora diciannove o venti anni dalla età , che aver dovea Tarquinio ilSuperbo , onde venga ad essere di soli quarantaquat sro o quarantacinque anni , e non di sessan taquattro,quandogittògiùper ligradini della Curja Servio Tullio, non parrà più in nessun m o d o inverisimile tanta gagliardía . Senzachè io lascio al giudicio degli assen nati , se , anche concedendo , che di sessan taquattro anni abbia Tarquinio fatta una tal prova , menandosi allora una vita più dura , e per conseguente più robusta , ed essendo Tarquinio riscaldato dalla collera , sia poi cosa da farne tanto le meraviglie .Onde mi pare di potere a buona ragion conchiudere , h4 1  1 1 V ALGAROTTI CAPO VII. medesima come fece, ma servito fifareb be della fama dell'Avo suo dopo la morte di Servio , che già era oramai pieno di anni per farsi elegger Re da'Romani, cosa , la qual potea giustamente sperare potergli riu sčir più agevole , che d 'intraprendere , com ' egli fece, di usurpare il Regno vivente lui medesimo . Ben vedea , che se tentato avel 1 se inutilmente questo passo di trucidare il suo Suocero , ed impossessarsi coll'armi del Solio , non gli rimaneva più speranza alcu na . Non arrischiò adunque iltutto, senon quando si vide in procinto di tutto perdere. 1 119 chę ) <   RAGIONAM . CONTRO IL CONTE che siccome non v'ha motivo di accorcia . re i precedenti Regni , così nè pure ve ne ha alcuno per accorciar quello di Servio Tullio . Siamo finalmente pervenuti al Regno dello steffo Tarquinio Superbo ultimo R e di R o ma . La principal ragione , che adduceľ Autor noitro per abbreviare ilRegno di lui , e che abbraccia anche i Regni di Tarqui nio Prisco, e di Servio Tullio, è questa. A c cadde,ei dice , che verso la fine del Regno di Tarquinio Superbo , Sefto Tarquinio , e Tarquinio Collatino essendo a c a m p o ad A r dea , vennero a contesa chi di loro avesse moglie più onefta ; d'onde poi nacque , c o m e ognun fa, il Consolato , e la libertà di R o m a . Ora questo Tarquinio Collatino a quel tempo secondo le parole di Livio ( 8) era giovane , e secondo lo stesso Autore era figliuolo di Egerio , a cui Tarquinio Prisco suo Zio commise la guardia di Collazia Città novellamente acquistara (h) nella guerra S a (8) Regiiquidem juvenes interdum orium conviviis comeslaf. fionibusve inter fe terrebant; forte potantibus his apud ( fratris hic filius erat ) Collasiae in praefidio relictus  bina , Sextum Tarquinium incidit de uxoribus mentio & c. T. Liv. Dec. I. Lib.I. Cap. 22. n. 57. (1) T. Liv. Dec. I. Lib. I. Cap. 15. n.38. Egerius }   1 3 1 1 ALGAROTTI . CAPO VII. bina, e ciò fu verso il principio del Regno di Tarquinio Prisco , il quale viene a c a d e re fe non prima l' anno centocinquanta se condo il computo comune della edificazione di R o m a . Convien dire , ei soggiugne , che Egerio a quel tempo avesse almeno i suoi quarant'anni , fe vogliamo crederlo atto a Costenere un carico di tanta gelosía , come è quello di castodire una Città, di nuovo a c quisto , e se vogliamo , che fosse nato , c o m e si h a d a L i v i o , p r i m a c h e T a r q u i n i o Prisco veniffe a Roma .Ma come può fta re , ei conchiude , che un uomo di quarant' anni l'anno di R o m a centocinquanta avesse un figliuolo'ancor giovane l'anno dugento quarantaquattro ? Cioè quasi un secolo dopo , come non fi voglia dire, ch'egli avesse fi gliuoli passati i novant'anni , il che merita va aver luogo secondo lui tra le meraviglie della Storiadi Plinio,non traifattidiquella di Livio . Pensa adunque l'Autor noftro , che s e vogliamo ritenere questa discendenza de'Tarquinj , fa mestieri prendere ilpartito di accorciare i Regni di Tarquinio Prisco , di Servio Tullio , e di Tarquinio Superbo , che occupano il tempo , che è di mezzo tra il figliuolo , ed il Padre . Molte cose io potrei qui porre sotto l. +    RAGIONAM. CONTRO IL CONTE (i)Collariae inpraefidio reli&us.T. Liv.loc.fupra cita  opera ucchio del lettore per isciogliere questa dif ficoltà, come farebbe il dire, che non sifa precisamente il tempo , in cui sia stata con quistata Collazia ; che Livio Storico non trop po'accurato può esserfi ingannato nel dire , che già nato era Egerio prima che Tarqui nio Prisco venisse a R o m a , che la custodia d'una Città non era carica a que'tempi , per esercitar la quale dovesse u n guerriero effer giunto all'età di quarant'anni : tanto più trattandosi di un Zio , che una tal c u ftodia commette ad un Nipote : perciocchè non essendo in quell'età le cose così rego late,come a'dinostri,piùosservavasinegli uomini , i quali davano al mestier delle armi,la bravura,elagagliardia,doti, di cui potea egli molto b e n e esser fornito alla età di venti o venticinque anni che n o n il s e n n o , c h e a ' n o f t r i t e m p i i n u n G o vernatore fi richiede , per fuppor ilqual sen no ci vorrebbe per avventura più avanzata età . Potrei dire di più , che se vogliamo Itare alle parole di Livio,da queste nonfi può dedurre , che la custodia della Città sia Itata a lui principalmente come Capo c o m mesla (i), ma solamente che fu lasciato di pre   ALGAROTTI. CAPO VII, 123  presidio inquella Città dal Re fuo Zio.Por ter essere finalmente , che questo Collatino giovane più non fosse , attesochè, per non far parola della poca esattezza di Livio , questo Storico non dice precisamente , che giovanefosseCollatino,ma cheiRegjgio vani passavano il tempo in conviti, mentre erano occupati in quella piuttosto lunga,che viva guerra , 1 gliuolo sotto le quali parole di Regi giovani può egli aver foltanto intesi i figli uoli del R e , e non Collatino , quantunque della stessa famiglia , tanto più che dicendo egli dopo,che stando essibevendo pressoSe sto Tarquinio , ove pur Collatino cenava , cadde ildiscorso sopra le moglj (k), a me pare , che quelle parole ove pur Collatino cenava , dimoltrino , che sotto quelle ante riori di Regj giovani non altri abbia volu to intendere Livio fuor che ifigliuoli di Tarą quinio . M a comunque fiafi di ciò , s'abbia per nulla il fin quì detto , concedasi essere impossibile , che Egerio abbia potuto avere un figliuolo giovane al fine del Regno di Tarquinio Superbo . Sappiasi adunque , che Dionigi (1) crede Collatino nipote,e non fie ( k) Forte potansibus his apud Sextum Tarquinium ubi Collatinus coenabat . T. Liv. loc. cit. (1) Dionys, Halic. Lib. IV. pag. 261,   RAGIONAM . CONTRO IL CONTE L'ultima ragione , con cui l'Autor nostro ftudiali di abbreviare il R e g n o di Tarquinio Superbo , e che abbraccia anche quello del fuo predecessore Servio Tullio , ei la ricava da questo . Tarquinio quando pervenne al Principato , avea secondo lui sessantaquattro anni , a'quali chi aggiugne i venticinque che si dice aver egli regnato , troverà, che era questi in età di Ottantanove anni , a l lorchè fu cacciato dal Regno , la qual par ticolarità posto che vera ,n o n sarebbe stata passata dagli Storici sotto silenzio . C h e più , segue egli a dire , leggeli, che il medesimo Tarquinio parecchj anni dopo che fu c a c ciato di Roma , combatté a cavallo al L a go Regillo contra ilDictatorePostumio (m), ciò , che verrebbe a cadere l'anno centefi m o circa della età fua , onde ei correrebbe la giostra c o n un secolo sulle spalle ,affurdo, prosegue egli , non punto diffimile da quello avvertito da Luciano (n), che quella Elena ,  gliuolo di "Egerio , ed in questa maniera con un colposolositagliailnodo. 1 i Per cui l'Europa armolli ,e guerra feo, E l alto imperio antico a terra sparse , (m)T. Liv.Dec. I.Lib.II.Cap.11.11.19. (1) Lucian, in Somnio seu Gallo , quan   "ALGAROTTI . CAPO VII 12.5 quando desto quelle si celebri fiamme i n petto a Paride già fosse coetanea di Ecuba . suo .  Lalcio io qui,d'avvertire , che a Tarqui nio Superbo si vogliono torre que'vent'anni, iquali,come già sopra abbiam mostrato , gli dà di troppo l'Autor noftro , onde per dirlo alla sfuggita , non avea egli da mara vigliarsi , che gli Storici abbiano taciuta quella particolarità , che quando Tarquinio fu cacciato di R o m a , già era pervenuto alla età di oitantanove anni . Quello poi , che tronca ogni quistione per rispetto alla giornata del L a g o Regillo si è , che Dionigi (o), ch'egli pure reca in mezzo a questo proposito, e non gli presta fede , riprende quegli Storici , i quali narrano tal fatto , e dice doversi credere suo figliuolo , e non lui medesimo esser quello , che fu,ferito com . battendo contro ilDittatore Poftumio . O v ? è da notare che anche facendo il caso , che con sole congetture si dovesse scioglie re questo nodo , essendovi due mezzi noti al nostro Autore per togliere l'inverisimi glianza ,, cioè o di abbreviare i due.Regni di Servio Tullio , e di Tarquinio Superbo, o pure di dire non essere stato lui,m a il ( 0 ) D i o n y f. H a l i c . L i b . V I . p a g . 3 4 9 .   CAPO VIII. Si dà risposta a varie opposizioni . Chiaro Hiaro ora resta abbastanza , che le in. verifimiglianze raccolte dal Conte Algarotti , s'altri le viene minutamente osservando ,non  I26 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE fuo figliuolo quello , che ritrovossi alla giord nata del Lago Regillo , il nostro Autorem prende piuttosto il primo , cioè quello , che favorisce l'opinion sua , quantunque a m m e t ter non si possa per modo nessuno , quando si sa , che Dionigi , il quale avea con tan ta cura studiati gli antichi Storici Latini , e che se non altro fu tanti secoli più antico del Conte Algarotti , Dionigi in s o m m a così diligente nel fiffar le epoche, stima più prudente partito prendere il secondo. La scio ora pertanto decidere da chi diritto ragiona , se tali fieno i motivi addotti dallo Autor noftro , che si debba pure accorciare il Regno di Tarquinio Superbo,o se piut tosto,come ioavviso,non resistanoalla autorità degli antichi Storici , e debbano c a dere a terra come damento , del tutto privi di fon fon   ALGAROTTI . CAPO VII. 127 folamente non sono valevoli a mandare in rovina la Cronologia comunemente ricevuta , m a nè pure hanno forza per ispargervi fo: pra alcuna ombra di dubbietà,nè efferne cessario ricorrere a quel suo ripiego di a b breviare pressochè della metà la durata de' sette Regni per conciliare la giovanile erà di Romolo colle grandi cose , ch'egli ope To , e l'età di N u m a colla sua esalcazione al Trono. Nè secondo quello , che abbia m o osservato , l' u o m o indugia troppo cogli ftimoli della vendetta , e dell'ambizione a fianco anzi lungo spazio di tempo non ba fta ad estinguerli; nè quella gagliardía ,che trovar non si può nella vecchia età , avvien che vi si trovi, onde senza negar credenza , com 'egli pretende , a' più gravi Storici dell' antichità in cosa , in cui tutti convengono , quale si èla duratade'fette Regni,torna ogni avvenimento ( per servirmi delle stesse fue parole in contrario senso ) nell' ordine naturale delle cose .  nolo . 1 Del resto si dee avvertire , e di fatticre do , che ognuno avrà avvertito quanto d e boli , e leggiere fieno le inverisimiglianze ed assurdi,dicuiservisli ilnostro.Autore per distruggere la durata de'mentovati R e gni , e venire a confermare il Sistema Cro.   128 RAGIONAM.CONTRO IL CONTE nologico del suo Filosofo . Q u a n d o altri nes gar vuole la verità di un fatto attestato da gravi Storici per folo glianze , o contraddizioni, queste devono ef ler tali , che ammesse per vere il fatto al trimenti fufliftere non pofsa : perciocchè è legge dellaPoesia,non della Storia,ilnarra re soltanto cose verifimili.La.Storiaècon tenta di narrar cose vere ; e quante cose , a v vegnachè vere inverisimili ci pajono per una minuta circostanza o smarrita , o di cui non pensarono gli Scrittori di far menzione ,per un costume, per una legge , per una fog. gia particolare di vivere, di cui come di cose a'contemporanei loro notiffime , n o n istimarono dover far parola ? In s o m m a molte volte assomigliar potrebbefi la Storia ad una macchina , la qual produca maravigliosi ef fetti , e i di cui ordigni sieno ignoti. Tali dicono essere i nostri orologi per rispetto a’ Cinesi,e noinondirado,inispecieinquan. to allaStoria,laqual'èo da’tempi,oda? paesi nostri lontana , fiamo nel caso loro . Ecco adunque ,che leguate n o n fi fossero le inverisimiglianze i m maginate dall'Autor noftro , sono queste si deboli, che come saette vibrate contro una motivo d'inverisimi quantunque eziandio di falda armatura , ben lungi di recare alcuna offesa ,    ALGAROTTI . CAPO VIII. 129 offesa , cadono effe medesime infrante a terra , chę  E appunto per iscogliereil nodo , ch'egli benissimo vedea , ch'alori gli avrebbe potu to mettere innanzi agli occhi, vale a dire per qual ragione egli opponesse alcuni fatti, in cui discordano gli Storici alla durata di tutti i sette Regni tolti insieme, ed alla d u rata di ciascheduno in particolare , in cui sono a un di presso di un medesimo pare re, ei dice , che la memoria de'fattidovet te con più sicurezza essere conservata dalla tradizione , che non fu da quante volte , mentre quelli avvennero tornato un Pianeta al medesimo sito del Cie lo ; la qual risposta io non so , se basterà per appagare chi considera alquanto adden tro nellecose ; perciocchè a me pare noti zia non meno importante,e degna di esse re dalla tradizione, e dagli Scrittori a' p o steri trasmessa il numero degli anni , che occupòilTrono un Principe,diquello,che fieno molti fatti , a cui presta l'Autor n o ftro intera credenza . N e aveano i Romani bisogno di troppo fortili astronomiche culazioni, come pare , ch'egli accennar v o glia,per sapere di grosso, quando terminal le,eprincipiassel'anno.Ed unaprova, che questa tradizione del numero degli anni , i essa trasmessa sia {pe   ' epoca di molti de principali fatti, non si sia notato però l'anno preciso, in cui segui ciascun fatto . O v e è da riflettere che lo stesso noftro Autore dicendo non ef fere da credere , che gli Storici sapessero quanti anni sieno trascorsi, mentre andava no fuccedendo i fatti, è forza ,che ammet  130 RAGIONAM , CONTRO IL CONTE guerra di Romolo con lo veramente credo poi , che quantunque tenuto fi sia registro non solo del numero degli anni , che durarono i Regni de'Re di Roma , ma ancora del Regno di ciascun . R e , e dell ta , che abbia regnato ciascun Re , e per con seguente della somma di tutti isetteRegni, inratta conservata fi fia , si può dedurre da quella ammirabile concordia degli Storici nella Cronología , concordia , la qual non si vede certamente ne'fatti. che non sapesser nè pure l'anno preci fo , in cui questi avvenimenti seguirono. Ora con questa sua sola concessione viene a ro vinare buona parte delle ragioni , ch'egli apporta per abbreviare ciascun R e g n o . E d in fatti quante volte non fi serve egli di epoche di avvenimenti minuti , e per lo più ; registrati soltanto da un Plutarco , per ritro var ripugnanze nell'antico Cronologico Siste ma , come sarebbe,per recarne alcuno esem pio , l'epoca della tro   ALGAROTTI . CAPO VIII. 131  e del diverse guerre ; tempo Approssimandosi l’Autor nostro al fine del suo Saggio , reca altra prova contro l'anti co Cronologico Sistema,e ben sivede,che avendola riserbata in ultimo , ei crede , che dia questa l'estremo colpo , e il nodo del tutto recida . Questa prova , ei dice , è c a vata dalle generazioni di uomini , le quali tro i Camerj , che è in Plutarco , l'epoca del matrimonio di Tazia con N u m a , che trovali presso lo Iteffo Storico , come anche il precito numero d'anni , che vissero insie m e , il q u a l p u r e è r i c a v a t o d a l l o e s a t t o r e giftro , che il medesimo Plutarco ne tenne , per non parlare de cinque anni nè più nė meno,che avea Anco allamortediNuma e degli anni , in cui seguirono precisamente della nascita di Egerio , ch'egli raccoglie da Livio . Le quali epoche tutte oltre all'essere tratte la maggior parte da Plutarco o da Livio , credulo il primo , Itraniero , e lontanissimo da'tempi ,poco accurato l'altro,non dovea no per nessun modo addursi da lui , come quello , che pretendea non aver la tradizio ne potuto tramandareepoche di troppom a g gior rilievo , che queste non fieno , e c h e sono da tutti i più gravi Storici ammesse per vere . fono i2   sono indicate dagli Autori nella Storia dei R e diRoma ,le qualigenerazionidice,che con vincono di falsa la loro Cronología quanto alle durate de'Regni . Nella vita di R o m o lo,ei segueadunque, liha,cheOttilioAvo lo di Tullo Ottilio mori nella guerra contro a'Sabini , la qual fu ne'primi anni di R o ma,iRegni pertanto,eiconchiude,diRo molo , di Numa , e di Tullo Oftilio non si stendono più là , che il tempo razioni.Da Numa ad Anco Marzio,ei se gué , ci è una generazione sola , perchè l' uno era Avolo dell'altro ; dal che seguita , che la generazione tra Numa , ed Anco coincidendo col tempo di Tullo Oftilio , ci fia l'età di un uomo qualche anno più o meno da Tullo al fine del Regno di Anco. Onde dal principio del Regno di Romolo allafinediquellodiAncocorrono datre generazioni . Lucio Tarquinio Prisco , p r o legue egli, uno de'Lucumoni dell'Etruria , viene a Roma uomo maturo sotto ilRegno di Anco , de cui figliuoli fu instituito tuto re : e però l'età di Tarquinio convenendo con quella di Anco , non resta che una . e fola generazione tra il Regno di Anco il Regno di Tarquinio Superbo figliuolo del Prisco . Talchè , ei conchiude , dal principio  132 RAGIONAM , CONTRO IL CONTE di due gene del   del Regno di Romolo alla fine di quello di Tarquinio Superbo fi contano quattro sole generazioni in circa, e non più. Ora som mando insieme gli anni di quattro genera zioni, che corrono durante ifetteRe diRo. m a fi hanno cento trentadue anni ; poiché una generazione di uomini trentatré anni . E fommando insieme gli anni di ciascun Re , secondo il computo di Livio , fi hanno d u gento quarantaquattro anni ; e vi ha più di un secolo di differenza tra due risultati, che pur avrebbono ad essere uguali .D'altra par te facendo , che tocchi a ciascun R e l'uno ragguagliato coll'altro diciannove anni di R e gno , come vuole il Neutone , fi ha cento trentatré anni, e tra questi due risultatinon corre differenza niuna . di comune sentimento vengono dati a  9 f ALGAROTTI . CAPO VIII. 133 Sin quì il nostro Autore . Io per rispon dere a questo lungo ragionamento prima di tutto voglio concedere , che quattro fole g e nerazioni fieno corse da Romolo insino a Tarquinio Superbo : perciocchè ciò si riduce finalmente a dire , che durante i Regni dei serte Re , quattro uomini in tutto ilR o m a no popolo ebbero prole un dopo l'altro di sessanta e un anno . Ora farebbe poi forse questa impossibilità tale fisica, per cui non i3   fi dovesse più prestar fede agli Storici delle antiche memorie de'Romani? Ma ,suppo sto (quello però , che in nessun modo con cedere fi può ) che questa fosse inverisimi glianza tale, per cui sipotesse negar cre denza alla Storia , s'è forse l' Autor nostro bene assicurato , che , non uscendo da quelle persone , di cui egli fece scelta per fissare le generazioni , quattro soltanto corse ne fie no pendente il Regno dei sette Re ? Dio nigi (a) attesta pure , che Tarquinio S u perbo fu nipote , e non figliuolo di Tarqui nio Prisco ?Questo accuratissimo Storico d o po aver fatto parola di molti assurdi , che ne seguirebbono , fe figliuolo, e non nipote ei fosse di Tarquinio Prisco , fi afforza colla autorevole testimonianza di Pison Frugi , il qual solo tra gli Storici affermò questa cosa . Nè mancadiaccennarequello,cheperav ventura fu cagion dello sbaglio : poichè dice , che dall'essergli nipote per natura , e figli uolo per adozione fieno stati forse gli altri Storici ingannati. Nè giovaildire,comefal'Autornoftro, che la contrarią opinione cioè , che figliuo lo fosse questo Re , e non nipote di Tar  134 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE qui (2)Dionys,Halic.Lib.IV.pag.211,213,   ALGAROTTI . CAPO VIII. 13 S parte (6) Hic, L. Tarquinius Prisci Tarquinii Regisfiliusneposre fuerit parum liquet:pluribus tamen auctoribusfiliumcreg diderim.T. Liv,Dec. I.Lib.I.Cap.18.n.46.  9 In quanto a Collatino poi, quà di nuovo addotto dall'Autor nostro p e r confermare il 2 fuo di numerare in quegli arcaismi come le autorità , contentofli e non si fece a pesarle il diligente sciando da Dionigi . In secondo luogo , la perder tempo ľ autorità di Dionigi , la quale , com ' è palese , è molto più da segui re , che non sia quella di Livio, ben diver sa è la maniera di spiegarsi dei due Scrit cori intorno a questo affare,l'uno ne tocca alla sfuggitą , l'altro vi si ferma , ragiona reca latestimonianza di uno de'più antichi Storici , e sappiglia a quella opinione , la quale sia per lo credito , che ha all'Auto re fia per , quinio Prifco fu opinione dei più, ed opi pione abbracciata da Livio medesimo ; d o vendosi in primo luogo riflettere alla m a n i e ta , con cui Livio s'esprime, vale a dire , che questo punto era assai all'oscuro , che egli peraltro seguendo i più credevalo figliuo lo (6) ; il che dimostra aver egli benissimo veduta la difficoltà , m a che non volendo , come sopra abbiam notato lo contesto di tutta la Storia , gli pare più sicura . is   suo Sistema , già sopra abbiamo osservato raccogliersi dallo stesso Dionigi (c) , che n i pote era , e non figliuolo di Egerio . Ciò posto ne viene , che senza uscire da quelle persone, di cui egli osservò le generazioni, non quattro , m a cinque numerar se ne debe bono d a Romolo inlino a Tarquinio Super bo : onde se aver non si dovea per assurdo tale da negar fede alla Storia l' essersi ritro vare quattro persone in tutto il popolo R o m a n o le generazioni , di cui fossero di fef santa e un anno , tanto meno dovrà parer ripugnante , che cinque susseguite ne sieno , ciascheduna delle quali uguagliatamente non oltrepassi i quarantanove anni . (.)Dionyf.Halic.Lib.IV.pag.2619 que  336 RAGIONAM.CONTRO IL CONTE M a dirà il nostro Autore , che ad una generazione comunemente si danno soli tren tatré anni , laonde n o n si può essere così largo , e concederne a ciascheduna di q u e Ite quarantanove . Qui mi convien prendere d'alquanto più alto i principi , e si verrà a conoscere , che quelle generazioni , a cui comunemente fi danno trentatré anni , o secondo altri tren tacinque,non sono della specie di quelle osa servate dal nostro Autore . Vediamo adun   ALGAROTTI : CAPO VIII. 137 q u e quali fieno quelle , a cui diedero tal nu : mero di anni i Cronologi , e verremo in chiaro , fe tali fieno le osservate da lui.La Cronologia , come tutte le altre facoltà,dee seguir la natura , come maestro fa ildiscen te , per dirlo alla Dantesca , e pure è che collo.Specularvi sopra molte fiate,in luo go diavvicinarsiaquellaaltrilafugge,e gli ultimi passi sono quelli c h e riconducono a lei nella  vero , L e generazioni pertanto , che fiffarono i Cronologi circa a trentatré anni, sono quelle , che generalmente si osservano in un lungo spazio di tempo nella maggior parte famiglie di una nazione;laonde, fe fiof servano in una sola, o poche famiglie , a n che per lungo tempo questa osservazione, non è più fattasecondo la regola , che general mentela maggior parte abbraccia:percioc chè , se nella maggior parte delle famiglie sono uguagliatamente le generazioni di tren tatré anni,potrebbe succeder benissimo, che fi ritrovasse una famiglia , od anche diver se , in cui queste foffero o più lunghe , più brevi. Se poi non si osservassero in un lungo spazio di tempo , riuscirà ancor più agevole il ritrovarne . M a le generazioni , di cui servifli il nostro Autore , nè corsero delle -   nella maggior parte delle famiglie , nè in lungo tempo , anzi nè pure in unasola fa miglia , essendo composte di diverse perso ne d i varie famiglie . Certamente se si fa un Cronologo ad osservare per tal modo le generazioni, ben tosto fisserà la regola ge nerale di queste a settanta e più anni , per chè in un notabil tratto di paese popolato iopenso,chenon passisecolo,senzachèfi veda uno , o forse più uomini , che di tale età hanno prole. Lo sbaglio in somma del Conte Algarotti consiste nello aver presa la regola d a quello che suole generalmente avvenire , gli esempj da ciò , che in pochi succede,ed aver pensato, che que'casipar ticolari sotto la general regola cadessero , o n de la Cronologia degli Storici delle cose de? Romani sottoi R e s'opponesse a quella legge , che osservaro aveano nella natura i più periti Cronologi . Nel che quanto sia a n dato lungi dal vero credo d'aver fatto ba ftantemente palese. Due ragioni reca ancora finalmente l'Au tore in difesa del Sistema del Neutone ,cui è necessario rispondere innanzi di por fine a quelte nostre osservazioni. La prima fiè , che tal Sistema discolpa Virgilio esattissimo Poeta , ci dice , da quello anacronismo i m pu  138 RAGIONAM, CONTRO IL CONTE > i   ALGAROTTI , CAPO VIII. 139 putatogli volgarmente per conto de'tempi , in cui vissero Didone , ed Enea . La secon da , perchè giustifica quella comune tradi zione tenuta in R o m a , che N u m a foffe fta to uditor di Pitagora . Ora per rispondere alla prima , questa . ammetter fi dovrebbe senza dubbio veruno qualora fosse stato Virgilio tenuto a soddi sfare alle leggi della verità storica;ma non fa mestieri ricordare , che da tali leggi sciolti sono i Poeti.Raro è quel vero, che non abbia bisogno del finto per aggradire ai più , e se non inftillano virtù , col dilet tare mancano i Poeti al principal fine dell' arte loro ; tanto più , che fecondo quello che pensa il dotto P. dellaRue (d),non per ignoranza delle antiche Storie , m a per dar ragione de'famosi odj , i quali si lungo tempo fra' Cartaginesi , e la Nazion suam durarono , e per introdurre quel patetico , che tanto piacque , come ce ne assicura Ovidio (e), a'suoi contemporanei , e tanto è degno di piacere ad ogni età,e ad ogni popolo , non ebbe difficoltà di commettere (4) Ruaeus in not.ad.Arg.Lib.IV.Aeneid.  quell' Ovid. Trift. Lib. II. Eleg. I. v. 535. Nec legitur pars ulla magis de corpore toto. Quam non legitimofoederejunétus4mor,   quell'anacronismo . S'aggiunga , che que ito anacronismo non era tale che facil mente potesse venire scoperto dalla comune de'Leggitori , da'quali soltanto balta , che non vengano scoperti gli errori storici dei Poeti : perciocchè correa fama fecondo A p piano ( f) , che Cartagine fosse stata fonda ta alcuni anni avanti all'eccidio di Troja da una colonia di Fenici , presso i quali poi ricoverossi dopo lungo tempo Didone , del che non lascia Virgilio didarne qualche cen nei ?  140 RAGIONAM , CONTRO IL CONTE Appian. apud Ruaeum cit. loc. no, > onde trattandosi di tempi assai lontani dalla età di Virgilio , questo rumore basta va per render tale la finzione, che non fof se la verità ad un tratto conosciuta ,e vinta a terra cader dovesse la invenzione di lui. Ma abbreviando della metà iltempo,che durarono i Regni de'Re di Roma viene forse a nulla cotesto anacronismo ? E che fa rebbe, se il nostro Autore inutilmente ado perato fi fosse , e che anche togliendo pref so che la metà degli anni dalla somma di tutti quelli , che corsero sotto a'Regni dei fette R e , non si venisse con questo a ren der probabile in alcun modo , che Enea , e Didone potessero essere stati contempora   Tre secoli e più corsero,secondo gli an tichi Scrittori , dall'incendio di Troja alla f u g a d i D i d o n e , c o m e o s s e r v a r o n o il d o t t o Petavio , e l'erudito Commentator di Vir gilio della Rue (g): ora da trecento e le dici anni (che tanti ne corlero fecondo il Petavio dall'eccidio di Troja alla fondazion di Cartagine ). togliendone cento e undici , come piace all'Autor noftro,vale adire facendo venire Enea in Italia cento undici anni più sardi, rimangono nulladimeno d u gento e cinque anni di svario . Laonde é chiaro , che nè Virgilio abbisogna della di fesa del nostro Autore , nè , quand' anche ne abbisognasse, sarebbe questa bastante per do (3)Petav.Rationar.tempor.Parte I.Lib.II.Cap.IV. Cartagofundata dicitur anno posttemplum incoatum144. qui est annus poft Trojanam calamitatem 316 . Ruaeus loc, supracis.  te svanire l' anacronismo da lui commesso . fa ALGAROTTI . CAPO VIII. 141 nei ? Sia adunque egli pur certo, che cote fto fuo ripiego nontoglie, ma soltantosmi nuisce l'anacronismo di Virgilio ; che anzi questo rimane peranco maggiore di due le coli . N è soltanto vuole il Conte Algarotti, che fia alla più esatta verità conforme ciò,che si legge in un Poeta, purché in alcun m o   anno  > che comunemente credefi centesimo undecimo dalla fondazion di Roma,alprin cipio del Regno , di cui già dovea effer giunto N u m a al quarantesimo primo della età fua (se pur vogliamo seguire ical coli dell'Autor nostro , il quale dando diciannove anni circa di Regno a Romolo faprincipiare il suo Regno aNuma giàvec chio di sessant'anni ) , e fissando d'altra p a r te , come già sopra abbiamo osservato , le condo la mente di lui, la venuta di Pitas gora anno soli 142 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE do favorir possa il suo Sistema; ma preten de eziandio, che maggior credenza prestar fi deggia ad una popolar voce ,laqualtor na in avvantaggio della opinion sua che a'più rinomati Storici dell'antichità . Già abbiamo sopra veduto il suo parere circa all'essere stato Pitagora contemporaneo anzi Maestro di N u m a , ora adunque a confer mare vie più ilsuo Sistema,lorecadinuo vo in mezzo quasichè ridondar debba in avvantaggio di questo il porgere , che fa fa vorevole interpretazione a d u n a tale p o p o lar voce . Avendone però già altrove fuffi cientemente favellato, non mi resta altro da aggiugnere , se non che , anche fiffando il principio del Regno di Romolo secondo lo intendimento del nostro Autore , a quello   ALGAROTTI . CAPO VIII. 143 Queste sono le riflessioni, le quali, fecon do quello,ch'iopenso,chiaramentedimo streranno , che il Conte Algarotti cadde trat to dal suo Filosofo in errore . Se parranno per avventura troppo più lunghe di quello , che neceffario fosse, gioveràin primo luo go considerare , che bastano poche parole per mettere una cosa in dubbio , m a effer forza per iftabilirne la certezza ricorrere a' principi, onde riescono sempre le risposte più lunghe delle opposizioni ; in secondo luogo , c h e ho stimato dovermi fermare alquanto in torno a certi punti , i quali oltre allo influi re nella materia , che per me trattar fi do vea , poteano essere forse non del tutto inu tili per chiarir la Storia di quella prima età di Roma . Che  gora in Italia circa a quello anno , che giu dicasi dagli Storici dugentefimo quarantesi moquarto diRoma, virimaneciònon ostan te un anacronismo di cento trentatré anni tra la venuta di questo Filosofo in Italia , ed il tempo , rendere in cui Numa-già era perve anno della età sua; o n de il Sistema del Neutone non può nè pure nuto al quarantesimo Pitagora , e Numa contemporanei , come non può affolvere Virgilio te dall’anacronismo interamen di Didone , e di Enea. 1 1   1144 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE Che se,come fpero,mi è riuscitodifar vedere l'inganno del Conte Algaroiti , sarà questa una novella prova di quanto sia in tralciato il cammino del vero , quanta 1 sia connesso , ed unito l'errore: collo inge gno umano , poichè gli uomini fommi non tralasciando desser uomini , in tutto spogliar non se ne possono. La più bella discolpa del resto che addur si possa in difesa di lui , îi è il dire , che fe pur s'ingannò , s'ingan nò seguendo un Neurone . L'opinione del Newton fu sostenuta in Italia dal conte Algarolti in un suo saggio sopra la durata de're gni de'Re di Roma,scritto nel 1729,cioè due anni dopo la morte di Newton e un anno dopo la pubblicazione del libro di lui!.Ora,in questo suo saggio l'Algarotti lascia poche censure intentale contro la cronologia dei primi due secoli e mezzo di Roma ,procurando di provare in particolare come non fosse succeduto davvero ciò che per una ragione generale il Newton aveva affer malo che non era potuto succedere.Ilsuo fondamento è soprallulto Livio ; e in secondo luogo Plutarco, non 1Ilsaggiodell'Algarotttisitrovanelvol.IV dellesueopere (Cremona 1779),p.106-138.Ma laristampachequivi n'è fatta non è in tutto conforme all'edizioni anteriori,delle quali ioho la seconda, Firenze 1746, presso Andrea Bonducci; e dico la seconda perchèl'editoreinunaletteradidedica all'illustrissimosig.cav.An tonioSerristorichiamaquestaunaristampa,enonpuò esservistata, se non una sola edizione prima, perchè una lettera dell'Algarotti allo Zanotti, che precede il saggio, è del 24 dicembre 1745 , e da essa appare che il saggio non fosse stato stampato prima. In questa lettera l’Algarotti dice appunto di averlo scritto oramai sedici anni passati,quando dava opera alla Cronologia sotto la scorta di quel lume vero d'Italia, Eustachio Manfredi, e che non vi avrebbe più riguardato,«sevoinonmiavesteeccitatoainandarlovicome fate»; e se n'era distolto , perchè « distratto da mille altre cose , e gli pareva,che non fosse da moltiplicare in iscritture e in istampe intorno a cose già trattate,benchè in modo diverso dal mio.» Que g l i il q u a l e a v e v a t r a t t a t a q u e s t a , e r a u n I n g l e s e d i c u i n o n d i c e il nome,ma di cui gli aveva dato notizia,in un suo viaggio in Inghil t e r r a , il s i g . C o n d u i t , e r u d i t o g e n t i l u o m o i n g l e s e e d e r e d e d e l N e w t o n , quello stesso che ha scritto una lettera di dedica alla Regina, messa avanti alla Cronologia.Lo scritto dell'Inglese doveva esser pub blicato in fronte d'una storia Romana. Non so chi fosse. E. M a n fredi scrisse gli « Elementi della Cronologia con diverse scritture appartenenti alCalendarioRomano.» Furon pubblicatiinBologna nel 1744.Egliaccettaladatavarron.dellafondaz.di Roma,01.6,3.  1.- LAMONARCHIA. 51   riferendosi a Dionisio mai ; anzi confessando di non avere lello se non idue primi'.Ora,ilsuo assuntoé che i fatti che Livio racconta dei Re,non s'accordano col numero d'anni che questi,secondo lui stesso,avreb. b e r o r e g n a l o . Il c h e p r o v a , m o s t r a n d o p e r R o m o l o , q u a n t a parte del suo regno resti vuota di avvenimenti,e quanta sial'inverisimiglianza,che,a17anni,ch'è l'etàincui si dice cominciasse a regnare, desse già segno di tanta prudenza civile e virtù di guerriero, quanta gli se ne attribuisce; per Numa,che dovesse,poiché eletto per la fama sua e per avere avuto in moglie Tazia, essere asceso sul regno a sessant'anni ; per Tullo Ostilio ed Anco Marcio, che dovessero aver avuto più breve re gno,di 32 anni il primo, di 24 il secondo,se dev'es. sere vero , che i figliuoli di queslo , il quale aveva , a detta di Plutarco, cinque anni alla morte di Numa, non fossero ancora maggiorenni alla sua,cioè quando Anco avrebbe avuto sessantun anni ; per Tarquinio Prisco, che non può avere regnato trenlolto anni, se dev'essere stato ucciso per opera de'figliuoli di Anco, attentato da giovani, ancora freschi del torto ricevuto, e non da uomini di cinquant'anni quanti ne avreb bero avuto alla morte di Tarquinio dopo cosi lungo re gno, anche supposto che non ne contassero se non soli dodici alla morte del padre; per Servio Tullio,che a i Cosi dice nella lettera allo Zanotti, secondo sta nell'ediz. del 1726;ma non è ripetuto in quella dell'edizione del 1779,che è variata anche in altri punti. E di fatti in questa seconda edi zioneècitatoDionisio,lib.VI,permostrarecome questi,accor gendosi dell'impossibilità, che Tarquinio Superbo assistesse egli stesso alla battaglia del Lago Regillo, vi fa invece assistere il figliuoloTito.Però,anchecosi,lostudiodell'Algarotti resta,come prima,poggiato tutto sopra Livio e Plutarco.  52 LIBRO QUARTO.   1. - LA MONARCHIA . 53 dargli quarantaquattro anni di regno,Tarquinio Superbo, ilqualeeragiàingradodimenar mogliealprincipio diquello,non avrebbe potuto a sessantaquattro anni opress'apoco ucciderlo nel modo che si racconta; per Tarquinio Superbo infine,che Tarquinio Collalino non avrebbe potuto essere giovine alla fine del regno di lui, poichè egli era figliuolo di fratello,se il suo cugino avesse avulosessantaquattro anni al principio del regno stesso; e che, se questi n'aveva tanti allora, n'avrebbe avuto ottantanove, quando su sbalzato dal trono, e cento alla battaglia al Lago Regillo dove avrebbe combattuto a ca vallo,e sarebbe poi morto, si può aggiungere, di cento trèanni.Sicché l'Algarotti crede che questi regni si debbono accorciare lulti, se la storia di ciascun Re si deveaccordarecolladuratadel regno.E di quanto biso gni accorciarli,egli lo trae da un'altra considerazione, cioè dal numero di generazioni , intervenule durante la monarchia.Queste,egli dice, non poter essere state se nonquattro:poichèiregnidiRomolo,diNuma ediTullo Ostilionon siestendono più di due generazioni, stante chéOstilio,avolodiquest'ultimo,ècontemporaneo di Ro molo;un'altra generazione richiede il regno di Anco, che è vissuto la maggior parte di sua vita durante il regno di ullio ; ed un'altra, i regni di Tarquinio Prisco. di Servio Tullio e di Tarquinio il Superbo , poichè il primo ha del pari vissuto la maggior parle di sua vita durante il regno di Anco. Sicché contando ciascuna generazione per trentatré anni,la durata della monar Chia sarebbe stata di centotrentadue anni,e ne tocche rebbero a ciascun Re , l'uno ragguagliato con l'altro, diciannove.  Sopra la durata de'Regni DE RE DI ROMA. Gli è una neceffaria conse guenza delSistemacronolon gico del Neutono abbrevia re considerabilmente i regni de' sette Re di Roma , a ciascun de' quali agguagliatamentegli Storici danno trentacinque anni di regno , mentre il comun corso di Natura secondo le offervazionidel Filosofo, non ne concede loropiù di diciot to o di venti . La qual conseguen za separesse stranaad alcuno,pur dovrà meno parerlo a chi risguar derà , che gli Archivi di Roma perirono dalle fiamme nel tempo che E 15   Ma noi (chiarati anco in questa parte dalle of (1) Plut,inNuma in principio p. 59.ed.Grecolat,Francofurti 1620.  16 che iGalli occuparono quella Cita tà(1),onde gliStoricinonebbę. ro dipoi alrro fondamento di quel lo scriveano, se non se la tradi zionevaga ed incerta,ch'era ri masa delle cose passate Talmente che ritenendo esli i nomi de'Re e registrando le azioni di quelli che tuttavia duravano nella m e moria degli uomini , fecero una Cronologia a modo loro. E questa Cronologia allungandola più del dovere, poterono in quella incer tezza fatisfareaquelnaturale ap petitocosidelleFamigliecome del le Nazioni, di cacciar le origini l o r o il p ị ù i n d i e t r o c h e p o s s o n o n e l la caligine del tempo .   (1).Come Livioscrivechenonera ra.DanteInf.29:  offervazioni del Neutono ,possiamo rimettere le cose al debito ordine nella serie de'tempi, e ciò fare mo non in altro modo che aflog gettando i Re di Roma a quelle comunileggi diNatura,allequa li ubbidiscono nelle Tavole cro nologiche tutti gli altri Re della Terra.Pur nondimeno questa par c o f a d u r a a m o l t i c h e si d e b b a f r a n ger ,dicono efli,l'autorità di Sto ricichenonerrano(1),echevo gliano uomini di jeri giudicar m e glio degli antichi di cose passate tantisecoliavanti.A questiioin tendo di ragionare ;e perchè ilN e u tono nella fua Cronologia non fa al tro che accennare così in generale la detta quiftione , io intendo d i fputarla con alcune particolari ra gio B 17   gioni,e quefte derivate appunto da quegliStorici,dell'autoritàde' quali e'fanno sì gran caso , e maffi- . me daTitoLivioPadre diRoma na Istoria.Nel che io mostrerò, che avolerritenere ifattida efio lui riferiti, egli è forza rigettar le epoche da esso affegnate 'a quelli, come non sivogliaammettere( che niuno ilvorrà) certe irragionevo lezze da non ammettersi,che na scono da'suoi raccontimedefimi, e da quella sua Cronologia,  18 E prima diognialtracosa io metterò innanzi una Tavoletta de' regnidiquestiRe distesagiustal' oppinioncomune la qualeporrà fotto l'occhio in un tratto l'anti co Sistema,eserviràameglio in tendere ilseguente Ragionamento. T4,   VII.TarquinioSuperbo 44 219  11. Numa muore dopo un regno di anni 38 III. Tullo Oftiliom u o IV.AncoMarziomuo 43 81 32 113 38 24 redopounregnodi anni 137 V. Tarquinio Prifco muore dopo un rem gno di anni Tulliomuo ·redopounregnodi - anni 1 TavolaCronologicade' anni anni RediRomasecondor de' ab oppiniondiTitoLivio. Regn.V.C. 1.Romolo muore 37 37 Interregnodiun'anno Í è cacciato da Roma dopounregnodianni 25 19 re dopo un regno di anni DO V i. Servio Ba 175 : 244   Dove non sarà fuor di propofi to avvertire quello che avverte lo stelloNeutono(1)comedaltem poincui laCronologia cominciòad ellercertaedesatta,non sitrovain tutta laStoria pure un'esempio di sette R e , i più de'quali furono a m mazzatied uno deposto,che ab biano regnato dugenquarantaquat tro anni senza interruzione veruna . Ma venendoalparticolare, e in cominciando da Romolo, i fatti di questo Principe dopo il ratto del ledonne,primacagione delmet tersi in arme (1).Nella Cronol.p.137. dellaE  20 :) furono le guerre contro i?Sabini, che ripeteano le donne loro,e.leguerrecontroal cuni popoli per gelosia d'imperio. Plutarconedà l'epoca della pe nul- , diz, Franzese 1728.   giuri sdizione,laqual Fidene era stata soggiogata da Romolo innanzi Ca merio . Il che ne somministra assai pro (α)και την πόλιν ελών, τοίς. μεν ημίσεις των περιγενομένων εις Ρώμην εξώκισε ,τών δ'υσομερόν- τωνδιπλασίους έκ Ρώμης κατώ κισεν εις την Καμερίαν Σεξτιλίαις Καλάνδαις.τοσύτοναυτώ περιήν πολιτών εκκαίδεκα έτησχεδον οί κάντι την Ρώμην .  21: nultima di queste guerre che fu c o n t r o i -C a m e r j , l a q u a l e e p o c a c a - , de nell'anno sedicesimo della edi-, ficazione di Roma ,e del Regno di Romolo (1). E dopo questa e gli non imprese altraguerra se non contro iVejenti, chemoslero cono tro i Romani domandando la resti tuzion diFidere,come di,Città che siapparteneva alla loro Β3   22 probabile argomento di por questa ultima guerra guerra l'anno decimofetti mo della edificazion di Roma o là in quel torno , non essendo punto verisimile che i Vejenti domandaf sero la restituzione di cofa tolta troppo lungo tempo avanti; tanto più che siccome era rozza .a quei di l'arte della guerra ,rozza altresì era quellade'Manifesti .Stando a (1) In Rom. in fine p. 37. Id. inNuma in princip.p.60. dunquecosìlacosa,cioè che l'ul tima guerra fatta da Romolo cadel senel'annodecimosettimodelre gno suo, e facendolo regnare tren totto anni,comedicePlutarco(1), ne rimarrebbe uno spazio di ven tun'anno in bianco, voglio dire tuttopacifico e quieto, e con verria dire che sotto il reggimen to    A questeparticolariragionidi abbreviare il regno di Romolo se ne aggiugne un' altra non meno ftringente tratta da Plutarco , fe condo cui egli deveaver comin B4 cia  23 to diquel Re fosserostatiiRom mani molto più tempu in non in guerra; il che non accorda punto con quella indole bellicosa che tutti gliAutori ad una voce danno al fondatore di quello Iinperio . N e ciò accorderia pure con quelle pa role che Plutarco mette in bocca á Numa , il quale per rifiutare il Regno offertogli dalRomani,dice che si convenia loro un Condot tierod'esercitoanzicheunRe per cacciare que' potenti nimici che Romolo avea lasciato loro in sulle braccia (1). pace che . (1) Plut,in Numa p.63.;   (1)Id.inRom.infine 77 24 ciatoaregnareinetàdi anni di cialette, dacchè egli è morto di anni cinquantaquattro secondoi computi di quello , e ne à regnata trentotto (1) . Ora come sipuò egli mai conciliare con una età cos sì tenera quelle tante cose che fa cea costui secondo lo stesso Plutara co,perlequalisivoleaunaetà più gagliarda,e più ferma?Egli eccellente ne'consigli e nella civil prudenzá mostrò moltepruovedel suomirabileingegno inoccasiondi trattar co' vicini , attendeva agli ftudidell'artiliberali;fi esercita vanellefatiche,nellecacce delle fiere,nelperseguitare gliaffaslini, nel purgar levie da'ladroni,e nel difender dalle ingiurie coloro che fusleroftatioppressi dall'altrui fu per P.37    perchieria(1):modi tutticheil feceró crescere in reputazione fra glialtri påstori,e chedebbono fara locrescerdietàapponoi.Nè lo aver' egli guidato a quel tempo impresedifficilisfime,lo efferfi fat to capo di un popolo , e lo aver fondato una Città ne rimoveranno dall'oppinione di farlocominciare a regnar più tardi, e di accorciare ilsuoregno. tore E da Romolo passando a N u ma,eglinoncisonomenfortira gioni per abbreviare il regno anco di questo . Io lascio ftare quella quistione roccata da Livio ,e da Plutarco(2)come questo Legisla (1)Plut.in:Rom.p.20. (2)Id.inNumap.60.69,e 74. Tit. Liv. Decad . I. lib. la pa 14.atergo.Ed.Ald.1918.. 25  :   por Authorem do&trina ejus quia non extat,alius,falfo SamiumP y thagoram edunt,quem Servio Tül lo regnante Rom& centum amplius poft annos in ultima Italiæ ora cir ca Metapontum Heracleamque de Crotonam juvenum æmulantium fta diacatus habuilleconstat.Liv,Ibid.  26 gnan tore potesse essere stato uditor di Pitagora, il quale essendo venuto inItaliapiùtardiche Numa non cominciò a regnare secondo la co mune oppinione (1) , ne farebbe (1) Plut,in Numa p.60. PherecidesSyrus primum di xit animos bominum esse fempiter nos:antiquusfane:fuit enim meo regnante Gentili.Hanc opinionem discipulus ejus Pythagoras maxime confirmavit, quicum Superbo re   fu Cic.Tusc.Quæft. Lib.I.  27 il regno suo più sotto, e per conseguente accorciare almeno le durate degli altri cinque regni,che furonodaessoNuma fino alRegi fugio;della certezza della qual'e pocanonsidubitadaniuno lo Jascio,dico,questa quistione ,la qua lenon risguarda tantoladuratadel regno diquestoRe ,quanto il prin cipio di quello :e vengo a cið che ne appartienepiù davicino, porre Plutarco ne dice che Numa aveva quaranta anni (1) , quando gnante in Italiam menisset , tenuit magnam illam Greciam ac. Pythagoras qui fuit in Italia temporibusiisdem,quibusL. Bru tus patriam liberavit. Id.Ib.Lib.IV. (1)InNuma p.62,   28 qua rantatre , la quale ultima cosa ne dicefimilmenteLivio(1).Ma qui io domando le parrà ragionevole ad altrui,che incosìfrescaetàpo tesseNuma essergiuntoaquelloe minente grado di fapienza, che fi dice;emoltopiùpoiseparrà ve risimile , che tenendo egli maslime modi di vivere differenti dagli u fatinel fuo paese(2),egli potesse esser salico in così alto grado di re Tit. Liv. Decad. I. lib. I.p. 16. a tergo .  fu eletto in Re di Roma, e che la governò per lospaziodi pu (1) Plut.InNuma p.73.2 74. Romulus feptem do triginta regnavit annos . Numa tres a quadraginta - (2) Vedi Plut. in Numa in princip.   Annumque intervallum regni fuit. Id ab re quod nunc quoque tenet nomen ,interregnum appella tum . ld paullo post. Consultissimus vir omnis di  putazione,che lo facesse riverire non solo appo gli stranieri, ma nel proprio paeseeziandio per così straordinario modo ,come narrano; e per recar le molte parole in u. na , che l'autorità del nome suo. fossetale,ch'ella dovesse in un subito far ceffare le animosità, e le gare delle parti, che per lo Ipazia di un'anno aveano conteso in Ro.: m a per lo Imperio (1) . M a egli (1)Patrum interim animos certamen regni ac .cupido verfa bat @c. OK 29 ci Tit.Liv.Decad.I. lib.I.p.14.   30 Plut.in Numa p.61. --- a y  ci è ancora alcuna altra confider1 zione da farsi.Tazio che reggeva Roma insieme con Romolo ,mcf so dalla gloria e dal nome dilui che tantoalto suonava,selofece genero dandogli per moglie una sua unica figliuola che si chiama vaTazia.Quandoquestoavvenif feper appunto nonsilegge;ma eglièverobensì,che ciðfumol divini atque'bumani juris dito nomine N u m e Patres Romani quamquam inclinari opes ad Sabi nos rege inde fumpto videbantur : t a m e n n e q u e se q u i s q u a m , n e c f a Etionisfuæalium,nec denique Pa trum aut Civium quenquam prefer re illo viro auf ud unum omnes . Numa Pompilioregnumdeferendum decernunt,Id. Ib.atergo,ep.15. to   (1)T.Liv.Decad.I.Lib.I. p.12.Plut.inRom.p.32.  31 sua to di buon'ora nel regno di R o molo ,dacchè Tazio muorì prima della guerra co'Fidenati, e co'Ca meri (1),cioè prima dell'anno see dicesimo del regno di Romolo ; e d'altra parte ne racconta Plutarco che Tazia era morta quando N u ma fu chiamato al regno, e ch'era vissuta con esso luilo spazio di tredicianni(2).Dal chetuttofi deeraccogliere,che grantempoa vanti la morte di Romolo fioriva lafamadellafapienzadi Numa;e converrià dire ,ritenendo il c o m p u todiPlutarco,cheavendoNuma foli venticinque anni,questa fama fossegiàtanta,che inducefleTa zio Re a dare in matrimonio una (2) Plut.in Numa p.61.   -(1) Id. in Numa p.63.  sua unica figliuola a lui uomo pri vato , il che mostra essere alieno da verisimiglianza, Diremo per tantoasalvareilvero,cheNuma dovesse avere sessanta anni almeno quando fu eletto con tanta unani mitàaRediRoma;eciòpofto, gli staranno molto meglio inbocca quelle parole che periscansarsi da questo carico gli fa dire Plutarco , qualmenteallecondizioni de'Ro mani era bisogno che laCittà avef seunRe dianimoardente erobu sto (1),le quali parole più tosto fi disdirieno che no ad un'uomo di quarantaanni.Postoadunque che Numa , come ragion vuole ,comin ci a regnare vent'anni più tardi che non si crede ,> di altrettanti an ni fi verrà ad accorciare ilsuo re gno   in età in circa di ottantatre anni (1).  gno , dove si voglia ch'egli sia morto come narrano , 33 sta E per tal modo abbreviando il regno di Numa , e similmente q u e l l o d i R o m o l o , si v e r r à a r e n der più probabile la lunghezza del la pace di cui godè Roma a tempo attorniata da popoli estre mamente gelosidellasua grandezza, come ellaera.Questapace giusta l'antico computo farebbe dileffan tacinque anni,iqualirisultano dal la somma de'quarantatre del regno diNuma,daun'anno d'interre gno,e da'ventun'anni passati da Romolo , dirò così , nell'ozio e nella cessazion dalla guerra ; e g i u C: quel > (1) ετελεύτησε δε χρόνον ο σ ο λύντοϊςογδοήκοντα προσβιώσας. Plut,in Numa p.64.   ven  di pre 34 itale cose discorse, questapace viene ad essere di ventiquattro an ni in circa e non più . E da ciò riesce molto più verisimile , come Tullo Ostilioerededelregno,non dell'arti di Numa , abbia potuto facilmente rinvigorir ne' Romani la bellica virtù inspirata loro da R o molo,ecomeabbiapotuto sente combatter con feroci Nazio ni e soggiogarle; il che di troppo fáriafuordell'uso,e della oppi nion comune se la virtù de' R o manifossestata(nervatadauna pa c e di fesfantacinque anni . Io non dirò nulla de' due fuf seguenti regnidiTullo Ottilio,edi Anco Marzio,ilprimo de'qualiè di trentadue anni (1), l'altro di (1) Tullus magna gloria bel li regnavitannosduosdotriginta. T. Liv.Decad.I.lib.I.p.24.   (2) Jam.filii prope puberem etatem erant Id. Ib.  35 ventiquattro (1) , se non che ab breviandogli un tal poco , egli ne parrà piùverisimilequello che di ce Tito Livio de'figliuoli di A n co Marzio : cioè che alla morte del padre e'non fossero ancora ag giunti agli anni della pubertà (2) (1) Regnavit Ancus quatuor dig viginti. Ib.p. 26. a tergo . Anco Marzio aveva cinque anniallamortediNuma(3):sea cinque se ne giungano trentadue, e ventiquattro, avremo leffantun’ anno,cioè l'età d'Anco Marzio allamorte fua;ilqualeavriadova to naturalmente lasciare figliuoli più adulti,postoche egliavesse regnato ventiquattro anni, e Tul C2 lo annos (3)Plut. in Numa pag. 74.   36 lo trentadue ; e cið perchè seconda ragione,un regio uomo come si era Anco Marzio e che fu poi Re , dovea menar moglie assaidibuon' ora per lasciare il regno a'figliuoli nella più ferma età che far fi po tesse. Eniente farebbe ildire,ch' egliavesle avuto figliuoli maggio ri di età che morisfero innanzi a lui , e che questa cura del padre di la fciar figliuoli atti al regno futle del tutto inutile in un regno e lectivo qual sieraquello diRoma , poichè dall ' una parte egli pare improbabile che dovessero ellere morri in tenera età tutti i primi suoi figliuoli più tosto, che gli altrs,edall'altrocanto eglisem bra che si avesse risguardo alla stir pe regia nella elezione del Re . Segno è di questo , che i Romani chiamarono al regno il medesimo 1 An    37 Ma  Anco Marzio nepote di Numa che Tarquinio Prisco allontand i figliuolidiluidaRoma neltem po de'Comizj (1). (1) C3 do peromnia expertus ( L.Tarquinius ) postremo tutore diam liberisregistestamento insti tueretur Jam filiiprope pube remætatemerant.EomagisTar quinius instare,utquamprimum comitia regi creando fierent: qui.. bus indi&tisfub tempus pueros vem natum ablegavit:isqueprimus de petisse ambitiofe regnuin & c. T. Liv:Dec. I.lib.I.p.26.atergo. Tum Anci filii duo , etfi a n tea femper pro indignissimo habue rant fepatrio regnotutorisfraude pulsos:regnare Romæ advenäm non modo civica, fed ne Italica qui demftirpis& c.Id.ib.p.29.terg. e   (1) Nel luogo citato.  р 3:8 Ma non è già così da passar sotto silenzio il regno del medesi mo TarquinioPrisco successoredi Anco.Ne viene costui rappresen tato come usurpatore del regno, secondo che disli, a' figli di quello , de'qualieglierastatoistituito tu tore dalpadre(1).Egliregna tren totto anni (2),e vien finalmente ammazzato per opera degli stessi fi gliuolidi Ancovaghidiricuperare il regno paterno tolto loro dalla frande dell'uomo straniero(3).Nel che (3) Sed injuria dolor in Tarquininın ipsum magis quam in Servium eosftimulabat (3) Duo de quadragefimo fer me anno ex quo regnare cæperat Tarquinius bc.Id.Ib. ipseregiinfidiaparantur.Id. Ib. aullo poft . ob hæc   che chi non ammirerà la flemma incredibile di costoro , che tra la ingiuria e la vendetta polero in mezzo trent'otto anni, spazio di tempo bastante a sedare e spegner forfe nell'animo qualunque più violenta passione? Questo fatto a dunque dovette avvenire nella lo to giovanile età non molti anni d o polamortedelpadre;ilche quan to è comprovato dalla vatura del fatto medesimo , lo è altresi dal non ne avere effiraccolto frutto alcuno, come coloro che dopo la uccisione di Tarquinio rimasero ne più nè meno esclusidal regno pa terno.La qualcosaben mostraef fere questa stataopera di età gion vanile e inconsiderata , e non di quella ferma e matura di cinquan ta anni, in cui Livio gli fa c o n troogni verisimiglianzaoperarque  3999 Ita. C4   Che diremo oltre del suo suc cessore Servio Tullo , il quale nel fapno regnare quarantaquattro an ni (1) ? Se non che dobbiamo di moltoaccorciareancoquesto regno, per quella medesima ragione per la qualeabbiamoaccorciatoquello di Tarquinio Prifco fuo predeceffore. Fu Servio Tullo anch' ello mello a morte da chi volea ricuperare il regnopaternotoltoglida essoTul lo,ch'era di schiatta fervile,e chefuportosultronodiRomaper artifiziodiJanaquilęmoglie diTar  40 sta Tragedia, E però rimane che fi debbaabbreviareilregnodi Tar quinioPriscocomesiè fattode' superiori. 1 qui (1) Servius Tullus regnavit, annosquatuor quadraginta.Id. Ib. p. 34. a tergo.   e preso dalla più violenta ambizione; e ch'egliin 41 quinio Prisco. È in ciò dovrà pa rere molto strano che Lucio Tar quinio , che fu poi cognominato il Superbo,abbiaaspettatoa metter lo a morte quarantaquattro anni.E molto più poi le altri vorrà por menteatrecose,chequestoTar quinioera giovine fatto allorchè Servio Tullo fu aflunto al Trono , ilqualela prima cosa diede per moglie due sue figlie a due giova ni Tarquinj Lucio ed Arunte (1); che questo Tarquinio era di natu ra 3rdentifima CS . > (1) EtnequalisAneiliberum animusadversusTarquinium fuerat, talisadversusse Tarquinii liberam esset: duas filias juvenibus, regiis' Lucio atqueAruntiTarquiniisjunio git •Id.Ib.p.30:a tergo•    fine era eccitato cotidianamente ad occupare il regno da Tullia fua moglie la più stimolofa è rea f e m mina che fulle mai (1) . Le quali cose considerate che fieno ,faranno che debba credersi molto più irra gionevole che Servio Tullo abbia potuto regnare quarantaquattro an ni,che Tarquinio Prisco trentotto.  42 Et ipfe juvenis ardentis animi do domi #xore Tullia in-, quietum inimum stimulante Id. Ib.p.38. Sen (1) Servius quanquam jam 16 fu haud dubie regnum possederat ; tamen quia interdum jactari voces a juvene Tarquinio audiebat büs Id.ib.p.32,àtergo. Vedi p.33. a tergo, quid te stregium juvenem confpici jenis6607 Nel fine del regno diSer. Tullo .   Senzache questoTarquinio,che è sempre chiamato giovine nella vi ta di Servio Tullo , moftra effére robusto e giovinę tuttavia allafi nedelregnodiquello,come co luichepiglioServioperlomez zo della perfona , e sollevatolo in alto lo gittò giù per la scala della Curia (1). La qual pruova giova nile non avrebbe potuto altrimenti fareseaquarantaquattro anni del regno diServioneaggiungiamo venti più o meno ,ch'egli ne do yea avere alla morte di Tarquinio Brisco ;.che lo farebbono vecchio di sessantaquattro anni allorchè ei (1)Multo ætateį viribus va lidior medium arripit Servium ,es latumque eCuria in inferiorempar temper gradusdejecit.Id.Ib.p.34. a tergo.  per 43 »   de uxoribus mentio , Suam quisquelaudat miris modis,  44 Ora venghiamo finalmente ale lo stesso Tarquinio Superbo che fu l'ultimoRe diRoma iAvvenne verso la fine di questo regno ,che nell'offidionedi Ardeainforgesle quistione traSesto Tarquinio e T a r quinio.Collatino marito di quella Lucrezia,chị de'dueavesse più savia moglie , dal che poi nacque , comeYaognuno),11Confolato ela libertàRomana,Ora quertoTar quinio Collatina secondo le parole di Livio era giovine","e Yecondo lo ftesto autorem pervenne ad occupare il regno 5. Upitni HI,1, cer era figlio di un Inde IT: (1)Forte potantikusbisapud Sextun Tarquinium ubii collati aus cænabat, Tarquinius Egerii fs lius incidit   .(fratrisbicfilius e rat Regis)Cyllațiæ in præfidio re lietus. 1:1, Ib.p, & , e 28. a tery.  45 eerto Egerio,il quale fu lafciato da Tarquinio Prisco alla guardia di Collazia Città di novella con quita nella guerra Sabina (1) ver -fo la metà del regno fuo o la in torno , che viene a cadere nell'an no cencinquantacinqueincircadal (1)Collatio.c quisquid citra Collariam agri erat Sabinisadema ***** ptum Egerius py,sub Indecertamine accenfoCollatinusne gatverbisopuseffe;paucisid quide12 horis poffe:frisi,quantum cæteris præftet Lucretia (14. Quin sivi gor juventa ineft confcendimus,e qws,invifimulqise præsentes 102 strarun ingenia? T'it,Liv.Ib.p.40. la   (1)Vedi'anco la Tavoletta Cronologica registrata di topra.  46 la edificazione di Roma (1),lomi penso che sarà mestiero darea ques sto Egerioaquel tempo per lo m e no trenta anni , sì perchè l'età sua foffe in alcun modo eguale al cari co commessogli dal Re Tarquinio Prisco,sìperchèquesto Egerioera nato prima del tempo in cui Tar quinio venne a Roma sotto il re. gno di Anco (2), Ora come può egli starecheun'uomoditrent'anni ļ' a n n o d i R o m a c e n c i n q u a n t a c i n q u e avere unfigliogiovine l'anno du genquarantaquattro,come non sivo glia supporre ch'egli avesse questo figlio dopo l'età degli ottant' an ni? ilche ben vede ognuno quan to 1 (2)T,Livio Decad. I.lib. I. p. 26.   che è di niez zo tra ilpadre,e ilfigliuolo. 47 to siacontrario all'ordinario corfo delle cose naturali. Per lo che se vorremo ritenere questa discenden za de'Tarquinj, bisognerà accor ciare ilregiodiTarquinio Prisco di ServioTullo e similmente di TarquinioSuperbo,che occupano tutti e tre il tempo ot Un'altrapruova peracccrcia re ilregnodiTarquinio Superbo e quello eziandio di Servio Tullo fuopredecessore, fipudcavarda questo. Tarquinio Superbo quand? egli occupò il regno avea festanta quattro anni,come abbiani veduto poco innanzi,a'qualichiaggiunga i venticinque che fi dice avere ef fo regnato (1)troverà,ch'egli avea (1) L. Tarquinius Superbus r e gna    48 ottantanove ánniallorchè fu elpus: fo dalregno;laqualcosapofto che vera , avšia merit:ito d'esser nota=; ta dagli Storici. Che più ? Si legno gechequestoTarquinio parecchi a n n i d o p o il R e g i f u g i o ( 1 ) c o m b a t tè a cavallo alLago Regillo con tro il Dittatore Postumio (2), il che gnavit annos quinque la viginti ! Regnatum konæ ab condita Urbe ad liberatam annos CCXLIV . Id. Ib.infinepo42. (1) Vedi T.Livio Decad.I. lib . II. (i) in Pofthumian prima in acie firos adhortantem inftruen temque Tarquinius Superbus quam quam jam '&tate a viribus erat gravior equum infeftus admifit ; ietusqueab latere,concursufuorini receptus in tutum eft. Id. Ib. Pr54 .    49 du  che verrebbe a cadere nell'anno centesimo e più.là ancora dell'età sua, irragionevolezza troppo mag giore chenon sipuò comportare , e la qual nasce pure anch'essa, co me ognunvede,da uncalcolofon dato sopra leEpoche Liviane. Come adunquesidebbano le var molti e dalle du rate de'regnidi inni cotefti R e , egli si provato rimane abbastanza altrimenti nasco dagliassurdiche insieme i nelvoler comporre no le altre condizioni che ac fatti,e regni; medesimi cer questi conpiù compagnano furono i quali fatti dalla tra a'pofteri men tezdatrasmesli quantevolte dizione,che non un pia tornò . Ed egli abbastanza , come se fi riducano seguirono del Cielo tre quelli sito neta al medesimo provato è medesimamente le ,cred'io,   SO  durate di cotesti Re allà ordinaria legge diNatura,che li faregna re presi insieme diciotto o venti anniperuno,secondocheàdisco perto il Neutono , tutte le difficol tà siappianano,esvauiscono leir ragionevolezze tutte degli Storịci. La qual cosa benchè sia oramai fuor d'ogni quistione,mi piace aggiu gnere un'altra pruova, perchè fi vegga vie meglio qualmente sorga il vero da ogni lato, come all' in contro da ogni lato si manifefta 1 errore·Questanovellapruova fa rà ricavata dalle generazioni d'uo mini che sono indicate dagli Au tori nella storia di detti R e , le q u a li anch' esse arguiscono di falla la tecnica loro Cronologia in quanto alle durate de' regni. Nella vita diRomolofià,che OttilioAvo lo di Tullo Oftilio morì nella guer- . > ra   mo (1) Principes utrinquepugnam ciebant:ab Sabinis Metius Cura tius, ab Romanis Hoftius Hoftilius (2) τετάρτω δε μηνί μεν την κτίσιν(ωςφάβιοςισορά) τοπε ρι την αρπαγήν ετολμήθη των γ υ Voixãi.Plut. inRom .p.25. Plut.Ib.p.29.descrivendo co meleSabinediviserolazuffatraiRo. mani,eSabiniaggiugne:aipšv.muidice κομίζεσαινήπιαπροςταίςαγκάλαις  51 racontroiSabini,(1)che viene a cadere ne'primi anni di quel re gno(2).Ilregnopertantodi Ro ut Hostius cecidit & c.T. Liv. Dec. 1. lib. I. p. 11. Indo Tullum Hostilium nepotem Hostilii,cujus in infima arce clara pugna adver Sus Sabinos fuerat , regem populus. j u s s i t. I d . I b . p . 1 6 . a t e r g o . P l u t . inRom .p.29. /   molo di Nama e di Tullo Ottilio, n o n o c c u p a a u n d i p r e s s o c h e il t e m po didue generazioni: quella del padre,o della madre che dir vo gliamo di ello Tullo Ostilio ,che duvette nafcere al principio del regno di Romolo ,e quella diTul lo Oftilio medesimo D a N u na ad Ancu.Marzio suno due ge nerazioni , poichè ello Numa era avolo di Anco Marzio (1); dat che ne feguita che la generazione tra Numa ed Anco finendo al tempo diTullo Oftilio,rimanga·una ge nerazione fola da Tullo alla fine del regno di Anco . Con che dal principio del regno di Romolo al  (1) Numa Pompilii regis ne pos filia ortus Ancus Martiuserat. T. Liv.Decad.I.lib.I.p.24. la Plut.inNuma p.74.   ne  la fine di quello di Anco corrono incircatregenerazioni.Lucio Tar quinio Prisco prima detto L u c u m o ne viene a Roma uomo maturo nel regno di Anco , (1) onde la gene razione di Tarquinio'coincidendo con quella di Anco non resta che una sola generazione di uomini tra ilregnodiAncoeilregnodiTar quinio Superbo figlio di Tarquinio ilvecchiooPrisco,Adunque dal principio del Regno di Romolo al la fine di quello di Tarquinio Su perbo corrono quattro fole genera zioni in circa di uomini e non più , EglièilverocheTitoLiviodi cedubitarealcuni,sequesto Tar quinio Superbo folle figliuolo a (1)T. Liv.Decad.I. lib.I. p.26.eatergo. 53   54 (1) Hic L. Tarquinius Prifci T a r q u i n i i f i l i u s, n e p o s v e f u e r i t , p a rum liquet:pluribustamen autho ribusfilium crediderim . Id. Ib.p. 33. devolvere retro ad ftirpem fra. trifimilior quam patri. Ib. a ter go .Quas Anco prius, patre deinde Sito regnante , perpelli fint.p. 37. Tarquinius reges ambos patrem 80 vie ,filium perfecisse p. 38.aterg.  nepotedelPrisco;ma fenzache i più erano di oppinione ch'ei gli fusse figliuolo (oppinione abbrac ciáca da esso Livio medesimo )(1), eglisipuòmostrare,cheda Tar quinio Prisco al Superbo correfle una sola generazioneper esser Col latino ancora giovane in ful fine del regno di Tarquinio Superbo , m e n t r e il p a d r e s u o E g e r i o e r a u o mo già fatto nel regno di Tarqui nio Prisco,come abbiamo veduto avatt   avanti.Ora fommando insieme gli anni di quattro generazioni, ognu na delle quali ragguagliata è di trentatre anni (1),si hanno cento e trentadue anni , e dando a cia fcun Re diecinove anni di regno , sihanno cento trentatre anni,ilche derivato dalle Leggi di Natura co sì maravigliosamente conviene col la regola cronologica delNeutono , che leosservazioniastronoinichepiù a capellononconvengonocolleTeo rie eco'calcolidiquel grand'uomo. Io nonaggiugneròaltroaque fto Ragionamento,se non che a quel modo che la Cronologia del Neutono assolve Virgilio che fu il più esatto de'Poeti da quello Ana cronismo imputatogli comunemen (1) Vedi la Cronologia del Neutono p.46. p. 56.  53 te   56 te in rispetto a'tempi in cuiyisse. ro Enea e Didone ,così ella può giustificarequellacomun tradizione tenuta inRoma,che Numa fusle stato uditore di Pitagora , e che non meno contribuisseafondarquel lo Imperio , il qual fu fignor delle cole,la Virtù Italiana che la Gre ca Sapienza.

 

 

 

 

Algorottus. Francesco Algarotti. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, "Grice ed Algarotti," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Alici (Grottazzolina). Filosofo. Grice: “If an Italian philosopher tells me he believes in God, I stop calling him ‘philosopher’!” --. Grice: “I like Alici; he has philosophised on some of the topics *I* did, since it should not surprise anyone, since we are philosophers (if I’m also a cricketer!) --.Grice: “I will organize some overlaps in hashtags: compassione. – serious study – il terzo incluso – I curiazi, i moscheteri -- ” :noi dopo di noi,” ‘we after we’ – the meta-language – romolo e remo; ossia, il bene condiviso; :romolo e remo; ossia, condividere la deliberazione; eurialo e isso, ossia, dall’io al noi; colloquenza romana; amore: l’angelo della gratitudine; eurialo e nisso: amore d legarsi – la reciprocita; pilade ed oreste --  luigi Alici Presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana Durata mandato31 maggio 200527 maggio 2008 Niente fonti! Questa voce o sezione sull'argomento filosofi italiani non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Puoi migliorare questa voce aggiungendo citazioni da fonti attendibili secondo le linee guida sull'uso delle fonti. Filosofo. È stato presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana dal 2005 al 2008.  Allievo di Armando Rigobello, ha insegnato Filosofia morale nell'Università degli Studi di Perugia e Filosofia teoretica presso la LUMSA di Roma. Attualmente è Professore di Filosofia morale nell'Macerata, nonché titolare degli insegnamenti di Istituzioni di Filosofia morale, Filosofia morale (corso triennale), Etica pubblica ed Etica della vita (corso magistrale). È stato presidente del Corso di laurea in Filosofia (1997-2003), coordinatore del Dottorato di ricerca in Filosofia e Teoria delle Scienze Umane (2008-), presidente del Presidio di Qualità di Ateneo (-), direttore della Scuola di Studi Superiori "Giacomo Leopardi" (-).  Studioso dell'opera di Sant'Agostino, è autore di numerose pubblicazioni dedicate al rapporto tra interiorità e intenzionalità, comunicazione e azione, libertà e bene, con particolare attenzione alle tematiche dell'identità personale e della "reciprocità asimmetrica", esaminate anche sotto il profilo della loro rilevanza morale. Le sue ricerche più recenti, a partire dai temi della fragilità e della cura, sono dedicate al rapporto tra natura, tecnologia e libertà.  Impegnato fin da giovane nell'Azione Cattolica, nel corso degli anni ha ricoperto nell'associazione numerosi incarichi, prima a livello locale e poi nazionale: dal 1992 al 1998 è stato responsabile dell'Ufficio studi; -- è stato direttore della rivista culturale "Dialoghi"; il 24 aprile 2005 è stato eletto consigliere nazionale dell'associazione dalla XII assemblea nazionale. In seguito alla designazione del Consiglio nazionale, il Consiglio permanente della Conferenza Episcopale Italiana lo ha nominato presidente dell'associazione per un triennio. Il suo mandato è terminato il 27 maggio 2008.  È membro dei seguenti organismi: Consiglio scientifico dell'Istituto per lo studio dei problemi sociali e politici "Vittorio Bachelet" (Roma); Comitato Scientifico della Collana di “Filosofia morale” (Vita e Pensiero, Milano); Comitato di direzione della rivista “Dialoghi” (Roma); Consiglio Scientifico del “Centro di Etica Generale e Applicata” (Pavia); Comitato scientifico della rivista “Hermeneutica” (Urbino). Membro del Comitato Scientifico della Fondazione “Lanza” (Padova, /). Dirige inoltre la sezione di Filosofia della Collana “Saggi” (La Scuola Editrice, Brescia) e della Collana “Percorsi di etica” (Aracne Editrice, Roma).  Opere: “Il linguaggio come segno e come testimonianza. Una rilettura di Agostino”(Edizioni Studium, Roma); “Tempo e storia. Il "divenire" nella filosofia del '900” (Città Nuova Editrice, Roma); “Il pensiero del Novecento Editrice Queriniana, Brescia); “Il valore della parola. La teoria degli "Speech Acts" tra scienza del linguaggio e filosofia dell'azione” (Edizioni Porziuncola, Assisi PG); “Presenza e ulteriorità, Edizioni Porziuncola, Assisi (PG)); “La dignità degli ultimi giorni” (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)); “Con le lanterne accese. Il tempo delle scelte difficili, Ave Edizioni, Roma); “L'altro nell'io. In dialogo con Agostino” (Città Nuova Editrice, Roma); “Il terzo escluso, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)); “La via della speranza. Tracce di futuro possibile”  (Edizioni Ave, Roma); “Cielo di plastica. L'eclisse dell'infinito nell'epoca delle idolatrie” (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), (Premio "CapriSan Michele); “Amare e legarsi. Il paradosso della reciprocità, Edizioni Meudon, Portogruaro (VE)); “Filosofia morale” (Editrice La Scuola, Brescia); “I cattolici e il paese. Provocazioni per la politica” (Editrice La Scuola, Brescia); “L'angelo della gratitudine, Edizioni Ave, Roma); “Cittadini di Galilea. La vita spirituale dei laici” (Quaderni di Spello”, Edizioni Ave, Roma,  (Premio “CapriSan Michele); “Il fragile e il prezioso. Bio-etica in punta di piedi, Editrice Morcelliana, Brescia); “InfinitaMente. Lettera a uno studente sull'università, EUM, Macerata, . Edizioni di opere di Sant'Agostino La città di Dio, Rusconi, Milano; Bompiani, Milano. La dottrina cristiana, Edizioni Paoline, Milano; Confessioni, Sei, Torino, Manuale sulla fede, speranza e carità, Collana La vera religione, Città Nuova Editrice, Roma. “Il potere divinatorio dei demoni, Collana La vera religione, Città Nuova Editrice, Roma; La natura del bene, Città Nuova Editrice, Roma; Il libro della pace. «La città di Dio, XIX», Editrice La Scuola, Brescia); “Agostino nella filosofia del Novecento (con R. Piccolomini e A. Pieretti), 4Città Nuova Editrice, Roma (comprende: Esistenza e libertà, 2000; Interiorità e persona, 2001; Verità e linguaggio, 2002; Storia e politica). Azione e persona: le radici della prassi, V&P, Milano, Forme della reciprocità. Comunità, istituzioni, ethos, Il Mulino, Bologna, La filosofia come dialogo. A confronto con Agostino” (Città Nuova Editrice, Roma, Filosofi per l'Europa. Differenze in dialogo (con F. Totaro), Eum, Macerata, Agostino. Dizionario enciclopedico, di Allan D. Fitzgerald edizione italiana curata assieme a Antonio Pieretti, Città Nuova Editrice, Roma); “Forme del bene condiviso, Il Mulino, Bologna, “La felicità e il dolore. Verso un'etica della cura” Aracne Editrice, Roma, . Dialogando. Idee, pensieri, proposte per il nostro tempo, Edizioni Ave, Roma); “Unità e pluralità del vero: filosofia, religioni, culture, Archivio di filosofia); “Il dolore e la speranza. Cura della responsabilità, responsabilità della cura, Aracne Editrice, Roma); “Prossimità difficile. La cura tra compassione e competenza, Aracne Editrice, Roma); I conflitti religiosi nella scena pubblica. I: Agostino a confronto con manichei e donatisti, Città Nuova Editrice, Roma); “Noi dopo di noi. Accogliere, rigenerare, restituire: nella società, nell'educazione, nel lavoro” (FrancoAngeli, Milano); “I conflitti di valore nello spazio pubblico. Tra prossimità e distanza, Aracne Editrice, Roma); “I conflitti religiosi nella scena pubblica. II: Pace nella civitas, Città Nuova Editrice, Roma); “La fede e il contagio. Nel tempo della pandemia, (con G. De Simone eGrassi), Ave, Roma . L'umano e le sue potenzialità: tra cura e narrazione (conNicolini), Aracne, Roma . L’etica nel futuro (con F. Miano), Ortothes, Napoli-Salerno. Pagina di presentazione nel  docenti dell'Università degli Studi di Macerata, su docenti.unimc.  Dialogando. Il blog di Luigi Alici, su luigialici.blogspot. Predecessore Presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana Successore Paola Bignardi.  “Love and duty are the cement of society” (Elster). “Love and duty are *not* the cement of society. The mechanism is *reciprocity*. Seemingly co-operative, helpful, altruistic behaviour, based on versions of the ‘I’ll-scratch-your- back-you-scratch-mine’ principle, require no nobility of spirit. Greed and fear suffice as motivation: greed for the *fruit* of co-operation, and fear of the consequence of *not* reciprocating the co-operative helpful overture of the other.” (Binmore). Chi tra Elster e Binmore ha ragione? Chi che vede nell’amore il “cemento della società”, o chi che considera invece la reciprocità dei due soggetti, basata su egoismo e paura, come il meccanismo sufficiente per tenere assieme la società? Oppure le cose sono più complicate? Grice propone di penetrare all’interno delle dinamiche della gratuità, della reciprocità e del tipo di razionalità che sottostanno ad esperienze conversazionale che potremmo chiamare “sociali”, come sono quelle dell’Economia di Comunione Conversazionale [cf. Bruni e Pelligra]. In particolare ci domandiamo a quali condizioni un soggetto o un’impresa mossi da una razionalità diversa da quella standard possano sopravvivere e svilupparsi in un contesto dove esiste una eterogeneità di soggetti interagenti. Inizieremo (§ 1) evidenziando le caratteristiche base dell’idea di razionalità che muove l’homo oeconomicus, cioè l’agente considerato “standard” dalla teoria economica convenzionale. Quindi, nella sezione 2, introdurremo un tipo di agente non standard, mosso da una razionalità in cui l’azione donativa ha una ricompensa intrinseca. Questo fa in modo che la reciprocità possa assestarsi come equilibrio stabile. Nella sezione 3 vedremo che, quando agenti eterogenei interagiscono tra di loro, le cose si complicano e gli esiti non sono più scontati. Per far questo ci serviremo della forma più elementare di giochi evolutivi; saremo, così, in grado di mostrare i risultati più interessanti del modello, che espliciteremo nelle conclusioni. * Alessandra Smerilli f.m.a. è dottoranda di ricerca in economia presso l’Università La Sapienza di Roma, dipartimento di Economia Pubblica. Luigino Bruni è ricercatore presso l’Università di Milano-Bicocca, Dipartimento di Economia. Gli autori ringraziano Nicolò Bellanca, Luca Crivelli, Fabio Gori, Benedetto Gui, Vittorio Pelligra e Luca Zarri per utili suggerimenti e critiche a precedenti versioni. Perché è così difficile cooperare (per l’economia)? L’idea di razionalità è dove sono maggiormente concentrate le assunzioni della scienza economica circa il comportamento umano, che potremmo anche chiamare antropologia filosofica, o psicologia filosofica. La razionalità economica, non cerca, principalmente, di descrivere il comportamento “quale è” nella realtà, ma piuttosto di individuare dei criteri di comportamento ottimo, razionale appunto, che fanno in modo di poter individuare tra i tanti comportamenti possibili quelli ottimizzanti – anche se tra analisi descrittiva e normativa esiste poi uno stretto rapporto. Le caratteristiche base dell’idea standard di razionalità economica, possono essere sinteticamente enucleate guardando alle assunzioni, che restano spesso implicite, del “gioco” più famoso utilizzato oggi in economia: il cosiddetto dilemma del prigioniero. Esso, nell’ambito della teoria dei giochi1, è usato per mostrare come la ricerca dell’individualistico tornaconto, in molte situazioni (in particolare in quelle dove non è possibile stipulare un contratto vincolante per le parti), non solo non porta al bene comune, ma neanche al bene privato dei singoli individui. La logica che sottende il gioco è usata per spiegare molti dei dilemmi dovuti all’assenza o al mal funzionamento dei mercati: dall’inquinamento, alla congestione del traffico, alle difficoltà della co-operazione. Il gioco rappresenta l’interazione tra due individui, che chiamiamo Romolo e Remo, identici (hanno le stesse informazioni e la stessa struttura di preferenze, i due elementi che fanno la diversità tra gli agenti economici –a cui va aggiunto, nel caso di imprese, il potere di mercato). Romolo e Remo si trovano a scegliere in una situazione ‘strategica’ di inter-dipendenza, ciascuno sa di avere di fronte un soggetto identico a sé, con le stesse preferenze, e *entrambi* conoscono la struttura del gioco (le ricompense, o pay-off associati agli esiti, che dipendono dalle proprie azioni o muoti conversazionali e da quelle dell’altro/i). Quali sono le preferenze? Per restare nel concreto, pensiamo ad una situazione famigliare: la raccolta differenziata dei rifiuti (ma il ragionamento, come si capirà immediatamente, è di portata più universale). L’ordine di preferenze dei nostri due giocatori, e in generale dell’homo oeconomicus standard che di norma l’economista ha in mente quando descrive il mondo, sono le seguenti. Al primo posto Romolo ed Remo – o Eurialo e Niso -- mettono: “l’altro fa la raccolta e io no”. A questo esito del gioco associamo il punteggio massimo, diciamo 4 punti. Al secondo posto “tutti la facciamo, me compreso” (3 punti). Al terzo “nessuno la fa” (2 punti). Al quarto “solo io faccio la raccolta differenziata” (1 punti). La tabella e il grafico sottostanti (che sono due modi diversi di rappresentare questa situazione, rispettivamente in forma normale ed estesa) rappresentano sinteticamente la struttura del gioco. La teoria dei giochi è oggi pervasiva nella teoria economica. Essa è soprattutto un linguaggio che consente di rappresentare in modo molto efficace interazioni (chiamate “giochi”) di tipo ‘strategico’, cioè situazioni nelle quali i guadagni, non solo monetari (chiamati pay-off, ricompense), dipendono dalla scelta dell’ altro soggetto o individuo inter-agente con lui, e non solo dalla propria (deliberazione condivisa). La teoria dei giochi ha oggi un campo di applicazione molto vasto, che va dalla collusione tra imprese all’inquinamento, dalle scelte elettorali al rapporto paziente-psicologo. Va notato che sebbene, per semplicità e per ragioni di chiarezza espositiva, abbiamo assegnato pay-off numerici (ipotesi che verrà eliminata nelle prossime sezioni), in realtà siamo all’interno di un orizzonte di tipo ordinalistico. Di per sé i valori numerici non possiedono alcun significato, e quello che conta è l’ordine delle preferenze individuali. Data una tale struttura di preferenze, si dimostra facilmente che Eurialo e Niso, *se sono razionali*, sceglieranno entrambi di *non* co-operare (non fare la raccolta differenziata), ritrovandosi così al terzo livello di preferenza (con due punti ciascuno: 2 punti per Eurialo, 2 punti per Niso), una situazione “dominata” dalla co-operazione reciproca (fare tutti la raccolta), in cui avrebbero ricevuto tre punti ciascuno (3,3). Eurialo  Co-opera Co-opera 3,3 1,4 Non co-opera Non co-opera 4,1 2,2. Nella rappresentazione in forma estesa, gli esiti del gioco esprimono bene le caratteristiche base dell’idea di soggetto che l’economia normalmente segue nel costruire i suoi modelli. Il suo mondo ideale è quello in cui gode dei benefici (ad esempio un mondo non inquinato) senza sostenerne i costi che preferisce trasferire sull’altro, se può (separare i rifiuti, depositarli in raccoglitori diversi, ecc. ). Da qui il dilemma. Si dimostra facilmente che, poiché si trova di fronte uno/a con la stessa “razionalità” e preferenze, la soluzione del gioco è che entrambi Eurialo e Niso si ritrovano al terzo livello dell’ordinamento di preferenze, cioè nessuno fa la raccolta differenziata, quando invece ciascuno avrebbe preferito che tutti la facessero (che infatti si trova al secondo posto). E la realtà delle nostra città e del nostro pianeta ci dice quanto questi dilemmi siano reali e urgenti, e quanto la scelta ‘sociale’ non si discoste poi tanto dal modello astratto utilizzato dall’economia. Tutto ciò ci dice che la *soluzione* del gioco, e gli esiti dilemmatici dipendono sostanzialmente da due ipotesi base circa la razionalità. Primo, l’individualismo: ragionare esclusivamente nei termini di “cosa è ottimo, o meglio, per me: mittente/recipiente”). Secondo: lo strumentale (la bontà di una azione si misura sulla base della sua capacità di essere un *mezzo* condizionale per ottimizzare i pay-off, non per il suo valore categorico intrinseco. Date queste ipotesi, la non- [Nella tabella i numeri (i pay-off) esprimono utilità, quindi il più è preferito al meno. Il primo numero si riferisce a Niso, il secondo ad Eurialo. Nell’appendice abbandoniamo i numeri e passiamo ad un caso più generale (dove i pay-off è espresso in lettere, ordinate non in modo cardinale). Va aggiunto che non ogni inter-azione rappresentabili come dilemma del prigioniero porta a risultati dilemmatici e sub-ottimale a causa dell’antropologia sottostante. Si pensi, ad esempio, agli  [3  cooperazione (nessuno fa la raccolta) è un *equilibrio* stabile del gioco (o equilibrio di Nash), dal quale nessuno dei giocatori ha convenienza a spostarsi uni-lateralmente, a meno che non si sia capaci di stipulare un *patto* vincolante. Se un patto vincolante non è possibile -- si pensi alle interazioni quotidiane con numerosi agenti, come nel traffico stradale -- o troppo costoso, *non* cooperare risulta la ‘strategia’ ottimale per due ragioni. Prima se Eurialo suppone che Niso è azionale (individualista e strumentale) allora se co-operassi avvierei Eurialo allo sfruttamento (1 punto).Se invece Eurialo ha buone ragioni per pensare che Niso *non* è razionale o, come dice Dawkins, “ingenuo”, e che quindi si lasce sfruttare, Eurialo ha una ragione in più per *non* cooperare. Otterrai infatti 4 punti. Quindi l’esito dilemmatico è una combinazione di paura alla Hobbes e di opportunism. Se va male Eurialo cade in piedi e non si lascia sfruttare. Se va bene Eurialo prende tutto. Una razionalità puo essere con ricompense *non* materiali. In un mondo fatto di due individui mossi da questa razionalità la co-operazione può essere raggiunta solo quando siamo capaci di auto-vincolarci a delle regole non opportunistiche, per un bene individuale maggiore. Io gratto la tua schiena, tu gratti la mia. Questo principio è, in mille varianti, il tipo di co-operazione che può emergere tra due soggetti razionali di questa maniere. Grice lo chiama ‘altruismo reciproco’ -- individuando un comportamento pro-sociale in tutte le specie animali, dove però l’altruismo disinteressato non esiste, ma è solo maschera di più sottili forme di egoismo (o amore proprio e non benevolenza). In ogni caso la co-operazione è interamente condizionale e non un imperativo di tipo kantiano. Eurialo aiuta Niso a condizione che Niso aiuta Eurialo e vice versa. Viene comunque spontaneo chiedersi se negli esseri umani – o almeno due filosofi oxoniensi -- ci sia qualcosa di diverso, in termini di socialità, rispetto alle scimmie o alle formiche. Al di fuori di questi specifici casi nei quali la co-operazione emerge, un atto che non punti a rendere massimo il proprio interesse, di breve o di lungo periodo, è considerato *irrazionale* o ingenuo, poiché si diventa pasto degli altri individui più aggressivi, che cresceranno e prospereranno a spese degli ingenui. Forse molti degli atti di co-operazione a cui assistiamo nella vita quotidiana possono trovare la loro spiegazione sulla base di questo tipo di logica individualistica, strumentale, e condizionale. Non tutti però. E’ infatti nostra convinzione che la convivenza civile, e le dinamiche economiche conversazionale, conoscono anche altre forme di co-operazione, che possono emergere sulla base di un ragionamento mosso da un tipo *diverso* di razionalità non utilitaria ma assoluta. In quanto segue, cercheremo di esplorare le implicazioni che scaturiscono dalla seguente domanda. Come cambia il gioco della vita in comune se complichiamo la visione antropologica sottostante i modelli economici? L’elemento di diversità (rispetto all’approccio standard) che qui introduciamo, è la presenza di un valore *intrinseco* categorico assoluto ingorghi stradali. Questi sono perfettamente rappresentabili come dilemmi del prigioniero. Ma sarebbe impreciso definire gli automobilisti che escono per andare a lavoro individualisti e strumentali. Ma abbiamo a che fare con un problema di mancanza di co-ordinamento in una scelta collettiva, che se vogliamo rimanda anch’esso a una dimensione ‘sociale’ (come la capacità di addivenire a patti vincolanti), ma, antropologicamente, è meno coinvolgente di casi dilemmatici che riguardano l’inquinamento o il rapporto con il fisco. Questo per dire che la teoria dei giochi è un linguaggio che trascende l’ambito economico e la sua tipica forma di razionalità; e infatti essa è utilizzata anche per modelizzare agenti mossi da forme razionalità *non* strumentali (come in parte fa Grice). (Dal nome del matematico che nei primi anni cinquanta introdusse questa nozione di equilibrio stabile). Il fatto che nella realtà concreta riusciamo a non cadere nel dilemma dipende dal fatto che spesso riusciamo a disegnare patti o contratti vincolanti, con sanzioni. Grice mostra che anche il richiamo di allarme che certi uccelli emettono per avvisare il gruppo dell’arrivo di un predatore, a *rischio anche della propria vita*, è il risultato di un calcolo egoista. L’uccello può più facilmente salvare la sua vita se tutto lo stormo si sposta e non rimane isolato. -- associato a un comportamento di gratuità, da cui discende la possibilità di sperimentare una co-operazione, o reciprocità, non primariamente strumentale e condizionale, ma assoluta, costitutiva dell’umano, e categorical. Questo agente economico intende pertanto la reciprocità diversamente da come essa è usata oggi in economia. Rispetta l’ambiente, paga le tasse o edifica la casa rispettando i vincoli del piano regolatore (tutte faccende cooperative), ad esempio, perché questi comportamenti sono per lei dei valori, perché le danno una ricompensa intrinseca, e non solo strumentale (i vantaggi materiali della cooperazione, che pure sperimenta). Questo diverso tipo di agente non è quindi puramente consequenzialista e utilitario come invece è l’agente-individuo. Non valuta cioè la bontà del muoto conversazionale solo sulla base della conseguenza che tale muoto produce, ma tiene conto sia di una componente assiologica o deontologica – non aletica --, legata al valore, sia di una componente procedurale, più legata ai tipi di relazione all’interno delle quali il suo muoto si sviluppa. Sa inoltre che il suo muto è pienamente *efficace* se anche l’altro si comportano allo stesso modo (se reciprocano). Ma non condiziona il suo comportamento a quello dell’altro (come invece farebbe l’homo oeconomcus-individuo standard). Al tempo stesso, se l’altro si comportano sulla base della stessa razionalità assiologica e dello stesso valore intrinseco, allora egli soddisfa al massimo le sue preferenze, e anche il benessere sociale aumenta. In base ad una tale struttura di valori, o cultura della reciprocità gratuita, al primo posto dell’ordine di preferenze questo tipo di agente economico non mette, diversamente dal tipo standard, “tutti co-operano tranne me”, ma “tutti, me compreso, cooperiamo”, o doniamo. E questo perché il comportamento in sé è parte integrante del suo sistema di valori. Al secondo posto dell’ordine di preferenze pone: l’altro co-opera, io no. Al terzo posto: io co-opero, l’altro no. Al quarto, nessuno co-opera. Per capire questi valori si può partire dalla struttura di ricompense (i pay-off, cioè i numeri che misurano le ricompense) del dilemma del prigioniero. Ma occorre aggiungere, o sottrarre, ai pay-off materiali una componente intrinseca, sulla base della teoria classica della felicità o calculo eudaimonico, o beatifico, nella quale il comportamento buono in sé, o *virtuoso*, ha una ricompensa intrinseca. Così, se un soggetto ha fatto propria questa cultura della reciprocità gratuita o, per usare un’espressione più forte ma anche più corretta, della “comunione” (la communita immune), quando Eurialo co-opera e la controparte, Niso, no (pensiamo sempre all’esempio ambientale, o, se si vuole, ad un rapporto di amicizia), il suo pay-off, materialmente uguale a 1 (come nel gioco standard), aumenta a causa delle ricompensa intrinseca (che poniamo pari ad uno), attestandosi a 2. Se Eurialo invece *non* coopera ma la controparte, Niso, sì, ecco allora che il pay-off, pur essendo materialmente pari a 4, diminuisce a 3, perché si inserisce una *sanzione* intrinseca. 4 – 1 = 3. Si pensi a chi, pur avendo fatto propria la cultura della reciprocità, in un certo muoto non è coerente perché non riesce a vincere la tentazione del vantaggio materiale. La sua soddisfazione è comunque minore a causa della sanzione intrinseca, che potremmo chiamare anche insoddisfazione o senso di colpa o vizio. Il mondo peggiore (pay-off = 1) è quello in cui ciascuno è chiuso in se stesso. Qui il pay-off è 1 perché si parte da quello materiale (2) e gli si sottrae il valore intrinseco (2 – 1 = 1). Il mondo migliore è invece la *reciprocità*, un incontro mutuo di gratuità: (4), il pay-off materiale della co-operazione (3) più la componente intrinseca della gratuità. Sui vari usi della categoria di reciprocità nella teoria economica, cf. Crivelli. Questo ordine di preferenze dipende dall’ipotesi che la componente intrinseca dei pay-off sia costante e pari ad uno. Un’analisi più approfondita dovrebbe studiare i casi quando la motivazione intrinseca è maggiore, minore o uguale alla componente materiale. Non è da escludere, ad esempio, che all’aumentare di quest’ultimo dovrebbe aumentare la tentazione di tralasciare gli aspetti intrinseci. Se fare, ad esempio, la raccolta differenziata diventa estremamente costoso e laborioso, il numero di quelli, anche bene intenzionati, che la faranno diminuirà. Inoltre, una tale analisi ammette la possibilità di confronti  -- La componente intrinseca dell’azione è legata alla teoria classica della felicità o calculo eudemonistico di Bentham. La felicità, essendo il risultato di una vita virtuosa, è fuori dalla logica strumentale. La virtù è praticata perché ha un valore intrinseco, non per un calcolo machiavelico strumentale costi/benefici. La virtù, in particolare quella civica, ha bisogno di reciprocità perché porti ad una vita sociale pianamente realizzata, ma non può pretenderla, solo attenderla dalla libertà dell’altro. Ecco perché dagli antichi fino ad oggi alla felicità è associato un elemento *paradossale*. La feicita ha bisogno di reciprocità, ma solo la gratuità può suscitarla senza pretenderla. Un “gioco di reciprocità” (intesa nella maniera appena detta), che rimane sempre del tipo dilemma del prigioniero, può essere dunque rappresentato come segue: Eurialo Dona Non-Dona   Dona 4,4 2,3 Non-Dona 3,2 1,1 Rappresentiamo anche questo gioco in forma estesa. Dalla tabella, o dall’albero decisionale, si nota che se i due giocatori hanno questa stessa struttura di preferenze, l’unico esito stabile del gioco o equilibrio di Nash, dal quale cioè nessuno è incentivato a spostarsi, è “dona-dona”. Quindi per interpersonali di utilità, cosa peraltro non inusuale quando l’utilità attesa si calcola con la funzione di Von Neumann Morgernstern. Per un’analisi approfondita dei pay-off psicologici cf. Pelligra. Sul paradosso della felicità cf. Bruni. Il modello che può essere considerato il capostipite dei giochi del tipo gioco di reciprocità è quello introdotto da Sen -- questi giocatori-persone donare (o co-operare) è ‘strategia’ strettamente dominante, e l’unico equilibrio stabile del gioco è la reciprocità o la *comunione*: dona/dona. Cosa ci suggerisce questo gioco, pur nella sua estrema semplicità? Se sono un soggetto che ha questi valori non ho alternative a cooperare: gli altri possono rispondere o meno, e quindi il mio benessere/felicità è incerto (stando al gioco precedente, posso ottenere in termini materiali 2 o 4 punti): ciononostante per me l’unica possibilità, l’unica azione razionale, è cooperare, o come abbiamo detto, donare. Così, per fare un esempio, se sono alle prese con un fornitore difficile, non ho alternative al donare. Potrò trovare reciprocità o no, ma in ogni caso l’alternativa, ‘non-dona’ – che, nella pratica, significherà ogni volta qualcosa di diverso – è per me la peggiore (perché è sempre dominata dalla co-operazione) a causa della ricompensa (sanzione) intrinseca. E’ questo un soggetto che per alcune scelte non calcola i costi e i benefici. Che senso ha fare la raccolta differenziata se solo io la faccio. Ma agisce sulla base di un valore, o di una norma etica interiorizzata. Ciò spiega, tra l’altro, perché in certe società l’ecologia o il rispetto delle norme civili sono messe in pratica anche in contesti nei quali sarebbe razionale (nel senso standard) non farlo: iclassico fazzoletto di carta buttato fuori dal finestrino quando nessuno ci osserva, e quindi nessuna sanzione può essere applicata. D’altro canto, davanti a queste nostre considerazioni qualcuno potrebbe obiettare. Ma se ipotizzate che gli individui traggano soddisfazione dal muoto conversazionale stesso, diventa banale spiegare l’emergere (dalla perspettiva della psicologia filosofica) della co-operazione. In effetti l’idea è semplice. Ma ci auguriamo non banale, ma bizarra. In particolare, gli aspetti più interessanti intervengono quando pensiamo che nel mondo reale, nel mercato in particolare, non sappiamo normalmente con chi stiamo giocando, se abbiamo cioè di fronte un soggetto del primo tipo o uno del secondo. E qui entriamo in quello che possiamo chiamare il “paradosso della reciprocità” o della comunione, che possiamo sviluppare sinteticamente come segue, mettendo assieme i vari pezzi fin qui costruiti. Una vita buona ha bisogno di reciprocità genuine. La reciprocità genuina però non viene suscitata se la logica che ci muove è primariamente strumentale. La risposta dell’altro, la reciprocità, non possiamo pretenderla, ma solo *attenderla* dalla libertà dell’altro. Co-operare porta quindi a due esiti diversi (indicati con 2 o 4) in base alla risposta o non risposta dell’altro. Per comprendere questi risultati, si consideri che ognuno sa che l’altro ha di fronte due possibili scelte: donare e non donare, e, date le loro preferenze, qualunque scelta faccia l’altro per ciascuno è preferibile donare -- considerando anche il pay-off intrinseco. Se infatti l’altro giocatore (Eurialo) sceglie “donare” i punti di Niso sono 4 (mentre la mossa “non-dona” avrebbe portato solo 2 punti); e anche se Eurialo scegliesse “non donare”, Niso preferisce sempre “donare” che gli dà 2 punti invece di 1 (che è il pay-off di “non-dona/non-dona”). Può valere la pena specificare che qui con “donare” non si intende l’altruismo o la filantropia -- che possono restare atti individualisti. Donare è sinonimo di ciò che la cultura greco-romana chiama “amore”, e cioè un atto gratuito ma che ha sempre di mira la *reciprocità*, il rapporto personale con l’altro (amore-amicizia). Qualcuno potrebbe obiettare sostenendo che più che di una diversa forma di razionalità in questo caso siamo in presenza di un soggetto che ha solo preferenze diverse, ma la cui razionalità resta quella standard strumentale, perché in fondo anche lui massimizza la propria utilità. Noi preferiamo pensare che una persona che agisce mossa da motivazioni intrinseche sia più efficacemente rappresentabile da una forma di razionalità che Grice chiamava “rispetto ai valori” o assiologica che non dalla classica razionalità strumentale, che si caratterizza proprio per il suo essere tutta basata sul calcolo utilitario.Qui infatti nostri soggetti co-operativi fano la scelta non sulla base di un calcolo, ma per un valore. È ovvio che esiste una circolarità tra motivazioni intrinseche e il comportamento dell’altro -- su questo cf. Bruni e Pelligra. Per questo la vita in comune è fragile, come anche i filosofi – da Aristotele in poi - ci insegnano, perché essa dipende dalla risposta dell’altro – l’amore di Eurialo e reciprocato dall’amore di Niso e vice versa. Quale evoluzione? Facciamo ora un passo avanti, e ci domandiamo cosa succede quando soggetti standard e soggetti non standard (il secondo tipo che abbiamo appena descritto) interagiscono tra di loro. Sono situazioni che Grice studia. Sono ormai numerosi i modelli con un agenti altruistico che interage con un agenti auto-interessato. Qui ipotizziamo quattro casi, che, con diversi gradi di astrazione, possono rappresentare alcune situazioni reali che vengono a verificarsi quando l’interazione avviene tra soggetti diversi, perché mossi da culture diverse. Utilizzeremo, allo scopo, i rudimenti della teoria dei giochi evolutivi, nella sua forma più elementare, il cui elemento innovativo è l’introduzione della componente immateriale del pay-off corrispondente alla ricompensa intrinseca. Ipotizzeremo cioè i nostri giocatori immersi in un ambiente abitato da popolazioni diverse, dapprima due, e poi tre. La teoria dei giochi evolutivi utilizza lo stesso linguaggio, e in buona parte la stessa metodologia, della *biologia* evolutiva. Tra più popolazioni esistenti in un dato ambiente, nel tempo sopravvive quella che ha la fitness – capacità di adattamento – maggiore. Se due popolazioni hanno la stessa fitness sopravvivono entrambe. Ma se una ha una fitness minore delle altre è destinata all’estinzione, non nel senso biologico del termine (morte di tutti i soggetti di quella specie), ma che quel comportamento non verrà riprodotto, e saranno imitati i comportamenti vincenti. Il dibattito sull’applicazione di una tale metodologia agli essere umani e alle loro popolazione è aperto, e controverso. In quanto segue noi non intendiamo abbracciare la filosofia, né la metodologia, dei giochi evolutivi. Riteniamo soltanto che il linguaggio dei giochi evolutivi ci aiuti a mettere in luce dinamiche, che riteniamo reali, non facilmente individuabili con linguaggi diversi. Il nostro è quindi un esperimento, che ci piacerebbe, in futuro, portare avanti, mettendo a quel punto in questione alcuni assiomi che nell’attuale teoria dei giochi evolutivi ci appaiono troppo semplificati, come il concetto di fitness: semplificati, ma non inutili, come speriamo di mostrare. Primo caso: Tipi 1 e Tipi 2, non riconoscibili Come primo caso facciamo le seguenti ipotesi. Esistono solo due tipi tra loro non riconoscibili. Chiameremo tipi 1 quelli standard, e tipi 2 quelli non-standard o di reciprocità. Le ricompense intrinseche sono determinanti per la scelta (che, come visto, fanno sì che per il tipo 2 sia sempre razionale, perché strettamente dominante, “donare”). Ma per la sopravvivenza nel tempo di un tipo di agente, la cosiddetta fitness (misurata -- La versione più semplice di tali modelli si può trovare nel Manuale di microeconomia di R. Frank. Un testo classico è quello di Axelrod, e un recente studio, basato su evidenza sperimentale, è quello di Bowles. Un modello vicino a quello qui presentato è Sacco e Zamagni. Interessanti considerazioni metodologiche si trovano in Crivelli. Vale la pena specificare che mentre nella biologia evolutiva l’unità di selezione è il gene, in economia l’unità di selezione è il comportamento; inoltre, mente in biologia la trasmissione è ereditaria in economia essa avviene per imitazione. Sono i vari comportamenti adottati e imitati che rendono un agente più efficiente di un altro. Un contributo importante a questo riguardo è l’articolo The evolutionary turn in game theory diSugden -- dal valore medio dei pay-off materiali), contano solo i pay-off materiali, non i pay- off dovuti alla ricompensa intrinseca. c. I pay-off materiali sono i seguenti. Coopera – coopera. Non coopera – coopera. Coopera – non coopera. Non coopera – non coopera. Con a > b> c> d. La probabilità di incontrare un tipo 1 è p1, mentre quella di incontrare un tipo 2 è p2, dove, per la definizione di probabilità, p2 = 1- p1 In questo primo caso lo scenario non è roseo per i tipi 2. Si dimostra, infatti, che a sopravvivere saranno solo i tipi 1, e questo risultato è indipendente dalla percentuale di tipi 1 e 2 presente nella popolazione. Infatti, anche se i tipi 2 fossero la quasi totalità (ex. 99%) dell’universo, sarebbero destinati ugualmente all’estinzione perché sistematicamente sfruttati dagli individui. SE VALGONO LE IPOTESI PRECEDENTI, SOPRAVVIVONO SOLO I TIPI 1, PER OGNI VALORE DI p1 e p2. Se supponiamo un intervento ridistributivo dello stato che preleva risorse dai tipi 1 per sostenere i tipi 2 (es. ciò che avviene normalmente nei sistemi di stato sociale con le imprese sociali), il gap di fitness si riduce, e in certi casi potrebbe essere nullo, consentendo così la co-esistenza dei due tipi. Situazione diversa se ipotizziamo che i due tipi siano, per l’esistenza di un qualche segnale, riconoscibili, e che il tipo 2 decida di interagire soltanto con i suoi simili.  Aggiungiamo, quindi l’ipotesi. Rispetto ai giochi delle prime due sessioni, ora ricorriamo esplicitamente a pay-off ordinali, dove la sola condizione rilevante nella misurazione dei pay-off è il loro ordine, e cioè che a sia maggiore di b, b di c e c di d. Indichiamo con Fi la fitness dei tipi 1, e con Fp la fitness dei tipi 2. F1 = p1c + p2a F1 = p1c + (1-p1)a F2 = p1d + (1-p1)b. La tesi F1>F2 equivale quindi a: p1(b-a) + p1(c-d) > b-a, per p1 = 0 la disuguaglianza diventa a>b ed è quindi vera per p1 = 1 la disugualglianza diventa c>d ed è quindi vera osservo che valore di p1(0, 1), p1(c-d) >0 p1(b-a) > b-a, perché b-a è minore di zero, quindi: F1>F2 valore di p1[0, 1]. È possibile inoltre dimostrare che, per tutti I giochi di questo tipo, quale che sia la posizione iniziale di partenza, l’unico equilibrio evolutivamente stabile verso cui si converge nel tempo è quello che prevede l’estinzione di una delle popolazioni, nel nostro caso dei tipi 2.  9  e. i tipi sono riconoscibili e l’interazione è selettiva (il tipo 2 gioca solo con i simili). Se la riconoscibilità è perfetta (cioè la probabilità di simulazione è nulla), si dimostra facilmente che sarebbero i tipi 2 a sopra-vivere. Infatti, in questo caso vale il Risultato. SE IPOTIZZIAMO PERFETTA RICONOSCIBILITÀ DEI TIPI, SI ESTINGUONO I TIPI 1. Questo secondo risultato ci dice già qualcosa d’importante. La riconoscibilità, anche quando non perfetta (come nella realtà normalmente avviene), aumenta la fitness dei tipi 2. Ciò spiega, ad esempio, l’emergere del fenomeno della “rete”, una realtà tipica dell’economia sociale. Le varie componenti ed espressioni dell’economia sociale tendono infatti a cercarsi e scegliersi l’un l’altra: reti di imprese, reti di consumatori che insieme preferiscono le imprese sociali, reti di imprese (si pensi ai consorzi di co-operative, di veri livelli), risparmiatori e consumatori (il fenomeno delle banche etiche e della finanza etica). Nella realtà, però, supposto che un agente 2 voglia evitare di interagire con i tipi 1 (cosa da non dare per scontata), la perfetta riconoscibilità o la simulazione nulla sono comunque altamente irrealistiche (sono troppi i soggetti con i quali un’impresa e anche una persone interagisce: lavoratori, finanziatori, concorrenti, fornitori, consumatori ...). E’ quindi necessario ricorrere ad altre ipotesi per giustificare teoricamente lo sviluppo delle imprese sociali nel tempo. E’ quanto di cerca di fare negli altri due casi. Introduciamo ora un *terzo* tipo che si aggiunge ai due precedenti. Potremmo chiamarlo ‘civile’ o griceiano. Ipotizziamo che: f. il tipo 3 gioca una strategia “colpo su colpo”, una strategia intermedia (rispetto alle altre due più “radicali” dei tipi 1 e 2, che, rispettivamente, co-operano mai e sempre), che lo fa co-operare con chi coopera, e *non* cooperare con chi *non* coopera. Quest’ultimo co-opera quindi con chi coopera, e *non* co-opera con chi *non* co-opera. Il tipo civile o griceiano, non attribuendo un valore intrinseco (o attribuendogliene uno troppo basso) all’azione donativa, *non* ha “cooperare!” o “cooperiamo!” come ‘strategia’ *dominante*. La strategia dominante e “Siamo razionali”. Ma se ha di fronte un tipo 2, pur riconoscendolo, non lo sfrutta preferendo reciprocare. E’ un 21 La correlazione esclusiva tra tipi può avvenire per almeno due ragioni: o perché l’agente sceglie il tipo preferito che viene riconosciuto attraverso un segnale (che deve essere affidabile), oppure perché si trova in un cluster, cioè in un’area nella quale si trovano soltanto soggettio dello stesso tipo – pensiamo, ad esempio, ad una comunità locale come il gruppo maschile della sub-faculta di filosofia a Oxford, dove la probabilità che un agente si trovi ad interagire con uno “like- minded” è altissima, ed è indirettamente proporzionale al numero di forestieri – non filosofi non oxoniensi -- presenti in quella comunità. In questa situazione, i casi interessanti si trovano sui confini, dove la probabilità di interazioni miste aumenta (pensiamo agli effetti dell’introduzione di pratiche e comportamenti nuovi da parte del gruppo femminile, di missionari o di emigranti da Cambridge). Il segnale, inoltre, per essere efficace dovrebbe essere troppo costoso da imitare da parte dei tipi 1, come l’adesione ad un codice o procedimento di comportamento o ad una struttura di valori molto forte (come nelle botteghe del commercio equo e *solidale*, o nelle imprese di Economia di Comunione). Con riconoscibilità perfetta, la probabilità di incontrare un tipo simile è 1, mentre la probabilità di incontrare uno diverso è 0. Quindi F1 =(0(a) + 1(c))=c, mentre F2 = (0(d) + 1(b)) = b, quindi: F2 > F1. Rispetto a quella classica, questa versione di colpo su colpo è modificata, poiché non inizia sempre con un muoto di cooperazione, e poi il gioco non è ripetuto --  soggetto leale, che per questo chiamiamo “civile” o griceiano. Si ipotizza quindi l’esistenza di un segnale, utilizzabile solo dal tipo civile o griceiano, che gli permette di discriminare perfettamente tra i tre tipi che ha di fronte. Si ipotizza quindi che le altre due imprese non possono, o non vogliono, utilizzare quel segnale (pensiamo, ad esempio, a chi pur sapendo di rischiare entrando in un ambiente molto opportunistico, rifiuti l’idea della nicchia e accetti di scendere in campo, non utilizzando quindi il segnale di riconoscibilità. Cosa succede in questo caso? Innanzitutto è possibile vedere come la fitness del terzo tipo è sempre maggiore di quella del tipo 2. Infatti vale il risultato. SE E SOLO SE VALGONO LE IPOTESI PRECEDENTI (a. – d., f.) SI HA: F3 > F2 VALORE DI a, b, c, d, VALORE DI p1, p2, p3. Un secondo aspetto che emerge, è che l’evenienza che la fitness dei tipi 2 possa risultare maggiore di quella degli 1 dipende dalla percentuale di tipi 3 civili griceiani presente nella popolazione. Più quest’ultima è alta, maggiore è la fitness dei tipi 2 e minore quella dei tipi 1. Qui per semplicità supponiamo che gli scarti tra i pay-off siano uguali tr aloro, cio è che sia: (a–b) = (b–c) = (c–d). Tali scarti possono essere visti, rispettivamente, come vantaggio dello sfruttamento, premio della cooperazione e costo della coerenza. Anche nell’esempio numerico precedente tali scarti sono uguali (tutti pari ad 1). Con queste semplificazioni, vale il seguente risultato. SE VALGONO LE IPOTESI a.–d., f., g., F2>F1 SE E SOLO SE p +p <p. Il risultato ci dice ancora qualcosa d’importante. La sopra-vivenza dei tipi 2 dipende anche dall’esistenza, e dal numero, degli agenti del terzo tipo, cioè di soggetti che, pur *non* attribuendo un valore intrinseco ma derivato dalla razionalita generale all’azione del co-operare o donare non “sfruttano” il muoto co-operativo (come fa invece il tipo 1), ma reciprocano. Rispondono alla co-operazione. Per questo denominare questi tipi “civili”. Questo risultato può essere utilizzato anche a sostegno del ruolo della cultura civile – la conversazione civile – la civil conversazione del rinascimento italiano popolarizzato in tutta Europa. La sopra-vivenza e lo sviluppo di imprese e un soggetto più radicali, come i tipi 2, dipendono anche dalla “cultura civile” presente nell’ambiente dentro il quale operano. Di qui l’importanza duplice della diffusione della “cultura”, alla quale le imprese sociali non possono non attribuire grande importanza. Le imprese dell’EdC, ad esempio, dedicano un terzo dei propri utili alla formazione alla *cultura del dare*. Da una parte la cultura re-inforza le motivazioni intrinseche dei tipi 2, e dall’altra contribuisce ad aumentare e rafforzare il senso civico e la cultura della co-operazione dalla quale, indirettamente, dipende anche la loro sopra-vivenza e il loro sviluppo. Supponiamo, per assurdo, che la tesi non sia vera : Dovrà essere: F3 ≤ F2  => p1c + p2b + p3 b ≤  p1d + p2b + p3b = > p1c ≤ p1d, disuguaglianza che non e’ mai verificata essendo, per ipotesi, c>d. p1d + p2b + p3b > p1c + p2 a + p3c p1 (d − c) + p2 (b − a) + p3 (b − c) > 0 ;<=> p1(c−d) + p2(a−b )< p3(b−c) p1+p2 <p3.  Altra implicazione del risultato è il prendere coscienza che affinché i tipi 2 possano svilupparsi, i tipi civili debbono essere abbastanza numerosi. In particolare, si dimostra che la fitness dei tipi 3 è maggiore di quella dei tipi 1 se e solo se i tipi 3 sono in numero maggiore dei tipi 2. Ipotizzando, come nei risultati precedenti, l’uguaglianza tra gli scarti, abbiamo un altro risultato. SE VALGONO LE IPOTESI DEL LEMMA, F3>F1 SE E SOLO SE P2<P3. Rappresentiamo le due fitness nello spazio delle fitness e di p2. 0 P2* 1 P2 F1, F3. Da questo emergono due ordini di considerazioni. Il valore soglia di P2 (P2*) oltre il quale F3 diventa minore di F1 dipende dalle pendenze delle due rette, rispettivamente a per F1 e b per F3: (a – b) misura infatti il vantaggio che i tipi 1 hanno rispetto ai 3 per la presenza dei tipi 2 che sfruttano. Quindi minore è questo vantaggio, maggiore è la quota di tipi 2 che i tipi 3 possono tollerare Se a=b le due rette sarebbero parallele. Si nota che i tipi 3 perdono fitness con l’aumento dei tipi 2, e la differenza di fitness massima si ottiene in corrispondenza di P2 = 0. E’ il meccanismo che potremmo chiamare i figli delle rivoluzioni che uccidono i padri, perché li considerano troppo radicali, come i francescani di seconda generazione che rimossero Francesco dal governo dell’ordine, perché con il suo radicalismo impediva – a loro dire – lo sviluppo del francescanesimo più moderato e minacciava la morte stessa del movimento. Nell’ultimo scenario, ipotizziamo che la motivazione intrinseca, la componente non materiale dei pay-off, possa avere un effetto non solo sulla scelta ma anche sulla fitness. Finora non abbiamo fatto ciò per un senso di realismo. Eurialo puo persuadersi a vivere nella piena correttezza verso Niso perché attribuisce a tale comportamento un valore intrinseco. Se però poi non arrivano i risultati economici, se ho -- F3 >F1 <=> p1c +p2b  + p3b > p1c + p2a + p3c <=> p2pb + p3b > p2pa + p3c <=> p2 (b-a) > p3 (c-b) <=> p2 (a-b) < p3 (b-c) p2 < p3. Il valore soglia P2* è pari a P3, come sappiamo dal risultato.  F1 F3  -- ad esempio costi troppo elevati, la fitness di Eurialo ne risente. Ora però abbandoniamo questa semplificazione, e ipotizziamo che la fitness sia influenzata anche dalle motivazioni. Alcuni esperimenti dimostrano come i comportamenti ispirati da motivazioni intrinseche e da logiche di gratuità, oltre a non avere buoni sostituti - nel senso che in tali casi altre forme di incentivi monetari non funzionano - portano anche una maggiore efficienza in termini di risultati. Perché quindi non ipotizzare una fitness influenzata anche dalle motivazioni intrinseche? Le fitness del primo e del terzo tipo restano le stesse (questi due tipi non hanno motivazioni intrinseche), mentre cambia quella del tipo 2, dove la motivazione intrinseca è rappresentata da un ε > 0,29 che viene aggiunto ai pay-off materiali. Le fitness dei tre tipi diventano perciò le seguenti: h. F1 =p1(c) + p2 (a) + p3 (c) F2 =p1 (d) + p2 (b) + p3(b) + ε F3 = p1 (c) + p2 (b )+ p3 (b). Si dimostra che è possibile che la fitness dei tipi 2 sia maggiore anche di quella dei tipi 3. Vale infatti il: Risultato. SE VALGONO LE IPOTESI a. – d., f., h.: 1. F 2≥ F3, SE E SOLO SE ε≥ p1(C–D)31E 2. F2 ≥ F1, SE E SOLO SE ε≥ P1(C–D) + P2(A–B) + P3(C-B). C’è un rapporto diretto tra ε e (c –d) dove (c – d) misura il costo della coerenza per la fitness dei tipi 2, poiché è quanto questi perdono per essere coerenti con la loro cultura ottenendo “d” quando interagiscono con i tipi 1, invece di giocare, come i tipi 3, *non* coopera, ottenendo così “c”, che è maggiore di “d”. Il valore più piccolo che può assumere ε (cioè l’effetto materiale delle motivazioni intrinseche) affinché valga la disuguaglianza F2>F3, è ε* = p1 (c – d). Possiamo quindi osservare che, maggiore è il costo della coerenza (c – d), maggiore dovrà essere il valore-soglia ε* . Inoltre, c’è un rapporto diretto anche tra ε* e p1: se i tipi 1 sono, relativamente, molto numerosi, allora ε* dovrà essere più alto (e viceversa in caso contrario). Pensiamo, per fare un esempio, ad una impresa di Economia di Comunione che nel campo della legalità si comporta come un tipo 2. Paga le tasse, rispetta le leggi, per una norma etica alla quale attribuisce un valore intrinseco, non strumentale. Un tale imprenditore se opera in un mercato nel quale il costo della coerenza è molto alto o i soggetti opportunistici sono relativamente molti, per non estinguersi dovrà fare in modo che le proprie motivazioni etiche si traducano in maggiore fitness in una misura relativamente maggiore rispetto allo stesso imprenditore operante in un mercato più civile e dove i soggetti opportunisti sono meno. Come a dire che più un mercato, e una -- Rustichini e Gneezy -- A rigore potrebbe anche essere minore di 0. -- Ipotizziamo quindi che solo i tipi 2 e non i 3 “civili” abbiamo motivazioni intrinseche. F2 ≥F3 p1(d) + p2(b) + p3(b) + ε>p1c + p2b + p3b ε ≥ p1(c−d). F ≥ Fp(d) + p(b) + p(b) + ε≥p(c) + p(a)+p(c) 21123123  ε ≥ p1(c−d)+ p2(a−b)+ p3(c−b) -- società, premia i “furbi” (con condoni, ecc.) e penalizza i tipi cooperativi (con leggi che non riconoscono sgravi fiscali per le imprese sociale, ad esempio), più questi ultimi dovranno far sì che le motivazioni etiche si riflettano in maggiore efficienza, altrimenti non sopravvivono. Affinché valga invece la seconda disuguaglianza, F2 ≥ F1, il valore-soglia di ε, che chiameremo “ε ̊”, dovrà essere: ε ̊ = P1(C – D) + P2(A – B) + P3(C- B). E quale il rapporto tra i tipi 3 e i tipi 1? SE VALGONO LE IPOTESI DEL RISULTATO 4.1, F3 > F1, SE E SOLO SE P2 < P3 (b − c). (a − b) Come interpretare questo? (b – c) è il vantaggio dei tipi 3 rispetto ai tipi 1 (solo i tipi 3 co-operano con i tipi 2 ottenendo “b”), possiamo quindi chiamarlo il premio della cooperazione, mentre (a – b) è il vantaggio dei tipi 1 rispetto ai 3, perché è il premio dello sfruttamento che gli standard ottengono nei confronti dei tipi 2, al quale invece i tipi civili rinunciano. Dal Risultato 4.2. emerge un’affermazione a prima vista inquietante: affinché si affermino i tipi 3 (sui tipi 1) sarà necessario che i tipi 2 non siano troppi; in ogni caso questi ultimi potranno essere tanto più numerosi quanto più il “premio della cooperazione” sovrasta il “premio dello sfruttamento”. Se infatti i tipi 2 sono numerosi essi diventano pasto per i tipi 1, che hanno così un vantaggio relativo sui tipi civili. Il risultato potrebbe, infine, essere ulteriormente rafforzato se che quando un tipo 2 incontra un altro tipo 2 ottiene un di più dovuto alla reciprocità (il pay-off diventerebbe in questo caso a). i. F2=P1 (d)+P2(a)+P3(b)+ε La fitness dei tipi 2 potrebbe così essere maggiore di quella dei tipi 3 e 1 con un ε anche minore rispetto al valore di altro risultato. SE VALGONO LE IPOTESI DEL RISULTATO 4.1 E L’IPOTESI i. 1. F2≥F3, SE E SOLO SE ε≥ p1(C–D)+P2(B–A) E 2. F2≥F1, SE E SOLO SE ε≥P1(C–D)+P3(C-B). “ε**” e il valore soglia di ε, affinché valga la disuguaglianza F2≥F3 e, ricordando che la quantità (b – a) è negativa, possiamo subito notare che ε**≤ ε*. Similmente, ε ̊ ̊ =  p1 (c – d) + p3(c –b) è minore di ε ̊. Le motivazioni intrinseche e il di più della reciprocità si rafforzano a vicenda e rappresentano una strada molto interessante per esplorazioni. F < F p (c ) + p (a) + p (c) < p c + p b + p b p <p (b − c) . 1 3 1 2 3 1 2 3 2 3(a−b). F2 ≥F3 p1(d)+p2(a)+p3(b)+ε≥p1c +p2b + p3b ε ≥ p1(c−d)+ p2(b−a). F ≥Fp(d)+p(a)+p(b)+ε≥p(c)+p(a)+p(c) 21123123    ε ≥ p1(c−d)+ p3(c−b). Riassumiamo i punti ai quali siamo giunti ragionando, con l’aiuto della teoria dei giochi, attorno alle prospettive e alle sfide di uno scenario economico nel quale fanno la loro comparsa soggetti diversi da quello standard. Un primo punto emerso in diverse parti di questo scritto è che un agire economico improntato alla gratuità e alla reciprocità, o alla comunione, in un ambiente abitato da agenti eterogenei non cresce con la politica dell’aumento numerico: escludendo l’ipotesi di perfetta riconoscibilità dei tipi, l’aumento numerico, di per sé non basta a far sì che i tipi 2 sopravvivano. Sono invece tre gli aspetti strategicamente cruciali affinché esperienze rette da una logica come quella delineata possano svilupparsi. Lavorare sulla cultura media della società (che noi abbiamo espresso con il “terzo tipo”, quello civile): il messaggio che emerge una volta che abbiamo esteso la dinamica ai terzi tipi è che i tipi 2 possono sopravvivere e svilupparsi soltanto all’interno di un’economia civile, un’economia nella quale sono numerosi gli agenti leali, che pur non attribuendo un alto valore intrinseco all’azione donativa (e quindi non hanno “donare” come strategia strettamente dominante in tutti i tipi di gioco), sono comunque corretti se incontrano un agente co-operativo, non lo sfruttano e co-operano con esso. Poiché le motivazioni intrinseche dipendono in parte dall’approvazione sociale, esiste un effetto di complementarietà strategica. Tanto più tali comportamenti sono diffusi, tanto più saranno premianti36. Infatti, uno sviluppo interessante del modello potrebbe essere quello di vedere sotto quali condizioni i tipi 1 possono trasformarsi evolutivamente in tipi civili, ma in questo scritto non lo abbiamo fatto. Va comunque aggiunto che se è vero che un impegno culturale che si limita a rafforzare le motivazioni intrinseche dei soggetti di tipo 2 non può bastare, al tempo stesso, però, questa seconda direzione ricopre un ruolo fondamentale, per evitare che nel tempo scompaia il tipo 2 e ci si assesti sul terzo tipo. Un mondo senza soggetti che, *almeno in certi contesti* -- ceteris paribus --, *donano* *incondizionalmente*, sarebbe un mondo più povero. La presenza dei due tipi civili e griceiani – Eurialo e Niso -- ci dice che nel tempo saranno questi ultimi gli unici a sopravvivere, a meno che le motivazioni intrinseche si riflettano nei pay-off ed il loro “riflesso” sia relativamente grande. Questo risultato è già di per sé significativo. Anche se in determinati contesti la motivazione intrinseca non riesce a migliorare la performance dei tipi 2, la presenza, magari solo transitoria, dei tipi 2 svolge un importante ruolo civile e culturale: permette cioè che l’incontro (o equilibrio) si assesti sulla reciprocità e non scivoli nella mutua diffidenza. Senza l’esistenza dei tipi 2, o, paradossalmente, senza il loro sacrificio, i tipi civili non avrebbero potuto sperimentare la reciprocità, perché in un mondo popolato solo da loro e da tipi standard, l’unica esperienza possibile è la diffidenza reciproca, la *non* cooperazione (war is war). Ciò serve a gettar luce sul significato culturale e civile che nella storia hanno esperienze radicali -- Ciò implica la possibilità di equilibri multipli ordinabili, cioè la stessa popolazione può essere altamente inefficiente o altamente efficiente a seconda che un numero anche piccolo, al limite anche un solo soggetto, decida di cooperare. 37 E’ infatti verosimile che i tipi 3, quelli civili, abbiano nel loro “programma” la possibilità della cooperazione perché nell’ambiente esiste, o è esistito, il tipo 2: certo si potrebbe teoricamente ipotizzare che i tipi 3 co-operino tra loro anche in assenza dei tipi 2. Ma, storicamente, la cultura civile dell’umanità è andata avanti grazie all’esistenza di esperienze *totalitarie* che hanno creato categorie nuove che poi hanno contaminato la cultura generale. Pensiamo, ancora una volta, alla regola d’oro, o, più recentemente, ai movimenti ecologisti -- come la comunione dei beni totale, certe forme di accademie o monachesimo, e in generale i primi tempi dei fondatori di nuovi carismi (si pensi, per tutti, ad un Francesco d’Assisi e alla sua vicenda storica. Simili esperienze non sempre sono riuscite a sopra-vivere con tutta la loro radicalità, ma senza di quelle chi è venuto in contatto con loro (nella nostra metafora, i “tipi civili”) non avrebbero potuto elevare il livello della convivenza Senza coloro che si sono fatti imprigionare, e hanno dato la vita per i diritti o per la libertà, oggi l’umanità – il tipo umano personale di Grice -- sarebbe meno libera e meno diritti sarebbero riconosciuti. Un po’ come avviene con il sale, che si perde nella massa ma dà quel di più al tutto. La metafora del sale non è però l’unica presente in quel codice della cultura occidentale che è il Vangelo: vi è anche quella della città sul monte, una città che illumina la città sotto monte. La dinamica evolutiva potrà condurre l’economia sociale, e l’economia di comunione, o sul sentiero sale della terra o in quello città sul monte. Ma, in entrambi i casi, occorre che la cultura rafforzi le motivazioni intrinseche. E forse questo il messaggio culturale che il giocco conversazionale griceiano vuole dare. Araujo, V.“Quale visione dell’uomo e della società?”, in Bruni, L. e V. Moramarco (a cura di), L’Economia di comunione: verso un agire economico a misura di persona, Milano: Vita e Pensiero. Aristotele, Etica Nicomachea, Milano: Rusconi. Axelrod, R. The evolution of cooperation, New York: Basic Books. Binmore, K. Game theory and social contract, Cambridge Mass: MIT Press, Vol. II. Bowles, S. et al. In Search of Homo Economicus: Behavioural Experiments in 15 Small Scales Societies, American Economic Review, 91, Bruni, L. La felicità e gli altri, Città Nuova, Roma. Bruni, L. e R. Sugden, Moral canals: trust and social capital in the work of Hume, Smith and Genovesi, Economics and Philosophy, 16, pp. 21-45. Bruni L. e V. Pelligra, Economia come impegno civile, Roma: Città Nuova. Crivelli, L. Quando l’homo oeconomicus diventa reciprocans”, in Bruni e Pelligra (a cura di), op. cit., pp. 21-43. Dawkins, R. The selfish gene, Oxford University Press, Oxford. Frank, R. Microeconomia, Milano: McGrow-Hill. Elster, J. The cement of society. A study of social order, Cambridge: CUP. Gneezy, U. e A. Rustichini. A fine is a price, Journal of Legal studies, January. Gui, B. Economic interactions as encounters, mimeo, Università di Padova. Hollis, M. Trust within reason, Cambridge: CUP. Nussbaum, M. C. The fragility of goodness: Luck and Ethics in Greek tragedy and Philosophy, Cambridge: CUP. Pelligra, V. Fiducia r(el)azionale, in Sacco P.L. e S. Zamagni (a cura di). Putnam, R. (2000), Bowling Alone, New York: Simon e Schuster. Sacco P.L. e S. Zamagni. Un approccio dinamico evolutivo all’alturismo”, RISS, Sacco P.L. e S. Zamagni. Complessità relazionale e comportamento economico, Bologna: Il Mulino. Sen, A. Isolation, assurance and the social rate of discount”, Quarterly Journal of Economics. Sugden, R. (2001), The Evolutionary Turn in Game Theory, Journal of Economic Methodology, Weibull, J. Evolutionary Game Theory, Cambridge MA: MIT Press. Zanghì, G. Dio che è amore, Roma: Città Nuova. 17Luigi Alici. Keywords: alici, amore proprio ed amore altrui, self-love and other-love – il paradosso della reciprocita – eurialo e niso – noi – condividere la deliberazione – eidolon – comunita, immunita, genovesi, il canale morale, la fidanza e il capitale sociale in Genovesi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alici” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Alighieri. (Firenze). dante. Grice: “Problem with having Alighieri as a philosopher is that rhyming is not usually considered a priority – that’s why the old Romans like Lucrezio never had to rhyme – you might say metre is essential to Parmenide and Lucrezio – and that there is metre in my prose if not in endecasibili!” -- Grice: “This is important for an Oxonian; since Sir Peter once told me that he made an effort to understand Italian – ‘or Tuscan implicature,’ to be more precise – just to be able to digest Inferno compleat with rhyme.’” Grice: “Must say that my favourite Dante is ‘lasciate ogni speranza voi ch’entrate.”” Grice: “The Italians, all being Renaissance men, love to catalogue as ‘philosopher’ those whom the head of the Sub-Faculty of Philosophy at Oxford would NOT: Alighieri, one of them!” Grice: “But then, a sport of Italian philosophers is to ramble on “Pinocchio,” too!” -- “The Commedia and philosophy.” Liste di opere in Wiki.  Refs.: “Philosophical references in Dante’s Commedia.”  v.17. Sevolemeguardare in LINGUAD'oco ein LINGUA DI si, ec.e Pag .69. D’oco ,ec.N o n giudico superfluo ildire alcuna cosa su questa v.2. Massimamente quelli di LINGUA denominazione a,ncorchè ne sia stato già parlato da altri. Era costume de'nostri antichi,volendo essi denominare il linguaggio d 'una nazione, prendere il suo distintivo dalla particel. la affermativa del volgare di quella gente . Per tanto la lin gua Italiana si diceva la lingua del si, la Tedesca dell' io, la Franzese dell’oi, la provenzale dell’hoc. Eco sì si va d a discorrendo dell'altre lingue.IlVarchịnel TuoErcolano ac.335. facendosi interrogare dal Conte BaldaflarCastiglionesul parti colare della lingua Italiana , con queste parole : Cbi la cbie mase lalinguadelsi? risponde:seguiterebbeuna largbiffimodi. vifione,chehofa dellelingue,nominandole daquellaparticella, collaqualeaffermano,comeèlalinguad'hoc,chiamatada volgari lingua d'oca ; perciocchè hoc in quella lingua fignifica quanto væí nella Greca , e etiam ita mella Lasina , & pelle soffre si ; •perciò Dantedife: Ab Pifa, vitupero delle gesti Del belpaese là, dove 'lsifuona. Ed avanti al Varchi Benvenuto da Imola su questo medesimo luogo: Quiageneraliteromnisgens Italicautunturifto vulgari sì; ubi Germani dicunt io , do aliqui Gallici dicunt oi , do aliqui Pedemontani dicunt ol vel dic : leggo foc credendolo errore del copista nel M Ş . Laurenziano Derivano tutte queste particelle dal latino, Il “si” nostro dal sico sic est, eforse più interamenteda sicestbec, od al contrario da hoc eftfoc. L'altra di queste voci fu presa da' provenzali, cioè l'hoc: e da questa fu non solamente illor parlare denominato “lingua d'oco”, che vale a dire lingua dell'hoc. Ma il paese ancora “Linguadoca”.  e ne'tempi più balli della latina lingua fu detto “Occitania”, ilqual paese non è altro che l'antica Gallia Narbonensis. Lo io del Tedesco da illudbocest, ed in più perfetta pronunzia “ja”, forse dall'”iam est”. Il Franzese ai, dall “hec illud est”, che bene si ritrova nell'antico “ouill”, che adesso è diventato “oui”. Ed in somma il piemontese ol, dall'istesso “hoc illud”. Sicché, a proposito del passo di Dante, in lingua d’oco, e in lingua di sì, vuol dire in lingua provenzale, ed in lingua Italiana . V. 24. concioffiacbè. l. conciosracofache. Lingua, dal lat. 'lingua', voce usata in due signif. principal nel signif. propr., per quell'organo mobilissimo del corpo anide che è posto nella bocca ove si stende dall'osso joide fin dietro denti incisivi. Essa è la sede del senso del gusto, serve alla funzione del succhiare, alla masticazione, alla deglutizione, alla pronuncia delle parole, ed allo sputare.Varia molto nella grandezza ha la forma d'una piramide, appianata dall'alto al basso, rotonda su i suoi angoli, e terminata da certa punta ottusa che guarda ne davanti. E 'lingua' vale pure idioma, linguaggio, favella. Alighieri usa 'lingua' nei due suoi signif. principali spesse volte nelle sue opere, nel secondo signif. specialmente nel Vulg. El. Nella Div. Com. 'lingua' si trova 30 volte --19 nell'Inf.(II, 25; X1,72; IIV, XV, 87; XVII, 75; XVIII, 60,126; XXI, 137; XXII, 90; xxx,133; IITL 72, 89 ; XXVII, 18; XXVIII, 4, 101; xxx, 122; XXXI, 1; XXIII, 9, 1146; 3 volte nel Purg (vii, 17; XI, 98; xix,13) e 8 volte nel Par. 63; X1, 23; XVII, 87; XXIII, 55; XXVI, 124; XXVII,131; XXXIII,70,708). Sulle dottrine d'Alighieri concernenti la lingua, cioè il linguaggio umano, conviene rimandare al Vulg. El., specialmente al libro I di quest'opera. Si notino i seguenti usi. Lingua, riferito a sete; Inf. xxx, 122. Trarre la lingua, per Spingerla fuori della bocca; atto di SPREGIO; Inf. xvii, 75.-3. Mostrare ciò che puote una lingua, per Condurre un idioma all'apice della sua perfezione; Purg. VII, 17.-4. Scernere nella lingua, le parole dette o scritte; Purg. XV, 87.-5. La gloria della lingua, Il pregio d'un idioma, e la maestria dell'usarlo; Purg. XI, 98.-6. Alighieri chiama la lingua italiana lingua di sì, la provenzale lingua d'oc, la francese lingua d'oil;Vulg. El. 1, 8, 30 eseg.; cfr. Vit. N. xxv, 24 e seg.-7. Concernente la lingua primitiva Alighieri esterna in diversi tempi dee opinioni diverse. Secondo Vulg. El. I, 6, 29 e seg. la lingua dei primi parenti fu parlata da tutti i loro discendenti sino alla edificazione della torre di Babele, e dagli Ebrei anche dopo, onde la lingua primitiva fu semplicemente l'ebraica. Invece secondo Par. XXVI, 124 e seg. la lingua primitiva, parlata da Adamo, fu tutta spenta già prima della confusione babilonica, non ha dunque che fare nè coll'ebraica nè con altre lingue.-8. Anche in merito alla maggiore o minor nobiltà delle lingue latina e volgare Aligheri muta opinione. Secondo Conv. I, 5, 76 e seg. il latino è più bello, più virtuoso e più nobile del Volgare. Invece, secondo Vulg. El. 1, 1,  il volgare è più nobile del Latino. La seconda opinione è tutta propria d'Alighieri e segna un progresso nello svolgimento del suo pensiero. La prima era l'opinione dominante del tempo, accettata anche d'Alighieri, finchè i suoi studi lo indussero a lasciarla. La tèrra d’Occitania a gardat fin a aüra un immense patrimòni gropat simplament a sa lenga, una lenga qu’es istaa la primiera, comà es ressauput, naissuá dal latin, a èsser escrita, una lenga que vuèlh soventar, a donat vita a la primiera literatura moderna europencha, quèla qu’a servit de model per totas las autras lengas, qu’aviá trobat dau l’acomençament sa forma escrita, fòrça unitaria.  Es pas aicí lo luòc adont percorrer l’istòira de nòstra lenga faça als colonialismes qu’an empachat la creacion d’una lenga e de istitucions politicas unitarias mas la retrobaa unitarietat culturala de la tèrra occitana en cèstos darrieri ans a fait creisser un’ideá, beleu un utopiá, quèla de una Nacion, malaürament sença estat, de una Nacion culturala.  Lo mot Occitaniá, ben conoissut fin a la Rivolucion, a retrobat sa modernitat geografica, istorica, lingüistica. Malaürosament nòstra lenga ilh es aüra, apres mila ans, entren de se perdre, de se esvantar al solelh. Un procés qu’a començat a partir dal segle XVI, quand nòstra tèrra occitana a perdut definitivament son autonomiá. Quèlos que los expecialistas de la lenga noman gallicismes, an começat penetrar en Occitaniá sobretot a partir de l’ordonança de Villers-Cotterêts dal 15 d’aost dal 1539, quand lo francés es devengut lenga uficiala de la lei e de l’administracion francesa.  Eissubliaa la cultura dal Meianatge, quèla, per se comprener, dals trobaires, la lenga occitana es chaüta dins l’umbla condicion de, e zo dizo abó una paraula francésa, patois, patés. Cèsta paraula la vòl dire parlar abó las pautas, abó los pès.  Dins las Valadas avem perdut la valor de la paraula patois e l’anobrem tranquilament per dire que parlem a nòstra mòda, comà la se ditz dins tantas valadas. Mas lo mot patois pòl indicar qualsevuèlhe parlar natural dal mond, sença donar una precisa indicacion sus la lenga parlaa. Per aiquò Occitan es l’unica paraula que pòl servir per nomar nòstra lenga, l’unica que rend justiça a mila ans d’istòira. Pas mens de viatge sabem pas de adont arriba nòstre vocabolari, quala istòira an nòstras paraulas.  Comà bien sabon, la plus part dal vocabolari es d’origina latina, comun a quasi totas las lengas romanzas. Un’autra partiá dal vocabolari ven dal grec e decò aicí zo partagem abó las autras lengas; un’autra encara nos ven de las lengas alemandas o germanicas, de quèlos puèples qu’an envaít l’Imperi roman. Resta una fòrta presença de paraulas que beleu nos venon de las lengas parlaas dins nòstros territòris quand los romans sion arribats en çò nòstre: de lengas de sobstrat, que normalment partatgem en lengas anarias, al es a dire d’ancianas lengas mediterranèa comà lo ligure, l’etrusc o de lenga arias pre-latinas comà lo gallic o la lenga celta.  Comà la se pòl comprener sien drant a un tresaur lexical en partiá ben conoissut, mas adont los trabalhs lexicologics abondan pas e adont de ensemb lingüistic comà l’occitan alpec, nomat a son temps vivarò-alpenc, reston mal conoissut.  Comà a escrit Robert A. Geuljan dins son Dictionnaire Etymologique de la Langue d’Oc, en ligna, l’occitan “est la seule grande langue romane dépourvue d’un Dictionnaire Etymologique.   Volem pas de segur far concorrença al trabalh qu’es istat entrenat per lo Prof. Geuljan, mas prepausar de trabalhs sus l’etimologiá de paraulas pas gaire conoissuás de nòstra Valadas e de l’encemb occitano-alpenc per arribar, dins lo temps, a la redaccion d’un Diccionari Etimologic de l’Occitan Alpenc.  Pas mens nòstre Diccionari Etimologic sarè bilengas, es a dire li aurè una partiá entierament en lenga occitana e una traducion italiana. Escriure un Diccionari sus nòstra lenga adont per chasca paraula la se dona la traduccion dins una lenga diferenta de la nòstra me sembla una chausa que vai contra la lenga meseima.  Pensatz a un vocabolari de l’italian o dal francés o de un’autra lenga adont la descripcion de la paraula siè dins un’autra lenga.  Per l’occitan pareis siè la nòrma. Lo Tresor dóu Felibrige de Mistral, lo vocabolari de Alibert comà tuts los autri que sion istats realizats dins cèstos ans donan la paraula en occitan, mas tota la descripcion, e pas mesquè la traducion, dins un’autra lenga, o lo francés o l’italian.  Per far un autre exemple, plus recent, cito un grand trabalh de lexicografia comà quel de Jusiana Ubaud, adont tota l’introduccion e la descripcion de l’òbra es en francés. Perquè un’obra sus la lenga occitana deu èsser ilustraa en se servent d’un’autra lenga? Cèstos diccionaris rintran dins la categoriá dals vocabolaris “dialectals”; meseime los pauqui vocabolaris fait aicí dins las Valadas, normalment de l’occitan local a l’italian, rintran dins aicèsta categoriá.  Los catalans non pas, nos mostran, abó sos Diccionaris, que se pòion justament redigir de diccionaris completament en lenga sença la sugecion d’un autra lenga, comà totas las autras lengas nacionalas.  Per aiquò, en cèst espaci, en cèsta rubrica, chercharem de esclarzir l’origina de certenas paraulas, beleu pas gaire conoissuás, de nòstre vocabolari. ON ritrovando io, che alcuno avanti me abbia della volgare eloquenzia niuna cosa trattato. E vedendo questa cotal eloquenzia es sere veramente necessaria a tutti; conciò sia che ad essa non solamente gli uomini, ma ancora le femine, & i piccoli fanciulli, in quanto la natura permette, sisforzino pervenire: e volendo al quanto lucidare la discrezione di coloro, i quali come ciechi passeggiano per le piazze, e pensano spesse volte, le cose posteriori essere anteriori; con loaiuto, che Dio cimanda dal cielo, ci sforzeremo di dar giovamento al parlare delle genti volgari. Nè solamente l'acqua del nostro ingegno a si fatta bevanda piglie  ma  remo, ma ancora pigliando, ovvero compilando le cose migliori da gli altri, quelle con le nostre mescoleremo, acciò che d'indi possiamo dar bere uno dolcissimo idromele. Ora perciò che ciascuna dottrina deve non provare , aprire il suo suggetto,acciò si sappia che co sa sia quella,ne la quale essa dimora,dico, che 'l Parlar Volgare chiamo quello,nel quale i fanciulli sono assuefatti da gli assistenti, quan do primieramente cominciano a distinguere le voci,o vero,come piùbrevemente sipuò dire, ilVolgar Parlare affermo essere quello,ilquale senza altra regola, imitando la balia, s'appren de.Ecci ancora un altro secondo parlare il quale i romani chiamano “letteratura” (greco: grammatica). E questo se condario hanno parimente i greci & altri, ma non tutti; perciò che pochi a l'abito di esso pervengono ; conciò sia che, se non per spazio di tempo & assiduità di studio, si ponno pren dere le regole, e la dottrina di lui. Di questi dui parlari adunque ilVolgare è più nobile,si perchè fu il primo che fosse da l'umana gene razione usato, si eziandio perchè in esso tut to'lmondo ragiona",avegna che in diversi vocaboli e diverse prolazioni sia diviso ; si a n cora per essere naturale a noi, essendo quel l'altro artificiale: e di questo più nobile è la nostra intenzione di trattare. Il testo latino ha : ipsa (locutione) perfruitur ; ossia : di esso si serve.  non dico nostro,perchè altro parlar ci sia che quello dell'uomo ; perciò che fra tutte le cose che sono, solamente a l'uomo fu dato il parlare,sendo a lui necessario solo.Certo non a gli angeli, non a gli animali inferiori fu ne cessario parlare ; adunque sarebbe stato dato invano a costoro, non avendo bisogno di esso. E la natura certamente abborrisce di fare cosa alcuna invano. Se volemo poi sottilmente con siderare la intenzione del parlar nostro,niun'al tra ce ne troveremo, che il manifestare ad altri i concetti de la mente nostra.Avendo adunque gli angeli prontissima, & ineffabile sufficienzia d'intelletto da chiarire i loro gloriosi concet ti, per la qual sufficienzia d'intelletto l'uno è totalmente noto all'altro , o per sè , o almeno per quel fulgentissimo specchio,nel quale tutti sono rappresentati bellissimi, & in cui avidis simi sispecchiano;pertantopare,chediniuno segno di parlare abbiano avuto mestieri.Ma chi opponesse a questo , allegando quei spi riti, che cascarono dal cielo; a tale opposi zione doppiamente si può rispondere. Prima , che quando noi trattiamo di quelle cose , che Sono  Che l'uomo solo ha il comercio del parlare. Uesto è il nostro vero e primo parlare: Q a bene essere , devemo essi lasciar da 3   parte, conciò sia che questi perversi non vol lero aspettare la divina cura. Seconda rispo sta,e meglio è,che questi demoni a manife stare fra sè la loro perfidia, non hanno bisogno di conoscere , se non qualche cosa di ciascuno, perchè è, e qua nto è 1 : il che certamente s a n no ; perciò che si conobbero l'un l'altro avanti la ruina loro. A gli animali inferiori poi non fu bisogno provvedere di parlare ; conciò sia che per solo istinto di natura siano guidati.E poi tutti quelli animali, che sono di una medesima specie , hanno le medesime azioni , e le m e d e sime passioni ; per le quali loro proprietà p o s sono le altrui conoscere ; m a a quelli che sono di diverse specie, non solamente non fu neces sario loro il parlare, ma in tutto dannoso gli sarebbe stato , non essendo alcuno amicabile comercio tra essi. E se mi fosse opposto che il serpente che parlò a la prima femina, e l'a sina di Balaam abbiano parlato , a questo ri spondo , che l'angelo ne l'asina , & il diavolo nel serpente hanno talmente operato , che essi animali mossero gli organi loro ; e così d'indi la voce risultò distinta, come vero parlare; non che quello de l'asina fosse altro che rag ghiare e quello del serpente altro che fischiare.   ·Il testo ha: non indigent,nisiutsciantquilibetde quolibet, quia est, et quantus est. Parrebbe più proprio iltradurre cosi:non hanno bisogno di conoscere,se non ciascheduno di ciaschedun altro,che è,e quanto è: ossia l'esistenza e il grado.   Se alcuno poi argumentasse da quello,che Ovi dio disse nel quinto de la Metamorfosi, che le piche parlarono ; dico che egli dice questo figu ratamente,intendendo altro:ma se si dicesse che le piche al presente & altri uccelli parlano, dico ch'egli è falso; perciò che tale atto non è parlare , m a è certa imitazione del suono de la nostra voce; o vero che si sforzano di imitare noi in quanto soniamo,ma non in quanto par liamo. Tal che se quello che alcuno espressa mente dicesse, ancora la pica ridicesse, questo non sarebbe se non rappresentazione , o vero imitazione del suono di quello,che prima avesse detto.E così appare,a l'uomo solo essere stato dato il parlare ; m a per qual cagione esso gli fosse necessario, ci sforzeremo brievemente trattare. Che fu necessario a l'uomo il comercio Ovendosi adunque l'uomo non per istinto di natura,ma per ragione;& essa ra gione o circa la separazione, o circa il giudi dizio , o circa la elezione diversificandosi in ciascuno;tal che quasi ogni uno de la sua propria -- La voce del testo discretio sarebbe resa meglio dalla parola discernimento -- del parlare -- specie s'allegra; giudichiamo che niuno intenda l'altro per le sue proprie azioni , o p a s sioni, come fanno le bestie; nè anche per speculazione l'uno può intrar ne l'altro,come l'an gelo , sendo per la grossezza , & opacità del corpo mortale la umana specie da ciò ritenuta. Fu adunque bisogno , che volendo la genera zione umana fra sè comunicare i suoi concetti, avesse qualche segno sensuale e razionale ; per ciò che dovendo prendere una cosa da la ra gione, e ne la ragione portarla, bisognava es sere razionale; ma non potendosi alcuna cosa di una ragione in un'altra portare,se non per il mezzo del sensuale, fu bisogno essere sen suale , perciò che se 'l fosse solamente razio nale,non potrebbe trapassare;se solo sensuale, non potrebbe prendere da la ragione, nè ne la ragione de porre. E questo è segno che il subietto , di che parliamo , è nobile ; perciò che in quanto è suono,egli è per natura una cosa sensuale;& inquanto che,secondolavolontà di ciascuno , significa qualche cosa, egli è ra zionale 1. Iltestoha:Hoc equidem signum est,ipsum sub jectum nobile,dequoloquimur:naturasensualequi dem , in quantum sonus est , esse ; rationale vero , in quantum aliquid significare videtur ad placitum . A noi pare più giusto l'interpretare questo passo cosi. Questosegno (l'aliquod rationale signum et sensuale , di cui ha parlato poche righe più sopra ) è per l'appunto il nobile soggetto di cui parliamo : sensuale , per n a tura,in quanto èsuono;razionale,inquantoche,se   cheuomofuprimadatoilparlare, echedisseprima,& inchelingua. l'uomo solo fu dato il parlare. Ora istimo che appresso debbiamo investigare, a che uomo fu prima dato ilparlare,e che cosa prima disse, & a chi parlò , e dove e quando , & eziandio in che linguaggio il primo suo parlare si sciol se. Secondo che si legge ne la prima parte del Genesis , ove la sacratissima Scrittura tratta del principio del mondo , si truova la femina, primacheniunaltro,aver parlato,cioèlapre sontuosissima Eva, la quale al diavolo, che la ricercava, disse , « Dio ci ha commesso , che non mangiamo del frutto del legno che è nel mezzo del paradiso, e che non lo tocchiamo , acciò che per avventura non moriamo.» Ma a vegna che in scritto si trovi la donna aver pri mieramente parlato,non di meno è ragionevol cosa che crediamo , che l'uomo fosse quello , che prima parlasse. Nè cosa inconveniente mi pare condo la volontà di ciascuno, significa qualche cosa. Contro la quale interpretazione stala punteggiatura, e la voce esse del testo,che sarebbe di troppo ; ma ,per com penso, il brano riesce più chiaro, e si collega meglio col senso di tutto il Capitolo. 9  Anifesto è per le cose già dette , che a pensare,che così eccellente azione de la il   generazione umana prima da l'uomo,che da la femina procedesse. Ragionevolmente adunque crediamo ad esso essere stato dato primiera mente il parlare da Dio,subito che l’ebbe for mato.Che voce poi fosse quella che parlò prima, a ciascuno di sana mente può esser in pronto ; & io non dubito che la fosse quella, che è Dio, cioè Eli, o vero per modo d'interrogazione, o per modo di risposta.Assurda cosa veramente pare,e da la ragione aliena,che da l'uomo fosse nominata cosa alcuna prima che Dio ; con ciò sia che da esso,& in esso fosse fatto l'uo mo.E siccome,dopolaprevaricazionedel'u m a n a generazione , ciascuno esordio di parlare comincia da heu ; così è ragionevol cosa , che quello che fu davanti , cominciasse da alle grezza ,e conciò sia che niun gaudio sia fuori diDio,ma tuttoinDio,& essoDio tuttosiaal legrezza, conseguente cosa è che 'l primo p a r lante dicesse primieramente Dio. Quindi nasce questo dubbio,che avendo di sopra detto, l'uomo aver prima per via di risposta parlato, se risposta fu, devette esser a Dio; e se a Dio, parrebbe,che Dio prima avesse parlato,ilche parrehbe contra quello che avemo detto di sopra. Al qual dubbio risponderemo,che ben può l'uo mo averrispostoaDio,chelointerrogava,nè per questo Dio aver parlato di quella loquela, che dicemo.Qual è colui,che dubiti,che tutte le cose che sono non si pieghino secondo il voler diDio,da cuièfatta,governata,econservata   ciascuna cosa ? É conciò sia che l'aere a tante alterazioni per comandamento della natura in feriore si muova, la quale è ministra e fattura di Dio,di maniera che fa risuonare i tuoni, ful gurare il fuoco, gemere l'acqua, e sparge le nevi, e slancia la grandine ; non si moverà egli per comandamento di Dio a far risonare al cune parole le quali siano distinte da colui, che maggior cosa distinse?e perchè no? Laon de & a questa, & ad alcune altre cose credia mo tale risposta bastare. Dove,& a cuiprima l'uomo abbiaparlato. ta così da le cose superiori, come da le inferiori), che il primo uomo drizzasse il suo primo parlare primieramente a Dio , dico, che ragionevolmente esso primo parlante parlò s u bito,che fu da la virtù animante ispirato: per ciò che ne l'uomo crediamo,che molto più cosa umana sia l'essere sentito che il sentire, pur che egli sia sentito,e senta come uomo. Se adunque quel primo fabbro, di ogni perfezione principio & amatore ,inspirando il primo uomo con ogni perfezione compi , ragionevole cosa mi pare, che questo perfettissimo animale non prima cominciasse a sentire, che 'l fosse sen tito. Se alcuno poi dicesse contra le obiezioni, Iudicando adunque (non senza ragione trat che non era bisogno che l'uomo parlasse, es sendo egli solo ; e che Dio ogni nostro segreto senza parlare, ed anco prima di noi discerne ; ora (con quella riverenzia , la quale devemo usare ogni volta,che qualche cosa de l'eterna volontà giudichiamo),dico,che avegna che Dio sapesse, anzi antivedesse (che è una medesima cosa quanto a Dio) il concetto del primo parlante senza parlare, non di meno volse che esso parlasse; acciò che ne la esplicazione di tanto dono, colui, che graziosamente glielo avea do nato,se ne gloriasse.E perciò devemo credere, che da Dio proceda , che ordinato l'atto de i nostri affetti, ce ne allegriamo. Quinci possiamo ritrovare il loco, nel quale fu mandata fuori laprimafavella;perciòchesefuanimato l'uo m o fuori del paradiso , diremo che fuori : se dentro , diremo che dentro fu il loco del suo primo parlare. Ra perchè i negozj umani si hanno ad esercitare per molte e diverse lingue , tal che molti per le parole non  intesi da molti,che se fussero senza esse; però fia buono investigare di quel parlare, del quale si crede aver usato l'uomo, che nacque senza sono altrimente 1 Di che idioma prima l'uomo parld, e donde fu l'autore di quest'opera.   madre, e senza latte si nutri, e che nè pupil lare età vide,nè adulta.In questa cosa,sì come in altre molte, Pietramala è amplissima città, e patria de la maggior parte dei figliuoli di Adamo .Però qualunque si ritrova essere di cosi disonesta ragione, che creda, che il loco della sua nazione sia il più delizioso, che si trovi sotto il Sole , a costui parimente sarà licito preporre il suo proprio volgare , cioè la sua materna locuzione,a tutti gli altri; e conse guentemente credere essa essere stata quella diAdamo.Ma noi,acuiilmondo èpatria, sì come a'pesci il mare , quantunque abbiamo bevuto l'acqua d'Arno avanti che avessimo denti,e che amiamo tanto Fiorenza, che pe averla amata patiamo ingiusto esiglio, non dimeno le spalle del nostro giudizio più a la ragione che al senso appoggiamo. E benchè se condo il piacer nostro , o vero secondo la quiete de la nostra sensualità, non sia in terra loco più ameno di Fiorenza;pure rivolgendo i vo lumi de'poeti e de gli altri scrittori, ne i quali il mondo universalmente e particularmente si descrive , e discorrendo fra noi i varj siti dei luoghi del mondo , e le abitudini loro tra l'uno e l'altropolo,e'lcircolo equatore,fermamente comprendo, e credo, molte regioni e città es sere più nobili e deliziose che Toscana e Fio renza, ove son nato, e di cui son cittadino; e molte nazioni e molte genti usare più dilette vole, e più utile sermone , che gli Italiani. Ritornando adunque al proposto , dico che una certa forma di parlare fu creata da Dio insie me con l'anima prima ,e dico forma, quanto a i vocaboli de le cose,e quanto a la construzione de'vocaboli , e quanto al proferir de le con struzioni; la quale forma veramente ogni par lante lingua userebbe, se per colpa de la pro sunzione umana non fosse stata dissipata, come di sotto si mostrerà. Di questa forma di par lare parlò Adamo , e tutti i suoi posteri fino a la edificazione de la torre di Babel, la quale si interpreta la torre de la confusione. Questa forma di locuzione hanno ereditato i figliuoli di Heber, i quali da lui furono detti Ebrei ; a cui soli dopo la confusione rimase, acciò che il nostro Redentore , il quale doveva nascere di loro,usasse,secondo laumanità,dela lin gua de la grazia, e non di quella de la confusione. Fu adunque lo ebraico idioma quello, che fu fabbricato da le labbra del primo par lante . ' Il testo ha : qui ex illis oriturus erat secundum humanitatem ,non lingua confusionis, sed gratiæ frue retur.E deve tradursi:ilqualedovevanascere di loro secondo l'umanità , usasse della lingua della grazia, e non di quella della confusione. Hi come gravemente mi vergogno di rin  15 e per De la divisione del parlare in più lingue. A en ta nerazione umana : ma perciò che non possia mo lasciar di passare per essa, se ben la fac cia diventa rossa , e l'animo la fugge , non starò di narrarla. Oh nostra natura sempre prona ai peccati , oh da principio, e che mai non finisce, piena di nequizia; non era stato assai per la tua corruttela, che per lo primo fallo fosti cacciata, e stesti in bando de la p a tria de le delizie? non era assai, che per la universale lussuria, e crudeltà della tua fami glia, tutto quello che era di te, fuor che una casa sola, fusse dal diluvio sommerso , il male , che tu avevi commesso , gli animali del cielo e de la terra fusseno già stati puniti? Certo assai sarebbe stato; ma come prover bialmente si suol dire,Non andrai a cavallo anzi terza ; e tu misera volesti miseramente andare a cavallo.Ecco,lettore, che l'uomo , o vero scordato,o vero non curando de le prime battiture, e rivolgendo gli occhi da le sferze, che erano rimase, venne la terza volta a le botte, per la sciocca sua e superba prosunzio ne. Presunse adunque nel suo cuore lo incu rabile uomo, sotto persuasione di gigante, di superare con l'arte sua non solamente la na tura,ma ancoraessonaturante,ilqualeèDio; e cominciò ad edificare una torre in Sennar, la quale poi fu detta Babel, cioè confusione, per la quale sperava di ascendere al cielo,avendo intenzione, lo sciocco,non solamente di aggua gliare,ma diavanzare ilsuo Fattore.Oh cle menzia senza misura del celeste imperio;qual padre sosterrebbe tanti insulti dal figliuolo? Ora innalzandosi non con inimica sferza, ma con paterna , & a battiture assueta , il ribel lante figliuolo con pietosa e memorabile corre zione castigò. Era quasi tutta la generazione umana a questa opera iniqua concorsa ; parte comandava, parte erano architetti,parte face vano muri,parte impiombavano,parte tiravano le corde ", parte cavavano sassi, parte per ter ra,partepermareliconducevano.E cosìdi verse parti in diverse altre opere s’affatica vano , quando furono dal cielo di tanta con fusione percossi, che dove tutti con una istessa loquela servivano a l'opera , diversificandosi in molte loquele , da essa cessavano , nè mai a quel medesimo comercio convenivano ; & a quelli soli, che in una cosa convenivano una · Il Witte osservò che in luogo di pars amysibus tegulabant, pars tuillis linebant, come leggeva erro neamente la volgata nel testo latino , si deve leggere : pars amussibus tegulabant, pars trullis (o truellis) linebant, e si deve tradurre : parte arrotavano sulle pietre i mattoni,parte con le mestole intonacavano.    istessa loquela attualmente rimase , come a tutti gli architetti una , a tutti i conduttori di sassi una,a tuttiipreparatori di quegli una, e così avvenne di tutti gli operanti; tal che di quanti varj esercizj erano in quell'opera , di tanti varj linguaggi fu la generazione umana disgiunta. E quanto era più eccellente l'arti ficio di ciascuno , tanto era più grosso e barbaro il loro parlare. Quelli poscia , a li q u a l i il sacrato idioma rimase , nè erano presenti nè lodavano lo esercizio loro ; anzi gravemente biasimandolo, si ridevano de la sciocchezza de gli operanti.M a questi furono una minima parte di quelli quanto al numero ; e furono , sì come io comprendo , del seme di Sem , il quale fu il terzo figliuolo di Noè , da cui nacque il popolo di Israel, il quale usò de la antiquissima locu zione fino a la sua dispersione. e specialmente in Europa. Er la detta precedente confusione di lin gue non leggieramente giudichiamo , che allora primieramente gli uomini furono sparsi per tutti iclimi del mondo e per tutte le re gioni & angoli di esso. E conciò sia che la  P Sottodivisione del parlare per il mondo ,  principal radice dela propagazione umana sia ne le parti orientali piantata , e d'indi da l'u no e l'altro lato per palmiti variamente diffu si, fu la propagazione nostra distesa; final mente in fino a l'occidente prodotta , là onde primieramente le gole razionali gustarono o tutti,o almen parte de ifiumi di tutta Europa. Ma ofusseroforestieriquesti,cheallorapri mieramente vennero, o pur nati prima in E u ropa, ritornassero ad essa; questi cotali por tarono tre idiomi seco ; e parte di loro ebbero in sorte la regione meridionale di Europa, parte la settentrionale , & i terzi, i quali al presente chiamiamo Greci , parte de l’Asia e parte de la Europa occuparono.Poscia da uno istesso idio ma,dalaimmonda confusione ricevuto,nac quero diversi volgari , come di sotto dimostre remo ; perciò che tutto quel tratto, ch'è da la foce del Danubio, o vero da la palude Meotide, fino a i termini occidentali (li quali da i confini d'Inghilterra, Italia e Franza , e da l'Oceano sono terminati), tenne uno solo idioma: ave gna che poi per Schiavoni, Ungari , Tedeschi, Sassoni , Inglesi & altre molte nazioni fosse in diversi volgari derivato ; rimanendo questo solo per segno, che avessero un medesimo prin cipio , che quasi tutti i predetti volendo affir mare, dicono jo. Cominciando poi dal termine di questo idioma,cioè da iconfini de gli Ungari verso oriente,un altro idioma tutto quel tratto occupò. Quel tratto poi, che da questi in qua si chiama Europa, e più oltra si stende,o ve ro tutto quello de la Europa che resta , tenne un terzo idioma 1, avegna che al presente tri partito si veggia ; perciò che volendo affermare, altri dicono oc, altri oil, e altri sì, cioè Spa gnuoli , Francesi & Italiani.Il segno adunque che i tre volgari di costoro procedessero da uno istesso idioma,è in pronto;perciò che molte cose chiamano per i medesimi vocaboli, come è Dio,cielo,amore,mare,terra,e vive,muore, ama ,& altri molti.Di questi adunque de la meridionale Europa , quelli che proferiscono oc tengono la parte occidentale, che comincia da i confini de'Genovesi ; quelli poi che dicono sì, tengono da i predetti confini la parte orientale, cioè fino a quel promontorio d'Italia, dal quale comincia il seno del mare Adriatico e la Sici lia.Ma quelli che affermano con oil,quasi sono settentrionali a rispetto di questi ; perciò che da l'oriente e dal settentrione hanno gli Ale manni , dal ponente sono serrati dal mare in 1 Il testo ha : A b isto incipiens idiomate , videlicet a finibus Ungarorum versus orientem aliud occupa vittotum quodabindevocaturEuropa,necnonul terius est protractum . Totum autem , quod in Europa restat ab istis , tertium tenuit idioma. E deve essere tradotto cosi : A cominciare da questo idioma, cioè dai confini degli Ungari verso oriente , un altro idioma occupò l'intero tratto che da quei confini in là si chiama Europa , e che si protrae anche più oltre. Tutto il tratto poi della rimanente Europa tenne un terzo idioma. 19    glese, e dai monti di Aragona terminati , dal mezzo di poi sono chiusi da'Provenzali,e da la flessione de l'Appennino. Noi ora è bisogno porre a pericolo 1 la ' Il verbo periclitari del testo latino qui vale mettere alla prova , cimentare.  ragione, che avemo, volendo ricercare di quelle cose ne le quali da niuna autorità siamo aiutati, cioè volendo dire de la variazione, che intervenne al parlare , che da principio era il medesimo.Ma conciòsiachepercammininoti più tosto e più sicuramente si vada , però so lamente per questo nostro idioma anderemo,e gli altri lascieremo da parte , conciò sia che quello che ne l'uno è ragionevole , pare che eziandio abbia ad esser causa ne gli altri. È adunque loidioma,deloqualetrattiamo(come ho detto di sopra) in tre parti diviso , perciò che alcuni dicono oc , altri si, e altri oil. E che questo dal principio de la confusione fosse uno medesimo (il che primieramente provar si deve) appare, perciò che si convengono in molti vocaboli,come gli eccellenti dottori dimostrano; De le tre varietà del parlare, e come col tempo il medesimo parlare si muta , e de la invenzione de la grammatica. A   la quale convenienzia repugna a la confusione, che fu per il delitto ne la edificazione di Babel. I Dottori adunque di tutte tre queste lingue in molte cose convengono, e massimamente in questo vocabolo,Amor. Gerardo di Berneil , « Surisentis fez les aimes Puer encuser Amor.» Il re di Navara, «De'finamor sivientsenebenté.» M. Guido Guinizelli, « Nè fè amor , prima che gentil core , Nè cor gentil,prima che amor,natura.» Investighiamo adunque , perchè egli in tre parti sia principalmente variato,e perchè cia scuna di queste variazioni in sè stessa si varii, come la destra parte d'Italia ha diverso par lare da quello de la sinistra, cioè altramente parlano i Padovani , e altramente i Pisani : e investighiamo perchè quelli,che abitano più vi cini,siano differenti nel parlare,come è iMila nesi e Veronesi,Romani e Fiorentini;e ancora perchè siano differenti quelli,che si convengono sotto un istesso nome di gente,come Napole tani e Gaetani , Ravegnani e Faentini ; e quel che è più maraviglioso, cerchiamo perchè non si convengono in parlare quelli che in una medesima città dimorano , come sono i Bolo gnesi del borgo di san Felice , e i Bolognesi  della strada maggiore.Tutte queste differenze adunque,e varietàdi sermone,che avvengono, con una istessa ragione saranno manifeste. Dico adunque , che niuno effetto avanza la sua ca gione, in quanto effetto,perchè niuna cosa può fare ciò che ella non è.Essendo adunque ogni nostra loquela (eccetto quella che fu da Dio insieme con l'uomo creata) a nostro benepla cito racconcia,dopo quella confusione,la quale niente altro fu che una oblivione de la loquela prima, & essendo l'uomo instabilissimo e va riabilissimo animale , la nostra locuzione ne durabile nè continua può essere ; m a come le altre cose che sono nostre (come sono costumi & abiti),simutano;cosìquesta,secondo ledi stanzie de iluoghi e dei tempi,è bisogno di va riarsi.Però non è da dubitare che nel modo che avemo detto,cioè,che con ladistanziadeltempo il parlare non si varii, anzi è fermamente da tenere ; perciò che se noi vogliamo sottilmente investigare le altre opere nostre,le troveremo molto più differenti da gli antiquissimi nostri cittadini, che da gli altri de la nostra età, q u a n tunquecisianomoltolontani1.Ilperchèaudace mente affermo, che se gli antiquissimi Pavesi ora risuscitassero,parlerebbero di diverso parlare di quello, che ora parlano in Pavia ; nè altrimente questo , ch'io dico , ci paja maraviglioso , che I qualicisianomolto lontani(magis....quam a coetaneis perlonginquis).   ciparrebbe a vedere un giovane cresciuto,il quale non avessimo veduto crescere.Perciò che le cose , che a poco a poco si movono , il moto loro è da noi poco conosciuto;e quanto la va riazione de la cosa ricerca più tempo ad essere conosciuta, tanto essa cosa è da noi più stabile esistimata.Adunque non ci ammiriamo,se i discorsi di quegli uomini,che sono poco da le bestie differenti, pensano che una istessa città abbia sempre il medesimo parlare usato, conciò sia che la variazione del parlare di essa città non senza lunghissima successione di tempo a poco a poco sia divenuta , e sia la vita de gli uomini di sua natura brevissima. Se adunque il sermone ne la istessa gente (come è detto) successivamente col tempo si varia, nè può per alcun modo firmarse, è necessario che il par lare di coloro, che lontani e separati dimorano, sia variamente variato ; sì come sono ancora variamente variati i costumi & abiti loro , i quali nè da natura,nè da consorzio umano sono firmati, ma a beneplacito, e secondo la conve nienzia de i luoghi nasciuti.Quinci si mossero gl'inventori de l'arte grammatica ; la quale grammatica non è altro che una inalterabile conformità di parlare in diversi tempi e luo ghi.Questa essendo di comun consenso di molte genti regulata , non par suggetta al singulare arbitrio di niuno, e consequentemente non può essere variabile.Questa adunque trovarono,ac ciò che per la variazion del parlare , il quale  De la varietà del parlare in Italia da la destra e sinistra parte de l'Appennino. Ra uscendo in tre parti diviso (come di  24 LIBRO PRIMO , per singulare arbitrio si move,non ci fossero o in tutto tolte, o imperfettamente date le a u torità, & i fatti de gli antichi , e di coloro da i quali la diversità dei luoghi ci fa esser divisi. sopra è detto) il nostro parlare nella comparazione di se stesso, secondo che egli è tri partito, con tanta timidità lo andiamo ponde rando , che nè questa parte , nè quella , nè quell'altra abbiamo ardimento di preporre, se non in quello sic, che i grammatici si trovano aver preso per avverbio di affirmare: la qual cosa pare, che dia qualche più di autorità a gli Italiani, i quali dicono si.Veramente ciascuna di queste tre parti con largo testimonio si d i fende. La lingua di oil allega per sè, che, per lo suopiùfacileepiùdilettevoleVolgare,tutto quello che è stato tradotto , o vero ritrovato in prosa volgare,è suo;cioè la Bibbia,ifatti de i Trojani e dei Romani,le bellissime favole del re Artù , e molte altre istorie e dottrine 1. ma: 0 · Il Fraticelli avverte , a ragione , che qui bisognava tradurre non: la Bibbia,ifatti de' Trojani... i libri che contengono i fatti de' Trojani . L'altra poi argomenta per sè , cioè la lingua di oc ; e dice che i volgari eloquenti scrissero i primi poemi in essa , sì come in lingua più perfetta e più dolce; come fu Piero di Alver nia & altri molti antiqui dottori.La terza poi, che è de gli Italiani, afferma per dui privilegj esser superiore ; il primo è, che quelli, che più dolcemente e più sottilmente hanno scritti poe mi , sono stati i suoi domestici e famigliari, cioè Cino da Pistoja, e lo amico suo ; il secondo è, che pare, che più s'accostino a la g r a m m a tica,la quale è comune.E questo, a coloro, che vogliono con ragione considerare, par g r a vissimo argomento . M a noi lasciando da parte il giudicio di questo , e rivolgendo il trattato nostro al Volgare Italiano,ci sforzeremo di dire le variazioni ricevute in esso , e quelle fra sè compareremo.Dicemo adunque laItalia essere primamente in due parti divisa,cioè ne la de stra e ne la sinistra ; e se alcuno dimandasse qual è la linea che questa diparte,brievemente rispondoessereilgiogodel'Appennino;ilquale, come un colmo di fistula, di qua e di là a diver se gronde piove,e l'acque di qua e di là per lunghi embricia diversi liti distillan , come Lucano nel secondo descrive ; & il destro lato ha il mar Tirreno per grondatoio, il sinistro v'ha lo Adriatico. Del destro lato poi sono regioni la Puglia,ma non tutta,Roma,ilDucato 1,  + Ducato di Spoleto.    , Toscana,la Marca di Genova.Del sinistro so no parte de la Puglia , la Marca d’Ancona , la Romagna , la Lombardia , la Marca Tri vigiana, con Venezia.Il Friuli veramente,e l'Istria non possono essere se non de la parte sinistra d'Italia ; e le isole del mar Tirreno , cioè Sicilia e Sardigna,non sono se non de la destra , o veramente sono da essere a la destra parte d'Italia accompagnate.In ciascuno adun que di questi dui lati d'Italia, & in quelle parti che si accompagnano ad essi, le lingue de gli uomini sono varie ; cioè la lingua de i S i ciliani co iPugliesi, e quella de i Pugliesi co i Romani,edeiRomani coiSpoletani,edi que sticoiToscani,edeiToscani coiGenovesi,e de i Genovesi co i Sardi. E similmente quella de i Calavresi con gli Anconitani, e di costoro coiRomagnuoli,e deiRomagnuoli co iLom bardi,edeiLombardi coiTrivigianieVene ziani , e di questi co i Friulani , e di essi con gl'Istriani ; ne la qual cosa dico, che nessuno de gl’Italiani dissentirà da noi. Onde la Italia sola appare in X I V Volgari esser variata : cia scuno dei quali ancora in sè stesso si varia: come in Toscana i Senesi e gli Aretini, in L o m bardia i Ferraresi e i Piacentini ; e parimente in una istessa città troviamo essere qualche variazione di parlare,come nel Capitolo di so pra abbiamo detto. Il perchè se vorremo cal culare le prime , le seconde , e le sottoseconde variazioni del Volgare d'Italia,avverrà che in Si dimostra , che alcuni in Italia hanno brutto & inornato parlare. Ssendo ilVolgareItalianopermoltevarietà dissonante , investighiamo la più bella & illustre loquela d'Italia ; & acciò che a la n o stra investigazione possiamo avere un picciolo calle, gettiamo prima fuori de la selva gli a r boriattraversati,elespine.Sicome adunque i Romani si stimano di dover essere a tutti preposti , così in questa eradicazione , o vero estirpazione , non immeritamente a gli altri li preporremo ; protestando essi in niuna ragione de la Volgare Eloquenza esser da toccare. Di cemo adunque il Volgare de'Romani ,o per dir meglio il suo tristo parlare, essere il più brutto di tutti i Volgari Italiani; e non è maraviglia, sendo ne i costumi e ne le deformità de gli abiti loro sopra tutti puzzolenti. Essi dicono : M e sure, quinte dici 1. Dopo questi caviamo quelli de la Marca d’Ancona, i quali dicono Chigna mente sciate siate 2; con i quali mandiamo via questo minimo cantone del mondo si verrà,non solamente a mille variazioni di loquela , m a ancora a molte più. I Sorella mia , che cosa dici ? 2 Qualmente siate state.   , i Spoletani. E non è da preterire, che in vitu perio di queste tre genti sono state molte can zoni composte , tra le quali ne vidi una drit tamente e perfettamente legata, la quale un certo fiorentino, nominato ilCastra,avea com posto ; e cominciava , « Una ferina va scopai da Cascoli Cita cita sen gia grande aina '. » Dopo questi i Milanesi, & i Bergamaschi,& i loro vicini gettiam via ; in vituperio de i quali mi ricordo alcuno aver cantato, Ciò fu del mes d'ochiover. » Dopo questi crivelliamo gli Aquilejensi, e gli I striani, i quali con crudeli accenti dicono Ces fastù ; e con questi mandiam via tutte lem o n tanine e villanesche loquele, le quali di brut tezza di accenti sono sempre dissonanti da i cittadini, che stanno in mezzo le città, come i Casentinesi , & i Pratesi. I Sardi ancora , i quali non sono d'Italia,ma a la Italiaaccom pagnati , gettiam via : perchè questi soli ci p a jono essere senza proprio Volgare , & imitano la grammatica,come fanno le simie gli uomini ; perchè dicono, Domus nova,e Dominus meus. Una ferina vosco poi da Cascoli  « In te l'ora del vespero, · Il Fontanini propone di leggere : Zita zita sen gia a grande aina. Zita vale gita ; e aina val fretta.   « Ancor che l'aigua per lo foco lassi. » «Amor,chelongamentem'haimenato.» Ma questa fama de la terra di Sicilia, se dirit tamente risguardiamo , appare , che solamente per opprobrio de'principi Italiani sia rimasa ; iquali non con modo eroico,ma con plebeo seguono la superbia. M a quelli illustri eroi Federico Cesare & il ben nato suo figliuolo Manfredi , dimostrando la nobiltà e drittezza de la sua forma,mentre che la fortuna gli fu fa vorevole,seguirono le cose umane,e le bestiali sdegnarono.Ilperchè coloro,cheeranodialto De lo Idioma Siciliano e Pugliese. Ei crivellati (per modo di dire) Volgari d'Italia, facendo comparazione tra quelli che nel crivello sono rimasi, brievemente sce gliamo il più onorevole di essi. E primiera mente esaminiamo lo ingegno circa il Siciliano, perciò che pare che il Volgare Siciliano abbia assunto la fama sopra gli altri; conciò sia che tutti i poemi , che fanno gl'Italiani , si chia mino Siciliani,e conciò sia che troviamo molti dottori di costà aver gravemente cantato,come in quelle canzoni , Et,   Se questo poi non vogliamo pigliare, ma quello che esce de la bocca de i principali Si ciliani, come ne le preallegate canzoni si può vedere, non è in nulla differente da quello,che è laudabilissimo , come di sotto dimostreremo. |Traduzione letteraledialtripices,chesignifica in gannatori.  , cuore e di grazie dotati,si sforzavano di ade rirsi alla maestà di sì gran principi; talchè in quel tempo tutto quello , che gli eccellenti Italiani componevano , ne la Corte di sì gran re primamente usciva. E perchè il loro seggio regale era in Sicilia, è avvenuto,che tutto quello che i nostri precessori composero in Volgare , si chiama Siciliano ; il che ritenemo ancora noi ; & i posteri nostri non lo potranno mutare.Racha,Racha.Che suona ora la tromba de l'ultimo Federico ? che ilsonaglio del secondo Carlo? che i corni di Giovanni e di Azzo m a r chesi potenti?cheletibiedeglialtrimagnati? se non , Venite , carnefici ; Venite , altripici 1; Venite, settatori di avarizia.M a meglio è tor nare al proposito , che parlare indarno. Or dicemo,che se vogliamo pigliare ilVolgar Si ciliano,cioè quello che vien da imediocri pae sani, da la bocca de i quali è da cavare il giu dizio , appare , che il non sia degno di essere preposto a gli altri;perciò che 'l non si profe risce senza qualche tempo, come è in « Traggemi d'este focora se t'este a bolontate. »   I Pugliesi poi , o vero per la acerbità loro , o vero per la propinquità dei suoi vicini, che sono Romaneschi e Marchigiani , fanno brutti barbarismi.E'dicono, « Per fino amore vo'si lietamente. » Il perchè a quelli, che noteranno ciò che si è detto di sopra, dee essere manifesto, che nè il Siciliano, nè il Pugliese è quel Volgare che in Italia è bellissimo; conciò sia che abbiamo m o strato , che gli eloquenti nativi di quel paese sieno da esso partiti. De lo Idioma de i Toscani e dei Genovesi. per la loro pazzia insensati, pare che a r rogantemente s'attribuiscano il titolo del V o l gare Illustre; & in questo non solamente la  « Volzera che chiangesse lo quatraro. » Ma quantunque comunemente ipaesani pugliesi parlino bruttamente, alcuni però eccellenti tra loro hanno politamente parlato , e posto ne le loro canzoni vocaboli molto cortigiani, come manifestamente appare a chi iloro scritti con sidera,come è, « Madonna , dir vi voglio. » E, opinione dei plebei impazzisce , m a ritruovo molti uomini famosi averla avuta: come fu Guittone d’Arezzo, il quale non si diede mai al Volgare Cortigiano;Bonagiunta da Lucca,Gallo pisano,Mino Mocato senese,eBrunetto fioren tino, i detti dei quali, se si avrà tempo di esaminarli,noncortigiani,ma proprjdeleloro cittadi essere si ritroveranno. Ma conciò sia che i Toscani siano più de gli altri in questa ebrietà furibondi, ci pare cosa utile e degna torre in qualche cosa la pompa a ciascuno de i Volgari delle città di Toscana.I Fiorentini par. lano, e dicono, « Non facciamo altro. » I Pisani , « Bene andonno li fanti de Fioranza per Pisa.» I Lucchesi , « Fo voto a Dio,che ingassara eie lo comuno de Luca.» I Senesi , « Vo'tu venire ovelle?» Di Perugia , Orbieto , Viterbo e Città Castel lana, per la vicinità che hanno con Romani e Spoletani,non intendo dir nulla.Ma come che quasi tutti i Toscani siano nel loro brutto p a r   « Onche rinegata avessi io Siena.» Gli Aretini , « Manuchiamo introcque.»  lare ottusi,non di meno ho veduto alcuni aver conosciuto la eccellenziadel Volgare,cioè Guido, Lapo & un altro, fiorentini, e Cino Pistojese, il quale al presente indegnamente posponemo , non indegnamente costretti.Adunque se esami neremo le loquele toscane , e considereremo , come gli uomini molto onorati si siano da esse loro proprie partiti , non resta in dubbio che il Volgare , che noi cerchiamo , sia altro che quello che hanno ipopoli di Toscana. Se alcu no poi pensasse che quello, che noi affermiamo de iToscani,non sia da affirmare de iGenovesi, questo solo costui consideri, che se i Genovesi per dimenticanza perdessero il z lettera, biso gnerebbe loro , o ver essere totalmente muti , o ver trovare una nuova locuzione ; perciò che il z è la maggior parte del loro parlare ; la qual lettera non si può se non con molta aspe rità proferire.  nino , & investighiamo tutta la sinistra parte d'Italia, cominciando, come far solemo, a levante. Intrando adunque ne la Romagna , dicemo che in Italia abbiamo ritrovati dui Vol gari, l'uno a l'altro con certi convenevoli con  De loIdioma di Romagna, edialcuni Transpadani,especialmentedelVeneto. P Assiamo ora le frondute spalle de l'Appen    trarj opposto !, de li quali uno tanto femenile ci pare per la mollizia dei vocaboli e de la p r o nuncia, che un uomo (ancora che virilmente parli) è tenuto femina. Questo Volgare hanno tutti iRomagnuoli, e specialmente i Forlivesi, la città de i quali , avegna che novissima sia, non di meno pare esser posta nel mezzo di tutta la provincia. Questi affermando dicono Deusci, e facendo carezze sogliono dire oclo meo,e co rada mea.Bene abbiamo inteso,che alcuni di costoro ne i poemi loro si sono partiti dal suo proprio parlare,cioèTomaso & Ugolino Buc ciola faentini.L'altro de idue parlari,che ave mo detto, è talmente di vocaboli & accenti ir suto & ispido, che per la sua rozza asperità non solamente disconza una donna che parli, ma ancora fa dubitare, s'ella è uomo. Questo tale hanno tutti quelli che dicono magara , cioè Bressani, Veronesi , Vicentini , & anco i P a doani, i quali in tutti i participj in tus,e de nominativi in tas, fanno brutta sincope, come è merco , e bonté. Con questi ponemo eziandio i Trivigiani , i quali al modo de i Bressani, e de i suoi vicini proferiscono lo v consonante per f, removendo l'ultima sillaba, come è nof p e r n o v e , v i f p e r v i v o; il che veramente è barbarissimo , e riproviamlo . I Veneziani ancora non saranno degni de l'onore de l'investigato Il testo latino ha : duo .... vulgaria , quibusdam convenientiis contrariis alternata.    tra i quali abbiamo veduto uno , che si è sfor zato partire dal suo materno parlare, e ridursi al Volgare Cortigiano , e questo fu Brandino padoano.Laonde tutti quelli del presente Ca pitolo comparendo alla sentenzia,determiniamo, che nè ilRomagnuolo nè ilsuo contrario,come si è detto , nè il Veneziano sia quello Illustre Volgare che cerchiamo. CA Fa gran discussione del Parlare Bolognese. quello che della italica selva ci resta.D i cemo adunque,che forse non hanno avuta mala opinione coloro, che affermano che i Bolognesi con molto bella loquela ragionano ; conciò sia che da gli Imolesi,Ferraresi eModenesi qualche cosa al loro proprio parlare aggiungano ; chè tutti, sì come avemo mostrato, pigliano dai loro vicini, come Sordello dimostra de la sua Mantova , che con Cremona , Bressa e Verona confina. Il qual uomo fu tanto in eloquenzia , che non solamente ne i poemi , m a in ciascun modo che parlasse, il Volgare de la sua patria abbandond.Pigliano ancora iprefati cittadini Volgare ; e se alcun di loro, spinto da errore, in questo vaneggiasse , ricordisi se mai disse , « Per le plage de Dio tu non verás » ; Ra ci sforzeremo, per espedirci,a cercare   la leggerezza e la mollizia da gl'Imolesi, e da i Ferraresi e Modenesi una certa loquacità, la qual è propria de i Lombardi . Questa , per la mescolanza de i Longobardi forestieri, crediamo essere rimasa ne gli uomini di quei paesi ; e questa è la ragione, per la quale non ritro viamo che niuno , nè Ferrarese, nè Modenese , nè Reggiano,sia stato poeta;perciò che assue fatti a la propria loquacità , non possono per alcun modo,senza qualche acerbità,alVolgare Cortigiano venire. Il che molto maggiormente de i Parmigiani è da pensare ; i quali dicono inonto per molto. Se adunque i Bolognesi da l'una e da l'altra parte pigliano, come è detto, ragionevole cosa ci pare che il loro parlare , per la mescolanza de gli oppositi , rimanya di laudabile suavità temperato : il che per giudi zio nostro senza dubbio esser crediamo.Vero è che se quelli, che prepongono il Volgare S e r mone de iBolognesi,nel compararli essi hanno considerazione solamente a i Volgari de le città d'Italia, volentieri ci concordiamo con loro. M a se stimano simplicemente il Volgare Bolognese essere da preferire, siamo da essi differenti e discordi ; perciò che egli non è quello che noi chiamiamoCortigiano& Illustre;ches'elfosse quello,ilmassimo Guido Guinizelli,Guido Ghis liero,Fabrizio,& Onesto,& altripoetinon sariano mai partiti da esso ; perciò che furono dottori illustri , e di piena intelligenzia ne le cose volgari.  « Più non attendo il tuo soccorso, Amore. » Le quali parole sono in tutto diverse da le pro prie bolognesi. Ora perchè noi non crediamo che alcuno dubiti di quelle città che sono poste ne le estremità d'Italia;e se alcuno pur dubita, non lo stimiamo degno de la nostra soluzione; però poco ci resta ne la discussione da dire. Laonde disiando di deporre il crivello , accid che tosto veggiamo quello che in esso è rimaso, dico che Trento, e Turino,& Alessandria sono città tanto propinque a i termini d'Italia, che non ponno avere pura loquela ; tal che se così come hanno bruttissimo Volgare,così l'avessono bellissimo, ancora negherei esso essere vera mente Italiano , per la mescolanza che ha de gli altri.E però se cerchiamo ilParlare Italiano Illustre, quello che cerchiamo non si può in esse città ritrovare.  Il massimo Guido , Fabrizio ,  «Madonna,ilfermocore.» « Lo mio lontano gire. » Onesto  e pascoli d'Italia, e non avemo quella pantera , che cerchiamo , trovato ; per potere essa meglio trovare , con più ragione investi ghiamola ; acciò che quella , che in ogni loco si sente, & in ogni parte appare ?, con sollecito studio ne le nostre reti totalmente inviluppia mo. Ripigliando adunque inostri istrumenti da cacciaredicemo,cheinognigenerazionedicoseè di bisogno che una ve ne sia,con la quale tutte le cose di quel medesimo genere si abbiano a comparare e ponderare, e quindi la misura di tutte le altre pigliare.Come nel numero tutte le cose si hanno a misurare con la unità;e di consi più e meno , secondo che da essa unità sono più lontane , o più ad essa propinque. E cosi ne i colori tutti si hanno a misurare col bianco ; e diconsi più e meno visibili, secondo che a lui più vicini, e da lui più distanti si sono.E sicome diquestichemostrano quan tità e qualità diciamo, parimente di ciascuno I L'edizione del Corbinelli ha : redolentem ubique, etnec apparentem.Ilprof.Witte proponedileggere: nec usquam apparentem .  De lo eccellente Parlar Volgare, il quale è comune a tutti gli Italiani. A poi che avemo cercato per tutti i salti D   de i predicamenti e de la sustancia pensiamo potersi dire; cioè che ogni cosa si può misu rare in quel genere con quella cosa , che è in esso genere simplicissima. Laonde ne le nostre azioni, in quantunque specie sidividano,sibi sogna ritrovare questo segno,col quale esse si abbiano a misurare ; perciò che in quello che facciamo come simplicemente uomini , avemo la virtù,la quale generalmente intendemo ?; perciò che secondo essa giudichiamo l'uomo buono e cattivo;in quello poi che facciamo, come uomini cittadini,avemo la legge,secondo la quale si dice buono e cattivo cittadino;così in quello , che come uomini italiani facciamo , avemo le cose simplicissime. Adunque se le azioni italiane si hanno a misurare e ponde rare con i costumi , e con gli abiti, e col p a r lare,quelle de leazioni italiane sono simplicissi me,che non sono proprie di niuna città d'Italia, ma sono comuni in tutte 2; tra le quali ora si 2Iltestolatinoha:inquantum uthominesLatini agimus,quædam habemus simplicissima signa,idest morum,et habituum,etlocutionis,quibus Latino actiones ponderantur et mensurantur. Quce quidem nobilissimasuntearum,quæ Latinorum sunt,actio num,hæc nulliuscivitatisItaliæ propria sunt,sed in omnibus communia sunt: inter que nunc potest di scerni Vulgare.... Il Fraticelli raddrizzò la traduzione del Trissino a questo modo : in quello che, come uomini   Il testo latino ha : virtutem habemus , ut genera literillas(actiones)intelligamus.Edevetradursi:ab biamo per intenderle (leazioni)generalmente,lavirtù.   può discernere il Volgare,che di sopra cerca vamo, essere quello,che in ciascuna città ap pare, e che in niuna riposa 1. Può ben più in una,che in un'altra apparere,come fa la sim plicissima de le sustanzie, che è Dio , il quale più appare ne l'uomo che ne le bestie , e che ne le piante, e più in queste che ne le miniere, & in esse più che ne gli elementi,e più nel foco, che ne laterra.E lasimplicissima quantità,che è uno,più appare nel numero dispari che nel italiani facciamo , abbiamo certi segni semplicissimi , cioè de'costumi, degli abiti e del parlare, coi quali le azioni italiane si hanno a misurare e ponderare.Adun que quelle delle azioni italiane sono nobilissime , che non sono proprie di niuna città d'Italia, ma sono co muni in tutte: tra le quali ora si può discernere il Volgare .... Il Trissino , in luogo di nobilissime, ha semplicissime;eforselasua lezioneèlavera.Levoci nobilissima,hæc,propria,communiaedinterquo non possono riferirsi ad actiones, ma a signa: cosicchè si dovrebbe tradurre segni nobilissimi. M a il dir segni nobilissimi è, certo, poco conforme al concetto generale del Capitolo , nel quale l'autore non parla che di semplicis simi segni : e quindi la traduzione più propria parrebbe dovesse essere la seguente : ora , quelli , che sono segni semplicissimi delle azioni degli Italiani , quelli non sonpropri di nessuna città,ma comuni a tutte:trai quali....;epiùbrevemente:iqualisegnidelleazioni degli Italiani non son propri di nessuna città....  4Vulgare .... quod in qualibet civitate apparet, nec cubat in ulla. Il Manzoni, citando questo passo nella lettera al Bonghi, da noi ristampata, traduce più esatta mente : il Volgare, che in ogni città dà sentore di sè, e non si annida in nessuna.   pari; & il simplicissimo colore,che è ilbianco, più appare nel citrino che nel verde. Adunque ritrovato quello che cercavamo , dicemo , che il Volgare Illustre, Cardinale, Aulico e Corti giano in Italia è quello, il quale è di tutte le città italiane, e non pare che sia di niuna, col quale il Volgare di tutte le città d'Italia si hanno a misurare, ponderare e comparare. Perchè questo Parlare si chiami Illustre. Erchè adunque a questo ritrovato Parlare aggiungendo Illustre,Cardinale, Aulico e Cortigiano, cosi lo chiamiamo, al presente di remo ; per il che più chiaramente faremo parere quello, che esso è. Primamente adunque d i m o striamo quello che intendiamo di fare, quando vi aggiungiamo Illustre , e perchè Illustre il dimandiamo.Per questonoiildicemo Illustre, che illuminante & illuminato risplende. Et a questo modo nominiamo gli uomini illustri, o vero perchè illuminati di potenzia sogliono con giustizia e carità gli altri illuminare, o vero perchè eccellentemente ammaestrati , eccellen temente ammaestrano, come fe'Seneca e Numa Pompilio ; & il Volgare di cui parliamo , il quale innalzato di magisterio e di potenzia, innalza i suoi di onore e di gloria. E ch'el sia da magisterio innalzato, si vede , essendo egli  O n senza ragione esso Volgare Illustre o r niamodisecondagiunta,cioècheCardinale il chiamiamo, perciò che si come tutto l'uscio seguita il cardine , talchè dove il cardine si volta, ancor esso (o entro, o fuori che 'l si pie  Perchè questo Parlare si chiami Cardinale , di tanti rozzi vocaboli italiani, di tante per plesseconstruzioni,ditante difettivepronunzie, di tanti contadineschi accenti , cosi egregio , così districato, così perfetto e così civile ri dotto, come Cino da Pistoja e l'amico suo ne le loro canzoni dimostrano. Che 'l sia poi esaltato di potenzia, appare : e qual cosa è di maggior potenzia che quella, che può i cuori de gli u o mini voltare, in modo che faccia colui che non vole,volere;e colui che vole,non volere, come ha fatto questo, e fa? Che egli poscia innalzi di onore chi lo possiede , è in pronto : non sogliono i domestici suoi vincere di fama ire,imarchesi,iconti,etuttiglialtrigrandi? certo questo non ha bisogno di pruova.Quanto egli faccia poi i suoi famigliari gloriosi , noi stessi l'abbiamo conosciuto, i quali per la dol cezza di questa gloria ponemo dopo le spalle il nostro esilio. Adunque meritamente dovemo esso chiamare Illustre. NA Aulico, e Cortigiano.  Il testo latino ha : Est etiam merito curiale dicen dum , quia curialitas nil aliud est, etc. Il Fraticelli os serva in questo proposito quanto segue : « La Curia è il foro,illuogoovesitrattanogliaffaripubblici;ma es  ghi)si volge; cosi tutta la moltitudine de i V o l gari de le città si volge e rivolge, si move e cessa,secondo che fa questo.Il quale veramente appare esser padre di famiglia; non cava egli ogni giorno gli spinosi arboscelli della italica selva? non pianta egli ogni giorno semente o inserisce piante ? che fanno altro gli agricoli di lei se non che lievano, e pongono, come si è detto ? Il perchè merita certamente essere di tanto vocabolo ornato.Perchè poi ilnominiamo Aulico, questa è la cagione : perciò che se noi Italiani avessimo Aula,questi sarebbe palatino. Se la Aula poi è comune casa di tutto il regno, e sacra gubernatrice di tutte le parti di esso; convenevole cosa è che ciò che si truova esser tale,che sia comune a tutti,e proprio di niuno; in essa conversi & abiti; nè alcuna altra abi tazione è degna di tanto abitatore.Questo ve ramente ci pare esser quel Volgare, del quale noi parliamo ; e quinci avviene, che quelli che conversano in tutte le Corti regali , parlano sempre con Volgare Illustre. E quinci ancora è intervenuto che il nostro Volgare , come fore stiero va peregrinando , & albergando ne gli umili asili, non avendo noi Aula.Meritamente ancora sidee chiamare Cortigiano,perciò che la cortigiania ^ niente altro è,che una pesatura de   le cose che si hanno a fare; e conciò sia che la statera di questa pesatura solamente ne le ec cellentissime Corti esser soglia, quinci avviene, che tutto quello, che ne le azioni nostre è ben pesato , si chiama cortigiano. Laonde essendo questo ne la eccellentissima Corte d'Italia p e sato,merita esser detto Cortigiano.Ma a dire che 'l sia ne la eccellentissima Corte d'Italia pesato , pare fabuloso , essendo noi privi di Corte ; a la qual cosa facilmente si risponde. Perciò che avegna che la Corte (secondo che ụnica si piglia, come quella del re di Alema gna) in Italia non sia,le membra sue però non cimancano;ecome lemembra diquelladaun principe si uniscono,cosi le membra di questa dal grazioso lume de la ragione sono unite; e però sarebbe falso a dire, noi Italiani mancar di Corte quantunque manchiamo di principe ; perciò che avemo Corte, avegna che la sia cor poralmente dispersa, sendo dal Trissino tradotto la Corte , viene a prodursi confusione,perchè Corte è sinonimo di Aula o Reggia, Per l'esattezza del significato converrà rendere la voce curialitas per curialità : e cosi in appresso per cui curiale le voci curia e curialis. , e   Che i Volgari Italici in uno si riducono , Uesto Volgare adunque,che essere Illustre, Q Cardinale,Aulico e Cortigiano avemo dimo strato,dicemo esser quello,che si chiama Vol gare Italiano; perciò che sì come si può tro vare un Volgare che è proprio di Cremona , così se ne può trovar uno che è proprio di Lombardia, & un altro che è proprio di tutta la sinistra parte d'Italia; e come tutti questi si ponno trovare, così parimente si può trovare quello, che è di tutta Italia. E sì come quello si chiama cremonese e quell'altro lombardo,e quell'altro di mezza Italia, così questo che è di tutta Italia si chiama Volgare Italiano.Que sto veramente hanno usato gl’illustri dottori che in Italia hanno fatto poemi in Lingua Vol gare ; cioè i Siciliani, i Pugliesi , i Toscani , i Romagnuoli,iLombardi,e quelli delaMarca Trevigiana e de la Marca d’Ancona. E conciò sia che la nostra intenzione (come avemo nel principio dell'opera promesso) sia d'insegnare la dottrina de la Eloquenzia Volgare ; però da esso Volgare Italiano,come da eccellentissimo, cominciando, tratteremo nei seguenti libri, chi  e quello si chiama Italiano.    siano quelli, che pensiamo degni di usare esso, e perchè, e a che modo, e dove, e quando, & a chi sia esso da dirizzare. Le quali cose chia rite che siano, avremo cura di chiarire i Vol gari inferiori, di parte in parte scendendo sino a quello che è d'una famiglia sola.  e quali no. del nostro ingegno,e ritornando al calamo de la utile opera,sopra ogni cosa confessiamo, che 'l sta bene ad usarsi il Volgare Italiano Illustre così ne la prosa , come nel verso. M a perciò che quelli che scrivono in prosa,pigliano esso Volgare Illustre specialmente da i trovatori ; e però quello che è stato trovato 2, rimane un fermo esempio a le prose,ma non al contrario; per ciò che alcune cose pajono dare principalità 1 Il Corbinelli e, dietro lui, tutti gli altri hanno poli citantes,che non ha senso ol'hamoltooscuro;ma forse si deve leggere sollicitantes.  Quali sono quelli che denno usare il Volgare Illustre, P. Romettendo 1 un'altra volta la diligenzia 2 La voce inventum qui significa poetato.   al verso; adunque secondo che esso è metrico, versifichiamolo 1, trattandolo con quell'ordine , che nel fine del primo Libro avemo promesso. Cerchiamo adunque primamente,se tutti quelli che fanno versi volgari, lo denno usare, o no. Vero è, che cosi superficialmente appare di sì; perciò che ciascuno che fa versi,dee ornare i suoi versi in quanto 'l può. Laonde non sendo niuno di sì grande ornamento, com'è il Volgare Illustre, pare che ciascun versificatore lo debbia usare. Oltre di questo , se quello , che in suo genere è ottimo, si mescola con lo inferiore, pare che non solamente non gli tolga nulla, ma che lo faccia migliore.E però se alcun versificatore, ancora che faccia rozza mente versi,lo mescolerà con la sua rozzezza, non solamente a lei farà bene, ma appare che così le sia bisogno di fare; perciò che molto è più bisogno di ajuto a quelli che ponno poco, che a quelli che ponno assai;e così appare che a tutti i versificatori sia licito di usarlo. M a questo è falsissimo; perciò che ancora gli eccellentissimi poeti non se ne denno sempre vestire,come per le cose di sotto trattate si po trà comprendere.Adunque questo Illustre Vol gare ricerca uomini simili a sé,sì come ancora fanno gli altri nostri costumi & abiti : la m a gnificenzia grande ricerca uomini potenti , la · Il testo latino ha ipsum carminemus, che non vale versifichiamolo, ma pettiniamolo, rimondiamolo.  porpora uomini nobili; così ancor questo vuole uomini di ingegno e di scienze eccellenti ; e gli altri dispregia, come per le cose, che poi si diranno, sarà manifesto.Tutto quello adunque, che a noi si conviene , o per il genere , o per la sua specie, o per lo individuo ci si convie ne ; come è sentire , ridere , armeggiare ; m a questo a noi non si conviene per il genere ; perchè sarebbe convenevole anco a le bestie ; ne per la specie; perchè a tutti gli uomini saria convenevole : di che non c'è alcun dubbio ; chè niun dice,che'lsiconvenga aimontanari.Ma gli ottimi concetti non possono essere, se non dove è scienzia,& ingegno; adunque la ottima loquela non si conviene a chi tratti di cose grossolane ; conviene sì per l'individuo ; m a nulla a l'individuo conviene se non per le pro prie dignità; come è mercantare , armeggiare, reggere.E però, selecoseconvenienti risguar dano le dignità, cioè i degni ; & alcuni possono essere degni, altri più degni, & altri degnissi mi ;è manifesto,che le cose buone a i degni,le migliori a i più degni, le ottime a i degnissimi si convengono. E conciò sia che la loquela non altrimenti sia necessario istromento a i nostri concetti, di quello che si sia il cavallo al sol dato ; e convenendosi gli ottimi cavalli a gli ottimi soldati, a gli ottimi concetti (come è detto) la ottima loquela si converrà. M a gli ottimi concetti non ponno essere,se non dove è scien zia,& ingegno;adunque laottimaloquelanon    si convien se non a quelli, che hanno scienzia, & ingegno ; e così non à tutti i versificatori si convien ottima loquela , e consequentemente nè l'ottimo Volgare ; conciò sia che molti senza scienzia,e senza ingegno facciano versi.E però, se a tutti non conviene , tutti non denno usa re esso ; perciò che niuno dee far quello , che non si gli conviene.E dove dice,che ogni uno dee ornare i suoi versi quanto può,affermiamo esser vero ; m a nè il bove efippito !, nè il porco balteato chiameremo ornato,anzi fatto brutto, e di loro ci rideremo ; perciò che l'ornamento non è altro, che uno aggiungere qualche con venevole cosa a la cosa che si orna. A quello ove si dice, che la cosa superiore con la infe riore mescolata adduce perfezione, dico esser vero,quando laseparazionenonrimane;come è , se l'oro fonderemo insieme con l'argento ; ma se la separazione rimane,la cosa inferiore si fa più vile; come è mescolare belle donne con brutte. Laonde conciò sia che la senten zia de i versificatori sempre rimanga separata mente mescolata con le parole, se la non sarà ottima, ad ottimo Volgare accompagnata, non migliore,ma peggiore apparerà,a guisa di una brutta donna, che sia di seta o d'oro vestita. Ephipiatum vale insellato , e balteatum vale cin turato . In qual materia stia bene usare Apoichè avemo dimostrato, che non tutti  il Volgare Illustre. D tissimi denno usare il Volgare Illustre, conse i versificatori, m a solamente gli eccellen quente cosa è dimostrare poi, se tutte le m a terie sono da essere trattate in esso , o no ; e se non sono tutte , veder separatamente quali sono degne di esso. Circa la qual cosa prima è da trovare quello che noi intendiamo,quando dicemo degna essere quella cosa, che ha di gnità, si come è nobile quello che ha nobiltà; e così conosciuto lo abituante , si conosce lo abituato , in quanto abituato di questo ; però conosciuta la dignità, conosceremo ancora il degno. È adunque la dignità un effetto, o vero termino de i meriti;perciò che quando uno ha meritato bene , dicemo essere pervenuto a la dignità del bene ; e quando ha meritato male , a quella del male ; cioè quello che ha ben c o m battuto, è pervenuto a la dignità de la vittoria, e quello che ha ben governato , a quella del regno ; e così il bugiardo a la dignità de la vergogna , & il ladrone a quella de la morte. Ma conciò sia che in quelli, che meritano bene, si facciano comparazioni , e cosi ne gli altri, perchè alcuni meritano bene,altri meglio,altri   ottimamente , & alcuni meritano male , altri peggio,altripessimamente;e conciò ancora sia, che tali comparazioni non si facciano , se non avendo rispetto al termine de imeriti, il qual termine (come è detto) si dimanda dignità, manifesta cosa è,che parimente le dignità hanno comparazione tra sè,secondoilpiù& ilmeno; cioè che alcune sono grandi , altre maggiori , altre grandissime ; e consequentemente alcuna cosa è degna , altra più degna , altra degnis sima ; e conciò sia che la comparazione de le dignità non si faccia circa il medesimo objetto, ma circa diversi, perchè dicemo più degno quello che è degno di una cosa più grande, e degnissimo quello che è degno d'una altra cosa grandissima ; perciò che niuno può essere di una stessa cosa più degno ; manifesto è che le cose ottime (secondo che porta il dovere) sono de le ottime degne.Laonde essendo questo Vol gare (che dicemo Illustre) ottimo sopra tutti gli altri volgari,consequente cosa è,che solamente le ottime materie siano degne di essere trat tateinesso;ma qualisisianopoiquellema terie,che chiamiamo degnissime,è buono al presente investigarle.Per chiarezza de le quali cose è da sapere, che si come ne l'uomo sono tre anime , cioè la vegetabile , la animale e la razionale, cosi esso per tre sentieri cammina ; perciò che secondo che ha l'anima vegetabile, cerca,quello che è utile, in che partecipa con le piante ; secondo che ha l'animale , cerca   ,   quello, che è dilettevole, in che partecipa con le bestie; e secondo che ha la razionale , cer ca l'onesto, in che è solo, o vero a la natura angelica s'accompagna ; tal che tutto quel che facciamo, par che si faccia per queste tre cose. E perchè in ciascuna di esse tre sono alcune cose , che sono più grandi , & altre grandissi me ;per la qual ragione quelle cose, che sono grandissime, sono da essere grandissimamente trattate , e consequentemente col grandissimo Volgare;ma è da disputare quali si siano que ste cose grandissime. E primamente in quello, che è utile; nel quale, se accortamente consi deriamo la intenzione di tutti quelli, che cer cano la utilità, niuna altra troveremo , che la salute. Secondariamente in quello, che è dilet tevole; nel quale dicemo quello essere massi mamente dilettevole, che per il preciosissimo objetto de l'appetito diletta; e questi sono i piaceridiVenere.Nel terzo,cheèl'onesto, niun dubita essere la virtù. Il perchè appare queste tre cose,cioè la salute,ipiaceridi Ve nere, e la virtù essere quelle tre grandissime materie , che si denno grandissimamente trat tare, cioè quelle cose, che a queste grandissime sono ; come è la gagliardezza de l'armi , l'ar denzia de l'amore, e la regola de la volontà. Circa le quali tre cose sole (se ben risguar diamo) troveremo gli uomini illustri aver vol garmente cantato ; cioè Beltramo di Bornio le armi ; Arnaldo Danielo lo amore ; Gerardo de  Bornello la rettitudine ; Cino da Pistoia lo a m o re; lo amico suo la rettitudine. Beltramo adunque dice, « Non puesc mudar q'un chantar non esparja. » Arnaldo , « Laura amara fa 'ls broils blancutz clarzir. » Gerardo , N o n trovo poi , che niun Italiano abbia fin qui cantato de l'armi. Vedute adunque queste cose (che avemo detto), sarà manifesto quello , che sia nel Volgare Altissimo da cantare. In qual modo di rime si debba usare R a ci sforzeremo sollicitamente d'investi 0 gareilmodo,colqualedebbiamo stringere quelle materie , che sono degne di tanto V o l gare.Volendo adunque dare ilmodo, col quale   , « Per solatz revelhar Que s'es trop endormitz.» « Degno son io,che mora.» « Doglia mi reca nelo cuore ardire. » il Volgare Altissimo. Cino , Lo amico suo,  queste degne materie si debbiano legare ; primo dicemo doversi a la memoria ridurre,che quelli, che hanno scritto Poemi volgari,hanno essi per molti modi mandati fuori ; cioè alcuni per C a n zoni, altri per Ballate , altri per Sonetti, altri per alcuni altri illegittimi & irregolari modi , Come di sotto simostrerà. Di questi modi adun que il modo de le Canzoni essere eccellentissi m o giudichiamo ; là onde se lo eccellentissimo è delo eccellentissimo degno, come di sopra è provato,le materie che sono degne de lo eccel lentissimo Volgare, sono parimente degne de lo eccellentissimo modo,e consequentemente sono da trattare ne le Canzoni;e che 'l modo de le Canzoni poi sia tale, come si è detto , si può per molte ragioni investigare.E prima,essendo Canzone tutto quello che si scrive in versi, & essendo a le Canzoni sole tal vocabolo attri buito, certo non senza antiqua prerogativa è processo. Appresso , quello che per sè stesso adempie tutto quello per che egli è fatto, pare esser più nobile, che quello che ha bisogno di cose che sieno fuori di sè ; m a le Canzoni fanno per sè stesse tutto quello che denno ; il che le Ballate non fanno,perciò che hanno bisogno di sonatori,aliqualisonofatte;adunque séguita, che le Canzoni siano da essere stimate più n o bili de le Ballate, e consequentemente il modo loro essere sopra gli altri nobilissimo , conciò sia che niun dubiti, che il modo de le Ballate non sia più nobile di quello de i Sonetti. A p    , presso pare , che quelle cose siano più nobili, che arrecano più onore a quelli che le hanno fatte; e le Canzoni arrecano più onore a quelli che le hanno fatte, che non fanno le Ballate ; adunque sono di esse più nobili, e consequen temente il modo loro è nobilissimo. Oltre di questo, le cose che sono nobilissime, molto ca ramente si conservano ; m a tra le cose cantate, le Canzoni sono molto caramente conservate , come appare a coloro che vedeno ilibri; adun que le Canzoni sono nobilissime,e consequen temente ilmodo loro è nobilissimo.Appresso, ne le cose artificiali quello è nobilissimo che comprende tutta l'arte ; essendo adunque le cose,che si cantano, artificiali, e ne le Canzoni sole comprendendosi tutta l'arte , le Canzoni sononobilissime,ecosìilmodo loroènobi lissimo sopra gli altri.Che tutta l'arte poi sia ne le Canzoni compresa,in questo simanifesta, che tutto quello che si truova de l'arte, è in esse,ma non si converte 1. Questo segno adun que di ciò che dicemo , è nel cospetto di ogni uno pronto ; perciò che tutto quello che da la cima de le teste de gli illustri poeti è disceso a le loro labbra,solamente ne le Canzoni si ri truova . E però al proposito è manifesto , che quelle cose che sono degne di Altissimo V o l gare, si denno trattare ne le Canzoni. Sed non convertitur.Più chiaro di non si converte sarebbe però non e converso,ovvero non al contrario. De la varietà de lo stile secondo la qualità de la poesia. L'adpotiavimusdellatinononvaleavemoapprovato, ma abbiamo dato a bere.Il Fraticelli propone che si tra duca per traslato : abbiamo dato un saggio.  A poi che avemo districando approvato 1 co , e che materie siano degne di esso , e parimente il modo, il quale facemo degno di tanto onore, che solo a lo Altissimo Volgare si con venga; prima che noi andiamo ad altro, di chiariamo il modo delle ca nzoni, le quali pajono da molti più tosto per caso che per arte usur parsi. E manifestiamo il magisterio di quel l'arte , il quale fin qui è stato casualmente preso, lasciando da parte il modo deleBallate e de i Sonetti ; per ciò che esso intendemo dilu cidare nel quarto Libro di quest'opera nostra, quando del Volgare Mediocre tratteremo. R i veggendo adunque le cose che avemo detto , ci ricordiamo avere spesse volte quelli , che fanno versi volgari, per poeti nominati; il che senza dubbio ragionevolmente avemo avuto ardimento di dire ; per ciò che sono certamente poeti , se drittamente la poesia consideriamo ; la quale non è altro che una finzione rettorica , e po sta in musica.Non di meno sono differenti da i  , grandi poeti, cioè da i regulati; per ciò che quelli 1 hanno usato sermone & arte regulata, e questi (come si è detto) hanno ogni cosa a caso ; il perchè avviene , che quanto più stret tamente imitiamo quelli 2,tanto più drittamente componiamo ; e però noi , che volemo porre ne le opere nostre qualche dottrina, ci bisogna le loro poetiche dottrine imitare. Adunque s o pra ogni cosa dicemo, che ciascuno debbia pi gliare il peso de la materia eguale a le proprie spalle, a ciò che la virtù di esse dal troppo peso gravata , non lo sforzi a cadere nel fango. Questo è quello , che il maestro nostro Orazio comanda,quando nel principio dela sua Poe tica dice , « Voi , che scrivete versi , abbiate cura Di tor subjetto al valor vostro eguale.» Dapoinelecose,che cioccorrono + Il testo latino ha isti:quindi non quelli,ma questi; e per conseguenza nella riga seguente non questi, ma quelli. Sarebbe più chiaro dire i primi in luogo di quelli.  devemo usare divisione , considerando da cantarsi con modo tragico,o comico, o ele giaco. Per la Tragedia prendemo lo stile s u periore,per la Commedia lo inferiore, per l'E dei miseri. Se le cose che ci oc legia quello cantate col correno , pare che siano da essere modo tragico, allora è da pigliare il Volgare Illustre, e conseguentemente da legare la Can a dire , se sono  1 Il testo latino ha : tensis fidibus adsumat secure plectrum ; che deve essere tradotto : tese le corde , a s suma francamente ilplettro.  zone ; m a se sono da cantarsi con cómico , si piglia alcuna volta ilVolgare Mediocre, ed al cuna volta l'Umile ; la divisione de i quali nel quarto di quest'opera ci riserviamo a mostra re. Se poi con elegiaco , bisogna che solamente pigliamo l'Umile.M a lasciamo gli altri da parte, & ora (come è il dovere) trattiamo de lo stile tragico. Appare certamente , che noi usiamo lo stile tragico , quando e la gravità de le sen tenzie , e la superbia de i versi , e la elevazione de le construzioni,e la eccellenzia de ivocaboli si concordano insieme. M a perchè (se ben ci ricordiamo) già è provato, che le cose somme sono degne de le somme , e questo stile che chiamiamo tragico, par e essere il sommo dei stili; però quelle cose che avemo già distinte doversi sommamente cantare , sono da essere in questo solo stile cantate ; cioè la salute , lo amore e la virtù , e quelle altre cose , che per cagion di esse sono ne la mente nostra conce pute , pur che per niun accidente non siano fatte vili. Guardişi adunque ciascuno , e di scerna quello che dicemo ; e quando vuole que ste tre cose puramente cantare , o vero quelle che ad esse tre dirittamente e puramente se gueno , prima bevendo nel fonte di Elicona , ponga sicuramente a l'accordata lira il sommo plettro 1,e costumatamente cominci.Ma a fare   questa Canzone e questa divisione come si dee , qui è la difficultà, qui è la fatica; per ciò che mai senza acume d'ingegno, nè senza assiduità d'arte , nè senza abito di scienze non si potrà fare. E questi sono quelli che 'l Poeta nel VI de la Eneide chiama diletti da Dio, e da la ar dente virtù alzati al cielo, e figliuoli de gli Dei , avegna che figuratamente parli. E pero si confessa la sciocchezza di coloro , i quali senza arte,e senza scienzia,confidandosi solamente del loro ingegno, si pongono a cantar som mamente le cose somme.Adunque cessino que sti tali da tanta loro presunzione ; e se per la loro naturale desidia sono oche , non vogliano l'aquila,che altamente vola, imitare sentenzie a bastanza, o almeno tutto quello che a l'opera nostra si richiede ; il perchè ci affretteremo di andare a la superbia dei versi. Circa i quali è da sapere , che i nostri pre cessori hanno ne le loro Canzoni usato varie sorti di versi, il che fanno parimente imoder ni ; m a in fin qui niuno verso ritroviamo , che abbia oltre la undecima sillaba trapassato, nè sotto la terza disceso. Et avegna che i Poeti  , De lacomposizionedeiversi e de la loro varietà sillabica. Noi pare di aver detto de la gravità de le A   Italiani abbiano usate tutte le sorti di versi, che sono da tre sillabe fino a undici , non di meno il verso di cinque sillabe, e quello di sette , e quello di undeci sono in uso più fre quente ; e dopo loro si usa il trisillabo più de gli altri ; de gli quali tutti quello di undeci sillabe pare essere il superiore sì di occupa zione di tempo , come di capacità di sentenzie , di construzioni e di vocaboli ; la bellezza de le quali cose tutte si moltiplica in esso , come manifestamente appare , per ciò che ovunque sono moltiplicate le cose che pesano , si molti plica parimente il peso.E questo pare che tutti i dottori abbiano conosciuto , avendo le loro illustri Canzoni principiate da esso ; come G e rardo di Bornello , « Ara auzirez encabalitz cantars.» Il qual verso avegna che paja di dieci silla be,è però,secondo la verità de la cosa, di undeci ; per ciò che le due ultime consonanti non sono de la sillaba precedente.Et avegna che non abbiano propria vocale, non perdono peròlavirtùdelasillaba;& ilsegnoè,che ivi la rima si fornisce con una vocale ; il che essere non può se non per virtù de l'altra che ivi si sottintende. Il re di Navara , «De finamor sivient sen e bonté.» Ove se si considera l'accento e la sua cagione, apparirà essere endecasillabo.   , «Amor,che longiamente m'hai menato.» «Per finamore vo silietamente.» « Amor , che muovi tua virtù dal cielo.»  «Al cor gentil ripara sempre amore.» 11 Giudice di Colonna da Messina , Guido Guinicelli , Rinaldo d'Aquino , «Non spero che giammai per mia salute.» Et avegna che questo verso endecasillalo (co me sièdetto)siasopratuttiperildoverece leberrimo, non di meno se'l piglierà una cer ta compagnia de lo eptasillabo , pur che esso però tenga il principato, più chiaramente e più altamente parerà insuperbirsi, ma questo si rimanga più oltra a dilucidarsi. Così diciamo che l’eptasillabo segue a presso quello che è massimo ne la celebrità. Dopo questo quello che chiamiamo pentasillabo,e poi il trisillabo ordiniamo.Ma quel di nove sillabe, per essere il trisillabo triplicato, o vero mai non fu in onore, o vero per il fastidio è uscito di uso. Quelli poi di sillabe pari , per la sua rozzezza non usiamo se non rare volte ; per ciò che ri tengono la natura de i loro numeri ,i quali s e m Cino da Pistoja , Lo amico suo :   Erchè circa il Volgare Illustre la nostra nobilissimo ; però avendo scelte le cose che sono degne di cantarsi in esso , le quali sono quelle tre nobilissime che di sopra avemo pro vate; & avendo ad esse eletto il modo de le Canzoni , si come superiore a tutti gli altri modi , & a ciò che esso modo di Canzoni pos siamo più perfettamente insegnare, avendo già alcune cose preparate, cioèlostile,& iversi; ora de la construzione diremo. È adunque da sapere, che noi chiamiamo construzione una regulata composizione di parole, come è, Ari stotile diè opera a la filosofia nel tempo di Alessandro. Qui sono diece parole poste regu latamente insieme, e fanno una construzione.  pre soggiaceno a i numeri caffi, sì come fa la materia a la forma. E cosi raccogliendo le cose dette, appare lo endecasillabo essere su perbissimo verso ; e questo è quello che noi cercavamo. Ora ci resta di investigare de le construzioni elevate e de i vocaboli alti, e fi nalmente , preparate le legne e le funi , inse gneremo a che modo il predetto fascio , cioè la Canzone , si debba legare. De le construzioni, che si denno usare ne le Canzoni. P si   M a circa questa prima è da considerare , che de le construzioni altra è congrua , & altra è incongrua.E perchè(seilprincipiodelano stra divisione bene ciricordiamo)noi cerchiamo solamente le cose supreme , la incongrua in questa nostra investigazione non ha loco ; per ciò che ella tiene il grado inferiore de la bontà. Avergogninsi adunque , avergogninsi gli idioti di avere da qui innanzi tanta audacia, che v a dano aleCanzoni;de iquali non altrimenti so lemo riderci, di quello che si farebbe d'un cieco,ilqualedistinguesseicolori1.È adun que la construzione congrua quella che cerchia mo.Ma ci accade un'altra divisione 2 di non minore difficultà , avanti che parliamo di quella construzione,che cerchiamo,cioè di quella che è pienissima di urbanità ; e questa divisione e , che molti sono i gradi de le construzioni , cioè lo insipido , il quale è de le persone grosse , come è, Piero ama molto madonna Berta. Ecci il semplicemente saporito, il quale è de i scolari rigidi, o vero de i maestri, come è, Di tuttiimiserim'incresce;ma homaggiorpietà di coloro , i quali in esiglio affliggendosi, r i vedeno solamente in sogno le patrie loro. Ecci ancora il saporito e venusto , il quale è di alcuni , che così di sopra via pigliano la R e t torica,come è,La lodevole discrezione del Meglio, forse, ragionasse o giudicasse di colori. 2 Meglio distinzione (discretio).   «Nuls hom non pot complir adreitamen.» Amerigo di Peculiano , «Si com’l'arbres,que per sobrecarcar.» ' Præparata qui ha il senso di preveniente.  « Si per mon Sobretot no fos.» Il re di Navara , « T a m m'abelis l'amoros pensamens. » Arnaldo Daniello , marchese da Este,e la sua preparata 1 magni ficenzia fa esso a tutti essere diletto. Ecci a p presso il saporito e venusto , ed ancora eccelso, ilqualeèdeidettatiillustri,come è,Avendo Totila mandato fuori del tuo seno grandissima parte de i fiori, o Fiorenza , tardo in Sicilia , e indarno se n'andd. Questo grado di constru zione chiamiamo eccellentissimo , e questo è quello che noi cerchiamo, investigando (come si è detto ) le cose supreme . E di questo sola mente le illustri Canzoni si trovano conteste, come : Gerardo , « Dreit amor qu'en mon cor repaire.» Folchetto di Marsiglia , « Sols sui qui sai lo sobrafan, que m sorts.» Amerigo de Belimi,   « Tegno di folle impresa a lo ver dire.» « Avegna ch'io non aggia più per tempo.» « Amor , che ne la mente mi ragiona.» N o n ti maravigliare , lettore , che io abbia tanti autori a la memoria ridotti ; per ciò che non possemo giudicare quella construzione, che noi chiamiamo suprema , se non per simili esempj. E forse utilissima cosa sarebbe per abituar quella , aver veduto i regulati poeti , cioè Virgilio , la Metamorfosi di Ovidio , Stazio e Lucano , e quelli ancora che hanno usato al tissime prose ; come è Tullio , Livio , Plinio , Frontino , Paolo Orosio , e molti altri , i quali la nostra amica solitudine ci invita a vedere. Cessino adunque i seguaci de la ignoranzia , che estolleno Guittone d'Arezzo , & alcuni al tri, i quali sogliono alcune volte 1 ne i vocaboli e ne le construzioni essere simili a la plebe. Nunquam invocabulisatqueconstructionedesuetos plebescere.Non dunque alcune volte,ma sempre. , Guido Cavalcanti , « Poi che di doglia cor convien , ch'io porti.» > Guido Guinizelli , Cino da Pistoja, Lo amico suo, 1   dere ricerca , che siano dichiarati quelli vocaboli grandi , che sono degni di stare sotto l'altissimo stile. Cominciando adunque , affir miamo non essere piccola difficultà de lo intel letto a fare la divisione dei vocaboli ; per cið che vedemo , che se ne possono di molte m a niere trovare.De i vocaboli adunque alcuni sono puerili, altri feminili, & altri virili, e di questi alcuni silvestri,& alcuni cittadineschi chiamia m o 1,& alcuni pettinati, e lubrici; alcuni irsuti e rabuffati conosciamo ; tra i quali i pettinati e gl’irsuti sono quelli che chiamiamo grandi ; i lubrici poi e i rabuffati sono quelli la cui riso  nel metro volgare. A successiva provincia del nostro proce. Quali vocaboli si debbano porre e quali no 1IlCorbinelliha:ethorum quædam silvestria,quæ dam urbania:eteorum,quo urbana vocamus,quo dam pesaethirsuta,quædam lubricaetreburrasenti mus.LatraduzionedelTrissinovaraddrizzatacosi:edi questi alcuni silvestri,e alcuni cittadineschi;e di quelli che chiamiamo cittadineschi , alcuni pettinati e irsuti, alcuni lubricierabbuffati. Altrihanno invece:quædam pexaetlubrica, quædam hirsutaetreburra:cioèal cunipettinati e lubrici (ossia scorrenti),alcuni irsuti e rabbuffati. , nanzia è superflua; per ciò che si come ne le grandi opere alcune sono opere di magnanimità, altre di fumo , ne le quali avvenga che così di sopra via paja un certo ascendere,a chi però con buona ragione esse considera, non ascendere, m a più tosto ruina per alti precipizj essere g i u dicherà ; con ciò sia che la limitata linea de la virtù si trapassi. Guarda adunque , lettore , quanto per scegliere le egregie parole ti sia bisogno di crivellare; per ciò che se tu consi deri il Volgare Illustre, il quale i Poeti Vol gari , che noi vogliamo ammaestrare , denno (come di sopra si è detto) tragicamente usare , averai cura , che solamente i nobilissimi v o c a boli nel tuo crivello rimangano. Nel numero dei quali ne i puerili per la loro simplicità , com'è mamma e babbo,mate epate,per niun modo potrai collocare; nè anco i feminili, per la loro mollezza, come è dolciada e placevole; nè i contadineschi per la loro austerità, come è gregia e gli altri ; nè i cittadineschi , che siano lubrici e rabuffati, come è femine e corpo, vi si denno porre. Solamente adunque i citta dineschi pettinati & irsuti vedrai che ti resti no , i quali sono nobilissimi , e sono membra del Volgare Illustre. E noi chiamiamo pettinati quelli vocaboli, che sono trisillabi , o vero v i cinissimi al trisillabo , e che sono senza aspi razione , senza accento acuto , o vero circum flesso, senza z nè a duplici, senza gemina zione di due liquide , e senza posizione , in cui    ·Qucecampsarenonpossumus,cioèchenonsipos sono scansare.   la muta sia immediatamente posposta, e che fanno colui che parla quasi con certa soavità rimanere, come è amore , donna , disio, virtute, donare, letizia, salute, securitate, difesa. Ir sute poi dicemno tutte quelle parole , che oltra queste sono o necessarie al parlare illustre, ornative di esso. E necessarie chiamiamo quel le che non possiamo cambiare 1; come sono al cune monosillabe, cioèsi,vo,me,te,se,a,e,i, 0,u;eleinterjezioni,& altremolte.Ornative poi dicemo tutte quelle di molte sillabe, le quali mescolate con le pettinate fanno una bella armonia ne la struttura , quantunque abbiano asperità di aspirazioni , di accento , e di d u plici , e di liquide , e di lunghezza , come è terra , onore , speranza , gravitate, alleviato , impossibilitate, benavventuratissimo, avventu ratissimamente, disavventuratissimamente, sovramagnificentissimamente, il quale vocabolo è endecasillabo.Potrebbesi ancora trovare un vocabolo , o vero parola , di più sillabe , m a perchè egli passerebbe la capacità di tutti i nostri versi , però a la presente ragione non pare opportuno ; come è onorificabilitudinitate, il quale in volgare per dodeci sillabe si compie ; & in grammatica per tredeci , in dui obliqui però.In che modo poi le pettinate siano da es sere ne i versi con queste irsute armonizate,   lascieremo ad insegnarsi di sotto.E questo che si è detto de l'altezza dei vocaboli, ad ogni gentil discrezione 1 sarà bastante. Ra preparate le legne e le funi, è tempo da legare il fascio; ma perchè la cogni zione di ciascuna opera dee precedere a la ope razione,laquale ècome segno avanti iltrarre de la sagitta,ovvero del dardo;però prima,e principalmente veggiamo qual sia questo fascio, che volemo legare. Questo fascio adunque bene ci ricordiamo tutte le cose trattate) è la Canzone;eperòveggiamochecosasiaCanzone, e che cosa intendemo quando dicemo Canzone. La Canzone dunque,secondo la vera significa zione del suo nome, è essa azione o vero pas sione del cantare; sì come la lezione è la pas sione o vero azione del leggere ; m a dichiariamo quello che si è detto, cioè, se questa si chiama Canzone, in quanto ella sia azione o in quanto passione del cantare. Circa la qual cosa è da considerare, che la Canzone si può prendere in dui modi , l'uno de li quali modi è , secondo "Ingenuce discretioni,cioè ad ogni non viziato di scernimento .  , Che cosa è Canzone, e che in più maniere può variarsi.   o tuono , o nota, o melodia. E niuno trombetta , o organista, o citaredo chia m a il canto suo Canzone , se non in quanto siaaccompagnatoaqualcheCanzone;ma quelli che compongono parole armonizate , chiamano le opere sue Canzoni.Et ancora che tali pa role siano scritte in carte e senza niuno che le proferisca, si chiamano Canzoni ; e però non pare che la Canzone sia altro , che una c o m  che ella è fabbricata dal suo autore ; e così è azione ; e secondo questo modo Virgilio nel primo de l'Eneida dice , « lo canto l'arme e l'uomo.» L'altro modo è, secondo il quale ella da poi che è fabbricata si proferisce, o da lo autore, o da chi che sia,o con suono,osenza,ecosì è passione. E perchè allora da altri è fatta, & ora in altri fa, e così allora azione, & ora passione essere si vede.Ma conciò sia che essa è prima fatta,e poi faccia;pero più tosto,anzi al tutto par che si debbia nominare da quello che ella è fatta, e da quello che ella è azione di alcuno,che da quello che ella faccia in altri. Et il segno di questo è, che noi non dicemo mai , questa Canzone è di Pietro perchè esso la proferisca, m a perchè esso l'abbia fatta. O l tre di questo è da vedere, se si dice Canzone la fabbricazione de le parole armonizate, o vero essa modulazione, o canto ; a che dicemo , che m a i il canto n o n si c h i a m a Canzone , ma 0 suono,    piuta azione di colui, che detta parole a r m o nizate,& atte al canto. Laonde così le Canzo ni,che ora trattiamo,come le Ballate e Sonetti, e tutte le parole a qualunque modo armoni zate, o volgarmente , o regulatamente, dicemo essere Canzoni ; m a perciò che solamente trat tiamo le cose volgari,però lasciando le regulate da parte,dicemo,che dei poemi volgari uno ce n'èsupremo, il quale persopraeccellenziachia miamo Canzone; « Donne,che avete intelletto di amore.» E così è manifesto che cosa sia Canzone,e se condo che generalmente si prende , e secondo che per sopraeccellenzia la chiamiamo . Et a s sai ancora pare manifesto che cosa noi inten demo,quandodicemoCanzone;e consequente Meglio forse,quiealtrove,un collegamento (conjugatio).   , che la Canzone sia una cosa suprema, nel terzo Capitolo di questo Libro è provato;ma conciò sia che questo,che è dif finito , paja generale a molti , però risumendo detto vocabolo generale,che già è diffinito,di stinguiamo per certe differenzie quello che so lamente cerchiamo.Dicemo adunque che la Canzone,la quale noi cerchiamo,in quanto che per sopraeccellenzia è detta Canzone , è una con giugazione 1 tragica di Stanzie equali senza risponsorio , che tendono ad una sentenzia , come noi dimostriamo quando dicemmo 2 2Iltestolatinoha:utnosostendimus,cum diximus.   mente qual sia quel fascio,che vogliamo legare. Noi poi dicemo, che ella è una tragica congiu gazione ; perciò che quando tal congiugazione si fa comicamente , allora la chiamiamo per diminuzione cantilena , de la quale nel quarto Libro di questo avemo in animo di trattare.   Stanzie,e non sapendosi che cosa sia Stan zia, segue di necessità, che non si sappia a n cora che cosa sia Canzone ; perciò che de la cognizione de le cose, che diffiniscono , resul ta ancora la cognizione de la cosa diffinita, e però consequentemente è da trattare de la Stanzia, accio che investighiamo, che cosa essa si sia, e quello che per essa volemo intendere. Ora circa questo è da sapere, che tale voca bolo è stato per rispetto de l'arte sola ritro vato ; cioè perchè quello si dica Stanzia , nel quale tutta l'arte de la Canzone è contenuta, e q u e s t a è l a Stanzia capace , o v e r o il r e c e t t a c o l o di tutta l'arte; perciò che sì come la Canzone è il grembo di tutta la sentenzia,così la Stan zia riceve in grembo tutta l'arte; nè è lecito di arrogere alcuna cosa di arte a le Stanzie s e quenti ; m a solamente si vestono de l'arte de la. Quali siano le principali parti de la Canzone, e che la Stanzia n'è la parte principalissima. Ssendo la Canzone una congiugazione di   prima : il perchè è manifesto, che essa Stanzia (de la qual parliamo ) sarà un termine , o vero una compagine di tutte quelle cose , che la Canzone riceve da l'arte;le quali dichiarite, il descrivere che cerchiamo,sarà manifesto.Tutta l'arte adunque de la Canzone pare, che circa tre cose consista , de le quali la prima è circa la divisione del canto , l'altra circa la abitu dine1deleparti,laterzacircailnumero dei versi e de le sillabe; de le rime poi non face mo menzione alcuna;perciò che non sono de la propria arte de la Canzone.È lecito certamente in cadauna Stanzia innovare le rime, e quelle medesime a suo piacere replicare ; il che , se la rima fosse di propria arte de la Canzone , le cito non sarebbe.E se pur accade qualche cosa de le rime servare, l'arte di questo ivi si con tiene,quando diremo de la abitudine de le parti. Il perchè così possiamo raccogliere da le cose predette, e diffinire, dicendo , la Stanzia è una compagine 2 diversi e di sillabe, sotto un certo canto, e sotto una certa abitudine limitata. 2 Il testo latino ha : limitatam compaginem .   , La voce abitudine, qui e altrove, significa propor zione, disposizione.   S ne la Canzone. Che sia il canto de la Stanzia , e che la Stanzia si varia in parecchi modi Apendo poi che l'animale razionale è uomo, e che s e n s i b i l e è l ' a n i m a , & il c o r p o è a n i male ; e non sapendo che cosa si sia quest'a nima, nè questo corpo,non possemo avere per fettacognizionedel'uomo;perciòchelaperfetta cognizione di ciascuna cosa termina ne gli ul timi elementi , sì come il maestro di coloro che sanno, nel principio de la sua Fisica affer ma.Adunque peraverelacognizionedelaCan zone,che desideriamo,consideriamo al presente sotto brevità quelle cose,che diffiniscano il dif finiente di lei; e prima del canto,da poi de la abitudine,e poscia de i versi e de le sillabe in vestighiamo.Dicemo adunque,che ogni Stanzia è armonizata a ricever una certa oda , o vero canto; ma pajono esser fatte in modo diverso, che alcune sotto una oda continua fino a l’ul timo procedeno, cioè senza replicazione di al cuna modulazione, e senza divisione;e dicemo divisione quella cosa, che fa voltare di un'oda in un'altra;la quale quando parliamo col vul go,chiamiamo Volta.E questeStanziediun'oda   sola Arnaldo Daniello usò quasi in tutte le sue Canzoni; e noi avemo esso seguitato quando dicemo , · Il testo ha syrma, che è quanto dire strascico.  « Al poco giorno,& al gran cerchio d'ombra.» Alcune Stanzie sono poi, che patiscono divi sione. E questa divisione non può essere nel modo che la chiamiamo, se non si fa replica zione di una oda o davanti la divisione, o da poi, o da tutte due le parti, cioè davanti e da poi. E se la repetizion de l'oda si fa avanti la divisione, dicemo, che la Stanzia ha piedi ; la quale ne dee aver dui ; avegna che qualche volta se ne facciano tre, ma molto di rado.Se poi essa repetizion di oda si fa dopo la divi sione, dicemo la Stanzia aver versi. M a se la repetizione non si fa avanti la divisione,di cemo la Stanzia aver fronte; e se essa non si fa da poi,la dicemo aver sirima ?,o vero coda. Guarda adunque , lettore , quanta licenzia sia data a li poeti che fanno Canzoni ; e considera per che cagione la usanza si abbia assunto si largo arbitrio ; e se la ragione ti guiderà per dritto calle , vederai , per la sola dignità de l'autorità essergli stato questo,che dicemo con cesso.Di qui adunque può essere assai mani festo a che modo l'arte de le Canzoni consista circa la divisione del canto ; è però andiamo a la abitudine de le parti.e de la distinzione de'versi che sono da porsi nel componimento. tudine,sia grandissima parte di quello,che è de l'arte ; perciò che essa circa la divisione del canto, e circa il contesto dei versi, e circa la relazione de le rime consiste ; il perchè a p pare, che sia da essere diligentissimamente trat tata.Dicemo adunque,che la fronte coi Versi 1, & i piedi con la sirima, o vero coda , e pari mente i piedi co i Versi possono diversamente ne la Stanzia ritrovarsi ; perciò che alcuna fia ta la fronte eccede i Versi, o vero può ecce dere di sillabe e di numero di versi; e dico può, perciò che mai tale abitudine non avemo veduta. Alcune fiate la fronte può avanzare i Versi nel numero de i versi, & essere da essi Versi nel numero de le sillabe avanzata;come 1 Il Trissino tradusse con la stessa voce verso tanto il carmen che da Dante fu usato nel significato proprio e comune di verso, quanto il versus che fu invece usato da lui per indicare una data parte della stanza,che consta d'un certo numero di versi. Per togliere ogni equivoco noi stamperemo in corsivo e con l'iniziale maiuscola la parola Verso quando corrisponde al latino versus.  77 De la abitudine de la Stanzia, del numero de ipiedi e de le sillabe, noi pare, che questa che chiamiamo abi   , se la fronte fosse di cinque versi , e ciascuno dei Versi fosse di due versi , & i versi de la fronte fosseno di sette sillabe,e quelli de i Versi fosseno di undeci sillabe. Alcuna altra volta i Versi avanzano la fronte di numero di versi e di sillabe come in quella che noi dicemmo , Ove la fronte di quattro versi fu di tre ende casillabi e di uno eptasillabo contesta:la quale non si può dividere in piedi; conciò sia che i piedi vogliano essere fra sè equali di numero di versi, e di numero di sillabe,come vogliono essere frà sè ancora i Versi. M a siccome dice mo , che i Versi avanzano di numero di versi e di sillabe la fronte , così si può dire , che la fronte in tutte due queste cose può avanzare i Versi ; come quando ciascuno de i Versi fosse di due versi eptasillabi, e la fronte fosse di cinque versi ; cioè di due endecasillabi e di tre eptasillabi contesta. Alcune volte poi i piedi avanzano la sirima di versi e di sillabe, come in quella che dicemmo , Et alcuna volta i piedi sono in tutto da la si rima avanzati ; come in quella che dicemmo , « Donna pietosa, e di novella etate.» E si come dicemmo, che la fronte può vincere di versi, & essere vinta di sillabe, & al con  « Traggemi de la mente amor la stiva. » « Amor,che movi tua virtù dal cielo.»   trario ; così dicemo la sirima. I piedi ancora ponno di numero avanzare i Versi, & essere da essi avanzati ;perciò che ne la Stanzia pos sono essere tre piedi e dui Versi, e dui piedi e tre Versi; nè questo numero è limitato, che non si possano più piedi e più Versi tessere insieme. E siccome avemo detto ne le altre cose de lo avanzare de i versi e de le sillabe , così dei piedi e dei Versi dicemo , i quali nel medesimo modo possono vincere,& essere vinti. Nè è da lasciare da parte, che noi pigliamo i piedi al contrario di quello che fanno i Poeti regulati; perciò che essi fanno il verso de i piedi, e noi dicemo farsi i piedi di versi, come assai chiaramente appare. Nè è da lasciare da parte , che di nuovo non affermiamo , che i piedi di necessità pigliano l'uno da l'altro la abitudine & equalità di versi e di sillabe , p e r ciò che altramente non si potrebbe fare repeti zione di canto. E questo medesimo affermiamo doversi servare nei Versi.De la qualità de i versi, che ne la Stanzia si pongono, e del numero de le sillabe ne i versi. Cci ancora (come di sopra si è detto) una certa abitudine , la quale quando tessemo iversi devemo considerare;ma acciò che di  E , quella con ragione trattiamo,repetiamo quello che di sopra avemo detto de i versi; cioè che ne l'uso nostro par che abbia prerogativa di essere frequentato lo endecasillabo, lo eptasil labo, & il pentasillabo ; e questi sopra gli altri doversi seguitare affermiamo. Di questi adun que,quando volemo far poemi tragici,lo ende casillabo, per una certa eccellenzia che ha nel contessere, merita privilegio di vincere; e però alcune Stanzie sono che di soli endecasillabi sono conteste, come quella di Guido da Fio renza , « Donna mi prega , perch'io voglio dire. » «Donne,cheaveteintellettodiamore.» Questo ancora li Spagnuoli hanno usato , e dico li Spagnuoli che hanno fatto poemi nel volgare Oc. Amerigo de Belmi , « Nuls h o m non pot complir adreitamen . » Altre Stanzie sono, ne le quali uno solo epta sillabo sitesse;e questo non può essere,se non ove è fronte, o ver sirima, perciò che (co me sièdetto)neipiedieneiVersisiri cerca equalità di versi e di sillabe. Il perchè a n c o r a a p p a r e , c h e il n u m e r o d i s p a r o d e i v e r s i non può essere se non fronte o coda ; ben chè in esse a suo piacere si può usare paro , o disparo numero deiversi.E così come al  Et ancora noi dicemo :   cuna Stanzia è di uno solo eptasillabo formata , così appare,che con dui,tre,o quattro si possa formare; pur che nel tragico vinca lo endecasillabo,e da esso endecasillabo si co minci.Benchè avemo ritrovatialcuni,chenel tragico hanno da lo eptasillabo cominciato , cioè Guido de iGhislieri,e Fabrizio Bolognesi, Et alcuni altri.Ma se al senso di queste Can zoni vorremo sottilmente intrare, apparerà tale tragedia non procedere senza qualche ombra di elegia. Del pentasillabo poi non concedemo a questo modo ; perciò che in un dettato grande basta in tutta la Stanzia inserirvi un pentasil labo, ovver dui al più ne i piedi; e dico ne i piedi, per la necessità !, con la quale i piedi & i V e r s i si c a n t a n o ; m a b e n n o n p a r e c h e n e l t r a gico si deggia prendere il trisillabo, che per sè stia;e dico,che per sè stia;perciò che per una certa repercussione di rime pare, che frequen ' Propter necessitatem,qua pedibusque versibusque cantatur ; per la necessità che nei piedi e nei Versi si deve cantare. (Fraticelli.)  E, E, 1 « Di fermo sofferire, » «Donna,lofermocuore,» « Lo mio lontano gire. »   temente si usi ; come si può vedere in quella Canzone di Guido fiorentino, « Donna mi prega , perch'io voglio dire, » « Poscia che amor del tutto m 'ha lasciato. » Nè ivi è per sè in tutto ilverso,ma è parte de lo endecasillabo, che solamente a la rima del precedente verso a guisa di Eco risponde. E quinci tu puoi assai sufficientemente conoscere, o lettore,come tu dei disponere, o vero abituare la Stanzia ; perciò che la abitudine pare che sia da considerare circa i versi. E questo ancora principalmente è da curare circa la disposizione de i versi : che se uno eptasillabo si inserisce nel primo piede,che quel medesimo loco,che ivi piglia per suo , dee ancora pigliare ne l'altro; verbigrazia , se 'l piè di tre versi ha il primo & ultimo verso endecasillabo,e quel di mezzo, cioè il secondo, eptasillabo, così il secondo piè dee avere gli estremi endecasillabi, & il mezzo eptasillabo ; perciò che altrimenti stando , non si potrebbe fare la geminazione del canto,per usodelqualesifannoipiedi,come sièdetto;e consequentemente non potrebbono essere piedi. E quello che io dico de i piedi, dico parimente de i Versi; perciò che in niuna cosa vedemo i piedi essere differenti da i Versi,se non nel sito; perciò che ipiedi avanti ladivisione della Stan zia,ma i Versi dopo essa divisione si pongono. , Et in quella che noi dicemmo : De la relazione de le rime , e con qual ordine ne la Stanzia si denno porre. T dealcuna cosa al presente non trattando però de la essenzia loro ; perciò che il proprio trat tato di esse riserbiamo , quando de i mediocri poemi diremo.Ma nel principio di questo Ca pitolo ci pare di chiarire alcune cose di esse; de le quali una è, che sono alcune Stanzie, ne le quali non si guarda a niuna abitudine di rime , e tali Stanzie ha usato frequentissima mente Arnaldo Daniello,come ivi, « Si m fos amors de joi donar tan larga? » E noi dicemo, L'altra cosa è che alcune Stanzie hanno tutti i versi di una medesima rima , ne le quali è superfluo cercare abitudine alcuna ; e così resta che circa le rime mescolate solamente debbia mo insistere;in che e da sapere,che quasi  Et ancora sì come si dee fare ne i piedi di tre versi , così dico doversi fare in tutti gli altri piedi. E quello che si è detto di uno endeca sillabo , dicemo parimente di dui e di più , e del pentasillabo, e di ciascun altro verso. «Alpocogiorno,& algrancerchiod'ombra.»   'Iltestolatinoha:quisuasmultasetbonas Can tiones nobis ore tenus intimavit. Il Fraticelli traduce : ci canto a voce , ossia ci canto improvvisando.  tutti iPoeti si hanno in cið grandissima licen zia tolta;conciò sia che quinci la dolcezza de l'armonia massimamente risulta.Sono adun que alcuni, i quali in una istessa Stanzia non accordano tutte le desinenzie de i versi ; m a alcune di esse ne le altre Stanzie repetiscono , overamenteaccordano;come fuGottoman tuano, il quale fin qui ci ha molte sue buone Canzoni intimato 1. Costui sempre tesseva ne la Stanzia un verso scompagnato , il quale essò nominavaChiave.E come diuno,cosìèlecito di dui e forse di più. Alcuni altri poi sono, e quasi tutti i trovatori di Canzoni , che ne la Stanzia mai non lasciano alcun verso scompa gnato, al quale la consonanzia di una o di più rime non risponda. Alcuni poscia fanno le rime de i versi, che sono avanti la divisione, diverse da quelle dei' versi, che sono d o p o e s s a ; & altri non lo fanno; ma le desinenzie de la pri ma parte de la Stanzia ancor ne la seconda in seriscono.Non di meno questo spessissime volte si fa, che con l'ultimo verso de la prima parte, il primo de la seconda parte ne le desinenzie s'accorda ; il che non pare essere altro , che una certa bella concatenazione di essa Stanzia. La abitudine poi de le rime,che sono ne la fronte e ne la sirima,è sì ampla, che 'l pare che ogni    atta licenzia sia da concedere a ciascuno , m a non di meno le desinenzie de gli ultimi versi sono bellissime, se in rime accordate si chiudeno; il che però è da schifare ne i piedi, ne i quali ritroviamo essersi una certa abitudine servata ; la quale dividendo dicemo, che il primo piè di versi pari, o dispari , si fa ; e l'uno e l'altro può essere di desinenzie accompagnate,o scom pagnate ; il che nel pie diversi pari non è dubbio ; m a se alcuno dubitasse in quello di dispari, ricordisi di ciò che avemo detto nel Capitolo di sopra del trisillabo,quando essendo parte de lo endecasillabo , come Eco risponde. E se la desinenzia de la rima in un de i piedi è sola, bisogna al tutto accompagnarla ne l'al tro;ma seinun piedeciascuna delerimeè accompagnata, si può ne l'altro o quelle ripe tere, o farne di nuove,o tutte,o parte,se condo che a l'uom piace,pur che in tutto si servi l'ordine del precedente : verbigrazia , se nel primo piè di tre versi le ultime desinenzie s'accordano con le prime, così bisogna accor darvisi quelle del secondo ; e se quella di mezzo nelprimo pièèaccompagnata,oscompagnata; così parimente sia quella di mezzo nel secondo piè; e questo è da fare parimente in tutte le altre sorti di piedi. Ne i Versi ancora quasi sempre è a serbare questa legge; e quasi s e m pre dico, perciò che per la prenominata con catenazione,e per la predetta geminazione de le ultime desinenzie,ale volte accade il detto or 8    + Il testo latino ha : cum in isto libro nil ulterius de r i t h i m o r u m doctrina t a n g e r e i n t e n d a m u s . E si d o v r e b b e tradurre : che in questo libro non vogliamo parlar pivo della dottrina delle rime. 2 Nel Corbinelli questo ultimo capitolo è diviso in due . Il decimoterzo finisce con le parole : tanta sufficiant. (a bastanzasarà.);e il decimoquartocominciaconleparole:  , dine mutarsi. Oltre di questo ci pare conve nevol cosa aggiungere a questo Capitolo quelle cose, che ne le rime si denno schifare ; conciò sia che in questo libro non vogliamo altro, che quello che si dirà de la dottrina de le rime toccare 1. Adunque sono tre cose, che circa la posizione di rime non si denno frequentare da chi compone illustri poemi ; l'una è la troppa repetizione di una rima,salvo che qualche cosa nuova ed intentata de l'arte ciò non si as suma ; come il giorno de la nascente milizia, il quale si sdegna lasciare passare la sua gior nata senza alcuna prerogativa. Questo pare che noi abbiamo fatto ivi, « Amor,tu vedi ben,che questa donna;» la seconda è la inutile equivocazione, la qual sempre pare che toglia qualche cosa a la sen tenzia ; e la terza è l'asperità de le rime, salvo che le non siano con le molli mescolate; per ciò che per la mescolanza de le rime aspere e delemollilatragediaricevesplendore.E que sto de l'arte, quanto a l'abitudine si ricerca, a bastanza sarà 2.Avendo quello che è de l'arte   ' Il testo latino ha : discretionem facere, che qui vale trattare partitamente.  de la Canzone assai sufficientemente trattato , ora tratteremo del terzo , cioè del numero de i versi e de le sillabe. E prima alcune cose ci bisognano vedere secondo tutta la Stanzia, & altre sono da dividere, le quali poi secondo le parti loro vederemo.A noi adunque prima s'ap partiene fare separazione 1 di quelle cose, che ci occorrono da cantare ; perciò che alcune Stanzie amano la lunghezza, & altre no ; con ciò sia che tutte le cose che cantiamo, o circa il destro o circa il sinistro si canta ; cioè che alcuna volta accade suadendo , alcuna volta dissuadendo cantare, & alcuna volta allegran dosi , alcuna volta con ironia, alcuna volta in laude, & altra in vituperio dire. E però le p a role , che sono circa le cose sinistre , vadano sempre con fretta verso la fine, le altre poi con longhezza condecente vadano passo passo verso l'estremo Ex quo quo sunt artis.... (Avendo quello che è de l'arte .... ); ed ha il titolo seguente : De numero car minum et syllabarum in Stantia.(Del numero dei versi e delle sillabe nella Stanzia.)Alighieri. Keywords: lingua del si, la divina implicitura, lasciate ogne [sic] speranza voi ch’entrate, inferno – section on ‘divina commedia’ in philosophical dictionaries. ‘inferno’ catabasis, -- la catabasis d’Enea di Virgilio --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alighieri” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Aliotta (Palermo). Filosofo. Grice: “I like Aliotta; he has philosophised on most things I’m interested in: ‘la guerra eterna’ is a bit of a hyperbole if you go by a principle of helpfulness, but that’s Aliotta! – He has focused on Lucrezio, which is fine – But he has also studied ‘colloquenza romana’ systematically – and more into the Italian rather than Roman idiom, he has explored Galileo (not the father, thouh: “Some like Galileo Galiei, but Vincenzo Galilei is MY man); he is also like me a ‘philosophical psychologist,’ along the lines of Stout and Wundt, that is – he as given proper due to the idea of ‘esperienza’ – unlike Oakeshott, who abuses of the notion! – and indeed, others see his attachment to ‘esperienza’ as an ‘ism’ (lo sperimentalismo).  He has also discussed the semiotics of Vico, and the idea of life-form, following Witters (‘cricket come forme di vita’). And he has explored one intriguing idea, that the so-called ‘meaning’ of life (‘il significato del mondo,’ actually) is that of ‘sacrificio’ which is very fine with me – but then it would, since I like ‘Another country’ – the ‘sacrifice’ -- He Antonio Aliotta (n. Palermo), filosofo. Fu componente dell'Accademia Nazionale dei Lincei, nonché dell'Accademia Pontaniana e della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti. Fondò la rivista internazionale di filosofia Logos e fu autore di una decina di monografie.  Allievo di Felice Tocco e Francesco De Sarlo, fu influenzato molto dalla concezione della conoscenza scientifica del secondo, che si rifaceva alle teorie di Franz Brentano.  Nel primo periodo della sua vita, Aliotta si interessò in particolar modo alla psicologia sperimentale come ricercatore, mentre in un secondo periodo, approssimativamente dal 1944, rivolse il suo interesse alla filosofia e all'epistemologia.  Tra i suoi allievi vi furono Nicola Abbagnano, Paolo Filiasi Carcano, Cleto Carbonara, Renato Lazzarini, Giuseppe Martano, Alberto Marzi, Nicola Petruzzellis, Michele Federico Sciacca, Luigi Stefanini, anche se la sua indole non dogmatica e aperta "a diverse culture e suggestioni" non diede luogo alla formazione di una vera e propria scuola riferibile al suo nome, ma incoraggiò i suoi allievi a indirizzarsi su percorsi culturali autonomi, emancipandosi dall'egemonia esercitata dal neoidealismo di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile.  Al suo magistero può essere associato anche la figura dello psicanalista Cesare Musatti, che si indirizzò allo studio della psicologia dopo aver assistito alle lezioni sull'argomento tenute da Aliotta all'Padova nell'anno accademico 1915-16.  Il 19 febbraio 1951 divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino.  A lui è intitolato il dipartimento di filosofia dell'Università degli studi di Napoli "Federico II".  Pensiero Psicologia Nella sua prima fase, prettamente psicologica, agli inizi del nuovo secolo, Aliotta afferma che i fatti psichici non possono essere quantificati come avviene con i fatti fisici esistenti e misurabili, in quanto i fatti psichici sono elementi costitutivi della coscienza. La psicologia, perciò, essendo una scienza empirica che studia i fatti psichici interni al soggetto, avrebbe dovuto servirsi del metodo dell'introspezione, riferendosi a formulazioni matematiche al solo scopo simbolico.  La filosofia La particolare concezione della conoscenza dell'autore, intesa né come esistente in sé, né come iscritta nel processo dialettico del pensiero, lo allontanò sia dalle posizioni positiviste che da quelle neoidealiste.  Nelle sue opere emerge una visione contraria all'idealismo: né Hegel, nemmeno Fichte, né tanto meno Schelling col loro proposito di racchiudere tutta la realtà nel pensiero, sebbene con sfumature diverse, soddisfano Aliotta, che invece paragona il pensiero a un processo vivente, costruito da tanti centri individuali tesi verso una armonia, continuatrice dei fenomeni dell'universo. Aliotta si sofferma sulla coordinazione delle conoscenze, sulle intese fra le persone, sulla sintesi della scienza e soprattutto sulla ricerca filosofica a cui assegna il compito particolare di supervisione dei campi di conoscenza con il fine di limitarne i dissidi e di ampliare, il più possibile, il punto di vista delle scienze particolari. Aliotta afferma che l'unico metodo che consente la ricerca della verità sia l'esperimento; la verità stessa non è assoluta e unica ma prevede vari livelli, i superiori dei quali sfruttano e inglobano quelli inferiori. La ricerca filosofica possiede, secondo l'autore, un formidabile strumento di indagine e di verifica che si chiama "storia".  In alcuni scritti successivi ("Il sacrificio come significato del mondo",1947), pubblicati nel secondo dopoguerra, Aliotta sembra avvicinarsi a un modello di pensiero a metà strada tra il pragmatismo e lo spiritualismo, nel quale mette in rilievo l'esperienza morale e il sacrificio, considerato come l'esempio di realizzazione più elevato, sia per l'individuo sia per la collettività.  L'affermarsi dello sperimentalismo produce in Aliotta una serrata critica all'astratto intellettualismo nonché apre la strada alla ricezione di studi avanzati sulla cosiddetta 'filosofia scientifica', in un panorama di reazione idealistica contro la scienza e di graduale affermazione in Italia di scienze come la sociologia (Guglielmo Rinzivillo, Antonio Aliotta. L'idea scientifica dello sperimentalismo in Una epistemologia senza storia, Roma, Nuova Cultura, 197 e sg.  978-88-6812-222-5).  Opere principali “Platone”, “Aristotele”; “Lucrezio”; “Epitteto”. La reazione idealistica contro la scienza; La guerra eterna e il dramma dell'esistenza; L'estetica di Kant e degli idealisti romantici; Il sacrificio come significato del mondo; Il relativismo dell'idealismo e la teoria di Einstein”; “Evoluzionismo e spiritualismo”; “Il problema di Dio e il nuovo pluralismo”; “Le origini dell'irrazionalismo contemporaneo”; “Pensatori tedeschi della prima metà dell'Ottocento”; “Critica dell'esistenzialismo”; “L'estetica di Croce e la crisi dell'idealismo italiano”; “Il nuovo positivismo e lo sperimentalismo”; “Cinquant'anni di relatività” (Edizioni Giuntine e Sansoni Editore).  Note  Vedi S. Belardinelli, in Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in .  Sergio Belardinelli, «ALIOTTA, Antonio» in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 34 (1988)  Antonio ALIOTTA, su accademiadellescienze. 9 luglio .  Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, Utet, 1995235, voce "Aliotta".  Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, Utet, 1995236, voce "Aliotta".  Michele Federico Sciacca , Lo sperimentalismo di A. Aliotta, Napoli, 1951. Nicola Abbagnano Antonio Aliotta, in "Rivista di Filosofia", 1964, 55,  442–448. Adriana Dentone, Il problema morale e religioso in Aliotta, Napoli, 1972. Luciano Mecacci, Antonio Aliotta, in: Guido Cimino, Nino Dazzi , La psicologia in Italia: i protagonisti e i problemi scientifici, filosofici e istituzionali: Milano, LED, 1998,  391–402. «ALIOTTA, Antonio» Enciclopedia ItalianaII Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, 1948. Sergio Belardinelli, «ALIOTTA, Antonio» in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 34, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1988. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Antonio Aliotta Collabora a Wikiquote Citazionio su Antonio Aliotta  Antonio Aliotta, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Antonio Aliotta, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Antonio Aliotta, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Aliotta, .  Opere di Antonio Aliotta consultabili nell'Archivio di Storia della Psicologia, su archiviodistoria.psicologia1.uniroma1. 16 dicembre  12 luglio Filosofia Filosofo del XX secoloAccademici italiani Professore1881 1964 18 gennaio 1º febbraio Palermo NapoliAccademici dei LinceiProfessori dell'Università degli Studi di Napoli Federico IIMembri dell'Accademia delle Scienze di Torino. Antonio Aliotta. Aliotta. Keywords: l’implicatura di Lucrezio, sacrificare, significare, sacrificare, guerra eternal. aliotta — l’implicatura di lucrezio — il filosofo di campagna — la guerra eterna — sacrificare/significare — croce — il latinismo dello storicismo — galilei — vico – epicureismo campano -- Refs.: Luigi Speranza, Grice ed Aliotta” – The Swimming-Pool Library.

 

allegretti: Grice: “I love Alegretti; very Italian; imagine: after tutoring for a while on dialettica at Firenze,, he retires to Villa Allegretti, Rimini, where he philosophises ‘De propositionibus’ (sulle enunciate) as part of the Dialettica!”  Grice: “He was so proud of the meetings at his villa that he called it ‘our Parnassus’!” Grice: “Allegretti’s idea of the villa meetings was modeled after Plato who, with fewer means, met at the gym in theVIlla Echademo!” -- – cf. Raffaello, “Il Parnaso.” -- Stemma della famiglia Allegretti Coa fam ITA allegretti Blasonatura cuore d'oro su campo azzurr. Noto per aver fondato, secondo alcuni storici, la prima accademia letteraria d'Italia.  Fu figlio di Leonardo Allegretti, giudice a Forlì, di parte guelfa. Apparteneva ad un'antica e cavalleresca famiglia, il cui capostipite fu Mazzone Allegretti (o Mazzonius Alegrettus), che nel 1095 prese parte alla prima crociata in Terra Santa e per “arma” scelse un “cuore d'oro su campo azzurro”.  Lesse filosofia a Bologna,  logica e filosofia a Firenze.  Fonda la prima accademia con un gruppo di intellettuali: Francesco dei Conti di Calbolo, Azzo e Nerio Orgogliosi, Giovanni de' Sigismondi, Andrea Speranzi, Rinaldo Arfendi, Valerio Morandi, Giovanni Aldrobandini, Spinuccio Aspini e Paolo Allegretti. Per motivi politici, gli Ordelaffi, signori di Forlì ghibellini, imposero il confino a Giacomo e al fratello Giovanni. Si trasfere perciò a Rimini. Richiamato dall'esilio, coinvolto in una faida familiare degli Ordelaffi, fu nuovamente costretto a fuggire a Rimini, ove fonda una nuova Accademia, l'Accademia dei Filergiti, con vocazione insieme letteraria e scientifica.  La sua prosapia si estinse per linea maschile ma s'innestò negli Aspini mediante una Margherita di Francesco Allegretti, che sposò un Lodovico, che fu erede degli averi e del cognome degli Allegretti. Si trova il seguito di questa famiglia nel senese e nel modenese (a Ravarino).  Note  Fonte: F. Valenti, Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in . Opere Nel XIV secolo, la sua opera principale era considerata il “Bucolicon”.  Ma scrisse anche:  un epicedio per la morte di Galeotto I Malatesta, signore di Rimini; un carme al Conte di Virtù; un carme per la "divisa della tortora"; Eglogae, in lingua latina; un carme sulla "bissa milanese", cioè lo stemma dei Visconti, il biscione.  Giorgio Viviano Marchesi, Memorie storiche dell'antica, ed insigne Accademia de' Filergiti della città di Forlì ..., Forlì, per Antonio Barbiani, 1741. Paolo Bonoli, Storia di Forlì scritta da Paolo Bonoli distinta in dodici libri corretta ed arricchita di nuove addizioni, 2 voll., Forlì, Luigi Bordandini, Filippo Valenti, ALLEGRETTI, Giacomo, in Dizionario biografico degli italiani, II, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1960. Opere di Giacomo Allegretti, Filosofi.  ALLEGRETTI, Giacomo. - Nacque, presumibilmente, a Ravenna, da Leonardo Allegretti, appartenente a famiglia guelfa di Forlì, in un anno da porsi tra quelli immediatamente precedenti il 1326. È supposizione abbastanza fondata (cfr. Massera, p. 156) che nel 1357 leggesse filosofia nello Studio bolognese; certo, nel 1358-59 fu lettore di dialettica e di filosofia a Firenze, dove rimase almeno fino al 1365.Benché se ne perdano poi le tracce, è indubbio che si trovava da qualche tempo a Forlì quando, nel 1376, fu colpito, nella sua qualità di guelfo, dal bando di Sinibaldo Ordelaffi. Ma la fama di dottrina in diverse materie -filosofia, astrologia, medicina -che lo circondava, era tale che egli fu ben presto richiamato alla corte forlivese, dalla quale, però, dovette di nuovo fuggire nel novembre del 1384 per aver rivelato, nella sua qualità di astrologo, ma senza essere creduto, la congiura che Pino e Cecco Ordelaffi stavano tramando contro Sinibaldo, loro zio. L'A. si rifugiò a Rimini, dove fu precettore del giovane Carlo Malatesta, allora succeduto al padre Galeotto (m. 21 genn. 1385), e medico presso la corte. A Rimini l'A. possedette una villa, luogo di raccoglimento, di studio e, forse, di dotti convegni, cui si compiaceva di dare il nome di Parnaso; donde la notizia, tratta dagli Annali forlivesi di Pietro Ravennate, secondo cui l'A. "Arimini novum constituit Parnasum",notizia ripetuta ed elaborata poi da vari scrittori nel senso, del tutto fantastico, che egli fondasse già allora una vera e propria Accademia. Negli ultimi anni della sua vita ebbe rapporti abbastanza stretti con la corte viscontea. Morì a Rimini nel 1393.  L'A. godette di non piccola fama presso i contemporanei. Citato, come astrologo, nel terzo trattato del De fato et fortuna di Coluccio Salutati, fu in diretta corrispondenza col Salutati medesimo, di cui si ha una lettera a lui con unito un lungo carme latino (Epistolario,I, pp. 279-288), e con Antonio Loschi, del quale si conservano due epistole metriche (ed. in Massera, pp. 193-203) a lui dirette.  Fatta eccezione per un problematico trattato in prosa De propositionibus,attribuitogli da L. Cobelli (sec. XVI) nelle sue Cronache forlivesi (Bologna 1874, p. 21), tutte le opere dell'A. di cui si ha notizia si riferiscono alla sua attività di poeta latino. Ci rimangono: un lungo carme (317 esametri) a sfondo mitologico-pastorale intitolato Falterona,pieno di contorte allegorie politiche (Venezia, Bibl. Marciana, cod. lat.cl. XIV, 12); un componimento a carattere araldico-encomiastico dedicato a Gian Galeazzo Visconti (edito da F. Novati nel 1904 in appendice allo studio Il Petrarca ed i Visconti in F. Petrarca e la Lombardia,Milano 1904, pp. 82-84); un Epitaphium inonore di Galeotto Malatesta (Milano, Bibl. Ambriosana, cod. P 256);un carme Ad Ludovicum Ungariae inclitissimum Regem (Venezia, Bibl. Marciana, cod. lat.cl. XIV, 12). La sua fama, però, era legata soprattutto ad un'opera ora perduta, il Bucolicon,che Flavio Biondo, nella sua Italia illustrata (Basilea 1559, p. 347), giudicava seconda soltanto alle Bucoliche di Virgilio e che il Massera (pp. 182-188) ha tentato con buoni argomenti di identificare in una raccolta di egloghe di maniera stampata nel sec. XVII e attribuita in un primo tempo ad Albertino Mussato. All'A., infine, come opinò il Sabbadini, andrebbero attribuiti i cosiddetti Endecasyllabi di Gallo, che egli avrebbe, secondo la tradizione, scoperti a Forlì nel 1372, ma che, invece, molto probabilmente contraffece, credendo erroneamente che quell'antico poeta fosse nativo di Forlì.   Fonti e Bibl.: Epistolario di Coluccio Salutati,a cura di F. Novati, I, Roma 1891, in Fonti per la storia d'Italia,XV, pp. 41, 279, 281, 282; III, ibid. 1896, ibid.,XVII, pp. 536, 538; IV, 1,ibid. 1905, ibid.,XVIII, pp. 14, 230; R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli XIV e XV,Firenze 1905, p. 179; E. Carrara, La Poesia pastorale,Milano 1919, p. 142; A. F. Massera, Iacopo Allegretti da Forlì,in Atti e memorie d. R. Deput. di storia patria per le prov. di Romagna,s.4, XVI (1925-26), pp. 137-203; L. Thorndike, A history of magic and experimental science,III, New York 1934, pp. 515-517; L. Bertalot, L'antologia di epigrammi di Lorenzo Abstemio nelle tre edizioni sonciniane,in Miscellanea Mercati,IV, Città del Vaticano 1946, p. 311.  La stessa origine hanno le presunte accademie di Rimini e di Forli, che gli scrittori fanno fondare negli ultimi decenni del se colo xiv a Iacopo Allegretti da Mantova, uomo versato cosi nella medicina e nell'astrologia come nelle lettere.Anche in questo caso la più antica affermazione in proposito non risale a nostra notizia al di là della seconda metà del secolo XVII.Uno storico di Forli, Paolo Bonoli, appunto nelle sue Istorie della Città di Forlì?al l'anno 1369 dice: « Strepitava ancora di Forlivesi la fama di G i a como Allegretti, Filosofo, Medico, Poeta et Astrologo; compose anch'egli la Bucolica, che doppo quella di Virgilio non vede forse ilmondo lapiùbella;traletenebre dell'antichità,manifestó molte compositioni del nostro C. Gallo,e in Rimini,ove poi ricovrossi, per schivar l'ira degli Ordelaffi, erresse una fioritissima Accade mia.».La notizia passa indi nel proemio delle Leggi vecchie,di stinte in XII Tavole, dell'antica Accademia de'Filergiti della città di Forlì e nuovi ordini-sopra essa Accademia, stampate nel 1663, aggiungendovisi però oltre l'Accademia riminese anche un'Acca demia in Forli,che sarebbe pure stata fondata dall'Allegretti,e che più tardi, organizzatasi, divenne l'Accademia dei Filergiti. «G i a como Allegretti – vi si dice – Filosofo e poeta illustre, trecento anni or sono,non si contentò di esercitare in Forli sua patria vir. tuose sessioni, che ancora in Rimino, dove sbandito ricovrossi, er gette una nuova Accademia ».3 Queste parole furono ripetute tali e quali da G. Garuffi Malatesta nel L'Italia Accademica 4; però nella parte ancora inedita di quest'opera che giace nella Gamba lunghiana, e dove si tratta appunto in particolare delle Accademie | Francisci Petrarcae Epistolae de Rebus Familiaribus et Variae, curate da GIUSEPPE FRACASSETTI.Volume III.Firenze 1863, p.39. 2 Forli, 1661 ; p. 168. 3 In Memorie storiche dell'antica ed insigne Accademia de'Filergiti della città di Forlì già citate:a p.338-340. 4Rimini,1088;p.116.  136   Ma anche qui,come dicevamo,sitrattadiunabbaglio.Aspet tando che maggior luce venga data in proposito in quella vita del l’Allegretti,che il Novati ha promesso da parecchio tempo,4 basterà notare che a base delle notizie circa queste due Accademie stanno leseguentiparoledegliAnnalesForolivienses5:«Anno Domini 1372 tempore Ecclesiae Arces in his civitatibus factae sunt: B o noniae, Imolae, Faventiae et Forolivii. Iacobus Allegrettus Forli viensis poeta clarus agnoscitur, qui plures Endecasyllabos Galli civis Forliviensis poetae invenit et Arimini novum constituit Par Quest'ultima parola fu interpretata senz'altro per Ac cademia, a cui, come al solito,furono ascritti i personaggi princi pali del tempo,perfino il Petrarca, come abbiamo visto. | Cfr.La Coltura letteraria e scientifica in Rimini lal secolo XIV ai pri. mordi del XIX di Carlo Tonini.Vol.I,Rimini 1881,p.70. 20.c.p.9sgg.;cfr.anchedelmedesimo:VitaeVirorum Illustrium Foroliviensium.Forli 1726,p.237. 3 Cfr.Della vita e delle opere di Antonio Urceo detto Codro di Carlo MALAGOLA.Bologna 1878,a p.163. 4 Cfr.Epistolario di Coluccio Salutati per cura di FRANCESCO Novati, Vol.I,Roma 1892,p.279,nota 1. 5 Rerum Italicarum Scriptores.Tomo XXII.Milano 1733,col.188.  137 di Rimini, egli dice di più che l'Accademia fondata dall'Allegretti in Rimini si radunava in una sala del palazzo Malatesta, adornata dei ritratti dei poeti ed oratori più celebri del tempo,e che vi era ascritto anche il Petrarca.1 Il già citato Marchesi dal canto suo circa l'Accademia fondata dall'Allegretti in Forli dice che costui « lasciata da parte la se verità degli studi astronomici,medici e filosofici, ne'quali aveva spesi con molta gloria isuoi giorni,finalmente l'anno 1370,rac colti in una degna Assemblea gl'intelletti più perspicaci,fece la memorabile fondazione,benchè senza nome particolare,regolamento ed impresa, invenzioni delle succedute età, ma col solo generico d ' A c c a d e m i a . F u r o n o i s u o i c o l l e g h i, o p i u t t o s t o d i s c e p o l i F r a n c e s c o dei Conti di Calbolo,Azzo e Nerio Orgogliosi,Giovanni de'Sigi s m o n d i, A n d r e a S p e r a n z i , R i n a l d o A r s e n d i , V a l e r i o M o r a n d i , G i o vanni Aldobrandini, Spinuccio Aspini e Paolo Allegretti, tutti illustri per sangue, ed assai più per l'affetto che professavano per le belle arti.Per le frequenti sessioni che, tenevano a porte aperte, e per gli ammaestramenti e saggi dati dal Fondatore, s'avanzarono molto iprimi Accademici colla coltivazione della poesia,sopra ogni altra scienza da essi tenuta in pregio ».? Esiliato poi l'Allegretti daForli,l'Accademiaandòdispersa,eleraunanze vennero riprese solo nel secolo xv per opera di Antonio Urceo.3 18 nasum >> DELLA TORRE   Orbene si osservi che l'Allegretti fu in Rimini maestro di Carlo Malatesta '; e qual cosa più naturale che assieme al Malatesta si trovassero altri giovani delle principali famiglie Riminesi ? Epperò quel Parnasum va senza dubbio inteso per scuola di umanità e non già per Accademia nel senso che l'intendono gli scrittori su riferiti. Quanto poi all'Accademia di Forli, come osserva giustamente ilTiraboschi,?severamentefosseesistita,loscrittoredegli An nales Forolivienses che nota il Parnasum aperto dall'Allegretti in Rimini, avrebbe a tanto maggior ragione notata un'Accademia. fondata in Forli, le cui vicende appunto egli si propone di nar rare;ed invece nulla.Come alsolito,gli scrittoridicose forlivesi, che, interpretando Parnasum per Accademia credevano che l'Alle gretti avesse fondata appunto un'Accademia in Rimini, sapendo che l'Allegretti era stato anche a Forli,gliene fecero fondare sen z'altro una anche in Forli,ascrivendovi come al solito quanti in quel tempo vi erano di uomini insigni per ingegno e per cultura. E con questa mania, sempre nel secolo Xvir, si andò tanto oltre, che si raggrupparono insieme perfino gli architetti del duomo di Milano per farne un'Accademia;laqualesarebbe cominciata verso l'anno 1380, mentre Giovan Galeazzo Visconti andava pensando di gettar le fondamenta del D u o m o : vi si sarebbe atteso « a quella maniera di fabricare,che i moderni chiamano Alemana »; avrebbe àvuto sede « nella Corte ducale compiacendosi in estremo quello stesso Duca del fabricare e dell'udirne talvolta discorrere i m a g giori architetti di que'tempi, ch'erano Giovannuolo e Miche lino, da'quali furono ammaestrati i compagni di Bramante » 3 Non occorre certamente fermarci piú a lungo per dimostrare l'as surdità di queste affermazioni:basti il dire che questa volta a base di esse non sta il più piccolo dato di fatto.4 1Cfr.ANGELO BATTAGLini:Della corte letteraria di Sigismondo Pan dolfo Malatesta Signore di Rimini in Basinii Parmensis poetae Opera prae stantiora. Tomo II,parte I. Rimini 1794,p. 46-47 e Lettera di Coluccio Sa lutati a Carlo Malatesta del 10 settembre 1401 in Epistolario di Coluccio Sa. lutatiacuradiFRANCESCONOVATI.VolumeIV.Roma 1896,p.538:«Velim igitur,simichicredideris,eum (GiovannidaRavenna)decernasintertuos recipere et in locum magistri tui, viri quidem eruditissimi, quondam Jacobi de Alegrettis et in eius provisionem acceptes et loces ». 3 Cfr. GiroLAMO BORSIERI Il supplimento della Nobiltà ili Milano. Milano, 1619,p.37,eZANON,Catalogoetc.inl.c.p.305. 4 Si dia in proposito la più semplice scorsa alla prima parte di Il Duomo di Milano di Camillo Boito, Milano 1889.Jacopo Allegretti. Giacomo Allegretti. Allegretti. Keywords: Bucolicon, Andrea Speranzi, i filergiti, “De propositionibus”, scuola di Firenze, dialettica a Firenze, accademie italiane dall’A alla Z, Andrea Speranzi, il primo accademico italiano a Firenze. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Allegretti” – The Swimming-Pool Library.