allievo: Grice: “I love Allievo; of course he reminds me of all those
scholars back in the day that I relied on for my philosophising on ‘intending’
– since isn’t this an act of the ‘soul’ – I mean Stout, and the rest – I once
was a Stoutian, and then for better or worse, I became a Prichardian!” -- Grice: “Now Oxford never knew what to do with
people like Stout – surely ‘the Wilde’ readership was a possibility, but Lit.
Hum. and the Sub-Faculty of Philosophy always considered ‘mind’ – (as in the
journal, ‘a journal of psychology and philosophy’) secondary to metaphysics! We
thought The Aristotelian Society had more prestige than the Mind Association,
and we still do!” – Grice: “So Allievo, like myself, was fascinated by Stout
and Spencer and Bain and – in the continent, closer to Allievo, and always
having more prestige than the barbiarian islanders! – Grice: “Add to that the
charm of his italinanness versus the Germanic coldness of a Wundt – his name is
unpronounceable to Allievo – and you get to the heart of his philosphising on
‘psicofisiologia’ – where the ‘io’ meets the ‘tu’ – and his focus, having
studied the philosophical tradition in Rome – to ‘educatio fisica’ – which obviously
needs to be psicofisica!” -- Wundtan d Flechner!” – Giuseppe Allievo (San
Germano Vercellese) filosofo. Frequentò
la facoltà di filosofia dell'Torino e seguì l'insegnamento di Giovanni Antonio
Rayneri, sacerdote e filosofo di matrice rosminiana. Laureatosi il 18 luglio 1853 insegnò
pedagogia a Novara, a Domodossola, dove conobbe Rosmini, e a Ivrea e nel
Collegio di Ceva. A Domodossola pubblicò i suoi primi saggi e scrisse articoli
per la Rivista contemporanea di Luigi Chiala.
Arrivò alla cattedra di pedagogia a Torino (1869). Cattolico
spiritualista, fu propugnatore del cosiddetto sintesismo degli esseri,
principio secondo il quale «nessuna parte di un ente può sussistere divisa dal
tutto dell'ente stesso, e nessun essere può sussistere né operare diviso dagli
enti che costituiscono l'universo». Il
13 gennaio 1895 divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino. Pensiero Critico dell'hegelismo, soprattutto
per motivi religiosi, Allievo sosteneva doversi rifare alla tradizione
filosofica spiritualista italiana per combattere sia la dottrina hegeliana che
quella positivista che nella pedagogia si stava in quegli anni diffondendo in
Italia. Rimase fino al 1912 nell'Torino
insegnando pedagogia e dedicandosi a ricerche di antropologia e pedagogia. Fu
autore anche di un'opera di vaste proporzioni dedicata a Il problema metafisico
studiato nella storia della filosofia, dalla scuola ionica a Giordano Bruno
(Torino 1877). Opere principali: “Saggi
filosofici”; “Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia”; “Studi
antropologici”; “L’uomo e il cosmo”; Si espone e si disamina l'opinione
del Brothier. Si espone e si giudica la teoria di G. A. Hirn. Segue
l'esposizione critica della teoria di G. A. Hirn -- Luigi Büchner -- Si pone la
questione e si accenna il come risolverla -- Si accenna la differenza tra
l'uomo ed il bruto. Concetto definitivo dell'antropologia. Valore ed importanza
dell'antropologia -- Del metodo in antropologia Divisione dell'antropologia --
Concetto della persona umana -- Analisi della persona umana -- La virtù
intellettiva -- Della coscienza personale -- La coscienza di sè e la conoscenza
esteriore -- Individualità soggettiva della conoscenza esteriore --
Universalità oggettiva della conoscenza esteriore -- Il potere animatore ed
affettivo -- Del corpo umano in sè e nelle sue attinenze col potere animatore
-- L'organismo esanime ed il potere animatore -- Unità sintetica della persona
umana TEORICA DELLA VITA UMANA -- La vita latente anteriore alla nascita --
L'infanzia -- Le prime origini dei problemi psico-fisiologici. L'attività
volontaria -- La suprema libertà dello spirito -- Varie forme della personalità
umana derivanti dall'attività volontaria -- Attinenze tra la facoltà
conoscitiva e l'attività volontaria -- Corrispondenza dell'organismo col potere
affettivo -- Trapasso dalla teorica dell'essenza umana alla teorica della vita
umana -- Il corso della vita umana -- Della conoscenza esteriore -- Mente e
corpo distinti ed uniti nella persona umana -- La gioventù -- La virilità -- I
poteri della vita -- Teorica della sensitività -- L'atteggiamento
esteriore dell'organismo ed il potere animatore -- Concetto comprensivo della
persona e dell'essenza umana La vita maschile -- La vecchiaia -- Delle potenze
in riguardo all'oggetto -- Delle potenze in rapporto col soggetto umano --
Delle potenze umane in particolare -- Specie del potere affettivo -- Del potere
animatore -- Distinzione essenziale tra la mente e l'organismo corporeo --
Unione personale della mente coll'organismo corporeo -- Del potere affettivo --
Carattere universale ed ufficio del sentimento -- Concetto e forme della vita
umana -- La vita propria e la vita comune -- Divisione del corso temporaneo
della vita ne'suoi periodi fondamentali -- Durata della vita umana -- Dei
periodi della vita umana in particolare -- Considerazioni generali in torno i
periodi della vita -- La vita oltremondana -- Delle potenze umane in generale
-- Delle potenze considerate nel loro sviluppo -- La vita fisica e la vita
mentale -- Del senso fisico e delle sensazioni -- Del senso spirituale e de'
sentimenti -- Del sentimentalismo -- Dell'istinto -- Della percezione sensitiva
-- Della fantasia sensitiva -- Teorica dell'intelligenza -- Della speculazione
e della memoria. Dell'intelligenza in riguardo al soggetto conoscente --
Dell'intelligenza in riguardo all'oggetto pensabile -- L'esperienza e --
L'intelligenza umana e LA PAROLA -- Dell'immaginazione. Concetto generale
dell'immaginazione. Specie dell'immaginazione. Efficacia dell'immaginazione.
Delle potenze estetiche. Teorica della volontà. Potere della volontà. L'operare
della volontà. La libertà del volere. TEORICA DEL CARATTERE UMANO E DEL
TEMPERAMENTO -- Ragione e genesi del carattere -- Concetto generale del
carattere id . Dell'intuizione. Dell'attenzione intermedia tra l'intuizione e
la riflessione -- Della riflessione -- Dell'istinto in ordine all'oggetto --
Trapasso dalla teorica della sensitività alla teorica dell'intelligenza --
Concetto generale dell'intelligenza -- Dell'intelligenza in riguardo al
soggetto pensante -- La libertà del volere e la scuola positivistica -- Critica
del determinismo positivistico -- La libera volontà e l'ambiente Art.7.
Sintesismo dei poteri della vita -- Del senso -- Dell'istinto rispetto allo
scopo la ragione -- Dell'intelligenza in riguardo all'oggetto conosciuto -- Del
carattere in ispecie -- Del carattere riguardato nella sua fonte -- Del
carattere rispetto alle potenze ed alle forme dell'attività umana -- Del
carattere morale -- Il carattere umano nella specie, nelle stirpi, nelle
nazioni -- Del temperamento -- De'temperamentiinparticolare -- De'temperamenti
in rapporto fra di loro “Studi pedagogici”; “Attinenze tra
l'antropologia e la pedagogia”; Il linguaggio e la scrittura --
Dell'attenzione -- Dell'immaginazione sensitiva -- Dell'arguzia -- Della
riflessione -- La memoria ed il ricordo -- Educazione del senso del bello -- La
Levana di Giovanni Paolo Richter – Cenni biografici dell'autore --- Concetto
generale -- Importanza ed efficacia dell'educazione -- La Levana o Scienza
dell'educazione -- Appendice: Dell'educazione fisica infantile --
Dell'educazione della donna. “Esame
dell'hegelianesimo”; “Il ritorno al principio della personalità”. Note
Fonte: Francesco Corvino, Dizionario biografico degli Italiani alla voce
corrispondente in F. Corvino, Op. cit.
ibidem Giuseppe ALLIEVO, su accademia
delle scienze. Giuseppe Allievo, su Treccani Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Giuseppe Allievo, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Giuseppe Allievo, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di
Giuseppe Allievo, su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Giuseppe
Allievo, Filosofia Filosofo del XIX
secoloFilosofi iSan Germano Vercellese Torino Membri dell'Accademia delle
Scienze di Torino. L'intelligenza umana e la PAROLA (dal greco, parabola) sono due
termini,che mostrano l'uno verso l'altro armonica corrispondenza e
vicendevolmente si spiegano e s'illustrano, come lo spirito ed il corpo
nell'uomo. Il conoscere ed il sapere umano ritrae dalla ‘parola’, che lo
riveste, una peculiare impronta, che lo distingue dal conoscere proprio degli spiriti
puri, e la lingua rivela la tempra mentale. L'intelligenza infantile si schinde
dal suo germe in grazia della ‘parola’, con essa va via via sviluppandosi e
progredendo, con essa ha comuni le vicende e le fasi. Infatti, la ‘parola’ torna
necessaria all'effettivo pensare, all'effettivo conoscere. Finchè il pensiero non
si concreta nella ‘parola’, ed in essa per così dire non s'incorpora, nès'incarna,
è inconsistente, sfuggevole, vago, non per anco formato, ma solo rudimentale ed
appena sbozzato. Le percezioni, che si hanno degli oggetti esterni mercè
isensi, sono confuse, indistinte, e si dileguano col dileguarsi degli oggetti
percepiti. Ben si possono in certo qual modo fissare colle immagini, le quali
rimangono anche nell'assenza degli oggetti materiali. Ma le immagini sono pur
sempre *individuali*, come gli oggetti, cui si riferiscono, e per di più
sfuggevoli e vane.Veri pensieri e vere cognizioni propriamente dette non si
hanno se non mercè la ‘parola’. E e questa torna tanto più necessaria, quanto
più la idea da SIGNI-ficare (o segnare) e generale ed astratta, ed ecco ragione
per cui I BRUTI NON ‘PARLANO’ (Monkeys can talk) siccome quelli, che sono destituiti
della facoltà di generaleggiare e di astratteggiare. Che se ponga si mente non
più alla percezione esteriore, ma alla ragione ed alle funzioni diverse della
riflessione, la necessità della ‘parola’ si chiarisce ancora più evidente a
segno che senza di essa tornerebbe impossibile la formazione di qualsi voglia
specie dell'umano sapere. Se adunque la ‘parola’ è vincolo necessario, che lega
la mente col mondo delle idee e mezzo es -- Vedi la nota g in fine del
volume. Due altre ragioni si aggiungono a confermare vie meglio la
necessità di siffatto studio, l'una sociale, pedagogica l'altra. La ‘parola’ non
solo è mezzo alla formazione dei pensieri e delle idee, ma altre sì organo il più
acconcio A MANIFERSTAR la proposizione ALTRUI, epperò vincolo necessario, che
congiunge l'uomo co'suoi simili in comunanza di vita, condizione potissima
della società umana. Gli spiriti umani, perchè ravvolti nell'involucro dell'organismo
corporeo, non possono rivelarsi l'uno all'altro, nè intendersi, nè mutuamente
rispondersi senza qualche MEZZO SENSIBILE riposto in qualche atto o movimento
del corpo: quale è appunto la ‘parola’, la cui potenza ed efficacia sugli animi
altrui è meravigliosa. Ancora, essa non solo è una necessità sociale, ma altre sì
pedagogica, perchè è vincolo essenziale, che unisce in armonia di intendimenti
e di voleri l'educatore coll'alunno, il maestro col discepolo, tanto chè senza
di essa ogni educazione ed istruzione vera ed efficace rimane un vano e sterile
desiderio. La ‘parola’ e l'immaginazione, quando vengono raffrontate l'una coll'altra,
appariscono convenire insieme in ciò, che entrambe importano una dualità di
elementi, sensibile ed intelligibile [[psico-fisico]] insieme accoppiati, e
sono potenze individualizzatricie rappresentative dell'idea sotto forma
sensibile. Ond'è che tal fiata l'immagine ridesta la ‘parola’, tal altra la ‘parola’
ri sveglia l'immagine, ed amendue rinvengono un punto di comune contatto nel
linguaggio metaforico, figurato, immaginoso. Ciò nulla meno evvi tra queste due
potenze siffatto divario, che l'immagine essenzialmente si di spaia dal
semplice SEGNO, ed oltre di ciò la ‘parola’ è un sensibile tolto dall'organismo
umano, l'immagine per contro è un sensibile attinto dalla natura esterna.
Riguardata nella sua nativa essenza la ‘parola’ può venire definita un
sensibile umano SEGNANTE (o significante) un intelligibile. Umano, dico, perchè
riposto in qualche atto o movimento del nostro corporeo organismo, quale il
gesto, la voce pronunciata ed udita. Rintracciando la ragione spiegativa
dell'essenza della ‘parola’ noi la rinveniamo nell'essenza stessa dell'uomo.
Infatti i due costitutivi della ‘parola’, quali sono IL SEGNO [o SEGNANTE] sensibile e l'e lemento intelligibile [IL
SEGNATO], ritrovano la ragione ed il fondamento loro nei due supremi
costitutivi dell'essere umano, quali sono l'organismo corporeo [il segnante] e
la mente [il segnato]; e come all'essenza dell'uomo torna tanto necessario lo
spirito, quanto il corpo, così è tanto necessario alla ‘parola’ il SEGNO quanto
l' idea significata [IL SEGNATO]. Onde si vede ragione, percui ai bruti,
destituiti di mente, fallisce la ‘parola’. Inoltre a costituire la ‘parola’ non
basta la dualità degli accennati elementi, ma occorre, che siano contemperati
ad unità, essendochè il sensibile debbe essere SEGNO [segnante] di un
intelligibile. -- esenziale alla formazione de' pensieri ed all'acquisto
delle conoscenze effettive, appare manifesto, che l'intelligenza umana, ad
essere compiutamente compresa, va altresì studiata nelle sue attinenze colla ‘parola’.
Ora quest'unità importa un primato dell'intelligibile sul sensibile, ed ha la
sua ragione nel dominio della mente sull'organismo corporeo, ciò è dire
nell'armonia stessa dei due supremi costitutivi dell'uomo. In fatti la mente
nostra padroneggiando l'organismo, con cui è naturalmente congiunta, essa è che
eleva i gesti, la voce, l'udito, il moto delle membra alla virtù di significare
[O SEGNARE] una idea o un sentimento dell'animo, vincolando questi con quelli.
Di qui la bella sentenza di Cicerone intorno l'origine della ‘parola’. Vox
principium a mente ducens (De natura Deorum, lib.2). Nella parola adunque il
segno O SEGNANTE sensibile e l'idea, o IL SEGNATO, sono due termini inseparabili
tanto, quanto sono nell'uomo indisgiungibili lo spirito ed il corpo. Da siffatto interiore e naturale
compenetramento fluiscono alcuni corollarii, che reputo opportuno di accennare.
Il pensiero progredisce di pari passo col linguaggio. La lingua corre le
medesime sorti e segue le stesse fasi che il pensiero,tanto chè la ragion
spiegativa delle origini, dei progressi, delle trasformazionie del corrompersi
di un idioma va rintracciata nello studio delle vicende, a cui soggiace il
pensiero di un popolo, che lo parla. Dichesi pare quanto vadano errati non pochi
cultori della filologia, i quali la segregano onninamente d allo studio del
pensiero umano, di cui il linguaggio è l'ESPRESSIONE esteriore, togliendole di
tal modo il carattere di scienza, non solo, ma trasmutandola in un tessuto di
errori. Lo stampo e l'indole peculiare di un idioma arguisce uno stampo o
tempra singolare di mente in chi lo adopera. Epperò come gli è vero, che la
lingua genericamente presa è nota specifica, che distingue l'umano pensare e
conoscere da quello di altri esseri intelligenti, così è pur vero, che i
differenti idiomi in particolare sono note altresì distintive, che
differenziano le une dalle altre le menti umane individue e nazionali. Tuttavia
in mezzo a questa tra grande varietà di lingue etnografiche apparisce un
fondo comune, su cui tutte sono intessute, e, direi, uno spirito universale,
che tutte le informa e le solleva ad una unità superiore, essendochè la mente
umana, se si manifesta molteplice e varia nelle molteplici nazioni e nei varii
individui, risguardata nella suas pecifica essenza è una ed identica, perchè,
governata dalle medesime leggi logiche e rivolta all'universalità del vero. E
quest’unità radicale delle lingue riverberata dall'unità specifica della mente
umana arguisce logicamente l'unità originaria e specifica del genere umano, come
la loro moltiplicità arguisce la varietà delle razze,in cui esso è distribuito
sulla faccia della terra. Consegue ancora dal principio stabilito, che il
tradizionalismo, il quale pronuncia, che l'uomo riceve dalla società insieme
colla ‘parola’ anche le idee e la virtù dello intendimento, apparisce erroneo,
siccome quello, che disconosce il primato dell'idea sul segno vocale, e
l'ingenita virtù della mente di elevare la voce a dignità dinunzia del
pensiero. Se l'uomo impara dalla società il linguaggio, ciò è dovuto alla
virtù, che possiede la sua intelligenza, di intenderne il significato o SEGNATO.
Infine discende quest'altro corollario, che non manca della sua importanza
pedagogica. Vera istruzione non è, quando il discepolo riceva passive la parola
del maestro, come se questa dia bell'e fatta all'alunno l'idea, la quale invece
vuol essere un portato del suo lavoro mentale, e quindi si deve cooperare alla
forma zione della ‘parola’. Poichè altro è ricevere la ‘parola e meccanicamente
ripeterla, altro è FARLA NOI. IMPLICATURA. La’ parola’ ‘altrui ha sempre
alcunchè di vago, di incerto e di oscuro per CHI LA RICEVE, mentre presenta un
SENSO FERMO e più o men definito per chi
se la forma, come si avvera nella formazione di un neologismo come
‘implicatura’. Il linguaggio umano trae le sue prime origini da quell'impulso
spontaneo della NATURA, che spinge l'infante a significare O SEGNARE mercè di
una GRIDA INARTICOLATA il suo BISOGNO, il suo desiderio, la sua sensazione, e
già abbiamo chiarito altrove, come a poco a poco egli ne abbia svolto il suo
linguaggio ARTICOLATO. Ma la grida primitiva, onde si svolse il linguaggio
articolato e convenzionale, non costituiscono tutto quanto il linguaggio
naturale, spontaneo o di azione, il quale abbraccia altresì IL GESTO, il movimento,
la fisionomia ed altri segni ed atteggiamenti esteriori della persona. Ora
GESTO può anch'esso svolgersi e perfezionarsi, o come complemento del
linguaggio o accompagnando e compiendo il linguaggio articolato, o da sè solo
sotto forma di linguaggio mimico, quale lo scenico dei drammatici e lo
educativo dei sordo-muti. Il linguaggio articolato primeggia sul naturale,
perchè il suono articolato o l'organo vocale, accompagnato dall’organo auditivo
,è più pie ghevole, più facile, più svariato e perfettibile ,più acconcio ad
esprimere le idee in tutte le loro articolazioni. Esso può essere o parlato, o
scritto. La ‘parola’ parlata riesce più viva della scritta, più ESPRESSIVA, più
animata, ma alla sua volta questa è stabile e permanente, quella sfugge vole e
mobile. Il linguaggio articolato riveste forme diverse corrispondenti alle forme
progressive dell'intelligenza nelle varie età degli individui. Quindi si
distingue un linguaggio proprio dell'intuizione e del sentimento, un altro
della riflessione e della coscienza, un altro della scienza e dell'arte. Il
linguaggio dei popoli e degli individui fanciulli è povero, sintetico,
metaforico e figurato. Quello dei popoli e degli individui adulti è più o meno
concettoso, la grammatica ne è fissa, la prosa misurata. Quello dei popoli
colti e dei pensatori è dotto, analitico e sintetico ad un tempo. Imparare a parlare
è qualche cosa di più elevato che non imparare le lingue particolari; e noi
impariamo a parlare apprendendo LA LINGUA MATERNA. Questa lingua, che abbiamo
imparato da piccini, quando la nostra intelligenza cominciava a schiudersi, costituisce
per noi il linguaggio per eccellenza. Ogni altra nuova lingua, che sia pprenda,
si capisce soltanto mediante il suo paragone o rapporto colla lingua materna,
ed a questa con maggior ragione convengono tutte le lodi, che noi attribuiamo
alla lingua dei Romani come mezzo di coltura. Il bambino è sempre tanto
desideroso di udirvi, che spesso vi interroga anche su cose conosciute,
unicamente per aver occasione di ascoltarvi. Or bene tutto il mondo esteriore
vien fatto comparire e brillare davanti alla fantasia del bambino mediante il
nome, con cui vien designato ciascun oggetto. Tutto ciò, che è corporeo, venga
analizzato sotto gli occhi del fanciullo durante i suoi due primi lustri, ma
non gli si faccia analizzare affatto tutto ciò, che è solo spirituale. La
lingua materna siccome e la più innocente delle filosofie pel fanciullo,
siccome il più valido esercizio di riflessione. Parlategli molto e con
precisione, ed anche da lui esigete la precisione.Una PROPOSIZIONE oscura, ma
che diventa chiara se ripetuta una volta, provoca l'attenzione e rinforza
l'intelligenza. Non temete mai di non essere intesi, e nemmeno se si tratta di
intere proposizioni. La vostra faccia, il vostro accento, e il vivo bisogno che
sente il fanciullo di comprendere, rendono chiara la cosa per metà. E questa
prima metà farà col tempo capire anche l'altra. Pensate che I fanciulli. [SVILUPPO
DELLA TENDENZA ALLA COLTURA DELLO SPIRITO] come facciamo noi per la lingua
greca o per qualunque altra lingua straniera, imparano prima a CAPIRE la nostra
lingua, che a ‘parlar’-la. Al bambino parlate sempre come se avesse qualche
anno di più. L'educatore, il quale a torto attribuisce al suo insegnamento troppa
parte di ciò, che impara l'alunno, ricordi che il bambino porta già pronto in
se medesimo ed imparato tutto il suo mondo spirituale (cio è le idee morali e metafisiche),
e che la lingua con tutte le sue immagini sensibili non serve che a rischiarare
questo mondo interiore. Qui trova suo luogo la questione dello studio della
lingua dei romani come mezzo di coltura mentale. Lo studio della lingua de
romani e come una ginnastica dello spirito, che ne riceve una scossa ed
eccitazione salutare.Esso studio, non tanto in virtù del mero vocabolario, quanto
in forza della grammatica, che è la logica della lingua, costringe lo spirito a
ripiegarsi sopra di sè, a riflettere sulla ‘parola’, considerandole come un
riverbero della propria attività intuitiva. Dal linguaggio si passa a dire
dello scrivere, ed anche su questo punto non sono meno assennati ed acuti I
suoi accorgimenti. In sua sentenza, lo scrivere, ancora più che il ‘parlare’,
separa e concentra le idee, perchè il suono meccanico della ‘parola’ parlata insegna
a scosse e passa rapido, mentre i caratteri della scrittura ‘parlano’ in modo
continuato e distinto. Lo scrivere facilita la produzione delle idee assai più
che il suono rapido della ‘parola’, essendo esse una veduta interiore più che
un'audizione esteriore. Sotto altri riguardi la ‘parola’ parlata assai sovrasta
alla parola scritta, essendochè quella è ‘parola’viva, che esce animata
dall'interiore organismo e discende potente nell'anima di chi la ascolta,
mentre questa è parola morta, che esce dalla penna inanimata e non è che una
debole eco della prima. Esercitate di buon’ora, e gli prosegue, il fanciullo a
scriver e I pensieri suoi proprii piuttostochè ivostri. Risparmiategli i temi
comunissimi, quali sarebbero le lodi della diligenza , del maestro di
scuola,dei governanti ecc.Niente più nuoce a qual siasi componimento , quanto
la mancanza di un oggetto proprio e di inspirazione. Una lettera, provocata
unicamente dalla volontà del maestro, e non da un bisogno del cuore, diventa
una morta apparenza di pensiero,un inutile consumo di materia mentale. Se
fate scrivere lettere, siano rivolte ad una persona determinata e sopra un
determinato oggetto. Lo scrivere una pagina eccita e sveglia l'intelligenza
assai più che il leggere un libro intiero. Vi è tanto poca gente,che sappia
scrivere con un po'di garbo, quanto son pochi coloro, che sanno dire quattro
periodi continuati [2. Dell'attenzione. È avviso dell'autore,che
l'attenzione,riguardata non in generale,ma specialeerivolta ad un particolare
oggetto,non va raccomandata,nè suscitata o promossa con mezzi esteriori, quali
sarebbero il premio od il castigo, poichè in tal caso il fanciullo più che
all'oggetto proposto all'osservazione, terrebbe l'animo attento al premio, che
lo attrae, od al castigo minacciato. Pongasi mente , che esso non è atto a
sostenere un'atten zione prolungata e non mai interrotta;perciò non pretendete,
che anche trattandosi d'un argomento, che possa interessarlo, vi presti la sua
attenzione in qualunque ora e luogo e per tutto il tempo prescritto dai nostri
regolamenti scolastici. La novità è pure una potente attrattiva per
l'attenzione, m a per ciò stesso non va sciupata ripetendo troppo spesso le
medesime cose sicchè diventino monotone e stucchevoli. ] .
Chi dovrà un giorno fare giustizia e scrivere veramente la
storia del pensiero filosofico italiano nell’ultimo secolo, non potrà non dare
una gran parte allo spiritualismo: del quale certo uno dei più illustri e
combattivi rappresentanti è stato ed è»1. Le parole di Calò attestano una
realtà difficilmente discutibile per chi si approcci anche alle vicende della
pedagogia italiana nel mezzo secolo successivo all’Unità. Nato a San Germano
Vercellese il 14 settembre 1830, Giuseppe Allievo2 compì gli studi secondari al
seminario Arcivescovile di VGiuseppe Allievoercelli. Vinta una borsa al
Collegio Carlo Alberto di Torino, si iscrisse nella Facoltà di filosofia della
Regia Università. Si distinse per la preparazione e l’applicazione negli studi.
In un articolo pubblicato sulla«Rassegna Nazionale», Giacomo Cottini riportò
una lettera scritta da Aporti che comunicava al giovane Allievo la vincita di
un premio che ammontava a trecento lire per i suoi meriti universitari3, segno
premuni tore di una carriera accademica di primo piano. Laureato nel 1853,
già lo stesso anno fu chiamato alla direzione di una scuola di metodo presso
Novara, dove teneva anche il corso di pedagogia. Iniziò così una lunga serie di
esperienze educative che lo portarono in diversi centri piemontesi: nel 1854 fu
trasferito a Domodossola, poi per due anni ad Ivrea, quindi nel collegio di
Ceva e successivamente a Casale Monferrato dal 1858 al 1860. L’anno seguente fu
destinato sempre all’insegnamento di filosofia al Regio Liceo di Porta Nuova a
Milano, l’attuale Liceo Parini, dove rimase per sei anni. Nel centro lombardo
insegnò anche Filosofia teoretica, 1 G. Calò, Giuseppe Allievo Filosofo, in
Vita e mente di Giuseppe Allievo, Torino, Scuola Tipografica Salesiana, 1913,
p. 13. 2 G. B. Gerini, Gli scrittori pedagogici italiani del secolo decimonono,
Torino, Paravia, 1910, pp. 707- 708; P. Braido, Allievo Giuseppe, in Dizionario
Enciclopedico di Pedagogia, Torino, S.A.I.E., 1958, vol. I, pp. 59-60; M. P.
Biagini, Allievo Giuseppe, in Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La Scuola,
1989, vol. I, pp. 377-381. 3 G. Cottini, Giuseppe Allievo, «Rassegna
Nazionale», I settembre 1913, p. 66. 22 logica e metafisica, all’Academia
Scientifica – Letteraria. Ebbe modo di stringere rapporti con alcune delle
personalità di spicco della cultura milanese: Pestalozza, Poli, Cantù, Tullio
Dandolo. Continuò a tenere i rapporti con l’università torinese, dove nel 1857
aveva superato l’aggregazione nella Facoltà di lettere e filosofia, con giudizi
molto positivi del Mamiani e del Rayneri4. Furono anni di intenso studio e
anche segnati dalla sofferenza, dopo la morte di uno dei suoi figli5. Nel 1867
poté tornare a Torino poiché fu nominato insegnante di filosofia al Regio Liceo
Cavour e incaricato del corso di pedagogia all’Università, dopo la morte del
Rayneri. Continuò ad insegnare nella scuola sino al 1869, quando fu nominato
titolare della cattedra di Pedagogia. Divenne ordinario solo nel 1878, ed
insegnò ininterrottamente all’Università di Torino sino al 1912. La sua
produzione pedagogica fu copiosa. Scrisse più di cento pubblicazioni tra
monografie e saggi. Le sue opere più importanti furono: Saggi filosofici
(1866), Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867), L’antropologia e
l’hegelismo (1868), L’Hegelismo e la scienza, la vita (1868), L’educazione e la
nazionalità (1875), L’educazione e la Scienza (1882), Del positivismo in sé e
nell’ordine pedagogico (1883), Delle idee pedagogiche dei Greci (1887), Studi
pedagogici (1889), Riforma 4 Cottini riportò un ricordo di Antonio Parato,
risalente al giorno Allievo passò il concorso per l’aggregazione a Torino:
«Antonino Parato, anch’esso decoro e vanto della scuola pedagogica italiana,
disse nella sua Vita Magistrale, che avendo nel giorno stesso della pubblica
prova incontrato Giovanni Antonio Rayneri, allora professore di Pedagogia nel
Torinese Ateneo, gli venne dal medesimo annunciato con trasporto di gioia che
il Collegio Universitario aveva allora allora accolto nel suo seno una sicura
speranza della Filosofia italiana» G. Cottini, Giuseppe Allievo, cit., p. 69. 5
Nel suo articoli, Cottini trascrive una lettera di Allievo indirizzata
all’abate e professor Bernardo Raineri, rinvenuta dallo studioso e sacerdote
Alessandro Roca tra le carte che il Raineri affidò agli archivi dei padri
rosminiani. Si tratta di pagine molto significative, scritte poco dopo la morte
del figlio Giulio, deceduto all’età di soli dieci anni: «Professore carissimo,
Vi sonon grato e riconoscente della vostra lettera consolatoria. La profonda e
grave ferita, che mi sta aperta nell’animo, è insanabile, ma pure ringrazio di
cuore gli uomini del loro pietoso ufficio. L’immagine del mio povero Giulio mi
accompagna dovunque, eppure so che vivo non lo rivedrò mai più sulla terra. La
mia mente è con lui nel sepolcro, dove assisto col pensiero alla dissoluzione
delle sue povere membra, che si confondono colla polvere della terra e in ogni
passo che faccio, mi pare ci sentirmi dire: Padre, perché mi calpesti? Ah, se
io avessi la sventura di essere materialista, vedendo che il mio Giulio è tutto
finito in un pugno di polvere, non saprei resistere all’idea di rinunciare
anch’io alla vita in modo violento. La fede, solo la fede cristiana, mi fa
forte nella lotta tremenda, e rassegnato ai duri, eppur sempre adorabili voleri
di Dio. La natura mi ha strappato dal seno il mio diletto per convertirmi il
corpo in poca polvere; la fede miaddita il suo spirito sempre vivo in cielo e
mi assicura che quella poca polvere si rifarà corpo vivo per mantenerla. Non ho
voluto che la salma di mio figlio giacesse qui a Milano, dove non si pensa più
ai poveri morti: l’ho fatto in quel campestre cimitero, accanto ai sepolcri,
dove riposano lacrimate le ossa de’ miei genitori. E vorrei anch’io abbandonare
per sempre Milano, ma non posso nulla per me. I molti miei amici vivamente mi
solleticano di chiedere la cattedra di pedagogia vacante nell’Università di
Torino, e ci andrei volentieri, ma io mi tengo forte nel mio proposito di non
chiedere più nulla al Potere. Ieri mi è giunto notizia che è morto un mio fratello
ammogliato, lasciando dietro di sé tre creature. E quasi tutto ciò non bastasse
, ho il mio ultimo bimbo di quatto anni ammalato da 25 giorni di febbre
miliare, in grave pericolo di vita ed ormai disperato dai medici. Sono
infelice, ma l’infelicità non è così, quando si è con Dio, il quale ci addolora
quaggiù per bearci in cielo. Ricambiate i mieri saluti a quall’anima di Iacopo
Bernardi: ditegli che gli sono proprio riconoscente della parte che prese al
mio dolore, e voi vogliatemi sempre bene» Ibid., pp. 67-68. 23
dell’educazione mediante la riforma dello Stato (1897), Esame dell’hegelismo
(1897), La pedagogia antica e contemporanea (1901), Opuscoli pedagogici (1909),
G. G. Rousseau filosofo e pedagogista (1910). Scrisse anche alcuni manuali per
le scuole secondarie come il Breve compendio di filosofia elementare ad uso de’
licei (1862), Elementi di pedagogia ad uso delle Scuole normali del Regno
(1885) e il Compendio di Etica ad uso dei Licei (1899), con più edizioni e
ampiamente adottati nelle scuole italiane. Allievo collaborò attivamente alla
pubblicistica pedagogica e filosofica del tempo6. Nel 1867 con Carlo Passaglia
fu il principale animatore del «Gerdil», organo dei giobertiani e spiritualisti
torinesi, che ebbe però breve durata non riuscendo a superare l’anno. Vi
scrissero, tra gli altri, Giovanni Maria Bertini e Francesco Bertinaria. Dal
1868 al 1873, Allievo diresse «Il campo dei filosofi», un periodico fondato a
Napoli nel 1863 da Gaetano Milone, poi trasferito a Torino nel 1867. Si tratta
di un’esperienza pubblicistica che ebbe una certa rilevanza nel dibattito
filosofico e pedagogico italiano, come ha già sottolineato Eugenio Garin7. Vi
collaborarono autori come Di Giovanni, Toscano, Morgott, Peyretti, Rayneri,
Tagliaferri, Bonatelli, Marsella, Tiberghien, Bosia, 6 Cfr. G. Chiosso (ed.),
La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), Brescia, La Scuola,
1997, pp. 340, 347-348, 378, 398-399, 438, 563-564, 573, 586, 611-612, 705. 7
Dopo aver citato alcuni brani della rivista, Garin osserva: «“Il Campo dei
Filosofi Italiani”, la rivista vissuta a Napoli dal 1864 al ’67, e poi passata
a Torino (1868-1872) sotto la direzione dell’Allievo, si proponeva di
combattere soprattutto “l’idealismo dell’Hegel e il positivismo del Comte” –
come scriveva l’Allievo nel programma del ’68, continuando del resto l’attività
iniziata a Napoli dal barnabita Gaetano Milone. Oltre i saggi di critica
all’hegelismo già citati, altri ve ne comparvero, dell’Allievo nel ’72, del Di
Giovanni nel ’64, del Donati nel ’66, del Selvaggi nel ’67, del Tagliaferri nel
’70. E l’attività della rivista in questo settore meriterebbe di essere
studiata, tanto più che non è privo d’interesse il legame subito stabilito fra
hegelismo e positivismo, quasi gemelli nemici». Dopo aver ricordato la facilità
con cui diversi idealisti si «convertirono» al positivismo negli anni seguente
all’Unità, Garin spiega questo fenomeno riprendendo e valorizzando l’analisi
dell’Allievo che vedeva in queste due teorie apparentemente distanti, un comune
denominatore: «Quell’onesto studioso che fu Giuseppe Allievo, professore di
antropologia e pedagogia a Torino, che aveva alimentato una vivace ma seria
discussione intorno all’hegelismo sul “Campo dei Filosofi Italiani”, che nel
’68 aveva messo insieme un onesto libretto su L’hegelismo, la scienza e la
vita, pubblicando quasi trent’anni dopo, nel ’97, a Torino, un Esame
dell’hegelianismo, che voleva essere un bilancio, credeva di poter individuare
una convergenza profonda fra positivismo e hegelismo. “L’Hegelianismo –
scriveva – e il positivismo, che a tutta prima hanno sembianza di due dottrine
diametralmente opposte e riluttanti, in realtà sono fra loro congiunti da un
punto di contatto intimo e profondo.” Assoluta immanenza, realtà come processo
e sviluppo, celebrazione della ‘scienza’ (Wissenschaft): ecco alcuni dei punti
su cui insisteva l’Allievo, pur avverso a entrambe le concezioni. Ma comunque
si valuti la sua disamina, e al di là dei ‘casi’ degli hegeliani passati al
positivismo, una cosa certa l’Allievo coglieva esattamente: l’esistenza di una
‘riforma’ in atto della dialettica del senso dell’evoluzionismo, con tutto
quello che una veduta del genere implicava, “in metafisica, in politica, in
diritto, in morale, in religione” – per usare le sue parole. Proprio dentro
questo processo, già avviato nell’ambito dell’eredità feurbachiana, si muoverà
fra tensioni e polemiche Antonio Labriola: contro l’evoluzionismo spenceriano
al posto del moto dialettico della storia, contro il socialismo neokantiano-positivistico
al posto del marxismo, per una rinnovata filosofia della prassi, ma anche – lo
dichiarerà a Engels – per una sostituzione del metodo genetico a quello
dialettico, il che non era solo ‘questione di parole’» E. Garin, Tra due
secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, Bari, De Donato, 1983,
pp. 56-57. 24 Bertini, Polla, Leonardi, Naville, Passaglia e altri.
In seguito pubblicò una serie di articoli sulla «Rivista filosofica». Nel 1883,
quando era ormai divenuto uno tra i principali protagonisti del dibattito
pedagogico nazionale, Allievo assunse la direzione de «Il Baretti»8, un foglio
dedicato a questioni scolastiche e pedagogiche, che guidò sino al 1885. Qui vi
apparvero perlopiù una serie di articoli utili a lumeggiare le sue posizioni in
merito alla libertà d’insegnamento e, più in generale, alla politica
ministeriale. Nella sua lunga carriera, Allievo rappresentò una delle
personalità di primo piano della pedagogia spiritualista italiana. Le sue opere
e il suo pensiero divennero un punto di riferimento per la riflessione e il
mondo educativo cattolico9, trovando una considerevole «circolazione
pedagogica», per riprendere una categoria riproposta da Prellezo10. La Bertoni
Jovine ne parlò come il maggiore esponente del «neospiritualismo»11, sino a
considerarlo, esagerando, come la guida della corrente cattolica12. Il ruolo
assunto nella discussione pedagogica del tempo è senza dubbio legato alla
posizione privilegiata avuta per quasi mezzo secolo in ambito accademico. Va
tenuto conto che allora i docenti di pedagogia incardinati nelle Università
italiane erano relativamente pochi. Serafini, riprendendo un brano di Cesca,
rileva come nel 1890 si contassero solo cinque professori di pedagogia nelle
tredici facoltà italiane di Lettere e Filosofia, e di questi solo tre erano gli
ordinari13. Allievo era uno di loro, ed insegnava in un Ateneo come quello
torinese che oltre ad avere con quello napoletano il primato per il numero di
studenti iscritti, rappresentava in quei decenni uno dei poli principali del
dibattito pedagogico italiano, sia in campo accademico, che in quello
pubblicistico e scolastico. 8 Cfr. G. Chiosso (ed.), La stampa pedagogica e
scolastica in Italia (1820-1943), cit., pp. 90-91. 9 G. Chiosso, I giornali
scolastici torinesi dopo l’Unità, in Id. (ed.) Scuola e Stampa nell’Italia
liberale. Giornali e riviste per l’educazione dall’Unità a fine secolo, cit.,
p. 17. 10 In uno studio dedicato a Rayneri, a cui ne seguì uno analogo su
Allievo, Prellezo invita ad approfondire la capacità di influenza dei
pedagogisti più impegnati teoreticamente con la realtà educativa. Egli parla
della «necessità di promuovere ricerche puntuali allo scopo di definire limiti
e portata dell’incidenza delle dottrine pedagogiche, non solo nell’ambito delle
riforme dell’insegnamento pubblico, ma anche, ad esempio, in quello dell’azione
educativa dei fondatori e primi membri delle congregazioni religiose dedicate
all’insegnamento» J. M. Prellezo, Pensiero pedagogico e politica scolastica. Il
caso di G. A. Rayneri (1810- 1867), in «Annali di Storia dell’Educazione e
delle Istituzioni scolastiche», n. 1, 1994, Brescia, La Scuola, p. 149. 11 D.
Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola italiana, Roma, Editori
riuniti, 1961, p. 25. 12 «Il neo spiritualismo dell’Allievo se riuscì a creare
una corrente alla quale aderirono studiosi come il Conti e l’Alfani e tutto il
gruppo della Rassegna Nazionale non ebbe la capacità intrinseca di operare un
capovolgimento della pedagogia e neanche quella di combattere efficacemente il
positivismo che, benché debole dal punto di vista speculativo, era portatore di
vivissime esigenze socali, sostenute dai partiti democratici» D. Bertoni
Jovine, La scuola italiana dal 1870 a nostri giorni, Roma, Editori Riuniti,
1972, p. 63. 13 G. Serafini, L’idea di pedagogia nella cultura italiana
dell’Ottocento, Roma, Bulzoni Editore, 1999, p. 83. 25 Riguardo
alla «circolarità» di Allievo nella corrente cattolica, merita di essere
accennata la collaborazione con i salesiani14. Il docente vercellese poté
conoscere presumibilmente l’esperienza educativa della congregazione già negli
anni dell’Università, prima come studente della città di Torino, e poi quando
divenne professore. Diversi collaboratori di Don Bosco frequentarono infatti
l’ateneo subalpino. In seguito, uno dei suoi figli studiò al collegio salesiano
di Mirabello. Il docente vercellese si avvicinò sempre più alla congregazione:
collaborò nel collegio salesiano di Valsalice, partecipò alle numerose
manifestazioni scolastiche e culturali dei salesiani in città15, fece spesso
visita in qualità di «esperto» alle scuole del santo piemontese. Alcuni
studiosi salesiani hanno parlato di una vera e propria amicizia tra Don Bosco e
il pedagogista vercellese16. Un episodio risulta significativo nella
ricostruzione di questo rapporto. Quando alla fine degli anni ’70 l’oratorio di
Valdocco rischiò di essere chiuso per dei provvedimenti voluti dal Ministro
Correnti, Allievo si offrì per cercare di salvare l’istituto. Aiutò don Bosco
nella compilazione dell’istanza da inviare al Ministero e si impegnò per
inoltrare un ricorso al Consiglio di Stato. Negli anni seguenti mantenne
stretti i rapporti con gli altri salesiani più giovani, soprattutto con don
Durando, direttore generale degli studi delle scuole salesiani. Il pensiero
dello studioso vercellese ispirò anche alcune opere dei primi pedagogisti
salesiani17. Prellezo documenta l’influenza della pedagogia di Allievo sulla
Storia della pedagogia (1883) di Cerruti e sugli Appunti di pedagogia (1897) di
Barberis18. Una certa influenza è anche rilevabile nelle Lezioni di pedagogia
di don Vincenzo Cimatti19. In 14 Sul tema si rinvia al documentato e
approfondito studio di: J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli scritti
pedagogici salesiani, «Orientamenti pedagogici», n.3, maggio-giugno 1998, pp.
393-419. 15 Proverbio ricorda la presenza dell’Allievo alla seconda
rappresentazione del Phasmatonices di Rosini nel 1868. «Le insistenza per la
replica furono tali che il sipario si riaprì l’otto giugno: vi accorsero molti
torinesi, tra cui il professor G. Allievo, docente di pedagogia alla Università
di Torino, il quale “andava per la sala del teatro a trarre innanzi persone
ragguardevoli”, mentre negli intervalli venivano eseguite le romanze verdiane di
G. Cagliero» G. Proverbio, La scuola di don Bosco e l’insegnamento del latino
(1850-1900), in F. Traniello (ed.), Don Bosco nella storia della cultura
popolare, Torino, Sei, 1987, p. 172. 16 Trat tando del santo piemontese,
Braido ha osservato: «reali furono le relazioni, perfino di cordialità e di
amicizia, con alcuni teorici della pedagogia contemporanei, come A. Rosmini, G.
A. Rayneri, G. Allievo» P. Braido, L’esperienza pedagogica preventiva nel
secolo XIX, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di Pedagogia cristiana nella
storia, cit., p. 313. Si veda anche: J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli
scritti pedagogici salesiani, cit., p. 413. 17 Su tale legame Pietro Braido ha
rilevato: «Giannantonio Rayneri e Giuseppe Allievo esercitarono un palese influsso
diretto su due note figure di studiosi salesiani di pedagogia, rispettivamente
D. Francesco Cerruti e D. Giulio Barberis; gli inediti Appunti di Pedagogia
sacra di quest’ultimo rivelano un’evidente dipendenza. Allievo, benefattore e
sostenitore di Don Bosco, si batté strenuamente per la sopravvivenza delle
scuole di Valdocco, mettendo a disposizione, in difesa della libertà educativa,
la sua energica contrarietà al centralismo burocratico del Ministero della
P.I.» in P. Braido, L’esperienza pedagogica preventiva nel secolo XIX, Don
Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di Pedagogia cristiana nella storia, cit., p.
313. 18 J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli scritti pedagogici salesiani,
cit., pp. 406-412. 19 Ibid., p. 413. 26 verità, anche altri manuali
pedagogici del tempo si ispirarono alla riflessione dell’Allievo20. Se l’opera
del vercellese fu accolta subito con favore dal circuito cattolico liberale e
da quello salesiano, il gruppo intransigente non sembrò accorgersi del suo
contributo. Solo all’inizio del Novecento, quando la dialettica interna nel
mondo cattolico assunse toni meno aspri, anche «La Civiltà cattolica» lo
menzionò per le sue posizioni a favore della libertà d’insegnamento21. Sebbene
l’opera di Allievo mantenne una dimensione prevalentemente nazionale, egli
attirò l’attenzione di alcuni studiosi stranieri come Naville, Daguet, Blum.
Dopo una lunga esistenza spesa interamente alle riflessione educativa si spense
a Torino il 24 giugno 1913. I. 1. Influenze rosminiane e dimensione europea Alla
costruzione del sistema pedagogico e filosofico dell’Allievo, contribuirono
molteplici scuole e sollecitazioni. Gran parte degli studi dedicati al
pedagogista vercellese hanno rilevato un’«evidente traccia della riflessione
rosminiana»22, come già aveva sottolineato nelle sue ricerche Gentile23. Per
cogliere le ragioni di tale influenza, occorre in primo luogo considerare il
peso del rosminianesimo nella cultura pedagogica e filosofica piemontese della
prima metà dell’Ottocento. L’Ateneo torinese rappresentò con i seminari
lombardi uno dei maggiori centri di influenza e propagazione della filosofia
del roveretano24. Si tratta di un afflato radicato, che si conservò ancora a
lungo nella cultura subalpina25. Allievo trascorse, pertanto, gli anni della
sua formazione universitaria in un contesto permeato dal pensiero rosminiano.
Diversi dei suoi professori erano discepoli rigorosi del roveretano. Grazie ad
un suo docente, Allievo poté avere un primo contatto con Rosmini: Pier Antonio
Corte inviò al pensatore roveretano un breve scritto dello studente vercellese
per averne un parere. Poco tempo dopo, Rosmini rispose all’invito del
professore e 20 Tra gli altri, Arcomano, sottolinea come il saggio di Costanzo
Malacarne, Sunti di pedagogia, un classico della manualitstica pedagogica del
tempo, appaia fortemente influenzato dalla pedagogia di Allievo. Cfr. A.
Arcomano, Pedagogia, istruzione ed educazione in Italia (1860-1873), cit., p.
118. 21 G. Chiosso, Editoria e stampa scolastica tra otto e novecento, in L. Pazzaglia
(ed.), Cattolici, educazione e trasformazioni socio – culturali in Italia tra
Otto e Novecento, cit., p. 505. 22 G. Chiosso, Novecento pedagogico, Brescia,
La Scuola, 2012, p. 151. 23 G. Gentile, Le origini della filosofia
contemporanea in Italia. I platonici, Messina, Principato, 1917, pp. 363-376.
24 Cfr. A. Gambaro, Antonio Rosmini nella cultura del suo tempo, «Il
Saggiatore», n.2, 1955, pp. 143- 157; F. Traniello, Cattolicesimo
conciliarista, cit., p. 74. 25 Si veda: Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e
Testimonianze, Stresa, Edizioni rosminiane, 1994. 27 apprezzò il
lavoro pur sottolineando i limiti dello scritto di Allievo, allora solo
ventiduenne26. Pochi anni dopo, nel 1854, il pedagogista vercellese ebbe anche
l’occasione di conoscere personalmente il Rosmini, poichè allora dirigeva un
corso di Metodica a Domodossola, frequentato da alcuni allievi dell’Istituto di
Carità. Del roveretano ebbe una impressione eccezionale. Ricordando quella
circostanza, ne parlò come di una persona dotata di una «modestia pari alla sua
grandezza»27, ma anche di una profonda serenità, probabilmente legata, in quel
periodo, al recente Dimmitantur per le sue opere. Il legame con il
rosminianesimo fu corroborato da Giovanni Antonio Rayneri, da cui Allievo
ereditò la cattedra all’Università di Torino. Professore e sacerdote, il
Rayneri rappresentò un protagonista nel fermento educativo e pedagogico
piemontese tra gli anni ’40 e ’50 dell’Ottocento. Il suo sistema pedagogico si
innestava sull’impianto filosofico del roveretano, di cui offrì un’organica
riproposizione in chiave educativa. L’elaborazione di Rayneri fu di vitale
importanza per la circolazione della pedagogia rosminiana28. La lezione del suo
predecessore rimase un costante punto di riferimento per l’Allievo. Lo studioso
vercellese curò nel 1869 la pubblicazione postuma del saggio Della pedagogica,
una summa in cinque volumi del pensiero del Rayneri, «supplendo il libro e
mezzo, che mancava, con pochi appunti rinvenuti fra le carte dell’autore»29. Si
tratta di un’opera considerata da Allievo come una delle maggiori confutazioni
agli errori della pedagogia moderna30. In una delle sue prime opere più
importanti, : L’Hegelismo e la scienza, la vita (1868) si trova una dedica
molto significativa al suo maestro31. 26 In una lettera datata 17 febbraio
1852, il Rosmini scrisse al Corte: «La ringrazio d’avermi comunicato lo scritto
del signor Giuseppe Allievo. L’ho letto con piacere e confermo pienamente il
giudizio favorevole da lei portato e mi congratulo colla R. Università se fa di
tali allievi, mi congratulo con Lei e coll’autore del detto scritto, che mi par
l’ugna del leone. Quello che può mancare alla proprietà del linguaggio verrà in
appresso, essendo cosa che solo s’impara cogli anni... Queste sottili osservazioni
però non impediscono che il lavoro favoritomi sia degnissimo di lode» Citata in
G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, Torino, Tipografia S. Giuseppe
degli artigianelli, 1904, p. 8. 27 G. Allievo, Il concetto pedagogico di
Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, Milano, Cogliati, 1897, vol. II, p.
523. 28 G. Chiosso, Rosmini e i rosminiani nel dibattito pedagogico e
scolastico in Piemonte (1832-1855) in Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e
Testimonianze, cit., p. 102. 29 G. Cottini, Giuseppe Allievo, cit., p. 71. 30
Nella commemorazione già citata scrive: «La Pedagogica mi apparisce una
spiccata antitesi dell’Emilio di Gian Giacomo Rousseau; in quella tutto è
semplice, connesso, lucido, ordinato e preciso: in questo tutto è sconnesso,
incoerente, saltuario; il nostro Pedagogista ha la coscienza del suo pensiero,
misura i suoi conoscimenti, non trascorre mai gli estremi; il ginevrino scatta
fuori con grandi paradossi che colpiscono, con pensieri sublimi, grandi
originali, dove la verità è in lotta continua con l’errore; [...] Un’altra idea
della vita, un giusto sentimento della natura umana, un vivo ed operoso
concetto del dovere, sono questi i principi filosofici, che informano la
Pedagogica del RAYNERI, principi diamentralmente opposti a quelli dell’umanismo
contemporaneo, che fa dell’uomo Dio a se stesso» G. Allievo, Commemorazione del
primo Centenario della nascita di Giovanni Antonio Rayneri, letta in
Carmagnola, Asti, Tipografia Popolare Astigiana, 1910, pp. 14-15. 31 La dedica
recita: «Alla cara e venerata memoria di Gioanni Antonio Rayneri, Che primo fra
gl'italiani tentò elevare all'unità sistematica della scienza la. Pedagogica da
lui per un ventennio professata all'Università di Torino questo tenue lavoro
con riverenza di discepolo piamente consacro». 28 Nel 1910, il
vercellese fu invitato a tenere un discorso in occasione del centenario dalla
nascita di Rayneri32. Ormai prossimo alla pensione, ripercorrendo quasi
cinquant’anni di insegnamento universitario, ricordò con queste parole il maestro:
«Gran parte della mia vita pedagogica sta collegata col nome di lui, essendochè
negli anni miei giovanili, sedendo sui banchi dell’Università io ascoltava la
sua magistrale parola, e che egli ha illustrato per poco più di un ventennio
quella cattedra, che io tengo da quasi mezzo secolo»33. Durante gli anni del
suo magistero, Allievo rimase sempre in contatto con gli ambienti rosminiani,
collaborando anche ad alcune riviste ad esso legato34. Diversi concetti e
posizioni del sistema del vercellese sono chiaramente mutuati dall’alveo
rosminiano. Un primo elemento è l’idea della personalità, che Allievo pone al
centro della sua pedagogia35. In questo campo, accolse gran parte dell’impianto
psicologico e antropologico del roveretano, riproponendo la tripartizione delle
facoltà: senso, volontà e intelletto, largamente utilizzate e approfondite dal
professore piemontese. Al Rosmini lo legano anche ragioni e argomenti di
critica alla filosofia moderna. Al pari del roveretano, ma anche di altri
autori spiritualisti, Allievo riunì Kant e i pensatori idealisti sotto la
stessa etichetta di «scettici». Un altro elemento riguarda l’unità di filosofia
e pedagogia, di cui Allievo si fece araldo di fronte agli eccessi di
metodologismo cui erano tentati anche alcuni studiosi cattolici36. All’idea di
unità, è collegato un altro concetto rosminiano accolto da Allievo, vale a dire
quello del «sintetismo»37, strettamente connesso a quello di «armonia»,
considerato nodale per comprendere la sua idea di educazione38. Non senza
motivo, Berardi riassunse la teoria della personalità dell’Allievo come una
«traduzione del sintetismo di origine 32 G. Allievo, Commemorazione del primo
Centenario della nascita di Giovanni Antonio Rayneri, letta in Carmagnola, cit.
33 Ibid., p. 4-5. 34 Tra le altre, offrì la sua collaborazione alla rivista La
Sapienza, Rivista di filosofia e di Lettere, diretta da don Vincenzo Papa e
pubblicata dal 1879 al 1886. Cfr. Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e
Testimonianze, cit., p. 65. 35 Giovanni Calò sostenne come, in fondo, «Quella
del Rosmini è una pedagogia della personalità» G. Calò, Pedagogia del
Risorgimento, Sansoni, Firenze, 1965, p. 679. 36 Commentando un breve
intervento dello studioso vercellese sulla pedagogia del Rosmini, Cavallera ho
osservato come «l’Allievo individua nel concetto di unità la forza del pensiero
pedagogico rosminiano uscendo dai consueti schemi della illustrazione della
metodica, ma non va oltre tale precisazione» H. A. Cavallera, Rosmini nella
Pedagogia dell’Ottocento, cit., p. 117. 37 Come conferma Mazzantini: «Rimasero
sempre per lui fari di orientamento, nella sua vita di studioso, le dottrine
ontologiche (già in gioventù manifestateglisi evidenti) della gradualità e del
sintetismo degli esseri» C. Mazzantini, I capisaldi del sistema filosofico
pedagogico di G. Allievo, «Rivista Pedagogica», n. 10, 1930, p. 702. 38 In
merito la Quarello, che ha dato alle stampe uno dei lavori più precisi ed
elaborati sull’Allievo, ha osservato: «Nella dottrina pedagogica dell’Allievo
la legge fondamentale è dunque l’armonia, legge che necessariamente deriva da
quella suprema filosofica: “Il sintetismo universale”» V. Quarello, G. Allievo,
studio critico, Lanciano, Carabba, 1936, p. 121. 29 rosminiana»39.
Sebbene il vercellese, ad esempio nei Saggi filosofici, sul tema si rifaccia
alle opere del Krug, le tracce del discorso rosminiano sono evidenti. Se tali
elementi mostrano un chiaro ancoraggio all’opera rosminiana, da una lettura più
attenta delle opere di Allievo emerge tuutavia anche una serie di differenze
con il roveretano che non permettono di ascrivere in toto l’opera del
professore piemontese tra quello del circuito rosminiano vero e proprio,
rispetto al quale, al contrario, manifestò l’esplicita intenzione di
differenziarsi. Si tratta di una posizione che, secondo uno dei più importanti
pedagogisti di scuola rosminiana, poteva tuttavia essere letto in modo
positivo40. Già Francesco Paoli, curatore di alcune delle più importanti opere
postume del Rosmini e suo ultimo segretario, nel saggio Della scuola di Antonio
Rosmini, recentemente ripubblicato, nel disegnare la geografia del
rosminianesimo in Italia sottolineava la dissonanza tra l’Allievo e il
roveretano41. Questa precisazione di Paoli, peraltro in un libro con toni
marcatamente apologetici, denota come tra i seguaci «osservanti» del
roveretano, l’Allievo non fosse considerato un rosminiano «ortodosso»,
nonostante la riconosciuta prossimità. La distanza tra i due pensatori è
documentata dal fatto che nelle opere del vercellese i richiami e le influenze
dell’opera rosminiana si diradano. La maggior parte dei espliciti riferimenti
al roveretano, infatti, si riscontrano nei primi lavori dell’Allievo, in specie
nei Saggi filosofici (1866), con chiari rinvii all’ontologia, alla metafisica e
alla logica. Ma già in un’opera dell’anno seguente, Della pedagogia in Italia
dal 1846 al 1866, il legame con il sistema del roveretano appare più
distaccato. In particolare, si coglie un certo ridimensionamento dell’apporto
del Rosmini. Delineando l’itinerario della pedagogia italiana del primo
Ottocento, sebbene non manchino apprezzamenti positivi, Allievo sottolinea come
il vero innovatore della pedagogia italiana fu il Rayneri. Si tratta, senza
dubbio, di un’interpretazione impensabile per qualsiasi studioso rosminiano42.
39 R. Berardi, La libertà d’insegnamento in Piemonte 1848-1859 e un saggio
storico di G. Allievo, «Quaderni di cultura e storia sociale», febbraio 1953,
p. 62. 40 Cottini rileva come: «Circa la discordia fra l’Allievo e il sommo Roveretano,
osservò giustamente il mio quondam condiscepolo Prof. Giuseppe Morando, che il
dissenso aperto e leale dell’Allievo porge maggiore rilievo alla riverenza
sconfinata che questi gli professò, ed all’omaggio, ch’egli gli rese in ogni
occasione» G. Cottini, Giuseppe Allievo, cit., p. 67. 41 Scrive il pedagogista
di Pergine: «Di presente l’onore della Filosofia e della Pedagogia è sostenuto
nell’Università di Torino dal Prof. Giuseppe Allievo, che se non professa del
tutto la filosofia del Rosmini, l’accetta in gran parte e la onora colla
esemplarità della vita e colle molte gravi sue pubblicazioni pedagogiche» F.
Paoli, Della scuola di Antonio Rosmini (a cura di P.P. Ottonello), cit., p. 38.
42 Scrive: «Del Rosmini, per quel che spetta alla pedagogia rigorosamente
intesa, non si aveva che il Saggio sull’unità dell’educazione, opuscoletto di
poche pagine. I lavori del Tommaseo sono studi serii, monografie peregrine,
pensieri, desiderii, come egli stesso li intitola, sono preziosi elementi
scientifici, ma un organico sistema di scienza non fanno; egli stesso si tiene
in guardia dalla mania de’ sistemi anche in 30 In alcune opere
degli anni ’70, quando il sistema dell’Allievo si consolidò, il vercellese si
discostò esplicitamente da elementi non secondari della filosofia rosminiana.
Nell’opera in cui sistematizza con più rigore le sue teorie ontologiche, vale a
dire Il problema della metafisica (1877), si affranca dal roveretano in merito
alla dottrina dell’essere. Mentre Rosmini crede che l’oggetto primo della
metafisica sia l’essere categorico, astratto e comunissimo, egli lo identifica
nella realtà infinita e finita considerate nel loro insieme e nelle
«vicendevoli loro attinenze»43. Nello stesso saggio, riconoscendo nel fatto di
pensare il primo noto della metafisica, si preoccupa di sottolineare l’assenza
di tale idea in Rosmini44. Sempre in campo gnoseologico, Allievo contesta
inoltre la teoria secondo cui dall’intuito si arrivi alla visione dell’essere
ideale universalissimo. Stando al pedagogista vercellese, l’intuito percepisce
la realtà confusa ed indeterminata45, opponendosi così ad uno degli elementi
caratterizzanti la gnoseologia del roveretano, oltre che oggetto di aspre
contese con la filosofia neoscolastica. Pare ancora più netta la posizione esposta
negli Studi psicofisiologici in merito alla psicologia e al rapporto tra anima
e corpo: «In che ripone il Rosmini l’essenza dell’anima umana? È assai
malagevole impresa il cogliere su questo punto della psicologia capitalissimo
il suo pensiero; tanto parmi intricato, inconsistente, incerto!»46. E poi
motiva: «Il concetto psicologico del Rosmini oscilla incerto tra questi tre
pronunciati: 1° l’anima umana è sentimento dell’Io e niente di più: il sentire
animale sta all’infuori di essa, ossia non è contenuto nella sua essenza; 2°
l’anima possiede di fatto, siccome suoi essenziali costitutivi, il principio
sensitivo animale ed il principio intellettivo; 3° il principio sensitivo è
virtualmente contenuto nelle intellettivo»47. Contrario a tali posizioni considerate
equivoche, proporrà un duo dinamismo coordinato su cui avremo modo di trattare
in seguito. La valenza delle critiche mosse al pensatore roveretano
dall’Allievo, è confermata dalle dure repliche di alcuni dei più «fedeli»
epigoni di Rosmini. A questo proposito, sono molto significativi due scritti di
Pietro De Nardi, rosminiano ortodosso, che stampò due severi pamphlet contro
l’Allievo. pedagogia, e crede che addestrando in maniera variata il pensiero si
serva , meglio che con severe teoriche, all’unità dell’idea. Il Rayneri seppe
far tesoro de’ profondi e svariati lavori parziali de’ pedagogisti, che lo
precedettero, coll’intendimento di ricondurli all’unità della scienza» G.
Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, Torino, Tipografia
Subalpina di Stefano Marino, 1901, pp. 148-149. 43 G. Allievo, Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano
Bruno, Torino, Stamperia reale, 1877, pp. 35, 46. 44 Ibid., p. 47. 45 G.
Allievo, L’uomo e il cosmo, Torino, Tipografia Subalpina, 1891, p. 298. 46 G.
Allievo, Studi psicofisiologici, Torino, Tip. del Collegio degli artigianelli,
1911, p. 60; 47 Ibid., 62; 31 Nel 1883, pubblicò La teorica
rosminiana dello sviluppo graduato della ragione umana difesa da P. De Nardi
contro la traccia di contradditoria che ad essa ha dato G. Allievo. In questo
saggio lo studioso rosminiano considerava «gravissima nella sostanza»48 la
critica mossa da Allievo riguardo lo sviluppo della mente nell’opera del
roveretano, esposta ne Il positivismo in sé e nell’ordine pedagogico. L’anno
seguente De Nardi pubblicò Due sillogismi di Giuseppe Allievo contro la
percezione intellettiva come viene percepita da A. Rosmini49, nel quale
contestava al pedagogista vercellese prima il merito di un appunto sulla
filosofia del roveretano riguardanti i rapporti tra l’anima sensitiva e
intellettiva, e poi criticò un presunto pensiero del vercellese secondo il
quale «oggetti» di natura diversa non possano comunicare fra loro. Una prima
risposta alle accuse del De Nardi appare ne L’uomo e il cosmo (1891), dove
Allievo confuta i pamphlet e una recensione apparsa su Il Rosmini del marzo
1887, sostenendo che fossero state travisate le sue parole. Dopo aver mostrato
l’infondatezza delle critiche fattegli, muove una critica molto significativa a
certi epigoni del Rosmini i quali «s’immaginano, che il sistema rosminiano sia
tutto quanto verità esso solo, sicché chiunque osa muovergli qualche appunto,
bisogna dire che cammina nella via dell’errore»50. Per lumeggiare più
chiaramente il rapporto tra Allievo e Rosmini, è inoltre indispensabile citare
i due testi in cui l’Allievo trattò specificatamente dell’opera del roveretano:
il brevissimo saggio, Il concetto pedagogico di A. Rosmini51 e il più
sostanzioso articolo dal titolo Antonio Rosmini uscito prima nella rivista
universitaria «Studium», e poi pubblicato nel 191252. Il primo lavoro, seppure
breve, appare tuttavia molto significativo. Tale saggio fa parte del già citato
Per Antonio Rosmini, un’opera che raccolse in due volumi gli interventi al
congresso commemorativo per il centenario dalla nascita del filosofo,
organizzato dall’Accademia degli Agiati di Rovereto nel Maggio del 1897. 48 P.
De Nardi, La teorica rosminiana dello Sviluppo Generale della Ragione umana
difesa da Pietro De Nardi contro la taccia di contradditoria che ad essa ha
dato Giuseppe Allievo, professore all’Università di Torino, Intra, Bertolotti,
1883, p. 3. 49 P. De Nardi, Due sillogismi di Giuseppe Allievo, Professore
all’Università di Torino, contro la percezione intellettiva come viene
concepita da Antonio Rosmini esaminati da Pietro De Nardi, Professore di
Filosofia nel Collegio Internazionale Italiano di Torino, con appendice del
medesimo in risposta a T. Mamiani, Modena, Vincenzi, 1884. 50 G. Allievo,
L’uomo e il cosmo, cit., pp. 417-418. 51 G. Allievo, Il concetto pedagogico di
Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, cit., vol. II, pp. 521- 523. 52
G. Allievo, Antonio Rosmini, Pavia, Tipografia Fratelli Fusi, 1912. 32
Nel suo intervento Allievo riconobbe in prima istanza le virtù filosofiche di
Rosmini53, attestando l’importanza di lavori come il Saggio sull’unità
dell’educazione e Del supremo principio della metodica per lo studio della
filosofia e della pedagogia. Tra i principali meriti, individuò l’aver difeso
l’idea che l’educazione è vera, efficace e perfetta solo quando è
«schiettamente cristiana». Un concetto che, secondo Allievo, intuirono in tanti
ma «niuno meglio del Rosmini seppe farla risplendere di quella lucentezza ideale,
che scaturisce dalla ragione speculativa»54. Nella stessa sede, tuttavia,
Allievo volle sottolineare le differenze tra il suo sistema e quello di
Rosmini55. Questa precisazione in un consesso con chiari intenti apologetici a
pochi anni dal Post obitum, conferma con limpidità la volontà di Allievo di
smarcarsi dalla discendenza rosminiana. Il secondo saggio citato, Antonio
Rosmini, è molto più consistente e permette di approfondire le idee di Allievo
circa il roveretano. Introducendo il lavoro, fa notare la grande risonanza che
ebbe il pensiero di Rosmini, e cita tra i suoi discepoli Tommaseo, Cantù,
Sciolla, Berti, Cavour, Bonghi, Pestalozza, Corte, Rayneri. Conduce poi
un’analisi particolareggiata dell’opera filosofica e pedagogica del Rosmini, muovendo
una serie di critiche e «correzioni» al pensiero del roveretano. Riguardo
l’articolazione delle scienze nel sistema del roveretano, parla di un’ambiguità
del Rosmini circa il legame tra la psicologia e l’antropologia56. In seguito
contesta la seguente definizione di uomo tratta dall’Antropologia di Rosmini:
«l’uomo è un soggetto animale, dotato dell’intuizione dell’essere ideale
indeterminato e operante secondo l’animalità e l’intelligenza». Allievo trova
in questo enunciato un eccessivo risalto per la parte «naturale» dell’uomo. Nel
definire la persona, Allievo preferisce mettere l’accento sulla natura
spirituale dell’uomo, poiché in esso l’animalità «è subordinata alla
spiritualità, che la informa e la governa»57. Tale critica è poi smussata
tenendo conto del modo in cui Rosmini affronta e suddivide la scienza
antropologica. Riprende inoltre la critica al concetto dell’intuizione primaria
dell’uomo dell’essere ideale indeterminato: «Questo - dice Allievo - è un
pronunciato fondamentale del sistema di Rosmini, ma è impugnato da molti, e non
è una verità dimostrata con tanto rigore, che debba essere accettata da
tutti»58. Sempre in campo gnoseologico corregge l’espressione rosminiana di
«sentimento corporeo» che secondo 53 «È virtù propria del genio speculativo
risalire ai supremi principi dell’essere e del sapere, e nella loro unità
comprensiva raccogliere tutto un intero ordine di idee organate da questo
sistema» G. Allievo, Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio
Rosmini, cit., vol. II, p. 521. 54 Ibid., vol. II, p. 521. 55 «Ed io, sebbene
da lui discorde in alcuni punti delle sue dottrine filosofiche, mando questo
mio lavoruccio in attestato della mia scienza sincera e profonda ammirazione
verso tant’Uomo» Ibid, vol. II, p. 523. 56 G. Allievo, Antonio Rosmini, cit.,
p. 8. 57 Ibid., 9-10. 58 Ibid., p. 10. 33 Allievo dovrebbe essere
«senso corporeo», e poi aggiunge: «Come pure io non so capire come mai il senso
intellettivo, la cui esistenza è innegabile, possa essere compreso come parte
nel tutto, nella sensitività animale, come fece l’autore»59. Anche in campo
pedagogico, fa degli appunti alquanto critici. Trattando dell’unità
dell’educazione sostenuta dal Rosmini, lamenta l’assenza di un adeguato
approfondimento del concetto di varietà60. Un'altra definizione contestata
riguarda il rapporto tra le affezioni casuali e l’ordine interiore. Allievo
riporta senza rinvii al testo originale: «si conduca l’uomo ad assimilare il
suo spirito all’ordine delle cose fuori di lui, e non si vogliano conformare le
cose fuori di lui alle casuali affezioni dello spirito suo». E poi ne prende le
distanze, «correggendo» le posizioni del Rosmini»61. Sullo stesso argomento,
commentando poco dopo la parte del Saggio sull’unità dell’educazione relativa
all’«Unità degli oggetti» sostiene che è «alquanto sconnessa». Allievo fa
notare come il Rosmini abbia dedicato molto spazio all’analisi
dell’apprendimento e dell’educazione durante l’infanzia, soffermandosi sullo
sviluppo delle facoltà del bambino. Il pensatore vercellese, tuttavia, fa
notare come un corretto sistema pedagogico debba tener conto dell’intervento
educativo, e del fatto che spesso si insegnino cose che il bambino non sa
ancora, e che quindi lo studio delle naturali facoltà del bambino non sia sufficiente
ma debba essere integrato dai metodi educativi esterni62. Anche se riconosce al
Rosmini il contributo sulla libertà d’insegnamento, a dispetto per esempio di
un Gioberti giudicato eccessivamente statalista, l’Allievo contesta al Rosmini
l’affermazione secondo cui la scuola dovrebbe «guardarsi dallo spirito
individuale siccome 59 Ibid., p. 12. 60 «L’autore ripone nell’unità la legge
suprema dell’educazione; nel che io non convengo pienamente con lui. L’unità
vera, effettiva, feconda non può andare disgiunta dalla varietà, né questa può
andare scissa da quella. Unità senza varietà è arida, sterile, priva di moto e
di vita; varietà senza unità è sparpagliata, dissipata, che si sciupa nel
vuoto. L’uno nel vario, il vario nell’uno, ossia l’armonia è la legge suprema
della vita in ogni ordine di cose. Epperò all’umana educazione l’unità e la
varietà tornano essenziali amendue ad un modo. Certamente l’autore non esclude,
né perde di vista la varietà, giacché riconosce la molteplicità delle dottrine,
che si insegnano, e delle potenze, che vanno educate; ma occorreva che avesse
in modo esplicito riconosciuta e formulata la varietà accanto all’unità,
siccome egualmente necessaria» G. Allievo, Antonio Rosmini, cit., p. 17. 61
«Però in riguardo alla dottrina del Rosmini, a me par giusto l’osservare, che
se per una parte sonvi nel nostro spirito affezioni casuali, le quali vanno
acconciate e conformate all’ordine oggettivo delle cose fuori di noi, per
l’altro anche nell’ordine esteriore vi hanno accidentalità e turbamenti casuali
e fortuiti, a cui lo spirito nostro non che adattarsi, deve seguire una
reazione, conservando intatta la sua indipendenza. Anche nel nostro spirito
esiste un ordine oggettivo posto dalla nostra natura, sicché la formula del
Rosmini sembra bisognevole di essere corretta e parmi più conforme a verità
l’affermazione che il supremo principio pedagogico dimora nel mantenere in
perfetta armonia l’ordine oggettivo dello spirito dell’alunno coll’ordine
oggettivo delle cose fuori di lui. S’intende da sé, che quest’armonia importa
il riconoscimento di un principio superiore divino, ed inoltre supremo, in cui
l’ordine oggettivo esteriore e l’ordine oggettivo interiore hanno il loro
centro di unità e la loro cagione efficiente» Ibid., p. 19. 62 «Il Rosmini,
intento, alla legge suprema direttiva dell’umano pensiero descrive per filo e
per segno i momenti successivi, per cui progredisce e per cui va condotta la
mente infantile, il Pestalozzi in iscuola tracciava sulla lavagna a’ suoi
fanciulli una proposizione, che di presente essi non comprendevano, ma
avrebbero compreso col tempo» Ibid., p. 29. 34 da suo capitale
difetto», e osserva: «Questa opinione dell’autore parmi bisognevole di essere
ritoccata. Sta bene che l’educazione pubblica non debba tener conto delle
singole famiglie e de’ singoli individui, ma se non vuole incorrere nel
dispotismo e trasmodare, occorre che essa rispetti mai sempre lo spirito
informatore della famiglia e la personalità individuale di ciascun uomo,
essendochè lo stato è fatto per le famiglie e per le persone singolari, non
questo per quello»63. Oltre alle critiche, emergono anche una serie di
considerazioni positive. Allievo considera di vitale importanza il contributo
di Rosmini nell’aver mostrato la conciliabilità tra lo spiritualismo e la
realtà naturale dell’uomo64, di aver riportato la pedagogia ad un metodo
realista65, il richiamo all’armonia come principio educativo, valorizza il
tentativo di salvare l’unità della persona, l’idea di sviluppo armonico delle
facoltà umane ed elogia il merito di aver unito didattica ed l’educazione. Vivo
apprezzamento egli esprime circa il legame tra pensiero e nazionalità. Allievo
scrive che «è meritevole di nota il rapporto, che il Rosmini istituisce fra il
metodo filosofico e la diversa tempra degli ingegni proprii delle singole
nazioni». Lontano da tentazioni sciovinistiche e da forme di autarchia
culturale, il vercellese sostenne l’importanza di conservare le tradizioni
della filosofia italiana. In questo senso cita la lezione III Del metodo filosofico
in cui Rosmini scrive «Il vero metodo è indigeno all’Italia: il carattere
dell’ingegno italiano consiste nella chiarezza» e ne sottolinea l’importanza66.
Altri autori spiritualisti influenzarono Allievo. Tra questi esercitò un
considerevole ascendente il Bertini67, almeno «quello» precedente alla
conversione razionalista. Lo studio della sua opera, l’Idea d’una filosofia
della vita, rappresentò un momento importante nello sviluppo del pensiero di
Allievo. Il pensiero di Bertini lo convinse ad affermare il Primo teologico,
vale a dire Dio inteso come potenza, sapienza, amore infinito, il Primo
cosmologico e cioè che il creato è l’essere che partecipa della potenza, amore
di Dio, e 63 Ibid., p. 21. 64 «Come la sua filosofia è essenzialmente spiritualistica,
così il carattere, che informa la sua dottrina pedagogica, è lo spiritualismo,
non però lo spiritualismo gretto ed esclusivo, che sacrifica la materia allo
spirito, bensì lo spiritualismo largo e comprensivo, che riconosce come parte
anch’essa essenziale dell’umano composto l’organismo corporeo, ma lo vuole
subordinato all’impero dell’anima razionale» Ibid., p. 41. 65 Trattando del
contributo pedagogico e scolastico dell’impostazione rosmininana osserva: «Un
secondo punto di capitalissima importanza per la scuola normale è questo:
“prima regola del metodo filosofico (scrive l’autore) è che l’osservazione
precede il ragionamento”. Questa norma riguarda propriamente il procedimento,
che deve tenere il pensiero nella costruzione della scienza» Ibid., p. 32. 66
Ibid., p. 33. 67 Sull’influenza del Bertini sull’Allievo, Virginia Quarello che
pubblicò nel 1936 uno dei lavori più completi e attenti sulla filosofia
dell’Allievo scrisse: «L’influenza del Bertini sull’Allievo, specie nel campo
religioso, è stata fortissima tanto che il pensiero dell’uno non solo si
connette, ma perfettamente aderisce a quello dell’altro» V. Quarello, G.
Allievo, studio critico, cit., p. 62. 35 quindi il Primo
enciclopedico per cui «l’infinito s’intria nel finito»68. Secondo Vidari oltre
che il Rosmini, proprio al Bertini, Allievo dovrebbe la fondazione del suo
sistema filosofico69. Stretti rapporti ebbe anche con Augusto Conti. Nei Saggi
filosofici (1866) riportò tre scritti sull’opera del samminiatese: uno
riguardante la Storia della filosofia, una recensione di un libro scritto sul
toscano da Pietro Dotti, e un lavoro sui legami tra il pensiero di Naville e
quello di Conti, con particolare attenzione alle considerazioni espresse dal
filosofo ginevrino nel testo La vie éternelle. Allievo condivide una serie di
concetti del Conti, come la critica al principio moderno secondo cui la
filosofia nasca dal dubbio e non dalla sorpresa dell’essere70, l’analisi dei
criteri della filosofia e il legame con il senso comune, il concetto di errore
e di distinzione. Nel commento alla Storia della filosofia si possono
riconoscere diverse analogie tra le concezioni dei due pensatori. Del testo
citato, Allievo sottolinea diversi elementi positivi: l’idea che la storia
della filosofia debba essere un confronto tra le teorie filosofiche e la
filosofia perenne, l’importanza attribuita alla biografia e al contesto
culturale per cogliere la filosofia, e il criterio «cronologico» con cui il
Conti conduce la narrazione della storia della filosofia guidati da cause di
relazione e connessione. L’unico appunto mosso dall’Allievo al Conti riguarda
la questione degli universali71. Allievo fu anche un buon conoscitore del
panorama culturale europeo e dei maggiori pedagogisti e filosofi stranieri. Si
tratta di un elemento non così comune tra gli autori della seconda metà
dell’Ottocento. Nonostante diffidasse di una certa esterofilia, che contestava
68 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, «La
Cultura filosofica», n. 5, Sett-Ott. 1910, p. 447. 69 «Movendo dalla formula
giobertiana «l’ente crea l’esistente», che non lo soddisfaceva del tutto, e
passando attraverso all’Idea di una filosofia della vita del Bertini, che
all’ALLIEVO era parsa un’opera provvidenziale per la filosofia italiana dopo i
traviamenti a cui l’aveva esposta il Gioberti, Egli si arresta al concetto
cristiano – cattolico della creazione, per cui da una parte è Dio infinito
creatore libero, dall’altra gli enti finiti e reali che trovano in quella la
loro causa prima» G. Vidari, Giuseppe Allievo, Torino, Stamperia Reale Paravia,
1914, p. 6. 70 «Ripudiando il criticismo come propedeutica della filosofia,
egli vuole che il conoscere sia fin dalle prime tenuto per vero, e come tale
riconosciuto ed esaminato dappoi, e non già posto in problema. La natura umana,
perché ragionevole, è nella verità, opperò il conoscere naturale è di per sè
evidènte, non già problematico nè bisognevol di prova. In questa evidenza del
vero o del conoscere ci ripone il supremo ed intrinseco criterio della
filosofia, dal quale fluiscono poi e nel quale si appuntano come criterii
secondarii ed estrinseci l'affetto della verità, il senso comune, la tradizione
scientifica e la rivelazione» G. Allievo, Saggi filosofici, Milano, Gareffi,
1866, p. 384. 71 Osserva il pedagogista: «Quanto è poi al concetto filosofico
del nostro Autore, sebbene mi paja più comprensivo assai e più conforme a
verità che non altri parecchi, durerei tuttavia non poca fatica ad accoglierlo
come definitivo e perfetto. E veramente (per tacere qui di altri argomenti in
contrario ) io non so fare buon viso a quella ontologia scolastiso-wolfiana non
ancora abbandonata a' di nostri, che egli pone come parte integrale, anzi
sublimissima della filosofia; giacché l'essere astrattissimo e onninamente
indeterminato, in cui si vogliono concentrati i sommi universali di essa
ontologia, ove si pigli da sè, disgiuntamente da Dio e dalle realtà finite,
convertasi in un aereo ed inconsistente fantasma, che mal reggendosi di per sè
è quindi impotente ad ammanire un saldo fondamento alla protologia, cardine di
tutto il sapere» Ibid., pp. 359-360. 36 soprattutto ai positivisti
e agli hegeliani, accolse nel suo sistema diversi elementi di autori stranieri:
«Dello spiritualismo tedesco accetta e il sintetismo trascendentale del Krug
(l’io riflette sui “fatti della conoscenza” anzi nella coscienza, per
l’originaria armonia di pensiero e realtà, ideale e reale si sintetizzano) e in
concetto del Krause della personalità ed essenza divina (“l’essere Dio è il principio
personale del mondo”) e il suo Panenteismo, conciliante in sintesi sia la
ragione con l’esperienza, sia il processo analitico (dall’io e dal finito a
Dio) con il processo sintetico (da Dio all’io ed al finito.)»72. Nel Krug
apprezzò la capacità di conciliare il realismo con l’idealismo73. Dello
studioso riprese nei Saggi filosofici (1866)74 il principio della sintesi a
priori, nel tentativo di spiegare l’origine dell’unità tra oggetto e soggetto.
Si tratta di un concetto facilmente accostabile all’idea primaria di Rosmini.
Allievo raccolse così soprattutto le tesi di quanti cercarono di superare le
antinomie dell’idealismo75. Un altro autore molto importante nella biografia
intellettuale di Allievo fu Lotze76, il successore di Herbart all’Università di
Gottinga. Del filosofo sassone cita i Principes généraux de psychologie
physiologique77 che definisce un «lavoro magistrale»78. Allievo lo cita
nell’elaborazione della sua psicofisiologia, nel tentativo di sostenere con il
suo «duodinamismo coordinato» un approccio che coniugasse gli studi
sperimentali con la struttura spirituale della persona. Importante anche il
legame con Maine de Biran di cui accoglie le idee circa il legame tra la
persona umana e la persona divina, Allievo oltre che il principio de «l’autocoscienza
della personalità vivente»79. Spesso citato fu anche Heinrich Pestalozzi. Il
pedagogista vercellese fu quasi «devoto» all’esempio e alla pedagogia
dell’educatore svizzero. Non senza ragioni Calò lo definì un «pestalozziano».
L’unica critica che gli mosse riguardò l’utilizzo del termine «organismo», al
quale Allievo preferisce quello di persona. 72 V. Quarello, G. Allievo, studio
critico, cit., p. 28. 73 G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, Milano,
Agnelli, 1868, p. 42. 74 G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 30. 75 «E dirò
che, con il Krause e con il Jacobi, proprio lo Stahl fu sempre presente
all’Allievo, nella sua opposizione decisa all’idealismo post-Kantiano» V.
Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 83. 76 A riguardo, la Quarello
ha osservato: «Più forte, certamente, fu l’influsso di Lotze specie nel campo
psicologico, benché, a mio credere, si possa pure far risalire al Lotze il
concetto di Dio come suprema realtà personale, che crea il mondo degli spiriti
personali» Ibid., p. 82. 77 H. Lotze Principes généraux de psychologie
physiologique, nouvelle edition, traduite de l'allemand par A. Penjon, Paris,
Bailliere, 1881. Si tratta di una traduzione del primo capitolo del
testo H. Lotze, Medizinische Psychologie oder Physiologie der Seele, Leipzig,
Weidmann’sche bucchandlung, 1852. 78 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit.
79 V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 29. 37 Altri
autori hanno sottolineato il ruolo del vercellese nella ricezione
dell’herbartismo in Italia80. Sempre Calò lo giudicò «più herbartiano di quello
ch’egli stesso non creda»81, un giudizio che fu in seguito emendato82. L’opera
dell’Allievo è anche segnata dall’opera del Naville, a cui lo accomuna la
convinzione che alla base della pedagogia ci debba essere l’antropologia e non
l’etica come per Herbart o la psicologia scientifica come per molti
positivisti. Nella voce sull’Allievo, presente nell’Enciclopedia Filosofica di
Sansoni83 e riportata in quella Bompiani84, Pozzo accosta Allievo perfino a
Plotino, riprendendo la valutazione del Gentile, sostenendo che il vercellese
aveva una concezione teistica di «tipo plotiniano (l’ente uno infinito pone
fuori di sé il molteplice e a sé lo richiama) da cui deriva il concetto di
armonia dell’universo, come “coesistenza” (o “sintetismo”) di esseri che
cooperano sotto l’imperio dell’inesauribile atto di Dio». In sintesi, ci sembra
di poter ragionevolmente sostenere che nonostante i diversi apporti e
«contaminazioni» con diversi autori, il professore piemontese abbia preferito
smarcarsi da discendenze unidirezionali. Più che di Rosmini, di Pestalozzi, di
Rayneri, egli si sentiva un rappresentante dello «spiritualismo italiano». Egli
considerava questa corrente come la più genuina tradizione nazionale85, oltre
che in linea con la più autentica pedagogia e 80 In merito alla crisi del
positivismo iniziata già negli anni ’80 dell’Ottocento, Malatesta e la Bertoni
Jovine commentarono: «Il Labriola prima, il Fornelli e l’Allievo poi e in
ultimo il Credaro, avevano prodotto una svolta molto sensibile negli studi
introducendo nella pedagogia i princìpi più validi dell’herbartismo» D. Bertoni
Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola italiana, cit., p. 43. 81 G.
Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, Prato,
Tipografua Carlo Collini, 1910, pp. 34-35. 82 G. Calò, Dottrine e Opere,
Lanciano, Carabba, 1932, p. 262. 83 Enciclopedia Filosofica, Firenze, Sansoni,
1967, vol. I, pp. 192-193. 84 Enciclopedia Filosofica, Milano, Bompiani, 2006, vol.
I, p. 297. 85 Nel testo già citato Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866
(1867) ripercorre la storia della pedagogia italiana e chiosa: «Le opere
pedagogiche chiamate fin qui a rassegna rivelano un carattere comune, che tutte
le segna di una medesima impronta: lo spiritualismo. È questo il carattere
dominante e tradizionale di tutta la pedagogia italiana da Vittorino da Feltre
al Rayneri. Essa riconosce nel perfezionamento dell’uomo la preccelenza del
principio spirituale sull’organismo corporeo, l’immortalità personale dello
spirito umano e la dipendenza di esso da Dio risguardato come spirito conscio
di sé, distinto sostanzialmente dal mondo, causa creatrice e finale di quanto
sussiste. Essa considera la nostra temporanea esistenza siccome tirocinio e
preludio di una esistenza oltremondana, e conseguentemente vuol preparare il
fanciullo alla sua duplice destinazione, vuol educare in lui l’uomo temporaneo
che passa quaggiù soffrendo, e lo spirito immortale fatto per una seconda vita.
Essa ripudia siccome offensiva della dignità della persona umana la dottrina
che vuole il fanciullo esclusivamente allevato per la patria e pel reggimento
politico dominante, facendolo così, di essere avente ragione di fine, un
semplice mezzo agli arbitrii del Governo e della società. L’ideale dell’uomo
perfetto che la natura ha preformato nell’infante, essa lo addita vivente in
Cristo, assegnando per iscopo all’opera educativa la virtù cristiana, non la
virtù naturale, né la civile, né lo sterile misticismo. Per lei non si da
istruzione vera ed efficace senza l’educazione dell’animo; non vera educazione
morale senza religiosità; non religiosità vera senza Cristianesimo cattolico,
sicché l’educazione ha da abbracciare tutto l’uomo e con tale universalità ed
armonia, che i sensi vengano subordinati alla ragione, il corpo allo spirito,
la libertà a Dio, la vita temporanea alla oltremondana. Mercé questo carattere
dello spiritualismo la pedagogia italiana contemporanea mantiensi fedele alle
sue tradizioni secolari e si ricongiunge colla scuola spiritualistica platonica
di Firenze, perché discepolo ed amico di Giovanni di Ravenna, il grande
scuolaro del Petrarca» G. Allievo, La pedagogia italiana antica e
contemporanea, cit., p. 158. 38 filosofia greca86. Allievo era
convinto che fosse una tradizione che andasse difesa87, soprattutto
dall’idealismo e dal positivismo, considerate teorie di «importazione» aliene
allo spirito filosofico italiano. I. 2. Gnoseologia e metafisica I testi in cui
Allievo affronta i problemi più specificatamente metafisici e gnoseologici sono
i Saggi filosofici (1866), Il problema metafisico studiato nella storia della
filosofia dalla scuola Jonica a Giordano Bruno (1877) e Studi antropologici:
l’uomo e il cosmo (1891). Non si può affermare che su tali questioni il
contributo di Allievo abbia avuto una reale originalità. Lo studioso si è
limitato piuttosto alla ricerca di alcune basi teoretiche che gli permettessero
di fondare la sua pedagogia su una prospettiva «realistica», com’è stata
definita la sua filosofia88. La carenza di approfondimenti è stata oggetto
delle critiche di alcuni studiosi dell’Allievo come la Quarello89 e
Mazzantini90. Sebbene il contributo di Allievo non abbia apportato novità
rilevanti nel discorso gnoseologico e metafisico del tempo, espose comunque il
suo pensiero in modo organico e coerente. Egli considera la Metafisica come il
momento fondamentale della ricerca filosofica, caratterizzata dall’universalità
e dalla trascendenza. La definisce come «scienza del Primitivo»91 o «Scienza
de’ supremi principii del sapere e dell’essere»92. Contro gli orientamenti
antimetafisici di marca positivista e scettica, considerava l’abrogazione del
problema del senso e del «tutto» come un tradimento della filosofia. Essa
trovava la sua ragion d’essere in quel mandato della persona umana, che
strutturalmente e spontaneamente interroga l’Universo e ne pretende un
significato. In questo senso la metafisica collocava la sua origine nel
desiderio dell’uomo di «rendersi ragione di questo 86 G. Allievo, Studi
pedagogici, Torino, Tipografia Subalpina, 1889, p. 33. 87 Accusato di
nazionalismo, Allievo si difese: «Noi siam lontanissimi dall'assumere il
nazionalismo per sommo ed infallibil criterio del Vero; che anzi arditamente
sosteniamo, che nel principio di nazionalità qual è universalmente ammesso v'è
del troppo e del vano assai da tor via, e gli bisogna essere ricondotto entro a
più ragionevoli e modesti confini. Noi invece propugniamo l'italiana filosofia
non per ciò solo che è italiana, ma primamente e precipuamente perché fondata
sulla verità del Teismo cristiano, siccome ripudiamo l'Idealismo di Hegel ed il
Positivismo di A. Comte perché disformi entrambi dal Vero, e non già perché
l'uno di tedesca, l'altro di francese origine» G. Allievo, L’Hegelismo e la
scienza, la vita, cit., p. 14. 88 V. Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e
pedagogista, «Educare», maggio - giugno 1952, p. 151. 89 V. Quarello, G.
Allievo, studio critico, cit., p. 21. 90 C. Mazzantini, Due filosofi
spiritualisti piemontesi della seconda metà del sec. XIX, «Archivio di
Filosofia, organo del R. Istituto di Studi Filosofici», Roma, 1942, n. 1-2, pp.
35-36. 91 G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 284. 92 G. Allievo, Il
problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a
Giordano Bruno, cit., p. 5. 39 gran tutto, che dicesi universo»93,
un’esigenza che non può essere soppressa, pena la negazione dell’identità
umana. Sulla scorta del rosminianesimo e di molta filosofia cristiana, Allievo
rileva come la crisi della metafisica fu prima inaugurata dal soggettivismo di
Cartesio e poi consacrata dal criticismo di Kant. La gnoseologia moderna era
soggiogata, a suo giudizio, da un equivoco legato alla volontà di condurre in
dubbio il valore veritativo e orientativo dei criteri dell’evidenza e del senso
comune insiti nell’uomo. Si tratterebbe di un cortocircuito conoscitivo dai
corollari disparati. Se, infatti, da un lato si svaluta la ragione riducendone
il dominio (kantismo), dall’altra si arriva a «divinizzare» l’Io (idealismo),
attribuendo alla razionalità umane quasi gli stessi attribuiti che i teologi
avevano sino ad allora riservato al Creatore. Per superare l’impasse, Allievo
sollecitò in coro con il resto degli spiritualisti una correzione radicale
della prospettiva. La filosofia non poteva uscire dalla palude dello
scetticismo, se non «attestando» e «accettando» dei criteri conoscitivi
immanenti all’uomo. Questa soluzione era considerata l’unica possibilità per
uscire dall’equivoco gnoseologico moderno. Le sue posizioni gli costarono la
critica del Gentile, che nel saggio sulle origini della filosofia
contemporanea, inserisce l’Allievo tra i «mistici», cioè tra quei filosofi che
continuavano a «credere» nell’esistenza di una realtà «esterna» all’Io
pensante. Non potendo «dimostrare» l’esistenza del mondo e spiegare il suo
rapporto con lo spirito, secondo Gentile, i realisti accettano in modo
fideistico il senso comune. Per questa ragione, ossrvò che quella di Allievo è
«una filosofia fondata sul mistero dell’evidenza»94, una critica poi ripresa e
approfondita dalla Quarello95. Il sintetismo, cioè un’interpretazione della
relazione intima tra l’essere e il pensiero in un’ottica realista, era
considerato da Gentile come una soluzione non fondata per motivare la relazione
tra la mente e il «supporto» mondo esteriore96. Questa visione armonica
dell’essere, è anzi letta da Gentile, nella sua tipica riduzione della storia
della filosofia a preambolo di un compiuto Io spirituale, come delle tesi
idealiste «mancate». 93 G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella
storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, cit., pp. 2-3. 94
G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I platonici,
cit., p. 366. 95 V. Quarello, G. Allievo, sudio critico, cit., p. 20. 96 «Il
sintetismo dell’Allievo, dunque, non vale più dell’ordine del Conti. Anche per
l’Allievo basta il sintetismo ad aprire tutte le porte e svelare tutti gli
enimmi. Così il gran problema gnoseologico del rapporto del pensiero con l’essere,
per l’Allievo è prima risoluto che formulato. Criticismo o scetticismo?
Separazione dell’essere dal pensiero, o identità dell’uno con l’altro? Ma il
sintetismo c’insegna che tutto è unito e distinto in natura, e ciascuna forza
opera consociata con tutte le altre! Anche il soggetto e l’oggetto vorranno
essere insieme connessi, ma non confusi: conciliati in un armonia, che non sia
per altro la negazione delle loro differenze» G. Gentile, Le origini della
filosofia contemporanea in Italia. I platonici, cit., p. 366. 40 Il
filosofo siciliano riconobbe in ogni caso nell’Allievo «una certa inquietudine
circa la saldezza del suo principio filosofico»97, originata dal confronto con
la logica hegeliana, che gli avrebbe «turbato i sonni» nel corso della sua
opera. Di fronte alla tesi idealista, Allievo reputava l’accettazione
dell’essere come l’atto più consono alla natura razionale dell’uomo98. Si
tratta di un’attestazione «misteriosa», ma non per questo irrazionale99. Il
primo dato della coscienza è la percezione di un mondo fuori di noi, tale dato
si può o accettare o rifiutare, non si può dimostrare. Secondo l’Allievo la
filosofia trova il suo fondamento nella constatazione dell’esistenza
dell’essere. Il pedagogista sollecita perciò a tornare ad un sano realismo, a
ripartire dal mondo delle cose, dal dato semplice della sua esistenza, dal
mistero del sé, per giungere solo dopo all’Eterno. Ciò ha conseguenze
gnoseologiche importanti, tra le quali il fatto che stando all’Allievo il ruolo
iniziale nel ragionamento risiede nell’intuito che si muove verso la
comprensione. Nel saggio Il problema metafisico studiato nella storia della
filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, egli traccia una serie di
stadi, o passaggi, con cui si sviluppa un pensiero filosofico compiuto. Un
primo livello della riflessione riguarda la constatazione dell’esistenza di un
senso comune e di criteri con i quali di norma si valuta e si giudica, in un
secondo momento vi è un pensiero critico che si interroga sulla veridicità di
quanto pensato, nell’ultimo passaggio il pensiero speculativo indaga e verifica
con criteri validi e veritativi. Per l’Allievo, la riflessione speculativa non
è la negazione del senso comune, ma ad esso è strettamente legato, poiché i
criteri veritativi emergono spontaneamente nella persona, e non sono la
costruzione dell’impegno filosofico. Il compito della metafisica è dunque
proprio quello di riconoscere la «realtà della vita, pur mentre la spiega e si
solleva al di sopra di essa per dominarla dall’alto: essa rispetta le credenze
universali del genere umano, conformasi alle esigenze della natura umana, tien
conto de’ suoi bisogni, soddisfa le sue imperiose aspirazioni, e non disconosce
veruno degli elementi integrali dell’umanità»100. 97 Ibid, p. 368. 98 Osserva a
proposito «Nel fatto della cognizione il soggetto e l’oggetto si compenetrano
misteriosamente l’un l’altro senza però smettere ciascuno la sua la propria ed
individua natura» G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 14. 99 In un brano
molto significativo, quasi replicando a tale obbiezione, Allievo enuclea la sua
concezione del mistero: «La ragione ha certamente il diritto di respingere
l’assurdo, perché l’assurdo ripugna, ma non ha diritto di respingere il
mistero, perché il mistero è una proposizione, di cui si conoscono i singoli
termini, che la compongono e non si comprende bene il nesso, che collega il
soggetto col predicato. Quindi possiamo affermare che in ogni mistero dogmatico
vi è sempre alcunché di conosciuto accessibile alla ragione, come in fondo di
ogni verità conosciuta dalla ragione umana vi è sempre alcunché di ignoto, di
tenebroso, un’ombra del mistero» G. Allievo, Appunti di Antropologia e
Psicologia, Torino, Carlo Clausen, 1906, pp. 33-34. 100 G. Allievo, Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano
Bruno, cit., p. 38. 41 Allievo identifica nel «primo noto»,
evidente e concreto, la base della sua speculazione metafisica. Si tratta di
quanto il vercellese chiama anche Io penso, da cui nasce la constatazione che
l’essere esista e che possa essere riconosciuto nella sua realtà e verità.
Sulla relazione tra il pensiero e il reale, si pone in continuità con il
concetto di sintetismo esposto da Rosmini. Allievo ammetteva un Universale
ontologico assoluto a cui erano subordinati i singoli universali ontologici,
attraverso la legge del sintetismo e dell’armonia101. Il suo realismo gli
impedisce di ammettere sia tesi che vorrebbero la causa del reale come qualcosa
di non reale, sia quelle le forme di spiritualismo che identificano Dio con
qualsiasi essere ideale. Secondo Allievo sebbene Dio sia l’origine dell’uomo e
di tutte le cose non si identifica con esse. E anche qui applica una delle
regole classiche della sua filosofia, il «Distinguere per unire», enunciato già
nei primi libri, e posto alla base della sua gnoseologia102. In questo senso,
avversa sia l’identificazione del pensiero con l’essere di origine idealista,
sia il monismo materialista. La Quarello ha considerato insufficiente la
spiegazione della relazione tra l’Io e il non Io nel pensiero del Vercellese:
«Il punto debole del sistema dell’Allievo è proprio qui, in sede gnoseologica,
nell’avere, cioè, posto a base della speculazione puramente filosofica
l’evidenza dei dati della realtà, nell’avere voluto che il sapere filosofico
non fosse che elaborazione del sapere naturale (oggettività della conoscenza)
ammettendo poi, senza spiegarla, un’intima “conciliazione” fra ragione ed
esperienza»103. E ribadisce «L’Allievo non ci spiega il come dell’atto
conoscitivo anche se ampiamente ha tentato di svolgere la sua tesi di una
corrispondenza tra pensiero e realtà, tra soggetto ed oggetto, tale da essere
considerata una unione stabilita da natura, secondo la legge dell’ordine
universale per la quale tutti gli esseri armonizzano in unità una molteplicità
di parti e cooperano e sono uniti fra loro, pur rimanendo distinti, sì da
formare una totalità armonica»104. I. 3. Il principio della personalità 101
Suraci spiega con le seguenti parole il «percorso» che va dal primo nota alla
vera conoscenza: «L’Allievo nota che il pensiero, nel suo movimento dialettico,
descrive un circolo non vizioso, ma solido per cui dall’uno gnoseologico,
l’universale oggetto dell’intuito primitivo, si passa al molteplice della cognizione
determinata, distinta, oggetto della riflessione: dal molteplice si passa poi
alla visione comprensiva delle cose e quindi alla visione mentale dell’Uno
ideale. Dialetticamente la mente umana, secondo l’Allevo, non fa che
“discorrere dalla cognizione intuitiva o virtuale dell’Uno gnoseologico alla
cognizione riflessa o attuale del suo molteplice ideale, e dalla cognizione
attuale del molteplice ideale alla cognizione attuale dell’Uno gnoseologico”.
Questa formula del movimento del pensiero somiglia molto da vicino a quella
enunciata dal Rosmini nel n. 701 della sua Logica, al quale l’Allievo si
attiene, citandolo spesso nel corso di questi “Saggi” e, potremo dire, in tutte
le sue Opere» V. Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e pedagogista, cit., p. 158.
102 G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 3. 103 V. Quarello, G. Allievo,
studio critico, cit., p. 21. 104 Ibid., p. 23. 42 Il 18 novembre
1903 Giuseppe Allievo lesse all’Università di Torino una prolusione dal titolo,
Il ritorno al principio della personalità105. In quella occasione, ripercorse
l’itinerario delle sue opere identificando in questo concetto il punto cardine
di tutto il suo pensiero106. Questa considerazione fu poi ribadita qualche anno
dopo nella prefazione degli Opuscoli pedagogici107. Oltre a riprendere il
contenuto di questo principio e a mettere in luce la rilevanza nell’economia
del suo pensiero, diversi autori hanno considerato l’elaborazione del principio
della personalità come il più importante contributo di Allievo alla storia del pensiero
pedagogico e filosofico108. Calò ne ha ricordato la valenza pedagogica,
osservando come «nessuno con tanta consapevolezza e chiarezza aveva prima di
lui messo in luce quel principio e mostratane la fecondità e illuminatane
vivamente tutta quanta l’opera educativa»109. Con questo principio, Allievo
affronta la più profonda questione antropologica, vale a dire la specificità
dell’uomo rispetto al resto della natura. Di fronte alla domanda «chi è
l’uomo?» Allievo parla della persona come «una mente informante un organismo
corporeo»110. Egli individua due piani strettamente connessi: «nell’uomo la
mente ed il corpo sono due sostanze diverse, eppur fatte l’una per l’altra il
corpo è animato, l’anima è 105 G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità,
Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, Torino,
Tipografia degli Artigianelli, 1904. 106 Citò la prima prolusione letta
all’Università nel 1870, in cui già enucleò tale principio. Scrisse: «Questo
nuovo concetto, che allora mi era balenato alla mente, fece la sua prima
apparizione nella mia Prolusione universitaria del 1870, intitolata appunto Il
principio della personalità, base della scienza e della vita. “Questo principio
(io scriveva allora) è quel centro ideale, che vale a comporre le antinomie tra
le dissidenti scuole filosofiche nel mondo del sapere, ed i dissidi tra gli
elementi sociali nel mondo dell’operare, e questi due mondi della scienza e
della vita insieme composti solleva ad una unità superiore, che è il punto di contatto
e di armonia di entrambi. Enunciando in una breve e chiara formola questo
concetto, poniamo che, senza il riconoscimento speculativo e pratico della
personalità, non si dà né vera scienza, né vera vita per l’uomo.” Da quel punto
questo principio diventò il pensiero dominante della mia mente, il tema
perpetuo delle mie meditazioni, lo spirito animatore de’ miei lavori e delle
mie lezioni, la mia credenza filosofica rimasta incrollabile e costante in
tanto volgere di anni, in mezzo a tante rivolture e volteggiamenti d’ingegni e
di dottrine, l’arma della mia critica contro tutte quelle teoriche e quei
sistemi che inchiodarono la scienza e la vita sul nudo calvario dei fenomeni
sensibili, senza uno spirito che li animi e li illumini» Ibid., p. 4. 107 «Tutti
i miei lavori pedagogici, a qualunque punto della umana educazione si
riferiscano, sono informati da una idea unica e suprema, il concetto della
personalità umana: da esso si vanno logicamente esplicando, in esso si
ritrovano il loro principio di armonia, in esso si compongono ad una
comprensiva e potente unità» G. Allievo, Opuscoli pedagogici, Torino,
Tipografia del Collegio degli Artigianelli, 1909, p. 5. 108 Cannella, che
peraltro afferma come il pedagogista piemontese non sia stato «in Italia conosciuto
ed apprezzato abbastanza» scrive sul principio di personalità: «Lasciando da
parte le sue critiche storiche, acute, precise, e bene spesso pregevolissime,
io credo, per esempio, che la sua idea fondamentale pedagogica dell’educazione
della personalità meriti molta considerazione e racchiuda in sé il nucleo vero,
intorno a cui si deve aggirare una dottrina pedagogica. E così si può dire di
molte sue opinioni sui problemi pratici, dove tanta confusione regna oggi, e
dove l’Allievo ha già disegnato soluzioni assai giuste» G. Cannella, Opuscoli
pedagogici inediti ed editi di Giuseppe Allievo, in «Rivista di Filosofia
Neoscolastica», n. 2, 20 aprile 1910, p. 209. 109 G. Calò, Dottrine e Opere,
cit., pp. 261-262. 110 G. Allievo, La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
Torino, Tipografia Subalpina, 1904, p. 3. 43 incorporata»111.
L’uomo è definito «sintesi vivente di un’anima razionale e di un corpo
organico, insieme composti ad unità di essere; o meglio ancora è una mente
informante un organismo corporeo, prendendo qui il vocabolo mente come sinonimo
di spirito, ossia di anima razionale»112. Questo primo antropologico scaturisce
dalla sua profonda origine: «Lo spirito umano, ossia la mente sostanziale è
persona per essenza, il corpo umano con essa congiunto in unità di essere è
personale per derivazione e partecipazione, ossia è della nostra personalità
complemento estrinseco, non già principio intrinseco»113. Si tratta di una
prospettiva che ha implicazioni teologiche. Trattando di questo principio
Mazzantini ha osservato: «non è, dico, d’importanza suprema solo in quanto
rivela l’uomo a se stesso, ma in quanto altresì offre un principio supremo
interpretativo della realtà universale, compresa la stessa realtà divina»114.
Su questo versante, è stato osservato come il principio della personalità sia
imprescindibile dal teismo di Allievo115. Per il vercellese, infatti, il
concetto di persona trova la sua ragion d’essere e il suo compimento nella
relazione con la Persona infinita116. In una radicale e metafisica indagine
antropologica, Allievo individuava la questione nodale della scienza
pedagogica: «Ora l’idea fra tutte la più comprensiva, la più feconda, la
generatrice di tutto il sapere speculativo, è, se io ben veggo, l’idea della
personalità. Il moto riformatore della scienza debbe esordire da lei»117. Il
destino della pedagogia era legato al rispetto di questo principio, che invece
considerava minacciato dalle teorie coeve. Nel saggio già citato Sulla
personalità umana, elenca una serie di orientamenti che 111 Ibid., pp. 49-50.
112 G. Allievo, Appunti di Antropologia e Piscologia, cit., p. 3. 113 G.
Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 78. 114 C. Mazzantini, Due filosofi
spiritualisti piemontesi della seconda metà del sec. XIX, cit., p. 33. 115 Ha
scritto in merito Suraci: «Il principio “personalistico” serve all'Allievo per
affermare senz'altro in sede pedagogica, che, “la personalità finita
dell'educatore e quella dell'educando si reggono sulla personalità infinita di
Dio, trovano in questa la loro ragione sulla personalità infinita di Dio,
trovano in questa la loro ragione di essere la loro causa efficiente”. Ebbene,
bisogna porsi da questo punto di vista ontologico ed essenzialmente religioso
per intendere a pieno il valore e il vero significato della pedagogia
dell'Allievo, nella quale convergono con ricchezza di argomenti e di ampia e,
spesso, di esauriente trattazione scientifica, tutti i temi relativi
all'essenza e allo svolgimento della natura umana e della educazione dell'uomo.
La religiosità, la credenza di Dio e nella immortalità dell'anima, rimane, per
il nostro autore, il punto di partenza e di arrivo dell'azione educativa, il
cardine essenziale in cui si radica e gira la pedagogia; è luce inoffuscabile
che deve rischiare l'idea e il fatto dell'educazione: “l'uomo si muove in Dio,
principio della sua vita, fine supremo della sua esistenza”» V. Suraci,
Giuseppe Allievo filosofo e pedagogista, cit., p. 9. 116 «La coscienza
personale è il primo, fondamentale pronunciato da cui esordisce la scienza. La
persona umana sovrasta per eccellenza e nobiltà di natura su tutto il corporeo
universo; ma finito qual è sottostà alla personalità infinita divina. Non
bisogna mai perdere di vista questa dualità di essere personali, che si
richiamano e si corrispondono; poiché, tolta la prima, l’uomo rimane
oltraggiato nella sua dignità personale e diventa una cosa; tolta la seconda,
si apre il varco al più ignobile egoismo, alla libertà più sfrenata, alla più
selvaggia indipendenza . L’uomo riconosce l’esistenza di un essere
personale infinito, dacchè egli stesso è una persona finita, e con esso si
congiunge con un vincolo d’intelligenza e di amore. Questo vincolo costituisce
la religione, la quale forma l’oggetto della disciplina religiosa» G. Allievo,
Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di
Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 11. 117 G. Allievo, Sulla
personalità umana, Torino, Fina, 1884, p. 4. 44 reputava nocivi a tale
principio118. Divide queste teorie in due gruppi. Nel primo inserisce i sistemi
che disconoscono la persona nella vita speculativa: il panteismo, il
calvinismo, il fatalismo, il materialismo e l’ipermisticismo. Si tratta di
teorie accomunate dalla svalutazione dell’apporto dell’individualità nella
storia e nella vita. Nel secondo raggruppa gli orientamenti che menomano il
ruolo della persona nella vita pratica: il socialismo, la statolatria, il
dispotismo del costume. Si tratta di teorie che riducono la persona ad un
«mezzo» per il raggiungimento del progresso della società. Nell’ultimo sistema
citato, il dispotismo del costume, Allievo si schiera contro certa sociologia
«per cui ciascuno vien tratto a conformare il proprio vivere e pensare, al vivere
ed al pensare altrui come a norma suprema»119. Oltre alle teorie citate, il
pedagogista vercellese denunciava il rischio di ingigantire il ruolo di un
aspetto della persona a discapito della sua totalità. Il professore vercellese
riconosce questa tendenza in due grandi sistemi che allora si contendevano il
campo della filosofia: il positivismo e l’idealismo. Secondo Allievo la mente
non è quella degli idealisti, staccata dal corpo e superiore ad esso, ma non è
neanche quello dei positivisti e di certi psicologi sperimentali che riducevano
il pensiero ad un’espressione materiale. Anche se non si confonde con essa, la
vita della mente e dello spirito è intimante connessa con quella carnale120. La
loro relazione non deve condurre all’assimilazione di una delle due nature che
compongono l’uomo121. Entrambi i livelli sono distinti in una stretta
«collaborazione»: «l’essere umano possedendo un corpo organato alla vita
materiale non può essere spiegato tutto quanto senza la materia, ma neanco può
essere spiegato colla sola materia, dacchè il suo organismo è informato di una
sostanza spirituale»122. Sebbene il rapporto tra materia e spirito nell’uomo
rimanga un «mistero»123, non è ammissibile assimilare su questo presupposto la
persona al resto della natura determinata. Nella vita dell’uomo, infatti,
emergono proprietà irriducibili alle dinamiche delle entità 118 Ibid., pp.
54-57. 119 Ibid., p. 57. 120 «L’uomo è siffattamente costituito, che non vi ha
parte del suo essere, la quale non viva congiunta coll’universo corporeo
esteriore. Sentire, pensare, volere, sono i tre supremi attributi costitutivi
dell’umano soggetto; e tutti e tre si svolgono in intima ed operosa
corrispondenza colla natura, fuor della quale rimarrebbero atrofizzati» G.
Allievo, L’uomo e la natura, Torino, Carlo Clausen, 1906, p. 4. 121 La natura e
lo spirito sono uniti «ma sarebbe gravissimo errore il credere, che siffatta
unione si converta in una identità, negando così ogni sostanziale distinzione
fra l’uno e l’altra, e confondendoli in una comune essenza. La distinzione
esiste e non distrugge l’unione. Poiché nel mondo esteriore le sostanze sono
corporee, e quindi i fenomeni e le forze sono fisici; nel mondo interiore la
sostanza è l’anima, i fenomeni sono psichici, le forze sono facoltà o potenze.
Ma il punto più spiccato, che distingue questi due mondi, malgrado la loro
cospicua armonia, sta in ciò, che l’anima ha la coscienza de’suoi fenomeni, il
dominio delle sue potenze; e questa coscienza di sé, questo dominio di sé manca
alla natura» Ibid., p. 6. 122 G. Allievo, La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., p. 4. 123 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 11. 45
fisiche. Come osserva Allievo: «il punto più spiccato che distingue questi due
mondi malgrado la loro cospicua armonia, sta in ciò, che l’anima ha la
coscienza de’ suoi fenomeni, il dominio delle sue potenze»124. Negando la
natura spirituale dell’uomo, la realtà effettiva della persona sfugge alla
comprensione: «È un dogma del senso comune ed un pronunciato della sapienza
filosofica tradizionale, che l’uomo non è tutto quanto materia organata, come
non è neppure uno spirito puro, bensì una sintesi stupenda, un’armonia vivente
di questi due distinti principii insieme composti ad unità di persona: ponete
che tutto il suo essere si risolva in un composto di molecole organate a vita
materiale, e voi non capirete più nulla dei solenni problemi, che agitano la
coscienza dell’umanità, più nulla delle sublimi aspirazioni, che fervono
indomabili nei penetrati dello spirito umano»125. Per il vercellese, è lo
spirito che dà dignità all’uomo, sollevandolo dal resto della natura. La
persona esprime il grado sommo dell’essere e lega l’individuo all’eterno. La
coscienza dell’esistere colloca la persona in una dimensione irraggiungibile
per qualsiasi altro essere della natura. L’esigenza di sottolineare il primato
spirituale lo portò il docente piemontese a criticare in una serie di lavori la
definizione aristotelica dell’uomo come animale politico126, che reputava
ambigua. Data la confusione antropologica coeva, Allievo non reputava
conveniente indicare primariamente nell’uomo la natura animale. Si rischiava di
avallare le tesi dei materialisti positivisti e di un certo evoluzionismo127,
che volevano ridotto l’uomo ad un «bruto», per usare le parole di Allievo128.
Il pedagogista avvertiva il rischio di ridurre lo studio della persona, al solo
aspetto materiale: «Per conseguente l’antropologia, anziché scienza distinta e
superiore, apparirà niente più che una parte della zoologia, parte la più
sublime, se vuolsi, ma pur sempre una parte»129. 124 Ibid., p. 15. 125 Ibid.,
p. 9. 126 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 80. 127 Osserva: «La
tristissima definizione, l’uomo è animal ragionevole, non solo capovolge
l’ordine naturale, che regna tra questi due elementi, ma soppianta ben anco la
stessa personalità umana, la quale ha la sua propria sede e radice nella mente
imperante sull’organismo corporeo e fornita di una perenne sussistenza, mentre
essa pone l’animalità siccome soggetto, di cui la ragionevolezza apparisce un
mero e semplice predicato, tantochè venendo meno la prima, cessa issofatto la
seconda, né questa può spiegare altra virtù, che non sia compresa nella cerchia
di quella»127. In seguito ribadisce che accoppiare «all’animalità la
ragionevolezza come ad un soggetto un attributo suo è un disconoscere il
primato dello spirito sulla materia e della mente sull’organismo corporeo
nell’uomo, ed un aggiudicarlo alla materia sullo spirito, al corporeo organismo
sul principio pensante» G. Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di
fronte alla società, Genova, Tipografia del R. Istituto dei sordo – muti, 1874,
p. 7. 128 «Mentre il bruto opera per impulso irresistibile di cieco istinto,
l’uomo opera consapevole di sé e del fine a cui mira, ed è arbitro delle sue
azioni. Questa potenza, per cui l’umano soggetto si determina da sé ad operare
per un fine conosciuto, è la volontà» G. Allievo, La scuola educativa, principi
di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., p. 46. 129 G. Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di
fronte alla società, cit., p. 6. 46 Per riscoprire l’autentica alterità
umana, era invece compito dell’antropologia evidenziare nello sviluppo della
persona quegli aspetti irriducibili al divenire determinato. Allievo richiama
all’osservazione dell’uomo, delle sue facoltà, e della sua azione. Egli afferma
che in ogni uomo inizia, prima o dopo, la «vita spirituale» che consiste nella
coscienza del sé e del mondo: «Io sono: con questo pronunciamento un essere
personale si desta alla vita, annunzia la propria esistenza, afferma se stesso,
rivela sé a se medesimo, e specificamente si differenzia dagli esseri
impersonali che esistono, pur non sapendo di esistere. Questa coscienza di sé
può essere più o meno viva, più o meno ampia e potente, ma è pur sempre
necessaria all’io, poiché una incoscienza assoluta ripugna alla natura di un
essere intelligente, qual è la persona»130. Nella visione di Allievo,
l’affiorare dell’Io, diviene così la prova della natura spirituale della
persona: «Il vocabolo io chiude esso solo in sé la più decisiva confutazione
del materialismo, essendochè il ripiegarsi che fa l’io sopra di sé ed il riconoscersi
siccome sostanzialmente identico nella dualità del soggetto riflettente e
dell’oggetto riflettuto è dote propria dello spirito ed affatto ripugnante
all’essenza medesima della materia, che è di sua natura impenetrabile, cioè
tale da non poter compenetrare interiormente sé stessa e tutta riconcentratasi
siccome in semplicissimo punto: chè in tal caso cesserebbe di essere
materia»131. L’emergere della individualità personale all’interno del mondo,
indica anche lo sviluppo della coscienza alla scoperta della propria
esistenza132. L’Io emerge primariamente in due connotati propri, vale a dire
l’intelligenza e l’attività volontaria133. In questo senso definisce la persona
come «sostanza dotata di intelligenza, mercé cui ha coscienza di sé
affermandosi quale unità vivente di vita sua propria distinta dalla realtà
esteriore e pur con questa unità, e di attività volontaria, per cui possiede sé
stessa e dispiega liberamente la virtualità sua in ordine al fine universale
segnato dalla personalità infinita di Dio»134. Questi due attributi sono
l’espressione della coscienza, in 130 G. Allievo, Il ritorno al principio della
personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903,
cit., pp. 4-5. 131 G. Allievo, Sulla personalità umana, cit., p. 17. 132 «La
coscienza personale è l’io, che rivela sé a se medesimo. Ora quali sono le
rivelazioni della coscienza interiore? L’io sente di essere uno od identico con
se medesimo, di possedere un’esistenza effettiva e reale, si riconosce e si
afferma una sostanza sussistente, attiva, semovente, operosa, che svolge la sua
intima virtù in una molteplicità di pensieri, di affetti, di voleri, ed in sé
li raccoglie ad unità» G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità,
Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 6. 133
«Lo studio della personalità umana è lo studio dela mente contemplata
primariamente in sé medesima, poi nelle attinenze su coll’organismo corporeo.
La mente, sede della personalità, emerge da due supremi costitutivi, che sono
l’intelligenza conoscitiva e l’attività volontaria» G. Allievo, Sulla
personalità umana, cit., p. 16. 134 Ibid., p. 55. 47 cui l’uomo
trova la sua indipendenza, alterità e potenza rispetto al resto della
natura135. Con altre parole, Allievo osserva: «Dovunque c’è la persona, cioè un
soggetto dotato di intelligenza ed attività volontaria, là vi è lo spirito. La
persona è una energia, un’attività, una forza, non cieca, ma intelligente e
conscia di sé, non fatale e necessitata, ma libera e signora di sé, lo domina e
lo trasforma informandolo giusta il suo ideale: ma la materia non conosce né se
stessa, né lo spirito, non domina sé medesima, ma è irrepugnabilmente dominata
dalle forze, che la investono»136. Nell’uomo, infatti, la volontà è radicata
nell’intelligenza137. Solo una prospettiva simile, per Allievo, è capace di
comprendere la vita della persona, e salvare la sua unità138. Commentando una
parte del celebre libro di Smiles, Self – help, tradotto in Italia con il
titolo Chi si aiuta Dio l’aiuta, Allievo scrive che ognuno: «sente di essere
un’attività consapevole di sé ed arbitra del proprio operare, una forza morale,
che si muove all’atto non per esteriore costringimento, ma per intrinseco
impulso intelligente e libero. “Se ciò non fosse (scrive lo Smiles nel capitolo
VIII della sua opera Chi si aiuta Dio l’aiuta), dove sarebbe la responsabilità?
A che gioverebbe lo insegnare, l’ammonire, il consigliare, il correggere? A che
servirebbero le leggi, ove non fosse la credenza universale, come è un fatto
universale, che gli uomini obbediscono o no ad esse, secondo che deliberarono
individualmente?”»139. 135 «La persona è un tutto individuo e sostanziale, che
afferma sé come distinto dalla realtà universa; un soggetto, che possiede sé
stesso mercè il pensiero e la volontà; una monade, che è conscia sui et compos
sui, è presente a sé ed è tutta in ciascuna delle molteplici sue forme,
determinazioni, momenti e stati, sicché il secreto de’ grandi caratteri dimora
nel conservare la propria individualità personale in mezzo alle forze contrarie
padroneggiandole; una sostanza dispiegantesi per intrinseca sua virtù da un
centro o principio supremo di vita suo proprio e che nello esplicamento del suo
contenuto compenetra tutta sé stessa in una viva ed attuosa unità di intendere
e di volere» Ibid., p. 54. 136 G. Allievo, Lo spirito e la materia
nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, Torino, Carlo Clausen, 1903, p.
15. 137 Secondo Allievo l’attività volontaria è «la fonte secreta,
inesauribile, da cui prorompe tutta la corrente della vita umana, ed a cui
rifluisce con perpetuo circolar movimento. Il voglio pronunciato dall’io
attesta l’atto di una coscienza personale ed annuncia il lavoro. S’intende da
sé che questa forza, quest’attività interiore dell’io non è una volontà cieca,
inconsapevole di sé, bensì illuminata dall’intelligenza, essendochè chi dice
coscienza, dice conoscenza, e propriamente conoscenza di sé» G. Allievo, Il
ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino
il 18 novembre 1903, cit., p. 8. 138 «La coscienza è la rivelazione dell’anima
a sè stessa nella sua natura e ne’ suoi fenomeni, nella sua sostanza e ne’ suoi
modi, nella sua essenza e nella sua attività, nel suo essere e nelle sue
manifestazioni. Così il concetto della personalità umana, vale a dire di un
soggetto sostanziale fornito di intelligenza e di libera volontà, è il solo,
che concilii la molteplicità dei fenomeni coll’unità del loro comune soggetto,
sicché questi due termini nello sviluppo della vita umana si mantengano
indisgiungibili, e si rischiarano l’un l’altro» G. Allievo, Studi
psicofisiologici, cit., p. 74. 139 G. Allievo, La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit.,
p. 47. 48 L’esistenza nella persona di una unità tra mente e corpo,
rappresenta una premessa incontrovertibile su cui dipanare il discorso
antropologico e pedagogico140. Negare questa dualità nell’uomo, significherebbe
disconoscere un dato di realtà. Stando al pedagogista, la stessa idea di
scienza appare contenere implicitamente l’affermazione dell’esistenza della
coscienza141. Allievo dedicò ampio spazio al rapporto tra la dimensione
spirituale e quella corporale. Com’è già stato osservato, l’uomo è sintesi tra
persona e corpo, due nature che si mantengono in una relazione di armonia
nell’uomo. In questo senso egli definisce l’uomo come «persona organata»142 o
«persona incorporata». Questa relazione, pone il problema di come i due livelli
siano coordinati tra loro. Come premessa a questo problema, Allievo scrive che
«nell’uomo non vi sono due esseri, ma uno solo; quindi in lui le potenze
mentali dell’anima e le funzioni animali del corpo si svolgono complicate
insieme, sicché non si può tracciare una linea di separazione tra i fenomeni
psichici ed i fisiologici»143. Contro i positivismi chiarisce in più di
un’occasione che la vita della mente va distinta da quella materiale. Osserva:
«L’anima non trae la sua origine dagli organi del corpo, ma (dicevano i pitagorici)
vien dal di fuori nel corpo è un’emanazione dell’etere, simbolo dell’anima
universale, ossia di Dio animatore supremo»144. Nel testo Studi
psicofisiologici, si occupa in specie della relazione tra la natura spirituale
e quella fisiologica, citando diverse opere di studiosi tra cui Marat, Lèlut,
Lotze, Cerisem, Cabanis, Broussais ed Herzen. Polemico contro il monismo
scientista, propone una teoria chiamata duodinamismo, che spiega in questo
modo: «Mentre il monodinamismo concentra la vita umana tutta quanta in una
sostanza, cioè o nel solo spirito o nella sola materia componente l’organismo
corporeo, il duodinamismo riconosce nell’uomo due centri di vita
sostanzialmente distinti, cioè l’anima razionale e la forza vitale, e da quella
fa rampollare i fenomeni mentali, da questa i fenomeni fisiologici ed
animali»145. La teoria si 140 Per Allievo l’uomo è «La persona, sostanza
individua, sussistente in sé, volontariamente attiva; l’unità è l’identità
dell’io nella molteplicità e varietà dei suoi modi e dei suoi fenomeni; la vita
intima ed individuale intrecciata colla vita esterna e comune; la vita mentale
svolgentesi insieme colla vita organica. Ecco le rivelazioni della coscienza
personale, rivelazioni, che costituiscono le prime, spontanee intuizioni dello
spirito umano, salde, inconcusse, irrepugnabili. Ora da ciascuna di queste
rivelazioni la ragione vede spuntare una serie ordinata di problemi, che
ammaniscano la materia, su cui la scienza ordisce le sue trame e compie il suo
lavoro speculativo» G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità,
Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 10. 141
«Così coscienza e scienza sono i due poli, fra cui si muove il mondo della
speculazione: la coscienza ci rivela la personalità dell’essere, ed alla luce
di questo principio la ragione costruisce la scienza» Ibid., p. 10. 142 G.
Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, cit.,
p. 14. 143 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 26. 144 G. Allievo,
Delle idee pedagogiche presso i greci, Cuneo, Tipografia Subalpina di Pietro
Oggero e C., 1887, p. 18. 145 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p.
69. 49 rifà ad autori come Barthez, Montpellier, Lordat. Essa
«concilia insieme la molteplicità della natura umana coll’unità dell’Io
individuale. Infatti l’anima razionale non essendo uno spirito puro, ma
congiunto colla materia, è essa che informa ed avvia il corpo, è il suo
principio ed animatore: così il principio corporeo produce i fenomeni della
vita fisica ed animale, ma in grazia della forza vitale ricevuta dall’anima, la
quale in tal modo produce direttamente e per se stessa i fenomeni della vita
mentale, ed indirettamente, ossia per mezzo del corpo i fenomeni della vita
corporea»146. Al naturalismo e al positivismo contestò, come già accennato, la
riduzione dell’antropologia a un «capitolo della fisiologia, ad un ramo della
zoologia»147. Allievo chiarisce è che non è contrario alla fisiologia, ma al
«fisiologismo». Negli Studi pedagogici cita il caso dei fisiologi come
Salvatore Tommasi, che sostengono come la disciplina non porti necessariamente
al materialismo148. Inoltre osserva come anche alcuni positivisti abbiano
ammesso una serie di difficoltà nello spiegare la vita mentale con la sola fisiologia.
Per suffragare la sua tesi rinvia al saggio Herzen, Il cervello e l’attività
celebrale, nel quale lo studioso riconosce quanto sia ancora lontana la
possibilità di chiarire aspetti fondamentali del funzionamento della mente
umana. Allievo trae queste conclusioni: «Così i più grandi rappresentanti del
positivismo contemporaneo riconoscono l’ignoto, che giace in fondo al problema
dell’unione tra la vita fisica e la vita mentale dell’uomo. Certamente la
fisiologia moderna co’suoi luminosi ed incontestabili progressi ha sparso molta
luce su questo problema, ma non ha svelato il mistero che lo avvolge»149.
Allievo si poneva come obiettivo di salvare insieme le esigenze spirituali e i
dati fisiologici. Osserva: «Il principio antropologico da me propugnato è
antico quanto l’uomo, il quale intuisce per natura la personalità del suo
essere, ma è pur fecondo di novità e di progressivo sviluppamento, perché
ammette insieme armonizzati i due supremi fattori della scienza, voglio dire
l’esperienza, che apprende la fenomenalità delle cose, e la ragione, che coglie
il loro essere sostanziale»150. Nel principio della personalità si palesa lo
spiritualismo di Allievo, che viene spiegato così dalla Quarello: «Realismo
spiritualistico e spiritualismo teistico: tale è la filosofia dell’Allievo. È
realismo in quanto il pensiero è l’ “attività” di un essere reale (io =
persona); è spiritualismo in quanto la persona è essere uno, sostanziale
cosciente di sé (“lo 146 Ibid., p. 72 147 G. Allievo, L’uomo e la natura, cit.,
pp. 13-14. 148 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 42-43. 149 G. Allievo,
Studi psicofisiologici, cit., p. 12. 150 G. Allievo, Il ritorno al principio
della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18
novembre 1903, cit., p. 14. 50 spiritualismo, egli scrive, proclama la
personalità umana”); è teismo in quanto Dio è pensato come persona (“il teismo
proclama la personalità infinita di Dio”)»151. Lo spiritualismo dell’Allievo
trae alimento dal principio della personalità. Se da una parte, infatti, si
afferma una dimensione irriducibile alle dinamiche nell’uomo, e dall’altra
l’attestazione di questa «natura» dell’uomo conferma il suo spiritualismo.
«Preso nel suo ampio senso – osserva il pedagogista vercellese - lo
spiritualismo risiede nell’ammettere l’esistenza di sostanze immateriali, che
cioè non cadono sotto i sensi e non hanno le proprietà della materia, quali
sono la figura, la grandezza, l’estensione, la divisibilità, il movimento
locale, bensì sono fornite di intelligenza e di libera volontà»152. In questa
duplice difesa dello spirito e della realtà materiale, sembra di poter
affiancare Allievo al personalismo nato in Francia diversi decenni dopo, a cui
lo accomunò la volontà di «evitare che la persona umana fosse schiacciata dal materialismo
positivistico o assorbita nel vortice del monismo idealistico»153. I. 4.
Antropologia e pedagogia Secondo Allievo, la pedagogia deve fare i conti con la
realtà educativa e le sue dinamiche154. La riflessione teorica e la vita
formativa rappresentano due poli indispensabili l’uno all’altro155. Allievo
prospetta, in questo senso, un metodo di ricerca pedagogico sia empirico che
razionale. Egli lo definisce «dialettico» in quanto «contempera insieme
l’esperienza e la ragione, i fatti e i principi»156. La storia della pedagogia
documenta come qualsiasi riflessione sistematica sull’educazione, abbia sempre
fondato le sue posizioni su una concezione dell’uomo e del suo ideale. Anche
per Allievo, l’antropologia come «scienza dell’essere umano»157 si 151 V.
Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., p. 79. 152 G. Allievo, Appunti di
Antropologia e Psicologia, cit., p. 8. 153 Pedagogie personalistiche e/o della
Pedagogie della persona, Brescia, La Scuola, 1994, p. 15. 154 «Siccome
l’educazione è ad un tempo un’idea ed un fatto, così la Pedagogia, che ne
rampolla, assume il duplice carattere di scienza e di arte. Essa è scienza
perché l’esplicazione razionale di quell’idea; è arte, perché ideale tipico di
quel fatto. Come scienza è un sistema di cognizioni, una teoria speculativa
intorno l’educazione umana, epperò potrebbe appellarsi pedagogia pratica» G.
Allievo, Studi pedagogici, cit., 1889, p. 25. 155 «Così la scienza pedagogica è
la teoria dell’educazione, l’arte pedagogica è la pratica dell’educazione; scienza
ed arte, teoria e pratica bisognevoli l’una dell’altra. Poiché la mera pratica
dell’educazione, non illuminata dalla scienza pedagogica, non è vera arte,
bensì cieco empirismo; la scienza pedagogica alla sua volta, non tradotta in
pratica, né fecondata dal magistero dell’arte, rimane una vana e sterile
teoria» G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia, Pavia,
Bizzoni, 1901, p. 2. 156 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 55. 157 G.
Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 1. 51 prospetta come uno
studio di fondamentale importanza tanto per la teoria quanto per la pratica
educativa158. Allievo colloca l’antropologia al centro dell’organigramma di
tutte le scienze. Egli individua il suo obiettivo nella conoscenza dell’essenza
unitaria della persona159. L’Allievo non pensa all’antropologia come ad una
etnografia, ma come «scienza generale sull’uomo» connotata da un orizzonte
metafisico. Dallo studio generale sull’uomo, discendono due gruppi di
discipline, quelle che lo studiano nella sua accezione individuale, e quante ne
approfondiscono l’aspetto sociale160. Le scienze che studiano l’uomo sotto
l’aspetto individuale si dividono a loro volta in altri due gruppi. Del primo
fanno parte tutte le discipline che si occupano della mente: logica, estetica,
etica, eudemonologia, filologia, pedagogia. Al secondo gruppo afferiscono le
scienze che riguardano l’organismo corporeo: fisiologia, anatomia umana,
patologia, terapeutica, igiene, ginnastica. Le scienze che riguardano l’uomo
sociale sono secondo l’Allievo la politica, la giuridica, l’economia pubblica
colle scienze industriali e commerciali, la storia, l’etnografia, la filosofia
della storia. Tutte queste discipline sono legate all’antropologia, che permea
e fonda qualsiasi aspetto dello scibile umano. Secondo Allievo, la prospettiva
sulla natura e il senso della persona, permea le possibili soluzioni avanzate
riguardo la vita della società, le sue leggi, le sue prospettive, il suo
sviluppo. Osserva: «Ogni problema sociale, vuoi politico, vuoi artistico, vuoi
religioso, cova in sé un problema antropologico»161. Questa relazione è ancora
più evidente per quanto concerne la scienza pedagogica, con la quale
l’antropologia ha un «vincolo indissolubile»162. Lo studioso piemontese,
infatti, pur riconoscendo un proprium alla pedagogia nell’affrontare dei
problemi fondativi e generali sull’educazione, considerava necessario il
contributo delle altre scienze, indispensabili per completare e integrare la
ricerca pedagogica163. Tra queste primeggia l’antropologia filosofica poiché
necessaria per chiarire 158 «L’educazione dell’uomo presuppone la conoscenza
dell’uomo stesso, epperò la pedagogia o scienza dell’educare e la didattica o
scienza dell’istruire, hanno il loro fondamento nell’antropologia, o scienza che
studia l’essere umano» G. Allievo, La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., p. 3. 159 Allievo sostiene che l’antropologia studia «l’uomo nella sua
intima e generalissima essenza, ossia nell’integrità e pienezza complessiva del
suo essere» G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 6. 160 Cfr. G.
Allievo, Appunti di Antropologia e Psicologia, cit., p. 8. 161 G. Allievo,
Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, cit., p. 4.
162 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 39. 163 Nel seguente brano elenca le
discipline ausiliarie alla pedagogia, che sono: «1° L’antropologia generale,
che studia l’uomo nella dualità di anima e di corpo e nella unità della sua
persona; 2° la psicologia, che studia l’anima umana nelle proprietà della sua
natura e nella varietà delle sue potenze; 3° la logica riguardata siccome la
teorica della verità e della scienza; 4° l’etica, che studia il Buono, norma ed
oggetto della libertà morale umana; 5° la cosmologia, che è una spiegazione
scientifica del mondo; 6° la metafisica, 52 la natura e il fine
dell’educando, e quindi dell’educazione. Nonostante i diversi ambiti di ricerca
«tra l’antropologia e la pedagogia intercedono le due fondamentali attinenze
della distinzione e dell’unione»164. Se il principio della personalità è il
fulcro dell’opera di Giuseppe Allievo, l’antropologia è il centro della
pedagogia. Non a caso, quando il professore vercellese sostituì Rayneri sulla
cattedra di pedagogia all’Università di Torino, cambiò il nome
dell’insegnamento da «Metodica» in «Antropologia e Pedagogia». Il carattere di
ciascun sistema pedagogico dipende dalla prospettiva antropologica: «le diverse
e contrarie teorie pedagogiche professate dai cultori di questa disciplina
traggono appunto la loro ragione e origine dai diversi e contrari concetti
antropologici, da cui essi hanno preso le mosse, e su cui hanno costrutto il
sistema»165. Per capire e pensare l’educazione occorre una chiara idea su cosa
sia l’uomo, se ci sia e quale debba essere il suo compito nel mondo: «Ogni
dottrina pedagogica ritrae dai principi antropologici su cui si regge, la virtù
peculiare, che la informa, e lo stampo singolare, che la individua»166 . Non si
possono slegare questi due aspetti nella riflessione: «L’uomo e la sua
educazione sono due termini insieme compenetrati, come un principio e la
conseguenza sua, e che li disgiunge, è mente piccina che né l’uno, né l’altra
intende. L’uomo spiega se stesso nell’educazione e l’educazione riflette se
stessa nell’uomo; e sempre il concetto antropologico ed il concetto pedagogico
serbano l’uno coll’altro rispondenza esatta o veri o fallaci che siano
entrambi»167. La correlazione è necessaria. In un altro brano chiarisce gli
scopi delle due discipline: «La distinzione delle singole scienze origina dalla
distinzione dei loro oggetti: l’una non è l’altra, perché versa sopra un
oggetto suo proprio, che non è quello dell’altra. Per conseguente la scienza
antropologica dalla pedagogica si differenzia essendochè quella ha per oggetto
suo l’essere umano, questa l’educazione umana, l’una studia l’uomo
nell’integrità e compitezza dell’esser suo, l’altra sotto il peculiare riguardo
della sua educabilità; la prima si propone di rispondere alla domanda: Che cosa
è l’uomo; la seconda ha per ufficio di soddisfare all’inchiesta: Che
l’educazione e come l’uomo va educato. Ecco il rapporto di distinzione, ma da
questo stesso già si rileva il vincolo unitivo, che stringe l’una all’altra le
due discipline, essendochè l’uomo e la educazione sua sono due termini
inseparabili. La pedagogia ha coll’antropologia un vincolo così intimo e
necessario, che trova in questa il fondamento e che studia l’Essere primitivo
in sé e ne’ suoi rapporti col mondo e coll’uomo» G. Allievo, Del positivismo in
sé e nell’ordine pedagogico, Torino,Tipografia Subalpina di Stefano Marino,
1883, p. 246. 164 G. Allievo, Attinenze tra l’antropologia e la pedagogia,
«Rivista Pedagogica Italiana», Asti, 1897, vol. I, p. 308. 165 Ibid., p. 310.
166 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 31. 167 G.
Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., 1909, p. 10. 53 la ragion sua
ed in ogni punto del suo processo si regge sui principii supremi della scienza
antropologica»168. Per fare pedagogia occorre dunque possedere una «conoscenza
scientifica dell’origine, della natura, del fine dell’uomo»169. Bisogna tenere
conto del fatto che nella temperie culturale in cui Allievo sosteneva queste
posizioni, porre l’antropologia filosofica a fondamento della pedagogia, non
era un’ovvietà, soprattutto quando essa era collocata entro un contesto
metafisico. Porre il baricentro del discorso pedagogico sulla questione
antropologica, era considerato da Allievo come la risposta emergente ad una
problematica educativa reale. Si trattava di un problema radicale che faceva da
discriminante tra le varie teorie. Le risposte alla questione circa la natura
dell’uomo, non erano infatti da considerare secondarie per la qualità della
relazione pedagogica: «Educare è sviluppare le virtù insite dell’uomo
fanciullo. Ma che cosa e quale è mai l’uomo che si vuol educare? Forse l’uomo
di Molescott, un mero giuoco di elementi chimici colla predominanza del fosforo
pensiero, e niente più? O l’uomo-scimmia de’ moderni naturalisti? O l’uomo de’
panteisti tedeschi fatto una cosa sola con Dio? O l’uomo de’ razionalisti
trasformato in libero pensiero? O l’uomo de’ mistici che lo spiritualeggiano
per intero, mentre i materialisti lo abbruttiscono?»170. Per l’Allievo, si
trattava di domande impellenti. La pedagogia esigeva nuova chiarezza sull’idea
di persona: «Oggi più che mai essa reclama un supremo principio vitale, che
risponda al suo altissimo compito, ricomponga ad unità di organismo potente la
sua squilibrata compagine e le additi l’ideale suo, verso cui cammina franca e
sicura»171. Secondo il pedagogista, la domanda circa la natura dell’uomo non
poteva essere affrontata con gli strumenti epistemologici delle scienze esatte,
incapaci di cogliere l’essenza della persona. Tale compito spetta alla
filosofia, che diviene la prima interlocutrice della pedagogia. In più di una
occasione chiarì che la sua era una «pedagogia filosofica»172 poiché si «fonda
sopra un principio essenzialmente vero ed inconcusso, quale è quello della
natura umana riposta nella personalità dell’io, e nel suo procedimento adopera
non la sola esperienza disgiunta dalla ragione, né la sola ragione astratta,
che disdegna la realtà dei fatti, bensì entrambe queste due potenze
conoscitive, e l’una in armonia coll’altra»173. 168 G. Allievo, Attinenze tra
l’antropologia e la pedagogia, cit., pp. 308-309. 169 Ibid., p. 309. 170 G.
Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 125. 171 G.
Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 12. 172 G. Allievo, La
nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, Torino, Carlo Clausen, 1905,
p. 3. 173 Ibid., p. 8. 54 Stando a Calò, uno dei punti centrali
nell’opera dell’Allievo è questo: «Non trascurare le esigenze dell’esperienza
né quelle della ragione; ecco, secondo l’Allievo, il primo canone del metodo
filosofico»174. Ciò è confermato anche dall’esigenza di rompere le catene del
misurabile, e allargare la pedagogia alla profondità e al mistero della
persona. Solo «La pedagogia filosofica riconosce nell’alunno un’anima razionale
non già separata dal corpo, ma con esso vitalmente congiunta in unità di
persona, sebbene da esso distinta, un’anima, che sviluppa di continuo le sue
energie in una successione di fenomeni, che formano la sua vita, epperò vuole
un’educazione, che si estenda a tutto quanto l’uomo nella dualità delle sue
sostanze e nell’unità della sua persona, alla vita temporanea e alla
futura»175. La natura delle domande che l’esigenza dell’educazione ci pone, non
si possono risolvere con il metodo scientifico176. Allievo non portò
sostanziali novità nella riflessione epistemologica, ma difese la prospettiva
pedagogica spiritualista, confutando i detrattori della metafisica in campo
antropologico. Secondo Serafini, nonostante «il modello disciplinare intorno al
quale egli lavora è ancora, in larga misura quello di una pedagogia come
scienza pratica (quantunque punti particolarmente sulla figura d’una disciplina
complessa) che si differenzia dal modello elaborato in ambito positivistico
particolarmente per gli effetti che su questo ha il suo personalismo»177. Un
altro carattere distintivo della pedagogia di Allievo è l’idea della
specificità nazionale della pedagogia. Occorre secondo il pedagogista pensare
in continuità con la storia del proprio popolo e con le proprie attitudini. Su
questo tema trovò una consonanza con il saggio di Antonino Parato dal titolo
«La scuola pedagogica nazionale», non senza motivo diverse volte citato
dall’Allievo. I. 5. L’educazione 174 G. Calò, Il pensiero filosofico –
pedagogico di Giuseppe Allievo, cit., p. 8. 175 G. Allievo, La nuova scuola
pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 10. 176 Spiega Allievo: «La
pedagogia è la scienza dell’educazione umana; e siccome l’uomo non può essere
convenientemente educato se prima non è conosciuto secondo verità, quindi è che
la pedagogia dipende ed attinge da tutte quelle scienze, che hanno per oggetto
la conoscenza ragionata dell’uomo riguardato in sé ed in rapporto colla realtà
universale. Ciò posto, che cosa è l’uomo, donde esso viene e dove va? Come si
congiungono in lui ad unità di vita il corpo e la mente? I suoi destini si
compiono quaggiù o in una vita ultramondana? Esiste la verità e la scienza, a
cui aspira la sua intelligenza? Esiste una legge morale, norma della sua libera
volontà? Che cos’è questo mondo esteriore, che lo circonda, ed in cui è posto a
vivere? Qual concetto dobbiamo formarci di quell’essere assoluto ed infinito,
che è l’oggetto della moralità e religiosità umana, origine prima e fine ultimo
di lui?» G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., pp.
245-246. 177 G. Serafini, L’idea di pedagogia nella cultura italiana
dell’Ottocento, cit., p. 130. 55 In più di un’opera, il pedagogista
vercellese denunciò una grave crisi educativa, che egli imputava alla
confusione imperante circa i caratteri di una formazione adeguata178. Sulla
base del principio della personalità, egli considerava l’efficacia educativa
legata alla previa soluzione data al senso della perfettibilità dell’uomo179.
Mancando, come già si è accennato, una concezione adeguata sulla natura dalla
persona, anche la pratica educativa ne veniva fuori menomata. Tra i fondamenti
pedagogici di Allievo si colloca questa massima: «Sul sentimento e sul rispetto
della dignità della persona si fonda l’arte dell’educare»180. Al pari di un
ampio stuolo di pedagogisti ed educatori, il docente vercellese era convinto
che non si dà autentico sviluppo della persona senza un intervento
formativo181. La natura esteriore, infatti, «non è per se stessa educativa nel
senso rigoroso della parola, bensì tale diventa allorquando il fanciullo in sé
accogliendola l’accompagna e la feconda colla coscienza del suo sviluppo»182.
Per tratteggiare i caratteri precipui dell’educazione, Allievo si rifà alla
lezione di Rayneri, che nella Pedagogica enumerò cinque attributi
imprescindibili: Unità rispetto al fine, Universalità rispetto a tutte le
facoltà umane che devono essere medesimamente sviluppate, Armonia tra le
potenze umane, Gradazione, Convenienza, cioè – oggi diremmo – personalizzazione
dell’intervento educativo183. Mentre il suo maestro considerava la
«convenienza» come la più importante di queste leggi, Allievo sostiene il primato
dell’armonia184, quale condizione necessaria per un’educazione efficace185. 178
G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 21-22. 179 «L’opera educativa si
modella sul concetto dell’uomo: quale noi lo conosciamo, tale lo educhiamo, e
per conseguente ogni dottrina pedagogica si informa e si esempla sopra una
dottrina antropologica.(...) L’educazione muove dalla natura originaria
dell’uomo, come da suo fondamento, lo segue nel corso progressivo della sua
vita governando lo sviluppo delle sue potenze, mira ad un ideale di perfezione,
a cui intende sollevarlo» G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista,
Tipografia Subalpina, Torino, 1910, pp. 81-82. 180 G. Allievo, La scuola
educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, cit. p. 185. 181 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp.
67-68. 182 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e
didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 68. 183 G.
Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 106. 184 Ibid., pp. 109-112; 185
L’educazione deve essere armonica rispetto a tutte le facoltà della persona
«Che l’alunno debba essere educato in armonico accordo colla natura fisica
circostante, colla famiglia e colla nazione, a cui appartiene, coll’organamento
sociale, in cui vive, col grado di civiltà e collo spirito proprio del tempo, è
una verità già riconosciuta e proclamata dalla pedagogia filosofica. Poiché
l’alunno non è una monade solitaria ed isolata, chiusa ad ogni comunicazione
esteriore, bensì abbisogna della convivenza di altri esseri, a fine di
espandere la sua vitalità interiore e compiere il suo esplicamento. Ma egli
possiede una personalità sua, che non può essere sacrificata al mondo fisico
sociale; è fornito di una libertà interiore, che gli conferisce il dominio di
sé medesimo, sicché egli è quale vuole essere, non quale lo fa la necessità
insuperabile dell’ambiente; non potrebbe vivere una vita comune nel consorzio
con altri esseri se anzi tutto non vivesse in se medesimo di una vita tutta sua
propria; non potrebbe mettersi in conformità di accordo coll’ambiente, se da
prima non fosse in concorde armonia con sé stesso; non potrebbe acconciarsi
alle impressioni del grande organismo 56 Sebbene guidata da un
criterio unitario, l’educazione può essere analizzata nella sua molteplicità.
Allievo parla di un’educazione fisica, intellettuale, estetica, morale,
religiosa. Distingue tra quella naturale, che segue lo sviluppo delle facoltà
della persona, e quella esterna, guidata da modelli valoriali, culturali e
intellettuali dal discente. Il perno dell’educazione della persona è la sua
razionalità ed intelligenza. Riprendendo la tripartizione rosminiana delle
facoltà umane186, Allievo ricorda come l’interiorità della persona sia il vero
oggetto dell’educazione, mistero non materiale187, ed eccedente i meccanismi
fisiologici188. I fenomeni dell’interiorità sono governati da leggi come quella
di associazione, simultaneità, successione, e si fondano sulla dinamica delle
potenze umane, tratto tipico della pedagogia rosminiana, che si dividono in
corporee o fisiche e in spirituali o mentali189. Compito dell’educazione è di
sviluppare le potenze umane, in cui l’intelligenza umana si esprime come
desiderio spirituale190. Se l’educazione è il mezzo attraverso cui l’uomo può
essere se stesso, questa va rivolta a chiunque. Allievo considerava necessario
offrire a qualsiasi persona l’educazione e l’istruzione, senza discriminazioni
per le condizioni economiche, sociali, o di genere. In questo senso contesta i
positivisti che negavano la possibilità e l’utilità di occuparsi
dell’educazione e dell’istruzione dei diversamente abili. Negli Opuscoli
Pedagogici191 sostiene la necessità di educare i sordomuti, i nevrastenici, i
balbuzienti, i ciechi, ed esorta ad approfondire gli studi sui mezzi con i
quali sia meglio educarli, richiamando a prendere esempio da altre nazioni
europee come la Francia. Nel saggio su Rousseau, contesta l’idea difesa
nell’Emilio, secondo cui i della natura, se anzi tutto non sentisse il vitale
influsso dell’organismo corporeo suo proprio; infine egli aspira ad un ideale
della vita futura, il quale non può trovar luogo nella cerchia dell’ambiente
della natura tutto circoscritto ad un punto del tempo e dello spazio» G.
Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., pp. 19-20.
186 «Sentire, intendere e volere, in questa triplice classe di fenomeni
psicologici si raccoglie tutto lo sviluppo del nostro essere spirituale» G.
Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle
scuole normali maschili e femminili, cit., p. 6. 187 «I fenomeni interni o
psicologici non si veggono cogli occhi del corpo, non si toccano, non si odono,
non si odorano: un pensiero, un affetto, un volere non hanno forma o figura,
non divisione o dimensione, non grandezza o misura: essi soltanto alla
coscienza si mostrano e sono oggetti di osservazione interiore» Ibid., p. 7.
188 «I fenomeni interni sono di loro natura superiori all’organismo; i
sentimenti, i pensieri, i propositi deliberati sono manifestazioni
esclusivamente proprie dello spirito, al cui compiuto sviluppo i fenomeni
dell’organismo corporeo intervengono bensì, ma come condizione soltanto, non
some causa» Ibid., pp. 7-8. 189 «Ciò posto, siccome i fenomeni interni ci
vennero superiormente distribuiti in tre classi supreme, affettivi cioè,
intellettivi e volitivi, così siamo condotti ad ammettere tre supreme potenze
umane corrispondenti, la sensitività, l’intelligenza e la volontà, intendendole
con tale larghezza, che la sensitività comprende tanto la sensazione animale,
quanto il sentimento spirituale, l’intelligenza abbracci tanto la percezione o
fantasia sensitiva quanto la ragione, e similmente la facoltà spirituale della
volontà si mostri preceduta dagli appetiti inferiori e con essi collegata»
Ibid., p. 12. 190 «Come l’istinto animale provvede alle esigenze della nostra
vita fisica, così l’istinto spirituale fornisce alla vita mentale i beni, che
le sono proprii. Ora lo spirito vive del Vero, del Bello, del Buono, e vi si
sente portato da naturale istinto, il quale viene così a distinguersi in
intellettivo, estetico e morale» Ibid., p. 29. 191 G. Allievo, Opuscoli
pedagogici, cit., pp. 94-97. 57 diversamente abili, Allievo parla di
«storpi», non abbiano diritto all’istruzione e all’educazione192, ribadendo la
convinzione che l’educazione sia un diritto per tutti. Tutti gli uomini sono
persone, qualunque sia la loro condizione, e ognuno merita di essere educato e
istruito, anche se ciò deve essere fatto secondo le inclinazioni e le
potenzialità di ciascuno. Analogamente contestò Platone quando estromette i
«malconformati di corpo» dalla cerchia degli educabili. Inoltre fa notare come
«anche lo Spencer a’ di nostri muove rimprovero alla società che si prende cure
dei miserabili, dei poveri, degli infermi, fino a dichiarare una grande
crudeltà il nutrire gli inetti a spese dei capaci degli operosi»193. Allievo
considera questa prospettiva come una diretta conseguenza del materialismo:
disconoscendo il valore assoluto dell’uomo, non ha più senso la cura di quanti
non «funzionano», non «producono», quanti insomma sarebbero solo un peso per il
sistema economico. Secondo Allievo solo il riconoscimento della dignità suprema
dell’individuo permette il rispetto di ciascuno e la sua valorizzazione.
Dimenticata la persona nell’uomo, si elimina la ragione dell’eguaglianza degli
esseri umani e dunque il diritto all’educazione per tutti. Sulla base del
principio della personalità, il pedagogista vercellese fu altresì un difensore
dell’istruzione e dell’educazione delle donne. Anche per l’Allievo, come per
molti altri studiosi della seconda metà dell’Ottocento, era necessario
concepire l’educazione della donna in armonia con l’ufficio della maternità e
la cura della famiglia, compiti a cui secondo il pedagogista la donna era
naturalmente destinata. Dopo aver difeso il ruolo della donna nella famiglia,
spiega: «Né altri di qui inferisca, che la donna circoscrivendo nel recinto
della casa il suo genere peculiare di vita debba crescervi e passarvi i suoi
giorni solitari, ignorante, incolta, spregiata e negletta. Anch’essa possiede
per natura tutte le facoltà costitutive della specie umana, a cui appartiene;
epperò ha, quanto l’uomo, diritto alla verità, alla felicità, alla virtù, al rispetto
della dignità umana, che in lei rifulge, al perfezionamento suo proprio. E se
abbia da natura sortito qualche raro pregio di mente e di spirito, qualche
felice attitudine al culto di qualche disciplina, od arte, o nobile professione
sociale, chè non venga mai meno alla sua prima e natural missione, alla quale è
chiamata nel santuario domestico»194. Allievo reputa che sia necessario offrire
un percorso educativo e di istruzione anche alle donne meno abbienti. Dopo aver
analizzato le opere della Saussure, contesta il fatto che si parli
dell’educazione solo per i ceti sociali più alti: «Però io non posso passare
sotto 192 G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 160. 193
G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 113. 194 Ibid., pp.
117-118. 58 silenzio, che in questo eletto lavoro pedagogico della
Saussure è tutto rivolto alla coltura della donna di agiata e civil condizione,
come lo sono altresì le opere pubblicate dalle due egregie donne italiane, la
Colombini e la Ferrucci intorno l’educazione femminile. Eppure anche
l’educazione della donna popolana ed operaia può e deve fornire al cultore
della pedagogia bello e grande argomento di studio e di meditazione, per
quantunque debba essere discorso sott’altra forma ed in proporzioni più
modeste»195. Nonostante l’inciso finale, il discorso dell’Allievo sembra
innovativo rispetto alle comuni pratiche e teorie pedagogiche. La donna
inoltre, in quanto persona, non poteva essere considerata proprietà di alcuno.
Per questo motivo critica Rousseau che aveva fatto di Sofia una moglie
totalmente asservita al marito. Al contrario: «La donna non è nata per essere
la schiava né dello Stato, né dell’uomo»196. L’attività dell’educatore e della
scuola deve anche essere in armonia con quella familiare. La famiglia è
l’inizio e il paradigma dell’educazione. Chi si occupa di educazione deve avere
come modello l’istituzione familiare. Allievo sostiene la necessità di una
famiglia generosa, laboriosa e aperta. Contesta la famiglia rappresentata
nell’Emilio, considerata isolata ed egoista. Invero, persistono nella sua opera
ancora alcuni stereotipi sul sesso femminile. Allievo parla di un’inferiorità
fisica197, e sostiene che «nella donna il sentimento e l’affetto predominano
sull’intelligenza e sulla volontà», e sebbene sottolinei i vantaggi di questa
caratterustica femminile198, considera l’uomo maggiormente capace di
sottomettere la volontà alla ragione199. Secondo Allievo la durata
dell’educazione abbraccia tutta la vita. L’uomo ha sempre da essere
perfezionato. Il suo cammino verso il compimento di se stesso è costante200. È
tuttavia vero che la vita è composta da diverse fasi, ognuna ha delle
particolari esigenze educative. Allievo contesta cesure nette nella
teorizzazione dello sviluppo della persona. 195 G. Allievo, Delle dottrine
pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco
Naville e Gregorio Girard, Torino, Libreria Scolastica di Grato Scioldo, 1884,
p. 222. 196 G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 159.
197 «Insegna la fisiologia, che l’organismo corporeo è più gagliardo e più
robusto nell’uomo, più esiguo e più delicato nella donna; questa diversità di
struttura deve naturalmente riuscire ad una differenza tra le potenze fisiche
del sentire e del muoversi corporeo» G. Allievo, La scuola educativa, principi
di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., pp. 16-17. 198 «Essa pensa più col cuore, che col cervello. La verità la
sente più che non la mediti, la intuisce più che non la ragioni, la crede senza
avvolgerla fra le tortuose spire del dubbio, la accoglie tutta quanta viva ed
intiera senza dissolverla e notomizzarla col coltello dell’analisi; pensa e
riconosce Dio come un bisogno del cuore, anziché come un principio della
ragione; posa il suo pensiero sulla realtà concreta e vivente e mal si rivolge
alle aride astrattezze, alle generalità trascendetali» Ibid., p. 17. 199
«Venendo alla volontà, anch’essa nella donna soggiace alla influenza del sentimento,
nell’uomo procede a tenore della ragione» Ibid., p. 18. 200 «L’educazione
comincia colla vita e mai non cessa, perché la nostra perfettibilità dura
quanto la nostra mortale esistenza; però essa muta tenore ed ufficio ed
indirizzo secondo il mutare delle diverse età» G. Allievo, Delle idee
pedagogiche presso i greci, cit., p. 33. 59 La vita non può essere
divisa in tappe con demarcazioni rigide, dato che la crescita è graduale e
soggettiva. A tal proposito critica Rousseau, il quale «ha rotto l’uomo (e con
esso l’educazione) in tre pezzi, che spuntano non si sa come, l’un dopo
l’altro, il fanciullo, l’adolescente, il giovinetto: e sotto il taglio della
sua anatomia psicologica la personalità è finita»201. Tale istanza è legata ad
uno dei principi cardine dell’educazione in Allievo, vale a dire l’armonia. «Se
la virtù e l’anima e l’universo e Dio medesimo e tutto quanto esiste è armonia,
appar manifesto , che anche essa l’educazione deve posare e reggersi tutta
quanta sull’armonia, come suo fondamentale principio, val quanto dire
essenzialmente ed integralmente ordinata all’armonico sviluppo delle forze del
corpo e delle facoltà dell’anima»202. Importanti appaiono alcune annotazioni
sul rapporto educatore-educando. Se la persona è libera e tende alla sua
libertà, l’educatore non può agire sull’educando non tenendo conto di questo
aspetto proprio della persona. Dato che l’uomo è libero, non si potrà ridurre
l’educazione ad un meccanismo, l’educatore non costringe, non forza, non
chiude, ma mostra, fa ammirare, interroga, sollecita, suscita. Su tale
principio l’Allievo riprende fortemente il modello della paideia greca,
contrapposto alla modernità che confusa sulla natura spirituale della persona e
dunque sulla sua libertà, ha costretto l’insegnamento in un procedimento vuoto
e disumano. Non c’è libertà senza l’autorità. La pedagogia moderna, di cui
Rousseau è il più alto rappresentante, ha disconosciuto tale evidenza.
Nonostante sia giusto assecondare la crescita naturale del bambino, non lo si
può privare dell’intervento esterno: «Mai non ci deve cadere di mente, che
nell’educazione umana suolsi seguire come infallibil maestra la natura
medesima, sicché nulla mai si tenti, né si faccia, che contraddica a’ suoi
principii, nulla si dimentichi, né si trascuri , che torni opportuno o
necessario a secondarlo nel suo spontaneo sviluppo. Ai dì nostri vide questa
potenza educatrice della natura Gian Giacomo Rousseau, ma di troppo la esaltò
fino a bandire siccome inutile e nocivo il magistero dell’arte. Aristotele non
disconobbe la virtù educatrice, che giace nella consuetudine o costume, e nella
coltura della ragione o disciplina. Poiché i germi del Bello e del Buono
deposti in noi da natura non crescono già né maturano mercé l’opera dei beni
esterni, né il caso e la sorte fa sì che noi diventiamo onesti; bensì
richiedesi a tanto fine l’esercizio della facoltà del volere e del sapere»203.
201 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina
Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 117. 202 G.
Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 34. 203 Ibid., p.
155. 60 Per questo stesso motivo mette in guardia da una
sopravvalutazione dell’autodidattica: «L’io umano è un soggetto personale, e
quindi fornito di una energia pensante sua propria, per cui aspira scientemente
e liberamente alla conoscenza della verità, siccome suo naturale obbietto; ecco
l’origine ed il fondamento dell’autodidattica. Ma la personalità umana
individua è limitata per natura, e quindi bisognevole di un intervento
esteriore: ecco la ragione dei limiti, che circoscrivono l’autodidattica»204.
La persona ha bisogno di altre persone per essere introdotta nell’esistenza. In
un altro brano, Allievo individua nella «nuova psicologia» l’origine dell’equivoco:
«L’autodidattica si regge tutta quanta sulla personalità dell’io, riguardato
come un soggetto sostanziale fornito di una individualità singolare, per cui è
consapevole che l’energia pensante, di cui è fornito, è tutta sua propria, e
che gli atti intellettivi, in cui si svolge, vengono da lui ed a lui
appartengono come loro principio originario e comune soggetto. Ora i fautori
della nuova psicologia rinnegano apertamente la libera attività e la
personalità dell’io umano riducendolo ad un insieme complessivo di fenomeni
mentali, che non appartengono a nessun soggetto e si succedono a tenore di
leggi ineluttabili, facendo dell’anima umana una mera funzione dell’organismo
corporeo»205. La prima regola del maestro è il rispetto per il discente, che è
l’attore principale dell’atto educativo. Una vera educazione è contraddistinta
dal rispetto e dalla pazienza. L’educatore è chiamato a essere umile, non c’è
inoltre insegnamento quando l’insegnante non impara a sua volta: «Il maestro
deve di sicuro sovrastare al discepolo per ampiezza di dottrina, per coltura e
sviluppo mentale, ma non dimentichi mai, che in faccia all’immensità dello
scibile quel tanto, che egli sa, è poco meno che nulla, e gli bisogna perciò
imparare sempre, ed imparare nell’atto medesimo, che istruisce gli altri»206.
Allievo riprende la celebre frase di Plutarco che critica l’insegnamento come
«riempimento», e sostiene che «Il vero imparare è un lavorare colla propria
mente ed avere consapevolezza della verità scoperta e del come siamo giunti a
scoprirla; il vero insegnare è un accendere la scintilla del pensiero e
mantener viva la fiamma della riflessione. La parola del maestro riesce
all’alunno necessaria in quella guisa, che ad un seme l’aria e la luce
esteriore del sole, il quale destando la virtù sopita in esso lo schiude dal
suo germe e lo tien vivo ed atto a spiegare le sue forme. L’acquisto della
scienza è un martirio per uno spirito giovanile abbandonato alle solitarie ed
isolate sue forze, come il possesso materiale 204 G. Allievo, La nuova scuola
pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 16. 205 Ibid., p. 17. 206 G.
Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 83. 61
della scienza non conquistata colla nostra meditazione somiglia a splendido
patrimonio avito, eredato da nepoti degeneri e dappoco»207. Educare è dunque
far cresce armonicamente le capacità dell’alunno, è un atto della vita che fa
entrare nella vita, sviluppa e forma il carattere, ma soprattutto tende a far
essere se stessi, e cioè autocoscienza del mondo. Educare significa formare le
capacità umane, ma soprattutto interrogare il discente, contagiare l’esigenza
di conoscersi e di capire se stessi. Nel suo studio, la Quarello riporta una
frase della Marchesa di Lambert citata dall’Allievo nello Studio Storico
critico di pedagogia femminile (1896), in cui la pedagogista sostiene che: «La
più grande scienza sta nel sapere essere in sé»208. L’educatore è chiamato a
condurre l’educando a questa vetta. L’azione formativa risulta dunque una
continua interrogazione ed esortazione. È molto interessante la considerazione
di Calò, secondo cui l’Allievo puntava ad un’azione educativa che «correggesse
con un movimento centripeto verso il nucleo più profondo dell’io il movimento
centrifugo verso l’esterno, che sapesse fare procedere l’educazione dal di
dentro, non dal di fuori». 209. In questo «stare in sé» l’uomo scopre una
dimensione infinita che lo interroga, lo spiazza. La persona sente in sé il
richiamo di un’alterità misteriosa ma a cui si sente inesorabilmente legato:
«Dovunque si muova l’educazione trovasi in faccia all’infinito sempre, perché
l’educando è persona finita sì, ma che pur si muove e gravita verso
l’infinito». Su questi presupposti, Allievo è convinto che non si possa negare
l’educazione religiosa ai giovani: «La coltura impertanto dell’intelligenza, e
dell’attività volontaria va ordinata a Dio. Così la personalità finita
dell’educatore e dell’educando si regge sulla personalità infinita di Dio, e
trova in questa la sua ragion di essere, del pari che la sua cagione
efficiente. Educazione vera non è, che non sia personale sotto entrambi questi
riguardi. Il materialismo, che spegne nel fango la personalità dell’uomo,
l’ateismo, che nega a Dio la sua personalità infinita, il panteismo, che nega
all’uomo ed a Dio una personalità loro propria per confonderli in una medesima
sostanza, conducono ad un’educazione disumana, omicida, perché è negazione
della persona. La formazione del carattere, intorno alla quale si travaglia
tutta l’arte educativa, torna opera impossibile, ove non si regga sulla
personalità dell’essere infinito»210. Strettamente legato alla questione della
vocazione umana ed educativa, è il concetto di «carattere», con cui Allievo
riprende un tema caro ad altri pedagogisti cattolici e non. Il carattere è
definito come «quello stampo, o quell’impronta speciale, che configura 207
Ibid., pp. 84-85. 208 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., p. 106.
209 G. Calò, Dottrine e Opere, cit., p. 25. 210 G. Allievo, Opuscoli
pedagogici, cit., p. 31. 62 ciascuna natura umana»211. Con questo
concetto intende l’universalità dell’essere persona nella particolarità del
singolo. «L’alunno accoppia in sé l’umanità comune a tutti i suoi simili, e
l’individualità propria di lui solo»212. Un altro passo chiarisce tale
relazione: «il genere (umano) vive nell’individuo sotto forma del
carattere»213. È compito dell’ufficio educativo riconoscere e far fruttare
l’individualità della persona214. Secondo l’Allievo: «l’uomo di carattere è
colui, che pensa con verità e colla propria testa, è arbitro del suo operare e
conforma le sue azioni esterne coi suoi interiori convincimenti, sempre mirando
all’ideale divino della perfezione»215. Ma per condurre al vero carattere
bisogna educare, non basta istruire. Allievo definisce l’educazione del
carattere come il «punto di gravitazione» e l’ «apogeo»216 dell’educazione.
All’educatore spetta il riconoscere il carattere dell’alunno, la sua
coltivazione, e l’aiuto verso la vocazione personale di ciascuno. Così «Il
fanciullo è persona, cioè sostanza individua, che in sé armonizza la virtù
conoscitiva, fonte della vita operativa, congiunta con un organismo corporeo,
sede della vita fisica e ministro della vita spirituale. La vita speculativa si
sviluppa mercé l’acquisto del sapere, oggetto dell’educazione intellettuale, la
vita operativa mercé la formazione del carattere, compito dell’educazione
civile, morale, religiosa, la vita fisica mercé il rinvigorimento, la salute e
la destrezza del corpo, termine dell’educazione fisica; e tutte e tre queste
forme di educazione deggiono armonizzare insieme, come armonizzano dell’unità
dell’umano soggetto le tre forme di vita umana»217. Il carattere va educato sin
dalla prima infanzia, e in esso l’esempio è il principale fattore218. L’apice
della formazione è il carattere morale, vale a dire la libertà dell’uomo di
obbedire esclusivamente alla legge morale insita nell’uomo. Allievo considerava
il rispetto e obbedienza a questa legge, come il compimento della libertà, che
certo non riteneva essere un arbitrio assoluto del 211 G. Allievo, L’uomo e il
cosmo, cit., p. 357. 212 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 336. 213 G.
Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 357. 214 «La formazione del carattere è
opera nostra, sebbene abbia suo fondamento in natura, e le occorra il sussidio
dell’arte educativa» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia
e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 50. 215
G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 4.
216 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 322. 217 G. Allievo, Opuscoli
pedagogici, cit., p. 31. 218 «Il carattere morale non forma lì per lì come per
incanto nell’età virile; ma, come ogni opera grande e duratura, che sorge da
piccoli inizii, esso fa le sue prime prove nella puerizia, e progredisce con
lento lavorio sino alla compiuta sua forma mediante l’opera concorde
dell’alunno, del maestro, dei genitori, durante tutto quel lungo periodo
educativo, che dalla prima puerizia si stende sino al termine della gioventù»
G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso
delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 91. 63
soggetto219. Il pedagogista vercellese è, infatti, convinto che «Volere
liberamente il dovere, ecco, secondo me, la formula di tutto l’ordine
morale»220. Per un’educazione efficace è imprescindibile lo sviluppo della
capacità di volere e seguire ciò che è bene. «La dignità umana rifulge nel
carattere. Plasmare nel fanciullo il carattere dell’uomo, che esprime la
santità della vita in sé, nella famiglia, nella patria, questo è dell’arte
educativa il supremo, altissimo ufficio»221. Parlando dell’insegnamento in
classe dice che «ogni atto educativo dev’essere un’affermazione, un’impronta
della sua individualità personale. Così si forma il carattere, così l’alunno
impara a diventare uomo maturo di senno, esperto della vita, arbitro delle sue
sorti»222. L’ultima opera dell’Allievo, datata 1913, è dedicata allo studio
comparato tra Giobbe e Schopenhauer. Contrapposto al nichilismo, al pessimismo,
e al disimpegno del secondo, Giobbe rappresenta la vera statura umana, colui
che nonostante le circostanza si spende per la verità. Osserva Allievo:
«L’operosità della vita, perché si compia con efficacia, con dignità e decoro,
richiede in noi la coscienza della nostra libertà personale rivolta ad un
ideale supremo, il sentimento della nostra propria vigoria, il voglio imperioso
dello spirito pronto a lottare contro le difficoltà, gli ostacoli, con
imperturbabile costanza sino al sacrificio, riverente a quanto si presenta di
grande, di nobile, di sacro, di divino»223. L’Allievo critica la riduzione
dell’intervento educativo all’istruzione, riprendendo una battaglia tipica
della pedagogia spiritualista. Sulla base dell’antimetafisica e del relativismo
etico di certo positivismo, più di un pedagogista ridusse il compito
dell’educazione all’istruzione, estromettendo dai suoi compiti la formazione
del carattere, e quindi dell’autocoscienza e della libera volontà. Tale approccio
ha come premessa fondamentale la convinzione che non ci sia nulla di vero, e
quindi di insegnabile, fuori dalle asserzioni scientificamente dimostrabili. A
questo proposito può essere utile richiamare un aneddoto raccontato da Allievo
riferito ad una visita di Padre Girard all’Istituto del Pestalozzi: «Nell’atto
che il Padre Girard stava visitando l’Istituto di lui, egli uscì fuori con
queste parole: “È mio intendimento, che i miei 219 Per queste posizioni fu
criticato da Santoni Rugiu: «L’Allievo ha della moderna pedagogia una
concezione normativa (come sempre, d’altronde, nella concezione cattolica), la
vede cioè non come un’indagine libera e obiettiva sulla natura e sulle
condizioni reali in cui si svolge la formazione dei soggetti, ma come
l’elaborazione di un insieme di indiscusse norme, appunto, che guidino alla
perfezione morale e spirituale. Guai a lasciarsi travolgere dal «gran movimento
sociale» e ritenere che esso indichi sempre la via del progresso e della
civiltà» A. Santoni Rugiu, Storia sociale dell’educazione, Milano, Principiato,
1987, p. 528. 220 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine
pedagogico,cit., p. 89. 221 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 18. 222
G. Allievo, Principi fondamentali di Scienza Pedagogica, in «Rivista Pedagogica»,
n. 10, 1930, p. 687. 223 G. Allievo, Giobbe e Schopenhauer, Torino, Tipografia
Subalpina, 1912, p. 41. 64 alunni non tengano per vero, tranne ciò
solo, che possa essere loro dimostrato come due e due fan quattro”. Al che il
Girard rispose: “Se io fossi padre di trenta figli, nemmeno un solo ve ne
affiderei ad essere ammaestrato, perché non vi verrà mai fatto di dimostrargli
come due e due fan quattro, che io sono suo padre, e che egli è tenuto di
amarmi»224. Le parole di Padre Girard erano utili a spiegare quali fossero i
rischi dell’ipertrofia della ragione scientifica e matematica. Limitando il
veritativo al «misurabile», infatti, si escludevano dall’educazione tutta una
serie di apprendimenti e principi morali indispensabili alla vita e alla formazione
del carattere. Anche su questo punto Allievo esorta a distinguere ma senza
dividere. L’educatore deve far crescere tutte le capacità umane, sia quelle del
«cuore» che quelle della «mente». Era convinto che «la natura non si riforma,
bensì va riconosciuta e rispettata»225. E la natura della persona non può
essere ridotta alla pura istruzione, ma ha bisogno della certezza morale, dei
principi, dei criteri per distinguere bene e male. I. 6. Critica all’idealismo
e al positivismo Una parte considerevole delle opere di Allievo è destinata
alla critica dell’idealismo e del positivismo. A tali correnti, sin dai primi
lavori, Allievo addossò le responsabilità della profonda «crisi»226 e
confusione che ammorbava la filosofia italiana. Oltre ad una lunga serie di
studi dedicati a questi sistemi, anche negli altri saggi di Allievo appaiono
frequenti incisi polemici contro queste teorie. Calò ha rilevato come questa
ricorrente confutazione e polemica del positivismo e dell’idealismo,
rappresentò un tratto specifico del pensiero del pedagogista vercellese
«L’atteggiamento critico contro le due correnti suddette forma la
preoccupazione costante e costituisce, insieme con il principio della
personalità, svolto dall’Allievo in tutti i suoi aspetti, il motivo fondamentale
e la sostanza del suo pensiero filosofico»227. Secondo alcuni studiosi Allievo
avrebbe avuto nei confronti delle teorie coeve un atteggiamento difensivo ed
eccessivamente «polemista»228. Caramella, un gentiliano che certo non
concordava con le critiche dell’Allievo all’hegelismo e ai suoi epigoni, fu
molto severo con il pedagogista, e ne sminuì il contributo, riducendolo ad una
lamentela sterile e arretrata: «Ma venendo ai risultati effettivi della sua
vasta opera di più che mezzo secolo, 224 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche
di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e
Gregorio Girard, cit., p. 89. 225 G. Allievo, Del positivismo in sé e
nell’ordine pedagogico, cit., p. 261. 226 G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza,
la vita, cit., p. 6. 227 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di
Giuseppe Allievo, cit., p. 4. 228 S. Caramella, Lo spiritualismo pedagogico in
Italia, «La nostra scuola», n 13-14, 1921, p. 9. 65 qual è il
significato storico dell’Allievo? Niente di meno ma niente di più che
un’ostinata battaglia cattolica contro lo scientifismo, senza che dal cozzo si
generasse mai una scintilla nuova»229. Una critica analoga gli venne mossa da
Vidari230. È facile riscontrare nell’opera di Allievo toni duri, se non
apocalittici, nei confronti di teorie giudicate dannose non solo alla
pedagogia, ma anche alla vita educativa e sociale del paese. In molti saggi
mancano aperture concilianti, mentre le posizioni espresse sono spesso risolute
e poco inclini ad aperture. Ma, a onor del vero, va riconosciuto che le
critiche portate dal pedagogista sono sempre articolate e suffragate da una
conoscenza precisa degli autori e delle scuole esaminate. «L’Allievo non fa mai
la critica per la critica: il suo scopo è sempre molto preciso, quello di
dimostrare e di salvare certi principi e certe verità filosofiche»231.
All’interno del lungo itinerario delle opere dell’Allievo possiamo distinguere
due momenti. Sino agli anni ’70 dell’Ottocento, si concentrò in particolare
sull’idealismo, mentre in seguito si occupò quasi esclusivamente del
positivismo, data l’incipiente influenza che iniziava ad avere sulla pedagogia
e filosofia italiana. Già alla fine degli anni ’60, Allievo notava come il
positivismo si accingesse a dominare il clima nelle Università italiane e negli
studi filosofici e pedagogici, mentre l’idealismo era destinato a restare ai
margini del dibattito. Nel 1903, ricordando quel tornante storico, commentò:
«Il campo filosofico era in allora combattuto da due scuole di tutto punto
opposte, l’idealismo hegeliano, che andava declinando dal suo apogeo, ed il
positivismo anglo-francese, che si annunziava ristauratore sovrano della
scienza e della vita»232. In quegli anni, la scuola idealistica era viva quasi
esclusivamente a Napoli grazie a Spaventa e Vera. Allievo, peraltro docente in
una sede dove l’idealismo era quasi inesistente, si misurò criticamente
soprattutto con i positivisti. Come accennato, i lavori di critica
all’idealismo si concentrano in larga parte nelle opere giovanili, in
particolare nei Saggi filosofici (1866) ne L’hegelismo, la scienza e la vita,
(1868) e nell’ Esame dell’hegelismo (1897), un saggio più breve di quello
precedente dove riprende pressappoco le stesse tematiche. 229 Ibid., p. 9-10.
230 «In tutti questi lavori la mente dell’ALLIEVO si presenta sempre
nell’atteggiamento di chi, incrollabilmente fermo e sicuro nelle proprie
convinzioni maturate in uno studio severo e diuturno, vede nell’avversario e
nelle dottrine da lui rappresentate un pericolo esiziale per la società e per
la scuola, in cui esse si diffondano. Onde non tanto Egli mira a penetrare ed
esporre l’idea dell’avversario nella sua genesi e nelle sue eventuali
giustificazioni, quanto a metterne in rilievo le deficienze o le contraddizioni
o le inaccettabili conseguenze» G. Vidari, Giuseppe Allievo, cit., p. 8. 231 G.
Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, cit., p. 447.
232 G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 3. 66 Alcuni
cenni polemici contro l’idealismo sono presenti anche in altri testi, tra cui
L’antropologia e l’umanesimo (1868), Della vecchia e della nuova pedagogia
(1873), L’Antropologia ed il movimento filosofico sociale (1869); La pedagogia
e lo spirito del tempo (1878), Il problema metafisico studiato nella storia
della filosofia (1877) Studi filosofici sul carattere delle nazioni (1878)
Sulla personalità (1878). Il testo in cui espone in modo più articolato le sue
tesi contro l’idealismo è L’hegelianismo la scienza e la vita, un lavoro
giudicato da Eugenio Garin «onestamente espositivo»233. L’opera fu scritta in
occasione del concorso Ravizza del 1865-1866, che chiedeva agli scrittori di
cimentarsi con questo tema: «Quali pratiche conseguenze derivino dall’idealismo
assoluto di G. Hegel nella morale, nel diritto, nella politica e nella
religione?». Il testo, che vinse il premio, fu poi rivisto e pubblicato.
Nell’opera, l’Allievo delinea l’origine dell’hegelismo, mettendo in luce
l’humus kantiano da cui nacque l’idealismo. Il pedagogista enuclea i passaggi
che portarono dalle posizioni del filosofo di Königsberg ad Hegel. Allievo
ricorda come Kant fosse allora considerato il nuovo «Socrate» per aver salvato
la scienza dallo scetticismo, mentre egli pensava che il kantismo fosse stato
la «tomba» della scienza e della filosofia234. L’errore di Kant fu quello di
disconoscere il primo dato filosofico, vale a dire l’evidenza dell’essere. Egli
perpetuò quella torsione prospettiva cartesiana che si piegò sull’affidabilità
della ragione, dimenticando lo stupore e l’attestazione del mondo. Allievo
osserva che l’uomo neanche penserebbe se non ci fosse quel «fuori». Così Kant
aveva «condannato il soggetto ad un perpetuo e violento celibato segregandolo
dalla realtà oggettiva»235. Osserva Allievo: «Scienza assoluta intorno il
pensiero umano, ignoranza assoluta intorno la realtà universale, ecco i due
poli del Criticismo di Kant, la finale risposta che egli diede alla sua prima
domanda. Con questo suo sistema originale Kant reputava di avere ricostrutto su
salda base il sapere speculativo, e quetati una volta i dissidii che da secoli
sconvolgevano il regno della metafisica: Ubi solitudinem faciunt (direbbe qui
Tacito), pacem appellant»236. Ma se lo scopo di Kant era quello di salvare la
scienza, egli superò lo scetticismo di Hume, in quanto non riuscì a riconoscere
il senso e i motivi della scienza metafisica. E ciò fu confermato dagli
sviluppi successivi della filosofia. Nei cinquant’anni trascorsi tra la
pubblicazione della Critica della Ragion Pura, 1781, e la morte di Hegel, 1831,
la Germania visse un radicale cambiamento culturale. Dallo scetticismo di Kant
si arrivò attraverso Fichte e Schelling, all’affermazione dell’idealismo 233 E.
Garin, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, cit., p.
56. 234 G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 22. 235 Ibid.,
p. 31. 236 Ibid., p. 29. 67 assoluto di Hegel, che secondo Allievo
non fa altro che trarre le nefande conseguenze di quel divorzio tra l’io e il
mondo, che se aveva portato Kant allo scetticismo, conduceva Fichte alla tesi
dell’Io assoluto, origine e creatore del mondo. Si trattò di una deriva di
quelli che chiamò in un altro testo i «trascendetalisti tedeschi», i quali
«estendendo fuor di misura il potere dell’io umano, lo posero creatore
dell’essere e del sapere, e finirono collo spogliarlo della soggettività ed
individualità sua, confondendolo col massimo degli universali»237. Nel saggio
Allievo dedica diversi capitoli a questi passaggi, concentrandosi dopo Kant, su
Fichte e Schelling. In ultimo affronta in modo analitico la figura e la
filosofia di Hegel, introducendo il suo pensiero con un’accurata esposizione
della vita, oltre che un’analisi degli apporti e delle influenze che ne
condizionarono il pensiero. Successivamente, ne enuclea il sistema filosofico,
con un’analisi articolata. Allievo parte dal concetto generale di filosofia,
quindi affronta il metodo dialettico, il concetto dell’Idea e il suo sviluppo
nel Sistema. Poi tratta della Logica, della filosofia della Natura e infine
della filosofia dello Spirito. In conclusione sintetizza i motivi della critica
all’idealismo. Il seguente brano compendia la critica di Allievo: «Il nome di
Idealismo assoluto con cui viene designata la dottrina di Hegel, ne rivela
tutto lo spirito e ne compendia il contenuto. Il suo sistema è tutto in queste
due parole: Idea assoluta, od in altri termini Idea e sviluppo, giacché
l'essenza dell'Assoluto è un esplicamento universale, un moto continuo e senza
fine. Come per Condillac tutto è sensazion trasformata, così per Hegel tutto è
Idea trasformante. L'idea essendo assoluta si fa tutte le cose, e con questo
suo diventare universale spiega successivamente tutto l'essere, perché
riproducendolo rivela le intime essenze delle singole cose, sicché l'Idea
assoluta si manifesta ad un tempo siccome il sistema della scienza e l'insieme
della realtà, identità universale delle idee e delle cose, del pensiero e
dell'essere. Datemi materia e moto, diceva Cartesio, ed io creerò l'universo.
Hegel pigliando in senso trascendentale il motto cartesiano avrebbe potuto
ripeterlo dicendo: Datemi Idea e sviluppo, ed io vi ridarò rifatta e spiegata
la realtà universale»238. L’identificazione dell’essere con l’idea conduceva
l’idealismo a numerose antinomie ed epicicli, elencati dall’Allievo. Il
pedagogista fa notare come Hegel, mentre tacciava di misticismo i realisti,
chiedeva un atto di fede nel riconoscimento dell’Io assoluto. In conclusione,
Allievo ripropone la ragionevolezza del realismo. Secondo il pedagogista
vercellese, il reale anticipa, sporge e supera il razionale. Una frase
dell’Amleto di 237 G. Allievo, Sulla personalità umana, cit., p. 18. 238 G.
Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 59. 68
Shakespeare è ripresa dall’Allievo come legge della filosofia, «v'hanno cose e
in cielo e in terra di cui le nostre filosofie non si sognano neppure»239. La
diaspora degli hegeliani e le numerose critiche fattegli dai suoi discepoli
evidenziano tanto il fascino della prospettiva hegeliana, quanto la sua
fragilità. L’errore cruciale dell’idealismo è la negazione della validità di
quella serie di evidenze e strumenti che l’uomo ha nel suo naturale rapporto
con il mondo: «il sistema dell’identità assoluta contraddice ai pronunciati
della coscienza e si oppone ai dati del senso comune e del sapere naturale;
dunque è insussistente»240. Per questa ragione, Allievo definisce Hegel come
uno «spietato Torquemada del senso comune»241. Il pedagogista riprende
l’analisi rosminiana e considera gli idealisti fondamentalmente degli scettici.
Osserva: «La scienza è la spiegazione razionale della realtà sussistente: ora
la realtà va anzitutto schiettamente osservata quale si presenta alla nostra percezione,
e non già indovinata a priori e ricercata attraverso le pieghe del nostro
cervello. Una teoria della realtà, costrutta col puro ragionamento e non
fondata sull’osservazione, non è scienza seria e verace, ma un tessuto di
astruserie, che potrà tutt’al più dimostrare la potenza immaginativa di chi
l’ha costrutta. L’idealismo trascendentale germanico de’ tempi nostri ha
sacrificato l’osservazione della realtà al puro ragionamento. Esso ha preso le
mosse dal concetto più astratto, a cui si possa giungere ragionando, e colla
virtù di quel concetto vuoto ed indeterminato pretese di costruire la realtà
universale»242. Prima Gentile243 e poi la Quarello244, criticarono all’Allievo
una conoscenza poco approfondita di Hegel. Se non si può considerare il pedagogista
vercellese tra i massimi studiosi di Hegel, dai suoi lavori emerge un confronto
nel merito con il cuore delle posizioni idealiste. Altri autori, come il
Suraci, parlarono dell’opere sull’Hegelismo come «una critica quanto mai acuta
e serrata»245. Anche per altre teorie, Allievo non bada ad una erudizione
pedante sulle vicende di una corrente, ma al cuore e al significato delle sue
principali direttrici filosofiche. Come è già stato accennato, dopo alcuni
lavori dedicati all’idealismo, Allievo diede largo spazio alla critica del
positivismo, che occupò gran parte della sua attenzione nella sua carriera
seguente. Il pedagogista si accorse della rapida diffusione del positivismo
nelle Università. Uno degli atenei in cui tali teorie presero piede e si diffusero
era proprio quello 239 Ibid., p. 143. 240 G. Allievo, Saggi filosofici, cit.,
p. 6. 241 Ibid., p. 372. 242 G. Allievo, Antonio Rosmini, cit., p. 33. 243 G.
Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, cit.,
p. 370. 244 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., pp. 128-129. 245 V.
Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e pedagogista, cit., p. 84. 69 di
Torino, che era stata sino a pochi anni prima una roccaforte del rosminianesimo
e dello spiritualismo cristiano. Come ha ricordato Giorgio Chiosso: «Proprio a
Torino la cultura positivista stava compiendo il massimo sforzo con Moleschott,
Lessona, Lombroso, Mosso per tracciare una antropologia incentrata su esclusivi
tratti fisio – psichici e fortemente condizionata dalla cultura
evoluzionista»246. Come ebbe a scrivere Norberto Bobbio, Torino rappresentava
sul finire dell’Ottocento «la citta più positivista d’Italia»247. Allievo
individuava come ragione della diffusione di tale corrente un forte appoggio
politico, che era diventato come abbiamo già rilevato, il braccio ideologico
dei gruppi anticlericali che spesso sedevano nelle poltrone più importanti del
neonato Stato italiano. Il pedagogista aveva una chiara percezione di tale
egemonia e non mancò di denunciarla. Scrisse a proposito «Il partito
iperdemocratico, che nei lontani sfondi della rivoluzione italiana del 47
appena s’intravvede indistinto e sfumato, prese a poco a poco forme più
spiccate e concrete, e fattosi potente tende oggidì a tenere esso solo il
campo. Esso novera potenti ingegni fra i suoi numerosi seguaci, che ne
bandiscono i principii dalle cattedre universitarie, dalle tribune
parlamentari, dalle officine della pubblica stampa. La sua arma è la critica,
il suo dogma supremo è l’umanesimo sociale, ossia il naturalismo pagano
razionalizzato. E la critica, dacché fu inaugurato il Regno dell’Italia una, si
spiegò con forze maggiori che mai. Essa si pose ad abbattere il principio di
autorità nell’ordine del pensiero e della vita, a dissolvere le credenze morali
e religiose dell’universale, a minare le fondamenta di tutta la dommatica del
cristianesimo, a snaturare l’indole nativa e tradizionale della filosofia
italiana»248. Nonostante il peso del positivismo fosse riscontrabile già nei
citati dibattiti del ’47, fu solo con l’Unità che ai positivisti fu concesso
quello spazio privilegiato col quale poterono diffondere le loro teorie e avere
una inaspettata diffusione. Come denunciò Allievo: «Ai seguaci e promotori
della nuova scuola pedagogica il Governo prodiga la pienezza de’ suoi favori, e
sotto la potente sua egida assicura il trionfo»249. Se i capi scuola europei
del positivismo meritarono, da parte dell’Allievo, delle analisi approfondite e
alcuni, rari, apprezzamenti, la valutazione degli epigoni italiani fu molto
severa. Essi vennero ridotti al rango di semplici ripetitori di autori più
organici come Spencer, Comte, Bain. Allievo si limitò ad affrontarne in modo
sbrigativo la produzione positivistica italiana nel saggio La pedagogia
italiana antica e contemporanea (1901). In 246 G. Chiosso, L'interpretazione
rosminiana di Giuseppe Allievo, «Pedagogia e vita», n. 6, 1997, p. 152. 247 N.
Bobbio, Introduzione, in E. R. Papa (ed.), Il positivismo e la cultura
italiana, Milano, Angeli, 1985, p. 13. 248 G. Allievo, La pedagogia italiana
antica e contemporanea, cit., pp. 161-162. 249 Ibid., p. 168. 70
esse il pedagogista si lasciò andare a valutazione in parte ingenerose e
tranchant. Affrontò le teorie di Angiulli, Siciliani, Gabelli, e di altri pedagogisti
minori. Il primo è considerato il «principe» fra i cultori del positivismo in
Italia. Viene definito come un «pensatore robusto e profondo, ma non
originale»250 che ricalca fondamentalmente le posizioni di Spencer, e dunque
tutti i suoi errori. La riduzione spencieriana dell’uomo ad un animale, mina le
basi del pensiero di Angiulli: «Lottando contro la realtà dell’io, che egli ha
negato e che s’impone inesorabile al suo pensiero, si vede costretto a
ricorrere ad una novità di linguaggio, ad una dicitura attortigliata ed
involuta, ad un ritornello di espressioni stereotipate, che spargono una
nebulosa caligine sul tutt’insieme della sua dottrina»251. Un altro errore a
cui lo conduce la negazione del principio della personalità è la statolatria
nel campo dell’istruzione pubblica. Pietro Siciliani è invece accusato di
eclettismo e di aver mal combinato istanze inconciliabili, producendo un
sistema contradditorio e instabile. In una prelazione risalente al 1882,
rammentò il cambio di opinione sul positivismo, prima criticato e poi
elogiato252. Del sistema del Siciliani l’Allievo denunciò l’incapacità di
giustificare sui presupposti positivisti l’esistenza della libertà e i
fondamenti della morale. Negli Opuscoli lo accusa di trasformismo e scrive che
«muta di dosso i panni a tenor della moda»253. Stando ad Allievo, questa
«accozzaglia» di principi spuri condanna alla mediocrità la pedagogia del
Siciliani: «Egli non si afferma né spiritualista, né materialista, né
idealista, né ontologista, né trasformista, né positivista, e lascia capire che
vuol essere qualche cosa di più e di meglio di tutto ciò; ma non ci presenta un
principio superiore a tutti questi sistemi, che impronti il suo pensiero e lo
determini per quello che è»254. Si occupò anche di altri autori come Emanuele
Latino, Aristide Gabelli, Edoardo Fusco in cui rileva sostanzialmente gli
stessi errori di Siciliani e dell’Angiulli. Saluta invece con soddisfazione il
ritorno allo spiritualismo di Ausonio Franchi, al secolo Cristiano 250 Ibid.,
p. 169. 251 Ibid., p. 174. 252 Nel saggio cita direttamente le parole di
Siciliani e poi le commenta: «“Troppo scettici, noi Italiani abbiamo bisogno di
fede: troppo anneghittiti dal positivismo, abbiamo bisogno di sacro entusiasmo
nella scienza, nell’onestà, nell’onore, nei principii di giustizia,
nell’attività del lavoro, nell’autorità creata da noi stessi, nell’Italia.
Possiamo dunque accettare il Positivismo? No. Inteso come sistema, il
Positivismo è dottrina assolutamente negattiva, non ha storia, non ha
principii; è contrario allo spirito filosofico di nostra età, è dannevole nelle
sue applicazioni morali, estetiche, politiche, religiose, storiche. Nol
possiamo accettare come sistema, perché contrario alla nostra istoria, alla
mente dei nostri padri, all’indole nostra, al nostro genio, alle nostre
tendenze, contrario ai nostri bisogni fisici e intellettuali [in nota: P.
Siciliani, Critica del positivismo]”. Chi pubblicava or non è molto queste
righe contro il sistema positivistico, è quegli stesso, che oggi ha inalberato
il vessillo del positivismo dlla sua cattedra di pedagogia in una
celebratissima Università italiana, mutando dottrine con quella leggerezza
medesima, con cui altri muta di dosso i panni a tenor della moda» G. Allievo,
L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18
novembre 1881, Torino, Marino, 1882, pp. 14-15. 253 G. Allievo, Opuscoli
pedagogici, cit., p. 122. 254 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e
contemporanea, cit., p. 177. 71 Bonavino, di cui esalta le Lezioni
di pedagogia che viene indicato come un testo fondamentale per la pedagogia
spiritualista. Le considerazioni dell’Allievo restarono severe. Valuto le
teorie positiviste «disumane e liberticide»255. Inoltre avversò una certa
indifferenza degli epigoni di Comte che sembravano sordi agli appunti delle
altre correnti pedagogiche. In più d’una occasione Allievo lamentò la loro
indifferenza alle critiche, oltre alla poca onestà intellettuale256 Come già
accennato, i suoi studi si concentrarono soprattutto sui fondatori del
positivismo europeo: Comte, Spencer, e Bain. Le sue numerose opere dedicate a
questa corrente, rappresentano una prima sistematica reazione dello
spiritualismo italiano al positivismo europeo. Il lavoro più preciso e
sistematico su tale corrente è Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico
(1883), definito dalla «Civiltà Cattolica» come una «splendida e serrata
critica di questo sistema»257. Nella prelazione tenuta per l’anno accademico
1881-1882, Allievo annunciò che durante il corso sarebbe sceso «nell’arringo a
combattere il positivismo riguardandolo siccome una larva ingannevole della
scienza, siccome un pericolo esiziale della pedagogica»258. Nel solco di quelle
lezioni pubblicò poi il lavoro. L’opera si divide in due parti principali: nella
prima tratta delle origini del positivismo e ne mette in discussione i
fondamenti filosofici, nella seconda critica le conseguenze pedagogiche ed
educative. Allievo identifica come causa prima del positivismo, la stessa
dell’idealismo, vale a dire la crisi della metafisica avvenuta con la
modernità, che Kant sancì nella Critica della ragion pura, sostenendo la
sostanziale inconoscibilità del non sperimentalmente. Il metodo scientifico si
dogmatizzò, pretendendo di estromettere dalla conoscenza e dalla vita privata e
pubblica tutto ciò che non è misurabile. Il positivismo si configurò come una
nuova prospettiva epistemologica, metodologica e antropologica, fondata sulla
negazione di tutte le conoscenze non verificabili sperimentalmente. In questo
senso, si oppone a qualsiasi 255 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i
greci, cit., p. I. 256 Nel saggio su La scuola educativa, Allievo riporta una
critica fattagli da Fornelli che nel testo La pedagogia e l’insegnamento
classico, accusò il professore vercellese di aver travisato le posizioni di
Comte. Dopo essersi difeso, critica anche una evidente storture delle sue
posizioni, avendolo assimilato all’idealismo: «Ma il più grosso abbaglio del
mio critico è questo: io non sono punto quell’idealista, che egli s’immagina
mostrando di non aver letti i miei lavori filosofici, o di averne frainteso il
significato malgrado la loro conveniente chiarezza. Mi additi un solo passo, da
cui risulti che io ripongo le origini prime del pensiero in concetti
astrattissimi, anteriori e superiori ad ogni realtà concreta e sussistente, ed
io mi do’ per vinto» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia
e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 218. 257
Linee di pedagogia moderna, «La Civiltà Cattolica», quaderno 1565, 1915, vol.
III, p. 542. 258 G. Allievo, L’educazione e la scienza. Prelezione fatta
all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881, cit., p. 15. 72
considerazione metafisica, di cui è «la sua negazione assoluta ed esclusiva»259.
In questo rifiuto consiste, per il pedagogista vercellese, anche «il carattere
direi negativo del positivismo»260. Va tenuto conto, che Allievo riconosce
l’apporto positivo delle scienze sperimentali e della metodologia scientifica.
Senza alcun timore verso gli esiti della ricerca empirica, il pedagogista
attribuisce alla scienza (non al positivismo) il merito di aver accresciuto
notevolmente la conoscenza del mondo e il benessere materiale. Tuttavia,
Allievo individua proprio nell’euforia per gli esiti della tecnologia la
presunzione di certo positivismo. Galvanizzata dalle scoperte scientifiche:
«esaltò l’esperienza sensibile siccome l’unica e suprema ed assoluta fonte di
tutto lo scibile umano, rigettò tra le illusioni tutto ciò, che trascende i suoi
confini, assegnò unico oggetto della scienza i fenomeni disgiunti dalle
sostanze e respinse la ragione siccome facoltà trascendente che contempla la
sostanzialità delle cose»261. Allievo ricorda come il metodo sperimentale non
possa racchiudere tutto il campo dello scibile, pena l’esclusione di ambiti
conoscitivi fondamentali per la vita umana. Rivolgendosi ai positivisti Allievo
scrive: «No, la mente umana non può fermarsi ai confini dell’esperienza, come
alle colonne di Ercole: i grandi problemi dell’esistenza, soffocati dalla
vostra dottrina, risorgono davanti alla ragione e le si impongono irremovibili.
Voi non riuscirete mai a cancellare dalla coscienza del genere umano questo
indestruttibile sentimento, che noi non siamo sfuggevoli fenomeni, quasi ombre
erranti alla ventura nel deserto, bensì persone vive, forniti di una ragione
che trascende la cerchia dell’esperienza sensibile e si innalza alle supreme
idealità della vita. Gli ingegnosi apparecchi meccanici, di cui avete forniti i
vostri laboratori di psicologia sperimentale, potranno procacciarsi nuove ed
interessanti notizie intorno la vita sensitiva dell’uomo esteriore, ma non ci
sapranno dir nulla intorno i misteri dell’anima, il secreto lavorio della sua
vita intima, le sue sublimi aspirazioni»262. La scienza esatta e sperimentale
non può esaurire tutto il campo della conoscenza dell’uomo. Inoltre, secondo
Allievo, l’esautorazione della metafisica dal campo dello scibile danneggia la
stessa scienza. Essa, infatti, nasce da domande metafisiche, si nutre di
concetti e di una logica che non può essere rinvenuta nella esperienza
materiale, ma solo in quella spirituale. L’antimetafisica getta il positivismo
in un paradosso: lo scientismo, 259 G. Allievo, Del positivismo in sé e
nell’ordine pedagogico, cit., p. 13. 260 Ibid., p. 10. 261 G. Allievo, Il
ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di
Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 14. 262 Ibid., pp. 14-15. 73
infatti, nega le premesse della scienza. Con l’affermazione «non esistono che
fatti» si esprime un giudizio generale e veritativo sul mondo, portando avanti
un discorso propriamente metafisico. Scrive Allievo: «Dicono infine che,
seguendo la dottrina evoluzionistica, le teorie non sono più campate in aria
quali sono foggiate dall’apriorismo, ma riescono l’interpretazione oggettiva
dei fatti. Sta bene: i fatti vanno adunque interpretati; ma con quale criterio?
Certamente con qualche concetto o principio ideale, superiore ai fatti stessi,
perché questi per sé sono lettera morta, bisognevole dello spirito, che la
vivifichi e la illustri. Eccon quindi chiarita l’insufficienza dell’esperienza
alla formazione della psicologia e della pedagogia»263. Il positivismo si
autodefinisce teoria delle scienze positive, ma secondo Allievo, la costruzione
di un sistema filosofico accede già ad una dimensione della riflessione che
travalica i confini dell’esperienza empirica. Si tratta di una «astrazione» che
si serve della logica, del giudizio, dell’argomento. In questo senso, se i positivisti
volessero essere coerenti con le loro posizioni, dovrebbero «liberarsi da
concetti «metafisici» come quelli di causalità, identità, o di non
contraddizione. In questo senso, per il pedagogista vercellese, l’assoluta
antimetafisica del positivismo, si traduce in un suicidio della scienza stessa:
«Dacchè dunque l’antropologia studia l’uomo pensante, il quale sovrasta alla
materia e possiede in sé i principi ideali necessarii alla costruzione del
sapere, consegue che essa è lo spirito informatore delle discipline positive e
naturali, e che il naturalismo, che la impugna, distrugge le stesse scienze
della natura e contraddicendo a se medesimo fa della metafisica col proclamare
che la materia è l’essenza universale di tutto, che è infinita, eterna, mentre tutto
questo trascende i limiti dell’esperienza e dell’osservazione sensibile»264.
Allievo giudica la posizione gnoseologica dei positivisti fondamentalmente
scettica, in quanto le loro premesse conducono all’inevitabile dissoluzione
della conoscenza: «Una critica priva di principii universali ed assoluti, che
la rischiarino, è una critica, che pretende di essere fine a se stessa, anziché
mezzo potente per giungere al Vero, ossia è criticismo scettico. Il positivismo
contemporaneo ha menato un gran guasto nel campo della critica odierna, la
quale è insorta a dissolvere e disfare quelle medesime verità universali, che è
tenuta a rispettare siccome fondamento della sua esistenza»265. A proposito di
tali nefande conseguenze, Allievo ebbe modo di criticare il Romagnosi, che
vicino a posizioni simili 263 G. Allievo, Gli evoluzionisti e il metodo in
pedagogia, «Rivista Pedagogica Italiana», Asti, 1897, vol. I, pp. 305-306. 264
G. Allievo, L’uomo e la natura, cit., p. 17. 265 G. Allievo, Delle dottrine
pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco
Naville e Gregorio Girard, cit., p. 9. 74 sosteneva che è sano solo
colui che la pensa come la maggior parte dei suoi concittadini, non avendo più
un riferimento metafisico su cui fondare la validità delle posizioni266.
Inoltre il materialismo non può che portare ad una confusione nella scienza, in
quanto se la conoscenza è un prodotto necessario dell’esperienza personale, e
nasce da questa in modo spontaneo e incontrollabile, perde di significato la
valutazione delle teorie che non sono né vere né false, ma unicamente frutto
della determinazione. Scrive a proposito: «Ora se il pensiero è sempre di
necessità quale lo forma l’esperienza, ossia quale lo esige la condizione
fisiologica, in cui versiamo, allora cessa ogni distinzione tra un vero ed un
falso pensiero, e così il pensiero a priori, o sarà vero anch’esso, oppure
dovrebbe negarsene l’esistenza, siccome di un fatto impossibile, mentre
l’evoluzionista lo piglia ad oggetto della sua critica»267. Invece l’esistenza
della scienza conferma la presenza di una natura non materiale nell’uomo, solo
la persona ha coscienza del mondo e cerca la verità. Un altro nodo insolubile
per il positivismo è l’esistenza della libertà. La scienza esatta, come ha insegnato
Kant, non può attestare la sua esistenza, e il materialismo e determinismo di
certi positivisti la negano. Se l’uomo non è più libero, si chiede Allievo,
come lo potrà essere la scienza? Inoltre ad Allievo pare pretestuoso l’uso
della scienza contro la metafisica e la religione. Le scienze naturali «anziché
escludere di loro natura la metafisica, rinvengono in questa sola la loro
suprema ragione, sì che non lasciano più luogo alla filosofia positiva.
Infatti, un fisico, un chimico, un astronomo, può ammettere i pronunciati del
teismo e dello spiritualismo, senza punto rinunciare ad un solo dei teoremi
della propria scienza (valga l’esempio di Newton, del Galilei, del Padre
Secchi, del Pasteur)»268. Un'altra «vittima» del positivismo è l’antropologia,
che da tale corrente viene snaturata. La negazione della metafisica ha notevoli
ripercussioni sulla scienza dell’uomo, poiché getta nell’indecifrabile la sua
essenza personale. Il positivista non può conoscere la vera essenza dell’uomo,
in quanto la persona non può essere raggiunta e compresa nell’esprit del
finesse. Scrive Allievo «Colla loro antropometria non giungeranno mai a
misurare le profondità dell’anima, a scandagliare gli immensi problemi, che si
agitano nelle intimità dello spirito umano»269. La persona non è rilevabile
nell’esperienza come se fosse un fenomeno fisico, è riscontrabile solo nella
riflessione oltre il sensibile. Occorre, stando ad Allievo, sollevarsi dal
fatto, per constatare l’Io: «Il positivista vuol fatti, nient’altro che fatti,
né vuol saperne di esseri individui, di sostanze permanenti. Ma il factum (e
chi nol 266 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 29. 267 G. Allievo,
Gli evoluzionisti e il metodo in pedagogia, cit., pp. 304-305. 268 G. Allievo,
Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 16. 269 G. Allievo, Lo
spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, cit., p.
6. 75 sa?) è un sostantivo verbale derivante dal verbo facere, è un
participio che presuppone l’ego facio, tu facis, ille facit: importa l’essere,
che fa, il soggetto operante, e rompe in una contraddizione il positivista
separando l’un termine dall’altro»270. Ma tale agnosticismo si trasformò presto
in una negazione. Infatti, per i positivisti, «L’uomo non è una sintesi vivente
di due sostanze, spirito e corpo essenzialmente distinte, eppur composte ad
unità di persona, bensì un complesso di fenomeni fisiologici e psicologici,
diversi di grado soltanto, ma non di essenza da quelli animali»271. Osserva nei
già citati Opuscoli pedagogici: «Negli intimi recessi dell’anima, dove non
penetra coltello di anatomico, dove non giunge lente microscopica di fisiologo
e naturalista, si nascondono secreti che accennano all’Infinito, si destano
aspirazioni, che vengono dall’alto e nell’alto ritornano. Quei secreti, quelle
aspirazioni il positivista riguarda quali vani fantasmi, e lo spirito umano
quale un fantasma multiforme errante fuori del mondo della realtà. Duri tempi
per questi tempi»272. Così la prospettiva epistemologica dei positivisti mette
in discussione la scienza dell’uomo e sfigura la persona. Osserva Allievo: «il
sistema antropologico dei materialisti non è la scienza nuova, che cerchiamo,
ma la negazione della scienza»273. La loro antropologia risulta dunque un
grande «equivoco»274. Per questo chi approccia l’antropologia positivistica è
«trascinato entro una selva intricata di osservazioni senza un’idea suprema
dominante, che lo sorregga e le dia unità, anima e vita a quel tritume di
particolari»275. Il miglior esponente di questa prospettiva è Spencer che
enuclea tali concetti nel Primi Prinicipii, così commentati dall’Allievo: «Per
quantunque la credenza nella realtà dello spirito individuale sia inevitabile,
e benché sia riaffermata non solo dall’unanime consenso del genere umano, ed
adottata da tanti filosofi, ma ben anco dal suicidio dell’argomento scettico,
pur tuttavia non può venire per nulla giustificata dalla ragione: havvi ancora
di più; allorquando la ragione è messa alle strette di pronunciare un giudizio
formale, essa condanna tale credenza... di guisa che la personalità di ciascuno
ha coscienza, e la cui esistenza è da tutti avuta per un fatto certissimo sopra
ogni altro, è tal cosa che non può in veruna guisa essere conosciuta; la
conoscenza della personalità è vietata dalla natura medesima del pensiero»276.
270 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 87. 271 G.
Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 243. 272 G.
Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 13. 273 G. Allievo, Della vecchia e della
nuova antropologia di fronte alla società, cit., p. 13. 274 Ibid., p. 12. 275
G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 58. 276 G.
Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 315.
76 Il filosofo britannico non può che giungere ad un riduzionismo
antropologico. Scrive ancora Allievo: «Lo Spencer fa sua (né vi ha di che
stupirne) l’osservazione di uno scrittore, che cioè a riuscire nella vita
occorre primamente essere un buon animale»277. Tale prospettiva è inaccettabile
per l’Allievo, secondo cui l’uomo è strutturalmente differente dal resto della
natura: «L’umano soggetto, insino dal primissimo istante della sua mortale
esistenza, è non solo di grado, ma di specie differente dal bruto, perché la
mente, ossia l’anima razionale, che lo costituisce uomo, ei la possiede per
natura, e non l’acquista punto col tempo, non la vede allo sviluppo progressivo
dell’organismo corporeo. Questo giustissimo concetto pitagorico, che tanto bene
risponde al sentimento naturale della dignità umana, sta diametralmente opposto
alla moderna dottrina del positivismo evoluzionistico, il quale sentenzia che
nel neonato l’animalità si viene a poco a poco trasformando in unità in virtù
delle leggi fisiologiche dell’organismo animale, il quale, mentre nella prima
infanzia della vita si manifesta mercé le sole funzioni inferiori del senso
fisico e del cieco istinto, proseguendo nel suo sviluppamento, acquista la
virtù di esercitare esso stesso la facoltà superiore dell’intendere, del
ragionare e del volere, sicché la mente, lo spirito, l’anima razionale, che
tanto ci sublima e ci differenzia dal bruto, non sarebbe già una sostanza
diversa dall’organismo corporeo, bensì rimarrebbe pur sempre in fondo
l’animalità stessa che funziona sott’altra forma più elevata»278. L’uomo è
ontologicamente differente rispetto al resto della natura. Il positivismo al
contrario «afferma che l’io umano non è un’energia vivente, un’attività libera
e conscia della sua personalità sostanziale, bensì un mero complesso di
fenomeni che non appartengono a nessuno»279. Queste posizioni antropologiche,
denuncia Allievo, portano ad inevitabili corollari pedagogici: «ai giorni
nostri e nella nostra Italia in fatto di pubblica educazione si trascorre agli
estremi, sicché questa gran legge dell’armonia rimane offesa. All’educazione
fisica si attribuisce una importanza esorbitante, e assai più di quanto le
convenga ed in suo servizio si lavora in tutti i rami ed in tutte le guise,
mentre la formazione del carattere che è di tutta l’umana educazione la parte
più nobile e più prestante, giace pressoché dimenticata e negletta. Lo Spencer
esaltando sopra misura la cultura dell’organismo corporeo ha asserito che
l’uomo debb’essere anzi tutto e soprattutto un buon animale, ma ha dimenticato
che si può essere un buon animale ed un pessimo soggetto ad un tempo»280. 277
Ibid., p. 322. 278 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., pp.
28-29. 279 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., pp. 5-6. 280 G. Allievo,
Principi fondamentali di Scienza Pedagogica, cit., p. 680. 77
Invece la persona è quella briciola dell’Universo che appartiene a se stessa, e
a ciò deve essere educata. La persona sente, capisce e vuole. La riduzione
dell’uomo ad animale compromette la morale, e cioè l’immanenza dei criteri di
bene e di male e la responsabilità personale. Allievo individua le conclusioni
di queste premesse nell’opera di Spencer, il quale negando la libertà, «nella
sua psicologia riguarda la volontà quale una evoluzione dell’istinto fisico ed
assoggetta perciò l’opera umana ad un fatale e necessario determinismo, in cui
i fenomeni psichici si succedono gli uni agli altri con un intreccio
indissolubile. Torna quindi inutile, anzi contrario a ragione, il pronunciare,
che siamo moralmente tenuti a compiere le azioni per noi vantaggiose ed
astenerci dalle dannose se esse non dipendono dal nostro libero volere, ma sono
per insuperabile necessità predeterminate le une alle altre»281. Si tratta di
una posizione con nefandi corollari morali e pedagogiche. «Rigettando la
libertà – infatti - viene per ciò stesso a mancare ogni ragione di
responsabilità morale, in quella guisa che, rovesciato un principio, cadono
tutte le conseguenze sue»282. Si tratta di una corollario spesso negato dai
positivisti. Allievo ben evidenzia questa contraddizione e osserva «parlano
della necessità imperiosa di formare il carattere dell’alunno, di promuovere lo
sviluppo spontaneo della sua attività mentale, di educarlo alla libertà di
pensiero; ma in tal caso la logica li costringe ad accogliere il concetto
filosofico dell’uomo, da cui discendono tutte queste conseguenze pedagogiche, e
rigettare il concetto antropologico positivistico da cui fioriscono conseguenze
pedagogiche diametralmente opposte»283. Si tratta di un’aporia che emerge con
chiarezza nella «retorica» sull’autodidattica284. Privato della libertà e del
fine, l’uomo si rifugia nell’accidia: «Vivere adunque alla giornata secondochè
porta il caso fino a che venga l’unus interitus hominum et iumentorum, ecco
l’unica morale a cui possa logicamente far luogo il positivismo»285. Allievo
critica ancora lo Spencer quando nella sua Educazione morale, intellettuale e
fisica riduce la morale a «conservazione propria diretta», una considerazione
che se è 281 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit.,
p. 309. 282 Ibid., p. 109. 283 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, cit., p. 5. 284 Scrive sull’argomento: «I propugnatori della
nuova scuola positivistica vanno proclamando la somma importanza
dell’autodidattica e dell’educazione del carattere, e se ne fanno banditori
come di una loro scoperta; ma con ciò non si avvedono, che danno una smentita
alla loro dottrina, la quale facendo dell’io umano un mero fenomeno senza
sostanza, e rigettando fra le illusioni la libertà dello spirito, toglie di
mezzo quella personalità, per cui l’alunno colla sua interiore energia
conquista le conoscenze e vi attinge la fermezza incrollabile del volere» G.
Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 13. 285 G.
Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 262. 78
spiegabile col suo darwinismo non è accettabile ai fini di una convivenza e di
una prassi educativa. La vita diviene adattamento e sopravvivenza. Senza un
fine ultimo non può esistere educazione, ma solo adattamento, e cioè in qualche
modo abbruttimento e alienazione. Il positivismo è la negazione della vera
educazione e «non ha ragione di usurpare il posto della scienza, così
compromette fatalmente le sorti dell’educazione umana»286. In questo senso, non
sconsacra solo la fede e la metafisica, ma anche la vita umana, la fiducia,
l’amore, la morale, gli ideali. La nuova antropologia dei positivisti ha
conseguenze nefaste sull’educazione. Negato il principio della personalità e il
valore della libertà, l’educazione è declassata ad adattamento. Il fine della
formazione si riduce all’ «allevamento» di un buon animale, il suo unico
interesse e scopo dovrà essere quello di collaborare al benessere dell’Umanità.
Nella prospettiva positivistica perde di significato quella formazione del
carattere, della volontà, e di emancipazione dalle funzioni biologiche, in cui
risiede secondo Allievo lo scopo dell’educazione umana. Anche l’istruzione,
come contesta Allievo al Bain, è ridotta a comunicazione di nozioni, sempre
funzionali alla produzione o alle condizioni sociali, e senza nessun
riferimento all’educazione, agli ideali, ai valori. Non si bada più alla
formazione del carattere, ma alle capacità cognitive, privandole però del fine
e della direzione. L’educazione cessa di essere esortazione per divenire
condizionamento. Il suo senso nella pedagogia positivistica viene svilito in
quanto «manca il pensare grandioso, elevato, che raccoglie una molteplicità
svariatissima di idee particolari in una potente ed organica unità; manca quel
soffio di idealità, che innalza lo spirito dell’educatore al sentimento del suo
arduo e sublime magistero»287. Oltre all’idea di libertà, di morale, e di
educazione sono le stesse scienze umane che vengono ribaltate sulla base dei
principi antimetafisici, materialisti e naturalisti. Allievo denuncia che «Le
scienze della natura hanno usurpato il posto delle scienze dello spirito: la
psicologia, la morale, la filosofia in genere non hanno più una esistenza loro
propria e distinta, ma sono trasformate in altrettanti rami delle scienze
naturali»288. La pedagogia vede messi in discussioni i suoi principi
fondamentali: «Una scienza pedagogica senza verità universali e necessarie,
un’educazione senza ideale, ecco le conseguenze, che derivano dal principio,
che l’esperienza è la norma unica e suprema della disciplina pedagogica»289.
286 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 183. 287
G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 27.
288 G. Allievo, Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo
nell’uomo, cit., p. 4. 289 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, cit., p. 8. 79 Il primo dato necessario alla
pedagogia che il positivismo confonde è la natura non materiale della persona:
«La nuova scuola, mentre proclama di non voler accogliere nella cerchia della
scienza altro che fatti, inconseguente a se medesima rinnega alcuni fatti di
singolarissima importanza. Giacché è un fatto irrepugnabile, che l’educatore e
l’alunno, l’uno di fronte all’altro, sentono di essere non già meri fenomeni
insieme implicati, bensì due persone vive e reali, che hanno ciascuna affetti,
intendimenti e voleri suoi propri, ed affermano la loro individualità col
vocabolo io; sentono di essere attività libere, consapevoli di sé, arbitre del
proprio operare. Ora la nuova scuola proclama illusorii questi due solennissimi
fatti, che sono il fondamento primo dell’opera educativa». L’antimetafisica
mette in discussione un altro elemento necessario per la pedagogia, vale a dire
l’evidenza che «L’uomo è un soggetto educabile. Questo concetto semplicissimo
ed elementare trascende la sfera dell’esperienza»290, e non può dunque essere
incastonato nell’architettura positivista. La persona inoltre ha bisogno di un
ideale, di un fine a cui piegare la sua esistenza. «Senza ideale non si vive da
uomo, non si vive personalmente; e l’ideale vero non ci viene da una scuola, la
quale insegni che la vita umana si risolve tutta quanta in un gabinetto di
fisiologia, non ci viene dalla nuda esperienza. Essa mi dirà quello che io sono
di fatto, o integro o corrotto che io mi sia; l’ideale invece mi rivela quello
che io debbo essere; quello dell’esperienza è l’ideale del momento che passa,
del punto che scompare; il vero ideale abbraccia l’universalità del tempo e
dello spazio»291. In un altro saggio osserva: «L’esperienza mi dice quello, che
è di fatto, non quel che debb’essere; mi apprende cioè che l’uomo viene
realmente educato, ma non già che lo debba essere; è dessa la ragione, che
muovendo dal concetto della persona umana ne argomenta che l’educazione le è
necessaria ed essenziale. Così la sola esperienza non vale a somministrarci la
verità universale e necessaria dell’educabilità»292 L’educazione ha bisogno di
un ideale. Questo brano sintetizza chiaramente i concetti suaccennati: «Che se
il soggetto educando de’ positivisti, conscia ed arbitra di sé e cagione
efficiente degli atti suoi, è niente più che una mera successione de’ fenomeni,
i quali non appartengono a nessuno, ognun vede, 1° che voi farete del vostro
alunno non già una libera individualità, che pensi da sé e si regga per virtù
interiore, bensì un meccanismo di fenomeni insieme raccostati dalla forza
dell’abitudine; 2° che la santità del dovere è sfatata e l’educazione morale
torna impossibile, perché i fenomeni passano senza lasciar traccia di sé, e le
nostre risoluzioni 290 Ibid., p. 6. 291 G. Allievo, Il ritorno al principio
della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre
1903, cit., p. 15. 292 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, cit., p. 6. 80 volontarie sarebbero una risultante di
fenomeni ossia di forze meccaniche cooperanti; 3° che anch’essa l’educazione
religiosa non ha più ragione di essere, perché il positivismo è la negazione
della metafisica, come scienza dell’Essere assoluto, e la negazione della
religione, come amore intelligente ed operoso dell’Essere divino»293. La
pedagogia positivista viene inoltre criticata in quanto si fregia di aver
portato fondamentali novità per la pratica educativa. Allievo chiarisce che: «I
positivisti s’immaginano di avere dato alla scienza dell’uomo e della sua
educazione un impulso affatto nuovo e potente, di averle impresso il suo vero
indirizzo, di averla ricostruita sulle sue giuste fondamenta come se tutti i
grandi pensatori, che meditarono prima di essi intorno a queste due discipline,
avessero brancolato alla cieca; e tutta la riforma, della quale vanno altieri,
sta nell’aver circoscritto tutto il compito dell’antropologia e della pedagogia
allo studio de’ fatti umani ed alla ricerca delle loro leggi, indipendentemente
da ogni considerazione relativa alla sostanzialità del me, in cui essi fatti
hanno il loro comune principio, il loro punto centrale ed armonizzatore»294. Ne
La nuova scuola pedagogica analizza le novità che i positivisti si prendono il
merito di aver apportato alla pedagogia: metodo intuitivo, autodidattica e
adattamento. Allievo fa notare come siano tutte intuizioni e nozioni assai note
prima della nascita del positivismo e prima ancora della comparsa della
pedagogia. Per quanto riguarda le scienze umane, Allievo contesta la
trasformazione positivistica della psicologia in una branca della fisiologia.
Tale critica è legata alla battaglia per la difesa della personalità umana e
della sua libertà. Ciò che Allievo intendeva difendere era l’idea che i fatti
psicologici non fossero solo fisici, ma fondamentalmente spirituali. Il mentale
non può essere trattato come il biologico, per cui l’oggetto della psicologia
deve essere l’io sostanziale e non la sua espressione fisiologica o fenomenica.
Per tale motivo la psicologia deve seguire, a detta di Allievo, un metodo
filosofico e non scientifico, con cui invece si può indagare l’uomo da un punto
di vista anatomico o fisiologico. Così per l’Allievo «la psicologia è quella
parte di filosofia, che ha per oggetto l’anima umana studiata ne’ suoi fenomeni
e nel suo essere sostanziale mediante la coscienza perfezionata dalla
riflessione al ragionamento»295. Tale concezione deve essere contestualizzata
in un periodo in cui la scienza italiana era parecchio lontana dagli approcci e
dai risultati dei laboratori psicologici svizzeri, tedeschi e francesi. Questa
difesa del collocamento della psicologia nella filosofia da quanti la volevano
ridotta a pura fisiologia, nacque dalla paura 293 G. Allievo, Del positivismo
in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 409. 294 G. Allievo, Delle idee
pedagogiche presso i greci, cit., p. 87. 295 G. Allievo, Appunti di
Antropologia e Psicologia, cit., p. 24. 81 che tale prospettiva
avallasse la riduzione dell’essere umano a un mero meccanismo biologico.
Occorre inoltre far notare che Allievo tenne in grande considerazione le
scienze sperimentali, anche se denunciò l’alto rischio dello scadimento della
scienza in scientismo. Osserva «Non vi è amatore del vero sapere, che non
riconosca e non ammiri i grandi progressi fatti dalle scienze naturali, e lo
splendido avvenire, a cui sono chiamate, proseguendo per la retta via
dell’osservazione sincera e compiuta dei fatti fisici, fecondata da una lenta e
prudente induzione verificata mediante la prova e riprova di ben condotto
esperimento. Questo successo e sicuro progredire del pensiero nella scoperta
delle leggi e delle forze della natura avvantaggia le sorti dell’umanità e
conferisce potentemente alla civiltà ed al perfezionamento sociale, essendochè l’uomo
la fa sua rivolgendola al compimento del suo ideale. Se non che mentre per una
parte il progresso delle scienze naturali conforta l’animo di liete speranze,
per l’altra si nota con rincrescimento la tendenza di alcuni illustri ingegneri
contemporanei a trascendere i confini proprii di esse scienze e riguardarle
siccome la vera e sola scienza, a cui tutte le altre vanno sacrificate, come se
in esse sole fosse incarnato lo spirito scientifico»296. Appare dunque poco
fondato l’appunto mosso dalla Bertoni Jovine all’Allievo, che criticò al
vercellese una presunta ostilità nei confronti della scienza e del suo valore
educativo. Secondo la studiosa emiliana, per Allievo: «Tutte le scienze che si
valgano di questo metodo e che inducono l’educando all’osservazione
spregiudicata dei fatti storici e naturali sono dunque scienze diseducative o
quanto meno non-educative, se per “educative” s’intendono soltanto le
suggestioni che rafforzano la fede»297. In un lavoro successivo provò a
giustificare la supposta contrarietà all’insegnamento della scienza, con
l’esigenza di difendere il «dogmatismo» in funzione dell’ostruzionismo al
progresso sociale e civile298. 296 G. Allievo, L’uomo e la natura, cit., pp.
12-13. 297 D. Bertoni Jovine, Storia della scuola popolare in Italia, Torino,
Einaudi, 1954, p. 387. 298 «Ad ogni modo, pur attraverso una prosa gonfia e
nello stesso tempo reticente, è opportuno districare il filo delle
argomentazioni del pedagogista torinese. Il punto sostanziale della sua
polemica è la critica del valore educativo della scienza. La scuola moderna si
fa un feticcio della scienza sottovalutando altri elementi formativi dello
spirito umano. Ma di quale scienza parla Allievo? Lo chiarirà in una nota
inviata alla Reale Accademia di Scienze di Torino. Si tratta soprattutto si
quel complesso di problemi e di studi che si raggruppa sotto il nome di
“sociologia” e che interessa tutti i problemi della vita moderna, compresi
quelli educativi. Egli non avrebbe probabilmente trovato tanto rivoluzionarie
le teorie del positivismo, dello scientificismo, dello storicismo, se tutte
insieme queste nuove teorie non avessero giusitificata l’esigenza di dare un
nuovo sviluppo e un nuovo orientamento alla scuola; se in altri settori della
vita pubblica quell’esigenza non si fosse collegata con necessità fatte
sull’analfabetismo non avessero messo l’accento sull’influsso che una struttura
economica arretrata aveva sulla scarsa efficienza della scuola. In questo
legame l’Allievo trova il punto più pericoloso delle nuove dottrine pedagogiche
che segnavano il tramonto di quello spiritualismo al quale egli si richiamava
con nostalgia. Ad esse attribuisce il fallimento scolastico italiano,
richiamando gli educatori ad una maggiore prudenza nell’accettare quel metodo
positivistico che 82 Nel testo Studi Psico fisiologici (1896)
riprese diverse scoperte fatte in ambito sperimentale e ne valorizzò i meriti e
la valenza pedagogica. In più d’una occasione dovette difenderne l’importanza
per la pedagogia da quanti, come gli idealisti, ne contestavano il senso e
l’utilità299. Tale avvicinamento alla psicologia sperimentale gli costò la
critica dell’idealista Santamaria Formiggini che avversando l’ilemorifismo
dell’Allievo vide nell’apertura alla psicologia sperimentale un tradimento della
realtà spirituale:300 D’altra parte pare chiaramente inesatto il giudizio di
Vidari che fa dell’Allievo un osteggiatore della psicologia, sostenendo che il
principio della personalità è «anti-sperimentalista» e «anti – sociologico»301.
Invece l’armonia tra il materiale e lo spirituale, il loro “accordo”, era
proprio ciò a cui Allievo puntava. Le due discipline, psicologia e fisiologia,
non dovevano essere confuse ma ben distinte nel comune studio sull’uomo. Scrive
a proposito: «La psicologia si trova in intimo contatto colla fisiologia, ma
ciascuna di queste due scienze va distinta dall’altra, perché la prima ha per
oggetto suo proprio la mente co’ suoi fenomeni psichici, la seconda l’organismo
corporeo colle sue funzioni vitali; e tuttavia sono unite insieme da quel
medesimo vincolo, che congiunge nell’uomo l’anima razionale ed il corpo
organico, e così unite costituiscono l’antropologia»302. A causa di ciò Allievo
non può essere considerato come un nemico della psicologia sperimentale, ma
contro quella che esclude la «natura personale» nell’uomo. La critica del
positivismo e del materialismo è connessa a quella sull’evoluzionismo. Allievo
fa notare come il darwinismo non sia una necessaria conseguenza del
positivismo, ciò è confermato dal fatto che non fosse condivisa da autori come
Auguste Comte o Stuart Mill. Nella Nuova scuola pedagogica (1905) Allievo
osserva: «La nuova scuola pedagogica annovera nel suo seno alcuni seguaci
dell’evoluzionismo darviniano, i quali accusano la distruggerà il metodo dogmatico
[in nota: G. Allievo, L’indirizzo storico e sociologico della pedagogia
contemporanea, Torino, 1908]. Tutte le scienze che si valgono di questo metodo
e che inducono il fanciullo all’osservazione spregiudicata dei fatti storici e
naturali sono dunque scienze diseducative o quanto meno non-educative, se per
“educative” s’intendono soltanto le suggestioni che rafforzano la fede» D.
Bertoni Jovine, Storia dell’educazione popolare in Italia, Bari, Laterza, 1965,
pp. 221-223. 299 G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della
filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, cit., p. 14. 300 «Forse
l’Allievo si lasciò trascinare nella sua vita dal desiderio di porre la sua
psicologia in maggiore armonia con le teorie scientifiche sull’emozione che
allora si diffondevano in seguito all’indirizzo di studi del Wundt; volle
dimostrare la possibilità di coordinare il suo sistema coi risultati della
scienza più moderna; ma naturalmente non poté riuscire bene nel suo intento,
perché l’eclettismo è il più difficile di tutti i sistemi» E. Santamaria
Formiggini, La pedagogia italiana nella seconda metà del secolo XIX, parte I,
gli spiritualisti, Roma, A. F. Formiggini, 1920, p. 281. 301 Vidari sostiene
che l’Allievo è contrario alla «psicologia fenomenistica, che è per la
Pedagogia rovinosa, negando essa il principio fondamentale della sostanzialità
e unità della Persona» G. Vidari, Giuseppe Allievo, cit., pp. 8-9. 302 G.
Allievo, Appunti di Antropologia e Psicologia, cit., p. 26. 83 vecchia
pedagogia di posare sopra una psicologia astratta e dualistica, per cui mancava
di salde basi scientifiche, adoprava un metodo puramente soggettivo ed astratto
e toglieva di mezzo ogni raffronto tra i fenomeni psichici dell’uomo e quelli
degli animali. Tutte queste accuse presuppongono che l’evoluzionismo, a cui si
appoggiano, sia una verità scientifica rigorosamente dimostrata, ma cadono
l’una dopo l’altra, dacché il Darwinismo è una mera ipotesi sostenuta da pochi
pensatori, che lo scambiano per un teorema scientifico dimostrato. Anche
riguardato come una pura ipotesi bisognevole di conferma, l’evoluzionismo è ben
lontano dallo adempiere i difetti ingiustamente attribuiti alla pedagogia
filosofica e rinnovare di sana pianta la scienza educativa nelle sue basi, nel
suo metodo, nelle sue attinenze sociali»303. In tale testo conferma una
considerazione fatta già nel 1874: «L’alterazione della specie sostenuta da
Darwin è una mera ipotesi, che va ogni di più perdendo valore e seguaci»304. Di
certo la previsione è risultata sbagliata. Tuttavia, il fatto che Allievo
considerasse la teoria dell’evoluzionismo come una probabilità appare
giustificabile sulla base delle conoscenze scientifiche e delle prove addotte
dal darwinismo alla fine dell’Ottocento. Va peraltro tenuto conto che la
critica dell’Allievo fu abbastanza superficiale e incentrata su questioni
filosofiche più che scientifiche (non ne aveva gli strumenti). L’idea che il
pedagogista vercellese difendeva era comunque la stessa, l’irriducibilità
dell’uomo alla natura. Nel testo L’uomo e la natura (1906) si interroga:
«possiamo noi ammettere che la specie umana abbia avuto origine dalla materia
universale diffusa nello spazio per via di una lenta e progressiva
trasformazione degli organismi viventi? Lo asseriscono i seguaci dell’evoluzionismo
materialistico, ma non lo hanno mai dimostrato seriamente né punto, né poco; né
dimostrare lo possono perché nemo dat, quod non habet, e la materia bruta
primitiva non racchiudeva certamente in sé il germe di quella sublime
razionalità, che è il carattere costitutivo della specie umana. Carlo Vogt
nelle sue Lezioni sull’uomo si sbraccia a dimostrare, che le diverse razze
umane originarono dalle differenti famiglie di scimmie, ma ristrinse tutto il
suo esame alla morfologia del cranio umano raffrontato con quello scimmiesco, e
non disse verbo delle facoltà mentali proprie dell’umanità: che veramente
avrebbe avuto un disperato partito per le mani, se avesse preteso che la
mentalità dell’uomo è sbocciata dalla brutalità della scimmia»305 Stando
all’Allievo il positivismo non è perdente solo sul piano teoretico. È la vita a
condannare questo sistema. Nell’introduzione degli Studi Pedagogici, Allievo
riprende il 303 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, cit., p. 12. 304 G. Allievo, Della vecchia e della nuova
antropologia di fronte alla società, cit., p. 10. 305 G. Allievo, L’uomo e la
natura, cit., p. 10. 84 romanzo di Dickens, Duri tempi per questi
tempi, e cita diversi brani al fine di mostrare la confusione a cui porta il
positivismo nella vita reale, infatti è inevitabile che venga svilito il
compito dell’educatore, svalutata l’immaginazione, sminuito il sentimento e
l’amore. Il positivismo soffoca l’esistenza. Anche se Allievo ricorda che «il
cuore è tal forza che più di ogni altra della natura scoppia irresistibile
quanto più lungamente e violentemente repressa»306, il positivismo conduce
inevitabilmente alla «ruina e lo sfacelo della vita domestica e sociale»307.
Allievo contesta anche le posizioni positivistiche sulla scuola. Critica Comte
che impone alle prime classi un quadro orario composto quasi esclusivamente con
materie matematico scientifiche, sminuendo quelle umanistiche. Nonostante le
critiche Allievo riconosce alla nuova pedagogia anche dei meriti308. Uno degli
apporti importanti del positivismo è stato quello di riavvicinare la scienza
pedagogica all’analisi e all’osservazione degli aspetti empirici
dell’educazione.309 Comunque se Allievo dopo gli anni ’70 risultava preoccupato
per l’avanzata del positivismo, alla fine della sua carriera ebbe occasione di
esultare per la sua decadenza. Nel 1909 Allievo poteva scrivere che «Il
positivismo pedagogico attraversa una grandissima crisi e va via via
smarrendosi in mezzo a diversi e contrari indirizzi. La mancanza assoluta di
critica, la cieca fidanza si sé, il dogmatismo sostituito al ragionamento ed
alla discussione, la noncuranza delle dottrine contrarie, il disprezzo della
tradizione, tolgono a questo sistema ogni efficacia scientifica e segnano il
suo decadimento»310. 306 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 8-9. 307
Ibid., p. 12. 308 «Nessuno mai, che abbia fior di senno, rigetterà siccome
sciupato, fallito e contrario al vero tutto il lavoro della nuova scuola
pedagogica. Anch’essa ha le sue parti buone e commendevoli accanto alle malsane
e morbose; ha messo in bella luce alcuni punti, che non erano stati
sufficientemente lumeggiati; ha posto in rilievo alcuni fatti educativi
mediante un’analisi sottile ed accurata; ha dato un nuovo impulso all’educazione
fisica ed alla coltura del pensiero; ma il principio fondamentale, su cui essa
posa, è radicalmente sbagliato; epperò tutte le verità, che essa contiene nella
sua dottrina, non le può logicamente ammettere, se non a condizione di
rigettare il suo principio supremo, mentre la pedagogia filosofica le può
accogliere tutte quante, perché rientrano nel principio che le è proprio» G.
Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 9. 309
«Il positivismo (sarebbe ingiustizia il disconoscerlo) ha recato non poco
giovamento agli studi antropologici coll’averli ritirati dalla via
dell’incompiuto ed esclusivo metodo trascendentale dell’antica scuola e
condotti su quella dell’osservazione e della storia; ma è solenne errore quel
suo fermarsi alla nuda osservazione dei fatti e delle loro leggi senza punto
assorgere allo studio delle origini, della natura e della destinazione
dell’uomo che è causa efficiente e ragione spiegativa di quei medesimi
fatti.”309 Osserva ancora: “Certamente dimostrerebbe ingiusto verso la nuova
scuola chi le negasse il merito di avere efficacemente contribuito
all’incremento della scienza pedagogica; ma dall’altro lato è giuoco – forza
riconoscere, che nel corso delle sue indagini ha passato sotto silenzio
argomenti e problemi pedagogici di altissimo rilievo» Ibid., p. 27. 310
G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 6. 85 Concludendo, si può
rilevare come Allievo abbia scovato nelle critiche al positivismo e
all’idealismo un errore comune. Entrambe mancano infatti di realismo, e
riducono sia il campo dello scibile che quello dell’esistente311. I. 7. Il
contributo alla storia della pedagogia Gli studi di storia della pedagogia
costituiscono una parte cospicua nella produzione di Allievo, che nella sua
lunga carriera si è occupato di diversi periodi, che vanno dalla pedagogia
antica greca e romana, all’itinerario della riflessione europea tra il XVIII e
il XIX secolo, alla storia dello spiritualismo italiano. L’importanza data agli
studi storici è inoltre confermata dal fatto che i testi in cui Allievo espone
il “suo” sistema pedagogico e filosofico sono lavori di storia della pedagogia,
vale a dire i Saggi filosofici, gli Opuscoli e Il problema metafisico. Tra le
opere più importanti vi è il già citato Del positivismo in sé e nell’ordine
pedagogico (1883), che non si limita ad una critica sui contenuti ma riprende
con precisione lo sviluppo delle teorie pedagogiche di Comte, Spencer, Bain.
Sulla stessa corrente, è particolarmente significativo il testo La psicologia
di Herbert Spencer: studio espositivo-critico (1898). Al contributo della
pedagogia svizzera dedica il libro: Delle dottrine pedagogiche di E.
Pestalozzi, A. Necker de Saussure, F. Naville e G. Girard (1884). Un altro
testo importante è Delle idee pedagogiche presso i Greci (1887). Nel 1901
pubblicò La pedagogia italiana antica e contemporanea in cui in un capitolo è
riportato un testo pubblicato quaranta anni prima: Della pedagogia in Italia
dal 1846 al 1866 (1867). Negli Opuscoli pedagogici (1909) presenta saggi su
l’Helvetius, Gerdil, Jacotot, Kant, Herbart, Blackie ed altri. Importante anche
lo studio sul fondatore della pedagogia moderna, G. G. Rousseau filosofo e
pedagogista (1910) e l’ultima opera che rappresenta il testamento pedagogico
dell’Allievo: Giobbe e Schopenhauer (1912). Un altro importante contributo fu
la traduzione e l’introduzione della Levana di Richter, e lo studio su Maine de
Biran e la sua dottrina antropologica (1895). 311 Sui punti in comune delle due
teorie scrive: «Queste due specie di umanismo filosofico hanno due punti comuni
in cui convengono, ai quali corrispondono due punti di discrepanza, in cui esse
differiscono. Anzi tutto entrambe concordano nel proclamare l'autonomia
illimitata del pensiero umano, che nulla più riconosce oltre di sè: da ciò poi
che l'attività del pensiero si spiega e come ragione avente per oggetto il
mondo soprasensibile, immutabile ed assoluto delle essenze, e come esperienza
la quale coglie il mondo sensibile, mutabile e relativo de' fenomeni, ne viene
una ragion soggettiva per cui l'umanismo filosofico si specifica in
razionalismo assoluto ed in empirismo universale. Ancora, esse convengono nel
proclamare il moto indefinito delle cose e delle idee, mercè il quale l’uomo,
disertando il posto segnatogli dalla propria natura, o si faccia identico con
Dio, che gli sovrasta, trasumanando, o si confonda colla materia che gli
soggiace. disumanandosi; e di qui una ragione oggettiva, per cui l'umanismo
differenziasi in antropoteismo ed in naturalismo» G. Allievo, L’Hegelismo e la
scienza, la vita, cit., pp. 9-10. 86 Uno dei periodi più studiati
dall’Allievo fu la pedagogia del XIX secolo. Nel testo Delle dottrine
pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco
Naville e Gregorio Girard, (1884), innalza la scuola svizzera come un momento
importante per l’intera scienza e storia della pedagogia, una scuola che seppe
integrare le spinte della modernità con una prospettiva antropologica
spiritualista. Un altro testo molto significativo è il già citato Della
pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867). Questo saggio ripercorre con
precisione lo sviluppo della cultura pedagogica e della legislazione scolastica
in Piemonte e in Italia, in un decennio decisivo per la costruzione della
scuola italiana. Commentando questo saggio Gerini ha scritto: «La monografia,
composta per incarico del Ministro della P.I., è il primo saggio di storia
pedagogica scritto in Italia, che sarà sempre consultato da quanti vorranno
conoscere il nostro risorgimento educativo»312. Dello stesso avviso anche
Arcomano, che commenta: «È una rassegna delle situazioni, delle attività e
delle opere del ventennio 1846-1866, in fatto di istruzione ed educazione, e si
può considerare un capolavoro di chiarezza nella interpretazione degli avvenimenti
e nella presentazione delle idee che circolavano»313, anche se poi rileva come
il testo è forse troppo concentrato sulla realtà subalpina. Il testo ebbe vasta
eco nel dibattito pedagogico, lo troviamo spesso citato in opere di altri
autori314, abbastanza rare sono le critiche315. In questo saggio Allievo esalta
i protagonisti di quella stagione come Vincenzo Troya, Agostino Fecia, Vincenza
Garelli, Carlo Boncompagni. Riprende poi tutte le discussioni sulla riforma
della scuola, e trova nell’esperienza pedagogica del Piemonte e della Toscana
nella metà dell’Ottocento i due laboratori della nuova scuola e della nuova
pedagogia. È molto significativo il peso dato dall’Allievo alla «Società
pedagogica» e anche alle riviste del tempo. Questo testo, contribuì a
dimostrare come fosse solo un mito l’idea propagandata dai positivisti secondo
la quale la pedagogia precedente alla loro non avesse avuto nulla da dire.
Allievo fa risaltare la pedagogia spiritualista risorgimentale e quel clima di
liberalismo educativo che sarà tradito e defraudato dalla statolatria e dal
positivismo. 312 G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit., p. 44.
313 A. Arcomano, Pedagogia, istruzione ed educazione in Italia (1860-1873),
cit., p. 56. 314 Cfr. C. Uttini, Nuovo compendio di pedagogia e didattica : ad
uso delle scuole e delle famiglie, Torino, Libreria scolastica di
Grato-Scioldo, 1884, p. XIV. 315 Si vedano per esempio gli appunti negativi di
Vidari: «Abbastanza buono per la parte della pedagogia contemporanea è il Saggio
dell’Allievo, il quale porta in esso il contributo delle sue proprie memorie e
impressioni; ma anche qui il senso della vita storica, cioè della interiore
unità onde si collegano nel loro svolgimento le dottrine, è quasi del tutto
assente, e invece prevalgono le preoccupazioni personali dell’autore» G.
Vidari, Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico, cit., p.
4. 87 Senza dubbio lo studioso può essere considerato uno tra i
primi storici della pedagogia italiana, e non solo per il numero dei lavori
pubblicati, ma anche per la teorizzazione dell’ambito disciplinare e delle
metodologie di ricerca. Allievo espone il suo pensiero circa il fine e il
metodo della Storia della pedagogia nel breve opuscolo Concetto generale della
storia e della pedagogia (1901), anche se accenna a tale questione in diversi
altri saggi. Nel lavoro citato, parte dalla considerazione dell’educazione come
fatto e concetto comune. La pratica e la teorizzazione educativa sono
imprescindibili, e la scienza pedagogica si sviluppò sotto la spinta di voler
vedere perfezionata l’arte educativa. In questo senso continua: «La necessità
di una scienza pedagogica emerge dal difetto inerente all’inconscia educazione
naturale, e quindi dall’insufficienza del suo concetto»316. Egli rivendica uno
statuto epistemologico propria alla storia della pedagogia, che distingue tanto
dalla pedagogia in sé, che dalla storia dell’educazione. In questa direzione
critica Paroz che nella Histoire universelle de la Pédagogie non separa le due
discipline317. Allievo distingue anche la storia dell’educazione in generale,
vale a dire i tratti tipici dell’educazione e la sua storia universale, dalla
storia dell’educazione di una particolare tradizione o società318. Nei suoi
studi richiama l’importanza della precisione storiografica ed uno studio
approfondito delle fonti. In particolare rimarca come la storia dell’educazione
debba essere: ordinata, veridica, ragionata, compiuta. Chiede di riferirsi
sempre a «fonti accurate e sicure»319. Uno degli aspetti innovativi dei lavori
dell’Allievo è il peso dato allo studio del contesto e della personalità
dell’autore320. 316 G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia,
cit., p. 1. 317 «La storia dell’educazione ha per ufficio suo proprio di esporre
le diverse forme, che prese l’educazione presso i diversi popoli antichi e
moderni; per contro la storia della pedagogia espone le origini e lo sviluppo
di questa scienza attraverso le dottrine, i sistemi, le teorie de’ pensatori,
che la coltivarono. [...] Per certo queste due specie di storie sono fra di
loro congiunte da intime attinenze e si lumeggiano a vicenda, ma la loro
distinzione va tenuta in conto per non confondere due ordini di cose affatto
diversi, quali sono le idee pedagogiche de’ pensatori e le azioni educative
degli istitutori» Ibid., p. 3. 318 «La storia dell’educazione, riguardata
rispetto alla sua estensione, viene a diversi in universale, particolare e
singolare. La storia universale si estende all’educazione di tutti i tempi dai
più remoti ai contemporanei, di tutti i popoli e barbari e civili, e antichi e
moderni. La particolare comprende un periodo storico generale, quale sarebbe la
storia dell’educazione antica, o parte di un periodo storico, come ad esempio
la storia dell’educazione dal 1500 a noi. In entrambi i casi abbraccia
l’educazione presso tutti i popoli ristretti però ad un tempo determinato. È
altresì particolare quella, che espone l’educazione di una nazione considerata
o in tutta la durata della sua esistenza (quale l’educazione presso i romani) o
in uno de’ suoi periodi storici (quale l’educazione dei romani nel periodo
repubblicano). Infine è singolare, se si restringe o ad un dato secolo (come la
storia dell’educazione ai tempi della rivoluzione francese), o ad un Istituto
educativo, quale l’Istituto pitagorico o l’Istituto educativo di Vittorino da
Feltre; ed allora piglia più propriamente nome di monografia storica» Ibid., p.
3-4; 319 Ibid., p. 4. 320 Già in uno dei primi saggi esponeva con chiarezza
tale principio: «La critica ha da descrivere la genealogia del genio
speculativo; ha da seguirlo in tutto il suo periodo evolutivo ricordando i
sentieri e le vie riposte per cui è passato prima di giungere al suo ideale
definitivo; ha da studiare il movimento speculativo dell'epoca in mezzo al
quale si svolse; ha da sceverare nelle pagine della storia le idee di cui ha
elementato il proprio sistema e significare come queste nel proprio sistema
s'intrecciarono e vi ricevettero un'impronta peculiare e sistematica. Tale è
l'ufficio narrativo della critica. Oltre a tutto questo, apprezzare nel suo
giusto 88 Come la storia dell’educazione, anche la storia della
pedagogia si può dividere in generale e particolare. Il suo fine non si limita
ad una narrazione asettica della riflessione educativa, ma trova il suo senso
nella valutazione delle teorie pedagogiche rispetto all’autentica scienza
pedagogica. Scrive Allievo: «Da queste generali considerazioni intorno al come
si forma e si va svolgendo la pedagogia emerge da sé il concetto della sua
storia, la quale apparisce una ordinata e razionale narrazione dello
svolgimento progressivo della scienza pedagogica attraverso i tentativi fatti
dai pensatori di tutti i tempi e luoghi a fine di determinare l’ideale tipico
dell’umana scienza»321. In particolare, sono significativi alcuni brani
presenti negli Studi pedagogici (1889)322 e ne La nuova scuola pedagogica ed i
suoi pronunciamenti (1905)323, in cui mostra come lo scopo dell’approfondimento
storico è strettamente connesso al fine della scienza pedagogica. L’Allievo
sostiene che l’educazione possa essere studiata o nel suo svolgimento pratico o
da un punto di vista speculativo. La pratica educativa può essere di tre tipi:
quella che normalmente le persone attuano, quella di una determinata società, e
la vera arte di educare. Come l’educazione, anche la teoria pedagogica sembra
connaturale alla vita umana. Per tale motivo in ogni epoca l’uomo si è fatto
un’idea circa il miglior modo di educare. Così, secondo Allievo, esistono tre
tipi di teorie pedagogiche: la pedagogia volgare, quella del singolo pensatore,
e la scienza pedagogica. Il compito della storia della pedagogia quello di
individuare il differenziale tra quanto pensato in passato e la scienza
pedagogica. La storia ha così un valore fondamentale della riflessione
pedagogica, poiché propone agli studiosi interlocutori di vaglia, anche sé
Allievo ricorda di distinguere la scienza dalla storia324. Il seguente brano
ben lumeggia la distanza tra ciò che si è pensato e la scienza: «Fu detto che
la storia universale è tutta una congiura contro la verità: nell’ipotesi che
stiamo valore il punto iniziale da cui un sistema piglia le mosse, il processo
a cui s'informa il suo sviluppamento, il termine finale in cui si è chiuso;
pronunziare se nella storia del pensiero speculativo esso segni un periodo di
sosta o di progresso; giudicare se il problema filosofico sia stato concepito
in tutta la sua integrità e giustezza, e risoluto a dovere; epperò se siano
state convenientemente satisfatte le esigenze del pensiero spéculativo senza
punto disconoscere i pronunziati universali della sapienza comune, anzi
armonizzandoli colle conclusioni della ragion filosofica : ecco l'altro ufficio
della critica che discute» G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit.,
p. 18. 321 G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia, cit., p.
6. 322 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 28-31. 323 G. Allievo, Delle
dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure,
Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 7. 324 «I cultori della pedagogia
trovano nella storia una saggia maestra, che additando gli errori dei pensatori
che li precedettero, da un lato, e dall’altro le verità da essi scoperte e
lumeggiate, li consiglia a procedere ammisurati e guardinghi nei loro
tentativi, li anima e li sorregge all’amore ed alla conquista del vero, ed
allarga l’orizzonte del loro pensiero. Riconoscendo l’utilità e l’importanza
della storia della pedagogia, guardiamoci però dall’ingrandirla oltre il
convenevole.» G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia, cit.,
p. 8. 89 discutendo, bisognerebbe ripetere, che anch’essa la storia
della pedagogia è tutta una congiura contro la scienza pedagogica»325. Nel
stesso saggio critica il Siciliani e il suo testo Storia critica delle teorie
pedagogiche nel quale sostiene che la scienza pedagogica si fonda sulla
esperienza storica dell’educazione326. Se per Siciliani la scienza pedagogica è
frutto di evoluzione, per lo spiritualista Allievo la «vera» scienza pedagogica
è una, e ad essa ci si può avvicinare o allontanare. Entra poi in merito a come
si fa la storia della pedagogia. Spesso si è costretti a raccogliere le «idee
slegate e frammentate» in opere non propriamente pedagogiche, scovando le «teorie
particolari intorno a qualche punto di educazione, o sia che esse formino un
tutto da sé distinto da ogni altro, o sia che giacciano implicata ed involte in
opere di altra natura», ma anche «i trattati che abbracciano un compiuto
sistema pedagogico, dove l’educazione è contemplata in tutta l’integrità del
suo organismo, quali ce ne porge in copia moderna». Bisogna quindi studiare le
opere dell’autore, i frammenti della sua opera presente in altri autori, la
tradizione su di lui. «Gli scritti originali di un pedagogista sono essi soli
le vere fonti, da cui si attinge limpida e netta la sua dottrina, mentre i
frammenti registrati nelle opere di altri scrittori, e la tradizione scritta od
orale, anziché fonti, sono rivi più o meno puri». Dai suoi scritti occorre
innanzitutto cogliere in concetto centrale di un autore, cercandone poi le
cause. Occorre comunque valutare la pedagogia degli autori studiati: «Ma il
compito più elevato, più grave e ad un tempo più arduo della critica storica
risiede nel cernere nelle esposte dottrine la parte vera dalla erronea, la
certa dall’incerta ed opinabile, l’elemento soggettivo, particolare, relativo,
dall’oggettivo, universale, assoluto, che solo può passare nel dominio della
scienza pedagogica»327. Lo storico dovrà stare attento ad ancorarsi sempre alla
scienza pedagogica328. In conclusione sintetizza così il compito dello storico
della pedagogia: «Ai quattro uffici propri della storia pedagogica ora
accennati fanno natural corrispondenza quattro distinte e successive forme
speciali, che essa può rivestire nel suo progressivo sviluppo. La storia della
pedagogia rintraccia primamente i materiali, che entrano a comporla, ed in
questo suo primo studio riveste la forma di memorie e frammenti. Poi si accinge
ad esporre e descrivere le raccolte dottrine, e qui assume la forma di cronaca,
alla quale succede la forma di storia propriamente detta, 325 Ibid., p. 9. 326
Ibid., p. 10. 327 Ibid., p. 15. 328 «Lo storico deve scansare due estremi; da
un lato la troppa fidanza di sé ed il cieco immobilismo nelle proprie idee,
dall’altro l’incostanza e la volubilità del pensiero, a cui potrebbe essere
trascinato dallo spettacolo di tanti sistemi diversi e contrari» Ibid., p.
16. 90 che corrisponde all’ufficio etiologico od inquisitivo, finché
s’innalza alla sua più perfetta forma, quale è la filosofia della storia, che
risponde all’ufficio critico e speculativo»329. Il senso della Storia della
pedagogia ha appunto lo scopo di rilevare il differenziale presente sia tra i
modi che le popolazioni che ci hanno preceduto avevano di educare in confronto
con la vera arte di educare, sia il confronto tra le varie teorie pedagogiche e
la vera scienza pedagogica. Osserva Allievo: «Quindi ancora ne consegue, che
introno al medesimo oggetto conoscibile (ad esempio intorno l’essenza
dell’educazione, od al suo fine, od alle sue leggi) possono darsi e si danno di
fatto molte teoriche, e quel che è più le une dalle altri discordi ed avverse,
mentre una sola è la scienza e sempre a se stessa concorde, perché una sola è
la verità, in quella guisa che nell’ordine geometrico tra due punti dati non
può correre che una sola linea retta, mentre di linee curve se ne possono
condur chi sa quante». Il senso della Storia della pedagogia è analizzare i
sistemi pedagogici confrontandoli con la vera scienza pedagogica. Dunque: «La
storia de’ sistemi pedagogici è sostanzialmente la storia de’ tentativi felici
od infelici, retti o traviati, fatti dai cultori dell’arte educativa per
giungere al Vero siccome fondamento di essa; per lo contrario la storia della
scienza pedagogica è la storia della Verità educativa riguardata nel suo
progressivo esplicamento»330. Sulla base di questa prospettiva, i numerosi
studi di storia della pedagogia di Allievo, sono un dialogo rispetto a determinati
principi pedagogici con gli autori trattati, più che un’esposizione oggettiva
del loro pensiero. Lo studio della storia della pedagogia secondo Allievo può
condurre a una migliore comprensione dell’educazione e a quei tratti unici e
particolari che la caratterizzano. Per tale ragione nelle sue ricerche spesso
trova degli spunti per confermare alcune delle sue tesi o muove critiche agli
altri sistemi pedagogici, in primis ai già citati positivisti. I testi sono
dunque ripetutamente accompagnati da valutazioni personali, commenti, paragoni,
e non pochi giudizi sferzanti. Ha scritto puntualmente Vidari «Si comprende da
tutto questo come l’Allievo nei suoi studii di storia delle dottrine
antropologiche e pedagogiche fosse guidato e mosso più che dal proposito di
comprenderle nel loro processo di formazione, di inquadrarle nel momento
storico a cui appartennero, di seguirle nei loro sviluppi, nelle loro
irradiazioni e conseguenze, da quello piuttosto di saggiarle e 329 Ibid., p.
16. 330 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina
Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 6.
91 giudicarle in rapporto a quei principi fondamentali di scienza
dell’educazione, che egli andò illustrando in tutto il resto della sua
produzione filosofica»331. Dalle posizioni prese di fronte al «laboratorio
della storia della pedagogia» si precisa ancora meglio il sistema pedagogico di
Allievo. Forse anche per questo la lettura di questi testi aiuta a cogliere il
cuore e le preoccupazioni pedagogiche dell’Allievo. Il tema principale su cui
Allievo si confronta è per la maggior parte legato a prospettive antropologiche
e alle loro conseguenze in campo educativo e scolastico. Giustamente Valdarnini
osserva: «qual criterio adotta l’Allievo per giudicare della verità o della
falsità delle dottrine di cui è intessuta la storia della Pedagogia? Questo: il
sentimento e il concetto della dignità propria della specie umana»332. Da
Seneca a Rousseau ciò che l’Allievo valuta è quale l’idea di uomo essi
comunicano e difendono. Ma tale prospettiva ha secondo alcuni studiosi portato
a esiti negativi. La Quarello, ad esempio, critica il fatto che certi giudizi
storici siano «troppo soggettivi»333 e fa notare che alcune valutazioni
dell’Allievo partono «talora da “presupposti dommatici” più che da
dimostrazioni convincenti»334. Tra le altre, critica la scarsa considerazione
data al Kant della Critica della ragion pratica. Di un’idea contraria è Vidari
quando osserva che «alcune delle osservazioni critiche che l’Allievo muove alla
dottrina morale di Kant, per quanto non nuove, sono giuste e fondate»335. Come
già accennato, sempre stando alla Quarello, Allievo non avrebbe colto il
contenuto della filosofia di Hegel, riducendo la portata dello Spirito e
dell’Assoluto hegeliano336. Tra gli altri, il principio della libertà
d’insegnamento è uno dei criteri con cui valuta le teorie pedagogiche. Nel
testo Delle idee pedagogiche presso i greci la questione della libertà
d’insegnamento decide della divisione degli autori. Allievo affronta prima
Pitagora e Socrate, che sono considerati i difensori di un’educazione libera, e
poi Senofonte, Platone e Aristotele, che considera difensori di una visione
spartana e statolatrica dell’educazione. Affrontando tali autori esprime la sua
idea di educazione e di libertà. Scrive: «Plutarco non separa la famiglia dallo
Stato, né la confonde con esso. Per lui la famiglia non è solo un grado della
gerarchia dello Stato, ma un centro, che ha uno sviluppo suo proprio. 331 G. Vidari,
Il contributo di G. Allievo alla Storia della Pedagogia, «Rivista Pedagogica»,
n. 10, 1930, p. 689. 332 A. Valdarnini, Giuseppe Allievo storico della
pedagogia, in Vita e mente di Giuseppe Allievo, cit., 1913, p. 56. 333 V.
Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., p. 124. 334 Ibid., p. 124. 335 G.
Vidari, Il contributo di G. Allievo alla Storia della Pedagogia, cit., p. 692.
336 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., pp. 128-129. 92
L’educazione, senza punto dimenticare di preparare il fanciullo a divenire buon
cittadino, ha sovra tutto per compito suo di formare in lui l’uomo mercè il
culto della famiglia»337. Sugli «avversari» della libertà scrive invece:
«Platone aveva confuso la famiglia collo Stato fino ad introdurre il Governo
nei penetrali del santuario domestico, e colla famiglia anch’esso l’individuo
veniva assorbito nella comanza politica. Aristotele giunse a distinguere la
famiglia dallo Stato, ma il suo pensiero su questo grave argomento mostrasi
perplesso ed oscuro, tant’è che l’uomo in sua sentenza non è tale, perché
persona individua, perché padre o marito, o figlio, ma perché cittadino»338. Un
altro brano su Platone mostra la pertinenza tra il concetto di persona e quello
della libertà d’insegnamento, e come la perdita del primo faccia
necessariamente scivolare nello statalismo: «Il massimo e capitale errore, che
falsa la politica e conseguentemente la pedagogia di Platone e scorre e
s’inviscera in tutte le parti della sua teoria, questo è di avere sacrificato
l’attività personale dell’individuo all’onnipotenza dello Stato, di avere
assorbito l’uomo nel cittadino. La dottrina politica di Platone è un esplicito
socialismo governativo: l’individuo esiste e vive in servigio esclusivo dello
Stato, è niente più che una molla, un ordigno del gran meccanismo sociale,
giacché nell’assoluta ed oppressiva unità della comunanza politica si perde
ogni libertà personale. Epperò l’educazione riesce essenzialmente ed
onninamente politica, mentre dovrebb’essere primamente e sostanzialmente personale:
l’umana persona, spogliata della sua dignità finale, viene educata come
semplice mezzo e strumento della civil società»339 . Concludendo la parentesi
greca scrive: «Lo Stato adunque non prevale sull’individuo, bensì gli sottostà
come effetto della sua cagione; e quando Aristotele a sostenere la supremazia
naturale dello Stato sulla famiglia e sui singoli uomini osserva, che il tutto
trionfa sulla parte, perché distrutto quello, anche questa vien meno, possiamo
ritorcere il suo argomento contro di lui avvertendo che la parte congregandosi
con altre parti, forma essa il tutto, e se quella scompare, anche questo ruina.
In una parola non l’individuo è fatto per lo Stato, bensì lo Stato è fatto per
tutti e per ciascuno, epperò l’educazione debb’essere umana e personale, prima
che politica e civile»340 In alcuni punti le valutazioni dell’Allievo sono
decisamente esagerate. Nel testo su Giobbe e Schopenauer apre una parentesi
molto sommaria contro il popolo ebraico341, rasentando il razzismo. In altre
occasioni il suo giudizio è palesemente sproporzionato. 337 G. Allievo, Delle
idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 163. 338 Ibid., p. 162. 339 Ibid.,
pp. 131-132. 340 Ibid., p. 148. 341 G. Allievo, Giobbe e Schopenhauer, cit.,
pp. 36-37. 93 Come quando nell’introduzione al lavoro su Delle idee
pedagogiche presso i greci (1887) osserva «Pitagora e Socrate ci appariscono
gloriosi campioni di una pedagogica, che si muove libera di sé, franca da ogni
ressura governativa, sorretta da un ideale divino, che consacra la persona,
santifica il dovere, suggella l’immortalità della vita personale. Platone ed
Aristotele ci si mostrano fautori dello Stato educatore, che disconoscendo ne’
singoli uomini la dignità della persona individua, trae con sé a perdimento
tutta la Grecia»342. Anche Santamaria Formiggini contesta all’Allievo la scarsa
precisione su taluni lavori, in particolare fa riferimento agli studi su
Rousseau ed Herbart. Inoltre sostiene che l’Allievo non riuscì a «penetrare
oggettivamente nel pensiero degli autori che studia e che critica»343. Però poi
ammette che «Come pedagogista egli lascia a grande distanza gli altri per la
larga informazione storica, che è uno degli elementi essenziali per la
trattazione ponderata ed illuminata delle questioni educative, è condizione per
un vero progresso delle teorie. Egli può considerarsi veramente uno dei primi
pedagogisti che abbiano indirizzato gli studiosi italiani a mettere in
raffronto e in rapporto i loro studi con i risultati del pensiero pedagogico
straniero, perché dai confronti scaturisca più viva e più nuova la verità,
perché si evitino ripetizioni di teorie discusse e superate»344. Oltre ad
imprecisioni, i lavori dell’Allievo risultano approfonditi e curati. Lo studio
su Rousseau criticato dalla Formiggini, è ricco di riferimenti bibliografici ma
soprattutto offre una chiave di lettura molto interessante del pensatore
ginevrino non temendo di evidenziarne i pregi, ma anche le contraddizioni, le
ambiguità e i rischi. Non pensiamo di essere lontani dal vero affermando che
nonostante la sterminata bibliografia sull’autore dell’Emilio, il libro di
Allievo risulta ancora oggi ricco di spunti e di considerazioni. Il merito di
Allievo come storico della pedagogia emerge ulteriormente se paragonato ai
lavori coevi di storia della pedagogia, dai quali si distanzia per riferimento
alle fonti e immedesimazione. Senza dubbio si può affermare che Allievo può
essere considerato uno tra i primi storici della pedagogia italiani. I. 8. La
scuola educativa 342 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit.,
p. II. 343 E. Santamaria Formiggini, La pedagogia italiana nella seconda metà
del secolo XIX, parte I, gli spiritualisti, cit., p. 12. 344 Ibid., pp.
322-323. 94 Nel corso della sua carriera, Allievo diede ampio spazio alla
riflessione sulla scuola, cui attribuiva un ruolo decisivo per il destino delle
nazioni345. Se riferimenti e accenni su questioni scolastiche sono disseminati
in molti dei suoi libri, in un saggio del 1904, La scuola educativa, è presente
una sistematizzazione più articolata e completa delle sue posizioni.
Riflettendo sulla funzione di questo istituto, Allievo racchiude le questioni
più importanti del problema in quattro semplici domande: «1° in servizio di chi
è ordinata la scuola? 2° a chi spetta il diritto di governarla? 3° in quale
giusto rapporto deve serbarsi colla famiglia e colla società? 4° come
debb’essere organata l’educazione e l’istruzione nella scuola?»346. Allievo è
convinto che l’autentico e principale scopo della scuola sia lo sviluppo
perfettivo della persona nella sua totalità. Caratterizzata da una appassionata
ricerca della verità e del bene dell’alunno347, auspicava fosse animata da un
vero «culto della personalità dell’alunno»348. Contro il determinismo di certa
didattica, sosteneva l’idea di una scuola in cui il rispetto della vera libertà
potesse divenire il fine e lo stile della vita educativa349. Su queste
prospettive invocò una convergenza dell’istruzione e dell’educazione, che
dovevano coabitare e collaborare in vista di uno sviluppo integrale della
personale350. La conoscenza e l’educazione, dovevano potenziarsi a vicenda. In
questo senso considerava l’istruzione anche come un aspetto necessario per la
formazione solida del carattere351. 345 «La casa dunque, il tempio, la scuola
sono i tre grandi centri dell’umana coltura, i tre solenni convegni sacri alla
comune educazione. La scuola segnatamente apparisce il santuario del sapere, il
tirocinio della vita sociale, il vivaio della civiltà; epperò essa racchiude
nelle sue modeste pareti le sorti di un popolo e collo splendore o
coll’oscuramento del suo ideale segna i giorni di grandezza o di decadenza di
una nazione. Dall’importanza massima della scuola agevolmente si misura la
necessità di formarcene un concetto adeguato e verace, che risponda al suo
intimo organismo ed al suo ideale» G. Allievo, La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., p. 68. 346 Ibid., p. 69. 347 «La scuola è luogo sacro al culto del Vero e
del Buono, ciò è dire è il santuario della sapienza, essendochè questa
congiunge in sé il lume speculativo della scienza e la pratica onestà della
vita. Oggidì il carattere educativo della scuola è misconosciuto. La scienza ha
cacciato fuor della scuola la virtù e la divinità. Si è consumato un divorzio
tra l’istruzione della mente e l’educazione del cuore. Istruzione in iscuola,
educazione in casa. Si aprono ogni dì nuovi edifizi scolastici per piantarvi
l’albero della scienza, senza badar più che tanto, se all’ombra dell’albero
germogli e si spieghi il fiore delle virtù domestiche, civili e religiose.
Quest’eresia pedagogica va ogni di più propagandosi, e minaccia giorni luttuosi
alla famiglia ed alla patria. La scuola (ripeto col Tommaseo) se non è tempio,
è tana; e quando mai fosse tana, dovrei ripetere col Rousseau: L’uomo che
pensa, è animal depravato. Gli è allora che la scuola diventa davvero un
semenzaio di socialismo, perché i giovani ne escono poi gonfi di borra
enciclopedica, quanto vuoti di ogni principio morale e religioso, e
riversandosi nella gran società diffondono la corruzione, che portano in seno,
pretensioni, sprezzanti, spostati, scontenti di tutti e di tutto, gittando qua
e là il disordine e lo scompiglio» Ibid., p. 78. 348 Ibid., p. 70. 349 «Se
l’alunno non è lui il primo educatore di se medesimo, che spiega la personalità
sua e la afferma spiegandola, gli altri educatori persona la vera loro ragione
di essere, perché non formano più una persona, ma foggiano una macchina» Ibid.,
p. 67. 350 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 65-67. 351 «Lo studio è un
dovere, e dall’idea del dovere sorge appunto il carattere» G. Allievo, La
scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, cit., p. 92. 95 Uno degli errori
maggiori individuati da Allievo era quanto chiamava «enciclopedismo», vale a
dire la riduzione del ruolo della scuola a veicolo di nozioni da sommare nelle
menti degli allievi: «L’enciclopedismo (perché tacerlo?) è il verme roditore
delle nostre scuole, il cancro dell’educazione moderna»352. Allievo auspica che
l’accumulo di conoscenze si coniughi con lo sviluppo di uno spirito libero e
creativo: «L’enciclopedismo violenta, tortura, conquide, le potenze mentali del
giovine: la virtù intellettiva, che concepisce l’ideale, il sentimento, che lo
accalora, l’immaginazione , che lo colorisce, giacciono spossate»353. Il
pedagogista osservò come la scuola somigliasse sempre più «all’aria morta di
una biblioteca»354. Mancava quella spinta ideale che è invece propria
dell’educazione. A questa stortura del compito educativo, concorse un
traviamento del ruolo dell’insegnante: «Pur troppo si è ormai perduta di vista
questa gran verità pedagogica, che il maestro, segnatamente delle scuole elementari
e secondarie, debb’essere non solo l’insegnante, ma ben anco l’educatore de’
suoi alunni, interessandosi delle loro persone, vegliando sulle loro sorti,
vivendo con essi la vita del cuore, come fa un padre, una madre co’ figli
suoi»355. Da queste premesse, era convinto che il “cuore” degli educatori fosse
il ganglio vitale della pratica educativa e al contempo il discriminante della
sua efficacia356. Allievo si sofferma a considerare come l’insegnamento sia
un’azione propria della persona, ed espressione della sua specificità. Si
impara e si insegna con le parole, suoni che uniscono nel significato le
coscienze e le conoscenze dell’educatore e dell’educando. Poter capire
costituisce la superiorità dell’uomo sulle cose357. In questo senso, Allievo sottolinea
come: «Lo sviluppo dell’intelligenza è intimamente connesso colla parola, la
quale è un segno sensibile esteriore, che esprime un’idea»358. La parola si
impone così come 352 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 14. 353 Ibid.,
p. 425. 354 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi,
Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p.
250. 355 Ibid., p. 249. 356«Pestalozzi, Girard, De la Salle furono grandi
istitutori, perché furono grandi cuori, che sentirono la santità del loro
apostolato, e fecero di sé nobile sacrificio per loro alunni. Senza cuore non
si educa con dignità, non si ammaestra con verità, non si impara con senno; e
la scuola diventa essa stessa corpo senz’anima. Ed in quella guisa che le istituzioni
politiche anche ottime declinano, si disfanno e finiscono, quando sono guaste
dallo spirito settario, dall’ambizione sfrenata dei reggitori, dal dispotismo
sotto maschera di libertà, così gli istituti scolastici anche meglio organati
languiscono e cadono giù, quando nei governanti che li dirigono e nei maestri
che professano, sottentra l’indifferenza e l’apatia, il mestierismo e la
cupidigia del guadagno, la vanità pretensiosa e lo scetticismo demolitore» in
G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso
delle scuole normali maschili e femminili, cit., pp. 182-183. 357 G. Allievo,
Studi pedagogici, cit., pp. 102-107. 358 G. Allievo, La scuola educativa,
principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e
femminili, cit., p. 44. 96 «necessità pedagogica», da indirizzare
verso l’educazione della persona359. Per tali motivi il fulcro della scuola è
la spiegazione360. La sua importanza è attestata, secondo Allievo, anche dalle
difficoltà di relazione e di formazione dei sordo - muti361. Considerava un
grave errore pensare che la mera istruzione potesse bastare all’educazione:
«Che l’istruzione faccia colla educazione un’adequazione perfetta e si converta
con essa, è fatale errore, il quale trascina la società a distrette più
deplorande, che non quelle medesime dell’ignoranza e della rozzezza. L’uomo non
vive di sola conoscenza, ma ben anco di virtù e d’amore, perché alla potenza
dell’intendere accoppia la libertà del volere e la facoltà del sentire. Laonde
la scienza è sibbene una splendida manifestazione dell’umana essenza, ma non è
punto l’umanità tutta quanta: nell’immensa sfera dello svolgimento umano essa
tiene un posto luminoso, ma non il solo, né il più elevato, sottostando alla
vita morale e religiosa»362. Questa mancanza, era colta da Allievo soprattutto
nella scuola secondaria, dove lo sviluppo razionale e il prossimo approccio
alla vita, meritavano una relazione educativa e valoriale piena, e non solo
limitata all’istruzione: «La nostra scuola secondaria non educa, perché è tutta
nell’istruire: le materie di studio sono tenute estranee allo sviluppo del
sentimento morale e religioso. La cattedra non è un apostolato di civile e
morale insegnamento, ma di puro sapere: rilassati e pressochè spezzati i
vincoli tra la scuola e la famiglia, e maestri ed i discepoli». L’assenza di
un’educazione morale e religiosa, senza la quale lo sviluppo integrale della
persona era reputato da Allievo impossibile, fu variamente ripresa: «Questa
idolatria della scienza fa le sue tristissime prove nel campo della pubblica
istruzione; l’istruzione è come una gran fiumana che allarga il santuario della
scuola e caccia via la coltura morale e religiosa, come se vi fossero soltanto
teste da riempire, e non anco anime da ispirare, cuori da educare. Questa
specie di fanatismo per il culto del sapere è la piaga precipua, che vizia
oggidì l’organismo della pubblica educazione.»363 Due delle sue citazioni
preferite erano la celebre frase di Tommaseo: «La scuola se non è tempio, è
tana» e il motto socratico Non scholae sed vitae discendum. Oltre che culto 359
«La parola è pur anco una necessità pedagogica, perché vincolo essenziale, che
unisce le intelligenze e le volontà del maestro e del discepolo, dell’educatore
e dell’alunno, ma a tale riguardo occorre, che la parola del maestro sia luce
intellettuale piena d’amore, e che il discente non la riceva passivo, ma la
faccia ripensandola. Un insegnamento parolaio sciupa se stesso in un’intrinseca
contraddizione, essendochè appartiene all’essenza medesima della parola
l’ufficio di significare un’idea» Ibid., p. 45. 360 «Il programma governativo
è, per così dire, l’embrione della materia d’insegnamento, il didattico ne
mostra le giunture, le articolazioni in forma di compagine, il libro di testo
porge l’organismo in carne ed ossa e polpa e sangue, la spiegazione del testo è
la vita, che circola per entro l’organismo» Ibid., p. 103. 361 Ibid., p. 98.
362 G. Allievo, L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di
Torino il dì 18 novembre 1881, cit., p. 6. 363 G. Allievo, G. G. Rousseau
filosofo e pedagogista, cit., p. 59. 97 della verità, la scuola doveva
infatti divenire tirocinio alla vita, e non doveva essere staccata da essa364.
Ciò implicava anche un assetto didattico in cui era prevista la formazione
professionale e la ginnastica. Sotto questo profilo critica la proposta
educativa di Platone365, considerata eccessivamente spiritualista. La scuola
deve preparare soprattutto alla partecipazione alla società, della quale essa
può diventare importante fermento di progresso e umanizzazione. In questo
senso, contestò posizioni come quelle di Rousseau, che mettevano in evidenza le
ingiustizie perpetuate nella socialità scolastica, invece che i suoi aspetti
formativi366. Allievo sottolinea il rapporto virtuoso tra educazione e società.
Solo se cresce il singolo, progredisce la comunità. Giustamente Allievo ricorda
che «La personalità umana giustamente intesa ed educata a dovere porta la
floridezza sociale»367. La scuola non poteva, tuttavia, essere vista come
funzione della società, e soprattutto del suo potere politico368. Il controllo
sociale esercitato mediante la scuola rischiava di tradire il principio della
personalità369. Il legame con la vita e l’unità dell’educazione, doveva essere
corroborato da una stretta collaborazione tra gli istituti scolastici e la
famiglia. Per questa ragione propone l’abolizione dei convitti, preferendo che
gli allievi restassero nella loro famiglia370. In caso di necessaria lontananza
dalla propria casa, Allievo indica come modello le pensioni libere inglesi in
cui gli alunni seppur lontano dalla propria casa vivono con un’altra famiglia,
a 364 «Quest’armonia tra la scuola e la società esige che nell’ordinamento
delle discipline scolastiche si abbia speciale riguardo a quelle che sono
peculiarmente reclamate dallo spirito del tempo, dai bisogni sociali,
dall’indole della nazione. Però anche qui non va dimenticato, che la scuola,
pur mentre si attempera alle condizioni della società, non debbe servire alle
medesime, come se fossero l’ideale supremo e definitivo di ogni umano
consorzio» G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 37. 365 G. Allievo, Delle
idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 103. 366 «Il mio concetto della
persona umana, in servigio della quale dico ordinata la scuola, è ben altro dal
concetto della natura umana, in cui Rousseau vuole riposto il fine supremo
della educazione. Nell’essenza medesima della persona umana, che è intelligenza
ed attività volontaria, io scorgo la fonte medesima della socievolezza, ossia
la virtù di stringersi in comunanza di intendimenti e di voleri con altre
persone, mentre l’autore dell’Emilio reputa le istituzioni sociali natefatte a
snaturar l’uomo, spogliandolo dell’unità sua per assorbirlo come parte nel
tutto» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad
uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 71. 367 Ibid., p. 71.
368 «La scuola non può, non debb’essere una funzione della società, perché ne
verrebbe essenzialmente snaturata. Infatti, la scuola è un santuario di
persone, ossia di creature intelligenti e libere, e non già una agglomerazione
di bruti o di cose. Ora la persona non è uno strumento ai voleri altrui, ma è
una creatura sacra, fornita di diritti, che vanno rispettati da qualunque
potere sociale, da qualunque autorità umana, il diritto all’esistenza, alla
verità, alla felicità, alla virtù, sicché se ad esempio la prosperità di un
popolo intiero costasse la schiavitù o la distruzione di una sola creatura
umana, già per ciò stesso dovrebb’essere detestata come un delitto. Orbene,
ponete che la scuola sia una funzione,una proprietà, un’appartenenza della
società e soggiaccia al suo assoluto dominio, e allora gli alunni non verranno
più educati siccome persone, che appartengono a sé stesse, ed ordinate ad un
fine, da cui hanno diritto di non essere deviate, bensì come mancipii del
volere sociale, come cose o strumenti in servizio della società» G. Allievo, La
nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 23. 369
«L’individualismo egoistico ed il socialismo oppressivo sono due estremi, che
contraddicono agli intendimenti della natura, la quale mentre chiama gli uomini
alla convivenza sociale, vuole ad un tempo salva la personalità di ciascuno».
G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 99. 370 G.
Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 333-335. 98 volte la stessa dei
propri insegnanti. Ciò aiuta a supplire la funzione dei genitori, che deve
rimanere un paradigma. Non è un caso che parlò della scuola come «seconda
famiglia»371. In merito all’organizzazione della scuola avanzò una serie di
proposte. Sosteneva il primato degli asili italiani rispetto a quelli
fröbeliani372, auspicava una scuola elementare unica senza distinzione di censo373,
mostrandosi fortemente preoccupato per una divisione della scuola classista374.
Propose la fusione del ginnasio con la scuola tecnica per rimandare la scelta
della scuola superiore di tre anni, ipotizzando così la nascita di una scuola
media unica. Sostenne il valore dell’educazione classica, un insegnamento della
filosofia armonico con le altre discipline, un più ampio spazio alla storia
italiana. Della scuola superiore critica l’eccessivo numero di materie, e il
quadro orario troppo lungo. Inoltre contestò i criteri di valutazione negli
esami, nei quali si preferisce la quantità alla qualità degli apprendimenti,
inducendo ad una mentalità enciclopedica e non critica. Anche per questo motivo
propone di eliminare la Giunta centrale per gli esami di licenza liceale. Per
quanto riguarda le scuole normali prospetta un quadro orario in cui si affermi
il 371 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad
uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 86. 372 «I nostri asili
infantili sono una creazione del genio nazionale e per un trentennio
conservarono la loro originale impronta. Verso il 1860 entrarono in lotta coi
seguaci della scuola germanica, che insorsero coll’intendimento di atterrarli e
sulle loro rovine costrurre i giardini fröbeliani. I novatori lottarono e
lottano tutt’ora coll’opera e colla parola, nelle Conferenze pedagogiche e nei
privati convegni, con ardore sempre vivo, invocando ben anco in loro aiuto la
potenza ministeriale (Vedi l’opuscolo Società dei giardini d’infanzia di Udine,
ecc. Udine, 1981, pag. 24). Ed il Ministero non nascose la sua simpatia pel
fröebelismo. Già nel regolamento del 188°, all’art. 28, esso sostituiva alla
denominazione asili d’infanzia il vocabolo giardini; poi impose ai professori
di pedagogia presso le scuole normali l’obbligo di insegnare alle allieve
maestre in teoria ed in pratica il metodo di Fröebel, prescrivendo lo stesso
metodo alle scuole italiane aperte all’estero, e nella sua Circolare del 27
gennaio 1889 manifestava l’intendimento di «trasformare man mano i numerosi
asiloi, secondo vecchi metodi governativi, in istituti educativi informati a
una dottrina che prenda il nome dal Pestalozzi o da Fröebel, o meglio da
entrambi; tal fine si può ben dire ci abbia segnata la via, nella quale
dobbiamo metterci». Nel fervore della lotta non mancarono valenti istitutori,
che, come l’Uttini a Piacenza, il Colomiatti a Verona, la Goretti – Veruda a
Venezia, si adopravano con saggio accorgimento a riparare gli abusi ingenerati
nelle scuole aportiane da sbagliate applicazioni pratiche, ad adempiere i
difetti ed introdurvi le ragionevoli migliorìe, pur conservando intatto il
principio interiore della loro origine» Ibid., pp. 127-128. 373 Attacca quanti
volevano fare una scuola per il popolo e una per la classi agiate e scrive:
«Quindi si fa necessaria una scuola, la quale abbia appunto per iscopo di
fornire quella coltura, la quale occorre a tutte le classi sociali senza
riguardo ed eccezione di sorta. La scuola che risponde a questo fine universale
è appunto la scuola elementare, così denominata, perché ha per oggetto gli
elementi della coltura umana. Da questo suo concetto si scorge che essa non
ammette disparità tra i figli dell’operaio e i figli del facoltoso, perché la
coltura primordiale è la stessa per tutti: non deve mirare agli uni piuttosto
che agli altri, ma va ordinata in servigio di ambedue: essa è ad un tempo
democratica ed aristocratica, rurale ed urbana, popolare e borghese» Ibid., pp.
139-140. 374 «Alle corte, intendete voi che la scuola elementare accolga a
comune ammaestramento i figli di tutte le classi sociali, o quelle soltanto
della classe operaia? Nel primo caso, la trasformazione, che propugnate, non
più ragione di essere: nel secondo caso, create un dualismo irragionevole»
Ibid., p. 140. 99 «primato» alla pedagogia , mentre nei licei,
legandosi ad una battaglia tipica di quegli anni, fu fautore della centralità
della filosofia375. Da un punto di vista metodologico richiama alla necessità
di conoscere le facoltà psicologiche dell’allievo e denuncia l’ignoranza della
classe magistrale su tali tematiche. Gli insegnanti sembrano essere più
preoccupati di offrire agli alunni conoscenze precise e copiose, rispetto a
capire quanto i loro alunni possano imparare. Un altro aspetto avversato
dall’Allievo è un’idea caporalesca della disciplina, che dimentica l’importanza
della libertà e del consenso per un’educazione efficace. Voleva che la scuola
educasse al patriottismo. Ciò non deve far pensare ad un Allievo nazionalista e
sciovinista, il pedagogista era però convinto che la scuola dovesse difendere
la tradizione, la cultura e la filosofia italiana376, di cui i giovani
avrebbero dovuto acquisire consapevolezza e orgoglio. Inoltre considerava
importante l’assimilazione dell’idea di nazione, intesa come comunità a cui
appartenere e da servire. Per questo propose di sostituire all’ «educazione
civile», la materia di «educazione italiana». Riguardo al tema dell’obbligo
scolastico, che coinvolse il dibattito pedagogico durante la costruzione del
sistema scolastico nazionale, Allievo si oppose alla sua applicazione, perché
lo considerava illiberale. Il pedagogista non intendeva restringere il diritto
all’educazione ad un’élite, ma riteneva che l’obbligo non fosse un mezzo adatto
per la diffusione dell’istruzione e dell’educazione377. Egli era altresì
convinto che bisognasse convincere alla scuola e non costringere378. Come non
si possono obbligare le persone ad essere virtuose o a lavorare, così non le si
può costringere ad istruirsi, mentre può moltiplicare le scuole e formare bravi
insegnanti che attirino le famiglie ad iscrivere i figli nelle scuole379. Dove
c’è costrizione, secondo l’Allievo, non può esserci una vera educazione. I. 9.
La libertà d’insegnamento e la riforma della scuola 375 «Nelle scuole normali
spetta alla pedagogia il posto supremo ed intorno ad essa vanno coordinate
tutte le altre materie. Nei licei la filosofia deve tenere il campo, siccome
quella, che in virtù del suo carattere universale è atta a collegare in
armonico accordo tutte le altre discipline» Ibid., p. 116. 376 Cfr. G. Allievo,
Studi pedagogici, cit., p. 36. 377 G. Allievo, Dell’istruzione obbligatoria,
Torino, Tipografia Subalpina, 1893, p. 5. 378 Sull’argomento, in un saggio cita
Lambruschini, che in una relazione presentata al Ministro Berti scrisse
»L’istruzione e l’educazione son cosa di sì alto ordine, e così degna di essere
desiderata e cercata per se medesima, che la violenza nell’imporle ne scema il
pregio agli occhi si chi deve riceverle, e ne spegne l’amore. Da un altro
canto, comechè si adoperi il Comune acciocchè l’istruzione sia ricevuta da
tutte le famiglie, non riuscirà mai nell’intelletto, se nelle famiglie non
nasce l’amore dell’istruzione”, dopo di ciò commenta “In Prussia erasi organizzato
un sistema di polizia, per cui allorquando un fanciullo si rifiutava di recarsi
a scuola, né il padre ve lo mandava egli stesso, un poliziotto lo pigliava a
casa e lo trascinava a scuola come un pubblico malfattore» G. Allievo, La
scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, cit., p. 137. 379 G. Allievo,
Dell’istruzione obbligatoria, cit., p. 12. 100 Le posizioni di Allievo
sulla scuola e sulla libertà d’insegnamento sono state in parte già oggetto di
studio380. Si tratta, infatti, di un contributo di rilevante importanza
nell’economia delle vicende scolastiche del secondo Ottocento. Le opere più
importanti in cui affronta tali questioni sono: L’educazione e la nazionalità
(1875)381, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario (1879)382,
Intorno le scuole normali e gli asili di infanzia fröbeliani (1888)383, Lo
Stato educatore ed il Ministro Boselli, (1889)384, Della istruzione
obbligatoria (1893)385 e La scuola educativa (1893)386, poi rivisto e
pubblicato nel 1904387. A questi vanno aggiunti altri come: La Riforma
dell’educazione moderna mediante la riforma dello Stato (1879)388, Il
Classicismo nelle scuole (1891)389, Esposizione critica delle opinioni di
illustri pedagogisti intorno il rapporto tra l’educazione privata e la pubblica
(1898)390 Delle condizioni presenti della pubblica educazione (1886)391,
raccolti negli Opuscoli pedagogici (1909). In realtà, l’intera produzione
dell’Allievo è disseminata di richiami e rilievi su tali questioni392. 380 I
lavori sinora pubblicati lasciano spazio per ulteriori studi e considerazioni.
Il testo di R. Bonghi, Idee di G. Allievo circa la libertà d’insegnamento,
«Cultura», n. 19-20, 1889, p. 603, è scritto nel vivo delle polemiche scolastiche
del tempo e manca di una necessaria distanza critica e storica; il lavoro di R.
Berardi, La libertà d’insegnamento in Piemonte 1848-1859 e un saggio storico di
G. Allievo, cit., pp. 60-74, prende in esame una sola opera del pedagogista,
vale a dire Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867), e soffre di una
conoscenza parziale dell’opera del pedagogista; il saggio di A. Consorte,
Scuola e Stato in Giovanni Allievo, «Ricerche Pedagogiche», n. 12, 1969, pp.
52–65, seppur significativo, approfondisce soprattutto le polemiche tra lo
studioso piemontese e l’apparato ministeriale, tenendo peraltro conto solo di
alcune sue opere. 381 G. Allievo, L’educazione e la nazionalità, Torino, Tip.
del giornale Il Conte Cavour, 1875. 382 G. Allievo, La legge Casati e
l’insegnamento privato secondario, Torino, Tip. Salesiana, 1879. 383 G.
Allievo, Intorno le scuole normali e gli asili di infanzia fröbelliani, Torino,
Tip. Subalpina,1888. 384 G. Allievo, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli,
Torino, Tip. del Collegio degli artigianelli, 1889. 385 G. Allievo, Della
istruzione obbligatoria, Torino, Tip. Subalpina, 1893. 386 G. Allievo, La
scuola educativa. Principi di antropologia e didattica: pedagogia elementare,
Torino, Tip. Subalpina, 1893. 387 G. Allievo, La scuola educativa. Principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., 1904. 388 G. Allievo, La Riforma dell’educazione moderna mediante la
riforma dello Stato, Torino, Tip. Subalpina, 1879. 389 G. Allievo, Il classicismo
nelle scuole, Torino, Tip. M. Artale, 1891. 390 G. Allievo, Esposizione critica
delle opinioni di illustri pedagogisti intorno il rapporto tra l’educazione
privata e la pubblica, «Rivista pedagogica italiana», 1-2, 1898. 391 G.
Allievo, Delle condizioni presenti della pubblica educazione. Prolusione letta
nella R. Università di Torino il 25 novembre 1886, Torino, Tip. Subalpina,
1886. 392 In tutte le opere dell’Allievo sono ricorrenti degli incisi nei quali
lo studioso propone parallelismi con le condizioni scolastiche coeve. Il
seguente brano pare particolarmente paradigmatico. Dopo aver esposto i
caratteri della pedagogia romana, ad esempio, Allievo riporta un passo di una
lettera scritta da Plinio il giovane ed indirizzata a Corellia Ispulla, nel quale
le suggerisce di scegliere con oculatezza l’insegnante di retorica per il
figlio. Subito dopo, Allievo chiosa: «Qual profondo divario tra i tempi di
Plinio ed i nostri in riguardo ai pubblici studi! Allora la scuola si muoveva
libera da ogni potere governativo, epperò la scelta dei maestri spettava ai
genitori come un sacro e coscienzioso dovere. Ora invece lo Stato impone alle
famiglie i maestri da lui solo fabbricati ad immagine e somiglianza sua. Una
radicale riforma intorno a questo rilevantissimo punto della vita civile e
sociale è una necessità pedagogica. La libera attività dei cittadini, su cui
posa in gran parte la civiltà moderna, non consente che essi vengano trattati
come fanciulli, i quali hanno nel governo il loro supremo educatore ed assoluto
maestro. La libertà non è privilegio esclusivo di nessuno. 101 Il
problema della libertà d’insegnamento occupa un posto privilegiato nell’opera
di Allievo. Quest’attenzione è indubbiamente legata all’evoluzione del sistema
scolastico italiano, di cui il pedagogista vercellese denunciò la deriva
monopolistica ed un assetto contrario alla libertà d’insegnamento. Stando allo
studioso, tali politiche avevano profonde radici filosofiche e pedagogiche. In
particolare, erano la conseguenza da una parte della crisi del concetto di
libertà, e dall’altra, del «mito» dello Stato nato con la modernità. Lo
sbriciolamento della metafisica, inaugurato nel ‘600, condusse alla confusione
circa l’esistenza e il ruolo della libertà personale. Ciò portò ad una certa
sfiducia verso l’iniziativa privata, preferendo al rischio educativo la
gestione del processo formativo. D’altra parte con la modernità si impose il
profilo di uno Stato simile al «Leviatano» prospettato da Hobbes, nel quale il
governo di pochi si arrogava il diritto di fagocitare e sacrificare le singole
individualità in nome del bene della collettività. Un «mostro», come lo definì
Allievo, ingombrante, fatto di meccanismi politici e burocratici. Da ciò la
scuola e l’educazione non erano più considerate una responsabilità della
famiglia, ma dello Stato393. Il vercellese definiva questo statalismo anche
«socialismo governativo». In una sua opera spiega: «socialismo dico ogni
istituzione che la santa autonomia della persona e della famiglia disconosca in
qualsiasi modo, rimestando ad arbitrio quella convivenza sociale che ha da
posare sicura sulle leggi eterne dell’umanità»394. In un altro saggio commenta:
«Socialismo governativo è lo Stato moderno; socialismo pedagogico è
l’educazione moderna. Lo vuole la logica, lo proclamano i fatti. Onnipotente è
lo Stato? Dunque onnisciente. Creazione sua la società? Dunque suo feudo la
scuola. Esso, che si reputa l’umanità, ben può dire di sé: l’educatore sono
io»395. Secondo Allievo, da tale pretesa nacque il controllo sul sistema
scolastico, sui programmi, sul reclutamento degli insegnanti,
sull’organizzazione degli esami, sui libri di testo. La monopolizzazione della
scuola era sentita dall’Allievo in modo catastrofico: «Là dove l’educazione
propria della famiglia viene sacrificata all’educazione dello Stato, vano è lo
sperar bene delle sorti di una nazione»396. Scrive: «Non si dà libero cittadino
senza il governo di sé, né si da governo Governi lo Stato le sue pubbliche
scuole; ma siano libere le famiglie di associarsi insieme per fondare istituti
educativi ed imprimere ad essi un indirizzo rispondente alle loro aspirazioni
egualmente che allo spirito del tempo. Così sorgerebbe una nobile gara, da cui
la pubblica educazione trarrebbe singolare e felice incremento», in G. Allievo,
La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 40. 393 Commentando il
progetto di legge di Baccelli sul riordinamento degli studi universitari, lo
studioso vercellese scrive: «Il Ministro, che l'ha proposto, sente che nella
coscienza universale ferve irrefrenabile l'aspirazione alla libertà; ma ad un
tempo è imbevuto del dominante pregiudizio, che il Governo è lui il primo e
sovrano motore di tutta la vita pubblica e civile, è lui l'unico ed assoluto
maestro ed educatore della nazione, che la legge è lui, come Luigi XIV
proclamava sé lo Stato» G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal
Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, Torino, Tip. Subalpina,
1899, p. 5. 394 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 11. 395 Ibid., pp. 11-12.
396 G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 89.
102 di sé quando lo Stato siede arbitro e donno di tutte le attività
umane. Tolta di mezzo l’autonomia personale de’ singoli cittadini anche
l’indipendenza della nazione diventa ingannevol menzogna; e verrà giorno in cui
suprema battaglia per un popolo quella sarà che esso combatterà non per
l’indipendenza dalla straniero, ma dalla statolatria»397. Va notato che nella
prospettiva di Allievo, il concetto di Stato è ben separato da quello di
Nazione, come giustamente ha rilevato polemicamente la Bertoni Jovine398. Per
il pedagogista la Nazione è espressione della civiltà, di valori, di
tradizioni, di una storia, mentre lo Stato non necessariamente ne rappresenta e
asseconda gli interessi. La famiglia rappresenta il punto di congiunzione tra
l’individuo e la Nazione, e ad essa lo Stato deve rispondere
nell’organizzazione della scuola. Lo stato è nato per servire la famiglia, e
suo compito è garantirne la libertà. Secondo Allievo: «È necessario far
penetrare nella coscienza sociale questa gran verità, che principio, cardine e
ragion d’essere dello Stato è la famiglia, che fondamento e centro unificatore
della vita pubblica e civile è la vita domestica, e che perciò i primi
educatori per diritto e per natura sono i genitori, che lo Stato non possiede
un diritto pedagogico e scolastico assoluto e supremo, ma relativo soltanto e
derivato dalla famiglia»399. Per queste ragioni: «Il Governo non può avere
altro diritto scolastico, se non quello, che gli venga implicitamente o
esplicitamente consentito dalla famiglia, ciò è a dire un diritto relativo, non
assoluto, secondario e non supremo, partecipato e non originario»400. Non
sembrano dunque fondate le critiche mosse ad Allievo, circa la connessione tra
l’antistatalismo e un presunto individualismo scaturigine del principio della
personalità, segnalato da Vidari401. Il pedagogista non professava una totale
anarchia in campo educativo, ma esautorava lo Stato dal diritto assoluto
sull’educazione. 397 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 18. 398 «Uno dei
più forti oppositori della preminenza dello Stato nell’educazione fu Giuseppe
Allievo, dell’università di Torino, che svolse il concetto di “nazione”
distinguendolo da quello di Stato. Lo Stato non ha alcun diritto ad educare,
mentre la nazione che “è lo stesso uomo collettivo”, influisce con tutti i suoi
elementi sullo sviluppo dell’individuo; onde nazionalità ed educazione sono due
fatti inseparabili. È naturale che fra i più importanti elementi della nazione
l’Allievo collochi la religione e la Chiesa pur accettando dagli avversari
alcuni elementi più moderni diventati realtà con le vittorie liberali. Con
l’esigenza di uscire dal ristretto cerchio della famiglia, si assimila infatti,
in questa ideologia, il concetto basilare di patria. Si supera così il punto
critico che divideva i liberali dai clericali: “Dio, patria e famiglia”
divengono i tre pilastri fondamentali dell’educazione sui quali i cattolici più
avanzati e i liberali moderati vi ritrovano la concordia; ma se i clericali
assimilavano l’educazione patriottica, esigevano che i liberali accettassero
l’educazione religiosa. E questo era possibile perché nonostante la vittoria
laicista ottenuta con la legge Coppino, non era mai stata definita la questione
dell’insegnamento del catechismo» D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia
della scuola italiana, cit., p. 25. 399 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit.,
p. 43. 400 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e
didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 73. 401
«In fondo l’impronta fortemente individualistica, un po’ derivata dal principio
della persona, ma molto anche da una deficienza del senso della continuità e
unità storica nella vita dello spirito , è prevalente in tutta la pedagogia
dell’Allievo; e si presenta poi in forma estrema là dove, applicando alla
politica e al diritto i 103 Sulla paternità della responsabilità
educativa, famiglia o stato, si giocò il dibattito pedagogico sul tema, considerato
tale non solo in ambito spiritualista402. Allievo attribuisce alla famiglia la
responsabilità educativa. La famiglia è il nucleo che solo può permettere il
futuro della Nazione e una vera educazione delle giovani generazioni. Sugli
stessi principi, critica aspramente anche Fröbel per non aver riconosciuto il
primato della famiglia sulla società.403 Sotto questo profilo sono evidenti i
richiami alla tradizione del cattolicesimo liberale, che attribuiva alla
famiglia un valore educativo centrale, nelle opere di autori come Berti,
Gustavo di Cavour e Rosmini, i quali fondavano la libertà d’insegnamento
proprio sul principio della libertà e sul protagonismo educativo della famiglia
. Attacca in più di un’occasione gli hegeliani come Spaventa e i positivisti
come Siciliani, Angiulli, De Dominicis, considerati fiancheggiatori della
statolatria. Il seguente brano lumeggia le sue idee: «Riponendo nella famiglia
la suprema autorità scolastica noi ci troviamo collocati nel giusto punto di
mezzo tra i due opposti sistemi, dei quali l’uno attribuisce al Governo un
assoluto e supremo diritto sopra la scuola, l’altro gli niega ogni e qualunque
siasi ingerimento pedagogico. Se lo Stato possiede bensì un’autorità
nell’ordine scolastico, ma subordinata a quella della famiglia e de’ privati
cittadini, ne consegue che esso deve lasciare luogo alla libertà della scuola,
e potersi con questa conciliare. E qui si vede la ragione di ammettere, oltre
le scuole pubbliche governative, anche le scuole private, le quali però non
devono essere una storpiatura, una copia forzata e stereotipata delle scuole
governative, ma hanno diritto di muoversi libere e spontanee dentro un’orbita
loro propria. Il libero insegnamento va riconosciuto siccome una delle più
splendide forme della libertà politica e civile, che informa la scuola
moderna»404. Egli non teorizzava l’anarchia in campo educativo, ma uno Stato
meno opprimente e più rispettoso della libertà. Come ha fatto notare Giorgio
Chiosso, egli preferiva allo «Stato educatore» uno «Stato regolatore»405. Egli,
infatti, non escludeva il controllo dello Stato suoi concetti, arriva a
concepire la libertà d’insegnamento in modo essenzialmente antistatale, così da
affermare che “lo Stato non possiede un diritto pedagogico e scolastico assoluto
e supremo, ma relativo soltanto e derivato dalla famiglia”» G. Vidari, Il
pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico, cit., pp. 86-87. 402 Non
è un caso che la voce “Libertà d’istruzione” curata da Fornari nel Dizionario
Illustrato di pedagogia di Credaro e Martinazzoli, che rappresenta uno spaccato
della pedagogia italiana di fine Ottocento, introduca il tema con la domanda «A
chi appartengono i figlioli?» Cfr. P. Fornari, Libertà d’istruzione, in A.
Martinazzoli e L. Credaro (ed.), Dizionario illustrato di Pedagogia, Milano,
Vallardi, 1895, vol. II, p. 62. 403 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di
Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio
Girard, cit., p. 117. 404 G. Allievo, Lo Stato educatore ed il Ministro
Boselli, cit., pp. 24-25. 405 G. Chiosso, Alfabeti d’Italia, Torino, Sei, 2011,
p. 93. 104 sull’istruzione406. Nonostante la comune rivendicazione
della libertà di insegnamento, le tesi dell’Allievo si discostavano da quelle
allora prevalenti nel mondo cattolico, in particolare negli ambienti
dell’intransigentismo. In questo caso il principio della libertà d’insegnamento
era alquanto strumentale e sostenuto più per ragioni pragmatiche che per la sua
validità pedagogica. La vera scuola era quella «cristiana» e in nome di questa
si avvertì l’esigenza di creare una scuola cristiana parallela a quella
statale, in linea con quella logica «separatista» dal “paese legale” che ebbe
largo corso dopo Porta Pia. Per questo motivo era chiaro che una rivendicazione
simile sarebbe stata immotivata in uno Stato rispettoso dell’educazione
religiosa e cristiana407. Per Allievo invece, la libertà rappresentava un
valore effettivo per la scuola. In questo senso contestava la contraddizione di
molti sedicenti liberali, che in molti paesi europei negavano la «lotta»408,
cioè la concorrenza, proprio in campo educativo. Secondo il pedagogista il
concorso di soggetti privati all’istruzione del popolo, il confronto e il
«gareggiamento» tra le diverse realtà, rappresentava un volano per il
miglioramento della scuola. Per mostrare i vantaggi dell’applicazione di tale
principio, Allievo approfondì con appositi studi i sistemi di istruzione di
Gran Bretagna e degli Stati Uniti, dove i principali liberali avevano forgiato
anche le istituzioni scolastiche. Un altro stato indicato come modello da
Allievo per quanto riguarda l’autonomia scolastica è il Belgio, di cui cita ed
elogia gli articoli della Costituzione concernenti la libertà
d’insegnamento409. Alla realtà educativa degli Stati Uniti dedicò un saggio
dettagliato intitolato Dell’educazione pubblica negli Stati Uniti D’America410.
In esso sostiene come la peculiarità del sistema scolastico americano fosse la
libertà dei cittadini di fondare e 406 Sempre criticando il citato progetto di
legge Baccelli sull’Università scrive: «Ecco il primo articolo della sua
proposta: “Alle regie Università e a tutti gli altri Istituti d'istruzione
superiore è concessa personalità giuridica ed autonomia didattica,
amministrativa, disciplinare sotto la vigilanza dello Stato”. È cosa manifesta,
che autonomia e vigilanza sono i due concetti supremi, a cui s'informa questo
disegno di legge; ma è pur evidente, che il giusto significalo dell'autonomia
dipende dai limiti, che vengono segnati alla vigilanza. Che lo Stato vegli,
bene sta: ma la vigilanza sua va circoscritta entro determinati confini, sicché
non trasmodi in un illimitato ingerimento e soppianti la libertà» G. Allievo,
L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe
Allievo, cit., p. 5. 407Luciano Pazzaglia ha rilevato come, soprattutto dopo
l’Unità, più che la difesa del principio della libertà d’insegnamento in quanto
tale, prevalse nella Chiesa la rivendicazione della sua prerogativa educativa.
Commentando la significativa allocuzione di Pio IX alla Gioventù italiana del 6
gennaio 1875, lo studioso della Cattolica osserva: «Pur continuando a sostenere
la tesi del monopolio educativo della Chiesa e a condannare, parallelamente, la
libertà d’insegnamento come principio che mal si conciliava con i diritti della
verità di cui solo il magistero sarebbe l’autentico interprete, concedeva che
in certe condizioni la libertà d’insegnamento potesse diventare per i cattolici
uno strumento essenziale al raggiungimento dei loro obiettivi» in L. Pazzaglia,
Educazione e scuola nel programma dell’Opera dei Congressi (1874-1904), in
Cultura e società in Italia nell’età umbertina, cit., p. 426. 408 G. Allievo,
L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da
Giuseppe Allievo, cit., p. 8. 409 G. Allievo, Lo Stato educatore, in Opuscoli
pedagogici, cit., pp. 68-69. 410 Il saggio è inserito negli Opuscoli
pedagogici, cit., pp. 380-406. 105 mantenere delle scuole. Secondo
Allievo ciò permise di far sorgere tantissime scuole pubbliche non statali che
hanno accresciuto la vita scientifica e sociale della giovane nazione, che
seppur fondata da poco, aveva di gran lunga superato nella libertà e nella
preparazione le scuole del vecchio continente. Sostiene inoltre che
l’Università americana fosse molto più democratica di quella italiana. Seppur
finanziata dalle tasse di tutti i cittadini le Università italiane erano
frequentate quasi solo da persone benestanti, a causa delle alte tasse che
venivano chieste alle famiglie di studenti. Negli Stati Uniti invece anche se
le Università si mantengono quasi esclusivamente sulle tasse degli studenti
gravando relativamente poco sui bilanci statali, esistevano numerose borse di
studio che permettevano agli studenti capaci, ma con pochi mezzi, di poter
frequentare prestigiose Università. Nel testo valorizza anche le «Scuole di
scienza» e cioè le Università scientifiche di medicina e ingegneria che si
diffondevano nel paese. Gli Stati Uniti erano un chiaro esempio del fatto che il
monopolio dell’istruzione fosse in contraddizione con i principi dello stesso
liberalismo. Allievo sostiene che «Il libero insegnamento va riconosciuto
siccome una delle più splendide forme della libertà politica e civile, che
informa la società moderna»411, i liberali italiani erano incoerenti con i loro
stessi principi. Scrive su tale contraddizione: «La libertà delle scuole è la
suprema necessità del momento, se già non fosse un principio sacrosanto scritto
nel codice della civiltà vera; è l’unica tavola di salvamento nel presente
naufragio della nostra istruzione. Ma qual è l’opinione dominante su questo
vitale argomento? Anche qui dissidio di menti e lotta di idee. Propugnatori del
libero insegnamento non mancano, ma ad esso non sanno fare buon viso i novatori
e gli iperdemocratici, i quali lo vogliono angustiato in tale strettoie
governative da farne un monopolio per sé e per i loro seguaci. Ingrato
spettacolo di gente che vela con una mano la statua della libertà dopo di
averla coll’altra levata alla pubblica venerazione»412. Ma le posizioni
dell’Allievo erano in controtendenza rispetto agli indirizzi del Ministero. La
lobby massonico liberale che tenne le fila della Minerva nei decenni successivi
all’Unità contrastava la battaglia per la libertà d’insegnamento dietro la
quale vedeva la mano della Chiesa preoccupata di non perdere l’egemonia
sull’istruzione e sull’educazione, messa in seria discussione dopo l’Unità.
L’istruzione pubblica e l’Università resteranno sotto il totale controllo del
Ministero, le scuole libere saranno tollerate, ma discriminate sotto il profilo
giuridico ed economico. Niente fu fatto per una vera parità nell’erogazione dei
titoli di studio, una delle questioni da 411 G. Allievo, Lo Stato educatore, in
Opuscoli pedagogici, cit., p. 68. 412 G. Allievo, La pedagogia italiana antica
e contemporanea, cit., pp. 164-165. 106 cui dipende l’effettiva
libertà d’insegnamento. Lo statalismo scolastico, infatti, è primariamente un
monopolio di «abilitazioni», controllando le quali il governo «obbliga» e i
giovani a frequentare le sue scuole. D’altra parte, costringeva le scuole
libere ad adeguarsi ai dettami governativi. In un testo osserva: «Bella
concorrenza davvero sarebbe quella di Istituti privati ridotti ad una
storpiatura o miserevole copia dei governativi! Bella libertà scolastica quella
di chi fosse legato mani e piedi ai ceppi dell'Autorità ufficiale»413.
Paradossalmente il percorso di statalizzazione della scuola e di riduzione
degli spazi di autonomia per le iniziative educative libere iniziò in un
periodo in cui la pedagogia sembrava andare in una direzione opposta. La
libertà d’insegnamento fu, infatti, un tema largamente sviluppato nella
riflessione cattolico liberale che aveva caratterizzato la stagione
risorgimentale. Lambruschini, Rosmini, Tommaseo, Gioberti, con le dovute
differenze, auspicavano per lo Stato un ruolo da supervisore nell’educazione
pubblica, non quello di gestore e macchinatore dell’istruzione e
dell’educazione. Il percorso di statalizzazione tradiva quei principi di
libertà caratteristici del clima culturale del ’48. Allievo denunciò questa
inversione di tendenza, riprendendo i temi della Società pedagogica: «Il primo
Congresso generale tenuto dalla Società in Torino nell’ottobre del ‘49 rivelava
in modo solenne l’unità di disegno e l’universalità del concetto che la
governava: senatori del Regno e deputati del Parlamento, autorità ministeriali
e scolastiche, membri di Accademie scientifiche e reggitori di istituti
educativi, professori e dottori di Università e maestri elementari, sacerdoti e
laici, esuli degli altri Stati della patria comune illustri per sapere,
intelligenti promotori della pubblica educazione, là convenivano a pubblica
discussione, e nella arena del dibattimento discendevano insieme affratellati i
cultori degli studi classici e speculativi coi maestri dell’istruzione tecnica
e professionale, i reggitori di pubblici e governativi istituti scolastici ed i
favoreggiatori del privato e libero insegnamento. Così il Piemonte, appena
sorto a nuova vita, adoperava in servigio di nobilissima causa il diritto di
libera associazione allora sancito nel nuovo Statuto Carlalbertino, ma, prima
che negli stati politici, scritto a caratteri indelebili nel gran codice della
natura; così esso porgeva uno splendido esempio di attività cittadina e di
privata entratura, che sole sanno a tenere a modo la podestà del governo così
lesta ad invadere diritti non suoi. E si fosse mantenuta costante
quell’attività e quell’entratura privata, e propagatasi più rigogliosa e compatta
in tutte le regioni d’Italia! Chè ora la pubblica istruzione del nostro paese
non gemerebbe soffocata da alcuni anni sotto lo strettoio del potere
esecutivo»414. Già nel saggio sull’hegelismo del 1868 attribuì a 413 G.
Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, cit., p. 8. 414
G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 90.
107 Cavour e al «cavourinismo» la colpa per il profilo illiberale della
scuola italiana415. Una simile lettura del pensiero e delle responsabilità
dello statista piemontese sembra essere confermata dall’iter della legge
Lanza416. Esso quindi vedeva nei principi della legge Casati degli aspetti
positivi, poi traditi dalle politiche successive417. I. 10. Le polemiche con la
Minerva Il docente dell’ateneo subalpino non si limitò a teorizzare i princìpi
intorno a cui si sarebbe dovuta realizzare la libertà scolastica, ma entrò in
diretta polemica con gli esponenti politici più o meno «statolatri» che, tra la
sua giovinezza e la maturità, governarono il Dicastero dell’Istruzione
Pubblica. Qualche anno dopo la laurea, già noto per alcune pubblicazioni,
Allievo fu incaricato dal Ministro Berti di scrivere un saggio sulla scuola e
la pedagogia italiana in occasione della mostra universale della Arti e delle
industrie a Parigi del 1867. Ne uscì il saggio Della pedagogia in Italia dal
1846 al 1866418 (1867), che, tuttavia, non incontrò il parere positivo del
ministero, motivo per il quale il libro non fu presentato alla fiera419.
Commentando quell’episodio Gerini osservò come mentre il positivismo fosse una
dottrina «protetta in alto», «agli avversari della pedagogia spiritualistica
furono prodigati tutti i favori del Ministero, a lui l’oblio»420. Le posizioni
espresse dall’Allievo, considerando le quali non desta meraviglia la censura
ministeriale, sono utili per introdurre le sue critiche alla politica
scolastica post unitaria. Già nello scritto del 1867, l’Allievo nel
ripercorrere gli anni del riformismo 415 G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza,
la vita, cit., p. 7. 416 M. C. Morandini, Da Boncompagni a Casati:
l’affermazione del modello centralistico nella costruzione del sistema
scolastico preunitario (1848 – 1859), in F. Pruneri (ed.), Il cerchio e
l’ellisse, centralismo e autonomia nella storia della scuola dal XIX al XXI
secolo, cit., p. 50. 417 Tale lettura è confermata in un opera della fine del
secolo. Scrive: «Or mezzo secolo fa veniva promulgata la legge pel
riordinamento della pubblica istruzione, che ancora oggidì governa il nostro
insegnamento universitario. Quella legge porta l'impronta del tempo, che l'ha
inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di grandi speranze. La libertà non
era un nome vano ed illusorio, ma una santa realtà potentemente sentita,
lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata col rispetto dello patrie
istituzioni. Gli animi tutti erano assorbiti nella grande idea
dell'indipendenza nazionale, e davanti alla coscienza del popolo italiano
splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire. Ora non ci riconosciamo più.
Dal 1859 al 1899 siamo discesi sempre più giù per la china del decadimento. Lo
Stato andò sempre più invadendo il campo riservato all'attività dei cittadini
comprimendo sotto il suo strettoio le energie individuali» G. Allievo,
L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da
Giuseppe Allievo, cit., 1899, p. 3. 418G. Allievo, Della pedagogia in Italia
dal 1846 al 1866, cit.; poi in G. Allievo, La pedagogia italiana antica e
contemporanea, cit., pp. 84-168. 419 Lo stesso pedagogista racconta la vicenda
in G. Allievo, Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866, cit., pp.
99-100. 420 G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit., p. 126.
108 pedagogico subalpino all’origine della riforma Boncompagni del
1848421, lamentava che gli ideali originari – ispirati al principio della
libertà scolastica – fossero stati in seguito gravemente compromessi dalle
iniziative successive che avevano invece rafforzato il ruolo dello Stato422.
Secondo Gerini, l’ostilità del ministero ebbe delle conseguenza nella
progressione di carriera dell’Allievo: Straordinario nel 1871, ottenne la
promozione ad Ordinario solo nel 1878423. In un’altra occasione sembrò al
pedagogista vercellese di aver subito un torto dalle autorità politiche, quando
cioè, eletto consigliere comunale, fu volutamente escluso dall’assessorato
all’istruzione424. La lettura di Allievo sull’evoluzione del sistema scolastico
italiano fu ripresa nel già citato La Legge Casati e l'insegnamento privato
secondario apparso nel 1879. In questo scritto l’Allievo denunciava la
contraddizione tra le norme a tutela della libertà scolastica prevista dal
testo del 1859 e la loro attuazione pratica, sulla base del principio politico
secondo cui il Governo «sopravveglia il privato a tutela della morale, dell'igiene,
delle istituzioni dello Stato e dell'ordine pubblico»425. Per quanto la Casati
riconoscesse l’utilità di una proficua «concorrenza degli insegnamenti privati
con quelli ufficiali»426, le norme e gli atti successivi andarono contro questo
principio. Per Allievo era evidente che politiche simili fossero dettate dal
timore del Clero e della sua presenza educativa, ma ciò non poteva minimamente
giustificare la soppressione della libertà427. 421Va sottolineato come il
principale redattore del testo legislativo, fu il sacerdote Giovanni Antonio
Rayneri. Cfr. M.C. Morandini, Da Boncompagni a Casati: l’affermazione del
modello centralistico nella costruzione del sistema scolastico preunitario
(1848- 1859), cit., p. 42. 422G. Allievo, La pedagogia italiana antica e
contemporanea, cit., p. 90. 423Secondo Gerini, genero dell’Allievo (ne aveva
sposato la figlia), curatore di numerosi saggi sul pedagogista, il ritardo non
fu casuale. Citando una lettera dello stesso Allievo al ministro De Sanctis e
alcune considerazioni di Parato, egli sostiene che ci fu una ostruzione
ministeriale alla carriera del vercellese, motivata dal suo credo spiritualista
e dalle sue posizioni critiche nei confronti delle politiche ministeriali. Cfr.
G.B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit., pp. 10-12. 424 Come racconta
Gerini: «Dopo le elezioni amministrative del 1895, essendo riuscito con bella
votazione consigliere (il 20° su 80), l’Allievo venne chiamato a far parte
della Giunta. Costituita la quale “l’opinione generale e più favorevole, specie
nel corpo insegnante di tutti i gradi d’istruzione, dalla elementare alla
universitaria, era che nella distribuzione dei varii rami di amministrazione
fra gli assessori, al prof. Allievo sarebbe toccato il governo dell’istruzione,
essendo egli la persona meglio indicata, per attitudini particolari ben note, a
tenerlo: invece venne destinato dal sindaco alla direzione della Biblioteca dei
Musei”. Naturalmente l’Allievo con sua lettera in data 5 luglio rinunziava
all’assessorato. Il sindaco Rignon, cui non menziono in questo luogo a titolo
d’onore, non gli affidava l’ufficio dell’istruzione perché non si conoscevano
ancora abbastanza le sue idee intorno al governo delle scuole, pur essendo
disposto a commetteglielo quanto avesse avuto campo di far conoscere il suo
modo di pensare (Osservatore scolastico di Torino, 13 luglio 1895). Il fatto
non abbisogna di commenti. Basti il dire, che qualche tempo dopo il Rignon
chiamava all’assessorato dell’istruzione un avvocato, il quale non aveva mai dimostrato
d’intendersi d’amministrazione scolastica. – Nelle successive elezioni
l’Allievo declinò in modo irremovibile la candidatura» Ibid., pp. 11-13. 425 R.
D. 13 novembre 1859, n. 3725, art. 3. 426 G. Allievo, La legge Casati e
l’insegnamento privato secondario, cit., p. 12. 427 “La potenza che voi
paventate nel clero; non la distruggerete colla forza dei divieti, ma la
fortificate colla mostra della persecuzione e colla vostra sfiducia nella
libertà. Voi la volete la libertà, ma per voi e per 109 Nell'appendice
l’Allievo dimostra tale tesi, analizzando nel dettaglio i diversi provvedimenti
elaborati dai successori di Casati, tra cui Natoli, Coppino e Correnti,
criticandone lo scarto rispetto ai principi della legge fondativa del ’59. E
così icasticamente conclude: «Da vent'anni e più anni la legge riconobbe e
sancì il principio del libero insegnamento: da quasi venti anni il Governo
continua a misconoscerlo, la burocrazia a manometterlo»428. La stessa lettura
dell'evoluzione dell'ordinamento scolastico italiano è confermata in un altro
testo di vent’anni dopo429. Un caso esemplare del «tradimento della Casati»
riguarda la figura dell’istitutore libero. Come spiega Allievo, secondo la
legge: «L’istitutore è governativo o libero, secondochè la scuola, in cui
esercita il suo magistero educativo, è retta dallo Stato o da privati
cittadini. All’uno il governo prescrive la sostanza e la forma del suo
insegnamento, la misura, il procedimento, il criterio direttivo. Dall’altro la
vigente legge 13 novembre 1859 esige i titoli, che lo autorizzano, ed il
rispetto dell’igiene, della morale e delle patrie istituzioni, epperò la sua
libertà non è assoluta; ma non concede al Governo di sindacare, se e quanto, e
come egli educhi e insegni; chè altramente la libertà dell’istitutore si
risolverebbe in una vana parola»430. Ma alla libertà riconosciuta dalla Casati,
conclude l’Allievo, corrisposero norme restrittive che di fatto compromisero
l’iniziativa dei liberi insegnanti. Non meno severa era la denuncia dei rischi
dell’ingerenza statale sull’identità delle scuole private: «Dalle recenti
statistiche – così scriveva nel 1879 – si rileva come gli istituti secondari
liberi affidati alle provincie, ai comuni alle corporazioni religiose, ai
privati, gareggino per numero con quelli del Governo; il che è splendido
argomento del grande amore, che nutrono i cittadini, per l’incremento degli
studi e lo sviluppo della coltura sociale; ma non si può non provare ad un
tempo un sentimento increscevole e doloroso in veggendo come tanti nobili
sforzi vengano in gran parte sciupati dallo smodato ingerimento del Governo, il
quale introduce la monotona e rigida uniformità de’ suoi gli amici vostri; a
siffatta guisa di libertà anche i vostri avversarii potrebbero fare buon viso,
anche la Czar delle Russie: di una veneranda matrona ne avete fatto una brutta
ed intollerabile Megera.” G. Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato
secondario, cit., p. 28. 428 Ibid, p. 26. 429 Un passo di un saggio del 1899
conferma la lettura di Allievo: «Or fa mezzo secolo fa veniva promulgata la
legge pel riordinamento della pubblica istruzione, che ancora oggidì governa il
nostro insegnamento universitario. Quella legge porta l'impronta del tempo, che
l'ha inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di grandi speranze. La libertà
non era un nome vano ed illusorio, ma una santa realtà potentemente sentita,
lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata col rispetto dello patrie
istituzioni. Gli animi tutti erano assorbiti nella grande idea dell'indipendenza
nazionale, e davanti alla coscienza del popolo italiano splendeva l'ideale di
un nuovo glorioso avvenire. Ora non ci riconosciamo più. Dal 1859 al 1899 siamo
discesi sempre più giù per la china del decadimento. Lo Stato andò sempre più
invadendo il campo riservato all'attività dei cittadini comprimendo sotto il
suo strettoio le energie individuali» G. Allievo, L’autonomia universitaria
proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, cit., p. 3.
430G. Allievo, La scuola educativa. Principi di antropologia e didattica :
pedagogia elementare, cit., p. 86. 110 metodi, de’ suoi
programmi, de’ suoi studi là dove dovrebbe lasciare, che si svolga libera,
varia e feconda la vita scolastica»431. Ciò dipendeva, a giudizio del pedagogista
piemontese, dal monopolio statale dei titoli di studio, mediante il quale il
Governo disincentivava l’iscrizione negli istituti liberi. Inoltre il
«pareggiamento» delle scuole libere, condizione per erogare titoli equiparati a
quelli statali, era regolamentato da norme restrittive e obbligava
all’omologazione con il sistema statale. Come denunciò il vercellese: «A
chiunque si muova fuori dell’orbita degli studi segnata dal Governo, è chiuso
irrevocabilmente l’adito alle professioni liberali; potrà procacciarsi una coltura
scientifica e letteraria ampia ed eletta per quanto si voglia, ma prima pur
sempre di un carattere pubblico e legale, e ridotta ad un puro ornamento
dell’animo e nulla più»432. Allievo leggeva bene la situazione della
concorrenza tra scuole statali e non statali. La Talamanca, riprendendo il
dibattito parlamentare su tali argomenti, fa notare come le scuole private
cattoliche avessero un numero maggiore di studenti rispetto a quelle statali.
Cita il senatore Menabrea che nel maggio del 1872 fa notare come sui 4136
studenti che avevano sostenuto la licenza liceale, ben 2670 provenivano da
scuole private e seminari433. Ma come dimostrano le vicende successive, il
sistema nato dalla Casati avrebbe portato, come denunciato dall’Allievo,
all’assottigliamento delle scuole private. Sulla volontà del governo di attuare
la libertà d’insegnamento è particolarmente significativo un breve saggio dal
titolo: L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata
da Giuseppe Allievo434. Il testo non riporta la data di pubblicazione, ma si
può desumere da alcuni brani che sia stato dato alle stampe nel 1899. Allievo
critica nel testo della legge una profonda ipocrisia. Da una parte si affermava
il principio dell’autonomia, ma nei fatti esso rimaneva un flatus vocis, in
quanto veniva contraddetto dal resto della legge. Infatti il progetto non
segnava i limiti della “vigilanza” governativa; sanciva che i confini
dell’autonomia sarebbero stati in seguito definiti dal Consiglio Superiore e
dal Consiglio di Stato (senza contrattazione con gli atenei); affermava che la
nascita di nuove Università, Istituti o Scuole d'istruzione superiore, o di
Facoltà poteva avvenire esclusivamente per decreto; attribuiva al Ministero il
potere di respingere le 431 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 25. 432
Ibid., p. 25. 433 A. Talamanca, La scuola tra Stato e Chiesa dopo l’Unità, in
Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), cit., vol. I, p. 365.
434G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed
esaminata da Giuseppe Allievo, cit., p. 3. 111 proposte di nomina o
di conferma dei professi ordinari e straordinari avanzate dalle Università. In
questo modo, ironizza Allievo, «il Governo lascia alle Università il governarsi
da sé, purché si governino a modo suo»435. Il pedagogista guarda così al
modello medioevale, tornando a contestare l’idea secondo cui gli istituti
nascano per legge e non dalla libera associazione436. Conclude citando Villari,
correlando la mancanza di autonomia con la crisi dell’Università437. Un altro
aspetto che Allievo considerava illiberale e nefasto era il controllo dei libri
di testo, con cui il Ministero poteva indirizzare politicamente e culturalmente
l’insegnamento. Lo stesso pedagogista pubblicò un pamphlet nel quale difese un
saggio di un professore siciliano438 che, stando alla sua narrazione, incorse
ingiustamente nella censura ministeriale439 a motivo del suo orientamento filo
cattolico440. 435 Ibid., p. 7. 436 «Seguendo l'ordine numerico del disegno di
legge, passiamo all'art. 3 che suona cosi: “La creazione di nuove Università,
Istituti o Scuole d'istruzione superiore, o di loro Facoltà o sezioni, non
potrà avvenire se non per legge”. Anche qui abbiamo un segno del tempo.
Sentendo proclamare l'autonomia degli Istituti scolastici superiori, il nostro
pensiero corre spontaneo alle gloriose Università medioevali, che sorsero e
fiorirono non per decreti di Stato, ma per libero valore di insigni maestri, di
studiosi discepoli, di privali cittadini, fervidi amatori della scienza, e ci
immaginiamo di essere ritornati a quo' felici tempi di scolastica libertà.
Illusione! A nessuno si concede di creare nuove Università, o facoltà
universitarie, o Scuole d'istruzione superiore senza il placet regio o
parlamentare. Non si osa proclamare francamente e incisamente il principio, già
sancito dal Belgio coll'articolo 17 della sua Costituzione: “L'insegnamento è
libero; ogni misura preventiva è vietata”» Ibid., p. 7. 437 «Io potrei
proseguire più oltre la mia critica, ma dalle poche considerazioni, clic sono
venuto fin qui esponendo, emerge, per quel che a me ne pare, la conclusione,
clic la proposta autonomia è irretita fra tali e tante strettoie da essere
ridotta ad una vana parvenza, mentre la vigilanza dello Stato non ha confini,
che la circoscrivano, non ha norme, da cui sia vincolata. 11 segnare i giusti
limiti della vigilanza governativa, non è qui luogo da ciò: questo solo panni
di potere ragionevolmente affermare, che questo disegno di legge conferisce al
Governo poteri assolutamente inconciliabili colla autonomia universitaria
veramente intera. Qualche anno fa Pasquale Villari scriveva: “Dal 1850 fino ad
oggi, colle libertà, eolie nuove leggi, regolamenti e mutamenti, con nuovi
professori italiani e stranieri, noi non siamo ancora riusciti a far nascere
nelle nostre Università una vera vita scientifica : esse non rispondono
all'aspettazione giustissima del paese. E perché, dimando io? Perché il
Ministero arrogandosi il diritto supremo ed assoluto della pubblica istruzione
ed educazione, ha governato a sua posta le Università invece di mostrarsi
ossequente alla legge del 1850 non mai abolita, informata ai più larghi o
giusti principii di libertà /in nota cita il libro di Martelli, La decadenza
dell’Università italiana”» Ibid., p. 10. 438Si tratta del libro di G.B.
Santangelo, La Famiglia e la Scuola, letture proposte alle allieve delle classi
femminili, esercizi fondamentali di lettura, scrittura e calcolo per le
bambine, Palermo, Tip. M. Amenta, 1887. 439 G. Allievo, Clericalismo e
liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. G. B. Santangelo censurati dal
Ministero della Istruzione pubblica e difesi da Giuseppe Allievo, Palermo, Tip.
delle letture domenicali, 1888. 440 Nella relazione del Ministro in cui si
valutava negativamente il testo difeso dall’Allievo, si accusava il libro di un
certo «odore di sagrestia». A tale accusa, lo studioso piemontese replicò: «Ah
finalmente ecco qui la chiave omerica, che apre l’arcano di una critica
spigolistra, permalosa, assassina! L’Autore per ragione pedagogica e per debito
di programma ha qua e là nei suoi libri (e non dalla prima all’ultima parola,
come, bugiardamente asserisce il Relatore) parlato di Dio e delle cose sante:
dunque giù botte da orbo sulla sua mal battezzata cervice! In verità addolora
il vedere il Ministero suggellare coll’autorità sua il giudizio di chi parla un
linguaggio tanto plateale e lacera il primo articolo dello Statuto fondamentale
del Regno e l’articolo 315 della vigente legge organica della pubblica istruzione!
Ma già il sentimento religioso è puzza di sagrestia, che ammorba e va
proscritto in nome della nuova Igiene! L’Ermenegarda morente del Manzoni
sclamava: “Parlatemi di Dio, sento ch’ei giunge”: il moderno epicureo grida:
Non parlatemi di Dio, sento che mi si guasta la digestione. Se il Santangelo
fosse stato un prete spretato, che avesse gettato il tricorno alle ortiche,
o 112 L’unico momento in cui sembrò potersi fermare la parabola
monopolistica, fu la nomina a Ministro dell’istruzione del senatore palermitano
Perez nel luglio 1879. Il neoministro mostrò la volontà di mettere mano ad una
riforma della scuola volta a difendere il principio della libertà
d’insegnamento. L’Allievo prese subito le difese del Ministro in un articolo
pubblicato nella Gazzetta piemontese del 20 agosto e stese il saggio La riforma
dell’educazione moderna mediante la Riforma dello Stato, che trovò
l’apprezzamento del neoministro441. Gerini documenta come Perez avesse
l'intenzione di chiamare Allievo stabilmente al Ministero, con lo scopo di
redigere una riforma della scuola e dell’Università incentrata sulla libertà
d’insegnamento e contraria alla deriva monopolistica intrapresa dai suoi
predecessori442. L’Allievo fu infatti presto coinvolto nella compilazione di un
nuovo Regolamento per la licenza liceale in sostituzione di quello precedente
definito dal ministero Correnti nell’aprile 1870. Il nuovo regolamento, nel
quale Allievo ebbe «non poca e vivissima parte»443, intendeva ricondurre gli
esami di licenza liceale alla loro «primiera forma legale, allorquando l'alunno
privato si presentava a sostenerli presso qualunque pubblico liceo dello Stato
e senz'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso
triennio»444. Il suo scopo era quello di restituire più ampia libertà agli
studenti delle scuole non statali445. Il pedagogista documentò nel saggio sulla
legge Casati come il testo trovò il consenso della maggior parte dei
provveditori e dei presidi sui quali era stato fatto un sondaggio
preliminare446. Ma il progetto suscitò anche numerose polemiche447. Accusato
dagli ambienti liberal-democratici di voler favorire la scuola libera (e quella
cattolica in specie), a pochi mesi dal suo insediamento, già nel novembre 1879,
il Perez dovette abbandonare il un frate sfratato, che avesse bruciato il
convento per andare a godersi la vita, i suoi libri avrebbero incontrato ben
altro giudice ed altro mecenate» in G. Allievo, Clericalismo e liberalismo,
ossia i libri di lettura del prof. G. B. Santangelo, cit., p. 19. 441 In un autografo
del 9 agosto 1879 il Ministro scrisse ad Allievo «...m’accorgo come Ella sia
fra quei pochi cui non travolge la mente l’idolatria dello Stato onnipotente e
onnisciente» in A. Consorte, Scuola e Stato in Giovanni Allievo, cit., p. 53.
442 G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit., pp. 11-12. 443 G.
Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, cit, p. 36. 444
Ibid., p. 35. 445 Così il professore piemontese sintetizza i punti salienti del
Regolamento: «Gli articoli più sostanziali di esso Regolamento, che avrebbero
radicalmente mutato l'attuale sistema degli esami di licenza, sono: il quinto,
che restringe l'esame sulle materie nei limiti, in cui esse furono svolte nel
terzo anno, quando si siano superati gli esami di promozione dei due primi
anni; il settimo, che lascia libero il candidato privato di iscriversi presso
qualunque pubblico liceo del Regno; il nono, che lo proscioglie dall'obbligo
dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso triennio; il dodicesimo,
che incarica i professori liceali della preparazione di temi per le prove
scritte, ed inchiude l'abolizione della Giunta centrale» Ibid., p. 36. 446
Ibid., pp. 36-37. 447 «Eppure quel regolamento era un semplice richiamo alla
legge Casati: si intendeva di ricondurre gli esami d licenza liceale alla loro
primiera forma legale, allorquando l'alunno privato si presentava a sostenerli
presso qualunque pubblico liceo dello Stato e senz'obbligo dell'attestato di
licenza ginnasiale e del percorso triennio. E se ne fece una questione di
clericalismo, mentre era una questione di legalità» Ibid., p. 35.
113 dicastero448. Il caso sembra confermare quanto annotato da Giuliana
Limiti: «Il problema della scuola privata sembra essere fatale per la sorte di
taluni ministri della Pubblica Istruzione e qualche volta per la sorte degli
stessi governi!»449. Sebbene impossibilitato ad incidere effettivamente negli
indirizzi della scuola, la sua collaborazione con il Ministero continuò negli
anni seguenti. Come ricorda Prellezo: «nel 1884 esprime il suo parere sui
programmi delle Scuole normali; nel 1885 viene incaricato dal Ministro Coppino
dell’ispezione delle Scuole normali del Piemonte e della Liguria; nel 1887 lo
stesso Ministro Coppino lo chiama a far parte della Commissione reale per il
riordinamento della scuola popolare»450. Molto più duro fu il rapporto con il
Ministro Paolo Boselli, che guidò la Minerva dal 17 febbraio 1888 al 6 febbraio
1891, durante i due primi governi Crispi. Qualche mese dopo il suo
insediamento, Allievo criticò il Boselli a motivo della censura di un testo già
citato451. Questo iniziale contrasto probabilmente convinse il pedagogista
piemontese, chiamato a far parte della commissione presieduta da Pasquale
Villari per stendere i nuovi programmi delle scuole elementari, a non
partecipare a buona parte delle sedute. Pesò probabilmente la convinzione di
rappresentare un’esigua minoranza all’interno della commissione, formata in
larga maggioranza da studiosi di area laicista e positivista. Qualche tempo
dopo l’Allievo attaccò più severamente il Ministro con il pamphlet dal titolo
Lo Stato educatore ed il ministro Boselli452. Si tratta di un saggio con toni
molto 448Così commentò l’Allievo: «Il Ministro Perez, rara avis, ritornando al
concetto della legge arditamente si accingeva a spastoiare le scuole private ed
a redimere gli istituti governativi da quel formalismo artifiziato e da quel
enciclopedismo, che insieme congiuravano a sciupare gl’intelletti giovanili e
sfibrare i caratteri. Ma il dio Stato colpiva a mezzo del lavoro la mano
ribelle del suo Ministro. La genìa burocratica con ignobili e subdole manovre,
la stampa liberalesca con una critica sleale ed assassina lo precipitarono ben
presto di seggio miterandolo da clericale! Come avevano adoprato alcuni anni
prima verso il Ministro Berti, propugnatore sincero di libertà» in G. Allievo,
Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, cit., p. 4. 449G. Limiti, Momenti e
motivi della legislazione sulla scuola non statale in Italia, in S. Valitutti
(ed.), Scuola pubblica e scuola privata, Bari, Laterza, 1965, p. 133. 450 J. M.
Prellezo, Giuseppe Allievo negli scritti pedagogici salesiani, cit., p. 396.
451Introducendo il lavoro Allievo denuncia: «Questa turba liberalesca altro non
vede e non adora che se medesima, e va gridando: l’Italia siamo noi, noi siamo
il patriottismo, la libertà, la Costituzione, lo Stato: chiunque non ci
appartiene è nemico della patria, chi non è con noi, è contro di noi. Sì, i
clericali sono contro di voi, perché i nemici della patria siete voi, voi i
demolitori delle franchigie costituzionali e della indipendenza politica, gli
oppressori della libera attività dei privati cittadini. Oh benedette
rimembranze del 1848, allorchè si vagheggiava, anelando, un ideale di unità e
di floridezza sociale, di dignità e di indipendenza nazionale, di vera e larga
libertà politica e civile, sorretta dalla religiosità e dall’integrità del
costume! In omaggio a quell’ideale languivano nelle carceri del dispotismo
austriaco o cadevano decapitati sul palco i martiri italiani; cimentavano sui
campi lombardi la vita contro gli stranieri i prodi. Orta quel santo ideale
conquistato con inauditi sacrifici di sangue e di danaro, è buttato nel fango
da una turba di affamati, di ambiziosi e di settarii» in G. Allievo, Clericalismo
e liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. G. B. Santangelo censurati
dal Ministero della Istruzione pubblica e difesi da Giuseppe Allievo, cit. 452
Solo la prima parte del saggio, intitolata Lo Stato educatore, è stata
ripubblicata in G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., pp. 50-70.
114 aspri, ma composto da critiche precise e circostanziate come è stato
notato da Bonghi453. Nel saggio ribadì le accuse al sistema statolatrico
italiano e stigmatizzò una serie di provvedimenti emanati dal Ministro: criticò
il decreto 9 maggio 1889 il quale prescriveva che, per le sole scuole statali,
la licenza elementare fosse titolo sufficiente per l’ammissione alla prima
classe del ginnasio e della scuola tecnica; contestò la circolare dell’8 agosto
1889 con cui, in mancanza di maestri legalmente abilitati, dava la possibilità
ai militari congedati che avevano superato l'esame prescritto per gli aspiranti
sergenti, di insegnare nelle scuole assicurando la metà della copertura con
fondi ministeriale, al contrario di quanto avveniva per gli altri insegnanti;
protestò contro una circolare ministeriale nella quale, a dispetto dell’art.
325 della legge Casati, s’impediva ai parroci di presiedere gli esami di
istruzione religiosa; recriminò che il corso di pedagogia non risultasse tra i
corsi obbligatori per il conseguimento della laurea in Lettere e Filosofia454.
Criticò, inoltre, i toni di una circolare del 20 febbraio 1889 finalizzata al
riordino degli Orfanotrofi e dei Conservatorii e stigmatizzò la «faziosità» con
cui il Ministro gestì i trasferimenti tra le diverse Università per influenzare
le vicende concorsuali. Questi elementi condussero Allievo a tacciare Boselli
di «cesarismo scolastico». In conclusione avanzò una proposta provocatoria e
risoluta: «Delenda Carthago. Il ministero della pubblica istruzione va
annullato»455. La proposta dell'abolizione del dicastero, peraltro avanzata già
in Parlamento il 18 giugno 1867 dal deputato libertario e socialista Salvatore
Morelli, non rappresentava in effetti agli occhi di Allievo la condizione
ideale per il governo dell’istruzione pubblica, ma costituiva la fatale
soluzione alla «metastasi statalista» che soffocava la scuola italiana456.
Confermò le stesse posizioni in un 453 Commentando il saggio, il Bonghi osserva:
«L’Allievo è professore di pedagogia come tutti sanno, e tanto ha scritto della
scienza che professa, e posto molta cura a’ problemi, che vi si trattano, da
meritare, di certo, che un suo studio sulla materia dell’educazione, teorica e
pratica, non passi inosservato. Quello che annunciamo, è diviso in due parti.
Nella prima tratta la questione se e quale parte spetti allo Stato
nell’educazione; e viene alla conclusione media e vera, che la suprema autorità
scolastica risiede nella famiglia, e allo Stato spetta un ufficio complementare
e di vigilanza. La seconda è una critica minuta – e talvolta, il che non è
bene, acre – della condotta dell’attuale ministro di Pubblica Istruzione. Né si
può negare che una buona parte dele osservazioni sia giusta, e a ogni modo
consigliamo il ministro di darvi peso, e non immaginarsi, che, prima o dopo,
non ne avranno. Soprattutto le considerazioni intorno al concetto e alla
condizione dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari, come appaiono
nelle più recenti circolari del ministro, ci paion degne ch’egli vi rivolga la
sua attenzione» R. Bonghi, Idee di G. Allievo circa la libertà d’insegnamento,
cit., p. 603. 454 Sullo stesso tema il pedagogista aveva già scritto un
pamphlet: G. Allievo, Il ministro Coppino e la pedagogia, Torino, Borgarelli,
1878. 455 G. Allievo, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, cit., p. 44.
456 Concludendo il saggio Allievo ricorda la sua fedeltà alle istituzioni dello
Stato Italiano: «Pubblicando questo lavoro io non ho inteso di venir meno ala
ragionevole riverenza dovuta all'autorità ministeriale; e ne fa prova manifesta
il rispetto, che io professo sincero per le leggi dello Stato, per le patrie
istituzioni, per le franchigie costituzionali, per la nazionale indipendenza.
Ho censurato gli atti governativi adoperando quella crudezza di forma, che
risponde alla gravità del male, esercitando un diritto, che lo Statuto
conferisce ad ogni libero cittadino, adempiendo un dovere impostomi dalla
carità del loco natio e dalla coscienza del mio mandato. Ho parlato il
linguaggio dei fatti; ed i fatti li smentisca chi può, li riconosca chi
deve. 115 articolo del 1910, intitolato Salviamo la scuola!, nel
quale dopo essersi soffermato sulle storture della scuola statale e sul suo ordinamento
illiberale ritornò a prospettare la soppressione del Ministero457. Un attacco
così diretto non restò senza conseguenze. All’opuscolo del pedagogista replicò
infatti un libretto anonimo intitolato Lo Stato educatore – botte di un
educatore – risposte di un educato458 che, stando al Gerini, sarebbe stato
redatto negli uffici del ministero. La risposta alle critiche è non solo
pungente quanto, del resto, le denunce dell’Allievo, ma scade a livello di
attacco personale. Oltre a difendere ogni singolo provvedimento annotato dallo
studioso vercellese, l’autore si abbandona alla denigrazione della sua attività
didattica e scientifica: «Ha una famiglia pedagogica l’Allievo? No. E la
ragione è una sola, ed è naturale e chiara, non si può dar famiglia senza
amore. Omnia vincit amor. Ma l’Allievo non ha amore, se non verso sé
medesimo»459 [...] «Il sentimento che noi scorgiamo nel prof. Allievo non è,
no, mal volere; è piuttosto un affetto immoderato che lo muove a far troppo di
sé centro a sé stesso; talmente che egli rende, senza forse accorgersene,
l’immagine dantesca di cosa che sé in sé rigiri; e rigirandosi, egli nella sua
vaga visione si esalta così, che gli par di poggiare su, ad un punto superiore
a quello di chi nella scala sociale e nella realtà dei fatti è più alto di
lui»460. L’acida polemica continuò con un ulteriore passaggio in una replica
dell’Allievo nel breve saggio: Risposte di un educato: un educato. Fin dalla
prima pagina lo scritto era poco conciliativo, sia nel difendere le sue tesi
sia nel contestare le accuse, così chiosando ironicamente lo statalismo
ministeriale: «Beati i popoli (ripiglio io), retti da un governo così raccolto
ne’ suoi giusti confini, così ossequiante alle leggi ed ordinato in ogni atto
suo, così alieno dallo esclusivismo e tanto rispettoso della libera attività
de’ cittadini All'educazione nazionale peggior ventura che quella del Ministero
di Paolo Boselli non è toccata mai» Ibid., p. 45 457 «Il dilemma si affaccia
irrevocabile. Delenda Carthago! L’abolizione del Ministero di pubblica
istruzione si impone imperioso, urgente, indeclinabile. La salute della nostra
grande ammalata, che è la scuola, è a questo prezzo. Per questa via sola si
giunge a smantellare la roccia della vastissima setta, che impera sovrana alla
Minerva. Dacchè il parlamentarismo rasenta la bancarotta, può ben far senza di
un Ministero, liberandoci da quella smania di legiferare, da quel subisso di
leggi e regolamenti e decreti e circolari scolastiche , che intralciano il
regolare processo della pubblica istruzione e comprimono la libertà degli
studi» Salviamo la scuola! in «La libertà d’insegnamento. Bollettino
trimestrale della “Unione pro Schola Libera”», Torino, Tip. S.A.I.D, n. 2,
1910, pp. 14-15. 458Lo Stato educatore – botte di un educatore – risposte di un
educato, Roma, Stabilimento Giuseppe Civelli, 1890. 459 Ibid., p. 54. 460
Ibid., p. 55. 116 segnatamente nel campo pedagogico, che alla
famiglia non venga impedito di comporsi nell’ordine suo ed adempiere la sua
missione educatrice»461. L’anno seguente tornò a criticare il Ministro Boselli
sulle pagine de Il nuovo Risorgimento462. Alle accuse precedenti ne aggiunse
altre come quelle circa l’ingerenza della Minerva sulla scuola dell’infanzia,
la nomina di un impiegato di biblioteca ad ispettore scolastico di prima
classe, e il fatto che «il ministro Boselli con una sua ordinanza deferiva
l’anno scorso alle singole Commissioni esaminatrici la proposta dei temi per le
prove scritte della licenza liceale, offendendo l’articolo 38 del R.
regolamento 23 ottobre 1884 allora vigente»463. Si trattava secondo l’Allievo
della persistenza di una serie di «abusi del potere esecutivo», in cui scorgeva
il tradimento dello Stato di diritto e della libertà: «L’Italia è tutta infesta
da una turba di pseudo-liberali, che la libertà fanno strumento di servitù, e
della patria, delle franchigie costituzionali, delle leggi dello Stato si fanno
sgabello per salire in alto sitisbondo di dominio e di oro, corrompendo il
pubblico costume e le istituzioni politiche e civili della nazione»464. Un
altro episodio che segnò lo scontro con la Minerva, risale al pensionamento di
Allievo, quando il dicastero era guidato dall’onorevole Credaro. Nel corso del
1912 il pedagogista, ormai anziano e con poche forze, chiese al Ministero che
gli affidasse un sostituto. La Facoltà nominò il pedagogista Romano, «ex»
spiritualista e cattolico convertito al positivismo. Lo studioso era già stato
bocciato in una serie di concorsi per conseguire la libera docenza a Torino,
Milano, Palermo e Bologna. A Catania addirittura tutti e cinque membri della
commissione esaminatrice diedero esito negativo. La nomina di un candidato
simile come suo supplente, peraltro agli antipodi rispetto alla sua linea
pedagogica, portò l’Allievo a prendere dura posizione contro la Facoltà e il
preside Vidari, e poi a chiedere di andare definitivamente in pensione, per
impedire al Romano di insegnare sulla sua cattedra. Raccogliendo una serie di
articoli apparsi su giornali e riviste come Italia Reale, L’Unione di Vercelli,
Il Momento, Il Corriere d’Italia, I diritti della scuola Studium, fu pubblicato
un pamphlet sulla vicenda465. Furono inserite anche due lettere inviate da
Allievo a due di queste riviste come ringraziamento della solidarietà
dimostrata, e un piccolo scritto dallo stesso pedagogista in cui chiariva
ulteriormente i contorni della vicenda. La posizione di Allievo sulla vicenda è
molto significativa: 461G. Allievo, Un educato anonimo, Torino, Tip. Subalpina,
1890, p. 7. 462 G. Allievo, Il Ministro Boselli e la legge, «Il nuovo
Risorgimento», 1890-1891, pp. 165-172. 463 Ibid., p. 168. 464 Ibid., p. 171.
465 Giuseppe Allievo e la sua cattedra, Torino, Tip. S, Giuseppe degli
artigianelli, 1912. 117 emergono sia un vivo attaccamento
all’impegno pedagogico e magistrale466, ma anche forti dissidi con l’ambiente
universitario. Nelle sue ricostruzioni Allievo attribuì a Giovanni Vidari,
allora preside della Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino, la
responsabilità dello smacco subito467, collegando l’appoggio da parte del preside
del Romano e un generale poco rispetto dimostrato anche con altri episodi, in
virtù della sua aderenza ai principi spiritualisti e alla sua fede468. Un altro
testo in cui attacca il Ministero è il testo Del realismo in pedagogia469, nel
quale contesta le posizioni espresse da De Sanctis in uno scritto del 1878
pubblicato ne la «Gazzetta letteraria di Torino», in cui lo statista napoletano
sosteneva come la classe magistrale dovesse ispirarsi ad un realismo di
impronta pragmatista. L’Allievo era invece convinto che l’anima della scuola
poteva essere un solido ideale umano. Senza valori certi, 466 Si tratta di una
lettera inviata a l’Unione di Vercelli, per ringraziare delle parole in sua
difesa. Scrisse: «Io non sono più maestro. Non è la morte, che mi abbia rapito
alla cattedra, ma è qualche cosa di peggio. In questi ultimi anni la mia vita
universitaria fu amareggiata da grandi dolori. Pur tuttavia avrei continuato
nel mio insegnamento; ma quando mi si volle imposto per supplente un rifiuto di
tutti i concorsi universitari, a cui egli si è presentato, esclamai: Basta
così; e mi ritirai nel santuario della vita privata, abbandonando alla
dimenticanza ed all’oblio quei tra infelici che malignavano sulla mia persona.
[...] Abbandono con certo qual rammarico la cattedra, che per più di
cinquant’anni mi fu cara compagna di lotta del pensiero, nella conquista della
verità, e vedendo scomparire a me d’intorno quella folla sempre nuova di
giovani studiosi che nel volgere degi anni veniva ad ascoltare la mia povera
parola, mi pare quasi che la mia vita si spenga nell’isolamento. No, non si
spegne, ma semplicemente si trasforma. [...] Veggo che la mia più che
attuagenaria esistenza volge al tramonto, ma io mi esalto pensando al Divino
Maestro, al Pedagogo eterno, al Verbo vivente, al Redentore dell’umanità»
Ibid., pp. 6-7. 467 Dopo aver accennato i concorsi falliti da Romano, Allievo
commenta l’ultimo a Catania «quest’ultimo poi gli fu veramente disastroso, non
avendo riportato nemmeno un voto favorevole. Tanto è che coloro stessi fra i
miei colleghi che per lo passato lo avevano sempre protetto e difeso a spada
tratta, in faccia a quel disastro esclamarono: È un uomo liquidato! Ma che?
Questi medesimi lo proposero per mio supplente e poi riuscirono ad insediarlo
sulla Cattedra di Pedagogia da me lasciata vacante. Viva la libertà del dire e
del disdire! Il Romano deve il presente suo splendido successo al Presidente
Vidari, il quale rifiutando di interpellarmi intorno la scelta del mio
supplente, sostenne in Consiglio di Facoltà insieme con sei altri professori
presenti all’adunanza (senza contare tre altri, che diedero voto contrario) che
fosse proposto il libero docente, fallito in tutti i concorsi universitari di
pedagogia specie in quel disastroso di Catania» Ibid., cit., p.12. 468 Allievo
riporta nello scritto un brano di una lettera uffficiale scritta da Vidari in
occasione delle sue dimissioni, e così la lo commenta: «Egli mi rivolse un
saluto perché abbandoni l’Università, ma non aggiunge sillaba, che esprima il menomo
rincrescimento di aver perduto in me un collega, e quando presentai le mie
dimissioni non mi ha significato il menomono desiderio che fossero ritirate.
L’augurio anche’esso mi sa di forte agrume. Che nel placido riposo io possa
lungamente deliziarmi nei prediletti miei studi? – Ma questi cari miei studi
prendono forma e vita dalla pedagogia italiana tradizionale fondata sul teismo
cristiano. Ora questa pedagogia l’avete cacciata via dalla mia Cattedra per
fare luogo alla dottrina razionalistica del mio supplente, sicché l’augurio a
me rivolto viene a tradursi in questi termini: Deliziati senza fine negli studi
tuoi, ma non qui in queste aule universitarie in mezzo a noi e nella realtà
della vita sociale, ma in mezzo alle mi- stiche regioni del soprannaturale,
nelle sedi beate dei Campo elisi conversando cogli spiriti magni di Ferrante
Aporti e di Giovanni Antonio Rayneri. Sì, io serberà sempre viva la mia ragione
filosofica sorretta dalla fede religiosa in Cristo; ma voi vi vantate
razionalisti e calpestate la scienza collocando sulla cattedra chi non la
possiede; voi esaltate la libertà del pensiero, e v’inchinate a tutte le
dottrine, fossero pur dissolventi e scettiche: soltanto il pensiero cristiano
non trova grazia presso di voi.» Ibid., p. 21. 469 G. Allievo, Del realismo in
pedagogia, Torino, Roux e Favale, 1878 inserito in Id., Opuscoli pedagogici,
cit., pp. 422-426. 118 si sarebbero abbandonate le giovani
generazioni a progetti e prospettive volgarmente materiali e pragmatiste, condannandole
all’alienazione. All’inizio del Novecento la battaglia dell’Allievo in favore
della libertà d’insegnamento si tradusse – per quanto egli fosse già avanti
negli anni – nel sostegno alla fondazione, nel 1907, dell’associazione «Unione
pro schola libera. Società nazionale per la libertà d’insegnamento», fermamente
voluta da don Giuseppe Piovano e dal prof. Rodolfo Bettazzi, finalizzata
diffondere le ragioni della libertà scolastica, contro lo statalismo e i suoi
fautori. Allievo fu scelto come «presidente generale effettivo», carica che
ricoprì solo per un anno, dopo il quale si allontanò progressivamente dal
nucleo direttivo e organizzativo dell’associazione, a cui continuarono a
legarlo comunque lo spirito e le motivazioni di fondo. Nel 1910 iniziò ad
essere pubblicato anche il Bollettino dell’associazione, La libertà
d’insegnamento470, un trimestrale a diffusione nazionale pubblicato
inizialmente in circa tremila copie. La nascita e l’attività del sodalizio
ebbero notevole risonanza contribuendo a vivificare il dibattito sulla libertà
scolastica che stava registrando in quegli anni una notevole ripresa471. In un
convegno svoltosi a Genova tra il 28 e il 30 marzo 1908, dal titolo Istruzione
ed educazione cristiana del popolo italiano gli eredi dell’Opera dei Congressi,
confluiti nelle Unioni Cattoliche, lodarono l’iniziativa dell’Allievo e nella
seconda delle tre risoluzioni fu sancito uno stretto rapporto con l’Unione
torinese. «La Civiltà Cattolica» – che a lungo aveva praticamente ignorato le
tesi dell’Allievo – dedicò al Convegno un articolo, riportando le conclusioni
dell’assise cattolica ed encomiando l’operato dell’Allievo e dell’«Unione pro
schola libera»472. Appaiono significative le affermazioni conclusive
dell’articolo, nel quale si celebrano affianco agli allievi i più importanti
rappresentanti del cattolicesimo liberale francese473. 470 G. Chiosso (ed.), La
stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), cit., p. 398. 471 G.
Chiosso, Gentile, i cattolici e la libertà di insegnamento nei primi anni del
Novecento, in G. Spadafora (ed.), Giovanni Gentile. La pedagogia, la scuola,
Roma, Armando, 1997, pp. 309-315. 472 Nella seconda delle tre risoluzioni fu
scritto che il Congresso «Plaude all’Unione pro schola libera sorta in Torino
sotto gli auspici del venerando prof. Allievo, e a tutte le altre istituzioni
aventi lo scopo di tutelare i diritti dell’insegnamento libero; Fa voti che
l’azione in favore della scuola libera sia efficacemente coadiuvata dai padri
di famiglia, dagli insegnanti degli istituti privati e specialmente dall’azione
illuminatrice della stampa quotidiana; Delibera di affidare all’Unione stessa
l’incarico di studiare ed attuare quei mezzi pratici, che valgano a salvare
quanto resta ancora di libertà d’insegnamento nella vigente legislazione e di
ottenere dai pubblici poteri quegli immediati temperamenti, che servano a
sopprimere le più odiose disposizioni regolamentari contro l’insegnamento
privato» Il congresso cattolico di Genova, «La Civiltà Cattolica», quaderno
1388, 1908, vol. II. pp. 140-150. 473 Scrive l’autore dell’articolo: «Dopo
queste semplici osservazioni intorno alla prima risoluzione, lasciamo ai
lettori di apprezzare l’importanza della seconda risoluzione del congresso; in
cui si traggono con un senno pratico degno di ogni encomio, le conseguenze
legittime del principio fissato nella prima. Quale campo fecondo di attività,
non meno benefica che urgente nelle singole deliberazioni di questa
seconda 119 Fu a partire da questo periodo che il pensiero
pedagogico del pedagogista vercellese iniziò a essere apprezzato e diffuso
anche al di fuori del circuito del cattolicesimo liberale. Lo confermano una
serie di articoli pubblicati sulla «Civiltà Cattolica»474, l’attenzione delle
«Rivista di Filosofia neoscolastica»475, i meriti riconosciutigli da Filippo
Meda476, e un celebre saggio di Giuseppe Monti, La libertà della scuola (1928)
in cui si trovano citati gli scritti di Allievo e si ricordano le sue battaglie
scolastiche477. Nel frattempo Giuseppe Allievo aveva lasciato questo mondo, il
24 giugno 1913. risoluzione! Le ponderino attentamente i cattolici
italiani; i giornalisti, i conferenzieri e gli stessi sacerdoti, in Chiesa e
fuori di Chiesa, ne facciano il soggetto del loro apostolato, finché il popolo
se ne impossessi e ne sappia fare buon uso specialmente in tempo di elezioni:
da ciò dipende la salvezza della gioventù e della patria! Noi ne siamo sì
profondamente persuasi, che non possiamo fare a meno di mandare da queste
pagine un saluto e un augurio solenne all’Unione pro schola libera di Torino e
al suo venerando presidente prof. Giuseppe Allievo, il più illustre pedagogista
che oggi vanti l’Italia, degno rappresentante delle tradizioni filosofiche ed
educative veramente italiane; la cui fama è pur troppo assai inferiore al
merito, perché ingiustamente eclissata dal predominio del positivismo anglo –
sassone e teutonico negli atenei e nelle scuole normali del regno. Possa il suo
nome tramandarsi ai posteri con quelli del Montalembert, del Falloux e del
Dupanloup per la Francia, come simbolo della conquistata libertà d’insegnamento
per l’Italia!” Il congresso cattolico di Genova, cit.. pp. 147-148. 474In tre
articoli pubblicati nel 1915 sulla pedagogia contemporanea sono citate le opere
di Allievo e le sue critiche al positivismo. Cfr: Linee di pedagogia moderna,
cit., pp. 530-543; Finalità educative, quaderno 1568, 1915, vol. IV, pp.
129-146; L’opera educativa positivista, quaderno 1570, 1915, vol. IV, pp.
397-411. 475 G. Cannella, Opuscoli pedagogici inediti ed editi di Giuseppe
Allievo, cit., pp. 208-209. 476 F. Meda, Universitari cattolici italiani, cit.,
pp. 197-214. 477 G. Monti, La libertà della scuola, principi, storia,
legislazione comparata, Milano, Vita e Pensiero, 1928, pp. 4, 7, 206.
Antropologia e di pedagogia nell'Università di Torino
Torino,Carlo,Clausen 1896. In un'opera assai importante pubblicata nel 1891 (1)
dall'illustre prof. Allievo, della quale ho a suo tempo discorso in questa
autorevole Rivista,leggeşi un capitolo inscritto: Prime origini dei problemi
psico. fisiologici,checontieneingermelamateria della presente memoria, la quale
richiama a sè l'attenzione di tutti coloro che s'interessano dei più gravi
problemi della scienza antropologica. Pigliando le mosse dall'origine storica e
psicologica dell'Antropo logia,dellaqualedeterminapurei limiti,l’A.poneinsodo
ilVero, l'incerto e l'ignoto di questa disciplina, per dichiarare quindi l'ana.
logia tra il mondo esteriore della natura ed il mondo interiore del l ' a n i m
a . M a s e il m o n d o e s t e r n o e d il m o n d o p s i c o l o g i c o i
n t e r i o r e si rispecchiano e si rassomigliano sotto certi riguardi, tra
l'anima ed il corpo nell'uomo, intercedono analogie assai più intime, spiccate
e na• turali, intorno alle quali si trattiene a lungo l'Allievo. Ora uno dei
più cospicui punti di corrispondenza tra l'anima ed il corpo si manifesta nel
parallelismo di sviluppo attraverso le successive età della vita umana :
parallelismo però, che non è nè assoluto, nè continuato,tanto meno poi
un'identità. Un'altra corrispondenza è quella che intercede tra la mente sada
edilcorposano,tralemalattiedell'anima oquelledel corpo.L'A.
(1)Studiantropologici– L'uomoedilCosmo Unvol.in8gr.dipag.450circa Torino
Tipogr.Subalpina editrice. Psicologia. Studi psico-fisiologici. Memoria
di GiusePPE ALLIEVO, professore BOLLETTINO PEDAGOGICO E FILOSOFico.
89 ripone la sanità della mente nell'armonico e regolare sviluppo della
medesima,elasanitàdelcorpo,nell'equilibriooperosodelle funzioni fisiologiche.
Conseguentemente distingue una duplice specie d'igiene, di patologia e di
terapeutica,corrispondenti alle due sostanze componenti l'essere umano.Anche
iduestati dellavegliae delsonno sicorrispon dono fra di loro, essendochè su
ciascuno di essi le potenze dell'anima elefunzionidell'organismosimostranosottoforme
specialiedana. loghe.Lo spiritopoiedilcorpointuttoilcorsoascensivodelloro
perfezionamento si prestano vicendevoli uffici, poichè lo spirito deve ai sensi
esterni la prima conoscenza del mondo sensibile corporeo ; alla parola, che è
un segno sensibile ordinato ad esprimere un intel
ligibile,losvilnppodelsuopensiero;alla mano (nellacuistruttura Elvezio non
dubitava di riporre la superiorità dell'uomo sul bruto) lo strumento della sua
attività artistica e morale. Lo spirito alla sua volta ricambia dei suoi
servigi ilcorpo,inpalzandolo alla dignità prco pria della persona umana,e
conferendogli virtù singolari,assai supe jiori alla sua costitutiva essenza.
Iofatti il corpo umano, informato dalla mente che lo governa, è reso capace di
compiere azioni a cui non arrivano i corpi dei bruti, sia che venga riguardato
nell'intiera compagine del suo organismo, sia che lo si consideri nella
speciale struttura delle sue parti e nelle funzioni de'suoi sensi particolari.A
questo punto l'A. richiama ad un'ordinata rassegna la molteplice varietà dei
fenomeni, che si svol gono nell'interiorità del nostro essere, e che forniscono
argomento di una specialedisciplina,lapsico-fisiologia,dellaqualetraccialelinee
generali,nonsenzaavvertirechediessaainostri tempitrovansicenai nelSaggio
sui'principiiedilimitidellascienzadeirapportidelfisico e del morale del Cerice,
e più ancora nei Principi generali di psico login fisiologica di Ermannu Lotze.
La scienza psico-fisiologica, dice l'A.,suppone come sua condizione la
psicologia e la fisiologia e facendo tesoro delle cognizioni che le ammannisce
l'unaintorno all'anima umana,l'altra intornoall'organismo corporeo,s'innalza a
studiare ilsupremo principio generatore di tutti i fenomeni della vita umana
che forma il problema fondamentale di tale disciplina.Ilquale può ricevere due
soluzioni principali, secondo che ilprincipio generatore di tutti ifenomeni
riponsi in una sostanza o n e i f e n o m e n i s t e s s i : n e l p r i m o c
a s o a b b i a m o il d i n a m i s m o , n e l s e condo
ilfenomenismo.Iiprimo può essere monodinamismo,se ricon duce tutti i fenomeni
umani ad una sola sostanza, la quale potendo essere o l'anima od ilcorpo,
bipartisce il monodinamismo in animismo e materialismo : duodinamismo se pone una
differenza essenziale tra ifenomeni mentali ed ifisiologici. Il
fenomenismo si bipartisce pure, potendo essere dualistico od e
voluzionistico,secondo che riconosce una linea di distinzione traidue ordini di
fenomeni, ovvero sostiene che sitrasformano gli uni ne gli altri. L'Allievo
esamina con siogolare lucidezza di pensiero e grande chiarezza d'esposizione
queste diverse classi di sistemi psico-fisiologici, considerandoli nei loro più
noti rappresentanti ; ed è degno di consi derazione l'esame della dottrina di
Rosmini su questo punto. Venendo allo scioglimento del problema,vuolsi
distinguere il duodinamismo e s c l u s i v o d a l t e m p e r a t o . O r a s
e il p r i m o n o n r i s o l v e il p r o b l e m a p e r c h è separa l'uno
dall'altro idue principii costitutivi dell'uomo, per guisa
chel'animarazionaleècausaunicaessasoladituttiesoliifenomeni mentali e non
interviene per nulla nella produzione dei fenomeni fisio
logiciedanimali,ilprincipiovitalepoièessosolo ilgeneratore dei fenomeni della vita
corporea e mantiensi affatto estraneo ai fenomeni mentali ; il secondo pel
contrario siccome quello che mantiene distinti i due principii costuitutivi
dell'uomo, e riconosce ad un tempo la loro
vicendevoleinfluenza,talchèifenomenimentalisicompenetrano coi fenomeni animali
e si condizionano a vicenda, dà un'equa soluzione al problema. a C o s i , c o
n c h l u d e l ’ A ., il c o n c e t t o d e l l a p e r s o n a l i t à u m e
n a , v a l e a dire di un soggetto sostanziale fornito d'intelligenza e di libera
volontà, èilsolo,checonciliila'molteplicitàdei fenomoni coll'unitàdelloro umano
soggetto, sicchè questi due termini nello sviluppo della vita umana, si
mantengono indiegiungibili, e si rischiarano l'un l'altro. Su questo concetto
si fonda appunto la notissima divisione della psi cologia in empirica e
razionale.» Tale è nelle sue linee generali lo studio dell'insigne filosofo
subal pino che mostra un ingegno vigoroso sempre ed acutissimo:e siamo certi
che l'accoglienza fatta alle altre opere di lai, sarà rinnovata per questa
memoria,nella quale si scrutano ipiù ardui problemi della scienza dell'uomo.Giuseppe Allievo. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Allievo” – The Swimming-Pool Library.
Allmayer (Palermo).
Filosofo. Grice: “I like Allmeyer; especially his rambles on Roman philosophy
when he taught at Rome – ‘La filosofia romana’ has a very datable beginning:
that infamous embassy that terrified the old Romans but charmed the younger
ones, such as Scipione!” -- Grice: “Due
to Gentile, Allmaayer was forced to focus on Italian philosophy, and Gentile
allowed him to call Galileo a ‘filosofo’! – Grice: “Allmayer’s pragmatics is
Griceian: there is a colloquium, when a ‘soggeto’ empirico recognises another
soggesto empirco (il tu del’io) – and they shape a ‘noi’ – for this he appeals
to concepts of objectivity as intersubjectivity – If I imply, it is the
UTTERE’s expression and implication that is primary, but I INTEND my
implicature to be reccognised by the ‘tu’ – and this does not ‘alienate’ my
concrete subjectivity – it does not vanish – it is merely re-invoked by the
other – ‘invoke’ being a linguistic term – vox –: this is what the ‘assoluto’
stands for, that terrified Bradley!” -- Grice:
“I love the fact that Allmayer taught the history of logic, with a focus on
‘stoic’ logic – and it’s only natural that ‘stoicismo’ was his favourite stage
in Roman philosophy!” – Grice: “Oddly, Allmayer has a genial commentary on my
favourite of Arisotlte’s treatises and the foundation of my method in
philosophical psychology – “De Anima””! Fu insieme a Gentile, e altri filosofi,
uno degli esponenti di spicco della corrente filosofica detta attualismo. Nacque
a Palermo da Giuseppe Emanuele Fazio, originario di Alcamo (ex garibaldino e in
servizio presso il Museo nazionale di Palermo) e da Felicina Allmayer, di
origine tedesca, ma residente in Italia. Fin da ragazzo si interessò alla
storia dell'arte; a 23 anni si laureò in giurisprudenza ma poiché era
appassionato alla filosofia, iniziò subito gli studi filosofici e a frequentare
la Biblioteca filosofica di Palermo, dove ebbe modo di conoscere Giovanni
Gentile. Nel 1910 l'Allmayer si laureò in filosofia e iniziò la carriera
come professore: nel 1914 passò al liceo "Umberto I" di Palermo, dove
cominciò la sua ricca produzione saggistica che lo rese famoso in Italia.
La sua carriera continuò a Roma; subito dopo la caduta del fascismo, nel
novembre 1943, il Fazio Allmayer fu sospeso dall'insegnamento; per essere
reintegrato dopo la fine della guerra. Dopo un periodo travagliato della
sua vita, negli anni Cinquanta riprese la molteplice attività di saggista e
critico, oltre che di docente. Nel 1915 si era sposato con Concettina
Carta, con cui ebbe tre figli. Nel 1953, rimasto vedovo, si sposò in seconde
nozze con Bruna Boldrini che, conosciuta col cognome acquisito, è stata tra i
maggiori critici del Fazio e ne ha promosso un'edizione completa delle Opere
(I-XXII, Firenze 1969-1991). L'Allmayer, colpito da infarto tre anni
prima, morì a Pisa nel 1958. In memoria di questo insigne filosofo e
pedagogista di origine alcamese, il Liceo Statale delle Scienze Umane,
Economico Sociale, Linguistico, Musicale (ed autorizzato per le Arti
coreutiche) è stato intitolato al suo nome. Carriera 1910: Professore
presso il liceo di Matera 1911: professore al liceo di Agrigento, vinse nello
stesso anno una borsa di studio per perfezionamento presso l'Roma 1914 docente
presso il liceo "Umberto I" di Palermo 1918: libero docente di storia
della filosofia a Roma 1919: trasferito a Palermo, fu condirettore del
Giornale critico della filosofia italiana, fondato da Gentile e diretto dallo
stesso prima di essere ministro. 1921-1922: docente di filosofia presso
l'Palermo 1922-1924: docente di storia della filosofia (con corsi su Bacone e
sui sofisti e Platone) presso l'Roma, in sostituzione di Gentile e incaricato
di pedagogia al magistero di Roma. 1924: collaboratore di Gentile per la
riforma scolastica e, con l'incarico di ispettore centrale degli istituti medi
di istruzione, ebbe affidata la redazione dei programmi della scuola media.
1925: professore non stabile di storia della filosofia medievale e moderna
1929: ebbe la cattedra di filosofia teoretica in sostituzione di Pantaleo
Carabellese 1939: preside della facoltà di lettere 1925-1931: commissario per
l'amministrazione straordinaria della sezione arti decorative, annessa alla
Scuola artistica e industriale di Palermo dal 1931 in poi: commissario
governativo per l'Accademia di Belle Arti. 1943: sospeso dall'insegnamento e
reintegrato dopo la fine della guerra 1951: cattedra di storia della filosofia
dell'Pisa 1954: direttore dell'istituto di filosofia. Pensiero filosofico Il
tramonto del Positivismo e l'amicizia con Gentile lo portarono a un impegno
ideologico a favore dell'attualismo che sembrava poter portare a un
rinnovamento culturale e civile; secondo l'attualismo, era l'atto del pensare
in quanto percezione, e non il pensiero creativo in quanto immaginazione, a
definire la realtà. Assieme a Gentile e Guido De Ruggiero, fu uno dei
sostenitori di quell'attualismo che "aveva tutta la seduzione romantica e
tutta la fiducia ottimistica a trarre a sé... i migliori dei giovani scontenti,
quelli che non si muovevano verso D'Annunzio o Marinetti", e nel 1914-15
appoggiò apertamente, anche con conferenze, l'intervento dell'Italia nel
conflitto mondiale, ma venne riformato alla visita militare. Nelle parole
di Bruna Boldrini, moglie del filosofo, che tendeva a sottolineare la
sostanziale autonomia della ricerca del Fazio dalla metafisica di Gentile, il
Fazio-Allmayer giunge a giustificare l'esperienza storica come vita concreta,
in cui le molteplici e diverse forme confluiscono in un rapporto
intersoggettivo, sintesi etico-estetica, nella specificità di ciascuna (p. 35).
D'altronde, anche Benedetto Croce, fin dal 1922, in una recensione del saggio
Contributo alla teoria della storia dell'arte (poi in Opere, IV, 103-113), metteva in dubbio che si potesse
parlare ancora di idealismo attuale per il Fazio. Nel secondo dopoguerra,
in un momento denigratorio dell'idealismo, e maggiormente dell'attualismo, che
era accusato di connivenza col fascismo, la posizione del Fazio fu di aperta
difesa dell'attualismo e di un fedele sviluppo del proprio pensiero.
Insegnare è non morire Insegnare vuol dire non morire, ma entrare in un
processo di vita che ci precede e ci prosegue nel tempo: su questa certezza di
Vito e Bruna Fazio-Allmayer, si basa una spinta pedagogica di tipo socratico,
per cui il maestro si sente un uomo tra uomini, lui più esperto, e loro più
giovani, ma protesi verso il nuovo. L'educatore, nel suo farsi persona,
diventa storico di se stesso, nel rapporto con i propri alunni li deve
riconoscere nella loro singolarità, piuttosto che livellarli. Aprirsi agli
altri è il contributo al vivere: allorché viene meno questo senso di
solidarietà col tutto, si crea in noi il disagio dell'angoscia. Quindi il
senso della vita è quello della speranza e dell'amore: gli altri individui non
sono antitetici al proprio io, ma un indispensabile sbocco del proprio io.
Ognuno di noi si fa compossibile agli altri per ciò che dà e per quello che
ripiglia dagli altri, così il particolare si risolve nell'universale e
quest'ultimo nel particolare. Per Vito Fazio-Allmayer la speranza è nella
certezza che il futuro è nel presente: sono vecchi, quindi, gli insegnanti che,
presi dal passato, trovano disprezzabile tutto ciò che si produce nel presente,
e sciocchi i giovani, e sbagliato ogni nuovo pensiero. La scuola è vecchia se
non riesce a vedere il mondo nuovo e in rinnovamento; l'insegnante che si
racchiude nelle memorie del passato, manifesta la malattia mortale che si
chiama vecchiaia. Fondazione La Fondazione Nazionale "Vito
Fazio-Allmayer” è sorta a Palermo nel 1975, creata da Fanny Giambalvo e Bruna
Fazio-Allmayer, che venne in Sicilia dalla Toscana per insegnare Filosofia
morale e Storia della Pedagogia; tale istituzione è stata fondata per onorare
il ricordo del marito e per suscitare nelle giovani generazioni l'interesse per
la filosofia. Opere Su: La Sicile illustrée, articoli e saggi (1905-1908)
Su: Rassegna d'arte, articoli e saggi (1905-1908) Studi sul pensiero antico;
Sansoni, 1974 Galileo Galilei; R. Sandron, 1911 Galileo Galilei, Palermo 1912,
poi in Opere, X, 51-209; Galileo Galilei;
Sansoni, 1975 Novum organum: Bacon, Francis; Laterza & Figli, Dell'anima
Aristoteles; Laterza, la formazione del
problema kantiano, in Annali della Bibl. filosofica di Palermo, fasc. I, 43-89, poi in Opere, IV, 191-235) La scuola popolare e altri discorsi
ai maestri: 1912 e 1913; Francesco Battiato, 1914 Introduzione allo studio
della storia della filosofia; Zanichelli; 1921 Materia e sensazione (Sandron,
Palermo 1913, poi in Opere, II) Materia e sensazione; Sansoni, 1969
Introduzione alla filosofia; Sansoni, 1970 La teoria della libertà nella
filosofia di Hegel (Messina 1920, poi in Opere, XIV) Saggio su Francesco Bacone
(Palermo 1928, poi in Opere, XI) Saggio su Francesco Bacone; 1979 Il problema
morale come problema della costituzione del soggetto, e altri saggi (Firenze,
Le Monnier, 1942, poi in Opere, IV, 952)
Il problema morale come problema della costituzione del soggetto e altri saggi;
Sansoni, 1971 Il significato della vita; Sansoni, 1955 Il significato della
vita; 1988 Divagazioni e capricci su Pinocchio; G.C. Sansoni, 1958 Divagazioni
e capricci su Pinocchio; Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer, 1989
Ricerche hegeliane; G. C. Sansoni, 1959 Ricerche hegeliane; Fondazione
nazionale Vito Fazio-Allmayer, 1991 Storia della filosofia; G.B. Palumbo, 1942
Storia della filosofia; Sansoni, 1981 I vigenti programmi della scuola
elementare: Commento e interpretazione; Firenze, F. Le Monnier, 1954 Morale e
diritto; Sansoni, 1955 Discorsi, lezioni; Sansoni, 1983 Saggi e problemi;
Sansoni, 1984 Recensioni e varie, 1986 La Pinacoteca del Museo di Palermo e
altri saggi; notizie dei pittori palermitani, Palermo 1908 Prolusioni e
discorsi inaugurali; Sansoni, 1969 Alcune lezioni edite e inedite; Sansoni,
1982 Alcune lezioni edite e inedite; Sansoni, 1983 Spunti di storia della
pedagogia Moralita dell'arte: rievocazione estetica e rievocazione suggestiva
(con 53 postille); Sansoni, 1953 Moralita dell'arte e altri saggi; Sansoni.
1972 Logica e metafisica; Sansoni, 1973 La storia; Sansoni, 1973 Lettere a
Bruna; Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer, 1992 Lettere a Gentile;
Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer, 1993 Introduzione allo studio della
storia della filosofia e della pedagogia; Sansoni, 1979 La teoria della
liberta' nella filosofia di Hegel; Giuseppe Principato, 1920 Opere; Sansoni,
1969 Commento a Pinocchio; G. C. Sansoni, 1945 Il problema Pirandello; Firenze,
Belfagor, 1957
Note //treccani/enciclopedia/vito-fazio-allmayer_(Dizionario-Biografico)/ E. Garin, Cronache di filosofia italiana...,
I-II, Bari 1966, ad Indicem; //fazio-allmayer/index//
treccani,//treccani/enciclopedia/vito-fazio-allmayer_(Dizionario-Biografico)/.
fazio-allmayer,//fazio-allmayer/index//. Vita e pensiero di V. F., Firenze
1960; 2 ediz., Palermo 1975, con degli
scritti del e sul F., alle 205-224; A.
Massolo: Fazio e la logica della compossibilità, in Giornale critico della
filosofia italiana, XXXVI (1957),
478-487; C. Luporini, Ricordo di V. F., in Belfagor, XIII (1958), 360 s.; Giardina Francesco: Intenzionalità
ermeneutica e compossibilità nell'attualismo comunicazionale di Vito
Fazio-Allmayer: implicazioni pedagogiche; Edizioni della Fondazione nazionale
Vito Fazio-Allmayer1996 A. Guzzo, V. F. e Guido Rossi, in Filosofia, IX
(1958), 494-499; Giornale critico della
filosofia italiana, (scritti di G. Saitta, A. Massolo, S. Caramella, F.
Albeggiani, M. F. Mineo Fazio, B. Fazio-Allmayer Boldrini); A. Santucci:
Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna 1959, 169 s.; A. Negri, In ricordo di V. F., in
Filosofia, XIII (1962), 527-530; E.
Garin, Cronache di filosofia italiana..., I-II, Bari 1966, ad Indicem; B.
Fazio-Allmayer: Esistenza e realtà nella fenomenologia di V. F., Bologna 1968;
L. Sichirollo, Filosofia e storia nella più recente evoluzione di F., in Per
una storiografia filosofica, II, Urbino 1970,
461-484; E. Giambalvo, La metafisica come esigenza in Bergson e
l'esigenza della metafisica in V. F., Palermo 1972; Carlo Sini: Studi e
prospettive sul pensiero di V.F. Allmayer; estratto da "il Pensiero"
ist. editoriale Cisalpino, Milano-Varese Atti del 1º Congresso nazionale di
filosofia "V. F., oggi", Palermo 1975. Atti del Convegno nazionale su
l'estetica come ricerca e l'impegno dell'artista nel suo mondo, Palermo 1984
(con interventi di L. Lugarini, U. Mirabelli, L. Russo Attualismo (filosofia) Giovanni Gentile Guido
De Ruggiero Alcamo treccani, http://treccani/enciclopedia/vito-fazio-allmayer_(Dizionario-Biografico)/.
Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloPedagogisti
italianiInsegnanti italiani del XX secoloInsegnanti italiani Professore. Vito
Fazio Allmayer. Allmayer. Keywords: hegel – fascism – he was forced to retire
after the fall of fascism, altmeyer wurd allmeier Refs.: Luigi Speranza, “Grice
ed Allmayer” – The Swimming-Pool Library.
Altan (San
Vito al Tagliamento). Filosofo. Grice: “I like Altan; he is of course an
anthropologist and not a philosopher, although his first rambles were on Croce
and philosophy as synthesis of history! – but then I lectured on Peirce’s
misuse of ‘symbol,’ and Altan, not a philosopher, just like Peirce was not –
repeats the mistake – Welby should possibly know better – Grice: “Altan fails
to explain why the Romans felt the need to borrow ‘symbolum’ from the Greeks,
and never return it!” Grice: “The examples in Short and Lewis for the Roman use
of ‘symbol’ are extravagant – Peirceian almost!” – Grice: “Altan’s point is that
a ‘soggeto,’ to communicate via ‘logos’ with another ‘soggeto’ in a colloquium,
must rely on this or that symbol, which means that he must rely on this or that
‘valore’ – and unless you share those values, you don’t quite grasp the
implicatum in the use of the symbol.” Nato da un'antica famiglia friulana di
San Vito al Tagliamento, Carlo Tullio-Altan è stato uno dei massimi esperti di
antropologia culturale in Italia. Destinato dalla famiglia alla carriera
diplomatica, si laurea nel 1940 in giurisprudenza a La Sapienza di Roma con una
tesi in diritto internazionale. Inviato in Albania durante la seconda
guerra mondiale, partecipa successivamente alla Resistenza, militando nel
Partito d'Azione. Dopo le vicende belliche, conosce Benedetto Croce
grazie a cui fa il suo ingresso nel panorama culturale italiano.
L'incontro con Croce, avvicina il suo pensiero all'idealismo crociano ed allo
spiritualismo etico, come testimoniano le sue prime opere di questo periodo.
Trascorre quindi, a partire dai primi anni '50, dei periodi di studio e di
ricerca a Vienna, Parigi e Londra, dove si accosta pure all'antropologia e
all'etnologia. Dal 1953, grazie all'influsso di Ernesto De Martino, di
Remo Cantoni (di cui sarà anche assistente volontario, a partire dal 1958) e di
Tullio Tentori, si dedica all'antropologia, secondo un approccio che non si
basi esclusivamente sulla ricerca sul campo e l'etnografia ma che faccia
soprattutto ricorso al pensiero filosofico, alla storia delle religioni,
all'epistemologia, alla sociologia, alla psicologia. Inoltre, influenzato pure
dall'opera di Bronisław Malinowski, si oppone allo strutturalismo, aderendo
successivamente al funzionalismo nonché a un marxismo mediato dalla scuola
francese degli Annales. Nel 1961, gli viene assegnato, per la prima volta
in Italia, l'incarico di insegnamento di Antropologia culturale alla Facoltà di
Lettere e Filosofia dell'Pavia, successivamente ricoperto alla Facoltà di
Sociologia dell'Trento. Poi, come ordinario della stessa disciplina, ha
lavorato alla Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri"
dell'Firenze e, dal 1978 fino al collocamento a riposo (nel 1991), nella
Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Trieste, della quale è stato poi nominato
professore emerito. Nel 1987, organizza a Roma, insieme ai maggiori
antropologi italiani di allora, il primo "Convegno nazionale di
antropologia delle società complesse", che, negli anni, verrà
riorganizzato più volte. Negli ultimi anni, ha vissuto tra Milano e
un'antica casa rurale tra Aquileia e Grado, la stessa dove lavora il figlio
Francesco Tullio-Altan. Sulla base della sua iniziale formazione
universitaria in discipline storico-giuridiche nonché della sua vasta
conoscenza filosofica e culturale, dopo una prima fase di originali ricerche
sulla fenomenologia religiosa ed il simbolismo, volge la sua attenzione verso i
metodi antropologici applicati all'analisi sociologica, quindi si dedica allo
studio dei comportamenti e dei valori della gioventù italiana negli anni
'60-'70, che lo hanno poi condotto ad approfondire, da una prospettiva
storico-culturale e con una visione alquanto critica, la dimensione identitaria
degli italiani. Altan ha poi cercato di far capire sia all'opinione
pubblica che ai politici italiani l'importanza e la necessità di dare al loro paese
una "religione civile". In questo progetto, vanno inserite alcune fra
le sue opere più recenti come La coscienza civile degli italiani e il manuale
di Educazione civica. L'ultimo periodo della sua attività di ricerca, lo
dedicò allo studio delle basilari componenti simboliche dell'identità etnica,
concentrandosi, a tale scopo, sulla categoria dell'ethnos, individuandone ed
analizzandone le sue cinque principali componenti, ovvero l'"epos"
(cioè, la memoria storica collettiva), l'"ethos" (cioè, la sacralizzazione
delle norme e delle regole in valori), il "logos" (cioè, il
linguaggio interpersonale), il "genos" (cioè, l'idea di una comune
discendenza) ed il "topos" (cioè, il simbolo di una identità
collettiva comunitaria stanziata su un dato territorio), allo scopo di trovare
una possibile soluzione razionale, dal punto di vista dell'antropologia, ai
conflitti tra i vari etnocentrismi. Altre opere: “La filosofia come
sintesi esplicativa della storia. Spunti critici sul pensiero di B. Croce e
lineamenti di una concezione moderna dell'Umanesimo” (Longo & Zoppelli,
Treviso); “Pensiero d'Umanità. Sommario breve d'una moderna concezione
speculativa dell'Umanesimo” (D. Del Bianco e Fratelli, Udine); “Parmenide in
Eraclito, o della personalità individuale come assoluto nello storicismo
moderno, Udine); “Lo spirito religioso del mondo primitivo” (Il Saggiatore,
Milano); “Proposte per una ricerca antropologico-culturale sui problemi della
gioventù” (Società editrice il Mulino, Bologna); “Antropologia funzionale, Bompiani,
Milano); “La sagra degl’ossessi: il patrimonio delle tradizioni popolari
italiane nella società settentrionale” (Sansoni, Firenze); “Personalità giovanile
e rapporto inter-personale” (ISVET, Roma); “Le origini storiche della scienza
delle tradizioni popolari” (Sansoni, Firenze); “Atteggiamenti politici e
sociali dei giovani in Italia” (Società editrice il Mulino, Bologna); “I valori
difficili. Inchiesta sulle tendenze ideologiche e politiche dei giovani in
Italia” (Bompiani, Milano); “Comunismo e società” (Società editrice il Mulino,
Bologna); “Valori, classi sociali, scelte politiche. Indagine sulla gioventù”
(Bompiani, Milano); Manuale di antropologia culturale. Storia e metodo”
(Bompiani, Milano); “Modi di produzione e lotta di classe in Italia” (Arnoldo
Mondadori Editore-Isedi, Milano); “Tradizione e modernizzazione: proposte per
un programma di ricerca sulla realtà del Friuli, Editrice cooperativa Il Campo,
Udine); “Antropologia. Storia e problemi” (Feltrinelli, Milano); “La nostra
Italia: arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo
dall'Unità ad oggi” (Feltrinelli, Milano); “Populismo e trasformismo. Saggio
sull’ideologie politiche italiane” (Feltrinelli, Milano); “Per una storia
dell'Italia arretrata” (Le Monnier, Firenze);
“Una modernizzazione difficile. Aspetti critici della società italiana”
Liguori Editore, Napoli); “Soggetto, simbolo e valore. Per un'ermeneutica
antropologica, Feltrinelli, Milano); “Un processo di pensiero, Lanfranchi,
Milano); “Ethnos e Civiltà. Identità etniche e valori democratici” (Feltrinelli,
Milano. Italia: una nazione senza religione civile. Le ragioni di una
democrazia incompiuta, IEVF-Istituto editoriale veneto friulano, Udine); “La
coscienza civile degli italiani. Valori e disvalori nella storia nazionale,
Gaspari Editore, Udine); “Religioni,
simboli, società: sul fondamento umano dell'esperienza religiosa” (Feltrinelli,
Milano); “Gl’italiani in Europa. Profilo storico comparato delle identità
nazionali europee, Il Mulino, Bologna); “Per un dialogo fra la ragione e la
fede, Leo S. Olschki, Firenze); “Le grandi religioni a confronto. L'età della
globalizzazione, Feltrinelli, Milano); Identità etniche, web.archive.org/ web/20091004210216/http:// emsf.rai/biografie/
anagrafico.asp?d=328 Una religione civile per l'Italia d'oggi, web.archive.org/web/2 0091004210216/http://
emsf.rai/biografie/ anagrafico.asp?d=328 Il crogiolo, web.
archive.org/web/20091004210216/http://emsf.rai/biografie/anagrafico.asp?d=328;
“L'esperienza dei valori” web.archive.
org/web/ 20091004210216/ http://emsf.rai/ biografie/anagrafico.asp?d=328, “Identità
etniche e valori universali” web.archive.org/ web/20091004210216/http://emsf.rai/
biografie/anagrafico.asp?d=328 Modelli concettuali antropologici per un
discorso interdisciplinare tra psichiatria e scienze sociali, in: Psicoterapia
e scienze umane, polser.wordpress.com/2009/02/25/carlo-tullio-%e2%80%93-altan-modelli-concettuali-antropologici-per-un-discorso-interdisciplinare-tra-psichiatria-e-scienze-sociali-in-psicoterapia-e-scienze-umane-n-1-Citazioni
«Per la destra l'antropologia è roba per selvaggi; la sinistra pensa solo
all'economia; altri sono ancorati a schemi anglosassoni, che vedono le
strutture politiche come realtà a sé», da un'intervista rilasciata a Paolo
Rumiz e pubblicata in La secessione leggera, Roma, Editori Riuniti, 1997202.
Note Cfr. il saggio autobiografico: C.
Tullio-Altan, "Un percorso di pensiero",
Belfagor. Rivista di varia umanità, nonché il testo autobiografico Un processo di
pensiero, Lanfranchi Editore, Milano, Cfr. U. Fabietti, F. Remotti, Dizionario di
Antropologia. Etnologia, Antropologia Culturale, Antropologia Sociale,
Zanichelli Editore, Bologna, 1997, voce "Tullio-Altan, Carlo"772.
Cfr.//controluce/notizie-old-html/giornali/a14n03/18-culturaecostume-altan.htm
Cfr.//segnalo/TRACCE/NONPIU/tullio-altan.htm Frutto di questo nuovo programma di ricerca,
fu peraltro la monografia Lo spirito religioso nel mondo primitivo (1960). Cfr. A. Rigoli, Lezioni di etnologia, II
edizione, Renzo e Reau Mazzone editori/Ila Palma, Palermo (IT)/San Paolo (BRA),
1988, Parte III, Cap. 1, 65-71. Cfr. U. Fabietti, F. Remotti, cit. Fra cui Armando Catemario, Giorgio Raimondo
Cardona, Matilde Callari Galli, Vittorio Lanternari, Gavino Musio, Francesco
Remotti, Aurelio Rigoli, Luigi Lombardi Satriani, Tullio Tentori. Cfr. Tullio Tentori , Antropologia delle
società complesse, A. Armando Editore, Roma, 1999. Da un punto di vista storico, è da ricordare
come l'antropologia culturale abbia avuto origini giuridiche. Invero, molti dei
maggiori antropologi della seconda metà Professoreerano giuristi o, quantomeno,
avevano una formazione giuridica. Ciò fondamentalmente è dovuto al fatto
basilare per cui nessuna società umana è priva di una qualche forma di diritto,
anzi tutte le istituzioni sociali hanno una imprescindibile dimensione
giuridica; cfr. U. Fabietti, F. Remotti, cit., voce "Antropologia
giuridica". Cfr. I. Ignazi,
"Populismo e trasformismo nell'analisi di Carlo Tullio-Altan", il
Mulino. Rivista di cultura e politica fondata nel 1951, 5 (1989) 864-870.
Cfr. Giulio Angioni, "Obituary. Carlo Tullio-Altan: un antropologo
"anti-italiano". Familismo amorale e clientelismo tra i mali del
Paese", in: Il Sole 24 Ore, 20/02/2005
Cfr. Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche Archiviato il 4 ottobre 2009 in . Cfr. C. Tullio-Altan, "La dimensione
simbolica dell'identità etnica", in: G. De Finis, R. Scartezzini ,
Universalità e differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra
identità e culture, Franco Angeli Editore, Milano, 1996, 318-339.
Qui, per regola, si intende una norma, in genere non necessariamente
codificata, suggerita dall'esperienza o stabilita per convenzione o
consuetudine, spesso in riferimento al modo usuale di vivere e di comportarsi,
sia individualmente che collettivamente; cfr.
Cfr. C. Tullio-Altan, Ethnos e civiltà. Identità etniche e valori
democratici, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1995, nonché i ricordi di
Umberto Galimberti e di Marcello Massenzio comparsi su La Repubblica del 16
febbraio 2005 e reperibili all'indirizzo
Archiviato il 1º marzo in . Cfr.
pure A. Rigoli, cit., Parte I, Cap. 1,
11-12. C. Tullio-Altan, Un
processo di pensiero, Lanfranchi Editore, Milano, 1992 (testo autobiografico).
C. Tullio-Altan, "Un percorso di pensiero", Belfagor. Rassegna di
varia umanità, 51 (3) (1996) 303-319. G.
Ferigo, " di Carlo Tullio-Altan", Metodi & Ricerche. Rivista di
studi regionali, 24, Fasc. 2,
Luglio-Dicembre 2005. Atti del Convegno Storia comparata, antropologia e
impegno civile. Una riflessione su Carlo Tullio Altan, Udine-Aquileia, 17-19
maggio 2006, i cui sunti sono stati pubblicati, Liza Candidi, sulla rivista
Italia Contemporanea, 243, giugno 2006 (cfr.,
per esempio, ). Fascicolo speciale dedicato a Tullio-Altan: 16, N. 1, Anno 2005 della rivista Metodi
& Ricerche. Rivista di studi regionali.
L'antropologia italiana. Un secolo di storia, Editori Laterza, Roma-Bari,
1985. E.V. Alliegro, Antropologia italiana. Storia e storiografia 1869-1975,
SEID Editori, Firenze, . C. Tullio-Altan, C. Signorelli, "A proposito di
alcune critiche: dibattito Tullio Altan-Signorelli", in Rivista della
Fondazione Italiana dei Centri Sociali, Roma, A. Forniz, "Il Palazzo Tullio-Altan in S.
Vito al Tagliamento: dimore illustri nel Friuli occidentale", in
Itinerari, Numero IV, Fascicolo 3, settembre 1970. Altri progetti Collabora a
Wikiquote Citazionio su Carlo Tullio-Altan
Carlo Tullio-Altan, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Carlo
Tullio-Altan, in Dizionario biografico dei friulani. Nuovo Liruti online,
Istituto Pio Paschini per la storia della Chiesa in Friuli. Biografia [collegamento interrotto], su
feltrinellieditore. Biografia, su blog.graphe. Convegno in memoriam, su qui.uniud.
Ricordo biografico, su controluce. Filosofia Sociologia Sociologia Categorie: Antropologi
italianiSociologi italianiFilosofi italiani Professore1916 2005 30 marzo 15
febbraio San Vito al Tagliamento PalmanovaAccademici italiani del XX secoloStudenti
della SapienzaRomaProfessori dell'Università degli Studi di PaviaProfessori
dell'Università degli Studi di Trento. Carlo Tullio-Altan. Altan. Keywords:
Croce, filosofia come sintesi, Velia, la porta rossa di Velia, fascismo,
ideologia politica italiana, ideologie politiche italiane, simbologia,
simbolismo, ermeneutica, mercurio, ermete, mercurio, humano, uomo, umanesimo,
Altan e Passolini, Palazzo Altan – Altan nobile friulese, il conte Carlo
Tullio-Altan – la etnia friulese, ‘friulese, non italiano’ – dizionario
biografico dei friulesi – friul – la lingua friulese – la base romana – la
occupazione romana 221 a. C. – Aquileia – i friulesi durante il fascismo –
contro il friulese, italisazzione – Altan e la resisenza – etnia e italianita,
-- romanita ed italianita – friulesita
-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice
ed Altan” – The Swimming-Pool Library.
Amaduzzi (Savignano di Romagna). Filosofo. Grice: “Oddly, I had an
occasion to refer to Amaduzzi’s birthplace in my little thing on Caesar
crossing the Rubicon!” -- “I love Amaduzzi: he writes about the academy of
Paris, and the academy of Berlin, but nothing about the English Acadeemy! He
notes that the warrior – against the Trojans, was Echademos – and ‘it is
naturally that the first important Accademy was founded in Tuscany, -- since a
Tuscan hates a Roman!” –Grice: “Amaduzzi’s hobby was to collect references to
‘accademies,’ – “which are all nonsensical, since only ONE has a ‘rigid’ designation
link to EchEdemos!”. Discepolo a Rimini di Giovanni Bianchi (Iano Planco), si
trasferì dal 1762 a Roma, dove iniziò la sua attività di ricerca ed erudizione,
sia pure tra numerose ristrettezze. Un assestamento nella sua vita si
registrerà alla fine degli anni Sessanta del XVIII secolo, come rilevano i
diari dei suoi primi "diporti" (gli Odeporici autunnali eruditi), le
brevi perlustrazioni compiute nei dintorni della città eterna o comunque entro
lo Stato della Chiesa, emblema di un genere letterario di viaggio che mostra
chiaramente la sua versatilità di interessi. Grazie alla protezione del
papa Clemente XIV, anch'egli ex allievo di Bianchi, dal 1769 fu professore di
lettere greche presso La Sapienza, mentre dal insegnò al Collegio Urbano. Nel frattempo era
anche diventato ispettore della Congregazione di Propaganda Fide, ottenendo da
Clemente XIV la carica di soprintendente della relativa stamperia. Con la quale
curò la pubblicazione, scrivendone le prefazioni, in particolare di importanti
trattati di grammatica di lingue orientali, fra cui l'ebraico, il persiano,
l'armeno, il tibetano e perfino il malayalam. Per i suoi studi ottenne
ottima reputazione presso i principali esponenti del panorama culturale settecentesco,
entrando in contatto e in corrispondenza, tra gli altri, con Pietro Metastasio,
Vincenzo Monti, Carlo Denina, Ippolito Pindemonte, Girolamo Tiraboschi, nonché
con Lazzaro Spallanzani. Fra le sue pubblicazioni spiccano anche
dissertazioni di ordine filosofico, che s'innestavano nell'alveo di un
illuminismo moderato : infatti, con i «discorsi» su La filosofia alleata della
religione e sull'Indole della verità e delle opinioni del 1786 (per i quali fu
denunciato all'Inquisizione), i cui temi di fondo erano ispirati al filosofo
inglese John Locke, egli cercava di coniugare il sensismo con il cattolicesimo,
poiché vedeva nel sensismo un valido approccio alla conoscenza dell'uomo .
Vicino alle istanze del giansenismo regalistico, come emerge dalla ultradecennale
corrispondenza con Scipione de' Ricci, ebbe parte significativa nella discussione
che portò al decreto di soppressione della Compagnia del Gesù. Si occupa
anche di archeologia, curando fra l'altro i “Fragmenta vestigii veteris Romae” --
e la “Raccolta di antichità agrigentine”. In questo ambito s'inscrive l'ampia
corrispondenza con l'aquilano Anton Ludovico Antinori. Compose, inoltre,
canzoni e rime, e poco prima di morire pubblica anche per la Stamperia del
Bodoni a Parma un commentario su Anacreonte. Fu tra gli accademici
dell'Arcadia, con lo pseudonimo di Biante Didimeo. Opere principali:
Dissertazioni – “Dissertazione canonico-filologica sopra il titolo delle
instituzioni canoniche De officio archidiaconi, s.e., s.i.l.”; “Donaria duo graece
loquentia quorum unum in tabula argentea apud moniales Saxoferratenses S.
Clarae, s.e., Roma); “Discorso filosofico sul fine ed utilità dell'Accademie,
per i torchi dell'Enciclopedia, Livorno); “La filosofia alleata della
religione. Discorso filosofico-politico, per i torchi dell'Enciclopedia,
Livorno); “Discorso filosofico dell'indole della verità e delle opinioni, dai
torchj Pazzini, Siena); “Carteggi Ad virum clarissimum Janum Plancum
archiatrum, et patricium Ariminensem epistola, typis J. Rocchii, Lucae); “De
veteri inscriptione Ursi Togati ludi pilae vitreae inventoris epistola, apud B.
Francesium, Romae); “Epistola ad Iohannem Baptistam Bodonium qua emendatur et
suppletur commentarium de Anacreontis genere eiusque bibliotheca, in aedibus
Palatinis typis Bodonianis, Parmae). Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla
Olimpica, L. Morelli, Leo S. Olschki, Firenze, Lettere familiari, G. Donati,
Accademia dei Filopatridi, Savignano sul Rubicone); Carteggio, M. F. Turchetti,
Edizioni di storia e letteratura, Roma); “Curatele Leges novellae 5. anecdotae
imperatorum Theodosii junioris et Valentiniani, Typ. Zempelianis, Romae); “Alphabetum
Brammhanicum seu Indostanum Universitatis Kasi, (a J. Ch. Amadutio editum),
Sac. Cong. de Propaganda fide, Romae); “Alphabetum Hebraicum addito Samaritano
et Rabbinico, Sac. Cong. de Propag. Fide, Romae); “Alphabetum veterum
Etruscorum et nonnulla eorundem monumenta, Sac. Cong. de Propaganda fide, Romae);
Alphabetum Graecum, Sac. Cong. de
Propag. Fide, Romae Alphabetum grandonico-malabaricum sive samscrudonicum, Sac.
Cong. de Propaganda Fide, Romae); “Alphabetum Tangutanum sive Tibetanum, Sac.
Cong. de Propaganda Fide, Romae); Anecdota litteraria ex mss. codicibus eruta, apud
G. Settarium, Romae); “Catalogus librorum qui ex tipographio sacrae congreg. de
propaganda fide variis linguis prodierunt et in eo adhuc asservantur, Sac.
Cong. de Propaganda Fide, Romae); “Alphabetum Barmanum seu Bomanum regni Avae
finitimarumque regionum, typis Sacrae Congregationis de Propaganda Fide, Roma);
“Alphabetum Persicum, Sac. Cong. de Propag. Fide, Romae); “Alphabetum Armenum],
Sac. Cong. De Propaganda Fide, Romae); “Characterum ethicorum Theophrasti
Eresii capita duo hactenus anecdota quae ex cod. ms. Vaticano saeculi 11, Typ.
Regia, Parmae); “Alphabetum Aethiopicum sive Gheez et Amhharicum, Sac. Cong. de
Propaganda Fide, Romae); Intitolazioni L'Accademia dei Filopatridi di Savignano
ha creato nel 1999 il Centro di studi amaduzziani, su proposta di Antonio
Montanari, autore di vari testi su Amaduzzi. Tra le principali iniziative del
centro: «Giornate amaduzziane»: una giornata di studi annuale su G.
Amaduzzi; «Biblioteca amaduzziana»: la pubblicazione di opere (biografiche e
non) su Amaduzzi. Il primo volume è Elogio dell'abate Giovanni Cristofano Amaduzzi
di Isidoro Bianchi, la prima biografia scritta sull'abate savignanese.
Note T. Scappaticci,Gli Odeporici di
Amaduzzi, in Fra Lumi e reazione. Letteratura e società nel secondo Settecento,
Cosenza G. Moroni, Dizionario di
erudizione storico-ecclesiastica,
Venezia, Cfr.Metastasio, Opere,
V, Firenze, A. Cappelli, Del carteggio inedito tra Ludovico Antonio
Antinori e Giovanni Cristoforo Amaduzzi. Studi archeologici, Tip. Perfilia,
Aquila, L. Spallanzani, Diciassette lettere di Lazzaro Spallanzani all'abate
Gio. Cristoforo Amaduzzi per la prima volta stampate, Ditta tip. Conti, Faenza,
L'espressione è di Antonio Piromalli. A.
Piromalli, La letteratura calabrese, I,
Pellegrini, Cosenza, G.C. Amaduzzi, Raccolta di antichita agrigentine alle
quali si uniscono i disegni del tempio di Teseo in Atene e di quello di Pesto
il tutto espresso in 53. rami, Zempel, Roma, A. Cappelli, V. Lancetti,
Pseudonimia. Ovvero tavole alfabetiche de' nomi finti o supposti degli
scrittori con la contrapposizione de' veri, Milano G. C. Amaduzzi, Odeporici autunnali eruditi,
ovvero diario di un viaggiatore curioso ed erudito, I, Rubiconia Accademia dei Filopatridi,
Savignano sul Rubicone, G. C. Amaduzzi, Rime, G. Donati, Rubiconia Accademia dei
Filopatridi, Verucchio, A. Fabi, «Amaduzzi, Giovanni Cristofano», in Dizionario
Biografico degli Italiani, II, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Roma, A. Montanari, Giovanni Cristofano Amaduzzi e
la scuola di Jano Planco, Accademia dei Filopatridi, Studi Amaduzziani, III,
Viserba di Rimini, A. Montanari, Amaduzzi, illuminista cristiano, «Romagna arte
e storia», A. Montanari, Appendice storico-critica in G. C. Amaduzzi, La
Filosofia alleata della Religione, rist. an. Il Ponte, Rimini, A. Montanari,
Amaduzzi editore a Roma delle Notti di Bertòla. Storia inedita dei Canti
clementini, Quaderno, Accademia dei Filopatridi, Savignano sul Rubicone, A.
Montanari, Amaduzzi, Scipione De' Ricci ed il ‘giansenismo' italiano, «Il
carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, Olschki, Firenze, T. Scappaticci,
Fra lumi e reazione. Letteratura e società nel secondo Settecento, Pellegrini,
Cosenza 2006. M. Trincia Caffiero, Cultura e religione nel '700 italiano:
Giovanni Cristofano Amaduzzi e Scipione de' Ricci, in «Rivista di Storia della
Chiesa in Italia», TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Giovanni Cristofano Amaduzzi,
in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Opere di Giovanni Cristofano
Amaduzzi / Giovanni Cristofano Amaduzzi (altra versione) /Giovanni Cristofano
Amaduzzi (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Giovanni
Cristofano Amaduzzi, Documenti sui fratelli Amaduzzi sul web. Filosofi italiani
Professore1740 1792 18 agosto 21 gennaio Savignano sul Rubicone RomaScrittori
italiani del XVIII secoloLinguisti italianiPoeti italiani del XVIII
secoloOrientalisti italianiAccademici dell'Arcadia. Giraian Cristofano Amaduzzi di Savignano fu
una delle țeste più filosofiche e veramente erudite delsecolotraq scorso. Nacque
di Michele Amaduzzi, e di Caterina Gasperoni. La sua famiglia traeva origine da
Longiano, com'egli stesso nella pre fazione del libro intitolato DEVOLUTIO AD
S. R. E. afferma = Grato enim animo me ab hoc solo (Longiani) ad Sabinianense
traductum recordor, quinimirum exeagenteprogpatussim,cujussintab ipso saeculi
XIV initio certissima inter vos incolatus monumenta etc. = Giovinetto amò
tanto,oltre l'età, lostudioelafatica,cheilpadrene vennefind'alloraa
buonesperanze; e però fu posto fraglialunnidel Seminario di Rimini, ove prese
gli ordini clericali. Furono sì rapidi i progressi ch'egli fece, da destare
ammirazione grande disè.Compiutalacarrieradegli studii,ed ap presa assai bene
lingụa Jatina!eloquenza, eragion poetica uscì del Seminario, e fu nel 1955, e
sidiede tutto alla filosofia, fidato alla scorta del famoso dottor Gio.
Bianchi, il quale della propria casa, aveva fatto una scuola per chi volesse
usarne, ricca di biblioteca, dimuseo,digiornali;ediquantoerada luiprivato
LONCIANI DI 1 ... procurare a bene del pubblico. Nè solo filosofia, ma
lingua greca imparò dal Bianchi, e sì bene da uscirne solenne maestro. Gli
piacque anche conoscere le leggi, e però si fece ad udire lezioni dell'avvocato
Lelio Pasolini che era pubblico professore di giurisprudenza nella stessa
città.Nell'anno 1761 l’abbate Amaduzzi non più discepolo, ma amico e fratello
del Bianchi si cessò dalla sua scuola , e poco appresso recossi a Roma; efuappuntonelmaggiodel1762.
Appena ebbe preso stanzanella metropoli del m o n do cattolico non è a dire
come prestamente desse a conoscere di quale ingegnoera fornito,e come entras se
nella grazia dei più distinti personaggi che al lora quivi mostravansi. E a ciò
gli valse specialmente la benevolenza e la protezione del magnifico Gaetano
Fantuzzi, cui non so se la porpora de cardinali desse o ricevesse più
splendore: perocchè egli nella sua vita. fututtoinproteggere
gliuominidotti,e,fattanerac colta presso di sè,giovarli d'ogni maniera
conforti, e quel che più è,senza pompa di fasto in mezzo ad una
vitaillibataemodesta.E perchèiomivogliadimol tialtri tacere,non passerò sotto
silenzio i cardinali Boschi, Torrigiani, Borgia, Garampi, Doria, Antonelli,Mare
foschi,Zelada,Giovanetti,ilcardinaleduca diYorch,
einfineilGanganellichefupoiPapagloriosissimo e de gnodi piùlungo pontificato. Che
anziquest'ultimol'eb be fra suoi più cari, e levato alla cattedra di Pietro se
ne valse in molte e gravi bisogne. E s'egli avesse più a lungo vivuto,
all?abaté Amaduzzi non sarebbeforso mancata eminenzadicaricaparial suo ingegno e
dal suo'merito. Ma perrendermial'filodella narrazione dirò che, poichè
14Amaduzzi a più tornate 'ebbe letti discorsi profondamente filosofici e
nobilissimi in Arca dia,tuttaRoma fupienadellesuelodi.Egli perassecon dare
idesiderii de'suoi genitori, che avrianó voluto far di lui un
giureconsulto,poichè non erano giunti adaverlo sacerdote,diemano alla
giurisprudenza;ma essendo d'animo sehietto, e nemico di cavilli, e d'in
sidieforensi,piùchealfôrositenne,ailibridei gius pubblicisti,esimisea svolgereleoperedel
Cujaccio, dell'Alciati,del Gottofredo, del Gravina e di somiglianti, sdegnoso
di quell'ammasso informedi leggi,di prati 6 che, di
consuetudini sotto cui sovente venivano artata mente sepolte la verità e la
giustizia. A prova del profitto che egli fe’in questaragione di studii pub
blicò prima d'ogni altra cosa nel 1767 le cinque novelle inedite degli
imperatori Teodosio juniore, e Valenti niano terzo, (di cui più appresso avremo
a riparlare), nella quale opera non so qualpiùsimostriobuon legista, o critico
acuto o profondo archeologo. Nè la sciò aparte gli studii teologici,(perocchè
a'suoi pia ceva che ei si guadagnasse alcun impiego ecclesiastico) ecome
simanifestaper alcunesueerudite disserta zioni, in breve in questa scienza pure
entrò molto i n nanzi. Gli fu maestro il celebre P. Marcelli agosti niano; e
tanto s'internò nelle dottrine del gran de dottore s. Agostino, che a difesa
delle medesime ebbepiùvoltea combattere.Siconobbepurediquel la parte di
diritto, che io dirò sacro perché riguar. da la canonizzazione dei Santi , e si
esercitò in più cause, essendo promotori dellaFede monsignor Forti prima, e
monsignor Pisani dappoi. M a dove più di forza intese fu nella cognizione
de'sacri canoni, indispensabile a chi voglia penetrare nelle ecolesiastiche
antichità con sicurezza digiudizio.
Belledissertazioni,lequalicomprovanoconoscenza som ma che egli aveva dei
canoni,lesse egli nell'accade mia che il sullodato cardinal Fantuzzi aveva
formata in Roma de'più chiari personaggi, di cui era protet tore come è detto.
Non acquetossi a questi studii la mente dell'Amaduzzi,laquale sentiva
d'averforzada stendersi a più largo campo, e però si fece ad ap prendere
lalingua ebraica e molte altre orientali,e n’eb be amaestriilTeoli, l'Eva, ilGiorgi, l'Assemani,cime
d'uomini,anzidisapere.Non èmaravigliadopoque sto, seappena scorso un'anno dalla
sua venuta in Roma, il cardinal Torrigiani con onorevolissima lette ra dell' 11
novembre 1963 raccomandò l' Amaduzzi al principe di Francavilla, a cui spettava
provvedere di custode labiblioteca Imperiali; officioche ben con
venivagli,echeavrebbeottenuto,selamorte delmar chese Imperiali non avesse rese
vane le premure del V ottimo porporato. In questa occasione ebbe pure una
raccomandazionedelducadiParma.Intantol'Amaduzzi 7 In questo mezzo
essendo accordatalagiubilazio ne aGio.BattistaGautier,professoreche fudilingua
greca nell'Archiginnasioromano,Clemente XIV.di moto proprio
glinominòsuccessore1'Amaduzzi,ed egli n'ebbe il diploma il 25. giugno del 1769.
Il 10. febbrajo dell'anno seguente poi essendo passato di vi ta l'abbate
Barcubaldo Bicci, che aveva la direzione della
tipografiadiPropaganda,l'Amaduzziconviglietto, della segreteria di Stato fu
nominato a quell?uffizio inluogodel defunto.Equìmipiacenotareunabel lissima lode
a,lui doyuta, qual è di aver meritato i primi pensieridelsuoprincipe,edi non
averli com perati con viltà di adulazione, o tristo mercimonio di corte.
Anche,un altra lode si ebbe l’Amaduzzi, e fu del mostrarsigrato alsuo maestro
Jano Planco; peroc che si adoperò onde,avesse grado di Archiatro del Pontefice,
e gli siaumentasse l'onorario che aveva in patria, e quel che è più
rimarchevole scampasse dal 1'umiliazione di soggiacereallefave annualmente; co
sadi rilievoassai,perchè troppo spesso avviene, che nei municipii prevalga il
privato risentimento dei yo- 8 non si cessando mai dalle sue erudite
occupazioni, ac-. cresceva ad un tempo in sapere, ed in fama. E seb bene avesse
a sostenere fin dai primi anni la guer ra degl'invidi, e dei tempi, nimicizie
perpetue dei buoni ingegni,pure non ristette perquesto. In una lettera al
dottor Giovanni Lami scritta li si luglio 1.768 si legge cosi: = Non godono le
nostremuse quella tranquillità, che loro invidia l' infelicità dei tempi che
corrono. Pure non ostanteio,che mi pre servo per quei tempi più lieti che
spero,non inter metto lemieletterarie occupazioni(Nov. Lett.di Firenze1768).Elettonel15.maggiodel1769.a.Pon
teficeMassimo LorenzoGanganelli,tuttaRoma,che
benediluisiconosceva,seneallegro,e piùchemail'A maduzzi,ilqualeebbeascriverepocoappresso=
sotto questopontificatocomincianoarisorgerelelettere= .E
perchèquellagranmentecheeraPapa Ganganellivede va che il ravvivare gli studii,e
gli uomini, che per quelli hanno grido,ristorare, è opera disavio e buon prin
cipea questo sivolse,e cercavamodo diprovvederel'A maduzzi per cui aveva
speziale stima, e benevolenza. 1. tanti al bene del pubblico. Quanto
poi studiasse por gersi r i conoscent e a l l' immortal suo benefattore Pontefice
lo danno a vedere le opere che egli pubblico, e che vanno sì onorateper
lomondo,chenon è permes 80 ignorarle a chi abbia pure attinto a prime labbra
glistudiidiantichitàsacrae profana.Lasacracon gregazione diPropaganda volendo
dar segno di aggra dimento alle tante fatiche dell'Amaduzzi, gliconferì la
cattedra di lingua greca nel collegio Urbano,la qualeera rimastavacante per la
morte del celebre. Raffaele Vernazza.Ciò funel:1780 il 27 9 salito, e la
grazia dei grandi, bre.Ilgridoincheera ,loa parola del vero captivavasi cui
egli collasevera avesse per poco posto sì in alto, c h e , se egli vevano ,
avría posto la mano per piegato alle artidi corte che nome; non letterato che
non volesse fortuna.Nonviera accademia trooicapeglidella ne ricercasse,il
averloa socio,enon non si onorasse commercio di let ;non giornale che non si
riputasse tere.coll’Amaduzzi dotti pensieri. Fu ascritto a vanto pubblicare i
suoi 6. febbra alla società letteraria de'.Volsci di Velletri Etrusca di
Cortona il 5. jo del 1769., all'accademia del 1773, del 1771 , alla Fulginea li
29. gennajo aprile col nome diNestore.1 8. a quella dei Forti in Roma del
1774,e ne scrisse a modo delle dodici ta ottobre col nome di Biante Didimeo
voleleleggi;all'Arcadia il 7. febbraro 1775 ; all'accademia dei Placidi di Re
del 1775; alla società georgica dei canati1'8. aprile 1779: all'acca Sollevati
di Montecchio il 31. ottobre demiarealediScienze,eLetteredi Napoliil5.agosto
diVerona il4. giugno del del1779: alla Filarmonica il 7 settem Colombaria
diFirenze 1782:alla società degliAffidatidi Pavia il bre del 1785.,
all'accademia di Dublino li del 1786;alla reale Ibernese 4. giugno anno;alla
reale di Scienze 21. novembre dello stesso il30. agostodel 1789. eamolte al
eLetteredi Mantova letterarjdi quei giorni. tre.Scriyeva nei migliori giornali
Pressocchè tutti gli articoli provegnenti da R o m a senza me d'autore del
Lami,le quali furonopoi continuate n o , che leggonsi dal 1760. al 1791. nelle
Novel le Letterarie ,sono cosa dell’Åmaduzzi . Ebbe anche mole dal Lastri di
Palermo,nell'Ef ta mano nelle notizie de’Letterati di novem e n
femeridi letterarie,enell'Antología di Roma,neglian nali ecclesiastici di
Firenze. Carteggiava in Italia con tuttiipiùdistinti
uominidiqueltempo,fraiquali siami lecito nominare Lami, Bandini, Lastri, Passeri,
Olivieri,Mandelli, Vettori,Ferri,Mingarelli,Giovenaz
zi,Bianchi,PietroBorghesi,ePasqualeAmati suoi con cittadini. Fuor d'Italia poi
aveva corrispondenza di lettere estesa più che mai, come si può vedere da mol
ti volumi che esistono manoscritti nella pubblica li brería di Savignano., Chi
potesse, dice ildottissimo Isidoro Bianchi in una nota (36) all'elogio ch'egli
scris şe dell'Amaduzzi, raccogliere e regalare al pubblico tutte le lettere
famigliari, che il nostro Cristofano ha nel corso della vita iscritte a tanti e
così dotti amici d'ognirango,d'ognicondizione,siavrebbecertamen te un'opera di
moltissimi volumi, che nel merito su pererebbe forse molte altre, che egli ha
vivendo rese pubbliche collestampe;un'opera pienadianeddoti interessantissimi,
la quale ci presente rebbela più veridica e genuina storia de'più grandiosi
fatti e singola ri avvenimenti, che nel giro di non molti anni si 80 no nel
nostro secolorapidamente succeduti.Gli ogget ți di politica, e le grandi
notizie del giorno formaro no una parte essenziale del suo erudito carteggio. Egli
ben conosceva le corti, e i ministri di gabinetto, e di stato, e in particolar
modo i principi, ei loro rispetativi interessi.E certo benchè egli nulla
ambisse, pure aveva voce in corte,e ilPapa volentieri l'udiva, eglifidavacosed'importanzaassai.Ma
poichèquel grande Pontefice ebbe a cedere a fato immaturo, la fortuna si volse
contro l'Amaduzzi , il quale dovette sentirne i colpi più avversi eduri a
sostenere.Alcuni glidavano tacciadimalfilosofo,altrialtrimentiil'mor
devano.Ilmondo parteggiava avarie fazioni,e tutte erano contro l'Amaduzzi,
perchè egli non istudiava ad alcuna, anzi combattevale tutte per seguire la
verità, Non mancavano forse le gare degl'invidi, e di quegli che volevano
fargli scontare a caro prezzo labenevos lenza che aveva goduta di Papa
Ganganelli. Nel 1790. usci un libello famoso contro di lui senza data di luo.
go, Aveva per titolo Lettera di un viaggiatore istruito, ad un amico di Rama
risguardante principalmente la ! 10 dottrina dell abbate Cristoforo
Amaduzzi. Era quel libro una catena di calunnie e d'infamie; non più che
sedicipaginesistendeva,ma insedicipagine chiude
vaquantopuòlarabbiastemperareinmoltivolumi.Ven devasi inRoma,ma senza luogo
enome di stampato re. L'autore non è a richiedere, che si stette e starà
sempreocculto:elomerita.L'Amaduzzi,comecchèsu periore fosse alle male arti
dell'invidia e della calun nia, pure tenne dell'onor suo rispondere e
scolparsi; e dettò uno scritto intitolato Rimostranza al Trono
Pontificio,emanifestoalPubblico= Equestofino dal 1790. era in punto per le
stampe. M a consigliato dagliamici a presentarne prima il Papa, alloraPio VI,
anzichèmandarlo allaluce, eglicondiscese. L'ebbe (1)
infattoilPontefice,lolesse,conobbe lacalunnia,eren dendolo con molta benignità
all'autore gli fe'travede re, che egli avrebbe punito i calunniatori col
trionfo delcalunniato.Ma lavitanonbastòall'Amaduzzi.Sa rebbe assai desiderevole
che questa Rimostranza fosse data a luce, perocchè oltre allo scoprire fino al
fondo l' animo dell'autore, mostra la condizione dei suoi tempi, e di molte
cose incerte rende pienissima fede. Ivi egli parla di sè con libertà di
filosofo, e fa il ca rattere suo qual era in fatto, ed i suoi stessi difetti
non nasconde. Si confessa amatore della filosofia, non di quella che in barbaro
gerga di voci più barbare non dà che frasche, e sofismi, m a di quella
nerboruta e vigorosa che prese spirito dal Galilei, da Bacone, da Cartesio, da
Newton e dagli altri di tale schiera, i quali, abbattute le vecchie superstizioni
e le matte fre nesie, rimisero al suo seggio la ragione,e in quello stesso che
la innalzavano la mostrarono più riverente, ed ossequiosa alla Religione.E
apertamente dichiara solo quella filosofia piacergli, che è guida e conforto
degli uomini, maestra di costumi, e di civiltà, e che nasce dalla carità
cristiana, che è la sola per cui la società ha fermezza, e innanzi cui scompare
ogni fel lonia ed ogni pubblica sventura.E non disconfessa il
suosentirsidisoverchiotrasportatoadireilveronu do e calzante,e l'essere
sdegnoso de tristi, e insofa (1) Vedi rimostravza al Trono Pontifieio] ferente
di oltraggi.Insomma io non credo che altri possa ritrarre lụimeglio, di quello
che egli stesso in quella scrittura si ritrasse. L'abate Francesco Gusta nella
sua Vita di:Co stantino, oltre il pụngere sovente ! Amaduzzi, e tal volta
inveire contriesso, lo tratteggia come soverchia
menteamicodinovità,elomandadelparicolPe
reira,colTamburini,colNatali,ecolZola.Ma cheil Gusta parlasse per invidia, e
per bassissima vendetta, sitravede in leggendo quella vita; e l'Amaduzzi ben
fe? a punirlo collo sprezzo dell'opera, e dell'autore. Egli il 16. maggio del
1791. ottenne di essere giu bilato dalla cattedra di lingua greca nel
collegioUre bano, e il decreto n'è molto onorevole. Nel dicem bre dello stesso
anno cadde malato, e giudicarono che egli avesse pericolosa ostruzione alla
milza, ed al fe gato.Siposeinletto,e arigorosacura;ma ilmale anzi che cessare
rincrudì, e lo mise fuori d'ogni spe ranza di riaversi. Anima nobilissima come
era,accettò l'annunzio del pericolo suo con serenità di volto, e tranquillità,
e adoperò in quello stremo da quel filo sofo cristiano, che per tutta la vita
aveva mostrato. Sia qui debita lode ai cardinali Antonelli, Borgia, G a rampi,
che luisoccorsero generosamente in ogni gui sa; perocchè egli non aveva modo da
sè di sostenere lunghe spese di malattia; non avendo mai voluto far
denaro,anche potendolo.Ne glimancarono buoni ami ci in quell'estremità,che ben
n'aveva di tali; sebbe ne egli fuor del mondo col cuore solo fidava in Dio, e
però presi i conforti della chiesa, dispose delle poche cose
sue,etranquillamentepassòil21.gennaro del1792. in età di soli 51. anni. Morendo
lego alla patria la sua ricca biblioteca che era il meglio dell'eredità sua;
legato preziosissimo specialmente peisuoi scritti,e pel carteggio. Fu pore țato
al sepolcro in abito clericale suo principale o r n a mento edecoro,come,egli
primadimoriredichiarò; poichè egli aveya ricevuti, come siè detto, gli ordini
minori. Tutti i giornali d'Italia piansero laperdita di tantuomo.L'abbateOssuna
ex-gesuitamaestrodirettori: pa in Savignano ne inserì un bell'elogio nella
gazzetta di Cesena;unaltronemiseilP.Pujatinegliannali eça clesiastici di
Firenze.Anche il Mazzuchelli nella sua grand'opera degliScrittoriitalianinefeceun
bell'elogio: ma il più ricco di tuttifu letto nella reale accademia delle
scienze e belle lettere di Mantova il 29. novembre del 1793. dall'abate don
Isidoro Bianchi,con appresso il catalogo delle opere dell'illustretrapassato; catalogo
â cui rimetto i miei lettori, perchè penso che di m e glio non si possa fare.
Basti sapere che ilnumero delle opere dell'Amaduzzi tra le edite, e quelle che
inedite rimangono nella biblioteca savignanese vanno oltre à cento venti, é ve
ne ha alcuni di gran mole. Non possoperò quipassarmidall'accennarneuna per oni
1 Amaduzzi si ebbe grandi amarezze, e fu = Lege'snovellaeV.anecdotaeImperatorum
Theodosiiju nioris,etValentiniani111.etc.= Intornolaqualeil dotto Bianchi dice
così = Ai colti bibliografi non è ignoto, che in tempo che l'abate Amaduzzi era
in R o ma occupato per la pubblicazione di quest'opera in signe,inRavennapure
sitravagliava dal dott. Anto nio Žirardini per lo stesso oggetto. Or la morte
dello stampatore,cheincominciò l'edizione romana,é ledue malattie di quello che
la prosegui (vedi Nov. Lett. del Lami del 1766. a col. 822. ) ritardò la
medesima più oltre del tempo assegnato nel manifesto, che usci ai 21. di giugno
del 1766; é nel quale si promettevä il libro nel prossimo agosto, quando per le
suddette c a gioni realmente non uscì che nel 1767. L'edizione in tanto del
Zirardini si rese pubblica nello stesso mese di giugno dell'anno sumentovato, e
dal Lami ne fu subitoriportato un lungoestratto,chesiè creduto di mano dello
stesso Zirardini, o di qualche altro suo intimo amico dimorante in Roma
(Gaetano Marini): Un altro breve annuncio della stessa edizione faentina
fadatodaigiornalistid'Yverdon (tom.I.1768)av vilendola forse un po'troppo in
confronto della roma na.Questoannunziounpo'vibratomisedimoltomal amore il
Zirardini, e stuzzicò un letterato romano (it prelodato Marini)molto amicodel
medesimo ad inse rire nel tomo 3. del giornale di Pisa un lungo estrat to
dell'edizione delle cinque Novelle fatte in Faeriza dal dott.Zirardini, attaccando
l'abbate Amaduzzi d'im postore e di plagiario, come se egli nella sua edizione]
La cosa era in sè semplicissima. Due dottiquali
eranoilZirardini,el'Amaduzziavevano estratta00 pia delle cinqueNovelle quasi
inpari tempo;amendue vi ponevano studio intorno per illustrarle;l' uno in
sciente l'altro le pubblicava. Or che male è qui? lo avviso che se i
giornalisti d'Yverdon avessero con più lode trattata l'edizione faentina non si
sarebbe mossa querela alcuna nè dallo Zirardini, nè da alcun altro. M a il Zirardini
punto dalle parole dei giornalisti d ' Y verdon, e rinfocato dal Marini, che
vedeva forse di mal'occhiosalitoinfama1'Amaduzzi,chealloraa lui non era amico
più che d'apparenza (cosa che si pro va benissimo per molti fatti,ma piùper le
lettere del Marini al dottissimo pesarese Olivieri le quali nella p u b blica
biblioteca di Pesaro si conservano )cominciò a fare lagnanze, ed avventarsi
contro l'Amaduzzi.Sebbene sa rebbe piùveroildire, cheilZirardini,chemodestoepaci
fico era di natura, si lasciò reggere in tutto dal Marini stesso; il quale si
fe' innanzi al pubblico co'suoi scritti a c cusatore dell'Amaduzzi,più presto
che buon difenso redelZirardini.Egliè fuordubbiochemolto inge nuamente
l'Amaduzzi, nel S, X. della prefazione dopo aver mostrata nel suo vero essere
la cosa, diè le più belle lodi che mai al Zirardini, sino a confessare che ove
avessepotuto,sisarebbeegliastenuto dalpubblica re l'opera sua, dopo avere
conosciuta quella dell'illu stre ravignano. Eccone le parole = Neque hic nunc
silentiopraetereundum dum opus hoc nostrum praelo traderetur, has ipsas
Novellas ex eodem Othoboniano Codice depromptas
faventinisArchiitypisprodiisselu culentissimo commentario illustratas Antonii
Zirar dini ravennatis viri consultissimi, qui eundem codi cem insciis nobis ab
ipso Ruggerio jampridem obti , nuerat, qui sane longe effusiori doctiorum
adnota tionum segete,ulteriorique rerum doctissimarum ap 999 » 14 romana
si fosse approfittato dei lumi, e della erudizio ne sparsa nell'edizione
faentina. L'abbate Amaduzzi però,cheebbe sempre a cuoreilproprio onore,esem pre
si fece un dovere di vendicare igravitorti, che la malignità congiunta
all'invidia avesse saputo recare alladi lui onestà,e buona fama,non
tardòapubblica re sotto il finto n o m e di Evisio Erotilo la sua apología. 92
99 jypáratu rem perfecit;quod sane sinobis, antequam hanc spartam
curandam susciperemus , innotuisset, w
cîtrapublicaefidei,quajamobstringebamurinjuriam;
eademfortedimittianobispoterat.= (Ginanni t. 2. Memorie storico-critiche degli
scrittori ravennati ): Dopo questo io non posso credere per conto alcuno a ciò
che francamente il Marini afferma nella sua im .
mortaleoperadeipapiridiplomatici.- L'Amaduzzi volle far credere di non aver
lettö il libro del giures consulto ravennate,chepur aveva tutto coraggiosamento
te espilato و Parole che bene consuonano alle acers bissime che scriveva
all'Olivieri, dalle quali si pare, che per buon viso che mostrasse all'Amaduzzi
pure vi avesse mal'animo contro.Tanto possono le passioni nel cuore degliuomini
piùsapienti,etale èlasciagura perpetua delle lettere italiane! L'Amaduzzi fu
uomo pio, caritatevole,generoso; bocca di verità.Cogli amici affabile,con tutti
umano; socievole. Consultato dai primi dotti volentieri lorð sinceramente si
prestò. Sappiamo infatto che fu inters pellato dal famoso Pasquale Amati per la
sua col lezione dei Poeti latini,come si legge nel tomo I. pax gina 6. della
prefazione; dal dottorFantini per le an tichità di Sarsina, che ristampò in
Faenza nel 1969: in cui si trovano varie aggiunte dell'Amaduzzi; dal Ferri; dal
Bianconi,dalcardinalRiminaldi,aiqualidièmoltis sima mano.Faceva
volentiericopiaaltruidelsuo vasto sapere, e spesso scrisse per altri donando la
fatica e la gloria che ne verrebbe. Grato oltre ogni credere tramandò ai posteri
le lodi di quanti a lui premoriro no amici, e benefattori. Se qualcuno a lui
caro o sti mato veniva offeso nell'onor letterario o in altro, e gli si levava
a difesa, e acerrimamente ripugnava le accuse. Intraprese viaggi per diversi
luoghi d'Italia onde meglio erudirsi, visitando biblioteche e codici, e molti
ne trasse dalle tenebre.Usava ogni di notare in un libro le cose vedute, o
fatte. Amò lapoesía, e giovine dettòversiitaliani,iquali,comecchèritraggano
assai del secolo in che visse, sono degni di essere letti. Si piacque oltremodo
delle artibelle, e ne rendono fede i'elogioche egliscrisse di RaffaeleMengs, e
l'amici xia che lo lego al Winckelman , al Bianconi, al Bottari; 16 'e ai
primi artisti di Roma. Non 'cercò, anzi rifiutò ca riche offertegli. Dalle
lettere a lui dirette da varii m i nistri sirileva cheegli fuinvitato dalla
real corte di Napoli allacarica di CustodedellaBiblioteca regiae
delmuseofarnesiano,'edi coadjutoreperpetuo della reáleaccadèmia il 2. settembre
del 1780. con onora rio di 300 a 400 ducati, ed altre buone condizioni. Ed
essendosene scusato 'fu di nuovo invitato con più vive istanzel'8. gennajo del
1782 con più largheof ferte.Nè unsecondorifiutobastòacessarel'inchieste: poichè
il 24. luglio del 1784. gli furono offerti mille d u cati,equelch'egli
volesse,solochesirecasseadac cettare l'invito.Altrecariche purericusò,perchèa
tutto anteponeva lo starsi fra 'suoi libri in R o m a. La patria accettando
ilgeneroso legato fattoglidi oltre 4000 volumi gli ordinò solenniesequie nella
chie sa maggiore a spese pubbliche, a cui intervennero il magistrato, e i
principali cittadini di ogni ordine. Fu posta sullaporta della chiesa una
'onorevole iscrizione dettatadall'eruditissimoPietroBorghesi,laquale andò
pure'alle'stampe.Appresso nell'atrio dellecasedel municipiofuincisala seguente iscrizione
scritta dal chiarissimo suoconcittadinocavaliereBartolomeoBor ghesi figlio di
Pietro, la quale dice così. Jano · Christophoro · Mich · F · Amadutio Philologo
: Eruditissimo Ordo • Sabinianensium Civi . Bene ·Mer. ·Altro onore vole titolo
puresarà in breveposto entrolabiblioteca, ovecongrandesennoe gloriadei
trapassati, a stimolo dei viventi 'concittadinisono in marmo descritti gli
elogidiquantireseroillustrelapa tria dell'Annaduzzi, che fu pur quella del Barbaro,
dei Borghesi, degli Amati, è del Perticari. N.B.Ilritrattoèstatorica- miglia Amaduzziin
Savignano. mpato da quello esistente nella fa MONTANARI PROF. G. I.DI
BAGNACAVALLO = SCRIS. EA est temporis ed acitas, ut cum ftapaul- latim
diflolvat, nullaque res fit vel pre¬ tio,velfoliditate,velquocumquealio nomine
praeftans, quae eius imperium detreftare (e poffc confidat. Si Roma¬
norummonumentaadaeternitatemcon- ftru&a perpendamus, quae nunc vel diruta,
vel male confi- ftentia oculis nofiris obverfiantur , intimo quodam doloie
percellimur , & aegre licet, indubie tamen fluxam rerum hu¬ manarum
conditionem agnofeimus. Ceterum is eft de animi
noftriimmortalitatenobisindituslenius,atqueitaaltede¬ fixus , ut veluti tacite
ab eo profe&um intelligamus tum de-
fiderium,quotangimur,veterummonumentorumanxieper¬ quirendorum , tum lolertiam ,
quam in lifdem vel reipfia con¬
fervandis,velinlongiusduraturamateriaexcipiendisimpen¬ dimus. Haec peragentes
videmur quodammodo inanimatis re¬ busnoftramtribuereimmortalitatem,qui&eafdempofteritati
commendemus,&earumdempraefidiovelutinosipfosadtranf- acftas remotiffimas
aetates, ad quas pertinent, transferamus , atque I II atque ita
exiguam nimis vitae noltrae brevitatem vel produ¬ cendo , vel compenfando nobis
libentiffime blandiamur . Quae ergo veterum artes , & profeffiones
condiderunt, Signa , Pro- tomas , Hermas , Anaglypha , Sarcophagos , Titulos ,
cetera- quemonumentacolligeretumprimumfategitFrancifcusPe- trarcha , quem Tuae
aetatis perpauci, plures fequiorum tem¬
porumimitati,tumMulca,&Villasiifdemlucupletantesa litu,Iquallore, quin&
interituprovidilTime vindicarunt.Sed in irritum cefolTet haec ipfa follicitudo
, nili typorum etiam accefliffet luccenturiata fedulitas. Quot enim diffracta
Mufoa, quot iam Villae labefactatae, & quot vel avulfa , vel rurfus obruta,
atque etiam foede difrupta, quae ibidem exfiftebant,
monumentavelutiaboculisnollrisaufugerunt1Quarelae¬ tandum nobis elt, eo
pervenille humanae mentis acumen, utiplistemporum,&rerumvicilTitudinibusoblittere,&vim
inferre non dubitaverit, & curas curis addendo nova excogita¬
veritpraelidia,quibusdiuturniorihuiufmodimonumentorum confervationi
prolpiceret. Hmc ergo elf, ut quae in unum col¬ lecta monumenta perierunt,
perenniter vivant in eruditorum Voluminibus vel typis aeneis contignata, vel
doctis illultrata adnotationibus, quibus nunc autographorum deliderium nobis
reparari quodammodo videatur. Quare non aliam ob cauffam, neque etiam abfimili
ratione quae olim laudabili providentia Cyriaci, &: Afdrubalis ex Matthaeia
gente Procerum, & lovii Marchionum tum in Hortis Caelimontanis, tum in
Aedibus ad Circum Flaminium coafta, & collocata fuerunt omnis generis
monumenta , nunc primum aereis formis infoulpta , nollris il¬ ludi ationibus
ditata , in unum collecta, rite dilpolita , ac tribus comprehenfa Voluminibus
preli beneficio in publicam lucem
emittuntur.Licetenim,utfuolocomonuimus,&deinceps etiam monebimus, multa
eorum a prioribus hilce domiciliis pro- III
profectainceleberrimumilludMufarumSacrarium,Mufeum nempe Clementinum Vaticanum,
conceffierint aevo quam lon- giffimo fruitura , tamen non omnia illuc fe
receperunt, multa quinimmoproculiamabiere,acmultaetiamindiesfatifcunt. Videt,
credo, porro unufquifque, ereomninofuifle, utquae olimfuerittantamonumentorumcongeries,unooculiiftu
perluftretur,tumdomi,&foris,tumpraefenti,acfuturo tempore innotefcat.
Deliderandum quidem erat, Hortos , & Aedes Matthaeiorum tantis confpicuas
monumentis litterato¬ rum obtutibus exhiberi, ne tot aliis, numquam cum iis
com¬ parandis, quae hoc beneficium nactaefuerant, veluti quodam¬ modo
inferiores & haberentur, & effient •
II.Poftquamlitterarum,&veterumfcriptorum,rnonu- mentorumque ftudium
adolevit, tum artes ipfae, quibus ab honeftate nomen efi , barbariem a Gothis ,
Langobardis , ce- terifque feptentrionalibus populis inaufpicato invectam
Italia exfulare iulfierunt, homines conformare fe urbanitati, cultui, &
magnificentiae Romanorum veluti quadam concertatione facta coeperunt. Inter
cetera Romanae magnificentiae opera, quibus luxus impenfius excreverat,
&.ipfe Perfarum faftus, & opulentia obfcurata omnium iudicio
cenfebatur, Villae pro¬ fecto fuerunt, quibus nihil pulchrius, nihil amoenius,
nihil praeftantius&fpatiiamplitudine,&ftruHuraeexcellentia, &
aedificii decore , &: operum copia haberi poterat . Exftant nunc etiam
Tibure Hadrianeae Villae veltigia, quae fupra re¬ liquas plane excellebat,
& ex qua tam infignia & Graecorum, & Aegyptiorum monumenta
prodierunt, ut iis Mufeum Ca¬ pitolinumtamquamcimeliisomninolingularibus,omnium-
que praefiantiffimis inclaruerit (0. Scatebat porro Tiburtinus ager (i) Pyrrhi
Ligorii Defcriptio Villae Tiburtinae Hadriani Caefaris. Romae 1551. in fol. eum
Ji- guris • Vide lofephum Roccum Vulpium Vet.Lat. Tom. X. y Sc omnes Tiburtinos
Hifloricos, Ioh. Franc. Martium, & Antoninum Regium, tum_, Idyllium Fabii
Crucii, inferius citandum - Omnium IV ager multis aliis privatorum
civium fecedibus longe clegan- tiffimis , inter quos omnium deliciarum genere
conferta emi¬ nebat Maecenatis Villa, aderantque aliae, quae ad Manlium
Vopifcum(0,MunatiumPlancum,SalludiumCrifpum,C. Caffium , Quintilium Varum ,
Marcum Lepidum , & Cyn¬ thiam Propertii amicam, aliofque pertinebant.
Praetereo Ci¬ ceronis Tufculanum (2) , quod fuerat antea Syllae , tum For¬
mianum , Cumanum , Puteolanum, & quod omnibus celebrius, porticu , &
nemore infigne, atque Academicis quaedionibus facrum , Pompeianum. Celebre
& Horatii diverforium in Sa¬ binis (?) , Catulli extra Portam Valeriam ad
ripam Anienis (4) , Senecae in via Nomentana 5) , Martialis ibidem C6), &
longo laniculi ingo (V , aliorumque.
III.Horumigiturimitatiexempla(aeculiXVI.magnates opulentia, luxu , &
litteris praedantes fuburbana condere coe¬ perunt amoenidima, quorum primum
illud cd, quod in oppido Bagnaiae anno coidxi. inchoatum tandem perfecit Ioh.
Franci- fcus Gambara Card., & Viterbiends Eccleliae Epifcopus, cuius fata
& Francifcus Marianius (s) , & Felicianus Buldus (9) late
alienigenarumfrequentiacelebraturhaecVilla,nec caruic praefentia IOSHPFII II.
Imp. Pii Felicis Aug. 3 cuius rei memoria marmore infculpta haec Imp. Caef.
lofepho . II Petro . Leopoldo . M. Etruriae . Duci Archiducibus . Andriae .
Germanis . Fratribus PP. FF. AA Hadrianae . Villae . vedigia In. hoc . fundo,
ac. vicinia, confpicua Huius . Villae. Dominus, demondravit Iofephus . Eqiles .
de . Fide Aulae. Caefareae . Confiliarius XIII. Kal. Apr. A. MDCCLXIX pro-
lianaeVillaeexidimat;tumGregoriumPlacenti- nium de Tafculano Ciceronis 3 nunc
Crypta Fer- rata; Romae 1758. (3) Vide Differtazione di Domenico de Sanctis tra
oli Arcadi Falcifco Carijliofopra la Villa di Orazio Flacco; Roma pel Salomoni
1761., 8c De- cuoverte de la Maifon de Campagne d'Horaee par PAbbe Bertrand
C.ap Martin-Chaupy ; d Rome 1769. vol. III. (4) Hendecafyll. XLII. (5) Epiff
104. , & 110. (6) Lib. I. Epig. 106. (7) Lib. IV. Fpig. 64. (8) In Parergo
de Fpifcop. Viterbien. pojl Dif- fertationem de Etruria Metropoli; Romae 1728.
(9) Ifloria della Cittd di Viterbo; in fine del- (2) Vid. Ioh.LucamZuzzcrium(D'unaanti-
laCronologiade'Vefcovi;Roma1742.Condito¬ ca Villa [coperta fui dojfo dei Tufalo
; Venezia rum nomina hifce Verfibus Petri Magni ibidem (0 Vid. Statium Sifa.
Lib. I. 3. 17 47- 9 qui Ruifincllac delicium Jocum fuiffe Tui- exaratis
innuuntur: Nec V profequuntur . Tum prodierunt, ac longe lateque
inclaruerunt Horti Tiburtini , quos poft Card. Bartholomaeum Quevam, qui
aluliolll. obtinuerat, Card. Hippolytus Eflenfis exftruxit, permagnifico
praetorio auxit, & antiquis ftatuis , picturis regiaque prorfus
fupelleftile locupletavit . Hi dein in Card. Aloyfium Eflenfem translati funt,
quo vita funbto, ex, Hip¬ polytite ftamentaria voluntate, & iudicialifententia,
eorumdem usura XII. annorum spatio cedit Sacri Collegii Decano, donec purpura
donato Alexandro Eftenfi, eorumdem ius in ipfa familia'inftauratum cft,
novafque a legitimis dominis & additiones, & reparationes poftea
habuerunt(0 . Tiburtinum hoc delicium carminibus celebravit M. Ant. Muretus, ac
praedicarunt infuper Libertus Folietius (2) , Ioh. Francifcus Martius (s),
Antoninus Regius(4), Fabius Crucius W , Ferdinandus Ughellius 05) , Francifcus
Scottius») , Rodulphinus Ve- Nec placuifle tibi laus ultima3 magne Riari, A quo
primus honos 3 nobilitafque loci. Quod fi longa tuae ncvifTct flamina vitae
Invida Parca, nihil quod quereremur erat. Saltem magnanimi virtus praeclara
Rodulphi Serius ad fuperos hinc abiifTet heros. Nunc j o Dive loci praefes ,
tibi Gambara poft hos Contigit haud opibus } fed pietate pari.
(0TeflesfuntfequentesInfcriptiones’: I. Regios . Eftenfium . Principum Hortos .
iinmenfo . Card. Hippolyti Sumptu . praeruptae . rupis Afperrimis. cautibus In
. mollilTimi . clivi . penfiles Ambulationes . converfis Ac . terebrati. per .
montis . vifcera Duffcis . ex . Anniene . innumeris Fontibus . admirandos . ab
. Aloyfio nutius Magnificentiori . forma . conftru&i Et . venuftati . quam
. vides Reftituti Anno. Salutis . MDCLXXXV (2) Tyburtinum Hippolyti Card.
Ferrarien. ad Flavium Vrfinum Card. ampliff. 3 inter Opera fub- Jiciva Vberti
Folieti Genuen. Romae apud Franc. Zanettum 1S’79- j & In 1'om. I. Part. II.
Thefaur. antiq. bijtor.ltalic.Ioh.Georg.Graevii.Lugd. Batav. 1704. (2) Hiflor.
Tibure. Lib. V. num. 174. Thef. . Graev. Vol. III. pag. 4. (4) Antichitd di
Tivoli di Antonino dei Re ; Tom. eod. Thef. Graev. (5) Ville di Tivoli deferitte
dall'Arc/prete Fa¬ bio Croce di detta Citta; ldilio divifo in due rac- conti 5
nei quali fedelmente Ji narratio non meno le Ville , che anticaraente v'ebbero
, e frequenta- rono gl*Imperatori , Re con altri infigniperfonag-
Et.Alexandro.Cardinalibus pi,ecelebrivirtuofi,raalamedefimadellaSere- Magna .
fplendidi . cultus Acceflione. nobilitatos II. Serenifiimi.Francifci. II.
Mutinae . Regii. &c. Ducis Vel . abfentis . munificentia Fontes . ifli .
temporis . iniuria . collabentes nijjima Cafa d*EJle &c. 1» Roma per it
Mancini 1664. in 8. (6) In additionibus ad Alpbonfum Ciacconium de Fontiff.
Rora. 3 S.R.E. Cardd., ad ann. 1539. ubi de Hippolyto Card. Eftenfi . (7) In
Itinerario Italiae Lib. III. pag. 631. nutius(0,IohannesPetroskiusO),IolephusRoccusVulpius
(3) , Ioh. Andreas Barottius (4), aliique. Picturam vero aeneis typis Romae
publicavit Corona Pighius. In hos oculos Ilios potiflimum intendit, & horum
exemplo incenius eit Cy- riacusMatthaeius,quodeinluosinCaelimontioexcitaret,
quoslatedeferibemus,poftquamceteros,quideinRomae, vel in eius vicinia conditi
funt, levi calamo attigerimus. IV7. Fere eodem tempore excitari coepit ab
Alexandro Farnefio Card. , Paulli III. fatris filio, Caprarolae delicium ,
infigni praclertim architectura lacobi Barotii a Vignola , St praeclaris
Thaddaei, Friderici, St Octaviani fratrum Zucca- riorum, Antoniique Tempeftii
picturis celebratiflimum b) . Heicetiam laudandinunc veniuntHorti,quiprimumexiuflu
Card.IuliiMedicei, qui fuit poflea Clemens VII. P. M., for¬ mam praebente
Raphaele Sanctio , conftructi funt ad Clivum Cinnae (nunc Montem Marium dicunt
), picturilque Iulii Ro¬ mani, StIoh.Utinenfisornatifunt,actandeminFarnefiam
gentem , quae cultu fplendidiores, St opere ampliores fecit, devenerunt W
Recenlenda infuper eft Villa Philonardia, quam
EnniusPhilonardiusS.R.E.Card.Tiburefibicomparavit, quaeque nunc fquallet, St
rimarum plena undique fatifeit, atque dilabiturb) . Quid vero memorem Hortos a
Iulio III. extra Portam Flaminiam dein mire exftruStos, a Faufto Sa¬ (1) Defcrizione
topografica 3 ed iflorica di Ro¬ ma moderna Tom. II. pag. 925. bae- prarola
&c. Opera de' pih celebri Arebitetti 3 di- fegnata da diverfi . Libro in
8$. fol. 3 c mezzi fol. Imper. Parte III. Tum Deferizione 3 e rela- zione
iflorica dei nobilijftmo real palazzo di Ca-
prarola&c.daLeopoldoSebafliani;Romapergli (2) Trigonometrica Dioecefls,
& Agri Tiburti- tii Topograpbia 3 ‘veteribus 1viis 3 'villis 3 ceterifque
antiquismonumentisexculta&c.RomaetypisGe¬ nercflSalamoni3pag.XIII.
eredideiFerri1741.inS.VideEpigrammaAu¬ ($) Vet. Lat. Tom. X. (4) Memorie
Ifloriche de’ Letterati Ferrareft; opera pofluma . In Ferrara nella Stamperia
Came- rale 1777. Vol. I. pag. 336. CS) Vide Studio d’Arcbitettura civile fopra
va¬ rie Cbiefe , Cappelle di Roma 3 e Palazzo da Ca- relii Urfii Romani de
Caprarolae deferiptione ad Card. Farnefium Lib. III. Epigr. 21. pag. 75-
utriufque editionis Parmen. 1589. 3 & Bonon. 1594* (6) Nunc Villa Madama
vulgo audit \ (7) Vid.‘Iofephum Roccum Vulpium Vet. Lat. Tom. X. Lib. XVIII. Cap.
X. pag. 379-
baeio(*)&FrancifcoCommendonio.C2)carminibuslaudatos, tum a Scottio Cd
, BoifTardio 3 CiacconioW 3Panvinio (6), aliifque fufe defcriptos ? Ii namque a
Clemente XIV., & PIO VI. Summis Pontificibus nuper reparati eruditorum o- mnium
oculos in fe converterunt, & aeneis formis expreffi, noftnfque
illuftrationibus audi in publicam lucem ad Archi- tedonicae artis praefertim
adiumentum propediem prodibunt. Laudari vero lure poftulant Horti Medicei in
Colle Hortulo- lum exfiflentes , a Card. Ioh. Puccio Politiano inchoati, &
dein ab altero, eoque eximio Romanae purpurae ornamen¬ to , tum Magno Etruriae
Duce Ferdinando Mediceo multis eruditae vetuftatis praeclaris reliquiis, &
exoticarum lingua¬ rum typographia longe celeberrima magnificentiffime ampli¬
ficati . Commemoratio faltem defiderium reparet Hortorum Carpendum, quos in
Quirinali olim aedificaverat, atque adeo praeclaris ornamentis infigniverat
Rodulphus Pius S. R. E. Card., ut CXXXVI. amplius ftatuae in iis numerarentur,
quarumpraeffantioresrecenfetLJlyffesAldrovandiusV)3eas infuper referens, quas
& ipfius Palatium in Campo Martio
fervabat.Hisiungantur&Hortiilli,quioliminSuburra prope Amphitheatrum
Flavium, & Templum Pacis a Card. Lanfranco conditi, Carpenfes dein fadfi
funt. Prodierunt & hoc tempore Horti Farnefiani Tranftiberini (8J , aliique
Palati- nifV,ubinuncvineae,&;vepres.Necreticendifuntmodo ma¬ to
Epigrammatam Lib.I. pag.Sj., fi7., ,33., 138., 144.3 148., i;i., ij6., ij7.,
161, (2) Ex Mf. Cod. Epiflolar, Cornelii Muflii Epifc. Bituntini apud CI.
Praefulem Stephanum Borgiam a Secretis Sac. Congr. de Propaganda Fide . (3)
Itiner. Ital. pag. 483. (4) Topograpbia Vr.bis Romae Tora. I. pag. Jo. &
feqq. (3) In vitis Ptmtif., 'ubi de Iulio III. (fi) ln vita Ia/ii III. poli
vitas Barth. Platinae . Hortis Carpenfibus legendus Boiflardius loc. cit.
pag.46.jScottiusloc.cit.Lib.II.Cap.VII[. pag.476.j Francifcus Swertius Lib. II.
Itiner. Italiae 3 Andreas Victorellius, ae Ferdinandus U- ghellius apud
Ciacconium in Rodulphi Pii Card. vita3&FloravantesMartinelliusRomaexethni¬
ca facra pag. $y. Vide Portae eCtypum inter o- pera Architectonica Iacobi
Barotii a Vignola^ Tab. XXXXV. (8) Vid. Scottium loc. cit. pag. 416., Boif Tardium
(7) D elieStatue antiche, cbepertutta Roma,
loc.cit.pag.11.,&UrfiumLib.I.epigr.12.pag.52. fiveggono 3 pag. 29J. Vid.
fuperius pag. 201. De (9) Vid. Scottium pag. 444. VIII
ma*nificentiffitni Horti Quirinales Card. Guidonis Bentivoh Ferrarienfis,
quibus nulli Romae erant arboribus fplendidiores, ut & lilvae lpeciem praeberent,
& labyrinthi b) .Succedant dein HortiCaelii,qui,defcribenteloh.BaptiftaFonteio-,
ad dexteram laniculum habent, ad laevam Vaticanos montes , ante fe Tiberim ,
SancTi Spiritus Fanum , & Xenodo¬ chium, pojlfe Prata Neroniana , fornaces
lateribus exco¬ quendis infimaas, edito in colle,fecundum aedes Cacfias re-
fertiffimas ipfis antiquitatibus. Horum Hortorum Inlcripuones multas refert
ipfe Fonteius, lulius Iacobonius, cetenque, ac nonnulla eorumdem vetera
monumenta iamdiu inde avufa ad augendam Capitolii maieftatem praecipue
emigrarunt b . NonnullisantiquitatisexuviisditatiquoqueerantHortiAven¬ tini
Maximorum H) . Nec fua careat laude Blofianae Villae amoenitas, & Hortorum
Coloccianorum apud veteres Sallu ftianosO123) tumobveterummonumentorumcopiam,tumob
litteratorum conventum celebritas. Infuper memoretui Augu-
ftiniChifiiSuburbanumTranftiberinum,inFarnefiamgentem translatum,
magniRaphaelis picturis , multifque antiquitatibus IpedlatiffimumV; 5 Marcelli
Ccrvinii Card., & dein Pontificis Max. Villula elegantiffimaV), ac Petri
Melinii altera V), in qua Poe- (1) Vid. Scottium pag. 479.} &
BoifTardiurrL. pag. 47. (2) DeprifeaGaeftorumgenteLib.Il.Cap.XIII. pag. 154.
Vid. Urfium Epigr. 19. Lib. III. pag. 72., ubi de fimulacro Veftae in Hortos
O&avii Caefii translato. (3) In Capitolio: Clemens.XI.P.M Romae. de . Dacia.
Triumphantis Captivorumq. Numidarum . Regum . Statuas Ex . Hortis . Caefiis
Addito . Aegyptiorum. Signorum . ornatu Porticuque . a . fundamentis . excitata
Ad . augendam . Capitolii . maieftatem Tranftulit Anno. Salut. M. D. CC. XX
"4) Vid. lulium Iacobonium appendice ad Fon-
umdeprifeaGaeftorumgenteCap.XIX.pag.229. (5) Vid. Fauftum Sabaeium Lib. 111.
Epigram. , 525., 524., & 5*5- edic- Romae isj6- (6) Vid. Virum Cl. loh.
Francilc. Lancellot- ,m in vita Angeli Coloccii praemilta operi , cui
ulus:PoefieItaliane,eLatinediMtuifg.'i»'
IoColocci&c.hfi.772-PUires''"rcriP‘ionesCo- rcianae migrarunt in
Palatium Caid. Carpine!: Le Smetio in Praef. Infer. (7) Suburbanum Aitgitfini
Chifi per Blofum illadium . Romae per lacobum Mazocbium Re- jn. Academiae
Bibliopolam 1J12. (8) Vid. Sabaeium loc. cit. pag. 568. (9) Vid. Benedi&i
Lampridii Cremon. Odem in eliciis Poetar. halor. Tom. I. pag. 1311«
IX Poetas de more familiae coena excipere ipfe folebat. Accedat Villa
Lantia in laniculenfi calle fita, quam Iulii Romani ar- chiteftura, &
piHurae celebrem praefertim fecerunt. Acci¬ pe nunc & veteres Hortos
Vaticanos (0 , quibus Hortus Bo- tanicus quinetiam Nicolai V. iufiu olim
conditus adnecleba- tur(2),quofqueamoenioresfecithoctemporePiusIV.,ex- flxufto
'ibidem delicio fane elegantiffimo, ufus opere Pyrrhi Ligorii, qui formam
dedit, & perficiendam curavit. Huc e- tiam revocanda Villa ampliffima, quam
ad Tufculanum aedi¬ ficavit Card. Marcus Siticus Altempfius Pii IV. fbroris
filius, quaeMondragonisdiflaeft,quaequedeinfaftaeitCard.
ScipionisBurghefii,aquomultaetiamhabuitincrementa. Sed iam properemus ad
celebres Hortos Viminales , five Ex- quilinos , quos Sixtus V. condidit,
infignibufque ornavit ve¬ terummonumentis,quiproinde&Perettii,&Montaltini
dicti funt, quos Aurelius Urfius Romanus (d praefertim car¬ minibus celebravit,
quofque dein fuos fecit Ioh. Francifcus Nigronius Genuenfis S. R. E. Cardinalis
O . Tum his iungan- turproximitate,&eiufdemPontificisbeneficentia,&aufpi-
ciis affines Horti Viminales Martii Frangipanii0) , qui nunc
adStrotiamgentempertinent;atqueitafinisimponaturprae¬ cipuis , quae tulit
ruralia delicia faeculum XVI. IV.Necminoricelebritate,magnificentia,acveterum
monumentorum congerie praeftiterunt huiufmodi Suburbana, quae (i) Belvedere
vulgo audiunt. Vid. Delie. Poetar, halor. Iani Gruteri Tom. i. pag. 638.
(2)Vid.HortiRomanibrevemHiJloriamGeorgu. Bonellii CI. Medicinae Profefloris in
Archigymna- fio Romanae Sapientiae ad Tom. I. Horti Botani¬ ci Romani pag. 1.
(;) Carminum tib.II. pag. :8. Peretthm , fm Sixti V. Pontif. M. Horti Exquilim,
& Lib.IU- Epigr. 24. pag. 73, de Perettina Sixti V. P. M VUlq carmine
deferipta, mittit nempe verfus fu- perius indicatos . (4) In inuro Hortor,
prope Bafilicam Tiberianam: Sub . praefidio . Deiparae
I.F.tit.S.M.in.Ara.Caeli.Card.Nigronus Se . fuos . fuaque . conflituit Die . V.
Aug. ann. Domini . MDCCVII (5) In fronte Aedium: Sixto . V. Pont. Max Ob .
collata In c‘. fe . beneficia Hortofque . Viminales Au Flos Martius . Frangipanius
Grati . animi . ergo b X quae dein faeculo XVII. exftru&a funt.
Tufculum quidem amoe¬ nitate loci multos ad fe rapuit, & ad deliciarum
feceffus ibi dem aedificandos invitavit. Talis eft , quem Petrus Aldobran-
dinius Clementis VIII. fratris filius regiis prorfus impenfis , &
apparatibusexfiruxit0),& cuiabipfograto prospectu nomen inditum est. Eidem
etiam accepti referendi funt, qui in Quiri¬ nali colle eius Aedibus iunguntur ,
& veterum nuptiarum pi¬ cturis , ex Titi thermis addu&is , Horti potiftimum
celebrantur. Romae in Ianiculi vertice prope Portam Aureliam delicium fibi comparavit
InnocentiusMalvafiaV)AnnonaePraefectus, eumlocum occupans, quemibi Horti Martialis
olimobtinuerant (r). Quis vero pro dignitate referat Hortos Pincianos
fplendidiftimos , quos condidit Card. Scipio Caffarellius in
Burghefiamgentemadfeitus,quoiquetot,actantiselegan- tiorisantiquitatiscimeliis,tum&picturislocupletavit?Manillius,
Montelaticus, Leporeus, Brigentius , aliique C) latis fuperque eofdem
celebrarunt. Nec iple Paullus V. Burghe- (1) Infcriptlo ibi legitur: Petrus .
Aldobrandinius Clem.VIII.Fratris.Filius Redacta . in . poteflatem . Sanftae .
Sedis . Ferraria Reipublicae . Cbriftianae . fallite . reflituta Villam. hanc
Deducta . ex . Algido . aqua . extruxit Vid. Villa Aldobrandina Ttefculana ,
& varii il¬ ($) Vid. Epigr. LXIV. Lib. IV : Hinc Jeptem dominos videre
montes, Et totam licet aejlimare Romam.
litisHortorumi&Fontiumprofpettus;infol.E-
pitifingolari.IuRomaperGio.FrancefcoBuagni didit Dominicus Barriere ann. 1647.
Tabulis XV. , & dicavit Ludovico XIV. Galliarum Regi. (2) Perfecit anno
1604., ut docet Infcriptio , quae fic fe habet: in S. 3 Aufctorem habet
Dominicum Montelaticum. Defcrizione della Villa di Borgbefe di Lodovico Leporeo
in 4. Vide Apes Urbanas Leonis Allatii pag. 185. Poetica deferiptio Villae
Burghefiae vul¬ go Pineianae Andreae Brigentii . Romae 1716. fius. (4) Villa
Borgbefe fuori di Porta Pineiana di Giacomo Manilii Romano,hiRomaperLodovico
Grignani 1650. , in S. Villa Borgbefe fuori di PortaPincianaconPornamenti3chefioffervano
nel di lei palazzo, e con le figttre delle Statue In . hoc . Colle . lani .
Bifrontis . memoria Et.Martialis.Poetae.Hortis.celebri
in8.DeorumConciliuminPinciisBurgbeftanis Suburbanum.hunc.fecefium Domo .
clauftro . flatuis . picturis Fonte . aviario . pomario . vinea Inftruftum .
ornatum Innocentius . Malvafia . Cam. Apo/t. Clericus Annonae . Praefe£tus .
fibi. amicis Animi . caufa . comparavit Anno.Sal. MDCCIIII
HortisabEr/.Iob.Lanfrancoimaginibus,mono- crornatibus} & ornamentis
exprejfum. Delineavit, & infculpfit Petrus Aquila, fol. IX. imper. Fpi-
Jlola Francifci Blancbinii de nobilijjimo hofpite Co¬ mitis de Traufnitz nomen
profejjo, & in Villa Pinciana Burgbefiorum Principum excepto die 27. Maii
1716. Romae 1716 . 'XI fius, qui Quirinale Mutatorium Pontificum
excitavit, Hortos ibidem defiderari, neque eofdem & veterum monumentis-,
&. ceteris honeftae voluptatis deliciis carere voluit. Celebres &
antiquis monumentis referti funt Horti Ludovifiani, quibus locuscumvetuftisSalluffianisHortiscommunisaliquainparte
efi, quique Cardinalem Ludovicum Ludovifium praecipuum auftorem habent. His
neftantur Horti alii Ludovifia¬ ni iucundifiimi, quos dein fuos fecit gens
nobilillima de Co¬ mitibus , in Tufculo politi. Non elegantia folum, fed etiam
Ioh.TomciMarnavitiiBofnenfisEpifcopidefcriptiocelebrem fecit Villam Sacchettiam
Oftienfem. Quis omnes recenfeat Barberiniae gentis delicias & in Vaticano
ubi olim Horti Neronis, & in Ianiculenli, & in Quirinali colle (ri ,
& ad Ca- llrum Candulphi etiam magnifice conditas ? En Rufina Villa in
veitice Tufculi , ubi Tulculanutn Ciceronis aliqui ftatue- runt, ut &
fuperiusinnuimus, quam Alexander Rufinus Roma¬
nusMelphienfiumEpifcopusexftruxit.Prodeat&nunclani- culenlis Nobilia Villa
, cui nunc Spadiae a gente, quae eam poftea obtinuit, nomen efi, quamque inter
Aureliam Portam, & Hortum publicum Botanicum Vincendus Nobilius excita¬ vit
ri) . Sed Ianiculenfem collem nulla magis confpicuum fecit, quam Pamphilia
Villa, cuius pi-oPpedum , delineationem, & praeftantiora monumenta typisaeneisper
Ioh. Bapt. Faldam inlcuiptisexhibuitIoh.IacobusRubeus,quiopusinfcribens
Principi Ioh. Bapt. Pamphilio perperam Alexandri Algardii C0 Villa Sacchetta
OJlienfis cofmograpbicis ta¬ bulis , & notis illuftrata > rujlicanis
legibus , officinarumque infcriptionibus adnotata &c. Romae apud Ludov.
Gngnanum 16jo.i,; 4. vid. Leonem Allatium in Apib. Vrban. pag. 166. (2)
Vid.Tetium in Aedib. Barberin. p.37o& feqq. G)Haecibidemlegiturlnfcriptio:
Villa . Nobilia Viator Hic. ubi. Aedes., ad. animos archi- Inter . amoena .
exhilarandos A. Vincentio. Nobilio. excitatas Adfpicis Aug. Caesarem. aquae.
de. fuo. nomine. vocitatae Ex. Lacu. Alfiatino . milliario. XIV Conceptae
Et.in.rranfliberinam.Regionem.perduftae Emiffarium .exftruxifle. ne. fis.
nefcius Dixi. abi. felix . &. vale An. Sal. MDCXXXIX b2 XII
architecturam fecit, cum ad Ioh. Franc. Grimaldium Bono- nienfem pertineat (0.
Exquilinum vero collem tenet, atque ornatVillaAlteria,inquaStatuae,Frotomae,Infcriptiones,
& sepulcri Nafonum Picturae nonnullae veteres adfervantur. Iuftinianea
Villa, quae extra Portam Flaminiam & veterum ci- meliis, & recenti
cultu conlpicua olim erat, nunc omnino fquallet, eiufque ornamenta praecipua
iam ad alteram iuxta Lateranum fitam amplificandam proceflerunt (2) . Dies me
de¬ ficeret, ficeterasminores Villas, Cofiagutiam, Caipineam, Caeferiniam,
Urfiniam ad Arcus Neronianos, Gilliam via Portuenfi , Cafaliam in Caelimontio ,
Gymnafiam in Aventino, Sannefiam via Flaminia, Nariam via Salaria , Cinquiniam
viaNomentana,aliaiquefingillatimpercenfere,acdefcribe- re nunc vellem. V. Quare
memorentur nunc tandem Villae praeftantiores, quas tulit noltra aetas. Praeftat
extra Portam Nomen¬ tanam splendidecx ftructa PatritiaVilla (fi, quamimmortalis
memoriae Pontifex Clemens XIV. honeltum oblectamentum capturus quotidie fere
adire confueverat. 1 ranitiberinas Aedes Corfiniae gentis, olim Riariae, ubi
iam degerat Chrifti- na Succorum Regina, ornatiores facit Viridarium amplum,
amoenumque, quod iifdem coniungitur. Fluic proximum elt aliud eiufdem Corfiniae
gentis Delicium extra Portam Aure¬
liam,exSimonisSalviiarchitecturaconltructum,lofephiPaf-
feriipicturisinfignitum,pomarioauctum,&veterumcolum¬ bariis , quae Petrus
Sanctes Bartholius illuftravit W , & quo¬
(0VillaPamphilia3eiufquePalatiumcumfuh Ioannes profpeUibus } Jlatua^ fontes }
vivaria , theatra > Card areolae3plantarum3viarumqueordinescumeiuf¬ dem
ahfoluta delineatione . Romae formis loh. Ia- cobi de Rubeis in fol. Dicitur
haec Villa Re/re- Patritius Anno MDCCXVII fpiro. (4)Vid.Praef.adlibrum,cuititulusde'Sepol-
(2) Anno 1715. (5) In fronte Aedium haec leguntur : cri degli antichi; &
opus alterum eiufdem poftu- mum editum Parifiis a CU. Viris Caylufio9 & Ma-
rietteio 3 quod infcribitur Peintures antiques. rum XIII rum unum
eft libertorum Verginiae gentis, noftra aetate de- te£him(') , refertifiimum;
quod licet exafto faeculo ortum, no- ftro tamen maxima ex parte eft
amplificatum. Ad Portairu. Nomentanam , contra Coflagutiam Villam, novam
excitavit ColbertiiaemulusSilviusValentiusGonzagaMantuanus,S. R. E. Cardinalis,
Sc fapientiffimi Pontificis Benedicti XIV. a fecretioribus confiliis , quam
doctis omnibus patere iubebat, Sc antiquis infcriptionibus , exoticis plantis,
pluribufque ex India , & America adveftis cimeliis abunde ditaverat , quae¬
que dein a Card. Prolpero Columna Sciarra comparata Bar- beriniae genti nunc
acceflit. Extra eamdern Portam aliam fibi paravit Villam, nonnullis antiquis
monumentis ornatam , Car¬ dinalis Hieronymus Columna Aerarii Pontificii
Quaeftor, Ca¬ merarius vulgo nuncupatus . SecefTum quoque via Aurelia libi
fecit iucundiflimum Card. Iofephus M. Feronius Florentinus, qui primus docuit
hortos topiario opere ex malis medicis instruere, ne voluptas, Semagnificentia
folo fiimptu ,Stfterilitate diftingueretur , quin potius ex ipfo luxu , &
oblectamento non mediocris gigneretur proventus. Deliciis, & elegantia
fpectatif {imam Villam infuper aedificavit extra Portam Salariam non longe ab
Aniene, & ponte Narfetis Flavius Chifius Iunior S.R.
E.Cardinalis,quemmoxdirafatiforsperemit.Verumceteris
fupereminet,&iamomniummaximefamacelebraturfplen-
didiffimaVilla,quamextraPortamSalariamaedificavit,St quotidie etiam amplificat
Eminentiffimus S. R. E. Cardinalis Alexander Albanius , qui regio plane cultu ,
Sc exquifita ele¬ gantia ipfam perfecit. Aegyptiaca , Graeca, Sc Romana eiu-
ditae antiquitatis monumenta ubique fe produnt, quorumple¬ raque anecdota typis
aeneis expreflit, doctifque illuflravit ex¬ pli¬ co Vid.
EphemerideslitterariasFlorentinasCl. O) Vid. Elogio dei Card. Silvio Vale,ni
Go«- Ioh.Lamiianni1765.n.21.3 &feqq.coi.jai.j zaga
(deiCh.Monfig.ClaudioTodefchi). « &peqq. Roma dalle Jlawpe dei Salomoni
177^*PaS-34* plicationibus Vir Cl., idemquc infeliciflimus Ioliannes
Win- ckelmannius Saxo, olim Nethnicii in Agro Drefdenti Buna- vianae
Bibliothecae, quae in Electoralcm pottea migravit, Cu¬ ltos alter, tum Romanae
Ecclefiae facra profefTus, Romanarum antiquitatum praefe&ura ornatus,
Bibliothecae Vaticanae Scriptor Graecus renunciatus, & Albaniae iplius
Bibliothecae curandae praepofitus (0 . Cetera , quae ipfe intafta reliquit,
eadem plane ratione expofuit Vir alter eruditiffimus Stephanus Raffeius C2); utceterospraeteream,quifparfimipfavelexplanantes
, vel laudantes celebratiffimam hanc Villam undique praeftiterunt. Tanto
apparatui refpondent & picturae , quae au- btorem habent Antonium Raphaelem
Mengfium , cuius prae¬ dantia eo pervenit, ut Urbinatenfis virtuti proxime
acceflifie omnium iudicio exiltimetur. Vere quidem dixeris & Gratias, &
Mutas heic habere domicilium, ac veterum Confulum, & Au- guftorum tamquam
redivivam exfurgere maieftatem. Non igitur mirum , ti fplendiditTimum huius
Villae atrium patuerit Ca- moenis Dardani Aluntini, Iotephi II. Caefaris (3) ,
& Herme- lindae Thalaeae, Mariae Antoniae Walburgae Bavarenfis, Sa- xonicae
Electricis viduae (4) laudes concinentibus, ipfum- que Augultitlimum Principem
, &: Romanorum Imp. electum, Romae degentem , anno cididcclxix. a. d. XIV.,
& V. Kal. Aprilis & invifentem, & admirantem tantarum rerum copiam,
(0Monumentiautlchiineditifpiegati,ei‘tl- lujtrati da G:o. Winckelmann &c.
Torni II. Ro¬ ma 1767. in fol. (2) Ricerche fopra uti Apolline della Villa.j
dellEmoSig.Card.AlejjandroAlbani.IuRoma 1772. Saggio di ojfervazioni fopra ttn
Bafforilisvo della Villa fuddetta ( efprimente il voto di Bere¬ nice ) In Roma
1773. Ojfervaziom fopra un altro BafforilievodellameiefmaVillaAlbani(elpri-
mente Ercole domatore d’Echidna Scitica ) . Dif- fertazione fopra uh fmgolar
combattimento efpreffo in Bajforiliem , efflente nelta Villa fuddetta , c cioe
Ja monomachia di Mennone con Achille) . & prae- Filottete addolorato 3
altro Bafforilievo tiella Vil¬ la JleJfa ; in fol. (3) Adunanza tenuta dagli
Arcadi per Velezio- ne della Sacra Reni Maefla di Giufeppe II. Re de’ Romani.
In Roma 1764.3 cui adne&itur Ta¬ bula aenea exprimens frontem Aedium }
& Atrii ornatiHimi . (4) Adunanza tenuta dagli Arcadi nella Villa
AlbaniadouorediS.A.R.MariaAntoniaWal- burga di Baviera Elettrice Vedova di
Saffonia, fra le Pajlorelle acclamate Ermclinda Talea .• In Roma 1772.XV
&praeftantiam,ibidemmirecoaddam,&concinnedilpofi- tam confpexerimus (0
. VI. Recenfitis Hortis omnibus, aut faltem celebriori¬
bus,quivelpraeceflerunt,velfubfequutifuntMatthaeianos noftros,reflatmodo,utdeiplispreflius,&latiusdicamus.
Locum nunc perpendimus. Iidem fiti funt in ea Pomoerii
parte,quamAurelianusintraUrbemcomplexuseft(2),quae¬ que in Regione II.
Caelimontana comprehendebatur. Man- flones Albanas antiquitus hunc locum
potiflimum tenuifle , cenfueruntBoiflardiusCj),MarlianiusW,&DonatiusD,fed
nullam,quaniterentur,rationemattulerunt.Quareincertus,
fiNardinio0)credimus,adhuceftharumManfionumlocus, neque nos quidquam etiam hac
de re ftatuere aufimus ali¬ bi de iildem loquentes (7) . Proxima huic Caelimontii
parti fuifle, immo iplam occupafle aliquando Caftra Peregrinorum ab Augufto
inftituta, alii cenfuerunt, atque inter ceteros Pan- vinius W , & Vignolius
(?) , innixi potiflimum veterum infcri-
ptionibus,inquibuseorummentio,quaequevelinareaAedi¬ culae Sanctae Mariae in
Domnica, vel prope Aedem rotundam S. Stephani inventae funt; ut nunc praeteream,
quaeetiamin laudata area erutae fuerunt Benedi&i Aegii Spoletini aetate,
quasipfeedidit(IO),quibufqueadduddus&eademCaftraibi¬ dem agnovit, & eos
, qui ponunt ad Templum SS. IV. Coro¬ (i) Huius rei accipe monumentum ibidem
po- fitum : lofepho. II Pio. Felici . Augufto Quod . has . Aedes . praefentia .
fua Maximus . hofpes. impleverit Alexander . Card. Albanus M . P nato- ($) Lib.
III. cap. XII. (6) Rom. vet. Lib. III. cap. 7. (7) Append. ad Fragmenta
'vejligii 'veteris Ro¬ mae lob. Petri Bellorii Tab. XXVI. pag. 95. (3) Defer.
Vrbis Romae } TheJ\ Antiq. Romau. Graevii Tom. III. pag. 286. (9)
lnfcript.felecl. pojl Differt, de Columna Imp. Antonini Pii pag. 183. j e feq.
(10) In adnotationibus ad Apollodori Atbenien. (2) Vid. Fabrettium de aquis 3
& aquaeducti¬ busn.45.ad53. Bibliotb.,fivedeDeor.origine&c.Romaeinae¬
(3) Topograpb. Vrb. Romae Tom. I. pag. 34. dibus Antonii Bladi 1555. Vid. apud
Gruter. pag. (4) Topograpb. Vrb. Romae Lib. IV. cap. 9. 22. n. 3. & pag.
$93. n. 2.3 & 3. XVI natorum(0, impugnavit.Muripars feptentrionalis,
quaHorti Matthaeianicinguntur, licetadvetusMonafterium,dequo mox dicemus ,
potiflimum fpectct, pertinebat olim ad ductum aquae Claudiae , cuius ibidem
divortia erant; pars enim in An-
toninianasThermas,utteltanturlitteraeadhucconfpicuae ... NTONIANA, magnis
laterum tabulis e muro paullulum prominentibus confectae W; pars in Palatium
Caefarum tendebat , ut produnt veftigia aquaeductus interdum occurrentia . His
adneftitur arcus adhuc exftans ex lapide Tiburtino, fuper c]uo aqua ad
Aventinum procedebat, & in quo legitur inlcri- ptio fatis nota (s) : P.
CORNEUVS . P. r.DOLABELlA C. 1VN1VS . C. F. SILANVS. FLAMEN. MARTIALIS COS
LX.S.C FACIVNDVM . CVRAVERVNT . IDEMQVE . PROBAVERVN.T Via , quae ad Clivum
Scauri per Curiam Hoftiliam ante Hor¬
tosnoftrosprocedit,eacenfetur,quaolimperTabernolam,
antiquaeUrbisvicum,attendebaturinCaeliumU).Prope
etiamaderatrotundumTemplumvelFauni(j),velBacchi)
velClaudii,autetiamVefpafianiImpp.,utaliicenfuerunt,
quodnuncNicolaiCirciniani,vulgoPomerancii,&Anto¬ nii Tempeltii picturis ,
veterum Martyrum diros cruciatus ex- Pri- (1) Inter ceteros Boijfard.
Topograpb. Vrb. Rora. Tom. I. pag. His nunc accedit Hora¬ tius Orlandius
Ragionamento fopra ut?Ara antica (dedicataaVulcano).Roma1772.art.ult.pag.95.
Suppiem-adJVuv.T*hef.Muratoriipag.So.n.5., (2) Vid: Epiftolam Flaminii Vaccae
latinitate' fed mutilam, aliique. Fornicis typum habes apud donatam a
Montfauconro in Diario Italico Cap. X. pag. 14S. Gudius pag. 81. n. 10. refert
tabulas in¬ ventas c regione vineae S. Sixti, «Sc Thermarum Antoninianarum ad
radicem Montis Aventini ver- fus regionem dictam Pifcinam publicam 3 in quit,
bus haec legebantur: A^VA . CLAVDIA . ANTONIANA . NOVA VIRIAE . ALCESTE . ET.
L. VIR1I . ANTIQ FORTVNATI (5) Refert Gruterius pag. 176. n. 2.3 Panvi- nius de
Civ. Rora. Cap. XXIV. coi. 217. Tom. I. Ioh. Bapt. Piranefium Tom. I. Airtiq.
Koman. Tabula XXV. Fig. I. (4) Nardin. Rora, •veter. Lib. IIL cap. V. 3 Bor-
richius de antiqua Vrbis facie Cap. IV., Rondi- ninius de SS. Ioh. 3 &
Paullo , eoruraq. Bajilica in ‘Drbe Roma vetera monumenta Cap. VI. §. I. pag.
59.3 & 60. (5) In inferiptione hoc loco detefta , quam re¬ fert lulius
lacobonius Append. ad Fonteium de prifeaCaejiorumgenteCap.IV.pag.38.3memo¬
ratur AED1CVLA GENIO AGRESTI dicata.primentibus (*), ornatum, duplicique
columnarum ordine fu- ftentatumDivoStephanoMartyrifacrumeft(12**).Heicetiam-
numconfpicuifuntarcusNeronianiaquaeClaudiae,quibus
aquaipfaadPalatinumdeferebatur.ProximaetiameratCu¬ ria Hoftilia, a Tullo
Hoflilio III. Romanorum Rege magnifi¬ ce aedificata, cuius adhuc haberi
reliquias, hafque cenfendas efle ingentes arcus ex Tiburtino lapide, quibus
fuperftat nunc turriscampanaria,longainfuperfubftrudioneinhortumpor- redos ,
recentiores plures, praeeunte Flavio Blondio 0) , Con- fenferunt; idque eo
magis, quod ibidem quatuor Pulvinaria marmoiea eruta fuerint, quae dein ad
fcalas Aedium Matthaeiarum in Circo Flaminio translata fuerunt, quaeque nos fuo
loco(T adduximus. Ceterum Pompeius Ugonius d) , alii¬ que aedificium aliquod
Caefarum aetate excitatum in hilce
ruderibusagnofcendumpotiusexiftimant,quodparumcredi¬ bile videatur pofl tot
faeculorum lapfum , poft tot Urbis exci¬ dia , atque poft tot imperii
viciftitudines hactenus antiquiflimi aedificii reliquias, annorum edacitatis,
& direptionum furoris vidrices,fupereflepotuifie.Montfauconius(5)hacdere_»
etiam dubitavit, quod aegre in animum libi induceret, im¬ manemillamaedificiimolem,caftrorummoremunitam,unicam
fuifle Curiam ; quin potius hinc coniedafie nonnullos
refert,exftitiflehoclocoCaftraPeregrinorum.Heicquidem fuifle aedes Sandorum
fratrum Iqhannis, & Paulli , in quorum honorem dicata eft proxima Bafilica
, ambigi non po- teft; quarum quidem veftigia haberi putat Philippus Rondi-
nini- (1) Ecclefiae militantis triumphi) five Deo ama- (3) Romae inflaur. Lib.
I. hilium Martyrumg/oriofapro Chrijlifidecerta-
(4)Vol.II.horumMonumentor.ClafT.X.Tab. mina ) prout in Ecclefia S. Stephani
Rotundi Romae vifuntur depicia , a Vincentio Billy aeneis Tab. expreffa. Romae
1714. (2) Interioris huius Templi profpe&um habes apud Ioh. Bapt.
Piranefium Tom. I. Antiq. Ro- man. Tab. XXV. Fig. II. ' LXXII. Fig. I., &
II. , Tab. LXXIII. Fig. I., & II., & Tab. LXXIV. Fig. I., & II.
pag. 93. , & feqq. Vid. Ficoronium Vejligia di Roma antica Lib. I. ,cap.
XIV. pag. 87. (5) Eibro de Stationibus Vrbis. (6) Git. Diar. Ital. Gap. X. pag.
148- XVIII ninius CO in quibufdam arcubus , & ruderibus prope
laudatam Bafilicam exfiftentibus, quorum nemo Scriptorum meminit. Sub Hortis
noftris vetus aliquod etiam fuille aedificium , arguere licet ex marmore
reperto eo loci, quod refert Fabret- tius (2) , & in quo habetur fimulacrum
Veftae, & artis pilto- riae inffrumenta , modium, spicae, & mola
verfatilis , cum hac epigraphe: VESTAE. SACRVM C. PVPIVS. FIRMINVS. ET MVDASENA
.TROPH IME VII. Veterum aedificiis. Hortos Matthaeianos ambien¬ tibus, ufque
dum recenfitis, accedant Chriftiana Templa, quae iifdem ita adhaerent, ut ipforum
pars effe videantur . Nihil amplius dicemus de Templo S. Stephani, & de
Balilica SS. lob., & Paulli, quae titulus Pammachii dicitur , cum de
his,utpotepaulloremotioribus,fatisiamactumvideripoffit. Omnium quidem proximior
Matthaeianis Hortis eft Eccleha S.Mariaein Cyriaca, livein Dominica
,quae&in Domni- ca ,&in Navicula h)?anaviculamarmorea,caudavotilo¬
cata, quae ante Templum cernitur, dicta eft. Haec navis m- fignita eft roftro
apri caput referente, quam ex voto Marti, vel alio Numini politam aliqui putant
a milite in Caftris pe¬ regrinis degente . At Ficoronius (4) Cybeli potius
dicatamu» fufpicatur , quod aliud viderit anaglyphum , ab ipfo etiam vul¬ gatum
b) 5 in Mufeum Veronenfe profectum , ubi navis cernitur, in qua vehitur Dea
Cybele, quamque Matrona velata , funis ope, cui adligata eft , extra aquas ad
fe trahere dextera manu nititur , hac fubiecta infcriptione: (0 &e SS.
Martyribus lobanne 3dr Paullo, Seft.I. n.3. pag.94.
eorumqueRafilicainVrbeRoma‘veterarnonumen- (3) VulgoNavicella. MA- ta &c.
Romae 1707. Cap. VII. §. I. pag. 69. (2) Ai Tabulam Iliadis poftColumnam Tra-
ian.pag.339.3SiInfer. Cap.VIII.n.277.Pag-632.
Attulimus&nosTom.III.Clafs.X.Syllog. Infer. (4) Le ve/ligia, e rarita di
Roma antica Lib. I.Cap.XIV.pag.90. (5)Ibid.Cap.XXII.pag.148.
MATRI.DEVM.ET.NAVI.SAI.VIAE SALVIAE . VOTO . SVSCEPTO CLAVDIA.SYNTHYCHE
D.D Nomen Cyriacae, vel Dominicae Ecclefiae inditum videtur
acelebriMatronaRomana,quaeibidemaedeshabuerit('), ut & praedium habuit in
Agro Verano. Forte fandae huius Ma¬ tronae imaginem habes in antiqua pidtura ex
ipfius Coemeterio ad S. Laurentii extra muros iam eruta, quam Cl. Ioh. Botta-
rius 00 ex Arringhio adduxit. Ceterum Sanctae Domnicae no¬ men , & natale
Bollandius affert (2) ex Menaeis Graecorum ad d. VIII. Ianuarii; fed haec Virgo
Africana, quae floruit fub TheodofioM.ufque adLeonem,&Zenonem Augg.,anoftra
differt.VualafridiStrabonisG)fententiam,aDomino,cuicul¬ tus in illa aede
redditur, nomen repetentem, quia omnibus ae¬
dibusfacriscommunem,acceterasetiamhuicquidemnonabfi-
milesfententiashaudmorabimur.EcclefiahaecaPafchaleI. a fundamentis ampliata,
& renovata fuit, cuius exftat ver¬
miculataabfisaduabusporphyreticiscolumnisfuffentataG);
quibusacceduntXVIII.infuperexGraecomarmore,nigro, & viridi, columnae aliae
nihilo inferiores. Sanctae Balbinae corpus ibidem reconditur, atque heic Sixtum
I. per Levitam Laurentium ecclefiae thefauros pauperibus diffribui mandafle,
funt qui tradant. Vetuftiflima quidem haberi debet haec Ec- clefia , cuius
mentio eft in veteri Defcriptione Regionum Ur¬
iis,editaaMabillonioG),ubiagensdefeptemviisufque.> porta Ajinaria, ftatim
fubditur Sancta Alaria Dominica .
AdfaeculumfaltemXI.pertinerevideturArchipresbyterRe- ncdillus Diaconus Sanctae
Alariae , quae Domnica dicitur, (1) Roma fotterranea Tom. II. Tav. CXXX. pag.
17S. cu- (5)V id. Floravantem Martinellium Roma ex ethnica facra pag. 214. (6)
Vetera Analecta pag. 365. fecund. edit. (2) Aci. Santf. lanuar. pag. 4S3.
(3)Viet.Franc.VifloriiDiffert.Philolog.pag.$1. Parif.1725. (4) De rebus ecclejiajlic.
Cap. VII. c2 XIX JiX cuius monumentum in Divi Stephani in Monte
fitum , & a Doniod) adductumheicfiltimus: HIC . REQVIESCIT . CORPVS .
DEVOTVS . XPI FAMVLVS . ARCH1PBR . BENEDICTAS . DIAC. SCI . MA RIF, . QA .
DOMICA. Q. OMS. Q. AD . HANC . BASILICA . IN GREDITIS . DIGNEMINI . ORARE .
PRO. ME. PECCATORE. AC. P. XPI . NOMEN. OMS. CONIVRANS. VT NVLLVS. HOC. TVMVLO.
VIOLARE. AVDEAT. 3 SI. QVIS <0 AVTEM . VIOLARE : P : SVPSERIT : i A . PATRE
. ET . FILIO . E . SPS SCI . ANATHEMATE. IM . P. . P. DANATVS . EXISTAT Certe
quidem, ut innumeris exemplis o(tendi pofTet, ab VIII. ufque laeculo ad. XI.
ufus obtinuit has malas precationes , a Chriftiana pietate, & manfuetudine
alienas , & a fola tempo¬
rumbarbarie,&infcitiaquoquomodoexcubitasadhibere(3>; quidquid contra
Reinefium (j) Fabrettius M reponat. Cum Benedictus dicatur Diaconus huius
Eccleliae, apparet nondum ad Archidiaconum pertinuifie, ut dcin factum
videbimus. Iam in noftra Diflercatione in tit. Canonicum de officio Archi-
diaconiWadduximusChartamanecdotamannidcccclxxxii.,
inquamemoratumcernimuslohannemArchidiaconumfum- viac Santiae Apojlolicac Sedis,
& praepojitum venerabili Diaconiae Santlae Dei Genitricis Alariae, quae
appellatur No- ha;incuiusnimirumArchivohaecipfaChartafervatur. Quarearguerelicet,pofterioritemporehocfactumeffe;
nec fane documenta, quae id adltruant, occurrunt faeculo XII. maiora. Commode
in Chronico Ricardi Cluniacenfis, quod abanno Chriltidccc. Usquead annum mclxii.
pertingit,quod¬ (0 Jnfcrip. antiq. C!afT. XX. n. 71. pag. 539. ex fchedis Nic.
Alemanni . que (5) D iffertazione Canonico-Filologica fopra il ti- tolo delle
IJlituzioni Canonicbe de Officio Arcbidia¬ coni, recitata dali’Abate Giovanni
Criflofano Arna- dtizzi la fera de’ 17. d'Agoflo deiPanno 1767. in (2) Vid.
Hieron. Fabrium Ravenna antiqua pag. 116 ., Mabillonium ile re Diplornat. Lib.
II. Cap.VIII.§.XVII.pag.ioi.,ArringhiumRora-
RomanelPAccademiadelPEmin.3eRev.Sig.Car¬ fubterran. Lib. IV. Cap. XXVII.,
aliofque. dinale Gaetano Fantuzzi &c. adnot. $. pag. 57. (3) Syntag. veter.
Infcript. Clafl*. XX. n. 440. Tom. XVII. Nova Raccolta d'Qpufcolifcientifici3
(4) Infcript. Cap. II. pag. no. e flologici. In Venezia 1768. XXi
queaMuratoriorelatumeft(0,recenfenturDiaconiaeCardi¬ nalium S.R.E. decem, &
odo , quarum princeps Sundae Ala¬
riaeinDomnica,ubiejiArchidiaconus.Huicacceditteftimo- nium Petri Manlii apud
Mabillonium (12) , ubi legitur: S.Ala¬ ria in Domnica , ubi debet ejje
Archidiaconus; & Leonis Ur- bevetaniapud Cl. loh. Lamium (A , ubi haec
habentur: S. Ala¬ ria in Domnica, ipfe eji Archidiaconus altorum; quorum primus
ad laeculumXII., alter ad XIV. pertinet. At vero hanc Ecclefiam haud Cardinali
Archidiacono adfignatam, nili laben- te ipfo faecula XII., credere licet, cum
certum fit, triginta, vel viginti ad fummum annos ante eius exitum ipfam Diaco¬
num , non Archidiaconum obtinuiffe . Docet id Bulla Inno¬
centi!II.annimcxlii.apudHarduinium(4),cuifubfcripfitGe- rardus Diaconus Card.
S. Alariae in Dominica. Id etiam ad- firueret D. lacobus tit. X. Alariae in
Navicella, qui a Bollan- diftisV) recenleturex Marchefiointereos Cardinales,qui
interfuerunt canonizationi S.Brunonis Epifcopi Signini, quam Signiae anno
mclxxxi. peregit Lucius III. Summus Pontifex , nili critices regulae
obliderent, Bollandiflae ipli hanc Cardi¬ nalium recenfionem affumentum
iudicarunt, & iure merito; neque enim fi lincera lubnotatio fuiflet,
Ecclefia ipfa titulus dicta efiet, quo vocabulo numquam Diaconias appellatas
aut antiquitus, aut recenter inveniemus. Quo tempore vero haec effedefieritiurisArchidiaconiCardinalis,incertum;verofi-
mile tamen eft, id accidifte , cum , translata Avenionem Apoftolica Sede,
Romanae dignitates mutationem aliquam fubierunt, & Gallicos mores induerunt
, & ipfa Archidiaconi iurifdiftio, & munus magna ex parte ad Camerarium
delata eft. Honorii III. aetate Ecclefiam hanc pertinuifle ad Ec- (1) Antiq.
med. aevi Tom. IV. coi. 1113. (4) Concil. Tom. VI. Par. II. coi. 1170. (2) Ord.
Roma». XII. n. II. pag. $6y. (j) In Comment. praevio ad A£ta S. Brunonis ($)Delie,erudii.Toni.II.pag.28.
Epifc. SigninidieXVIII.Iuliiqum.24. XXII
EcclefiamalteramS.Thomae,StS.MichaelisArchangelide de Formis ( de qua mox
dicemus ) , innuit laudati Pontificis
Bullaannimccxvii.,quainterceteraspoffeffiones,quaseidem confirmat,refertabjidam,&inclaujirumEcclefiaeB.vlla-
riae in Donnica (0 . Parochialem vero curam eidem adnexam etiam fuilPe , docent
Litterae Apoftolicae SixtilV. C), quibus Apollonius de Valentinis &
Canonicatibus Lateranenfis Eccle- fiae , St S. Mariae in Via lata , St Parochia
S. Mariae Navicellae interdicitur . Honor , quo , Archidiaconali dignitate
deleta , Eccleliahaecdecidit,integratusquodammodovifuseft,cum
Card.IohannesMcdiceusPontifex Max. Leonis X. nominere- nunciatus eft. Ipfe enim
inftaurari illam iullit, atque ut id pro dignitate fieret, Raphaelis Sanclii
opera ufus eft quoad Ar¬ chitectonicae artis concinnitatem , lulium vero
Romanum, St Perinum Bonacurfium Vagae difcipulum pro pibturae or¬ namento
adhibuit. Tum eadem obtigit Card. Iulio -Mediceo, Leonis X. patrueli,
Archiepifcopo Florentino, Sc S. R. E. Vi- ce-Cancellario , qui poftea fuit
Clemens VII. , licet & Eccle- fiam S. Clementis, & alteram S. Laurentii
in Damafo dein fibi adfeiverit. Eadem Diaconia potitus eft poftea Iohannes
Mediceus Cofmi I. Magni Florentiae Ducis filius, qui a_. Pio IV. Cardinalis eft
renunciatus, & cuius exftant tres epilholae de ipfius Ecclefiae cultu, Sc
famulatu (0 , quem appri¬ me (0 Collect. Bullar. Sacrofantlae Bafilicae Va¬
gliare } perche rifeda in la Cbiefa della Navicella ticanae&c.Romae1747.Tom.I.pag.100.
aujfiziare,&dipiu3perchefattovederlecofe3 (2) Ex Tom. 96. Regeft. Brev.
Sixti IV. pag. 74. in Archivo fecr. Vaticano. CS) LetteredeiCard.G:o.de’Aledicifigitodi
Cofano 1. Grati Duca di Tofeana, efiratte da un nifi Roma 1752. Fib. Ili. pag.
505. Lettera ferit- ta dal Poggio 25. Settemb. 1561. al Podefta di Grofleto , a
cui dice di voler pariare a M. Porzio Fanuzio Canonico della Navicella 3 che
capitava coli j o a Monte Fano. Ivi pag. 506. Lettera ferit- ta dal Poggio 26.
Settemb. 1561. al Vefcovo Ce- farino, a cui dice > che manda D. Gio. luo
fami- che di prefente occorrono farfi per riparazioni di
quelluogo,meloavvifiparticolarmente3acciofi
pojfadaropportunoriparo&c.Homandatoper quel medefimo Porzio Fanuzio per
aver da lui in- formazione di quel3 che fiara a fiua notizia delle cofe di
quella Cbiefa. Ivi pag. 507. Lettera ferit- ta dal Poggio a di detto al Babbi
in Roma: Noi mandiamo il prefente D. Gio. nojlro famigliare 3per- cbe rifeda a
ujfiziare vella Cbiefa della Navicel¬ la j non volendo noi filia 'fenza un
Cappellauo 3 fimo a tanto, cbe fi verranno ritrovando 3 e riordtnan- do
XXIII me curaffie conflat. Huic vita fundo in eamdem fucceffit Cardinalis
Ferdinandus Mediceus , marmoribufque ornavit, ac refecit, antequam ampliffima
dignitate abdicaret, & Magni Ducis Etruriae , denato Francifco eius fratre
, infignia recipe¬ ret.Habuit&Card.CarolusMediceus,cuiusmemoriamar¬
moreaibidemcerniturfuprafacrariiportam.Tandeminitio huius faeculi tenuit etiam
ex eadem regia domo Card. Franci- fcus M. , de quo nihil eft aliud, quod
moneamus. Presbyte¬ rum Beneficiatum , qui Ecclefiae inferviret, facrumque
face¬ retdiebusfeffis,PaullusV.inftituit(0,idquemunerispri¬ mus obivit Vir Cl.
Leo Allatius, antequam ad maiora fibi viam faceret in Urbe officia. Ex Diaconia
in titulum presbytera- lem convertit Benedidus XIII 0) ;ac tandem Monachis
Grae- co-Melchitis Congregationis S. Ioh. Baptiflae in Soairo OrdinisS.BafiliiMagni,poflulanteSacraCongregationedePro¬
paganda Fide, Templum cuftodiendum, & aedes incolendas Benedidus XIV.
conceffit. Vili. Huic proxime fuccedit Templum S. Thomae in Caelio, quod& S.
Thomae, & S. MichaelisinFormisdi-
dumeft,cuiquehofpitaleadnexumerat.DudusaquaeClau¬
diae,quieidemadhaerebant,nomendeFormisinduxe¬ runt G) . Ecclefia haec fuit olim
Abbatia in Urbe non igno¬ bilis;cumeiusAntiftes,teftePanvinioG),intervigintiAb¬
bates , qui Romano Pontifici celebranti adeffe confueverant, decimus tertius
accenferetur . Eamdem pollea Innocentius III. conceffit Fratribus Ordinis
Sandifs. Trinitatis Redemptionis captivorum , quam proinde, dum vixit, incolatu
, corporis veroexuviispoflobituminfignivitS.IohannesdeMatha, licet
dolealtrecofe.Vedrete3cbeabbiaqualcbepo-
toprefente30fiarelazionedellaCortediRoma&c. In Roma 1765. Tom. I. Cap. I.
pag. 8. fa 3 cbe ci pare impojjibile , cbe non ve ne Jia. (3) Fabrett. de aquis
3 & aquaedtM* DifTert. IX- (1) Vid. Martinellium loc. cit. pag. 215. (4)
Lib. de VU• 'Urbis EccleJ'. pag. 142. (2) Vid. Equitem Hieronymum Lunadorium
Staco di Jlanza 3fe ve n’’ealcuna pertinente alia Chie- XXIV licet
dein in Hifpanias translatae fuerint. Interea Honorius III. Bullam emifitd) ,
qua Ordinem praedictum commendat, Ec-
claliameidemconcetfamfubApoltolicaeSedistutelalufcipit, privilegiis ornat,
facras aedes, ac bona quamplurima eidem
lubditarecenfet,&confirmat.Quareibidemmemoratfor¬ mam , fcilicet aquae
Claudiae ductum , fuper ditia Ecclejia S. Tbomag cum aedificiis, cimitcrio,
crucibus , & aliis per¬
tinentiisfuis:montemcumformis,fi?aliisaedificiispojitum interclaufiramClodei(CaftellumnempeaquaeClaudiae,
quod forma quadratum, & magna ex parte integrum Fabri¬ cius W vidit) , fi?
inter duas vias, unam videlicet, qua a praeditia Ecclejia S. Thomae itur ad
Colifcum , fi? aliam, qua itur ad SS. lobannem , fi? Vaulum fi?c. Exftat adhuc
fupra fores hofpitalis, five coenobii tigillum ex mutivo Or¬ dinis , quem
diximus, Redemptionis captivorum , & arcui marmoreo forium haec inferipta
leguntur: MAGISTER.1ACOBVS.CVM.FILIO.SVO.COSMATO.FECIT. HOC.OPVS Dein Poncellio
EJrfinio Cardinali commendatam Ecclefiam ipfam fuiffe infuper patet, donec
Urbano VI. iubente anno mccclxxxvii. menfae capitulari Vaticanae Bafilicae
adnexa fuit, ipfaque unio ex Bonifacii IX. Diplomate dat. V. Idus Novem¬ bris
confirmata eft. Ceteras Apoltolicas Bullas lohannis XXI., five XXII. 0) ,
Bonifacii IX. O , & Eugenii IV. W iam editas in Bullario Vaticano, & ad
hanc Ecclefiam pertinentes fciens praetereo. IX. Defcripfimus locum , quem
tenent nunc Horti Mat- thaeiani,tumediticia&vetera,&fubfequentia,quaeipfisob-
iacent.Rcftatmodo,utdeeorumaubtore,forma,&prae- ftantia dicamus. Ii
fiquidem auctorem habent nobiliffimum, toAnn- '2'7-vii-ColleU. Bullar.
SacrofanU. Baftl.Vatie.&c.Romae1747.Tom.I.pag.iod. (2) D efcript. Vrb.
Romae cap. 17. & ma¬ (3) Cit.Collecl. fttillar.Bafil.Vatic.Tovn.l.p.28J.
(4) Ibid. Tom. II. pag. 31. (5) Ibid. Tom. II. pag. 3y. XXV
&magnificentiflimumVirumCyriacumMatthaeium,Alexan¬ dri filium, Cyriaci
nepotem, qui fane avitam gentis fuae am¬ plitudinemho copere explicandam fiulcepifievifusefi.
Non noftrumheicefi;,MatthaeiaegentisoriginemaPaparefchia, quae genuit
Gregorium, poftea Innocentium II., deducere ,
quodvifuminprimisefi:OnuphrioPanvinioCO,AlbertoCaf fio G) , Felici M. Nerino
(3) , aliifque; non enim id ipfius vel vetuftati,velnobilitatiacceflionisplurimumfaceret.Monu¬
mentum fiquidem faeculiXIII., quodcontinetSenatuscon-
fultumhabituminTemploS.MariaedeCapitolio,quodque ex apographo Perufino edidit
Cl. praefui lofephus Garampius nunc apud Aulam Vindobonenfetfi Apofiolicus
Nuntius me- ritifiimus G) , gentis huius praefiantiam fatis prodit, cum in¬ ter
ceteros nobiles Romanos viros recenfeatur etiam ibidem lohannes Matthaei, quemGarampiusipfenoftrisadferibere
non dubitat G). Ceteros ex hac gente illufires viros recenfe- re quinetiam non
iuvat, quorum monumenta praefertim con- fulere facile quifque poflit apud
Cafimirum Romanum, Fran- cifcanae familiae Alumnum, ubi de Templo Aracaelitano
G) . Quare circa annum mdlxxxi. Villae huius confiruftionem ag- grelfus efi:
Cyriacus nofier, & ad annum mdlxxxvi. perfecit,
utdocentmonumenta,quaeibidemmarmoreinfculpcnda
curavit,quaequenemoadhucedidit.Siquidemfuprapor¬ tam Villae parte interiori
haec leguntur: CY- (1)Cod.Mf.dcGenteMatthaeiainBibliothe¬ ria
alcultodellaR.ChiaradiRhnino&c.In caFrangipania. Roma175:5- Differt.VIII.pag.244.jefegg.
(2)MemorieijlorichedellavitadiS.Silvia&c. (5)Vid.Indicemvoc.Matteipag.52J.
Cap.XIII.§.I.pag.89. (6)Memorieijlorichedellacbiefajeconvento (3)
Detemplo,& coenobioSS.Bonifaciij& Ale- di $. Maria in Araceli di Roma &c.
In Roma i73j5. Cap. IV. pag. 29., Cap. V. pag. 43. 3 44., 394. Ad not. 54. 71.
;, & 72. 3 e Cap. XVII. pag. 451. (4) Memorie ecclefiajliche appartenenti
all'ijlo- xiihijloricamonumentainAppend.n.VIII.pag. XXVf Tum
inferne: CYRIACVS . MATTHAEIvs . HORTOS GENTILICIOS .CVLTV .AEDIFICIO
VETERVM.SIGNORVM .COPIA INLVSTRIORES . ET . AMOENIORES REDDIDIT A. S. M. D.
LXXXI CYRIACVS.MATTHAEIVS HORTOS . CAELIMONTANOS A . IACOBO . MATTHAEIO .
SOCERO . SVO SIBI . POSTER ISQ__. SVIS . DONO . DATOS . MVLTIS • ORNAMENTIS MAGNIFICENTIVS
. EXCVLTOS . SVAE . ET . AMICORVM OBLECTATIONI.DICAVIT M.D.LXXXVI Quae ille
praeftiterit, ut ampliffimos undequaque Hortos hof- ce efficeret, prodit etiam
epigraphe , quam affixit parieti Aedium ad meridiem , quae ita fe habet:
CYRIACVS . MATTHAEIVS ALEX F. CYRIACI.NEP HORTOS.CAELIOS GENTILICIOS . POMARIIS
AVIARIIS . NF.MOR1BVS OBELISCO .AEDIFICIIS IAM.INSTRVCTOS AD . MAIOREM .
POSTEROR SVORVM.AMICORVMQ_ OBLECTATIONEM VETERIBVS ETIAM .SIGNIS EXORNAVIT Huic
etiam infcriptioni confbna eft altera, quam edidit Petrus Leo Cafella (0 , quae
forte Hortorum domini, & conditoris fuffragium non tulit, cum nullibi ipfam
infculptam viderim. En ipfam: CY- (0 Elogia illufirium Artificum;, Epigrammata,
Ionis, de Tufcorum origine, & Republica Florett- &foferiptiones,poliLibrumdeprimisItaliaeco-tina,pag.186.edit.Lugdun.1606.
CYRIACVS.MATTHAEIVS.ALEXANDRI.F CYRIACI.N GENIO . CAELIMONTANAE .
SALVBRIORIS . AMOENITATIS HORTOS . GENTILICIOS . SIBI . ET . SVIS . AEDIBVS .
ET AQVIS . IRRIGVIS . EXCOLVIT . FONTANIS . EXHILARAVIT QVAE . PRO . GRADVVM .
CORONA . EX . EPISTYLIIS . ALTE SVBSILIENTES . FLORVM . IN . CIRCIS . FLORVM
LVDVNT.LVDICRA TVM. ET . AREAM . ET. AREOLAS TOPIARIIS .SEPSIT .POMARIIS
VALLAVIT AMBITVM.MVRO.CINXIT VETVSTEIS .MONVMEN TEIS .SIGNIS .DISPOSITIS ET
.MVNIPICENTISSIM A.S.P.Q R INDVLGENTI.A OBELISCO. EXORNAVIT X. Quare Hortos
nortros vel hilce infcriptionibus ita
iamamplos,excultos,elegantes,&locupletesdefcriptos habes , ut vix nobis ,
quae infuper adnotentur, relinquantur. Innuemus tamen. Aedes, quae in medio
Hortorum adfur- gunt, ex lacobi Ducae architeilura conditas fuilTe, quarum
vertibulum porticu ornatur , columnis, lignis, ac protomis infignita;
quemadmodum aula , & cetera , quae fequuntur , cubicula undique &
lignis, & protomis , & columnis , & ana¬ glyphis, & cippis,
& aliis rarirtimis cimeliis, inter quae men- faexviridiporphyreticomarmore,miruminmodumpraecellunt
. Porticum enim in primis ornant Statuae ex alaba- rtro Pomonae, & Midae
Phrygiae Regis, aliaeque Bacchi, Faunorum,&Caracallae.Tumauladirtinguebaturpraefer-
tim Simulacro colofleo M. Aurelii Antonini, & Statua eque- ftri L.Aurelii
Commodi, qui Antoninus alter, vel Hadrianus antea cenfebatur , quae dein in
Mufeum Clementinum Vaticanumtranslataeft.Inadiacentibuscubiculisreconde¬ batur
d2 XXVII XXVIII batur inter cetera caput Ciceronis, quod nunc in
Aedibus adCircumFlaminium,caputalterumIovisSerapidisexba- falte , tum caput
Plotinae Traiani uxoris, & Signa Dianae,
&.Herculis,Graecifculptorisopera,aliaque,quaeiamVa¬ ticanoMufeo,utinfradicemus,infuperaccefierunt,Fauni
cum utre iacentis , & alterius a Satyri pede fpinam extrahen¬
tis,actandemStatuaAmicitiae,opusPetriPaulliOlivem,
quamCyriacoMatthaeiodonodederatVirginiusUrlinius, ut patet ex epigraphe , quam
exhibet lamella aenea ibidem appoiita: VIRGINIVS . VRSINIVS CYRIACO . MATTHAEIO
AMICITIAE .MONVMENTVM STATVERE ILLVSTRIVS. ME . IPSA AMICITIA NON.POTVIT MDCV
Aditus ex foribus Hortorum recda ad Aedes ducit per ambu¬ lacrum , utraque
parte ornatum urnulis fepulcralibus elegan- tiffimis, ut nufquam tot ullibi fe
vidiffe affirmaverit Montfau- coniusb) . Aedium vero externus paries
meridionalis multis etiamdiffinguiturSignis,acpraefertimImpp.IuliiCaelaris,
Octaviani Aug. , Cl. Domitii Neronis facrificantis habitu , Liviae Aug.
Coniugis, tum etiam Cereris, ac Bacchantum . In medio autem pariete tollitur
(lemma Matthaeiae gentis, pileo ornatum , cui haec subscribuntur:
HIERONYMO.CARD MATTHAEIO
HicenimfuitCard.tituliS.Pancratii,Cyriaci,&Afdruba- lis frater, cui iidem
titulum etiam pofuerunt in Templo Ara- caelitano (2^>. Area dein panditur,
in qua celebris Urna IX. Mu- (0 Diar. Italie. Cap. X. pag. 148. dal P. F.
Cajimiro Romano &c. Cap. V. pag. 72. (2) Vid. Memorie ijloriche della
chiefa, e con¬ Vid. aliud monumentum ibid. Cap. XVII. pag. 451. vento di S.
Alaria in Araceli di Roma raccolte /•-rr. XXIX Mufarum proflat,
& in cuius medio cernitur Obelifcus Ae¬ gyptius variis infcriptus
hieroglyphicis litteris, quas haud mo¬ ramur , cum neque Hermapionis perlonam
geramus , qui Obelifcorum inlcriptiones olim interpretatus Auguftum dece¬ pit,
neque etiam Kircherium imitari lubeat, qui eamdem_.
provinciamornansdecepitfeipfum.CeterumMarchioSci¬ pio MafFeius (0 in ea fuit
fententia , ut putaret , fculpturas Obelifcorum nullam fcripturam praefeferre,
notafque illas nul¬ liusgeneris efle litteras. Quare id dumtaxat innuemus, Matthaeianum
Obelifcumaltumefle XXXVI.palmos,latumvero ad baflm palmos IV. Caret vero
litteris, five notis X. a bafi
palmis,livequodilledataoperafieftusfuerit,fiveignecafu confumptus. Verumtamen
novem primae, quae in cufpide
conlpicuaefuntnotaeadquatuorlingulalatera,omninocon¬ veniuntcumiis, quasexhibet
Obelifcus, olimIpinaeimpolitus CirciFloraeinvicoPatriciointerViminalemcollem,&
Exquilias, nunc in Hortis Mediceis ereftus. Nofter vero ex- ftabatolim ante
fores minores Templi Aracaelitani, e quibus in plateam Capitolinam
delcendcbatur, five in eius Caeme- terio, ut placet Boiflardio (2) , in cuius
bafe , tefte lacobo Ma- zochio G) , haec legebatur inlcriptio, quam Gruterius
(+) ipfe adducit: deo.CAVTE FLAVIVS.ANTISTIANVS V.E.DE.DECEM.PRIMIS
PATER.PATRVM TandempetentiCyriacoMatthaeioexSenatusconfultoa.d.
III.IdusSeptembrisannimdlxxxii.concefluseftObelifcus,quem fuisin Hortiscollocavit,acdeinduplexmonumentumineius
(1) Art. erit, lapid. Lib. I. coi. 3. (3) Epigramm. Vrb. pag. 21. a ter. (2)
Topograpb. Vrb. Romae Tom. I. pag. 24. (4) lnfcript. pag. 99. n. 4. ba-
XXX bafe infcripfit , quo fuum gratum animum Populo Romano lar¬ gitori
tortaretur, Primum , quod meridiem relpicit, hoc eft: CYRIACVS.MATTHAEIVS
OBELIS CVM . HVNC . A . POPVLO ROMANO.SIBI.DATVM.A CAPITOLIO. IN . HORTOS SVOS
.CAELIMONTANOS TRANSTVLIT.VT. PVBLICAE ERGA. SE. BENEVOLENTIAE MONVMENTVM.
EXSTARET ANNO.M.D. LXXXII Alterum vero boream verfus ita fe habet: S. P. Q_. R
CYRIACO.MATTHAEIo OBELISCVM . HVNC . SVMMO CONSENSV.DARI.DECREVIT VT.
IIORTORVM. EIVS PVLCIIRITVDO. PVBLICO ETIAM . ORNAMENTO AVGERETVR Huius
Obelifci typum non dedimus, quod aere incifus olim non fuerit, neque id nunc
Librario luberet, neque nos etiam apprime necertarium cenferemus. Si quis velit
eumdem con- fulere,facilecomperietapudMontfauconium0),Iohannem Barbaultium (2)
, ac Bonaventuram , & Michaelem Overbe- keiosL) . Ipfum etiam
defcripferunt, ac laudarunt Scottius (A } (0 Antiq. explic. Tom. II. Par. II.
Lib. II. Cap. VII. Tab. CXL1I1. n. 5. pag. 332. (2) Les plus beaux Alonumeuts
de Rome ancien- tie3 ou Recueil des plus beaux morceaux de Pan¬ tiquite'
Romaine qui exijleut encore, dejjines par Monfieur Barbault Peintre ancien
Petijtonaire du Roy a Rome 3 & grave eu 12S. plancbes avec leur explication
; fol. max. a Rome cbez Boucbard de Pimprhnerie de Komareb 1761. Pl. 30. n.
i.p. 47. Ca- O)LesreflesdePancienneRomerecherchez&c. & gravez par feu
Bonaventure d'Overbeke &c. , imprimesauxdepensdeMicbeld'0-verbeke.Ala Haye
cbez Pierre Gojje 1763. Tom. II. Pl. 14. pag. 21. Vide etim Degli avanzi
delPantica Ro¬ ma 3 opera pofluma di Bonaventura Overbeke Pit-
toreInglefe&e.3accrefciutadaPaoloRolliPa- trizio Todino . Iu Londra 1739.
§. JLVIII. pag. 177. (4) Itiner. ltal. Lib. II. Cap. VII. pag. 401.
XXXI Cafimirus Romanus 0), Marangonius , qui fingulos etiam Romanos
Obelifcos enumerat 0) , tum Ficoronius, Venutius, Titius , ceteriquc , qui
Romanas antiquitates , &c magnificen¬ tias defcribendas fumpferunt. Reflat
nunc caput coloflale Alexandii Magni , quod plateam hanc ornat parte meridio¬
nali , quoque nullum in Urbe maius. Siquidem a mento ad ladicem capillorum mensura
eflfex pedum pariliorum , totum vero caput odio pedum, ut proinde
fexagintaquatuor pedibus conflaret eius Statua , fi integra fuperelTet. Sane
ca¬ put marmoreum Domitiani in impluvio Aedium Capitolina¬
rumeflquinquepedum,acproindeintegraStatuaquadra¬ ginta dumtaxat pedum fuiflet;
nec aliter fuadent pes, & alia membrorum frufla, quae ibidem exllant. Tum
in Villa Lu- dovifiaefl'caputcoloflalequatuorcirciterpedum;&inIu-
flinianeaextraPortamFlaminiamhabebaturolimcolofluslu-
flinianiImp.,neccle’funtinaliisvillis,acaedibusRomae
Statuaealiaeproceritatevulgariduplo,auttriplomaiores. Caput vero noflrum, quod
Alexandro M. tribuitur, quodque nos fuoloco (Villuftravimus, ex Aventini ruini serutumfuit,
ut prodit infcriptio , quae ibidem legitur: CYRIACVS. MATTHAEIVS ALEXANDRI.
MAGNI. CAPVT. EX. AVENTINI RVINIS. EFEOSSVM . INIVRIA . TEMPORVM NONNIHIL
.CORRVPTVM .ANTIQ_VAE FORMAE. ET. NITORI. RESTITVIT VETVSTATIS .AMATORIBVS
SPECTAN DVM . PROPOSVIT Ipfum vero accurate descripflt MontfauconiusW,aflad
quem pertineat, incertum elfe afferuit. Hinc Ficoronius M mul- (0 Cit. Memor,
ijloricbe della chiefa, e con¬ fino alia pag. 36$.
ventodiS.MariainAraceli&c. Cap.V.§.V. (3)Tom.II. ClafT.II.Tab. VII.pag.9. pag.71. (4) Diar.Ital.Cap.X.pag.148. (2) Delie
cofe gentilefchej eprofane trafportate (5) Offervazioni contro il Diario dei P.
Mont• ad ufo, ed ornamento delle Cbiefe 3 dalla pag. 555. faucon pag. 3
1. XXXII multas eidem gemmas, & numifmata obiecit, quibus ex
for¬ mae fimilitudine fidem huic etiam monumento conciliaret. Sed contra
repofiuit Romualdus Riccobaldius (0 , qui Plutar- chifi) teftimoniumurgens,incertamAlexandriM.effigiem
etiam tunc temporis exlfitifie contendit, ac magis dubiam fa¬ ciam fuifie
deinceps , cum Caracallam lubido incefiit adfcri- bendi fibi Alexandri nomen ,
praecipiendique quinetiam, ut ipfius vultum quifque fibi pararet, fervaretque .
XI. Praeftat vero haec leviter attingere , ut ceteras Hortorum Matthaeiorum
partes perluftrando defcribamus . Areola hinc occurrit, cui ab amoeno afipeclu
fi) quaefitum nomen eft, & ex qua moenia ab Aureliano producta ufque ad
Portam Capenam , & Latinam, & Thermarum Antoniniana- rum ingentia
rudera intueri praefertim licet. Statuae, & in- fcriptiones heic ordine
difpofitae habebantur, quarum prio¬ res referebant Apollinem Citharoedum,
Martem , Mercurium, Dianam, Herculem, Poetam cum cycno, Feminam velatam cum
puero, Gladiatorem , & Pudicitiam. Ambulacris hinc in¬ de recurrentibus ad
oppofitam partem area altera occurrit,
inquapraefertimHermaeconfpiciuntur,quibusPlatonem, Heraclitum, Ariftotelem ,
Ifocratem, Epicurum, Diogenem, Ariftomachum, Pindarum, Anacreontem , Euripidem ,
Ari- flophanem , Hefiodum , Apollonium Tyanaeum, Pofidonium, Apuleium, L.
Iunium Rufiicum, Archimedem, aliofque re¬ ferre vulgo cenfetur. Quid iuvat
conclavia, quae fex prae¬ fertimnumerantur, nemora, topiaria, aliaqueloculamenta
fingillatim defcribere, eaque fignis , anaglyphis, aliifque monumentis fere
undique diffincla Labyrinthum tamen innue¬
mus,licetvixnuncinveftigandum,ecuiusregioneaffingit co Apologia dei Diario
Juddetto Cap.LX.pag.48. (3) Belvedere vulgo audit. (2) In vita Alexand. M. pro XXXIII
procera columna porphyretica viridis coloris, quae ob minu- tiffimas, ex quibus
coalefcit, materiae partes lingularis merito cenfetur. Nec aliae defunt hinc,
& illinc difperfae co¬ lumnae , quarum pleraeque multi aedimandae funt,
quaeque XXVII. fummatim numerantur. Nodrum vero non ed fon¬ tes, pomaria, viridaria,
ceteralqueHortorumpartesvillicis commendatas defcriptione profequi . Innuemus
tamen fub Aedibus haberi hortulum malis aureis confitum, ac fupra eius odium
hoc didichon legi: HAVRI . OCVLIS . ET . NARE . LICET . TIBI . VIVA . VOLVPTAS
SIC . ALITVR . TANTVM . CARPERE . PARCE . MANV Plures funt in Hortos ingrefius;
fed duo infigniores, quorum unum, idque princeps, prope Templum S. Mariae in
Do- mnica;alterumveroadCuriamHodiliam,quiconditoris nomen gerit, cum longa
linea infcriptum habeatur : HIER. MATTHAEIVS . DVX . IOVII . AN. IVBILAEI .
MDCL XII. Habes, quae fuerit Hortorum Matthaeiorum amplitudo, amoenitas, &
praedantia. Hinc nil mirum , d advena somnes infui admirationem rapuerint,
tumcivesad se ipsos sive describendos, live illudrandos invitaverint. Quare Scottius('),Mabillonius(12345),Montfauconiusb),Addifo-
nius (d , Richardius b) , aliique inter exteros tum ipfos expen¬ derunt, tum in
fuis hodoeporicis praedantioreseorumdem partes defcribere fatagerunt. Inter
nodros vero illos potidimum quoquo modo illudrarunt Pinarolius (6), FicoroniusW
, Ve- (1) hin. Ital. Lib. II. Cap. VII. pag. 401. (2) Itin. Ital. pag. 88. (3)
Dior. Ital. Cap. X. pag. 148. (4) The Works of the right honourable lofeph
Addifon EJ'q., Beingh remarks onfeveral parts of Jtaly &c. in the Tears
1701. 3 1702.3 1J03. Du¬ bii» 1735* Vol. III. pag. 16 3. (5) Defcription hiflorique}
& critique de Phalle; a Dijon 1766. Tom. VI. Par. II. Cap. 17. pag. 169.
(6) Trattato delle cofe piri memorabili di Roma, opera di Gio. P. Piuaroli;
Roma 1725. Tom. II. pag. 274. , e fegg. (7) Le •vejligia 3 e rarita di Roma
antica ; Roma 1744. Lib. I. Cap. XIV. pag. 90. 3 e Lib. II. Le Jingolarita di
Roma moderna Cap.VIII. pag-68. XXXIV VenutiusCO , Vafius W , &
Titius^) ; Celebrarunt vero inter Poetas Aurelius Urfius Romanus (4) , &
Ludovicus Lepo- reus C). Tum monumenta ipfa , quae in illis adfervantur, nacta
funt qui & typis exprelTerint, & explanaverint, ut luo loco monuimus.
Si Signa lpectes, eorum praeflantiora adducta habes a Paullo Alexandro MafFeio,
& Bernardo Mont- fauconio.SiAnaglypha,eorumpleraqueeditaviderelicet apud
Sponium, Bellorium, & ipfum JVIontfauconium. Si In- fcriptiones , noftris
pleni funt celebres thefauri, live colle¬ ctionesiameditaeab Apiano, Mazochio, Smetio,
Urlinio, Gruterio, Reineho , Sponio, Malvafia, Gudio, Donio, Fabrettio, Muratorio,
Maffeio,Donatio,aliifque.At,quae lane elt rerum humanarum infelix conditio, ita
paucis ab heincannisimmutataeltHortorumnoltrorumfacies,utqui cosintueaturpraeltantioribusmonumentisIpoliatos,atque
undique collabentes , dicere fimiliter poffit: Iam fcgcs cjt, ubi 'Troiafuit. Sanenon
nullas marmoreas Infcriptiones in Caeliis Hortis exltantes conceflcrat iam
Alexander Matthaeius Iovii Dux Cl. Praefuli Raphaeli Fabrettio, ut ipfe grati
ani¬ mi caufla faepe commemorat, in fua domelticarum Inlcriptio- num fylloge ,
& nos quinetiam fuis locis advertimus. Tum ex iis profectum eft in Mufeum
Capitolinum, poftulante Bene- diftoXIV.PontificeMax.,marmorAebutianum,iamanobis
adductum (D , & antiqui Romani pedis, aliorumque Archite¬ cto-
(0Accurata,efuccintadefcrizionetopografi¬
nuovofinoalTannoprefente.InRoma1763.pag. ca , e tjlarica di Roma moderna ,
opera pofiuma di Ridolfino Venuti &c. Roma 1766. prejfio Carlo Bar-
biellini Tom. I. pag. 4. (2) Itinerario iflruttivo divifo in otto fiazioni 3 0
giornaie per ritrovare con facilitd tutte le an- tiche 3 e moderne magnificenze
di Roma, di Giu- feppeVafiInRoma1765.11.58.pag.62. (3) Defcrizione delle
pitture , fcalture, e ar- cbitetture efpojle al pubblico in Roma, opera co-
minciata dati'Abate Filippo Titi da C.itta di Ca-
fielk,conPaggiuntadiquantoeflatofattodi 208., e 475. (4) Carminum Tib. III.
Epigr. 32. pag. 74. edit. Parmen.,&Bonon.3ubihaechabentur: ln Hortos Mattbaeiorum:
Komae fepultae hinc intueri imaginem , Arcus,theatra,Scimperiivireslicet. Urbis
, & Orbis lumina, & miracula. (5) Poefie; ln Roma 1682. pag. 88.
Sonetto. (6) Tom.III.ClalT.X.Sect.VI.n.<;.Tab.LXII. Fig. I. pag. 118.
XXXV flonicac artis inftrumentorum forma infculptum; cuius rei memoria
exftat in titulo marmoreo , qui ibidem appofitus ell f ^. Sed noftra aetate
maximum palTi lunt detrimentum , cum novi Vaticani Mufei condendi neceflitatem
peperit erum¬ pens quotidie veterum monumentorum copia , & eorumdem
alportationis impediendae providentia. Poftquam igitur San- dlillimus , ac
fapientilTimus Pontifex Clemens XIV., quem
utpoteprimumlitterariaemeaefortunaeparentem,&publi¬
caetranquillitatis,quafruimur,fundatoremfempergratoani¬ mi fenfu , & laudum
praeconiis profequar, Ambulacrum Va¬ ticani Palatii, quo iter eft ad
Bibliothecam, veteribus Infcri- ptionibus in clalfes naviter diftinefis V)
ornandum fufeepit; tum Chriftianum Mufeum, quod aeternae memoriae Pontifex
Benediftus XIV. iam excitaverat, & gemma affabre Iculpta, (i) Editus eft a
CI. Praefule Ioh. Bottario in opufculo , cui titulus: Indice delle antichita 3
cbe fi cujiodiscono nel Palazzo di Campidogltc &c. pag. 8., poft Philippi
Titii librum de Pi&uris , Scul¬ pturis j & Architecturis Romanis ab eo
amplifica¬ tum3 quoddeinfeorfimbisetiameditumfuit: Mo- ('b) Grut. Tom. II. pag.
167 (c) Fabrett. de Aquis , & aquaedu6tib. Differt.II. pag. 73., & 74.
n. 129. j & feqq. (2)HucconfluxeruntpraeterMatthaeianas, veteres
Infcriptiones domus Porciorum 3 tum plures Paflioneii Eremi apud Camaldulenfes
in Tufculo. Ceterum vide varias antiquas Infcriptiones ex iis 3 quae pro hac
ingenti colleftione coa6tae fuerunt 3 vel memoratas , vel addu6tas in Epiftola
noltra edita in Ephemeridibus litterariis Florentinis anni 1772. n. 10. coi.
14S. , & n. feq. coi. 170, um in aliis n. 45. j & feqq- coi. 6yy. 3
& feqq., dein n. 48. coi. 7$S.3 ac tandem n. 1. earumdem Anecdotorum
noftrorum . De Feriis Latinis huc addu&is vid. quae adnotavimus hoc I. Vol.
Clafs. VII. pag. 73. e2 00 (&) (0 Ephemeridumanni1775.coi.4.3tumn.2.coi.10.
Confuleetiam Opufculum, cuititulus: Adlnfcri-
ptionemM.luniiPudentishocipjoannoRomae deteffam adverfus anonymi convicia curae
pojlerio- Dono.Hieronymi.Principis.Alterii res(CaietaniMelioris).Romae177$.Vid.Ephe¬
Aebutianum merides Romanas eiufdem anni 3 ubi de eadem In-
Ex.Matthaeiorum.Villa feriptioneEpiftolaCl.viriMatthiaeZarilliin.XXI. pag. 161.
Habes etiam aliquas Infcriptiones Va¬ ticanas editas a CI. Viro Caietano
Marinio Tom. IX. 3 & feq. Diarii Pifani litteratorum 3 & in Syl- loge
veter. Infer. 3 qua claufimus III. Volumina Marmora. omnia . antiqui . pedis
Modulo . infculpta Scriptorumq. teftimoniis . commendata Benedictus . XIV. P.
O. M In . Mufeum . Capitol. tranftulit Anno . Pontif. III Dono . Hieronymi .
Ducis . Matthaei Capponianum Non . ita . pridem . Via . Aurelia . reper Ex .
Aedibus . Capponianis Dono . Alexandri . Gregorii Marchion . Capponii Eiufdem .
Mufei . Curatores . perpetui Statilianum In . Ianiculo . alias. effofium Ex .
Hortis. Vaticanis Colfutianum . feu . Collotianum Ex . Marii . Delphini .
Aedibus (a) Aldrovand. pag. 121. XXXVI Mofaici ferpentis emblema
referente (0 , & Carfagnanae fi- gillo(*), testimonio sane luculentissimo antiquae
eiufdemfi¬ delitatisergaBeatumPetrum,&RomanamEcclefiam,pro¬ vide ditavit,
novique cubiculi elegantifiime picti a temporum noftrorum Apelle, Antonio Raphaele
Mengfio, accefiione auxit, ut Papyris omnibus per Bibliothecam , & fecretum
Ta¬ bularium olim difperfis, in unum colleblis, aliifque Vibloriae
gentiscomparatiscertuslocuseffiet(?);acinfiuperEtrufco- rum Vafculorum, quibus
Bibliothecae Vaticanae fcrinia 01- nantur , fupcllecfilem mire amplificavit M ;
ipfumque tandem aeneorum monumentorum Mufeum a Clemente XIII. fplen- dide
exftrucfum, praeter recentia ad fe dono mifia Vindobo- nenfis , Parifienfis ,
Taurinenfis , Palatinae, aliarumque lega¬
liumfamiliarumaureanumilmata,argenteisnummisquine- tiarn FerettiaeE) , &
Palfioneiae EI gentis, tum & ballarinii Mufei Wfanerariffimis, Herodis AntipaeE)lingulariaeneo
(1) Offervazioni di varia erudizione fopra un carneo antico rapprefentante il
ferpente di bronzo, efpojle da Orazio Orlandi Romano &c. In Roma 1773. per
Arcangelo Cafaletti . Vide cenfuram_, noftram in Ephmerid. Litter. Romanis
eiufdem an¬ ni num. XLI., 8c XLIE (2) Vid. Ephemerides litterar. Florentinas anifl'
1771- n. 12*43- c°l* 194- j & feqq. Articulum nos ipfi fuppeditavimus Donum
Cl. Praefulis Ste- phani Borgiae. llluftratum pridem fuerat a Cl. alio Praefule
Iofepho Garampio edito opere , cui
titulus:IlluflrazionediunanticoSigillodellaGar- fagnana. In Roma 1759. per
Niccolb , e Marco Pagitarini. Anonymi Lucenfis cenfuris refponfio nunc paratur.
(5)^ rid. in cit. Ephem. Flor. ann. 1771. n. 1. num- gubiui de tribus Vasculis
Etruscis encaatice piclis a Clemente XIV• P O. M. in Mufeum Vaticanum inlatis
Differtatio . Florentiae 1772. in Typogra- pbia Mouckiana - Ex Mufeo Anfideiano
Perufino . Alia plura Vafcula in Vaticanam Bibliothecam mi¬ grarunt ex munere
Antonii Raphaclis Mengfii eximiiPi&oris, & Raphaelis Simonettii PatritiiAu-
ximatis,CanoniciBafilicaeVaticanae3&SS.D. N. a cubiculo. (5) Vid. articulum
noftrum in Ephem. litter. Flor, anni 1771. n. 14. coi. 210. (6) Vid. ibid. n.
31. coi. 482. (7) Nempe Simonis Ballarinii Praefe&i Biblio¬ thecae
Barberiniae j & a cubiculo Pontificio, qui obiit V. Idus Martii anni 1772.
Hic donavit aliquot rariora, & vetuftiora numifinata Pontificia, feu potius
nummos ; cetera empta poft eius obitum. coi. 5.3 ubi alter articulus nofter de
huiufmodi Papyris . Adde Papyrum alteram dono datam ab Equite Marchione Carlo
Mufca Bartio Pifaurenfe, dequaconfuleEpiftolamnoftraminfertamEphe¬
mo3inNummophylacioClementisXIV.P-O.M. meridibus Florent, anni 1775., &
praefertim n. 49. coi. 774., & n. 51. coi. 811. Vid. & Praefatio¬ nem
noftram ad Fragmentum Papyri faecali V. 3
velVI.&c.inTom.II.Anecdotor.litterar.p.437. (4) Iobannis Bapt. Pajferii
Pifaurenfis Nob. Eu- affervato, demonflratur, Cbrijhrm natum ejfe anno VIII-
ante aeram vulgarent contra veteres 0- mnes , & recentiores Cbranologos,
auBore P Do¬ minico MagnanOrd. Minirn. Presb.&c. Romae 1772. typis Arcbangeli
Cafaletti. Vid. 8c Epifsolamnummo, aerae Chriftianae inchoandae documento,
Bruti, Sc Numoniae confularis familiae aureis nummis Plancani Mu-
fei('),quorumunuspretiofiffimus,alteranecdotus,Titi,Sc Traiani argenteis
Graecis nummis rarioribus maximi modulis
vigintiduobusinM.Antoniinummislegionibus,&binisine¬ ditis Lucretiae, &
Minutiae gentis, a Traiano reftitutis nu- mifmatibus Mufei Zarilliani (2) , veterum
Beneventi Ducum ab Arigilio ad Georgium Patricium aureis, argenteifque nummis
bene multis 0) , Etrufci pueri in Tarquinienli agro eruti prae-
clariffimohmulacroexaereG),TabulisaeneisOftranorum,&
SentinatiumveterumUmbriaepopulorumG),tumpaterisG), fiftrisG) , inauribus (s) ,
vitris vetuftilTimis C9) , ac ceteris hu- iufmodi monumentis munificentiffime
locupletavit; id infuper conlilii cepit, ut novum omnino Muleum in ipfis
Innocen- tii VIII. cubiculis, infigni porticu, adytifque ornatiffimum ad
excipiendumfigna , protomas, anaglypha, ceteraque mar¬ morea monumenta
excitaret . Inlatum fuit quapropter in ipfum , ut primum licuit, Iovis
Verofpiae gentis marmoreum Signum praeclarissimum (IO), tum aliud omnino
integrum, rarum- ]ara noftram in Ephem. litter. Florent, anni 1771. n. 35. coi.
517*) & feqq. Donavit Henricus San- clementius Monachus Camaldulenlis }
nunc Gregorianii Coenobiiad Clivum Scauri Abbas. (1) De his vid. Epiftolae
noftrae partem 3 quae eft in Ephem. litter. Florent, anni 1773* n* 47* coi.
745.3 & n. 49. coi. 772.3 & feqq. De nummo Bruti vide etiam 3 quae
adnotavimus Tom. II. ho¬ rum Monumentor. ClalT.II. Tab.XII. Fig.I. pag.29. (2)
Vid. Epiftolam noftram in cit. Ephcmcrid. ann. 1774- n- 43* c0,‘- 67S. &
feq. (3) Vid. camdem ibid. coi.68 1. Donum Cl. Praef. Steph. Borgiae . (4) Vid.
articulum noftrum in cit. Ephcmer. anni 1771- n. 49. coi. 774. 3 & Praefationem
nostram ad Alphabetum veterum Etruscorum pag. 29.
Videndaetiamloh.Bapt.PajferiiPifaur.JVob.Eu- gubini de pueri Etrufci aeneo
firnulacro a demen¬ te XIV. P- O. M. in Mufeum Vaticanum inlato Dijfertatio .
Romae in Aedibus Palladis 1771* Con- fule tandem 3 quae nos adnotavimus hoc I.
Vol. Clalf. X. pag. 108. Donum praeclarifiimi Praefu- Jis Francifci Carrarii
Bergomatis} qui etiam pate¬ ras j & numifmata aliquot argentea donavit 3 de
quibus vide Epiftolae noftrae partem 3 quae eft ad n. 40. coi. 628. Ephem.
Flor. ann. 177 1. (5) Vid. articulum noftrum in laud. Ephem. e- iufdem anni n.
1. coi. 4. Retulit Muratorius Thef. Infer, pag. 563. n. 2. 3 & pag. 164. n.
1. (6) Vid. Epiftolae noftrae partem in Ephem. Flor, ann. 177^. n. 47. coi.
745. Adde pateras Carra- rianas , de quibus fuperius adnot. 4. (7) Vid. ibidem
. (8) Vid. eiufdem Epiftolae partem, quae eft ibid. n. 49. coi. 772.3 8c feqq.
(9) Vid. Ephemerides litter. Romanas anni 1774. n. VI. pag.41. DonumCl.PraefulisMariiGuar-
naccii Volaterrani. (10) Vid. articulum noftrum in Ephem. Flor, an¬ ni 1771. n.
49. coi. 777.3 quaeque adnotavimus hoc XXXVIII rumque Ottaviani
Augufti (0 , Meleagri alterum longe cele¬ berrimum Aedium Pighinianarum 0) ,
lunonis, & Narciffi (s) non deterioris artis, & famae gentis
Barberiniae, Sardanapali fuo nomine inferipti (4) , Paridis Aedium Altempliarum
(j) , Dianaeftolatae(6),&fervibalneatorisV)HortorumPam- philiorum , Dilcobuli
laudatiffimi in agro Romano non ita_» pridem eruti, aliorumque; Tum Borgiae
gentis Helvii Perti¬ nacis rariffima Protome (8) , aliaque Antinoum referens,
Card. I tidetici Marcelli Lantis munus (9), Antifthenis Athenienfis I hilofophi
Herma Tiburtinus 0°), Ara Vulcani Hortorum Ca-
falium('05BigacircenfisadDiviMarciBalilicamiacens<12), hoc Tom. I. ad Tab.
I. pag. 2. Vid. typum apud £q. Paullum Alexand. MafFeium in ColleEtionc ve¬
terum Signorum Romae Tab. CXXXV. pag. 127. (0 Vid. quae adnotavimus hoc Tom. 1.
ClalT. VIII. Tab. LXXVL pag. 77. (2) Vid. EpiRolae noftrae fragmentum in Ephcm.
Flor, anni 1770. n. 15. coi. 231. , quaeque ad¬ notavimus Tom. III. horum
Monument. ClalT. V. lab. XYX. pag. 59. Vid. apud eumdem MafFeium ibid. Tab.
CXLI. pag. 131. C$) Laudantur haec Signa ab omnibus Romana¬ Can- Vid. typum
Tab. 36. cit. Villae Pamphiliae . (S) Typum aeneum habes apud lof. Roccum
Vulpium Vet. Lat. profati. Tom. IV. Cap. VI. Tab. VII. Vid. Fpiftolae noftrae
fragmentum in Ephem. Flor, anni 1773. n. 34. coi. 551., quae¬ que adnotavimus
Tom. II. horum Monum. ClalT. III. Tab. XXVI. Fig. II. pag. 42. (9) Meminimus
hoc ipfo Vol. ClalT. VIII. Tab. LXXXVIII. pag. SS. (10) Vid. Epiftolam noftram
in laud. Ephemer. eiufd. anni num. 45. coi. 715. 3 & n. 47. coi. 742. rumAntiquitatumferiptoribus,alterumveroad¬
OORagiotiamentodiOrazioOrlandiRomam ducitur a Hier. Tetio in Aedib. Barbariniis
litt. N. a Cl. Ioh. Winckelmannio Monum. antiq. inedi V°l. F n. 207. , Protomen
porphyreticam Philip pi Imp. , & duos Sarcophagos, de quibus omn bus vide
Epiftolae noflrae partem in Hphcin. Flo; ann. 1772. n. 45. coi. 711. (4) Vid.
eius typum apud Winckeimanniur loc. cit. Vol. I. n. 163. , cuius illuftrationem
ha b_s \ ol. II. Par. III. Cap. I. pag. 219. (5) Apud Maffeium cit. Colle#. Tab.
CXXIV pag. 116 . (6) De Dianae Signo Winckelmannius loc. cit. X° l U' Par’ L
CaP- VII. n. III. pag. 27. Vid. t)pum T„b. 5-3. in y t/la Pamphilia, eiufque
pa¬ latiocumfuisprofpeclibus,fatuis,fastibus&c. Romae formis Iacobi de
Rubeis . (7) De Servi balneatoris Signo, quod Senecae falfo tribuitur , vide
eumdem Winckelmannium Jbid. Par. IV. Cap. IX. n. II. Jitt. C. pag. 256. fopra
un’Ara antica pojjeduta da Monfig. Antonio Cajali Governatore di Roma . Iu Roma
per Ar- cangelo Cafiletti 1772. Vide, quae nos adnota. vimus Tom. III. horum
Monument. ClalT. VII. Tab. XXXVII. Fig. II. pag. 73. Adde vas cine¬ rarium
elegantilTimuin , quod fimul dono datum
cft,&abOrlandioilluftratum.PraecelTeratan¬ tea donum Capitis aenei Balbini
Imp. , de quo nos in iudicio , quod de hoc Opufculo emifimus in Ephemerid.
Roman. anni 1772. n. XXXV. pag. 276., & in Epiftolae fragmento, inferto
Epheme¬ rid. Florent, anni 1771. coi. S21. (12) Eius fchema exhibuit
Tab.III.fub n.XLVIII. ad Cap. XXIII. coi. 2111. Valerius Chimentcllius illuftrans
Marmor Pifanum de honoreBijfelli(Tom. VII. Antiq. Rom. Graevii') qui balnearem
feliam putat, & rurfus alferit Cap. XXVII. coi. 2130. Vid., quae
adnotavimus Tom. III. ClalT. VIII. Tab. XJLVII. Fig. II. pag. 87.
XXXIX Candelabra BarberiniaCO , Zeladianum C2> , aliaque ad Divae
Agnetis extra Portam Nomentanam adfervata OJ , Sarcophagus Veliternus quantivis
pretii Sex. Varii Marcelli V) , Urna Tudertina (A egregii Etrufci operis, &
altera Perufina V) ar¬ canis ethnicorum fculpturis infignita , aliaque permulta
, quae fciens praetereo, quaeque iam eruditorum fcriptis lon¬ ge , lateque
inclaruerunt. His omnibus accedunt praeftan- tiora Hortorum Matthaeiorum Signa,
quorum pleraque fupe- rius etiam pro re nata defignavimus, Cereris nempe Peden¬
tis (7) , & ftantis (8) , Fauni dormientis (9) , & a Satyri pede (pinam
extrahentis 0°) , armatae Amazonis (‘0 , velatae.» Pudicitiae 02) , OHaviani
facrificands C'3) , Traiani Pe¬ dentis ('4), Commodi equo vecti (**), duo
Hiftrionum (igil- (1) Vid. Epiflolae noftrae fragmentum in Ephem. Flor, anni
1770. n. 15. coi. 230. Alterius ex his Candelabris fchema habet Winckelmannius
loc. cit. Vol. I. n. 30., agitque de eo Vol. II. Par. I. Cap. XII. n. i» pag.
36. , & alibi. Vid. adnot. feq. (2) Vid. articulum noftrum in Ephem. Florent,
eiud. anni n. 45. coi. 71 5. , & feqq. Vid. Opuf- eulum , cui titulus :
Difcorfo deW Abate Gaetano MarinifopratreCandelabriacquijlatidalS.P. demente
XIV- b> ftfa *77*• PreJF° Aaoftino Piz- zorno. Tab. III. aeneae. Ex Diarii
Pifani Tom. III. art. V. pag. 177. (3) Ex V. 3 quae exftabant y IV. in Mufeum
Clementinum Vaticanum adfportata , quintum fuo loco reli&um ed:. De his
multi Romanarum anti¬ quitatum Scriptores verba faciunt. (4) De hoc Sarcophago
s qui a pluribus editus, & illuftratus effc, vide Ephemerides Romanas ann.
1775. n. III. pag. 17. (5) Vid. Epiftolam noftram in Ephem. Flor, an¬ ni 1771-
n* 45h coi. 712.3 & feq. De hac Urna verba fecimus etiam in hoc I. Vol.
ClalT. X. ad¬ not. ad Tab. CII. pag. 107.3 & Vol. III. ClalT. V.Tab.XXIV.Fig.I.pag.5-7.
la corum fculpturis in/ignito 3 in quibus fymbolice fa- cra quaedam revelatae
Religionis mvfieria adum¬ brantur 3 & Clementi XIV. P. O. M. , ac fapien-
tijfimo ad incrementum Mufei Pontificii Vaticani ab Emerico Bologninio Ferufiae
, e?* Vmbriae Praefide humillime oblato Coniecturae loh. Bapt. FaJJerii Pifaur.
Regiae Academiae Londinenfis 3 Infii- tuti Bononienfis Socii. Romae 1773. apud
Benedi- Bum Francefium. (7) Matthaeiana monumenta ad Mufeum Vatica¬ num
ornandum comparata innuimus in EpiHolae no- ftrae articulo, inferto Ephem.
Flor, anni 1771.0.1- col. 6. Singula vero in his Voluminibus defignavi. mus.
Vide ergo Signum Cereris fedentis Tom. I. ClalT. II. Tab. Tab. XXXVI. pag. 21.
(8) Vid. ibid. Tab. XXX. pag. 24. , & feq., & apud Maffeium Tab. CVIII.
coi. 100. (9) Ibid. ClalT. III. Tab. XXXIV. pag. 28. (10) Ibid. Tab. XL. pag.
32. (11) Ibid. ClalT. IV. Tab. TX. pag. 53., apud Maffeium Tab. CIX. pag. 202.,
8c apud Montfau- conium Antiq. explic. Tom. IV. Par. I. Tab. XIV. n. 2. pag. 2.
(12)Ibid.ClalT.V.Tab.LXII.pag.$6.3 & apud Maffeium Tab. CV1I. pag. 99. (6)
Vid. eamdem Epiftolam noftram in cit. Ephem.
Flor.n.47.coi.741.3&feqq.3tumea,quae (13)Ibid.ClalT.VIII.Tab.LXXVII.pag.77*
innuimus Tom. III. horum Monum. ClalT. II. Tab. XII. Fig. II. pag. 22. Exftant
etiam De marmoreo fepulcrali Cinerario Ferufiae effoffo3 arcanis ethni¬ (14)
Ibid. Tab. LXXXV. pag. 84. (15) Ibid. Tab. XCIII. pag. 92. , & apud Maf¬
feium Tab. CIV. pag. 96. Notae funt Ficoronii ex- po« XL la (0 , ac
truncus militis gladio cincti, galeamque pede dex- tero prementis W ; tum
Protomae Iovis Serapidis G) Sile¬ ni (P, Plotinae W , & L. Veri(6) ;
infuper aenea capita Ne¬ ronis (7) , & Treboniam Cg) , lymplegma vel Ariae,
& Poeti, vel Portiae, & Bruti (9) , St animalium collectioni accenfiti
Aries arae impolitus P°), Leo, St Aquila PO; praeterea ba- fes pompam Iliacam
referentes ('V, & anaglypha Coniuges IfidifacrilicantesC'S), VeturiamalloquentemCoriolanumP4),
natale Romuli, St Remi C‘j), & Nymphas fontium praeli- des (l6) exhibentia;
ac tandem Cippi, Urnae , & Infcriptio- nes bene multae , quas fuis locis
delignare fategimus C17). Cetera vero aliter diftracta , & praefertim Marci
Aur. Anto¬ nini praetextati Protomen a Gavino Hamiltonio Anglo comparatam (,s)
haud perfequi vacat , quum iam tantus Vatica¬ narum divitiarum fplendor in fui
nos modo rapuerit admira¬ tionem . Quare li tantae rerum antiquarum
fupcllectili ibi¬ demcoadtaeaddasceleberrima,iamtumibidemadfervata,
marmoreaSignaiacentiaCleopatrae,liveNymphaeadfon¬ tem dormientis ('A, Nili
C*°), St Tiberis amnium, tum cete- pofhdationes adverbiis Maffeium 3 &
Montfauco- (ii) Leo3& Aquila defiderantur in noltra hac
nium,quodhocSignumHadrianotribuerint. collectione.
(1)Ibid.Claff.X.Tab.XCIX.pag.100.3& (12)Tom.III.Claff.IV.Tab.XXV.Fig.I. apudSponiumMifcell.erud.antiq.Se6t.IX.n.1.
(2) Nunc reftauratur 3 ut in integrum Signum evadat . Quare mirum videri non
debet apud nos defiderari. (3) Tom. II. Claff. I. Tab. I. Fig. II. pag. 3. (4)
Ibid. Tab. VI. Fig. II. pag. 8. (5) Ibid. ClafT. III. Tab. XV. Fig. II. pag.
34. (6) Ibid. Tab. XXIV. Fig. I. pag. 40. (7) Ibid. Tab. XIII. Fig. II. pag.
32. (8) Ibid. Tab. XXXI. Fig. I. pag. 46. Vid. Epi- ftolae noltrae fragmentum
in Ephem. Flor. 1771. n. 52. coi. 822. (9) Ibid. Claff. V. Tab. XXXIV. Fig. I.
pag.48. (10) Ibid. ClafT. X. Tab. LXIX. pag. 92. , &
apudMontfauconiumAntiq.explic.Tom.II.Lib. III. Cap. I. n. 2. pag. 49. Tab. IX.
n. 1. &II.pag.44. (13) Ibid. Tab. XXIV. pag. 41. (14) Ibid. Claff.VII.
Tab.XXXVII.Fig.I. pag.7 r (15) Ibid. Tab. ead. Fig. II. pag. 73* f 16} Ibid.
Claff.X.SeCt.I. Tab.LIII. Fig.I.pag.95*. (18) Vid. Tom. II. Claff. III. Tab.
XXII. Fig. I. pag. 38. (19)Vid.Ioh.WinckelmanniumTraCtatuprac-
liminariadMonumentaantiquaanccdotaCap.IV. pag. XC. Vol. I. (20) Vid. Epiftolam
noltramin Ephemeridibus Jit- ter.Florent,anni1775".n.2.coi.22.3&feqq.,
ubi de huius Statuae reltauratione 3 & lingua per¬ peram crocodilo
affi£ta. XLI ra longe praeclariflima Apollinis Pythii, Laocoontis,
Anti¬ noi, Herculis cum Aiace (0 , Antinoi, & Veneris, truncus Herculeus,
quod opus erat Apollonii Athenienfis, & Michae-
lisAngeliBonarotiifpedaculum,actandemvasingenspor¬ phyreticum,larvasfcenicas, arasfacrificiales
ab Agrippae Pantheo avedas, aliaque nonnulla , nae tu dixeris, erudite Ledor,
praeftantiora quaeque artis miracula heic Graecae, & Roma¬ nae
magnificentiae Genio templum parafTe , fibique aeternam afieruifle
incolumitatem. Sed quid non infuper Iperandum
aPIOVI.Pont.Opt.Max.,cuiusprovidentianuncregimur, & cuius dudu,
confilioque, dum Aerario Pontificio praeeflet,
tantumopusinchoatum,acperfectumeft?Ipfeenimlibera¬ lium artium amore incenfus
iam tantum opus amplificandum regio plane animo , & magnifico fumptu
fufcepit, iamque multa plane egregia antiquitatis cimelia , quae in lucem
aufpi- cato nunc e terrae finu prodierunt, fedulo conquilivit, atque
paravit,quibusauguftumhocMufarumdomiciliumprodigni¬ tate exornet. Huc nimirum
confluet Fauni Signum celeberri¬ mum ex rubro Aegyptio marmore , Hermae
Bacchandum, & Herculis lane elaboratiflimi, Antifthenis alter haud vulgaris,
tumDomitiaeAuguftaenonobviaProtome,olimComitis lofephi Fedii deliciae, ac
peritorum omnium admiratio. Huc item migrabit Mularum chorus, &. Graeciae
fapientum Her¬ mae , ipforum nominibus*, & lentendis infcripti, aliique ve¬
terum tum Poetarum , tum Philofophorum plane fimiles , quos Tiburtinus ager
nuper eduxit!2). Huc etiam procedet Alpafiae Herma alter hoc iplo anno detedus,
aliaque e Ca- ftrinoviruderibusfimulerumpentiamonumentaG).Hucle reci- CO quae
ex Winckelmannio adnotavimus mus Tom. II. ClafT. VII. Tab. LII.Fig. I. pag. 69.
& ad Tom. II. CiaIT. III. Tab. XXV. Fig. I. pag. (3) Vide Epiftolas
Caietani Torracae Centum- 41.,&adTom.III.Claff.V.Tab.XXXI.pag.60.
cellenfisMediciclariflimirelatasinTom.III.An- (2)VideAnthologiamRomanamTom.I.num.
thologiaeRomanaen.XXXIII.p.257.3n.XXXVIIf. XXXIV. pag. 269.3 quaeque nos etiam
adnotavi- pag. 297.3 n. XLI. pag. J27., & n. LII. pag. 409. f Vid.
xlii recipient & vas ex bafalte clegantiiTimum in Quirinali effof-
fum, & alterum ex alabaftro pretiofiffimum ad Augufti Mau- foleum recens
erutum, ceterique ibidem detecti & Livillae Germanici Caefaris filiae (0 ,
& Tiberii Caefaris Drufi Cae¬ laris filii (*) , & Caii Caefaris.,
Tiberiique Caefaris, tum & alterius anonymi, Germanici Caelaris filiorum
emortuales ti¬ tuli , & Auguftae domus nova indubia monumenta G) . Huc
infuper adducentur quatuor lymplegmata, Herculis facinora exprimentia , nempe
Geryonem Hilpaniae Regem tricorpo- reum ab ipfo bello fuperatum , Diomedem
Thracem quadrigis devictum, tripodem ab Apollinis Sacerdotis manibus vi ere¬
ptum,ScCerberumcanemtricipitemtriplicicatenaadfuperos retractum , quae nimirum
inter Oftiae rudera non ita pridem reperta funt. Huc tandem accedet &
Protome Perufina Anto¬ nini Caracallae W , & altera Lavinatium Sabinae
Hadriani uxo¬ ris, & Anaglyphum bubulum Ocriculanum , & Picena
Falarien- fa Monumenta W , & Mufivum Tulculanum Medulae caput referens (*)
, & alia fexcenta tum ad Hortos Carpentes, tum in Quirinali, tum ad Curiam
Innocentianam , tum alibi de¬ tecta,quibusenarrandisdiemperderem.Necdeeruntaltero
aeneorum monumentorum Mufco perrara , atque felecta ci-
melia,praefertimqueeffolfaexactoannoadAventinumClu- nienfis Senatus confulti
aenea tabula, Graecaque numifinata anecdota Tigianis Armeniae Regis cum
Eratonis fororis vul¬ tu V) , Octaviae Augufii fororis cum anadyomenes Veneris
ty- Vid. 8c quae nos adnotavimus noftro Tom. III. ClalT. X. Sefl. XIII. n. 66.
pag. 171. (0 Vide Epift. anonymatn CI. Viri Ioh. Ludov. Blanconii} Saxonici
Ele&oris a confiliis , &. Romae Oratoris laud. Tom. III. Anthol. Rom.
n. LI. p. 401. (2)Vid.EpiftolamalteramciufdemTom.IV. Anthol. Rom. n. I. pag. 2.
(S) Vid. Epift. tertiam eiufdem Joc. cit. n.II. p.9. (4) Vid. quae nos
adnotavimus Tom. II. horum Monum. ClalT. III. Tab. XXX. Fig. II. pag. 46. po
(S) Vide Opufculum 3cui titulus :Suile Citta Pi¬ cene Falera 3 e Tignio
Dijjertazione epijlolare delP Abute G.ufeppe Colucci ai Signori di Falerone.
Fermo 1777. in S. /w*Cap.IV.pag.jS. (7) Vid. Tacitum Annal. Lib. II. initio.
Part anter. legitur : BAdAETC . BAC1AE.QN . TITPANHC averfa vero parte: EPATft
. BACIAEI2C . T/TPA- NOT .AaEA3>H . XLIII po CO , Silani Syriae
Praefidis poft Quirinum , ubi infcripta an¬ ni nota novum ad coniebtandum aerae
Chriftianae principium lumen afferret (2) , Titi ,& Domitiani cum peculiari
Laodicen- fium epocha, Philippi lenioris , iuniorifque in Stecloris urbe
pcrcufla , cetera huiulmodi Graecis Coloniis accenlenda. Sed quo me abripit
tantarum lautitiarum ingens prorfus, ac mira
congeries?Quapropteriamediverticuloinviam. XII1. Singula hulquedum expofiuimus,
quae ad Hortos Caelimontanos Matthaeiorum pertinent; nec quidem de Hor¬ tis
Palatinis, quae ad ipfos olirn fpefitabant, ac pollea Spa-
diae,deinMagnaniaegentisiuribuscefferunt,iuvatquid¬
quamattingereG).NuncverodeeorumAedibusurbanis verba nobis facienda funt. Huius
gentis maiores avitas aedes habuerunt in regione Tranfliberina ad pontem
Caeftium , qui Infulam Lycaoniam Ianiculo iungit, quae adhuc exftant, qui-
bulquefidemconciliantgentilitiafiemmatahincin.deappidta, &iplapontiscufiodiaMatthaeiisDucibusetiamnumconcredi¬
ta,PontificiaSedevacante.Multisinlcriptionibusornatas
fiuiIIehasaedes,patetpraelertimexGruterio(4) ,RcinefioG), Seldenio G) , &
Kirchmannio(?) , qui earum nonnullas, ad¬ dita huius loci defignatione , adducunt.
Excitatis aedibus ur¬ banis , Tranftiberinas deferuiffe verofimile eft. Certe
quidem tam laxo lolo potiti funt, ut Infulam condiderint, quae ex variis ,
iifque amplis , & elegantibus domibus coalefcit. De iis fingillatim
dicemus, at primum vetera aedificia, quae hunc
locumtenuerunt,ceteralqueviciniasperpendemus.Circus Flaminius quidem in regione
Urbis nona litus praelertim de¬ (0 Cum epigraphe OkTAOTIA ; & averfa par¬
te KftlnN. (2) Cum epigraphe: ANTIOXEliN.Enr. SIAA- NOY . AM . (3) Venuti Roma
moderna Tom. 11. pag. 395. (4) Iufcript. Romati. pag. 22. n. 3. > Sc 6.3
pag. fieri- 31. n. 11., pag. 32. n. 12. , & pag. 86. n.4. , 8c 5. (5)
Syntagma Infer, antiquar. Cl. IX. n. 67. pag. SII'j & Claff.XI.n. 105.,
&feqq.pag.645; (6) De Diis Syris Syntagm. II. Cap. I. pag. 220. (7) De
funeribus Romanor. Lib. III. pag. 355'. edit. Lugd. Batav. apud Hackios 1672.
f2 XLIV fcribendus venit , quem , fi Feftum, Liviique epitomato-
rem (') audiamus , exftruxit Flaminius Cenfor , qui etiam viam Flaminiam Roma
Ariminum ufque, five potius ad Rubico¬ nem amnem munivit , vel Flaminius alter
antiquior, Plutar- chotefteC),quipopuloRomanocampumlegavitprocer¬ taminibus
equeftribus obeundis. Celebratos hoc loco etiam ludos Tauricos Diis inferis
facros, vel ludos Apollinares poli: Cannenfem cladem inftitutos vulgo fertur C)
, ac nundinas quinetiam habitas teftatur Tullius (4) . Diu huius Circi reli¬
quiae confervatae funt, & multae adhuc exftant. Flabetur Bulla Caeleftini
III. Rom. Pont., qua enumerantur, & con¬ firmantur bona Ecclcfiarum Sanctae
Mariae Domnae Roiae , &. S. Laurentii in Caltello aureo , quaeque data elt
Laterani annocidcxck.a.d.IV.nonasOctobrisindictioneX.,atque ibidem ita
deferibuntur Circi Flaminii veftigia tunc exfilten- tia : Idem Cajiellum aureum
cum utilitatibus fuis , videlicet parietibus altis, & antiquis in circuitu
pojitis, cum domibus, ocaminatis,eifdemqueparietibusdeforisundiquecopulatis-.
Hortum, qui ejl mxta idem Cajiellum cum utilibus fuis, & fuperioribus
Criptarum ; Populum foras portam iam difti Ca- ficlli a parte Campitelli, &
regionis Sanfti Angeli ufque in
Burgum61.Cajiellumenimaureummedioaevo,&Pala¬ tium quoque dictus fuit Circus
Flaminius, ut cetera etiam vetcia ingentia aedificia a rudioribus infimae
latinitatis feri- ptonbus vocata laepe fuerunt. Hinc Ecclefiae Sanfti Lau¬
rentii , quae in eius ambitu comprehendebatur , nomen in ajidlo aureo, tum
etiam in Palatinis , corrupte vero Palla- Clm\ ac tandem TM claifura adhaefit,
ut inter alios animad¬ vertit Ioh. Vignolius (s) . Hoc etiam adnotavit Iacobus
Gri- mal- (0 Lib. X. (2) Froblem. 6j. ad A“k• '4' Lib' ' (S) Liv. XXX. 38.
Adnot. 5. ad S. Leonis III. Tom. II. Libri Pontificalis. XLV
maldiusO) , qui agens de Monafterio S. Laurentii in Palati¬ nis , dicebatur,
inquit, in Palatinis propter Circum ( Flami¬
nium),quemignarePalatiumvocabant.ItaCircumNero¬
nisPalatiumappellant,&MontemS.Alicbaelishacdecauf- fa Palatiolum . De
Ecclelia S. Michaelis in Palatiolo vide
FTancifcumM.TurrigiumC)latiusdifferentem.Etiamapud Anaftafium Bibliothecarium
in vita S. Petri Palatium Nero- nianum memoratur; quemadmodum in Codice
Vaticano <h), ubi quaedam ad Balilicam Sanctorum XII. Apoltolorum fpe-
ctantia habentur, Forum Traianum Traiani Palatium dici¬ tur, ac alibi Palatium
Antonianum dictae etiam funt Ther¬ mae Caracallae. Quare Templum noftrum S.
Lurentii in Pa¬ latinis, ac monafterium noviter reltauravit Hadrianus I., &
coniunxitcumaliomonafterioS.Stephaniiuxtaipfumpofi- to, & in Baganda dicto,
ibique Monachos ad pfallendum in tituloSanbtiMarciordinavit(4).Necaliudinfuper,quam
noftrum putandum forte eft Templum S. Laurentii Palatini, cuius mentio eft in
Bulla S. Leonis IX. (V , licet Bullarii Vaticani editores V) ad S. Laurentii in
Pifcibus revocaverint, ac de eo dubius haeferit Eques Francifcus Victorius, dum
IX. Templa S. Laurentio facra in Urbe recenferetO . Heic etiam fitum erat
Templum S. Mariae Domnae Rofae , cuius mentio fupra occurrit, & habetur
infuper in Ordine Romano, quod¬ que cum ceteris in conftrubtione Monafterii S.
Catharinae de Funariis C) dirutum eft. Andreas Fulvius (?) aetate fua, Clemente
fcilicet VII. regnante, exftitiffe etiamnum huius Circi formam , & veterum
fedilium figna tradit, atque in (0 In Lib. Mf. de Canonicis Bajtlicae S. Petri
Cap. II. (2) Bella Cbiefa di S. Micbele Arcbangelo} e di San Magno Cap. VII.
pag. 20. (3) Sub n. 5560. (4) Vid. Florav. Martinellium Roma ex etbnica eius
faera pag. 364. (5) Tom. I. Bullar. Baftl. Vatican. pag. 26. (6) Ibid. adnot.
(c) . (7) Differt. Pbilolog. pag. 85. (8) Ibid. pag. 371., & 374. ($0 Vrbis
antiquit. Vid. infer, p. XLVIII. adn. 2. XLVI eius cavea erectum
laudatum Templum S. Catharinae cogno¬ mento dc Funariis, quod ibi ob loci
commoditatem , & a- reae longitudinem funes intorqueri confueverint .
Eiufdem Circi formam faeculo XVI. depictam, quam tamen multa ex
parteingeniumfupplcverit,affertMontfauconius(0exLau¬ ro. 1orro iuxta Fulvii,
aliorumque fententiam Circi latitu¬ do fpatium occupavit, quod inter officinas
, five apothecas oblcuras, forumque Iudaeorum eft intcriectum . Huiufmodi
quidem apothecae olirn iunctae erant non Circo folum Fla¬ minio , fed aliis
etiam Circis. Numularium, nummorum fci-
licetpermutatorem,veleorumdemaeffimatorem,dcCirco
FlaminiohabesinveteriinferiptioneaVignolioadductaW}
VitriofficinaminibietiamfuilfedocetMartialis(?)dicens: Accipe dc Circo pocula
Flaminio . Habetur Pomarius dc Circo Alaximo ante pulvinar apud Rei-
nefiumO,&Sponium0),quinempeinternegotiantesmi¬ nutos , & faTOTTCAas
olera vendebat, non autem viridaria cole¬ bat, ut placuit Sponio. Siquidem
faepe occurrit in veterum inferiptionibus delignatus locus, ubi opifices
officinas fuas aperiebant, ut in noftra Infcriptionum fylloge obfervaVi- mus V)
. Ad eas autem officinas, cum Card. Dominicus Gy- mnafius exacto faeculo
Templum S. Luciae a fundamentis una cum adiunctis aedibus, & monafferio
renovaret, efFoffae funt ingentes columnarum fpirae, & fcapi e Tiburtino
lapide, ac quadratae eximiae magnitudinis . Quare lutnmus Circus in he-
micyclumcurvabaturadplateamMarganamvulgodictamnon longe a Capitolio , ac flectebatur
ad Aedem S. Angeli in Fo¬ ro Pifcario; eius autem ima pars , ubi Circi carceres
habe- (0 exf/ic. Tom. III. Par. II. Lib. III. Cip. III. Tab. CLIX. pag. 27S.
(2) Infcript.felecl.pag.141.poftDiflertat.de Columna I/np. Antonini Pii. ($)
Epigraru. 75. Lib. XII. ban- (4) Syntagm. Infcript. antiq. CluIT. XI. n. 7^.
C5) MifcelL erud. antiq. Se61. VI. pag. 230. (6) Tom. III. ClaflT. X. Secl. VI.
n. 11. pag. 119.3 & leq. XLVII bantur, pertingebat ad Aedem S.
Nicolai ad Calcarias didi, & ad palatium Ducum Caefariniorum. Certe quidem
Templum ApollinisCO,quodaliiMulis,velHerculiCudodi(aerumdi¬ xerunt , Circo
Flaminio adhaerebat; nec aliud fpatium obti- nuifle, quam quod nunc tenet Aedes
S. Nicolai, & adiun- 6lum Collegium Clericorum Rcg. de Somafcha , docent
ve- fligia fphaericae parietis, cui adneduntur Ionicae columnae incendio
corruptae, & ex veteri marmorato concinne refe- dae, quorum lingula adhuc
in Cavaedio eiuldem Collegii confpicua lunt. De Aede altera Neptuno dicata,
quae erat 'in Circo Flaminio, & cuius Aedituus erat Abafcantius Aug. Lib.
(2) , cum nullae fint reliquiae praeter antiquae inlcriptio-
nismemoriam,haudpraedatpluribusdilferere.Ceterum condat, in ea fuiffie multa
tum Signa, tum Anaglypha, quq- rum nonnulla Neptunum, Thetim , Achillem,
Nymphafque marinas delphinis vedas referebant, & tamquam Scopae o- pera
praedicabantur (s). Anaglypha quidem nonnulla affixa etiam nunc funt parietibus
Aedium Matthaeiarum, Nymphas marinas d) , & Pelei, & Thetidis nuptias
(s) exprimentia , quae forte ad hoc Templum pertinuerunt, & in hac vicinia
erui potuerunt. In iplo Circo Flaminio exditide etiam Si¬ gnum Achillis ,
Cephidbdori opus, tradit Plinius (6): verum hoc, ceteraque huiulmodi vel
abfumplit temporum iniuria, veladhuccelatinvidatellus.QuidmemoreminfuperCirco
FlaminiopropinquasAedesMartis,Vulcani,Bellonae,Ca- doris, Pietatis, ipdufque
Iovis Statoris, quas Onuphrius Pan-
vinius(7)dudiolerecenfuit?QuapropterdedgnataCirciFla¬ (1) Le antichita Romane 3
opera di Glo. Rati- Jla Piraneft; Roma 1756. Tom. I. n. 94. pag. ig. (2)
Infcriptionem} quae exdabat in pratis Quin-
£tiisinvineaquadam3refertOnuphriusPanvi- nius de Ludis Circenfibus Cap. XVIII.
3 ubi de Circo Flaminio, pag. igg. edit. Parif. ann. 1601. & ex eo etiam
ceteri. * minii (3) Plin. JVatural. Hift. Lib. XXXVI. Cap. V. (4) Vid. Tom.
III. Claffi II. Tab. XII. Fig. I. pag. 21., & Tab. ead. Fig. II. pag. 22.
(5) Ibid.Claff.VIII.Tab.XXXII.pag.61.3 & Tab. XXXIII. pag. 64. (6) Loc.
cit. (7) Loc. cit. XLVIII minii longitudine, a platea nempe Margana
ad Aedes Cac- farinias, ccterifque eidem adiacentibus aedificiis, apparet Ae¬
des Matthaeianas id loci nunc tenere, quod media fere pars Circi olim tenere
debuerat. Tertis quidem cft Pyrrhus Ligo- rius (0 , atque etiam laudatus
Panvinius (2) , paucos annos an¬ te harum Aedium conrtructionem, multam Circi
partem ad¬ huc integram exftitiffe, praefertim eo loci, ubi etiamnum e-
rigiturdomusaLudovicoMatthaeioexcitata,dequainfe¬
riuslatiusdicendumerit;cumibidem,utroqueetiamferipto- re afferente , multa
marmora effoffa fuerint, ac potiflimum Anaglyphum Circenfibus ludis infignitum,
quod non aliud, quam noftrum fuo loco adduclum (s) , exiftimamus . Nec il¬
ludpraetereunduminCavaedioMatthaeianaenortraedomus parietibus affixos cerni
quatuor arcus femicirculares, foliis, rolifque diftinctos, quorum duo integri
adhuc funt, duo vero dimidia fere parte fccti (fragmentis hinc inde fparfis)
quof- que fupra Circi Flaminii carccrum fores olim exftitifie exifti- mat CO
Librode’CerchirComtnciavaqueflo musMarganiae,ubiinhemicycliformamdefne¬ ( il
Flaminio ) dalla piazza de' Morgani3 e finiva appunto al fonte di Calcaram ,
abbracciando tut- tclecafede'Mattel3eflendendofifinoalianuo- *i'a •via
Capitolina 3 ripigliando in tutto qtiel giro
j/joltealtrecafe.Daqueflolatode'MattelilCir¬ copoebiannifonoeraingranparte
inpiedi;la parte piu intiera flava nel fto della cafa di Lo-
dovicoMattel3ilqualehacavatounaquantita di tr avertini dei Circo in qttel luogo
3 e tr ovatovi tPali i Ce ui fregio in u» ran pt ina- gliato de' putti 3 che
fopra de' carri facevano i giuocbi Circenft, e nella cantitia trovaronfi altri
travertim 3 e videft alquauto dei canale 3 per do- ve pajfava /'aequa, la quale
ora chiamap it fon¬ te di Calcaram , forfe per la calce, che hi fi macerava .
(z) Loc. cit. pag. 129: Porta Carmentalis, fe¬ cundo murorum Vrbis ambita ,
quos T. Tatias eam Romulo regnans exfiruxit , radicibus Capitolii condita fuit,
a qua llaud procul Circus Flaminius erat, ad eam partem vergens, ubi nunc efi
Vrbs Roma. Cusus longitudo protendebatur ab area do¬ bat 3 uf'que ad novam viam
Capitolinam 3 ubi car¬ ceres>& XIII. ojlia erant: latitudo vero fuit ab
AedibusLudoviciMatthaeittfqueadCalcariaefon- tern, ubi efl ojfctna tin:loris
ambiens eo circuitu apothecasobfcurasMatthaeiorum3&multasdiver-
forumprivatasdomus.CuiusfundamentiseTibur¬
tinolapide,quaeMatthaeiorum,&vicinisaedi¬
busfuppofitafunt,antealiquotanniserutis3mar¬ morea tabula pueros currilia
ludrica agitantes in- cifos continens reperta fuit . Adhuc vero exflat an¬
tiquus Circi euripus limpidijftmus tincioris ofpci- nam praeterfluens 3 qui
fons Calcariae a vicinis ( quae ibidem coquebantur calcis fornacibus ) di¬
citur . Eius Circi arena lateribus minutijpmis tranf- verfe flratis opus
tefjellatum fuprapofitum habebat. Vide&Fulvium l.ib.IV. cap.deCircoFlaminio,
ubi ait: Longitudo eius Circi ab Aedibus nunc D-
PetriMargani3(snS.SalvatoreinPenjiliufque
adAedesD.LudoviciMatthaeiiuxtaCalcara- num, ubi caput Circi . (3) Tom. III.
CiaIT. VIII. Tab. XLVII. Fig. II pag. 87. XLIX mat Carolus
Blanconius liberalium artium cultor eximius, idemque fcientiffimus , & Ludovici
Saxonicae Aulae a confiliis, & komae Oratoris, a quo Circi Caracallae
formam , & univerfam illuftrationem praeflolamur, meritiflimus frater; ratus
fcilicet hoc loci, vel non longe effodi eofdem iam potuif fe, & dein fedem
hanc , atque ufum nactos fuiffe. Quae in- fuper ad hunc Circum flmul pertineat,
reflat adhuc decur¬ rens aquae vena, quae habetur in crypta vinaria cuiufdam
domus Matthaeianis Aedibus propinquae (0 . Abundare enim aquae copia Circum
opus erat , fi XXXVI. crocodilorum lpeftaculum ibidem edidit Auguflus (fi . Nec
nifi ad Cir¬ cumfpeffaffeverofimileeflaliquamquoqueaquaepartem, quae etiamnum
decurrit iuxta proximam , cui ab ulmo no¬ men efl, cloacam . XIV. Iam monuimus
Matthaeiorum Infulam in plures difpefci Aedes, quae tamen ad unam, eamdemque
gentem olim pertinebant. Antiquiores eae effe videntur, quae me¬ ridionalem
plagam , & plateam tefludinum , quod eae fontis crateri infculptae ,
refpiciunt; in qua nimirum aquae Salo- niae , Gregorio XIII. Romano Pontifice ,
in Urbem Mutii Matthaeiicurisdedubtaefonscernitur,quatuorvafibus,con-
chilioruminflar,exAfricanomarmore,totidemqueaeneis delphinorum fimulacris a
Thadaeo Landinio Florentino an¬ nocioidlxxxv.
conflatisinfigniterornatus(fi.Haequidem AedesaubloremhabentIacobumMatthaeium,quiproiifdem
condendis architectonica opera ufius efl Nanni Bigii, earutn- que parietes
diftingui voluit Thadaei Zuccherii pibturis , qui¬
busFuriiCamillifacinoraexprimebantur,licetquaeinfron¬ te erant, obdubta calce
paucis ab hinc annis inepte oblittera¬ tae (1)Vid.VenutiumanticaRomaPar.II.Cap.
pograpbiaLib.VII.pag.161.ater.edit.Venet. III. pag. 87. 1588., & Andream
Fulvium Anticbita di Roma (2) Dio Lib. LV. Lib. V. pag. g21. a ter. Venezia
1588. ($) Vid. Barthol. Marlianium Vrhis Romae To- L tae iam
fuerint, iis, quae funt ad latus, dumtaxat referva- tis. Duo etiam interiora
cubicula eiufdem pennicillo exorna¬ ta infuper fuerunt. Ante Templum SS.
Valentino, & Seba- ftiano dicatum furgunt Aedes , quas Iacobi Barotii a
Vignola opera condidit LVD.MATTHAEIVS. PETR ANT. F1LIVS. LVD. NEPOS ut supra
fores flat epigraphe conditorem ciens, quaeque ad Matthaeios Paganicae Duces
iam fpeclabant, multifque ve¬ terum monumentis inftru&ae erant. Nec alia ,
quam quae heic fervabantur Signa, cenfenda funt, quae fub Caefaris AuguftiO) ,
& Aurelii Caefaris (2) nomine in Aedibus Ludovi-
ciMatthaeiihaberiait,acetiamediditlacobusMarcuccius; quorum alterum habetur
etiam inter Icones a Heronymo Fran- zinio editas (A . Hifce Aedibus aliae
adhaerent prope ulmi cloa¬ cam, quae Bartholomaeum Brecciolium architectum
agnofcunt. Hincfequunturaliaea LudovicoMatthaeio(fi PhilippoTi¬ tio credimus )
aedificatae anno cididlxiv. ante Divae Luciae
Templum,fedabAlexandroMatthaeioexftructac,fiearum foribus infcriptum lemma
attendamus , ut revera attendi de¬ bet (A , Bartholomaeo Amannatio , ut
nonnullis placet, vel Claudio Lippio , ut alii cenfent, formam aedificii
praebente. Earum interiora cubicula Francifci Caftcllii picturis diitin-
guuntur. Has vero nunc tenent Caietani Duces, qui fibi iplis compararunt,
quemadmodum & Nigronios, & Duratios, & Serbellonios dominos pro
divertis temporibus eaedem an¬ tea agnoverant W . (0 Antiquar. Statuar. Vrbis
Romae Libri IIT. Romae 1623. j edidit lacobus Marchuccius in fol. Lib. III.
Tab. 93. (2) Ibid. Tab. 94. (3) Icones Statuar, antiquar. Vrbis Romae Hie-
ronymi Franzini Bibliopolae ad* Signum Fontis 0- pera. Romae 15S9. in 12. XV.
Ve- (4) Q uare h°c Joco corre&a volumus} quae a Titio decepti temere
diximus Tom. III. CIa(T. VIII. Tab. XLVII. Fig. I. pag. 87. (5) Vid.
Defcrizione delle pitture , fculture 3 e arcbitetture efpojle al pubblico in
Roma, opera co- minciata dalPAbate Filippo Titi &c. pag. 86. fino a 90.5
tum etiam Itinerario ijlruttiuo divifoinot- to LI XV. Verum non id
nos nunc agimus, ut has veluti appendices Aedium Matthaeiarum defcribamus ;
Potiori namque iure ad fe nos avocant, quae R magnificentiores, &
fplendidiores firnt iuxta dextrum latus Ecclefiae , & Mo- naflerii S.
Catharinae de Funariis , quaeque Afdrubalem Mat- thaeium Cyriaci fratrem
auCtorem habent. Id docet infcri- ptio in cavaedio exfiftens, quae ita fe
habet: ASDRVBAL .MATTHAEIVS.MARCHIO .IOVII VETERVM.SIGNIS .TAMQVAM.SPOLIIS EX.
ANTIQVITATE .OMNIVM.VICTRICE .DETRACTIS DOMVM. ORNAVIT. ET. PRISCAE. VIRTVTIS.
INCITAM EN TVM POSTERIS .RELIQVIT. ANNO .DOMINI .cioiacxvi Carolus Madernius
architectonicum opus rexit, & interiora cubiculafuispennicillisexornarunt Francifcus
Albanius, Iohannes Lanfranchius, & Dominicus Zampierius. Pictae vero
tabulae etiam exftant hinc inde difpofitae , quae Cafparis Caelii ,
Chriftophori Roncallii , Iacobi Trigae , Caroli Sara- cenii, Hieronymi
Mutianii, Michaelis Angeli Morigii, Gui- donis Renii , Ioh. Francifci
Barbierii, Petri Paulli Gobbii, Petri Berettinii , Michaelis Angeli Bonarotii ,
Valentini Galli, aliorumque opera praedicantur. Alt nulla res &
celebriores, &praeftantioresfecithasAedes,quamveterummonumen¬ torum undique
difperforum praeclara congeries. In cavae¬
dionamque,fcalis,acperiltylioligna,protomae,anagly¬ pha, cippi, aliaque
huiufmodi occurrunt, quae fummatim innuere fat erit. Cavaedium habet praefertim
Signa Apolli¬ nis Sagittarii, & Herculis , tum Romanorum Impp. Iulii Cae-
faris,Caligulae,Claudii,Neronis,Domitiani,aliaqueGla¬ diatorum. Inter Anaglypha
fpectandum praecipue venit fa- crificium Capitolinum, & Militum
Praetorianorum feditio. Hinc to Jiazioni, o olornate per ritrovare con facilita
tna &c. di Giufeppe Vafi n. 195. pag. 198. tutte le anticbe 3 e moderne
magnificenze di Ro- §2 LII Hinc fi exitum quaeras verfus Divae
Catharinae Templum, habebis Nymphas marinas a delphinis , ac tritonibus ve-
btas, Bacchi , & Ariadnae nuptias, & Mulas defundo Poe¬ tae famulantes
, quas marmore infculptas cernas. Si vero me¬ ridiem verfus egredi lubeat,
occurrent Amores Deorum vi¬ ctores, Polyphemus, Se Galathea, Sphinx fcopulo
iniidens, & Oedipum aenigma folventem aufcultans (0 , tum Bacchi, &
Herculis uterque thronus marmoreis tabulis expreffi. Si ad
porticumretrocedas,&ibidemconditas,&DeumMithram, & Hylam a Nymphis
raptum anaglyptico opere exhiberi in¬ tueberis. Si fcalas albendas, Bacchans
occurret, dein Fortu¬ na , tum Iuppiter Signis expreffi ; hinc parietes ornatos
con- fpicies Anaglyphis referentibus utramque venationem Com¬ modi , &
Philippi Impp. , ac Pelei, & Thetidis nuptias; ac tandem ipfos fcalarum
gradus identidem di/tinctos offendes pulvinaribus, quae quaternario numero
inventa ad Curiam Hoftiliam & fuperius , & fuo loco monuimus . lam
ventum ad periftylium , quod aulam refpicit, atque heic pedem figens fuper
aulae poftes cerne viri incogniti Protomem , tum leor- fim Aefculapii Signum ad
laevam, quod medium habent co¬
lumnaeduaemarmoreae,quibusCybelisduoSigillafuper- ftant, tum aliae fimiles e
regione aditant duo pariter Cybelis Sigillafuftinentes.Hincduaealiaecolumnaeadpoftesdif-
pofitae , totidemque contra itantes capitulis caniftriformibus initructae; tum
iacens inferne ante Aefculapii Signum Sar¬ cophagus vindemiali opere
infignitus, ac muris appicta Ana- glypha, quae referunt tabulam Heliacam,
Priami occifionem, & lacrificium taurile lovi, & quatuor anni
tempeftates. Ex hoc loco Ipectare licet cavaedii parietibus inhaerentia hinc
inde cetera praeclara Anaglypha , quae nimirum rurfus ex- hi- (0 Hoc Anaglyphum
ab operis noftris omiflum eft, caruitque aeneo typo j quo ipfum Le&oribus
nothis exhiberemus. LIII
hibentPelei,&Thetidisnuptias,&Proferpinaeraptum, tum Venerem concha veftam,
pompam Iliacam, aliam Bachicam,Orpheumcantumulcentemanimantia,Meleagri, &
Atalantae fabulam, Bacchi, & Ariadnae nuptias, facrifi- cium Iovi, &
lunoni, Antilochum Patrocli mortem Achilli
nunciantem,tabulamvotivamAefculapio,Hygiae,Fortunae, hx. Baccho, aliaque bene
multa , quibus Icientes parcimus. Quare etiam memorare lingillatim negligemus
plures praecipue cippos, aliaque marmorea monumenta, quae in ambulacro fubdiali
, quo cavaedium veluti bipartitum cernitur , adlervan-
tur.Aefculapii,&Hygiae,aliaqueiacentiaSileni,Flumi¬
nis,acSomniSignaheicIparlimdifpolitatantumindicafie litfatis.Sicelebrem, aclingularemprorfus
M. Tullii Ciceronis Protomen innuerimus in Aedium pinacotheca exlillen-
tem,nileritreliqui,quodexponamus;liquideminteriora
cubiculaomnicarentantiquitatisornamento.
XVI.Nequeetiamhaecipfatamegregiavetullatismo¬
numenta&illuftratoribus,&laudatoribuscaruerunt.Videas liquidem praeftantiora
Anaglypha adducta a Sponio, Mont-
fauconio,Bellorio,Aleandrio,Spenceio,Winckelmannio, aliilque; multalque veteres
Inlcriptiones fere ab iis omnibus editas, qui eas in unum collegerunt, quolque
fuperius cita¬ vimus , cum de Hortorum Caeliorum monumentis fermonem haberemus
. Nec tacuerunt exteri Scriptores , noltrique etiam Topographi, praefertimque
Ficoronius (0 , Venutius 0> , Va- lius (s) , & Titius (4) coadtam heic
tantam & monumentorum, & elegantiarum congeriem.Atdelideranduminfuper
erat, has Aedes, utpote quae 1'eorlim ab Hortis Muleum re¬
ferantlocupletiffimum,illuftratore,actantaefupelleftilisedi¬ tore haud carere.
Iam porro hanc lortem tulerant & lulti- (0 Lefingolarita diRoma moderna
Cap.VILp.65. (3) Loc. cit. n. 193. pag. 198. (2) Roma moderna Tom. II. pag.
358. (4) Loc. cit. pag. 86. , e 461. nia- LIV nianearum Aedium
Tablinum (0 , & Mufeum gentis Odefcal- chiae (*) , & Antiquitates , ac
ornamenta alia Aedium Barberi- niarum(s),necqualemcumqueetiamdefideraveratdefcri-
ptionem ipfum Strotianae domus Mufeum U) ; quibus nunc
baudinferioreseruntAedesMatthaeianae,eilqueadnexa venerandae vetuffatis
cimelia. XVII. Aff utinam & Horti , & Aedes Matthaeiorum , eifque
adiuncta monumenta eum nacla fuiffent illuftratorem , & editorem , qui
eorumdem praedandae, ac dignitati par eflet. Si exiguum quidem ingenium
nofixum, cui eadem concredita, perpendatur, dolendum inprimis elt eorumdem
exornationem, promulgationemque nobis potiffimum obtigifie, tumineaincidifle tempora,
inquibus variisdidrahebamur itudiis, & occupationibus longe quidem inter fe
diflitis, ut edita interim per nos opera latis offendunt. His acceffe- runt multarum
morarum interiecfa impedimenta, obquaenobis in medio veluti curfu didentis tum
mentis alacritas, tum piopofiti noflri unitas, quae ab affdua fyffematis ,
& metho¬ diiecoidatione,&exfecutionependet,identidemminui,
tuibaiiquevidebatur.FluxeruntiamXlf., &liusanni, ex quibus hanc
provinciam lufcepimus, quam quidem per hoc tempus tot vicibus & affumpfimus,
& intermifimus , ut faepeiamexantlatoslaboresinffaurare,&.multosmoxinir¬
ritum ceffuros abfumere cogeremur. Non hoc tamen noffra culpa factum quis
credat, quibus operis ardor , & fedulitas (0 Galleria Giufliniaua dei
Marcbefe Vincett- z° GiuftMani Par. I. Tavole CL1I. , e Par. II. Taveh CLXV'11.
iSji. infol. (2)M armi, Statue, Carnei, ed altro efflenti ”'&n
Appartamenti, e Galleria delPEccmo Sig. D. Livio Odefcalcbi Daca di Bracciano ,
Nipote d’lnmcenzo PP. XI. in fol. ,70z, ( Trafponati gran parte in Aranquez ).
Hinc prodiit Mufeum Odefcalcbum,fveThefaurusantiquarumGemma¬ rum 6-c.
Accejferunt aerea Deorum, ac Dearum fit idola3 marmorea item anaglypha,
mouumentaque alia plura &c. (Illuftratore Henrico BrulaeiOj & Ni- °olao
Galeottio) Tom. II. Romae 1751. in fol. (3) Dominici Panaroli Mufeum
Rarberinum. Ro¬ mae 1656. in 4. Hieronymi Tetii Aedes Rarberi- nae ad
Quirinalem. Romae typis Mafcardi 1642. in fol. A pag. 197. incipit recenfio
veterum Pro- tomarum, & Signorum ufqne ad pag. 220. (4) Defcrizionc dei
Mufeo Strozzi 3 di Gio. M. Crefcimbeni3fraleProfedegliArcadi. LV
fit maxime ia deliciis , quofque properatio ad finem tam¬ quam ex naturae
incitamento urgeat vel in ipfa rerum au-
fpicatione.Nonhinctamenexcufationempeterenobismens eft aut ofcitantiae , aut
negligentiae noftrae; fied id potifli- mum nunc monitum voluimus , ut
diverforum temporum, quibus noftrae per univerfum opus difleminatae aflertiones
refpondent,quaeomninoneceflariaeftet,ratiohaberetur• Quare Lebtorum noftrorum
humanitate confifi non aliud nunc exponerefatagemus,quamtotiusnoftrioperistexturam,vel
profpectum , quem quidem paucis expediemus. XVIII. Illuftrandae ingenti huic
veterum monumento¬ rum colledtioni manum iam admoverat Rodulphinus Venu- tius
Patritius , &. Academicus Etrufcus Cortonenlis , Nicolai Marcelli Marchionis,
& Philippi Praepofiti Liburnenfis Vi¬
rorumCll.frater,BenvenutiIofephiMarchionis,acubiculo Petri Leopoldi Magni Ducis
Etruriae, Socii, & Amici noftriobfuamvirtutem,acfuavitatemfpectatiliimipatruus,
Romanarum antiquitatum Praefes , ac Vir denique multis e-
ruditis,doctitqueeditisVoluminibuslongenotiftimus.At vix opus hoc aggreftus
fuerat, cum ecce mors ipfum peremit
a.d.III.Kal.Aprilisannicididcclxiii.,necultraprimiVo¬ luminis Tabularum, quae Statuas
comprehendunt, illuftrationem procellit. Fadtum interim eft, ut onus in nos
conla¬ tum fuerit adornandae quartae Bellorianae editionis Vejiigii veteris
Romae, & fex Tabularum anecdotarum elaborandae Appendicis (0 ; quae licet
ab imperita, ac iuvenili prorfus manu profectae tunc forent, cum tamen aliquod
approba¬ tionis fuffragium a doctis viris obtinuiftent, in caufla fuerunt, cur
oculi in nos conficerentur, & digni , qui in Venutiani ope- (i) Haec omnia
paraverat etiam ante nos Ioh. Bapt. Piranefius initio Tom. I. Antiq. Roman. uf-
que ab anno 1756. , fed ut Opus omne abfolveret, & una ederet univerfum,
priorumVoluminum pu- blicationein retardavit , & noftrae editioni tempo-
ris principatum reliquit. LVI
operiscomplementumfuccederemus,infuperhaberemur. Qual'e ipiius apographum, quod
& emandatum, & aliqua e- tiam fui parte reformatum fuerat a Contuccio,
olim Kircheriani Mufei Praefecto, & deletae Loyolitarum Societatis Alumno ,
mox vita functo , traditum nobis fuit, quod antequam iterum expendei emus,
umveilos archetypos monumentorum, quae tum in Hortis Caelimontanis, tum in
Aedibus urbanis iVlat- thaeioi um adfervabantur, fingillatim invifendos, ac
pene con¬ trectandosanobiseflecenfuimus.Verumutideafedulitate,
acfeiefecuiitateabfolveremus,quaenosvelabofcitantia,vel ab ingenii licentia
immunes faceret, focios nobis adiunximus Ioh. Baptiflam Vicecomitem Romanarum
Antiquitatum Prae- hdem meritiflimum , eumdemque doctiflimum, atque ipflus
filium Ennium Quirinum vix ex ephebis egreflum , ob miram vetcus eruditionis
peritiam, qua inter cetera difciplinarum ornamenta praecellebat, plurimi
aeftimandum, nunc vero in dies & fcientia , & fama magis
inclarcfccntcm, & PII Vi. P. O. M. a fecretiori cubiculo, qui mihi fcilicet
praefto effent, quaeque forent vel adnotanda, vel conftabilienda , difcuffis
fententiis, 6t omnibus naviter expenfis, una mecum decer¬ nerent. Multa fane
Venutius ftatuerat, multaque etiam pu¬ blica voce invaluerant, quae typis
exprefla iam apud vulgum fidem omnem obtinuerant. At nos veritatis unice
folliciti, & fymbola omnia, & vultuum lineamenta iuxta critices re¬
gulas, & ope ceterorum monumentorum expendentes, mul¬ ta immutanda, atque
aliter exponenda cenfuimus. Hinc fa¬ cium eft , ut multae Statuarum
illuflrationes , quas i. Volu¬ men compleCti debebat, expunctae fuerint, eilque
noftras subrogandas curaverimus . Hinc etiam faftum , ut ceteras live
infciiptiones,fivenomenclaturas,quasnonnullisTabulis, ex quibus reliqua
Volumina compingi debebant , iam ipfe adle- LVII adleverat, eidem
etiam cenfurae, ac reformationi fubiecerimus. Quid hac in re a nobis geftum
fuerit, fupervacaneum erit nunc exponere, cum haec quidem illufirationes, &
adnotationes no- ftras legentibus patere facile poffint. Ac fane multa etiam ex
Venutii explicationibus fuperflua, vel nimis nota amputavi¬ mus , Graecum textum
adduftis ex Latina verfione Graecorum Scriptorum locis adiunximus, & omnia
in eum ordinem, quem nobis propofuimus, accurate redegimus. Nec etiam minorem
infumpfimus diligentiam , ut Scalptorum erratis, quae commode licebat, medicina
aliqua per nos fieret .• Mul¬ tae fane fabulae non omnino eleganter caelatae
occurrunt, quumnonomnesvelimmutare,velexpolireinnoftraefiet poteftate . Ceterum
id faltem curavimus, ut Caesarum, ceterorumque imagines fatis cognitae ad veram
vultus , quae in autographo haberetur , formam redigerentur , ceteraque omnia
fuis prototypis apprime refponderent. Nec alia fane
poftopusaScalptoribusomninoabfolutum,antequamnos hanc provinciam fufciperemus ,
follicitudo nobis relinque¬ batur . XIX. Sed iam qui ordo a nobis fervatus
fuerit, innuamus . Numina quidem praecedere aequum erat, tum ut Divinitati ,
quae his etiam indiciis a gentilitate petitis adfiruatur,
inprimislitaremus,tumutveterumethnicorum,quorum monumenta tractamus , facro
inhaereremus fyftemati. Quare Numinaipfa,quaeStatuisexpreffahabebamus,cumaliama¬
iorum gentium , eademque felecta, insignia, & eximia cenferentur, alia vero
minorum gentium, eademque adfcriptitia, minufcularia, & putatitiadicerentur,infuasclafiesdi-*
ftribuerefiuduimus,utproindefuuscuiquehonorolimetiam redditus fervaretur . Hinc
Caeleftes Deos primae Claffi ad- fignavimus , Terreftres fecundae , Silveftres
tertiae, Semideos, h five LVIIl five Indigetes quartae, ac quintae
demum Deas Virtutes. Tum DiiseorumMiniftros,&Sacerdotesfubiunximus,quibusin
Clafle fexta factus eft locus. Sacerdotibus fuccedunt Magi- ftratus, ac proinde
ex temporum ratione Confules feptimam
Claflemobtinuerunt.HisfubnectunturImperatoresRoma¬ ni, quibus Claflis obtava
occupanda obtigit. Barbari Reges nonnifi pone eorumdem domitores collocandi erant,
atque hinc Clafle nona ipfos comprehendi opus fuit. Decima Mi- fcellanea
continet; undecima Statuas iacentes. Atque haec eit totius I. Voluminis, quod
CVI. Tabulis conflat, difpoll-
tio.Nonabfimilirationefecundumdigeftumeft,quodXC. Tabulas continet, quodque in
Protomis, Hermis, Clypcis , & nonnullis Anaglyphis fimplicioribus
referendis verfatur. Hinc Protomarum Deos exprimentium Claflls prima; tum
Protoma- rum Heroas , & Viros illuftres praefeferentium Claflis fecunda ;
dein earumdem Imperatores , & Auguftas repraefentantium Claflis tertia ; ac
tandem Imperatores Germanicos faeculi XV., Si XVI. exhibentium Claflis quarta .
Sequitur Claflis quinta, quae Capita incognita; fexta , quae Hermas , feu
Terminos; septima, quae imagines quadratis, & rotundis figuris inclufas;
obtava, quae Anaglypha cum variis homi¬ num, & mulierum imaginibus; nona ,
quae figuras anagly¬ pticaslingulares;decima,quaetrophaea,pulvinaria,capitula,
bales, truncos, & candelabra; ac tandem duodecima,
quaelarvasfcenicas,&ceteramonumentamifccllacontinet. Sed iam tertium
Volumen procedit, quod Anaglypha , Sarco¬ phagos , Cippos , & Infcriptiones
compleblitur , ac ex Tabulis aeneis LXXIV. coalefcit. Ordo Claflium etiam in
hoc ipfo Volumine lervatus eft, ut proinde prima comprehendat Deo¬ rum
imagines; fecunda Fabulas ad Deos pertinentes ; tertia Bacchanalia; quarta
Monumenta Aegyptiaca; quinta Mo- numen- LIX numenta Graeca ante
bellum Troianum; fexta eadem poft ipfum bellum; feptima Monumenta Romana
hiftorica; odta- va ritus, mores , & artes veterum ; nona Sarcophagos,
& Urnas fepulcrales; ac decima tandem veteres Infcriptiones,
quaeinfuperordine,quemGruterius,ceteriqueinvexerunt, difpofitae a nobis lunt,
ac proinde in XIV. SeHiones di- geftae confpiciuntur . Eaedem GCCXXXII. plus
minus numerantur, & earum fere omnes ab aliis editae iam fuerant. Neque nos
eas dumtaxat, quas in Hortis, & Aedibus Matthaeiorum deprehendimus,
proferre fluduimus, fed infuper eas omnes huc revocavimus, quas olim ibidem
exftitilTe vel nosipficognoveramus,velexearumdemcolledoribusconflabat; ne in
hac noflra Monumentorum congerie quidquam deeffet,quodolim&celebres, &praellantesHortosnoftros
potiffimum effecerat. Indices etiam Infcriptionibus fubieci-
mus,quorumprimusScaligerexemplarpropofuitinGrute- riano thefauro. His tandem
fubiunximus generalem etiam omniumpotiorum,quaeIII.hifceVoluminibuscontinentur,
rerumIndicem,cuiuspraefidio,quodcumqueopuseffet,a LeHoribus nollris inveniri
poffet . XX. Haec elt univerfa Operis noffri compages. An ve¬
rofingulaprodignitatepraeftiterimus,nonnoffrumeftiudi- care. Id tantum
affirmare poffumus, omnes tum animi, tum fedulitatis nervos nos intendifle, ne
vel aliquam muneris noffri partem neglexiffie, vel a ratione, ac luce, quae
pecu¬ liares habentur faeculi XVIII. dotes , ac notae, quaeque fin- gulas
facultates attingere aequum eft, quidquam abfonum admiffife videremur.
Quapropter id nobis propofuimus, ne
inreplerumquedubia,&ancipitivelfomnia,velcommen¬ ta in fcenam produceremus.
Qui enim vel natura duce, vel cogitandi arte magiftra veritatem confeHari,
& rerum eviden- LX tiae infidere didicit, aegre fane fertur vel
ad incerta , vel ad cerebrofa . Saepe igitur contenti fuimus varias Antiquario¬
rum fententias proferre, & intactum fimul argumentum re¬ linquere,nevideremurnovamtantumopinionemincete¬
rarum acervum inducere, vel coniedturas conieduris addere. Quid enim infuper
congefia vel vacillans opinio , vel levis coniectura , aut etiam audax
paradoxum litterarum incre¬
mentoconducit?Pabulishilcequidemfuaviflimisfruantur, quibus in rc quaque
leviffima libi plaudere, etymologiis ab- firufiora quaeque definire ,
remotiorum aetatum aenigmata folvere,fequiorumtemporumruditatesingerere,nugarum
feries oftentare , umbras pro corporibus amplexari, carbones pro unionibus
vendere ( qui elt antiquariae facultatis abutus
longeeliminandus)volupeelt.Noscerte,quianimicaulla, & ultro delatae
occupationis occalione, huiufmodi ftudio va¬ cavimus , haud fane operae noltrae
poenituit, qui nimirum folidas hiftoriae , chronologiae , veterum linguarum , ar¬
tium , ac rituum utilitates unice lpeckantes aliquam videmur & noftris
notionibus , & famae quinetiam accelfionem fecii-
fe,tumampliflimaehuiusUrbis,veterumelegantiarumundi¬ que feracillimae,
incolatum gratiorem nobis, & iucundiorem praeftitific. Quare ab omni
ingenii licentia, quae vel verita¬ tis criterio adverfaretur, vel quae nullo
tum rationis, tum auctoritatis valido fundamento niteretur, femper abhorrere
nobis folemne fuit; ac quidquid, vel omnibus tacentibus, vel omni deficiente
exemplo, a nobis proferendum fuit, nonnifi modefte , & fere cum
trepidatione propofuimus . Rati infu¬ per ex monumentorum inter fe collatione,
quae vel rerum affinitate,velquacumquealiarationelibiinvicemrefpon- derent,
veram plerumque prodire pofle fignificationem , vel receptis fcriptorum
fententiis maius etiam polle robur accedere, LXI dere, id
praefertim curavimus, ut quae fimilia ia ceteris Mu- feis , & in iplis
Antiquariorum libris exftant monumenta, tamquam conflantis, & indubiae
veritatis vadimonia propo¬ neremus.Nihilenimmagisvaletadiudiciumderealiqua tum
ob vetuftatem, tum ob obfcuritatem incerta quoquo
modoiufte,re&equeferendum,quamconflansmonumento¬ rum conformatio, &
eorumdem accurata comparatio. Haec fuit inftituti noftri ratio, cuius fane ope
fi quid dignum hac luce elicimus, iri totum veritatis , & certitudinis,
quam gerimus, notioni acceptumeftreferendum;finminus,haud fateri nos pudebit,
impares nos huiufmodi Audio fuifie , quod
aliorumgratia,nonnoftromarteexcoluifleingenueprofi- tentes aliquam faltem
veniam hoc iplo nomine confecuturos confidimus . Qui legis , feliciter vale.
INDEX TABULARUM Quae m hoc. Statuarum Volumine continentur . CLASSIS I. Chiae
continet deos caelestes. Tab. I. Iuppiter. pag. i. Tab. II. Apollo Citharoedus,
pag. 3. Tab.III. Apollo Citharoedus, pag. ead. Tab. IV. Apollo. pag. 4. Tab. V.
Apollo Pythius, pag. 5. Tab. VI. Apollo Sagittarius. pag. ead. Tab VII. Apollo,
pag. (5. Tab- VIII. Apollo, pag. 7. Tab. IX. Apollo, & Marsyas . pag. 8.
Tab. X. Mars . pag. ead. Tab. XI. Mercurius . pag. 9. Tab. XII. Bacchus. pag.
10. Tab. XIII. Bacchus asino insidens, pag.ead. Tab. XIV. Bacchus,pag.u. Tab.
XV. Amor. pag. 12. Tab. XVI. Amor cum Herculis symbolis. pag. ead. Tab XVII.
Amor canens . pag. 13. Tab. XVIII. Venus, pag. 14. Tab. XIX. Amicitia, pag. 15.
Tab. XX. Minerva . pag. ead. CLASSIS II. Quae continet DEOS TERRESTRES. Tab.
XXI. Cybele, pag. 17. Tab. XXII. Cybele, pag. 18. Tab. XXIII. Cybele, pag. 19.
Tab. XXIV. Cybele, pag. ead. Tab. XXV. Ceres. pag. 20. Tab. XXVI. Ceres, pag.
ead. Tab. XXVII. Ceres, pag. 21. Tab. XXVIII. Ceres, pag. 2$. Tab. XXIX. Ceres.
pag. 24. Tab.XXX.Ceres.pag.ead. Tab. XXXI. Ceres, pag. 25. Tab. XXXII. Urania,
pag. 26. CLASSIS III. Quae continet DEOS SILVESTRES. Tab. XXXIII. Faunus, pag.
27. Tab. XXXIV. Faunus . pag. 28. Tab. XXXV. Faunus, pag. 29. Tab. XXXVI.
Faunus, pag. ead. Tab- XXXVII. Faunus, pag. 30. Tab XXXVIII.Faunus,pag.32. Tab.
XXXIX. Faunus . pag. ead. Tab. XL. Faunus , & Satyrus, pag. ead. Tab. XLI-
Silenus, pag. $3. Tab. XLII. Silenus. pag. $4. Tab. XLIII. Silenus, pag.' ead.
Tab. XLIV. Diana, pag. 35. Tab. XLV. Diana, pag. 36. Tab. XLVI. Diana, pag 37.
Tab. XLVJI. Flora, pag. ead. Tab. XLVIII. Pomona, pag. 38.
Tab.XLIX,Pomona,pag.39. Tab. L. Pomona, pag. ead. Tab. LI. Nais. pag. 40.
CLASSIS IV. Quae continet DEOS INDIGETES. Tab. LII. Hercules, pag. 41. Tab.
L111. Hercules, pag. 42. Tab-LIV. Hercules, pag. 43. Tab LV. Bellerophon, pag.
44. Tab. LVI. Aefculapius» pag. 47. Tab. LVII. Aefculapius . pagt 49. Tab.
LVIH. Hygia, pag. ead. Tab.LIX.Hygia,pag.ji. Tab. LX. Amazon . pag. 53. CLASSIS
V. Quae continet VIRTUTES DEAS. Tab. LXI. Pudicitia . pag. 56» Tab. LXII.
Pudicitia, pag. ead. Tab. LX III. Fortuna, pag. 58. Tab. LXIV. Fortuna, pag,
59. Tab.LXV.Abundantia.pag.60. CLASSIS VI. Quae continet DEORUM SACERDOTES ET MINISTROS
. Tab.LXVI.Camilluspuer.pag.62. Tab. LXVII. Bacchans. pag. 63.
Tab.LXVIII.Bacchans.pag.6j. Tab. LXIX. Bacchans. pag. ead, Tab. LXX. Bacchans.
pag. 66. Tab. Tab. LXXI. Sacerdos Cereris facrificans . pag. 67.
CLASSIS VII. Quae continet LXIII Tab.XCIII. L. Aurelius Commodus. pag.ead. Tab.
XCIV. M. Aur. BaRianus Antoninus Caracalla . pag. 94.
Tab.XCV.P.LiciniusGallienus,pag.95. CONSULES. CLASSISIX. Quae continet Tab.
LXXII. L. lanius Brutus, pag. 69. Tab. LXX1II. ConfuI . pag. 71. CLASSIS VIII.
Quae continet IMPERATORES ETAUGUSTAS. REGES BARBAROS. Tab. XCVI. Mida Rex
Phrygiae, pag.96. Tab. XCVII. Ptolemaeus Rex Aegypti.p.97 . Tab. LXXIV. C.
Julius Caefar. pag. 74. Tab. LXXV. C. Iulins Caefar. pag. 75. Tab. LXXVI.
Octavianus AuguRus. pag.76. Tab LXXVII. Octavianus AuguRus. pag 77.
TabLXXVIII.OctavianusAuguRus•pag.78. Tab.C*Gladiator,pag.102. Tab LXXIX. Livia
. pag, 79. Tab. LXXX. Caius Caligula, pag. 80. Tab. LXXXI. Tiberius Claudius,
pag 81. Tab.LXXXII. Claudius Domitius Nero . p.82. TabLXXXIII.ClaudiusDomitiusNero.p83.
Tab. LXXXIV. Flavius Domitianus. pag.Sq. Tab. LXXXV. Nerva Traianus Ulpius.
p.ead. Tab. LXXXVI. Marciana AuguRa. pag. 85. Tab. LXXXVII. Sabina AuguRa. pag.
86. Tab. LXXXVIII. Antinous, pag. 87. Tab. LXXXIX. Antoninus Pius. pag. 89.
Tab. XC. M. Aurelius Antoninus . pag. 90. Tab. XCI. Annia FauRina* pag. 91.
Tab. XCII- L. Aurelius Commodus . pag. 92. Tab. CI. Gladiator, pag. 104. Tab.
CII Femina velata cum puero . p. ead. Tab. CIII. Femina Rolata. pag. 109.
CLASSIS XI. Qitae continet STATUAS IACENTES. Tab. CIV. Fig. 1. Silenus, pag.
111. Tab. ead. Fig. 11. Flumen . pag. 11 2. Tab. CV. Fig. 1., Sc 11. Amores
quiefeen- tes. pag. 11 3. Tab.CVI.Fig.i., 11., & m. Somni, & Mortis
Genii, pag. 114. ERRATA CORRIGE. pag.xxxii.referre. pag. 42. TAB. XLIII. pag.
45 Florentia . ibid. SebaRianus Blanchius . pag. 63. Franc. Ant. Gorium. P?g-
79- ibid. not. 2. cap. 102. pag. 88. Tubere. pag. 107. coi. 1. quos Etrufcis in
ma¬ nibus funt. ibid. Enomao • ibid. coi. 2. onorabant. pag. 109. PALLIATA.
referri. TAB. LIII. Florentiae. Iofephus Blanchius. Ant. Franc. Gorium. ferre .
cap. 101. Tibure. qui Etrufcis in manibus funt, Oenomao. honorabant. STOLATA. Curatore:
Fragmenta vestigiis veteris Romae -- A D O N E A . Adonidis mmen apud
Ouidiutn . AEDIS HERCVLIS MVSARVM AEDIS. lOVIS InporticihusOBauU. Injiaurau ah
Hadriano * AEDIS . IVNONIS. In porticihus OBauU* Aedes Palladis inforo T^erua*
AEDES-OPIS 62 Aedes Telluris in forel^erud* 'vide Templum* Aedium
Paiamatummagnifcentia • Aedes Romanomm nohilium, Aid infacris Aedihus* f
Atnhulatio circa celUih^ 6.Aedium • A M P H I T H E A T R V M .
AnemoneflosapudGuidium, ' Apollo Sandalarius • AQVEDVCTIVM. AquaduBus Ajud
Claudia i AquaduBus Aqua Mania reflimti a Tratano 3 9 ,ah Alexandro Seuero,
ArcusfeulanusadPorticumOBauia• Arcus Germanico»& Drufo • AREA .APOLLINIS
cumara. a r e a . VALERIANA. *2 \ rCVS.MAXIMVS AREA. MERCVRII cumara« AREA.
POLL VCIS |69 Traiani. ■ 40 CauediuminAedihus* 3t Area cumar4in Quirinali« 47
AlexanderSeuerusinfatirauit - 35 AqueduBus AquaMartia* 40 4^ 9.io
Armamentaria.Ij. s> AniariumDomitiorum• ihid* Atrium in Aedihus. 61 ATRIVM.
LIBERtATIS. s 1SJ AulaAdonidis• ihtd. AulaRegiainTheatro. 47 39 3* 20 57 57
BALINEVM. AMPELIDIS. BALNWM. CAESARIS. 47 BALNEVM. SVRAE* 31 Ba l n e a .
coTiNi. B ^9 < 23 57 balneaadJolemexpofta0 J BalneaVirorum,acMulierum• ihid*
77 BASILICA. AEMILI. 27 48 Basilica.LiGiNii. }9 15 tT BASILICA. VVLPIA. 79 IZ c
Capitolium. 20 40 CASTRA . MISENATIVM; * H 10 CaftraPeregrina, 1$ *69
CaflellumAquaManiacumtrofh*tii 39 \ Ciceronislocusillufratus• AREA.RADICARIA.
4S\fIRCVS.FLAMINIVS 7t ^7 Cir^ Circi CISTER.NAE. Cijierthe TUiand*
CLIVVr.yTcTORIAE Clajfiarij dimijji honejia mijjtone ac ciuitate donati • ihid*
7 i ihid» 19 1 5 j S7 5 HORREA: CANDELARIA. 40 HORREA. LOLLIANA 4 Horrea
puhlica > priuata ad uarm vfus• 6 HORTI. CELONIAE. FABIAE 44 Horti Gallieni,
HORTI. PALLANTIANI 40 ^• I Columnatio in Uterihmfionte &fo(lico
Column<&contraantas i O5 j DOMVS. CORNIFICIA *'— ^ Cornuafcena
CVRIA.IVLIA D DELVBRVM. I^INERBA E , Capu 6j INTELLVRE 57 In Tellure locus
extra Templutn Dicta Domitiani .* 47 27 51 Liciniana Baflica. Lollianiful
Seuero. Lollianustyui, tP*GentianusConful 1 6 6 Dipteros columnatio duplex^
DOMVS. CILONIS Domus (lelU Confulis Domus interior 5 Domus Romanorumnohilium.
"T. E 4S 44 l^cclefiafmB<e MarU Ae^yptiaca oUmTemplumfortune njirilis .
5.MarUinPorticuolimlunonis• 9 S* T^icolai olim louis • ibid, MACELLVM; 49 24
.S,StephaniadTiherimolimMatuu &4 Macellum l^leronis • MAVSOLEVM. AVGVSTI
MONVMENTA . MARIANA Muri Vrhis inflauratl al Arcadia CST* Honorio . N N A V A L
E M Piummus Alexandri Seueri cum Cajiello Aft<e MartU* T^ummus T^eronis, O
ilidl 85 39 Euripus in Circo Ealius Clio, eiufijue muniafu l Seuero fapi^ium in
porticilus. Eons Lolltanus. Gallieni Ba(tlica,& Horti in Effuilijs GRAECOSTASIS.
Gyn<eceum • n HECATONSTYLVM.33. Hecatonftylum in Hojlilium feu
\^uriamffojliliam corrupts 8 1 j G 10 6 i r MVTATORIVM. 47 IJ 20' 40 49 77 5 35
Orilejlra in Teatro» ^In Amphitheatro, Palatium Licinianum • Perypteros* 47 5
S7 LAVACRVM.AGRIPPINAE 23 35 Telluris cumBaJfo. LVDVS.MAGNVS M *_ Marci
Aprippto magnificentia 6 Per^ ^erijlylia duplicia in JeMus* TiBura
amiqua infants • Vimcothem. Pifcim* Pltn^ locus illufiratus. Porta Trigemtm
ante Claudiufn i P O M g VS. AEMILIA. 5* t 6 6i ^3 9 fundator Jmperij
cognominatus • I c h n o g r a p h i a m V t h i s i n i e mp l o P L c h -
muli iocauit ihidi & I, 19 • 5* 19 ibid. i o z j ^orticus Metelli cum
duabus Jedtbus» i o PORTICVS * OCTAVIAE . E t HE- 9.10 Porttcus^pBduU i
Ionicaeiufque ornamentA • Porticus Pompeii flecatonjlylon i Porticus nohiles
atiobilibuspiBurii 16 SVBVRA. 17 SVMI.GHORAGII 35 *9 5 10 S 70 1 1.2.19 6 $ 45
cogmminau • Porticusjimplex. Pronaon Pfeudodijneros. R templvm.c6ncori5ia^ 39 F
ortun* wirilis. 24 Matuu. ibid. R E G lA . 53 Romuli templum injtauratum a
Stipt* SiUtro i Rom* ^ejligiumfeu knographia ScenaTheatrii Septa Agrippina • 65
ibid. a 5 ibid* $ SEPTAaVLlA. 43.44 SEPTA^ TRIGABJA Septorum reliquU inVialata
t Sepulcrurn DOmitiorUm. ^Sepvikrurrt. GNi DOMITII w 45 CALVIN! 61 Sepukfum
PhitomeUfeu Lufcini* • 61 SEVERI. ET. ANTONINL AVG. )Sf.N. 19
SeptitHiusSeuerUsKejiitutorVrUs & Rom*. i.2«i9 VlA.jTOVA 70 ibid* S 3
(jillknii 45 61 !Septi:^onium. -v.. StdtUa Apollinis in Vaiicdno. Statu* in
nieflibulo*fact adium Staiud celkires in Thottnis. Staiudt tV piBur* tfoffe
adArcum SERAPAEVM • 69 Stattia Apollinis Sandalarij » Vide tab. X V U T raiani.
Fheatrum Bilbii THEAtRVM.MARCELLI - THEAfRVM/POMPEH Theatri Pompeij reliqitU ad
Cdmputn Flord in*dibulV rftiotumi Thernid (iatuis exornatd. T hermd hyemdles i
Troph*a Ttdiani iiulgo ^ar^ in in Capitolio i Traianus inflaurauti AqudduBus
Aqu* Marti*. Veflibula Regalia . Vefligiumfeu Ichnographia Vrbis J 5
VICVS.$ANDALARIVSIoannis Cristophori Amadutii. Giovanni Cristofano Amaduzzi.
Amaduzzi. Keywords: Filopatridi, i filopatridi.
Alfabeto etrusco, alphabetum etruscorum, alphabetum veterum etruscorum,
grandonico-malabaricum sive samscrudonicum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Amaduzzi” – The Swimming-Pool Library.
AMBROGIO --
ambrosius:
saint. Grice: “I like the Italian philosopher, Ambrogio – he was born, of
course, in Germany! And he never wrote in Italian! But the fact that he got all
his inspiration not so much from God but from Cicerone’s Liber II De Officiis,
makes him an ineludible step in Lit. Hum. at Oxford!” -- Grice: I prefer the
spelling “Ambrogio,” or if not “Aurelio Ambrosius”To call him Ambrosisus is
like calling me Gree.” Grice: “Not to be confused with Ambrose and his
orchestrasweet!”on altruism. known as Ambrose of Milan. Roman church leader and
theologian. While bishop of Milan, he not only led the struggle against the
Arian heresy and its political manifestations, but offered new models for
preaching, for Scriptural exegesis, and for hymnody. His works also contributed
to medieval Latin philosophy. Ambrose’s appropriation of Neoplatonic doctrines
was noteworthy in itself, and it worked powerfully on and through Augustine.
Ambrose’s commentary on the account of creation in Genesis, his Hexaemeron,
preserved for medieval readers many pieces of ancient natural history and even
some elements of physical explanation. Perhaps most importantly, Ambrose
engaged ancient philosophical ethics in the search for moral lessons that marks
his exegesis of Scripture; he also reworked Cicero’s De officiis as a treatise
on the virtues and duties of Christian living. ambrogio: Sant'Ambrogio Nota disambigua.svg DisambiguazioneSe stai
cercando altri significati, vedi Sant'Ambrogio (disambigua). Nota
disambigua.svg Disambiguazione"Ambrogio da Milano" rimanda qui. Se
stai cercando lo scultore e architetto italiano, vedi Ambrogio Barocci.
Sant'Ambrogio di Milano AmbroseOfMilanMosaico di Sant'Ambrogio di Milano nel
sacello di San Vittore (378 ca.) annesso alla Basilica del Santo, probabile
ritratto del vescovo. Vescovo e Dottore della Chiesa
NascitaAugusta Treverorum (Treviri), forse 339-340 MorteMilano, 397 Venerato
daTutte le Chiese che ammettono il culto dei santi Santuario principaleBasilica
di Sant'Ambrogio, Milano Ricorrenza4 aprile (vetero-cattolici) 7 dicembre
(cattolici) 7 dicembre (ortodossi) Attributiapi, scudscio, bastone pastorale e
gabbiano Patrono diMilano, Alassio, prefetti, Lombardia, Rozzano, Monserrato,
Buccheri, Cerami, Vigevano, Castel del Rio, Sant'Ambrogio di Torino, vescovi,
Omegna, Carate Brianza, Caslino d’Erba Manuale Aurelio Ambrogio vescovo della
Chiesa cattolica AmbroseGiuLungaraTemplate-Bishop.svg Incarichi
ricopertiVescovo di Milano Natoincerto 339-340 a Treviri Ordinato
presbitero? Consacrato vescovo7 dicembre 374 Deceduto4 aprile 397 a
Milano Manuale Aurelio Ambrogio (in latino: Aurelius Ambrosius),
meglio conosciuto come sant'Ambrogio (Augusta Treverorum, incerto
339-340Milano, 4 aprile 397) funzionario, vescovo, teologo e santo romano, una
delle personalità più importanti nella Chiesa del IV secolo. È venerato come
santo da tutte le Chiese cristiane che prevedono il culto dei santi; in
particolare, la Chiesa cattolica lo annovera tra i quattro massimi dottori
della Chiesa d'Occidente, insieme a san Girolamo, sant'Agostino e san Gregorio
I papa. Conosciuto anche come Ambrogio di Treviri, per il luogo di
nascita, o più comunemente come Ambrogio di Milano, la città di cui assieme a
san Carlo Borromeo e san Galdino è patrono e della quale fu vescovo dal 374
fino alla morte, nella quale è presente la basilica a lui dedicata che ne
conserva le spoglie. Incarichi pubblici e nomina a vescovo di
Milano 1.3Episcopato 1.3.1Gli impegni pastorali 1.3.2Politica ecclesiastica
1.3.3Rapporti con la corte imperiale 2Pensiero e opere 2.1Esegesi 2.2Morale e
ascetismo 2.3Società e politica 2.4Antigiudaismo 2.4.1L'episodio di Callinicum
2.5Mariologia 3Milano e il rito ambrosiano 4Sant'Ambrogio e il canto liturgico
5Leggende su Sant'Ambrogio 6Opere 6.1Oratorie (esegetiche) 6.2Morali (ascetiche)
6.3Dogmatiche (sistematiche) 6.4Catechetiche 6.5Epistolario 6.6Innografia
6.7Altro 7Curiosità 8Note 9 10 11Altri progetti 12 Biografia Gioventù
Altare di Sant'Ambrogio, 824-859 ca., Ambrogio ordinato vescovo Aurelio
Ambrogio nacque ad Augusta Treverorum (l'odierna Treviri, nella
Renania-Palatinato, in Germania), nella Gallia Belgica, dove il padre
esercitava la carica di prefetto del pretorio delle Gallie, intorno al 339
circa da un'illustre famiglia romana di rango senatoriale, la gens Aurelia, cui
la famiglia materna apparteneva inoltre al ramo dei Simmaci (era dunque un
cugino dell'oratore Quinto Aurelio Simmaco). La famiglia di Ambrogio
risultava convertita al cristianesimo già da alcune generazioni (egli stesso
soleva citare con orgoglio la sua parente Santa Sotere, martire cristiana che
«ai consolati e alle prefetture dei parenti preferì la fede») e stesso una sua
sorella ed un suo fratello, Marcellina (consacratasi a Dio nelle mani di papa
Liberio nel 353) e Satiro di Milano, vennero poi venerati come santi.
Destinato alla carriera amministrativa sulle orme del padre, dopo la sua
prematura morte frequentò le migliori scuole di Roma, dove compì i tradizionali
studi del trivium e del quadrivium (imparò il greco e studiò diritto, letteratura
e retorica), partecipando poi attivamente alla vita pubblica dell'Urbe.
Incarichi pubblici e nomina a vescovo di Milano Dopo cinque anni di avvocatura
esercitati presso Sirmio (l'odierna Sremska Mitrovica, in Serbia),
nella Pannonia Inferiore, nel 370 fu incaricato quale governatore dell'Italia
Annonaria per la provincia romana Aemilia et Liguria, con sede a Milano, dove
divenne una figura di rilievo nella corte dell'imperatore Valentiniano I. La
sua abilità di funzionario nel dirimere pacificamente i forti contrasti tra
ariani e cattolici gli valse un largo apprezzamento da parte delle due
fazioni. Nel 374, alla morte del vescovo ariano Aussenzio di Milano, il
delicato equilibrio tra le due fazioni sembrò precipitare. Il biografo Paolino
racconta che Ambrogio, preoccupato di sedare il popolo in rivolta per la
designazione del nuovo vescovo, si recò in chiesa, dove all'improvviso si
sarebbe sentita la voce di un bambino urlare «Ambrogio vescovo!», a cui si unì
quella unanime della folla radunata nella chiesa. I milanesi volevano un
cattolico come nuovo vescovo. Ambrogio però rifiutò decisamente l'incarico,
sentendosi impreparato: come era in uso presso alcune famiglie cristiane
all'epoca, egli non aveva ancora ricevuto il battesimo, né aveva affrontato
studi di teologia. Paolino racconta che, al fine di dissuadere il
popolo di Milano dal farlo nominare vescovo, Ambrogio provò anche a macchiare
la buona fama che lo circondava, ordinando la tortura di alcuni imputati e
invitando in casa sua alcune prostitute; ma, dal momento che il popolo non
recedeva nella sua scelta, egli tentò addirittura la fuga. Quando venne
ritrovato, il popolo decise di risolvere la questione appellandosi all'autorità
dell'imperatore Flavio Valentiniano, cui Ambrogio era alle dipendenze. Fu
allora che accettò l'incarico, considerando che fosse questa la volontà di Dio
nei suoi confronti, e decise di farsi battezzare: nel giro di sette giorni
ricevette il battesimo nel battistero di Santo Stefano alle Fonti a Milano e,
il 7 dicembre 374, venne ordinato vescovo. Riferendosi alla sua elezione, egli
scriverà poco prima della morte: «Quale resistenza opposi per non essere
ordinato! Alla fine, poiché ero costretto, chiesi almeno che l'ordinazione
fosse ritardata. Ma non valse sollevare eccezioni, prevalse la violenza
fattami.» Nonostante, come scrisse più tardi, si sentisse «rapito a forza
dai tribunali e dalle insegne dell'amministrazione al sacerdozio», dopo la
nomina a vescovo, Ambrogio prese molto sul serio il suo incarico e si dedicò ad
approfonditi studi biblici e teologici. Episcopato Ambrogio con le
insegne episcopali Gli impegni pastorali Quando divenne vescovo (nel 374),
adottò uno stile di vita ascetico, elargì i suoi beni ai poveri, donando i suoi
possedimenti terrieri (eccetto il necessario per la sorella Marcellina).
Uomo di grande carità, tenne la sua porta sempre aperta, prodigandosi senza
tregua per il bene dei cittadini affidati alle sue cure. Ad esempio,
Sant'Ambrogio non esitò a spezzare i Vasi Sacri e ad usare il ricavo dalla
vendita per il riscatto di prigionieri. Di fronte alle critiche mosse
dagli ariani per il suo gesto, egli rispose che «è molto meglio per il Signore
salvare delle anime che dell'oro. Egli infatti mandò gli apostoli senza oro e
senza oro fondò le Chiese. [...] I sacramenti non richiedono oro, né acquisisce
valore per via dell'oro ciò che non si compra con l'oro» (De officiis, II, 28,
136-138) La sua sapienza nella predicazione e il suo prestigio furono
determinanti per la conversione nel 386 al cristianesimo di Sant'Agostino, di
fede manichea, che era venuto a Milano per insegnare retorica. Ambrogio
fece costruire varie basiliche, di cui quattro ai lati della città, quasi a
formare un quadrato protettivo, probabilmente pensando alla forma di una croce.
Esse corrispondono alle attuali basilica di San Nazaro (sul decumano, presso la
Porta Romana, allora era la Basilica Apostolorum), alla basilica di San
Simpliciano, detta Basilica Virginum, ossia basilica delle vergini (sulla parte
opposta), alla basilica di Sant'Ambrogio (collocata a sud-ovest, era chiamata
originariamente Basilica Martyrum in quanto ospitava i corpi dei santi martiri
Gervasio e Protasio rinvenuti da Ambrogio stesso; accoglie oggi le spoglie del
santo) e alla basilica di San Dionigi (Basilica Prophetarum). Il
ritrovamento dei corpi dei santi martiri Gervasio e Protasio è narrato dallo
stesso Ambrogio, che ne attribuisce il merito ad un presagio, per il quale egli
fece scavare la terra davanti ai cancelli della basilica (oggi distrutta) dei santi
Nabore e Felice. Al ritrovamento dei corpi seguì la loro traslazione (secondo
un rito importato dalla Chiesa orientale) nella Basilica Martyrum; durante la
traslazione, si racconta (è lo stesso Ambrogio a riportarlo) che un cieco di
nome Severoriacquistò la vista. Il ritrovamento del corpo dei martiri da parte
del vescovo di Milano diede grande contributo alla causa dei cattolici nei
confronti degli ariani, che costituivano a Milano un gruppo nutrito e attivo, e
negavano la validità dell'operato di Ambrogio, di fede cattolica.
Ambrogio fu autore di diversi inni per la preghiera, compiendo fondamentali
riforme nel culto e nel canto sacro, che per primo introdusse nella liturgia
cristiana, e ancor oggi a Milano vi è una scuola che tramanda nei millenni questo
antico canto. Politica ecclesiastica L'importanza della sede occupata da
Ambrogio, teatro di numerosi contrasti religiosi e politici, e la sua personale
attitudine di uomo politico lo portarono a svolgere una forte attività di
politica ecclesiastica. Egli scrisse infatti opere di morale e teologia in cui
combatté a fondo gli errori dottrinali del suo tempo; fu inoltre sostenitore
del primato d'onore del vescovo di Roma, contro altri vescovi (tra i quali
Palladio) che lo ritenevano pari a loro. Si mostrò in prima linea nella
lotta all'arianesimo, che aveva trovato numerosi seguaci a Milano e nella corte
imperiale. Si scontrò per questo motivo con l'imperatrice Giustina, di fede
ariana e probabilmente influì sulla politica religiosa dell'imperatore Graziano
che, nel 380, inasprì le sanzioni per gli eretici e, con l'editto di
Tessalonica, dichiarò il cristianesimo religione di Stato. Il momento di
massima tensione si ebbe nel 385-386 quando, dopo la morte di Graziano, gli
ariani chiesero insistentemente con l'appoggio della corte imperiale una
basilica per praticare il loro culto. L'opposizione di Ambrogio fu energica
tanto che rimase famoso l'episodio in cui, assieme ai fedeli cattolici,
"occupò" la basilica destinata agli ariani finché l'altra parte fu costretta
a cedere. Fu in questa occasione, si racconta, che Ambrogio introdusse l'usanza
del canto antifonale e della preghiera cantata in forma di inno, con lo scopo
di non fare addormentare i fedeli che occupavano la basilica. Fu inoltre
determinante per la vittoria di Ambrogio nella controversia con gli ariani il
ritrovamento dei corpi dei santi Gervasio e Protaso, che avvenne proprio nel
386 sotto la guida del vescovo di Milano, il quale guadagnò in questo modo il
consenso di gran parte dei fedeli della città. Fu infine forte avversario
del paganesimo "ufficiale" romano, che dimostrava in quegli anni gli
ultimi segni di vitalità; per questo motivo si scontrò con il suo stesso
cugino, il senatore Quinto Aurelio Simmaco, che chiedeva il ripristino dell'altare
e della statua della dea Vittoria rimossi dalla Curia romana, sede del Senato,
in seguito a un editto di Graziano nel 382. Rapporti con la corte
imperiale Sant'Ambrogio rifiuta l'ingresso in chiesa all'imperatore, nel
dipinto di Van Dyck. Molto probabilmente questo episodio non avvenne mai:
Ambrogio preferì non arrivare allo scontro pubblico con l'imperatore, ma lo
redarguì in privato. Il potere politico e quello religioso al tempo erano
strettamente legati: in particolare l'imperatore, a cominciare daCostantino,
possedeva una certa autorità all'interno della Chiesa, nella quale il primato
petrino non era pienamente assodato e riconosciuto. A questo si aggiunsero la
posizione di Ambrogio, vescovo della città di residenza della corte imperiale,
e la sua precedente carriera come avvocato, amministratore e politico, che lo
portarono più volte a intervenire incisivamente nelle vicende politiche, ad
avere stretti rapporti con gli ambienti della corte e dell'aristocrazia romana,
e talvolta a ricoprire specifici incarichi diplomatici per conto degli
imperatori. In particolare, nonostante il convinto lealismo verso
l'impero Romano e l'influenza nella vita politica dell'impero, i suoi rapporti
con le istituzioni non furono sempre pacifici, soprattutto quando si trattò di
difendere la causa della Chiesa e dell'ortodossia religiosa. Gli storici
bizantini gli accreditarono questo atteggiamento come parrhesia (παρρησία),
schiettezza e verità di fronte ai potenti e al potere politico, che traspare a
partire dal suo rapporto epistolare con l'imperatore Teodosio. Essendo
Ambrogio precettore dell'imperatore Graziano, lo educò secondo i principi del
Cristianesimo. Egli predicava all'imperatore di rendere grazie a Dio per le
vittorie dell'esercito e lo appoggiò nella disputa contro il senatore Simmaco,
che chiedeva il ripristino dell'altare alla dea Vittoria fatto rimuovere dalla
Curia romana Chiese poi a Graziano di indire il concilio di Aquileia nel
settembre del 381 per condannare due vescovi eretici, secondo i dettami dei
vari concili ecumenici ed anche secondo l'opinione del Papa e dei vescovi
ortodossi. In questo concilio Ambrogio si pronunciò contro l'arianesimo.
Ambrogio influì anche sulla politica religiosa di Teodosio I. Nel 388, dopo che
un gruppo di cristiani aveva incendiato la sinagoga della città di Callinico,
l'imperatore decise di punire i responsabili e di obbligare il vescovo,
accusato di aver istigato i distruttori, a ricostruire il tempio a suo spese.
Ambrogio, informato della vicenda, si scagliò contro questo provvedimento,
minacciando di sospendere l'attività religiosa, tanto da indurre l'imperatore a
revocare le misure. Nel 390 criticò aspramente l'imperatore, che aveva
ordinato un massacro tra la popolazione di Tessalonica, rea di aver linciato il
capo del presidio romano della città: in tre ore di carneficina erano state
assassinate migliaia di persone, attirate nell'arena con il pretesto di
una corsa di cavalli. Ambrogio, venuto a conoscenza dell'accaduto, evitò
diplomaticamente una contrapposizione aperta con il potere imperiale (con il
pretesto di una malattia evitò l'incontro pubblico con Teodosio) ma, per via
epistolare, chiese in modo riservato ma deciso una «penitenza pubblica»
all'imperatore, che si era macchiato di un grave delitto pur dichiarandosi
cristiano, pena il rifiuto di celebrare i sacri riti in sua presenza («Non oso
offrire il sacrificio, se tu vorrai assistervi», Lettera 11). Teodosio ammise
pubblicamente l'eccesso e nella notte Natale di quell'anno, venne riammesso ai
sacramenti. Dopo questo episodio la politica religiosa dell'imperatore si
irrigidì notevolmente: tra il 391 e il 392 furono emanati una serie di decreti
(noti come decreti teodosiani) che attuavano in pieno l'editto di Tessalonica:
venne interdetto l'accesso ai templi pagani e ribadita la proibizione di
qualsiasi forma di culto, compresa l'adorazione delle statue; furono inoltre
inasprite le pene amministrative per i cristiani che si riconvertissero
nuovamente al paganesimo e nel decreto emanato nel 392 da Costantinopoli,
l'immolazione di vittime nei sacrifici e la consultazione delle viscere erano
equiparati al delitto di lesa maestà, punibile con la condanna a morte.
Nel 393 Milano fu coinvolta nella lotta per il potere tra l'imperatore Teodosio
I e l'usurpatore Flavio Eugenio. In aprile Eugenio varcò le Alpi e puntò alla
conquista della città, in quanto capitale d'Occidente. Ambrogio partì e andò
ritirarsi a Bologna. Durante un soggiorno temporaneo a Faenza scrisse una
lettera ad Eugenio. Poi accettò l'invito della comunità di Firenze, ove rimase
per circa un anno. La guerra per il controllo dell'impero fu vinta da Teodosio.
Nell'autunno del 394 Ambrogio fece ritorno a Milano. Alla sua morte, per
sua stessa volontà, fu sepolto all'interno della basilica che tuttora porta il
suo nome, fra le spogli dei martiri Gervasio e Protasio. Le sue spoglie,
rinvenute sotto l'altare nel 1864, furono trasferite in un'urna di argento e
cristallo posta nella cripta della basilica. Pensiero e opere
Rilievo gotico raffigurante Ambrogio. Tra gli attributi del santo c'è il miele,
simbolo della dolcezza delle prediche e degli scritti Fortemente legata
all'attività pastorale di Ambrogio fu la sua produzione letteraria, spesso
semplice frutto di una raccolta e di una rielaborazione delle sue omelie e che
quindi mantengono un tono simile al parlato. Per il suo stile dolce e
misurato del suo parlato e della sua prosa, Ambrogio venne definito «dolce come
il miele» e tra i suoi attributi compare perciò un alveare. Esegesi Oltre
la metà dei suoi scritti è dedicata all'esegesi biblica, che egli affronta
seguendo un'interpretazione prevalentemente allegorica e morale del testo sacro
(in particolare per quanto riguarda l'Antico Testamento): ad esempio, ama
ricercare nei patriarchi e nei personaggi biblici in generale figure di Cristo
o esempi di virtù morali. Fu proprio questo metodo di lettura della Bibbia ad
affascinare Sant'Agostino e a risultare determinante per la sua conversione
(come egli scrisse nelle Confessioni V, 14, 24). Secondo Gérard Nauroy,
«per Ambrogio l'esegesi è un modo fondamentale di pensare piuttosto che un
metodo o un genere: [...] ormai egli "parla la Bibbia", non più con
la giustapposizione di citazioni dagli stili più diversi, ma in un discorso
sintetico, eminentemente allusivo, "misterico" come la Parola
stessa». Per Ambrogio la lettura e l'approfondimento della conoscenza biblica
costituiscono un elemento fondamentale della vita cristiana: «Bevi dunque
tutt'e due i calici, dell'Antico e del Nuovo Testamento, perché in entrambi
bevi Cristo. [...] La Scrittura divina si beve, la Scrittura divina si divora,
quando il succo della parola eterna discende nelle vene della mente e
nelle energie dell'anima» (Ambrogio, Commento al Salmo I, 33) Tra le
opere esegetiche spiccano l'esauriente commento al Vangelo di Luca (Expositio
evangelii secundum Lucam) e l'Exameron (dal greco "sei giorni").
Quest'ultima opera, ispirata ampiamente all'omonimo Exameron di Basilio di
Cesarea, raccoglie, in sei libri, nove omelie riguardanti i primi capitoli
della Genesi dalla creazione del cielo fino alla creazione dell'uomo. Anche in
questo caso, il racconto della creazione è occasione di evidenziare
insegnamenti morali desunti dalla natura e dal comportamento degli animali e
dalle proprietà delle piante; in questo senso l'uomo appare ad Ambrogio
necessariamente legato con tutto il creato dal punto di vista non solo
biologico e fisico, ma anche morale e spirituale. Morale e ascetismo Un
altro gruppo significativo consiste nelle opere di argomento morale o ascetico,
tra le quali risalta il De officiis ministrorum (talvolta abbreviato in De
officiis), un trattato sulla vita cristiana rivolto in particolare al clero ma
destinato a tutti i fedeli. L'opera ricalca l'omonimo scritto di Cicerone, che
si proponeva come manuale di etica pratica indirizzato al figlio (cui è
dedicato) rivolto soprattutto a questioni politico-sociali. Ambrogio riprende
il titolo (indirizzando l'opera ai suoi "figli" in senso spirituale,
cioè il clero e il popolo di Milano), la struttura (il libro è ripartito in tre
libri, dedicati all'honestum, all'utile e al loro contrasto risolto
nell'identificazione tra i due) e alcuni elementi contenutistici (tra i quali i
principi della morale stoica, come il dominio della razionalità, l'indipendenza
dai piaceri e dalla vanità delle cose, la virtù come sommo bene). Questi
elementi sono rivisti con originalità in chiave cristiana: agli exempla tratti
dalla storia e dalla mitologia classica, Ambrogio sostituisce ad esempio storie
ed esempi tratti dalla Bibbia. In generale, è lo stesso orientamento del testo
a non essere più etico-filosofico ma prevalentemente religioso e spirituale,
come egli spiega fin dall'inizio: «Noi valutiamo il dovere secondo un principio
diverso da quello dei filosofi. Essi considerano beni quelli di questa vita,
noi addirittura danni» (De officiis, I, 9, 29). Allo stesso modo, le virtù
tradizionali vengono rilette cristianamente e accettate alla luce del Vangelo:
la fides (lealtà) diventa la fede in Cristo, la prudenza include la devozione
verso Dio, esempi di fortezza divengono i martiri. Alle virtù classiche si
aggiungono le virtù cristiane: la carità (che già esisteva nel mondo latino,
ora assume un significato più interiore e spirituale), l'umiltà, l'attenzione
verso i poveri, gli schiavi, le donne. Altre cinque opere sono dedicate
alla verginità, specialmente quella femminile (De virginibus, De viduis, De
virginitate, De institutione virginis e Exhortatio virginitatis). Ambrogio
esalta la verginità come massimo ideale di vita cristiana, sulla scia della
tradizione cristiana da San Paolo («colui che sposa la sua vergine fa bene e
chi non la sposa fa meglio», 1 Cor 7,38) fino al contemporaneo Girolamo, senza
tuttavia negare la validità della vita matrimoniale. La scelta della verginità
è ritenuta l'unica vera scelta di emancipazione per la donna dalla vita
coniugale, in cui si trova subordinata. Critica aspramente in questo senso il
fatto che il matrimonio costituisca solo un contratto economico e sociale, che
non lascia spazio alla scelta degli sposi e in particolare della donna:
«Davvero degna di compianto è la condizione che impone alla donna, per
sposarsi, di essere messa all'asta come una sorta di schiavo da vendere, perché
la compri chi offre il prezzo più alto» (De virginibus, I, 9, 56). Per questo
Ambrogio incoraggia i genitori ad accettare la scelta di verginità dei figli e
i figli a resistere alle difficoltà imposte dalla famiglia («Se vinci la
famiglia, vinci anche il mondo», De virginibus, I, 11, 63). Società e
politica Ambrogio assolve Teodosio dopo l'episodio di Tessalonica Nel
confronto con la società e gli ideali del mondo latino, Ambrogio accolse i
valori civili della romanità con l'intento di dare ad essi nuovo significato
all'interno della religione cristiana. Nel suo Esamerone esalta l'istituzione
repubblicana (di cui l'antica repubblica romana era secondo lui un ammirevole
esempio) prendendo spunto dalla spontanea organizzazione delle gru, che si
dividono il lavoro avvicendandosi nei turni di guardia: «Che c'è di più
bello del fatto che la fatica e l'onore comuni a tutti e il potere non sia
preteso da pochi, ma passi dall'uno all'altro senza eccezioni come per una
libera decisione? Questo è l'esercizio di un ufficio proprio di un'antica
repubblica, quale conviene in uno stato libero.» (Esamerone, VIII, 15,
51) Nella visione di Ambrogio inoltre potere e dell'autorità, intesi come
servizio («Libertà è anche il servire», Lettera 7), dovevano essere sottomessi
alle leggi di Dio. Prendendo ispirazione dal racconto della corona imperiale e
del morso di cavallo realizzati, secondo la tradizione, da Costantino con i
chiodi della croce di Gesù, nel discorso funebre di Teodosio egli elogiò la
sottomissione dell'imperatore a Cristo, dimostrata in primis dall'episodio di
Tessalonica: «Per quale motivo [ebbero] "una cosa santa sul
morso" se non perché frenasse l'arroganza degli imperatori, reprimesse la
dissolutezza dei tiranni che, come cavalli, nitrivano smaniosi di piaceri,
perché potevano impunemente commettere adulteri? Quali turpitudini conosciamo
dei Neroni e dei Caligola e di tutti gli altri che non ebbero "una cosa
santa sul morso"!» (In morte di Teodosio, 50) Di fronte al
dispotismo e alla dissolutezza che avevano caratterizzato il comportamento di
non pochi imperatori romani, Ambrog io vide nel cristianesimo una
possibilità per "redimere" il potere imperiale e renderlo giusto e
clemente. Nella sua idea, infatti, il cristianesimo avrebbe dovuto sostituire
il paganesimo nella società romana senza per questo negare e distruggere le
istituzione imperiali («Voi [pagani] chiedete pace per le vostre divinità agli
imperatori, noi per gli stessi imperatori chiediamo pace a Cristo», Lettera 73
a Valentiniano II), ma anzi dando ai valori romani la nuova linfa offerta dalla
morale cristiana. Ambrogio richiamò infine la società romana nella quale
era sempre più accentuato il divario tra ricchi e poveri; alla sperequazione
economica, Ambrogio contrapponeva infatti la morale del Vangelo e della
tradizione biblica. Così egli scrive nel Naboth: «La terra è stata creata
come un bene comune per tutti, per i ricchi e per i poveri: perché, o ricchi,
vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo? [...] Tu [ricco] non dai del tuo al
povero [quando fai la carità], ma gli rendi il suo; infatti la proprietà
comune, che è stata data in uso a tutti, tu solo la usi.» (Naboth, 1,2;
12, 53) Antigiudaismo Magnifying glass icon mgx2.svg Antisemitismo §
Antigiudaismo teologico. Per Ambrogio era fondamentale la storia di Israele
come popolo eletto: da qui la grande presenza dell'Antico Testamento nel rito
ambrosiano, le numerosissime sue opere di commento agli episodi della storia
ebraica, la conservazione della sacralità del sabato, ecc. Tuttavia, come era
comune nel cristianesimo dei primi secoli, forte era anche la volontà di
mostrare l'originalità cristiana rispetto alla tradizione giudaica (che non
aveva riconosciuto Gesù come Messia) e di affermare l'indipendenza e le
prerogative della Chiesa nascente. Ad esempio, nell'Expositio Evangelii secundum
Lucam (4, 34), commentando un passo del vangelo di Luca in cui un uomo invaso
dallo spirito di un demonio impuro, grida: «Ah! Che c'è fra noi e te, Gesù
Nazareno? Sei venuto per rovinarci? So chi tu sei: il Santo di Dio», Ambrogio
critica aspramente l'incredulità della gente circostante: «Chi è colui
che aveva nella sinagoga spirito immondo di demonio, se non la folla dei giudei
che, come stretta da spire serpentine e legata dai lacci del diavolo, simulata
la purità del corpo, profanava con le immondezze della mente interiore? Ebbene:
era nella sinagoga l'uomo che aveva lo spirito immondo; perché lo Spirito Santo
lo aveva ammesso. Era entrato infatti il diavolo dal luogo da cui Cristo era
uscito. Insieme, si mostra la natura del diavolo non come ostinata, ma come
opera ingiusta. Infatti quello che attraverso una natura superiore professa il
Signore, con le opere lo nega. E in questo appare la sua malvagità [del
demonio] e l'ostinazione dei giudei, poiché così [il demonio] spandé tra la
folla la cecità della mente furiosa; affinché la gente neghi, colui che i
demoni professano. O eredità dei discepoli peggiore del maestro! Quello tenta
il Signore con le parole, essi con l'agire: egli dice "Buttati!"
(Luc. IV, 9), questi sono assaliti perché [lo] buttino.» L'episodio di
Callinicum Le cronache storiche riportano un episodio che può essere
considerato rivelatore dell'atteggiamento di Ambrogio nei riguardi degli ebrei.
Nel 388, a Callinicum (Kallinikon, sul fiume Eufrate, in Asia, l'attuale
al-Raqqa), una folla di cristiani diede l'assalto alla sinagoga e la bruciò. Il
governatore romano condannò l'accaduto e, per mantenere l'ordine pubblico,
dispose affinché la sinagoga venisse ricostruita a spese del vescovo.
L'imperatore Teodosio I rese noto di condividere quanto deciso dal suo
funzionario. Ambrogio si oppose alla decisione dell'imperatore e gli
scrisse una lettera (Epistulae variae 40) per convincerlo a ritirare
l'ingiunzione di ricostruire la sinagoga a spese del vescovo: «Il luogo che
ospita l'incredulità giudaica sarà ricostruito con le spoglie della Chiesa? Il
patrimonio acquistato dai cristiani con la protezione di Cristo sarà trasmesso
ai templi degli increduli?... Questa iscrizione porranno i giudei sul frontone
della loro sinagoga:Tempio dell'empietà ricostruito col bottino dei cristiani
-... Il popolo giudeo introdurrà questa solennità fra i suoi giorni
festivi...» Citando dalla lettera di Ambrogio a Teodosio (Epistulae
variae 40,11): «Ma ti muove la ragione della disciplina. Che cosa dunque
è più importante, l'idea di disciplina [mantenimento dell'ordine pubblico] o il
motivo della religione?» Nell'epistola Ambrogio si attribuì la
responsabilità dell'incendio: «Io dichiaro di aver dato alle fiamme la
sinagoga, sì, sono stato io che ho dato l'incarico, perché non ci sia più
nessun luogo dove Cristo venga negato» Ambrogio si spinse ad affermare
che quell'incendio non era affatto un delitto e che se lui non aveva ancora
dato l'ordine di bruciare la sinagoga di Milano era solo per pigrizia e che bruciare
le sinagoghe era altresì un atto glorioso. Ambrogio non volle salire
sull'altare finché l'imperatore non abolì il decreto imperiale riguardante la
ricostruzione della sinagoga a spese del vescovo. Secondo la visione del
vescovo, nella questione della religione l'unico foro competente da consultare
doveva essere la Chiesa cattolica la quale, grazie ad Ambrogio, divenne la
religione statale e dominante. In questa impresa lo scopo era quello di
avvalorare l'indipendenza della Chiesa dallo Stato, affermando anche la
superiorità della Chiesa sullo Stato in quanto emanazione di una legge
superiore alla quale tutti devono sottostare. Mariologia Sebbene non si
possa parlare di una mariologia vera e propria (intesa come pensiero
sistematico), sono numerosi nell'opera di Ambrogio i riferimenti a Maria:
spesso, quando si presenta l'occasione, egli si rifà alla sua figura e al suo
esempio. La sua venerazione per Maria nasce soprattutto dal ruolo
attribuitole nella storia della salvezza. Maria è infatti madre di Cristo, e
dunque modello per tutti i credenti che, come lei, sono chiamati a
"generare" Cristo: «Vedi bene che Maria non aveva dubitato,
bensì creduto e perciò aveva conseguito il frutto della sua fede. «Beata tu che
hai creduto». Ma beati anche voi che avete udito e avete creduto: infatti, ogni
anima che crede, concepisce e genera il Verbo di Dio e ne comprende le
operazioni. Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in
ciascuno lo spirito di Maria ad esultare in Dio: se, secondo la carne, una sola
è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo»
(Esposizione del Vangelo secondo Luca, II, 19. 24-26) Ambrogio difende
strenuamente la verginità di Maria, soprattutto in relazione al mistero di
Cristo: egli infatti, proprio perché nato da vergine, non ha contratto il
peccato originale. Maria è anche la prima donna a cogliere i "frutti"
della venuta di Cristo: «Non c’è affatto da stupirsi che il Signore,
accingendosi a redimere il mondo, abbia iniziato la sua opera proprio da Maria:
se per mezzo di lei Dio preparava la salvezza a tutti gli uomini, ella doveva
essere la prima a cogliere dal Figlio il frutto della salvezza»
(Esposizione del vangelo secondo Luca, II, 17) Maria è inoltre modello di virtù
morali e cristiane, in primo luogo per le vergini («Nella vita di Maria
risplende la bellezza della sua castità e della sua esemplare virtù») ma anche
per tutti i fedeli; di lei vengono esaltate la sincerità (la verginità «di
mente»), l'umiltà, la prudenza, la laboriosità, l'ascesi. Milano e il
rito ambrosiano Sant'Ambrogio con in mano il flagello contro i nemici di
Milano, in un bassorilievo quattrocentesco Magnifying glass icon mgx2.svg Rito
ambrosiano. L'operato di Sant'Ambrogio a Milano ha lasciato segni profondi nella
diocesi della città. Già nel settembre del 600 papa Gregorio Magno parlò
del neoeletto vescovo di Milano, Deodato, non tanto come successore, bensì come
"vicario" di sant'Ambrogio (equiparandolo quasi ad un secondo
"vescovo di Roma"). Nell'anno 881 invece papa Giovanni VIII definì
per la prima volta la diocesi "ambrosiana", termine che è rimasto
ancora oggi per identificare non solo la Chiesa di Milano, ma talvolta anche la
stessa città. L'eredità di Ambrogio è delineata principalmente a partire
dalla sua attività pastorale: la predicazione della Parola di Dio coniugata
alla dottrina della Chiesa cattolica, l'attenzione ai problemi della giustizia
sociale, l'accoglienza verso le persone provenienti da popoli lontani, la
denuncia degli errori nella vita civile e politica. L'operato di Ambrogio
lasciò un segno profondo in particolare sulla liturgia. Egli introdusse nella
Chiesa occidentale molti elementi tratti dalle liturgie orientali, in
particolare canti e inni. Si attribuisce ad Ambrogio l'inno Te Deum laudamus,
ma la questione è controversa e negata anche da Luigi Biraghi. Le riforme
liturgiche furono mantenute nella diocesi di Milano anche dai successori e
costituirono il nucleo del Rito ambrosiano, sopravvissuto all'uniformazione dei
riti e alla costituzione dell'unico rito romano voluta da papa Gregorio I e dal
Concilio di Trento. In dialetto milanese Ambrogio viene chiamato sant
Ambroeus (grafia classica) o sant Ambrös (entrambi pronunciati
"sant'ambrœs"). Sant'Ambrogio affrescato da Masolino, Battistero
Castiglione Olona Alla sua figura è ispirato anche il premio Ambrogino d'oro,
che è il nome non ufficiale con cui sono comunemente chiamate le onorificenze
conferite dal comune di Milano. Sant'Ambrogio e il canto liturgico
Michael Pacher, Sant'Ambrogio, Monaco, Alte Pinakothek Con il termine di
ambrosiano non si definisce solo il rito della Chiesa Cattolica che fa
riferimento al santo, ma anche un preciso modo di cantare durante la liturgia.
Esso viene indicato con il nome di canto ambrosiano. Esso è caratterizzato dal
canto di inni, cioè di nuove composizioni poetiche in versi, che vengono
cantate da tutti i partecipanti al rito. A differenza di quanto avveniva
per i salmi, solitamente cantati da un solista o da un gruppo di coristi,
essi vengono invece cantati da tutti i partecipanti, in cori alternati,
normalmente tra donne e uomini, ma in altri casi tra giovani e anziani o anche
tra fanciulli e adulti. Alcuni di questi inni sono stati sicuramente composti
da Ambrogio. La certezza viene dal fatto che a menzionarli è sant'Agostino, che
fu discepolo di Sant'Ambrogio. Essi sono: Aeterne rerum conditor
(cf. Retractionum I,21); Iam surgit hora tertia (cf. De natura et gratia
63,74); Deus creator omnium (ricordato nelle Confessioni e citato complessivamente
ben cinque volte dal vescovo di Ippona); Intende qui regis Israel (cf. Sermo
372 4,3). Attraverso la liturgia della Chiesa cattolica in generale e di quella
ambrosiana in particolare, sono giunti fino a noi una moltitudine di inni in
stile ambrosiano. I ricercatori hanno cercato di trovare dei criteri per
indicare quelli che, con più certezza, sono stati composti da Ambrogio. Nel
1862 Luigi Biraghi ne indicava tre: la conformità degli inni con l'indole
letteraria di Ambrogio, con il suo vocabolario e con il suo stile. Con questi
criteri egli arrivò a selezionare diciotto inni: Splendor paternae
gloriae (nell'aurora) Iam surgit hora tertia (per l'ora di terza domenicale)
Nunc sancte nobis Spiritus (per l'ora di terza feriale) Rector potens verax Deus
(per l'ora di sesta) Rerum, Deus, tenax vigor (per l'ora di nona) Deus creator
omnium (per l'ora dell'accensione) Iesu, corona virginum (inno della verginità)
Intende qui regis Israel (per il Natale del Signore) Inluminans Altissimus (per
le Epifanie del Signore) Agnes beatae virginis (per sant'Agnese) Hic est dies
verus Dei (per la Pasqua) Victor, Nabor, Felix, pii (per i santi Vittore,
Nabore e Felice) Grates tibi, Iesu, novas (per i santi Gervasio e Protasio)
Apostolorum passio (per i santi Pietro e Paolo) Apostolorum supparem (per san
Lorenzo) Amore Christi nobilis (per san Giovanni Evangelista) Aeterna Christi
munera (per i santi martiri) Aeterne rerum conditor (al canto del gallo) Gli
autori dell'edizione delle opere poetiche di Ambrogio in un volume stampato nel
1994, che ha portato a compimento l'Opera Omnia, in latino e in italiano, del
vescovo di Milano, hanno ridotto questo numero certo a tredici canti,
escludendo quelli per le ore minori, per i martiri e della verginità.
L'esclusione va ascritta alla metrica di questi testi. Ambrogio aveva una
predilezione per il numero otto. I suoi inni sono tutti di otto strofe con
versi ottosillabici. Egli vedeva in questo numero la risurrezione di Cristo, la
novità cristiana e la vita eterna (octava dies, l'ottavo giorno della
settimana, cioè il nuovo giorno, in cui inizia l'era del Cristo). Per questi
studiosi appare improbabile che egli sia venuto meno a questa preferenza e
quindi quelli di due o di quattro strofe non vengono attribuiti al vescovo
milanese. Per questi storici inoltre non vi è motivo di dubitare che
l'autore della melodia sia lo stesso Ambrogio dato che per loro natura questi
inni nascono consostanziati alla musica. Il Migliavacca nota come Ambrogio
possedesse una conoscenza musicale approfondita. Le sue opere rivelano, oltre a
una perfetta conoscenza scolastica, anche una particolare propensione musicale.
Egli parla dell'arte musicale con cognizione tecnica e non solo con estetica
raffinatezza come il suo discepolo Agostino. Leggende su Sant'Ambrogio
Spoglie mortali di Ambrogio e Gervasio, rivestite dei paramenti liturgici,
nella cripta della Basilica di Sant'Ambrogio a Milano. Su Sant'Ambrogio vi sono
numerose leggende miracolistiche: Mentre Ambrogio infante dormiva nella
sua culla posta temporaneamente nell'atrio del Pretorio, uno sciame di api si
posò improvvisamente sulla sua bocca, dalla quale e nella quale esse entravano
ed uscivano liberamente. Dopodiché lo sciame si levò in volo salendo in alto e
perdendosi alla vista degli astanti. Il padre, impressionato da tutto ciò,
avrebbe esclamato: «Se questo mio figlio vivrà, diverrà sicuramente un
grand'uomo!». Ambrogio, camminando per Milano, avrebbe trovato un fabbro che
non riusciva a piegare il morso di un cavallo: in quel morso Ambrogio riconobbe
uno dei chiodi con cui venne crocifisso Cristo. Dopo vari passaggi, un
"chiodo della crocifissione" è tuttora appeso nel Duomo di Milano, a
grande altezza, sopra l'altare maggiore. Nella piazza davanti alla basilica di
Sant'Ambrogio a Milano è presente una colonna, comunemente detta "la
colonna del diavolo". Si tratta di una colonna di epoca romana, qui
trasportata da altro luogo, che presenta due fori, oggetto di una leggenda
secondo la quale la colonna fu testimone di una lotta tra Sant'Ambrogio ed il
demonio. Il maligno, cercando di trafiggere il santo con le corna, finì invece
per conficcarle nella colonna. Dopo aver tentato a lungo di divincolarsi,
il demonio riuscì a liberarsi e, spaventato, fuggì. La tradizione popolare
vuole che i fori odorino di zolfo e che appoggiando l'orecchio alla pietra si
possano sentire i suoni dell'inferno. In realtà questa colonna veniva usata per
l'incoronazione degli imperatori germanici. A Parabiago, Ambrogio sarebbe
apparso il 21 febbraio 1339, durante la celebre battaglia: a dorso di un
cavallo e sguainando una spada, mise paura alla Compagnia di San Giorgio
capitanata da Lodrisio Visconti, permettendo alle truppe milanesi del fratello
Luchino e del nipote Azzone di vincere. A ricordo di tale leggenda fu edificata
a Parabiago la Chiesa di Sant'Ambrogio della Vittoria e a Milano, su un portone
bronzeo del Duomo, gli è stata dedicata una formella. Opere: “Divi Ambrosii
Episcopi Mediolanensis Omnia Opera”; “Oratorie (esegetiche)” “Exameron”; “De
paradiso”; “De Cain et Abel”; “De Noe”; “De Abraham”; “De Isaac et anima”; “De
bono mortis”; “De Iacob et vita beata”; “De Ioseph”; “De patriarchis”; “De fuga
saeculi”; “De interpellatione Iob et David Apologia”; “David”; “De Helia et
ieiunio”; “De Tobia”; “De Nabuthae historia; “Explanatio in XII Psalmos
Davidicos”; “Expositio in Psalmum CXVIII”; “Expositio in Lucam De excessu
fratris; “Satyri libri duo”; “De obitu Valentiniani consolation”; “De obitu
Theodosii oratio Morali (ascetiche); “De virginibus” o “Ad Marcellinam sororem
libri tres De viduis; “De perpetua virginitate Sanctae Mariae”; “Adhortatio
virginitatis o Exhortatio virginitatis”; “De officiis ministrorum Dogmatiche
(sistematiche): “De fide ad Gratianum Augustum libri quinque; “De Spiritu
Sancto ad Gratianum Augustum; “De incarnationis dominicae sacramento; “De
paenitentia Catechetiche; “De sacramentis libri sex; “De mysteriis De
sacramento regenerationis sive de philosophia; “Explanatio Symboli ad
initiandos Epistolario: “Epistulae Innografia Hymni Altro Sermo contra Auxentium
de basilicis tradendis”. Tituli Curiosità S.Ambrogio essendo patrono delle api,
rappresenta al meglio l'operosità non solo quella risaputa dei milanesi, di cui
è patrono festeggiato il 7 dicembre, ma di tutti coloro che si impegnano nel lavoro,
con combattività, spirito di sacrificio e di spirito di abnegazione. Inoltre
S.Ambrogio ha come secondo simbolo il gabbiano che è legato alla sensazione di
libertà e spazio immenso. Il gabbiano trova l'equilibrio e si alimenta di ciò
che trova nel rispetto della sua natura di predatore e onnivoro che non si tira
indietro a nulla per la propria sopravvivenza. Per le suddette simbologie, e
per tutte le altre che sia le api che i gabbiani rappresentano, S.Ambrogio è
ormai considerato da tempo il protettore delle startup innovative che vedono in
S.Ambrogio, guida sicura con la sua famosa frase di valore eterno: "Voi
pensate che i tempi sono cattivi, i tempi sono pesanti, i tempi sono difficili.
Vivete bene e muterete i tempi" Note
lastampa/vatican-insider/it//10/02/news/milano-studi-confermano-l-identita-di-sant-ambrogio-e-di-due-martiri-1.34049446
Johan Leemans, Peter Van Nuffelen e Shawn W. J. Keough, Episcopal Elections in
Late Antiquity, Walter de Gruyter, 28 luglio ,
978-3-11-026860-7. Ambrogio, Exorthatio
virginitatis, 12, 82 Robert Wilken,
"The Spirit of Early Christian Thought" (Yale University Press: New
Haven, 2003), 218. Michael Walsh, ed. "Butler's Lives of
the Saints" (HarperCollins Publishers: New York, 1991), 407.
Paolino, Vita di Ambrogio, 6
Basilica Vetus e Battistero di Santo Stefano alle fonti, su
adottaunaguglia.duomomilano. 18 marzo .
Paolino, Vita di Ambrogio, 7-8
Indro Montanelli, Storia di Roma, Rizzoli, 1957 Ambrogio, Lettera fuori coll. 14 ai
Vercellesi, 65 Ambrogio, De officiis, I,
1, 4 Giacomo Biffi, Relazione al Meeting
di Rimini, 29-08-1997 C. Pasini, I Padri
della Chiesa. Il cristianesimo dalle origini e i primi sviluppi della fede a Milano,
op. cit., 169-170 Graziano avrebbe voluto convocare un concilio
numeroso, ma Ambrogio lo esortò a convocare un numero limitato di vescovi,
affermando che per appurare la verità ne bastavano pochi e che non era il caso
di incomodarne troppi, facendo loro affrontare un viaggio faticoso (Neil B.
McLynn, Ambrose of Milan: Church and Court in a Christian Capital, University
of California Press, 1994. 124–5.). Codex Theodosianus, 16.10.10 Codex Theodosianus, 16.7.4 Codex Theodosianus, 16.10.12.1 Guida della Basilica di S. Ambrogio: note
storiche sulla Basilica ambrosiana, Ferdinando Reggiori, Ernesto Brivio, Nuove
Edizioni Duomo, 198686. Gérard Nauroy,
L'Ecriture dans la pastorale d'Ambroise de Milan, in Le monde latin antique et
la Bible. J. Fontaine e C. Pietri, Parigi 1985. Citato in Pasini, I Padri della
Chiesa. Il cristianesimo delle origini e i primi sviluppi della fede a Milano,
op. cit. Per un'ampia descrizione
dell'episodio: Antonietta Mauro Todini, Aspetti della legislazione religiosa
del IV secolo, La Sapienza Editrice, Roma, 1990, pag. 3 e segg.; Thomas J.
Craughwell, Santi per ogni occasione, Gribaudi, 2003, pag.49; Lucio De
Giovanni, Chiesa e stato nel Codice Teodosiano, Tempi moderni, pag.120;
Giovanni De Bonfils, Roma e gli ebrei, Cacucci, 2002, pag. 186; Mariateresa
Amabile, Nefaria Secta. La normativa imperiale ‘de Iudaeis’ tra repressione,
protezione, controllo, I, Jovene, Napoli, .James Hastings, Encyclopedia of
Religion and Ethics , Kessinger Publishing, 2003, pag. 374 Walter Peruzzi, Il cattolicesimo reale,
Odradek, Roma, 2008 Ambrogio, De
virginibus, 2, 6-18, citato in L. Gambero, Testi mariani del primo millennio,
Città Nuova, 1990 Rito Ambrosiano: la centralità dell'opera di
Sant'Ambrogio per la Chiesa di Milano
Jacopo da Varazze, Leggenda Aurea, LVII. Un episodio analogo è riferito
anche a Santa Rita da Cascia, vedi: Alfredo Cattabiani, Santi d'Italia, Ed.
Rizzoli, Milano, 1993, 88-17-84233-8,
pag. 816 Per una narrazione della
leggenda e della costruzione della chiesa si veda: Don Gerolamo Raffaelli, La
vera historia della Vittoria qual ebbe Azio Visconti nell'anno della comune
salute 1339 nel dì XXI febbr. in Parabiago contro Lodrisio V Limonti, Milano,
anno MDCIX Don Claudio Cavalleri, Racconto istorico della celebre Vittoria
ottenuta da Luchino Visconti princ. di Milano per la miracolosa apparizione di
Santo Ambrogio, seguita il dì 21 febbr. l'anno 1339 in Parabiago, e dedicata al
March. D. Giambattista Morigia G. Richino Malerba, Milano, 1745 Alessandro
Giulini, La Chiesa e l'Abbazia Cistercense di S. Ambrogio della Vittoria in
Parabiago, Archivio Storico Lombardo, 1923, pagina 144 Ponzio di Cartagine, Vita di Cipriano; vita
di Ambrogio; vita di Agostino / Ponzio, Paolino, Possidio, Città Nuova, Milano,
1977 Tutte le opere di sant'Ambrogio, Ed. bilingue a cura della Biblioteca
Ambrosiana, Roma: Città nuova. Angelo Paredi, Ambrogio, FIR MilanoStoriaSec.
IV-V Hoepli collana Collezione Hoepli Angelo Ronzi, Sant'Ambrogio e Teodosio:
studio storico-filosofico, Visentini editore, Venezia. Enrico Cattaneo, Terra
di Sant'Ambrogio: la Chiesa milanese nel primo millennio; Annamaria Ambrosioni,
Maria Pia Alberzoni, Alfredo Lucioni, Ed. Vita e pensiero, Milano, 1989. Vita
di sant'Ambrogio: La prima biografia del patrono di Milano di Paolino di
Milano, Marco Maria Navoni, Edizioni San Paolo, 1996. 978-88-215-3306-8 Cesare Pasini, Ambrogio di
Milano. Azione e pensiero di un vescovo, Edizioni San Paolo, Cinisello B.
1996. 88-215-3303-4 Luciano Vaccaro,
Giuseppe Chiesi, Fabrizio Panzera, Terre del Ticino. Diocesi di Lugano, Editrice
La Scuola, Brescia 2003m, 5, 128, 202, 224, 225, 248, 259nota, 280, 286, 287,
442. Giorgio La Piana, Ambrogio in
Enciclopedia Biografica Universale, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
italiana Treccani, 2006, 434-442. Dario Fo, Sant'Ambrogio e l'invenzione di
Milano Einaudi Torino 2009 978-88-06-19486-4. Raffaele Passarella, Ambrogio e
la medicina. Le parole e i concetti, LED Edizioni Universitarie, Milano 2009
978-88-7916-421-4 Cesare Pasini, I Padri della Chiesa. Il cristianesimo dalle
origini e i primi sviluppi della fede a Milano. , Busto Arsizio, Nomos
Edizioni. 978-88-88145-46-4 Franco
Cardini, 7 dicembre 374. Ambrogio vescovo di Milano, in I giorni di Milano,
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de la Sorbonne-École française de Rome,
(Histoire ancienne et médiévale, 133CEF, 503), 631 p., 978-2-7283-1131-6 Sant'Ambrogio, [Opere], apud inclytam
Basileam, [Johann Froben], 1527. Sant
AmbroeusTra storia e leggenda, Meravigli edizioni (in collaborazione con
Circolo Filologico Milanese), Milano,
Satiro di Milano Santa Marcellina Agostino di Ippona Basilica di
Sant'Ambrogio Patristica Diocesi di Milano Rito ambrosiano Paolino di Milano
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Archives de littérature du Moyen Âge. Sant'Ambrogio, in Catholic Encyclopedia,
Robert Appleton Company. David M. Cheney, Sant'Ambrogio, in Catholic
Hierarchy. Sant'Ambrogio, su Santi,
beati e testimoni, santiebeati. Epistole di S.Ambrogio, su tertullian.org. Epistole di S.Ambrogio, su intratext.com.
Opera Omnia dal Migne Patrologia Latina con indici analitici, su
documentacatholicaomnia.eu. Cathechesi, su w2.vatican.va. di papa Benedetto XVI
su Sant'Ambrogio in occasione dell'udienza generale del 24 ottobre 2007
PredecessoreVescovo di MilanoSuccessoreBishopCoA PioM.svg Aussenzio374-397San
Simpliciano SoresiniV D M Padri e dottori della Chiesa cattolica V D M Ambrogio
di Milano Antica Roma Antica Roma
Biografie Biografie Cattolicesimo Cattolicesimo Milano Milano Categorie: Funzionari romaniVescovi
romani del IV secoloTeologi romani 397 4 aprile Treviri MilanoAmbrogio di
MilanoSanti romani del IV secoloCorrispondenti di Quinto Aurelio SimmacoDottori
della Chiesa cattolicaPadri della ChiesaSanti per nomeScrittori cristiani
antichiScrittori romaniTeologi cristianiVescovi e arcivescovi di MilanoSanti
della Chiesa ortodossa. Acta Sancti Sebastiani Martyris [Incertus] -- San
Sebastiano -- Sebastiano -- Ad Virginem
Devotam -- Apologia Altera Prophetae David
-- Apologia Prophetae David Ad Theodosium
Augustum -- Commentarius In Cantica
Canticorum -- De Abraham Libri Duo -- De
Benedictionibus Patriarcharum -- De Bono
Mortis -- De Cain Et Abel Libri Duo -- De Concordia
Matthaei Et Lucae In Genealogia Christi -- De Dignitatate
Conditionis Humanae Libellus -- De Dignitate Sacerdotali -- De
Elia Et Jejunio Liber Unus -- De Excessu Fratris Sui Satyri
Libri Duo -- De Excidio Urbis Hierosolymitanae Libri
Quinque -- De Fide Ad Gratianum Augustum Libri Quinque -- De
Fide Orthodoxa Contra Arianos -- De Fuga Saeculi -- De
Incarnationis Dominicae Sacramento -- De Institutione Virginis Et Sanctae
Mariae Virginitate Perpetua -- De Interpellatione Job Et
David Liber Quatuor -- De Isaac Et Anima -- De Jocob Et
Vita Beata Libri Duo -- De Joseph Patriarca -- De Lapsu
Virginis Consecratae -- De Moribus Brachmanorum
[Incertus] -- De Mysteriis -- De Nabuthe Jezraelita
-- De Noe Et Arca -- De Noe Et Arca Liber Unus [Fragmentum]
-- De Obitu Theodosii Oratio -- De Obitu Valentiniani
Consolatio -- De Officiis Ministrorum Libri
Tres -- De Paradiso -- De Poenitentia Liber
Unus -- De Poenitentia Libri Duo -- De
Sacramentis Liber Sex -- De Spiritu Sancto Libellus -- De
Spiritu Sancto Libri Tres -- De Tobia Liber Unus -- De
Trinitate. Alias In Symbolum Apostolorum Tractatus -- De Viduis
-- De Virginibus Ad Marcellinam Sororem Sua Libri
Tres -- De Virginitate -- De XLII Mansionibus Filiorum
Israel Tractatus -- Enarrationes In XII Psalmos
Davidicos -- Epistola De Fide Ad Beatum Hieronymum
[Incertus] -- Epistolae Duae De Monacho Energumeno
[Incertus] -- Epistolae Ex Ambrosianarum Numero
Segregatae -- Epistolae Prima
Classis -- Epistolae Secunda
Classis -- Exameron Libri Sex -- Exhortatio
Virginitatis -- Exorcismus -- Expositio Evangelii Secundum
Lucam Libris X Comprehensa -- Expositio Super Septem Visiones
Libri Apocalypsis -- Historia De Excidio Hierosolymitanae Urbis
Anacephalaeosis --- Hymni -- Hymni Sancti Abrosio
Attributi [Incertus] -- In Epistolam Beati Pauli Ad Colossenses -- In
Epistolam Beati Pauli Ad Corinthios Primam -- In
Epistolam Beati Pauli Ad Corinthios Secundam -- In Epistolam
Beati Pauli Ad Ephesios. In Epistolam Beati Pauli Ad Galatas --
In Epistolam Beati Pauli Ad Philemonem . In Epistolam Beati
Pauli Ad Philippenses -- In Epistolam Beati Pauli Ad
Romanos -- In Epistolam Beati Pauli Ad Thessalonicenses
Primam . In Epistolam Beati Pauli Ad Thessalonicenses
Secundam -- In Epistolam
Beati Pauli Ad Timotheum Primam . In Epistolam Beati Pauli Ad
Timotheum Secundam -- In Epistolam Beati Pauli Ad Titum --
In Psalmum David CXVIII Expositio -- Liber De Vitiorum Virtutumque
Conflictu [Incertus] -- Libri Duo de Vocatione Gentium
[Incertus] -- Philosophorum Aliquot Epistolae
[Incertus] -- Precationes Duae Hactenius Ambrosio
Attributae -- Sermones Sancto Ambrosio Hactenus Ascripti --
Sermones Tres -- Vita Ex Ejus Scriptis Collecta [Editor] --
Vita Operaque -- Vita Operaque. Selecta Vetera Testimonia -- Vita
Sancti Ambrosii Mediolanensis Episcopi [A Paulino Ejus Notario] -- De
Abraham Libri Duo -- De Bono Mortis -- De Cain et Abel Libri
Duo -- De Isaac et Anima -- De Mysteriis -- De Noe Et
Arca . De Paradiso -- Epistola VIII -- Epistula ad Sororem -- Epistulae
Variae -- Hexameron Libri Sex . Hymni
-- Vita -- La Penitenza -- La Penitenza -- De
Excessu Fratris Sui Satyri Libri Duo [Schaff] -- De Fide Ad
Gratianum Augustum Libri Quinque [Schaff] -- De
Mysteriis -- Mysteriis Liber Unus [Schaff] -- De Officiis
Ministrorum Libri Tres [Schaff] -- De Poenitentia Libri Duo
[Schaff] -- De Spiritu Sancto Libri Tres [Schaff] -- De
Viduis Liber Unus [Schaff] -- De Virginibus Ad Marcellinam Sororem
Sua Libri Tres [Schaff] -- Epistola . Exposition Of The
Christian Faith -- On The Decease Of His Brother Saytrus --
On The Duties Of The Clergy -- On The Holy Spirit -- Repentance --
Some Letters -- Some Letters
[Schaff] -- To Marcellina His Sister Concerning Virgins. --
Treatise Concerning The Widows. IL DIRITTO ROMANO Fu sopratutto col pacifico
apostolato della scienza e della virtù,chequeigrandi
uomini,cuilaChiesagiustamentesaluta suoi padri,illuminaronoevinsero ilmondo
pagano.Allo scetti cismo , frutto di astruse teorie filosofiche, che distruggevano
senza edificare, essi opposero le verità cattoliche, profonde e s u blimi pei
sapienti, chiare e popolari per la moltitudine,pratiche per tutti;alla
spaventosa depravazione prodotta e mantenuta da una religione tutta materia e
sensi,essi risposero coll'introdurre della sfibrata e morente società romana
una moltitudine di uomini e di donne , i quali invece delle sterili
declamazioni di Cicerone e di Seneca,offrivano sé stessi,ad esempio di Gesù
Cristo, ostie viventi di sacrificio per la Chiesa e per l'umanità. I secolo IV
segna appunto il massimo furore di quelle in cruente battaglie. S. Atanasio ,
S. Basilio , i due S. Gregorii , S.Girolamo,S.Agostino,S.Giovanni
Grisostomodaunaparte; S. Antonio e le migliaja di monaci e di sante vergini
dall'al tra.Nel mezzo del secolo poi e nel mezzo dell'Occidente com pare il
grande Arcivescovo di Milano,S. Ambrogio,che rac coglie la penna di S. Atanasio
per trasmetterla a S. Agostino, e colla voce, cogli scritti e cogli esempi
propri e della santa sua sorella Marcellina popola, non ideserti,ma le corrotte
città latine di una legione di angeli terreni. Sublime missione al certo,ma non
unica,a cui laDivina Provvidenza destinava il figlio del Prefetto delle Gallie,
allora che inconsapevole de'suoi destini,giungeva in Milano nel l'anno 373,per
esercitarvi qual Consolare l'autorità del Vicario d'Italia nella Liguria ed
Emilia.Infatti nel congedare il suo giovine amico,Petronio Probo Prefetto del
pretorio e cristiano, gli aveva detto:ricordatevi,mio figlio, di operarenon da
giu dice,ma davescovo(1).L'opulentoesaggiosenatoreromano con quelle parole
manifestava , senza comprenderne la forza profetica , il vizio radicale ed il
maggior pericolo dell'impero romano,e quale avrebbe dovuto esserne ilrimedio:la
cristia nizzazione cioè veraceed intera del governo e delle leggi. 437 (1)Paulin,in
vit.Amb.n.5. A quest'opera tuttavia richiedevasi non un greco od un
barbaro,ma un nobile romane discendente dall'antica razza conquistatrice;era
conveniente non un uomo di guerra ne un colto letterato,ma un giurisperito,che
dalla magistratura dell'impero terreno passasse alla magistratura dell'impero
spi rituale.Tal fu Ambrogio ,allorché nel 374 per mezzo di un prodigio fu
eletto Vescovo di Milano. SealcunofossestatoalloraammessodaDio leggerenel futuro
avrebbe ravvisato nel Consolare romano fuggente l'o noreela
responsabilitàdiVescovo,ilsecondo fraiquattro Dottori della Chiesa, che sono
rappresentati sostenere la cat tedra di S. Pietro in Vaticano ; ma insieme
avrebbe meravi gliato contemplando da lungi la nuova società cristiana succe
dere all'impero pagano,e S. Ambrogio,che formata la mente ed il cuore del
grande Teodosio, ne congiunge la destra a tra verso isecoli con quella di Carlo
Magno. Si ; è evidente che S. Ambrogio ritorna fra noi appunto nel momento del
maggior bisogno della Chiesa e della società, quando il paganesimo redivivo ha
consumato ormai presso tutte le nazioni cristiane l'apostasia dello Stato dalla
Chiesa e va lentamente scristianizzando tutti i codici e tutte le leggi dei
popoli civili.Non è pertanto meraviglia se dalla scoperta delle reliquie
santambrosiane la setta anti-cristiana intraveda una minaccia misteriosa a
quelle che essa chiama le gloriose conquiste dell'umanilà; mentre il popolo
veramente e sincera mente cattolico si commove ed esulta, come all'arrivo di
uno sperimentato e valente capitano. Nondimeno chi fu che sospettasse in
que'giorni questa importantissima missione religiosa ecivile del nuovo Ve scovo
di Milano? Gli uomini invero sono istrumenti e spet tatori quasi sempre
inconscii,dellemeraviglie di Dio.Ben po chi giungono a sorprenderne la mano
onnipotente e miseri cordiosa, allorchè in mezzo alle angoscie dei secoli più
trava gliati, quando lutto sembra avviarsi a rovina,getta silenziosa ed
inosservata la semente, che fruttificherà a suo tempo pace e prosperità alle
generazioni venture.Furono isecoli cristiani che riconobbero la lontana,ma
efficace opera di S. Ambrogio ; ed è perciò con un trasalimento di gioja che
noi, dopo quin dici secoli, da quel 74, in cui Dio lo dono alla Chiesa ed alla
società, vediamo risvegliarsi l'eroe delle battaglie contro il paganesimo ed
affacciarsi dalla sua tomba a riguardare le il lusioni , le convulsioni ed i
terrori di questo secolo XIX , per errori e pericoli sociali tanto simile al
secolo IV. Alla domanda perciò che ispontanea si presenta alla mente di
ognuno,in questi giorni,in cui collo spirito della Chiesa, che è spirito di
preghiera, ci prepariamo ad onorare gli avanzi mortali del gran Santo , gran
Dottore e grande cittadino del secolo IV,vale a dire: perché ritorna ora fra
noi S. Ambrogio ? non si può chiedere una risposta intera ed adeguata che ai
secoli avvenire.Essi ci mostreranno e spiegheranno laragione provvidenziale,
per cui le reliquie del santo Arcivescovo e dei due martiri milanesi
riapparvero in questi anni e non prima. Noi frattanto dal passato cercheremo di
pronosticare il futuro ; e dalla influenza tutta santa e civilizzatrice, che il
C o n solare romano eletto Vescovo esercitò sul governo, sulle leggi e sulla società
del secolo IV,ciconforteremo a sperare che in modo eguale e maggiore vorrà ora
farci sentire la potenza di sua intercessione presso Dio in pro della tribolata
e perico Jonte società moderna ; speranza e consolazioni ben giuste,poi che
nella Chiesa Cattolica anche le ossa dei santi profetano. I. La divisione
scientifica del Diritto in pubblico e privato era conosciuta,se non di
nome,certo di fatto,anche nel l'anticoGiureRomano;eilprimo era
fontedelsecondo,il quale sisvolgeva e modificava mano mano che si svolgevano e
modificavano le istituzioni politiche. Un popolo eminenlemente guerriero e
conquistatore,come era quello formato dai primi compagni e discendenti di
Romolo, non poteva a meno di dare alla propria legislazione un impronta
semplice,ma fiera e di spotica, spesse volte in aperta contraddizione
co'diritti di na tura. Per essa la patria era tutto, l'individuo nulla, la
famiglia un mezzo perdarguerrierialcampo,uominiprudentialforo lodata perció la
madre dei Gracchi, che invece dei giojelli m u liebri fa pompa de'suoi figli,
futuri tribuni della plebe; poi
chèessaconciòrappresentavaladonnaromana,qualelavo leva il ferreo diritto
repubblicano. Quella patria infatti, per cui tutti e tutto si doveva
sagrificare, non era che l'interesse e l'ambizione di poche famiglie patrizie
discendenti dall'antica razza conquistatrice: all'infuori dei senatori e
cavalieri non si conoscevacheplebe,efuoridiRoma tuttoilmondo,secondo il diritto
pubblico romano, non era abitato che da vinti o da nemici.Di qui nacque e si perpetuò
dai primi tempi di Roma quell'antagonismo fra senato e plebe, che fu causa non
ultima della caduta dellarepubblicaedell'intronizzazione del dispotismo
cesareo;diqui anche quella lotta continua con tutte le nazioni confinanti
coll'impero, lotta che fini colla inondazione dei barbari.
L'aspettocaratteristicoperò dell'anticoDirittoRomano come di tutte le primitive
legislazioni, è l'unione indissolubile dello Stato colla Religione.Essa
presiede a tutti gli atti pubblici e privati; non si intima guerra ne si
concede pace senza i feciali egliaruspici;senzaauspicj
nonsiradunanoassemblee;nonsi stringono trattati che sotto la protezione degli
dei, e la stessa proprietà privata è sotto la salvaguardia degli dei penati,
cui i primi romani non si dimenticavano mai di salutare all'ingresso
dellecase.La religione latina d'altra parteera essenzialmente nazionale,e si
informava a quello spirito di famiglia, che appare l'anima ditutte
leistituzioni romane;essa perciò rimaneva in carnatacollarepubblica,poichéRoma
derivavadaglideiein taccar la religione era intaccare Roma ,ed essendo Roma il
mondo,era un dichiararsi nemici del genere umano.Più tardi, all'avvenimento
dell'impero,Augusto uni ilsommo pontificato alla soprema potenza civile e
militare e collocò l'altare della Vittoria nel senato,come testimonio e simbolo
dell'eterna al leanza fra lo Stato ed il paganesimo. Laonde,quandoaltempo
dell'abbrutito Tiberio,alcunipe scatori di Galilea predicarono una nuova
religione, che diceva doversi obbedienza prima a Dio che a Cesare - essere
glidei nazionaliidoliedemonii nostrapatriailcielo la terra luogo non di piaceri
ma di prova - gli uomini senza distin zione di sesso edi città,siailromano che
ilgreco,ilbarbaro, "loschiavo,tuttifratelli- figlidiun comun padreIddio-
idegradati nipoti diCincinnato siscossero,come all'annuncio di un nemico alle
porte,che minacciasse di rovesciare l'antica maestà di Roma.Il
cristianesimoinfatti non era un semplice culto religioso , una delle mille
superstizioni che dall'oriente si importavano alla capitale colle spoglie delle
vinte nazioni e che il fiero politeismo romano riceveva come arra di pace e
difusionedeipopoliassoggettati;ilcristianesimoeraun in tero sistema teorico e
pratico, che abbracciava tutto l'uomo e siimponeva a tutte le questioni sociali,esigendo
un'intera ri voluzione di idee, di costumi e di leggi, un cambiamento ra dicale
nel diritto pubblico e privato dell'impero.Appena pro mulgata questa nuova
dottrina aveva trovati assecli ferventi ed indomabili in ogni classe e
condizione dell'impero ; accolto sopratutto con trasporto fra quegli esseri,
quanto spregiati al trettanto numerosi, quali erano nella società romana
ledonne e gli schiavi (1).Non ci meravigliamo pertanto che la giuri sprudenza e
la politica romana si trovassero bentosto nella nece s s i t à d i r i s o l v
e r e u n q u e s i t o , il q u a l e i n v o l g e v a l e s o r t i d e l l
' i m pero e dell'umanità. Se l'impero accoglieva il cristianesimo , questo che
trasformava le donne ed i fanciulli in eroi, avrebbe salvato l'impero dallo
sfascelo all'interno, all'esterno dai barbari , mansuefattidalvangelo;ma
loStatoconciòcessavadiessere ilsupremo Iddio;laChiesa assumeva con esso le
parti dim a dre ; lo schiavo, il vinto , la donna dovevano esser rispettati ;
s'umiliava l'orgoglio;cadevano Venere e Mercurio;regnava Cristo. Se per
contrario volevasi sostenere l'onnipotenza dello Stato, la divinità degli
imperatori, l'eternità di Roma , la nuova religione si doveva far sparire dalla
faccia della terra.Da Ne rone a Massenzio gli imperanti romani si decisero per
questa seconda politica e ne affidarono la cura al carnefice; il quale per tre
secoli stancò uomini e belve, e non riesci che a ren dere più splendido il
trionfo del cristianesimo. Costantino cambiò sistema e dopo aver bandito
tolleranza,dichiarossi per ilnuovo
culto;seguitodalfiglioCostaozo,chefattosiperò da protettore giudice e padrone
della Chiesa, divenne il triste
modellodituttiipersecutorifinoadoggi.Sopragiunse Giu liano,col quale
ilpaganesimo, domato ma non spento, tentò fe roce, sebbene effimera, riscossa.
Quando Ambrogio entrò Consolare a Milano,regnava Va lentiniano I, successo al
buon Gioviano. Scelto dall'esercito l'imperatore era prode guerriero;accorse al
Reno e all'onda sanguinosa dei barbari, che scrosciava e trasbordava dalle
frontiere, oppose, per allora, un argine di ferro. Tuttavia se la spada
valeva coi nemici non giovava per le questioni interne, nè per arrestare la
decomposizione sociale di quell'immane gigante,cui ilcristianesimo tentava invano
di risanguare con forti e pratiche dottrine di virtù e sagrificio. La fede
operava al certo nel segreto delle coscienze una im
portantissimarivoluzionemorale;ma nonostanteglisforzidi Costantino, il mondo
amministrativo si era tenuto in disparte dalla influenza e dalle istituzioni
cristiane.Infatti sotto Valen tiniano, già confessor della fede avanti
all'Apostata, il governo continuava colle massime e coi costumi dell'antica
Roma pa gana;l'imperatore proseguiva a chiamarsi divino ed eterno;
(1)Lactant.,Instit.lib. V,cap.18. aveva assunto i titoli e le
insegne di pontefice massimo; m a n teneva ai sacerdoti degli idoli privilegi e
sovvenzioni a carico dell'erario; mentre l'altare della Vittoria eretto nel
mezzo del senato,attestava la politica incerta ed equivoca del regnante
cristiano.Idue elementi opposti edinconciliabilierano invero tuttora di fronte
e disponevano di forze eguali ; più popo
lareediffuso,massimeinoriente,ilcristianesimo;più po tente per ricchezze ed
aderenze,in ispecie in occidente e fra le famiglie aristocratiche, il
paganesimo , considerato da esse come simbolo e palladio dell'antica gloria
romana. Valenti niano I reputò pertanto abilità politica il mettere lo Stato
nel mezzo, come neutrale e paciere fra le due nemiche correnti. Enorme fallo
politico, che si ripete continuamente ogni volta che nella società scendono in
campo ad aperta battaglia i due eterni nemici, la materia e lo spirito,
l'errore e la verità, la città degli uomini e la città di Dio ! Dall'errore
nasce l'errore:un governo che esita e teme decidersi fra il cristianesimo e le
superstizioni gentilesche, per quanto spiritualizzate dal neoplatonismo,fra
Cristo e Satana,un tal governo non può reggersi che con una serie di ripieghi,
so v e n t e c o n t r a d d i t t o r i i ; p e r e s s o il p r i n c i p e c
r i s t i a n o n o n p o r t e r à che colpi troppo prudenti a quelle antiche
istituzioni pagane, che rimanevano sempre incarnate nel diritto civile
dell'impero. Quante questioni giuridiche, di cui ilprogresso introdotto dal cristianesimoreclamavauna
prontaeradicalesoluzione,re stavano perciòsenza una risposta.Eppure
necessitàstringeva, se l'impero voleva salvarsi ! La società era tuttora divisa
fra una minoranza di opu lenti, che si chiamavano liberi e cittadini,ed una
immensa maggioranza di uomini , cui il cristianesimo diceva fratelli dei
superbi padroni,ma che la Roma conquistatrice aveva classificati fra gli
utensili d'agricoltura ed industria e fra gli oggetti di commercio (1); gli
schiavi reclamavano in nome della natura e della religione idiritti dell'uomo e
del cristiano. Un'altra schiavitù legale era stata recentemente introdotta dal
fisco rapace,che in nome della divinitàdiRoma,padrona del mondo,non
solospogliava ma distruggeva;icoloni ed icu riali protestavano,io nome di una
assennata economia politica, per un mutamento radicale nei principii che
regolavano sia la proprietà,che l'esazione delle imposte. Il padre verso
ifigli, (1)Ulpian.Inst.I,tit.8. il padrone verso gli schiavi,
e perfino il creditore verso il d e bitore,anchedopolesaggiecostituzioni
diCostantino,con servavano diritti, che si assomigliavano troppo a quelli che
la ferrea mano dei decemviri aveva scolpiti nel bronzo;la carità cristiana, la
quale ne andava sbandendo dai costumi l'atroce e s e r c i z i o , e s i g e v
a c h e il l e g i s l a t o r e s c i o g l i e s s e i s u d d i t i d a q u
e l l e pastoje dell'antico servaggio,con cui ilgiudice per rispetto ad una
formulistica e sacrilega legalità conculcava l'equità e la g i u s t i z i a .
C h e p i ù ; il m a t r i m o n i o f o n d a m e n t o d e l l a s o c i e t
à e la donna che ne è il cuore , erano sempre 'all'arbitrio di una
legislazione,che sanzionava,col divorzio e colla tutela perpetua, una
incredibile corruzione di costumi , massimo fra i pericoli dell'impero;or bene
le vergini e martiri cristiane volevano,che un sesso santificato dalla Vergine
madre di Dio, fosse ricollo cato nel posto assegnatogli dal Creatore e che il
matrimonio, pei cristiani elevato a Sacramento , fosse anche pei pagani cosa
seria e rispettata. Queste ed altre questioni,che travagliavano lasocietà ro
mana nelSecoloIV,sisarannoessepresentateallavastae profonda intelligenza ed al
cuore nobile e passionato del gio vine Consolare, in quel primo giorno che in
Milano prese pos sesso dell'importante sua carica ? Le parole e le gesta del m
a gistrato divenuto Vescovo dimostrano, che S. Ambrogio le aveva comprese , e
già risolte in quella, che tutte le compen diava:la cristianizzazione del
governo e del diritto romano. S. Ambrogio vi si adoperò con quel tatto
pratico carat- teristico dellaRoma conquistatrice del mondo,che ora è pas sato
nella Roma capitale del cattolicismo.Cauto,prudente e piuttosto lento,l'antico
romano taceva, meditava ed operava a colpo sicuro; non guidandosi a vivaci
teorie più o meno ulo pistiche esso studiava ed aspettava, non preveniva gli
avveni menti ;e perciò mentre le colte e filosofiche repubbliche greche
sparivano fra l'olezzo dei fiori ed il canto dei loro inimitabili poeti,il
tardo romano si impossessava dell'universo. Questa impronta si ravvisa negli
scritti e più nelle opere del grande Metropolita di Milano; perchè se ilcuore
ardente di Vescovo cattolico lo moveva a parlare al suo popolo,a scrivere
lettere e volumi, a portarsi alla corte e trattar cogli imperatori, la severa
prudenza del magistrato romano gli dava quella calma e quella saggezza, onde
isuoi detti ricevevansi come oracoli. Suo primo atto fu volgersi a
Valentiniano I, la cui indole buona ma violenta era stata esasperata da malattie
e da cor tigiani e satelliti sanguinarii, per cui si riempiva l'occidente di
gemiti e di lamenti.Cosa disse Ambrogio all'imperatore dagli storici
contemporanei non ci è riferito; ma la risposta del so vrano e più il mutamento
totale di sua politica dopo quel col loquio,ci dimostrano la prima vittoria sul
dispotismo cesareo, Valentiniano lodò la franca indipendenza del vescovo e ne
volle pe'suoi peccati conveniente rimedio (1).Cosa inaudita e fin allora
creduta impossibile!La divinità imperiale, cui la legisla zione romana,anche
dell'età classica,asseriva sciolta dalle leggi (princeps solulus a
legibus),anzi legge vivente, e libero senza ombra di ritegno a dichiarar lecito
ciò che jeri era illecitoed ingiusto (2), il dio di R o m a , riconosce d'aver
errato ; ed i s u d diti,senza essere costretti,come era d'uso,a sgozzare e poi
celebrar l'apoteosi dell'imperatore,possono ormai fargliperve
nireleloroquerelepermezzodei Vescovi,rappresentanti la co mune madre, la S.
Chiesa. Se ad alcuno però non piace questo progresso,perché
introdottodaVescoviepreti,riservipure l'ammirazione per Ulpiano e Paolo, fra i
più grandi giurecon sulti al certo dell'epoca degli Antonini,iquali celebravano
la clemenzaelasaggezza diquelmostrochesichiamavaComodo! Un altro passo tuttavia
rimaneva a fare: non solo la per sona,ma la stessa dignità imperiale doveva
ripudiare official m e n t e il c u l t o n a z i o n a l e d i R o m a . U n a
c e r i m o n i a r i d i c o l a e r a stata introdotta da Augusto e
ripetevasi infallantemente ogni volta era assunto un nuovo principe
all'impero;lo stesso Co stantino non aveva osato di rinunciarvi.L'offerta però
del ti t o l o e d e l l e i n s e g n e d i p o n t e f i c e m a s s i m o ,
c h e il s e n a t o f a c e v a all'imperatore,inchiudeva un gravissimo
significato, poichè era la conferma di quel vecchio diritto pagano e
teocratico, del quale igiureconsulti non ardivano acora distruggere l'autorità
tante volte secolare e che isenatori,in parte ancora idolatri, facevano
studiosamente rivivere appena se ne presentasse l'oc casione.Rigettare quelle
insegne era dunque sconfessare l'as soluta sovranità dello Stato sopra i beni,
sulla vita e, ciò che più importa ai despoti,sulle anime e sulle coscienze dei
sud diti. Quale fra i moderni vantatori di liberalismo in simile circostanza
ascolterebbe la voce della ragione e della fede, par 444 S. AMBROGIO E IL
DIRITTO ROMANO (1) Theodor. Hist. Eccl. Lib. IV ,c. VI. (2) Digest. Const. Lib.
I, tit. 4. lante per bocca di
Ambrogio ? Lo stato attuale d'Europa ce ne è testimonio.Ben diversamente
pensava però quel caro figlio s p i r i t u a l e d i A m b r o g i o , c o m e
e s s o c h i a m a v a il g i o v a n e G r a z i a n o , il primo che alla
deputazione del senato rispose:sè essere cristiano. Ottenuta questa seconda
vittoria,se ne richiedeva una terza, perché il cristianesimo potesse lusingarsi
di vedere ilgoverno dei Cesari informatodisue caritatevolidottrine.Ragion
logica voleva che l'ara della Vittoria,simbolo delle antiche superstizioni, s g
o m b r a s s e il s e n a t o , m o l t o p i ù o r a c h e l ' i m p e r a t
o r e , a s s o c i a t o s i
Teodosio,avevavintiiGoti,invirtùnondiGiovemadiGesù Cristo.Ilregalealunno
d'Ambrogio,che primadipartirper la guerra , gli aveva chiesti consigli ed istruzione
a conferma della propria fede, mostrossi coerente. Un mattino adunque i
senatori entrando nella Curia,stupirono vedendo scomparsa l'ara e la statua
d'oro,tolte quella notte per ordine sovrano (1). Il colpo inaspettato commosse
la fazione pagana fino nell'ultime fibre : molti senatori tuttora partitanti
per i vieti riti di N u m a edeiFabii,siradunarono
inquietieminacciosiperstendere una querela all'imperatore.Ma ai fianchi di
Graziano vegliava Ambrogio,chegli parlòinnome deglialtrisenatori,delPonte ficeDamaso,dellasedecristiana.Invanopertanto
ladeputazione instò; il giovine principe si dichiarò irremovibile e neppur
volle ammetterla all'udienza. Graziano era allora nel fiore dell'età,nell'auge
della gloria, gioconda speranza della Chiesa e dell'impero: e invece per uno di
que'misteriosi decreti della Divina Provvidenza,che scon certano tutti gli
umani ragionamenti e non lasciano luogo che all'umiltà ed alla adorazione,
l'imperatore viddesi abbandonato dalle sue truppe e cadde vittima di infame
tradimento.Il pa ganesimo erasi vendicato; e risorgevano le speranze degli ido
l a t r i, i q u a l i r a p p r e s e n t a t i d a A u r e l i o S i m m a c
o P r e f e t t o d i R o m a e ricco sfondato, credettero di approfittarsi
delle circostanze e del favore della corte, per fare pressione sull'animo
sbigot titodel fanciulloValentinianoIedellasuperba,ma insieme d e b o l e , G i
u s t i n a . S t a t i s t a e l e t t e r a t o , f i l o s o f o e s c r i t
t o r e , il d i scepolo d'Ausonio esauri tutte le risorse del brillante suo in
gegno e stese una supplica,vero capolavoro di rettorica; se natore poi e
pootefice, e caro al popolo,cui non lasciava m a n carepanéecircesi,impiegò
perilpoliteismo,alquale esso (1) Baanard, Vita di S. Ambrogio, pag. 128.
stesso non prestava più credenza , tutta l'influenza della per sona e
degli impieghi ; e si riteneva sicuro della riuscita. In fattigià stavasi
preparando il decreto che ristabiliva l'ara della Vittoria,allorchèS.Ambrogio
sopragiunse dalleGallie,ove alla corte dell'usurpatore Massimo aveva, con
finezza di diplo matico consumato ed intrepidezza di vescovo cattolico,patro
cinata e vinta la causa del pupillo imperiale. Benchè un rigoroso segreto
presiedesse alla congiura dei senatori pagani ed ai consigli del Concistoro
imperiale,geloso dell'influenza del Vescovo di Milano, tuttavia esso ne penetrò
le macchinazioni ; e presa la penna scrisse, non più all'Eterno, I n v i n c i
b i l e , G e r m a n i c o , P a r t i c o e c c ., m a a l f e l i c i s s i
m o e c r i s t i a nissimo imperatore Valentiniano I I. In quella magnifica
lettera, incui isentimenti più elevatideiDottore e Ponteficecattolico si
alternano e vestono la forma della più commovente tene rezza paterna , si trova
già completamente tracciata la nuova politica cristiana, che fa i principi non
padroni dei popoli, sib bene ministri di Dio e suoi luogotenenti sulla terra.
Valenti niano perciò ode ricordarsi, che come tutti gli altri suoi sud diti,
egli stesso è soggetto al Re dei Re ; che un altro potere è sorto nell'impero a
regolare le coscienze,al quale pertanto, c i o è a i V e s c o v i , s p e t t
a il g i u d i z i o i n m a t e r i a r e l i g i o s a : i n c a s o
contrario,come indegno della professione cristiana,venendo l'imperatore alla
chiesa,vi avrebbe trovato Ambrogio alla porta ad impedirgliene l'ingresso.
Bisogno cedere:S.Ambrogio ebbe lasupplicadiSimmaco e riprese la penna. In quel
giorno il profondo giurista, il de stro avvocato,ilsaggio magistrato rivisse
nello scritto del V e s c o v o e d e l s a n t o . Il M e t r o p o l i t a m
i l a n e s e n o n b a d a a c o n tendere coll'avversario in lenocinio di
eleganze irreprensibil mente classiche: esso mira alla sostanza : perciò non
allegorie, non scappatoje, non esitazioni,non dottrine incerte e,dirò,
fosforescenti,tutto è massiccio;gli argomenti procedono ser rati, come le
legioni romane, e la verità che appare evidente, abbatte, frantuma e disperde
perfin la polvere degli annientati sofismi pagani.Simmaco s'appoggiava a tre
argomenti:Roma disonorata per l'abbandono degli dei;le vestali reclamanti;la
patria sfortunata e pericolante per la nuova politica cristiana degli
imperatori.S. Ambrogio prende questi tre sofismi,li spoglia delle vesti
affascinanti, li osserva, li analizza e li trova non altroche un accozzo
difrasireboanti,vuotedisenso.Che parla Simmaco della dea Vittoria? La vittoria
è un nome astratto : esso si realizza nel numero e nel valore delle
legioni romane:Scipionevinse sfondandolefittecoortidiAnnibale, non ardendo
incenso alla statua di Giove. Chiedono i pagani
privilegiedentrateperisacerdotidegliidoli?Dunque con fessano che senza essi non
possono reggersi: ma noi, dice S.Ambrogio,crescemmo fra leingiurie,le
miserie,lemapnaje; e d e i n o s t r i b e n i f a c c i a m o il t e s o r o d
e i p o v e r i . L e v e s t a l i ? O h ! quante immunità,privilegi ed
entrate per sette fanciulle pro fessanti continenza temporanea fra il lusso e
gli onori ; il cri stianesimo invece ne presenta migliaja e migliaja, che si
conse crarono a perpetua verginità nel nascondimento e nelle pri vazioni.
Volete privilegi ed entrate alle vostre vergini? Le a b biano in misura eguale
anche la moltitudine quasi innumerabile delle cristiane:non è secondo giustizia
l'accordar preferenze: otutte,onessuna.Ilcristianesimocagione deidisastri del
l'impero e della recente carestia d'Italia ? I cristiani nemici della patria? —
Avanti all'antica e sempre calunnia nuova il discendente degli Ambrogii , che
aveva testė salvato l'Italia e l'imperatore, credė di imporre silenzio
all'indegnazione del suo cuore romano: esso rispose con fina ironia,
riscontrando le allegazioni enfatiche ed immaginarie di Simmaco colla reale
prosperità di quell'anno, quale presentavasi agli occhi di tutti. Era un
seppellire l'elegante declamazione sotto il peso della più terribile delle
confutazioni, un meritato ridicolo. Ciò falto, S. Ambrogio non si arresta a
riguardare il prostrato nemico e piglia l'offensiva.Allo scetticismo pagano
confessatoda Sim maco,e che supplicava per una tolleranza,non solo pratica ma
teorica,dituttiiculti,essocontraponelachiaraevidenza della fede e le forti
convinzioni dei cristiani,Ritorce poi l'ar gomento; richiama la gloriosa ed
ancor recente memoria di quel tempo,in cui ipagani non ammettevano
l'indifferenza dello Stato per ogni culto,ma perseguitavano e massacravano; fa
osservare che non è giusto imporre ai senatori cristiani i riti pagani e
conclude dichiarando,che la natura stessa vuole ilprogresso:essere
ormaitempo,che letenebre cedano,al sole,l'errore allaverità.La causa fu
vinta:quel soffioche già spirò dal cenacolo nelgiorno di Pentecoste,portò via
l'ultimo avanzo del paganesimo officiale, il quale invano una terza volta
sipresenterà a Teodosio.L'alleanza secolare fra l'impero romano e l'idolatria è
rotta ; non solo, m a sono abbandonate le illusioni di una politica anfibia e
contraddittoria, che voleva separato lo S t a t o d a l l a C h i e s a , il c
o r p o d a l l ' a n i m a s o n g e t t a t e ; d a q u e l p u n t o
le basi del nuovo Diritto Pubblico della Chiesa e delle genti cristiane.
Graziano infatti, continuando l'opera di Costantino, aveva dall'anno 379 al 382
pubblicati varii decreti, sia in favore della Chiesa che contro gli eretici e
manichei e contro gli apostati recidivi al paganesimo:ci giunsero nelle
raccolte di leggi c o m pilatepiùtardipercomando diTeodosioilgiovine,econo
sciuta sotto il nome di Codice Teodosiano.Frattanto Teodosio il Grande
promulgava in Costantinopoli (anno 380) quella sua memorabile costituzione, in
cui dichiarava la fede cristiana religione dell'impero, e fra le varie sette
che ne disputavano il nome, osservava, intender esso quella sola, la quale
profes. sata ed insegnatadalPontefice Romano,allora Damaso,aveva con sé le note
caratteristiche ed esclusive della verità. Qual rivoluzione nei principii
legali e nelle massime di governodelDirittoromano!Ma nonbastavachel'imperatore
facesse decreti,esso stesso doveva conformare le proprie azioni alle dottrine,
che andavano informando la nuova legislazione. Se pertanto Giustina vuol
favorire i suoi ariani e intima sia loro ceduto un tempio dei cattolici, S.
Ambrogio si offre pronto a donare all'imperatore le proprie sostanze private, a
sacrifi care lavita stessa,non mai ilpatrimonio della Chiesa.Se anche il grande
Teodosio , illuso da una fantasmagoria di tolleranza religiosa, patrocinata
ardentemente dall'indifferentismo ed i m moralità dei cortigiani, vorrà
costringere il vescovo di Callinico a rifabbricare la distrutta sinagoga degli
Ebrei, vedrà giun gersi una lettera rispettosissima, ma conquidente del Vescovo
di Milano,nella quale l'equità,la giustizia, la fede cristiana ed anche i
dettami di una saggia politica impongono a Teodosio
direvocareilmalconcepitodecreto.Teodosiosimostra esi tante;ma Ambrogio
insisteevince.Evincerà finoal punto di persuaderlo a promulgare una legge, con
che il troppo vio lento principe impone agli altri giudici,e prima a sè stesso,
di soprasedere ventiquattro ore dall'esecuzione d'ogni sentenza capitale; non
solo, ma in abito da penitente lo vedremo con fessare ed espiare in faccia alla
Chiesa ed all'impero le fatali conseguenze della impetuosa sua ira contro i
Tessalonicesi. Magnanimo principe, degno dell'ammirazione di tutta la
posterità! Esso fu grande quando sul campo di battaglia tre volte sgomino le
legioni degli usurpatori e due volte ruppe e disperse le immense orde dei
barbari; ma fu più grande allor chè nel vestibolo della Basilica milanese riconobbe,
esser nessuno,fuorché Dio,padrone della vita degli uomini.Circadue
centoquarant'anni prima un altro imperatore romano,sommo unicamente
perlibidiniécrudeltà,avevaespressoildesiderio che il senato e Roma stessa
avesse una sola testa,onde poterla spiccare d'an colpo.A quell'imperatore,cui
Seneca fu maestro, if sénato e l'impero si prostravano e ne placavano la divina
cle menza con statue e sacrificii. Ora un altro principe grande per'mente, per
cuore e per braccio, è in ginocchio avanti ad un Vescovo Cattolico, domandando
penitenza per esser troppo trascorso nell'esercizio della giustizia contro
alcunisudditi. Chisceglieremo,Teodosio oNerone?A chidovrà ascriversi il
cambiamento totale nei principii che reggevano l'impero? I
fattirivelanoilloroautore:seipregiudiziimoderni impedi scono a'molte
intelligenze di leggerne il nome,è solo, come osserva uno scrittore francese
(1) di principii esso stesso tut. t'altro che cattolici , perchè il
cristianesimo è troppo poco stu diato e'meno compreso. S.Ambrogio,come
tuttiglialtripadridellaChiesa,si occupava delle questioni sociali e politiche
per lo più solo in direttamente : la sua cura cotidiana, il pensiero della sua
vita era la santificazione del suo gregge ; e le sue azioni e i suoi scritti
tendevano unicamente a questo scopo.Ilsuo stesso libro degli Officii,
quell'opera scritta ad imitazione di Cicerone , la quale,come rappresentante
dei secoli cristiani,sebbene segni
unqualcheregressonelleforme,locompensaconunimmenso progresso,nelle idee non
mira che ad offrire al suo clero saggi precetti di santa vita.Ma si può egli
sanar l'anima senza gio varealcorpo?Ecco pertantoS.Ambrogio,por professando
osservanza dei canoni,che intimavano a pruti e vescovi una operosa residenza
fra il popolo (2), togliersi da Milano , c o m parire alla corte, intraprendere
disastrosi viaggi,ogni volta lo richiedeva la necessità della cosa pubblica .
Teodosio gli affida i suoi due figli; e quando il grande Arcivescovo stava per
entrare nell'eternità,Stilicone,ilreggente dell'impero,lo mando a scongiurare,
che volesse pregar Dio per un po'd'altri anni, poiché l'Italia, lui morendo, pericolava
(3). III. ( 1) Il signor Cousin citato da Troplong, De l'influence du
christianisme sur le Droit civil des Romains, pag. 368. 29 (2)Epist.LXXXV,n.2.
(3)Paulin, Vit.Ambros.n.45. Scuola Catt.Anno II.Vol.III.Quad.XVII. Non è
perciò meraviglia, se negli scritti e più nelle azioni del Consolare romano
divenuto Vescovo cattolico troviamo , sebbene quasi per incidente e per lo più
solo in germe, accen nate e risolte le principali questioni di diritto, la cui
completa trasformazione doveva esser l'opera dei secoli avvenire. La clemenza
di Teodosio verso i vinti, gli sforzi di lui per siste mare
l'esazionedelleimposte,cuiibarbari,glierroridell'impero e più l'interna
corruzione dei costumi rendevano intollerabili, dimostrano che l'influenza di
S. Ambrogio si stendeva dovunque eravi un ministero di carità da esercitare
(1).Irrompono iGoti, mettono a ferro ed a fuoco l'Illirico e ne conducono gli
abi tanti inservitù?S.Ambrogio spogliatosidituttoperredimerli, spezza e vende
ivasi preziosi della Chiesa :essendochè più preziose,
dicealsuopopolo,sonoleanimeredentedaCristo,chenon l'oro e l'argento consecrati
al culto divino.Era lo scioglimento pratico per mezzo della carità di quella
questione della schia vitù,cui Ulpiano e Pomponio dicevano di assoluto diritto
delle genti (2) e che la nuova religione professante la fratellanza universale
degli uomini, voleva sbandita dalla terra.Il cristia nesimo infatti ogni volta
che vedea aperto ilcampo all'azione, viene attuando gradualmente
l'affrancamento degli schiavi,con quella prudenza però che prepara prima la
libertà delle anime e delle intelligenze , avanti di procedere alla liberazione
dei corpi;poichè questa,se troppo repentina ed ispirata solo da passioni
politiche,riesce in pratica egualmente fatale agli schiavi stessi ed alle
nazioni che la compiono:gli Stati Uniti d'Ame rica ne vanno ora facendo
l'esperienza. Era tuttavia principalmente nell'udienza episcopale,che S.
Ambrogio rivelava nelle sue sentenze ilmagistrato cristiano e santo .
Costantino, approvando ciò che di fatti già trovava nei costumi cristiani, donò
alle decisioni dei Vescovi il medesimo valore giuridico,che ilsenso pratico
degli antichi romani aveva ottenuto agli editti del pretore. Con ciò lo stretto
diritto civile consecratodalleleggidelleXIITavole,ilqualegià ritiravasi davanti
al diritto di natura più ampiamente propugnato dai giureconsulti dell'età
classica, cessava totalmente, o meglio si trasformava in quel codice,cui S.
Agostino chiamava divina ( 1 ) P a r e c c h i e l e t t e r e d e l s a n t o
v e r s a n o s u g l i o f f i c i i, c h e e i s o v e n t e a s s o m e vasi
di intercedere presso l'imperatore per le vittime delle enormità fiscali.
(2)... quae potestas (servorum)juris gentiumest;(Ulpian,Insl.I, tit.8)e
Pomponio conchiudeva che chi cadeva nelle mani del nemico gli re stava per
diritto delle genti suo schiavo.(Tit.49. V. ff.De captivis). mente
emanato per bocca dei principi (1); e che fatto pubbli care da Giustiniano,
mentre l'impero d’occidente era distrutto e quello d'oriente minacciato,conserva
all'antica Roma la gloria di dominare eternamente,se non coll'armi,col migliore
primato delle leggi. Di fianco al diritto civile romano nasceva il diritto ca
nonico. La proprietà è resa universale : non vi sono più distinzioni di res
mancipi o nec mancipi, di dominio quiritario o per pre scrizione ; non si
possiede più secondo S. Ambrogio , in forza della cittadinanza romana, la quale
comunichi il diritto di proprietà proveniente dalle conquiste;la fonte d'ogni
diritto è Dio, di cui tutti gli uomini sono figli; e che unico padrone della
terra, ne dà l'uso a chi legittimamente lo acquista (2). Scompajono egualmente
le legillimae nuptiae come contra posto alle justae nuptiae ed al concubinato
legale :non si parla più né di confarreazione, né di co -emptio, nè di usus per
aqui stare alla donna idiritti matronali e la successione,come figlia al m a r
i t o : n o n v i è p e i c r i s t i a n i c h e il m a t r i m o n i o S a c
r a m e n t o d e l l a NuovaLegge,simbolodell'unionediGesùCristocollaChiesa:la
legge ecclesiastica de determina gli impedimenti,ne prescrive i riti; ed il
marito e la moglie si trovano eguali nell'obbligo di vicendevole fedeltà ed
amore e nella santa emulazione del bene.«Nessuno,predicava
S.Ambrogio,silusinghiappoggian dosi alle leggi umane... non è lecito al marito
ciò che non è permesso alla donna (3).» Per misurare ilprogresso introdotto dal
cristianesimo,bisogna ricordare ciò che scriveva Tertulliano: * al giorno
d'oggi chi si sposa ha già concepito il progetto d i r i p u d i a r s i e il d
i v o r z i o è c o m e u n f r u t t o d e l m a t r i m o n i o ( 4 ) . ” La
lettera(LX)delsantoarcivescovoscrittaadun talPe tronio ci introduce a
contemplare ilsegreto lavoro della Chiesa costituente gli impedimenti
dirimenti, per la sempre maggior santificazione della società matrimoniale,cui
invano avevan tentato di mettere in onore le Leggi Giulie e Pappia Poppea. S.
Ambrogio infatti dissuade con parole severe l'amico dal progetto di contrarre
colla nipote:cosa contraria,egli dice, alla legge divina (5). Si crede anzi che
la costituzione civile (1) Leges Romanorum divinitus per ora principum
emanarunt,cit.dell'Oza- ' nam.Ilquinto secolo,vol.1,pag.188. (5) L'impedimento
di consanguineità in linea collaterale è di natura eccle siaslica:S. Ambrogio
parla dellelogge divina considerata nelle sae dedazioni. (2)De Nabuthe
Jezraelita,cap.I,III,etalibipassim. (3)D:Abraham.Lib.I,n.26. (4) Apolog. $
6. pubblicata da Teodosio il grande circa ilmatrimonio fra i con
giunti(1),glifosseispiratadalsantosuo amico,consigliere e padre
spirituale.Isuccessori del grande imperatore spaven tati dall'opposizione che
l'impudicizia pubblica recava all'ese cuzione di simili leggi,si mostrarono
incerti e indietreggiarono ; ma l'impulsoeradatoeilcristianesimo,trionfandodell'immo
ralità,si impose poi pienamente anche alla legislazione. Il diritto di vita e
di morte, che le leggi delle XII Tavole concedevano al padre sul figlio, era
già stato abolito durante ilperiodo,in cui la filosofia stoica,piegandoalsoffio
spi rato dal Golgota, moderò tutta l'antica giurisprudenza (2). Costantino
arrivò a decretare la pena del parricidio contro il genitore che uccidesse il
proprio figlio. M a quanto cammino rimaneva tuttora a fare anche in questa
materia per giungere a stabilire un pieno accordo colle imprescrittibili leggi
di na tura!Nonsoloilpadre conservava,comegiudicedomestico, ildiritto
diinfliggere pene,benché moderate alfiglio;ma esse stesso dettava al magistrato
lasentenza, che nei casi più gravi era reclamata dalla disciplina paterna
(3).Arroge che l'esere dazionedimorava intattafralesuemani,senzachelacrea
zione,fattadaCostantino,delpeculio quasi-castrensee laparte concessa nella
eredità della madre, bastasse a sottrarre ilfiglio di famiglia ad una autorità,
che, sebben giusta, dee avere essa pure i proprii confini. Che più ?
Perseverava ancora il barbaro diritto nei padri di vendere i propri figli: S.
Girolamo (4) ci ha conservati i lamenti di una misera vedova,cui ilmarito per
supplire all'ingordigia del fisco, dovette vendere i tro figliuoli; S. Ambrogio
stesso flagellando l'atroce crudeltà de
gliusuraj,introduceunpoveropadreche«usandodellaau
toritàconferitaglidallalegge,ma negataglidallanatura» per pagare l'usurajo , da
cui ebbe il pane, conduce all'asta i proprii figli ; e con sanguinosa ironia
esclama : « o miei figli, pagate le spese della mia gola, soddisfate il prezzo
della mense paterna. Voi divenite il mio riscallo eil vostro servaggio ricom
pėra la libertà mia (5). » Quai diritti, buon Dio, e quali ese crabili cause li
facevano esercitare! Ben a ragione S. Ambrogio prosegue,narrando,chein uncaso
simile,all'usurajo,ilquale (1)Leg.5,C. Deincestisnuptiis. (2) Troplong, op.
cit. pag.264. (3) Lec. 3. C. lust. de patria potest. (4) In vito Paphnutii
(5)De Tobia,cap.VIII,n.20. voleva approfittarsi della legge ed ostava ai
funerali di un cre ditoreimpotente,avevaordinato:siprendessein casailca davere
in garanzia del proprio debito ; e ve lo fece traspor tare dal popolo. Con
simile legislazione però chi avrebbe osato farsi mediatore per riconciliare
coll'inflessibile autorità pa terna un figlio , il quale aveva ardito menare in
isposa una donzella, non trasceltagli dal padre? Il diritto romano riguar dava
taleatto,comeunattentatocontro natura;poichéla nuora, secondo la legge,
diveniva figlia del capo di casa. Ma lacaritàcristianasilasciaguidare da
istintidivini:fra Je lettere di S. Ambrogio, la 83.a è appunto diretta a un tal
Si sinnio,onde persuaderlo non solo a perdonare ma a ricevere incasaun
talfiglioeduna talnuora;eviriusci.Sublime cat tolicità della Chiesa ! Dopo
undici secoli circa, fu riproposta ai padri del Concilio di Trento la scabrosa
questione del matri monio contratto dai figli di famiglia senza il consenso del
pa dre : e lo spirito del santo vescovo di Milano ricomparve nella
prudentissimarisoluzionedelSinodoEcumenico.Quella lettera a Sisinnio invero
rivela in S. Ambrogio un tatto pratico squi sito:ma insieme qual profonda
conoscenza del cuore umano, quanta delicatezza e soavità di sentimenti in quel
grande av vezzo a moderar l'animo degli imperanti e a stringer le redini dello
Stato;il miele,giusta l'enigma di Sansone,gocciava di nuovo dalla bocca del
leone. Le leggi che regolavano le successioni richiedevano pari menti
importantimodificazioni.L'antica legislazione era il ca polavoro
dell'aristocrazia; esaminando quella ferrea catena di eredi suoi, agnatizii,
gentilizii, in fine alla quale non manca vano mai le spalancate fauci del
fisco, non si può a meno di ammirare con un senso di sacro terrore quel vigore
di con cetto, quella intrepida inflessibilità di logica, con cui per con s e r
v a r e i b e n i e d i s a c r i f i z i i n e l l e f a m i g l i e , il l e
g i s l a t o r e r o m a n o non indietreggiava davanti alle più inique
violazioni dei di ritti di natura. L'equità pretoria vi aveva già portato al
certo qualche cambiamento coll'editto:unde liberi;ma ohime!di qnanto poco
accontentavasi la sapienza di Cajo e degli altri giureconsulti della setta
stoica (1)! Prima però cheGiustiniano si preparasse una imperitura e giusta
gloria con quelle leggi sulle successioni, che ancora ( !) A a e j u r i s i n
i q u i t a t e s e d i c t o p r a e t o r i s e m e n d a t a e s u n t. ( C
a p . I I I . C o m . 2 5 ). Troplong,op.cit.pag.323. C h e p i ù
? s c r i v e n d o al g i u d i c e S t u d i o (X X X ), il q u a l e lo a v
e v a consultato sul modo di comportarsi,quando dovesse pronun ciar sentenze
capitali, il prudente ed amoroso vescovo gli in culca con ogni maniera di
ragioni l'esercizio dalla clemenza, che deve giungere, esso dice, fin dove vi è
giusta speranza di emenda del reo. Lungi però dalle moderne utopie, le quali in
nalzando a principio l'abolizione della pena capitale per qual siasi grande
malfattore, riescono in pratica a disarmare e con danpare gli innocenti,il
santo giurista pone per base la giustizia della pena di morte e raccomanda
all'amico la custodia delle leggi, « poichè mentre si leme la spada dei
giudici, si reprime e non si stimola il furore dei delilli (3). » La stessa
procedura criminale è lucidamente delineata nelle
duelettere(VeVI)aSiagriovescovo di Verona.S.Ambro gio lo rimprovera d'aver
troppo superficialmente ricevuto l'ac cusa contro la vergine Indicia ; gli fa
osservare che nel suo processo trascurò quasi tutti gli argomenti che potevano
far prova giuridica in favore dell'accusata ; mentre illegalmente aveva avuto
ricorso a testimoniaoze ed atti quanto obbrobriosi altrettanto insufficienti; e
gli descrive il modo da sè tenuto per riveder quella causa e cassarne
l'ingiusta sentenza.Leggendo quelle lettere scritte nel secolo
IV,l'animosicompiace riscon trando i medesimi principii tracciati dal nostro
santo, seguirsi 11)Ep.LXXXII cit.n.3. (2 ) C o n f. L i b . V I . c a p . I V .
(3)Ep.XXX cit.n.9.VediancheBagnard,op.cit.pag.140eseg. al presente sono la
base di tutti i codici moderni , S. Ainbro gio l'aveva non solo preceduto, ma
superato con un giudizio, la cui equità sembra oltrepassare i confini di una
soverchia condiscendenza.Nella letteradifatti (LXXXII)al Vescovo Mar cello, pel
cui testamento eransi fratello e sorella a lui appellati, il santo ci descrive
collocate di fronte le due opposte influenze, che si disputavano allora ilcampo
delle leggi. La procedura ci vile avanti al magistrato ci appare da una parte
irta di inter minabili acontroversie,azioni,recriminazionimolteplici,istanze,
cavilli da curiale (1); » la procedura canonica del vescovo dal l'altra tien
l'occhio alla giustizia e non alle forme legali, e la stessa giustizia tempera
e corregge colla carità. Cosi S. A m b r o gio applicava al diritto civile
quella sua massima,che come ci attesta S. Agostino (2), soleva ripetere al suo
popolo : la let tera uccide, ma lo spirito vivifica. tuttora dalla S.
Congregazione del Concilio,quando trattansi certe questioni, le quali come
quella giudicata da S. Ambro gio, richiedono la più dilicata prudenza. Di tal
modo l'influenza del Consolare romano si stese su tutti irami della scienza e
pratica legale,donando loro.la vitael'amore,che provengono dallacroce diGesù
Cristo. Non ci sarà perciò lecito di conchiudere,che il sommo Arcive scovo il
quale nelle immense occupazioni del suo apostolato quasi mondiale, trovò tempo
e mezzi da gettare le basi di un intera ristaurazione del diritto pubblico e
privato, deve essere salutato,come la personificazione del genio cristiano
nella se conda metà del secolo IV ? S. Ambrogio infatti ben diverso dai grandi
uomini volgari dell'epoca moderna , non studiò gli er rori ed ipregiudizii
dell'età in cui visse se non per combat terli:gli avvenimenti stessi più
fortunosi non lo scossero: non segui ma trascinossi dietro uomini ed
istituzioni, informan doli del suo spirito di forza e di carità":esso
pertanto è a tutto rigor di storia,l'uomo del suo tempo. Ritorna quest'anno il
quindicesimo centenario , da che il Consolare fu eletto e consecrato Vescovo di
Milano.L'impero romano,di cui S.Ambrogio avanti di chiuder gli occhi alla vita
vidde le prime strette di morte,è sparito;ed ibarbari che lo distrussero,avendo
prestato orecchio più docileallelezioni la sciate dal santo,crearono le nazioni
cristiane.A qual punto però siamo noialpresente?Lasocietàprogredisceoretrocede?
Immense innovazionionoranoalcertolospiritoumano,che in questi ultimi tempi
percorse e scrutò tutti i regni della n a tura, sorprendendone preziosi
segreti:esso obbligo il fuoco a servire alle sue industrie , lo aggiogó al
carro e traverso la terra;diede leggi al fulmine e lo costrinse a trasmettere
ad immense distanze il proprio pensiero.Tuttavia nonostante que ste meraviglie,
quale è il diritto pubblico e privato d'Europa e del mondo in quest'anno 1874 ?
D i a m o u n o s g u a r d o i n g i r o : il D i o - s t a t o b a r i a l z
a t o o v u n que i suoi altari e non vi è governo che non gli abbruci in censo
e sacrifichi vittime : e quali vittime ! Sono diverse le forme sotto cui si
presenta ilredivivo paganesimo;ma è in forza deimedesimi principii,che
essoristaural'anticabattaglia, sperando che il maggior progresso delle scienze
fisiche e la maggior forza che ne proviene ai governi,gli daranno di po
IV. ter questa volta abbattere l'indipendenza della Chiesa , ri
durla a servaggio e prepararla alla morte.Dietro al diritto pubblico vien
necessariamente trasformandosi il diritto privato ; il matrimonio, qual fu
consacrato e reso indissolubile dalla fede cristiana, l'istruzione della
gioventù, che deve sottrarsi all'er rore,l'inviolabilità della proprietà sia
privata che collettiva, e cento altre conquiste dei secoli cristiani vanno
ritirandosi in faccia ad altre conquiste, per antifrasi dette moderne.Si grida
progresso: ma basta gridarlo? Frattanto le popolazioni moyon lamenti,simili a
quelli che si udivano nel secolo IV,reclamando contro isempre crescenti
balzelli;una febbre di ricchezzadi vora gli uomini creati pel cielo; e nello
sfondo di un non lon tano orizzonte vediamo avanzarsi il Comunismo , ultima
fase del paganesimo,ilquale viene a prender possesso del mondo in nome della
logica e della Giustizia di Dio. È in questi frangenti che ilvecchio campione
del secolo IV si scosse nella tomba de'suoi quindici secoli e volle rivedere
lasuaMilano. Non spetta certamente all'umana ignoranza di indovinare i d i s e
g n i m i s t e r i o s i d e l l ' a l t i s s i m o : E s s o c e li m a n i
f e s t e r à c o m e e quando crederà meglio.Ma è egli possibile che questo gi
gante di santità ritorni fra noi senza una missione degna di sua grandezza ? Il
consolante dogma dell'intercessione dei santi ci dà diritto alle più soavi
speranze ; poiché la S. Chiesa,e que sta nostra in ispecie,è la vigna già
lavorata da S. Ambrogio ; e la sua visita perciò non può portare che frutti di
benedizione e di pace alla Chiesa ed alla società.Ambrogio. Keywords: Ambrose
and his orchestra, male virgin, virgo, satyr, his brother satyr, san Sebastiano
l’eroe romano, l’eroe stoico – cicerone – uffizi – diritto romano – normativa
dell’impero, sebastiane, vita di sebastiane, nato a Milano – Derek Jarman,
Sebastiane – lingua latina -- -- Refs.:
Luigi Speranza, “Ambrogio e Grice” – The Swimming-Pool Library.
Ambrosoli (Varese). Filosofo. Grice: “I like Ambrosoli: ‘La filosofia
è patrimonio dello spirito e non ha patria; l’hanno, invece, le dottrine e le
scuole.’ But then he dedicates his life to Cattaneo – whose ‘patria’ informs
his philosophy, as it does in Mazzini and in each philosopher Ambrosoli
provided an exegesis for! At Oxford we call such a ‘philosophical historian’!”
-- Il Prof. Luigi Antonio Ambrosoli (Varese), filosofo. È stato uno dei
protagonisti della storiografia italiana del secondo Novecento. Allievo di
Federico Chabod negli anni della Seconda guerra mondiale, si dedicò per tutta
la vita alla ricerca storica, coniugandola con un costante impegno civile per
la sua Varese. Laureato in Filosofia
all'Università degli Studi di Milano, fu dapprima docente di scuola secondaria,
poi preside di scuola secondaria; successivamente fu ordinario di Storia
contemporanea presso l'Università degli Studi di Ferrara, quindi presso l'Università
degli Studi di Padova e infine preside della Facoltà di Magistero presso
l'Università degli Studi di Verona, dove fu anche direttore dell'istituto di
storia. I suoi studi si orientarono
particolarmente alla storia del Risorgimento e, nell'ambito di questa,
all'opera di Carlo Cattaneo, con esiti unanimemente apprezzati sia per il
rigore filologico che per l'acume interpretativo e la ricerca storiografica.
Parallelamente contribuì alla ricostruzione della storia dei movimenti e dei
partiti politici, con saggi dedicati al movimento cattolico e al movimento
operaio e socialista. Grande fu il suo
contributo allo studio del sistema educativo e delle istituzioni scolastiche
nell'Italia del XIX e XX secolo, con apporti interpretativi che ancor oggi sono
il riferimento per gli studiosi del settore.
Collaborò a "Il Ponte" di Piero Calamandrei,
"Belfagor" di Luigi Russo, "Nuova Antologia", "Mondo
Operaio", "L'Avanti!", "Critica storica", "Storia
in Lombardia". Fu anche fervido sostenitore della nascita dell'Università
degli Studi dell'Insubria.
Altre
Opere: “Varese e il Risorgimento”; “Il primo movimento democratico in Italia”
Roma, Edizioni 5 Lune); “La formazione di Carlo Cattaneo, Milano-Napoli,
Ricciardi); “Né aderire né sabotare 1915-1918, Milano, Edizioni Avanti!); “La
Federazione nazionale scuole medie dalle origini al 1925, Firenze, La Nuova
Italia, 1967 (premio Friuli-Venezia Giulia 1969 per un'opera di storia sociale)
I periodici operai e socialisti di Varese dal 1860 al 1926. e storia, Milano, Sugarco); “Libertà e
religione nella riforma Gentile, Firenze, Vallecchi); “La scuola in Italia, dal
dopoguerra ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1982 La scuola alla Costituente,
Brescia, Calzari Trebeschi-Paideia); “Educazione e società tra rivoluzione e
restaurazione, Verona, Libreria universitaria editrice); “Giuseppe Mazzini, una
vita per l'unità d'Italia, Manduria, Piero Lacaita Editore); “Carlo Cattaneo e
il federalismo, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1999 Varese. Storia
millenaria, Varese, Editore Macchione, 2002 Ha curato per l'editore Mondadori i
tre volumi degli scritti dal 1848 al 1853 di Carlo Cattaneo (1967 e 1974) e per
l'editore Bollati-Boringhieri i due volumi degli scritti del «Politecnico» dal
1839 al 1844 (1989).
Onorificenze
Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per
uniforme ordinariaCommendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiana
«Su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri» — 2 giugno 1984 Note Luigi Ambrosoli, ricerca storica e impegno
civile , su va.camcom. 16 luglio . Sito
web del Quirinale: dettaglio decorato, su quirinale. Filosofia Storia Storia Categorie: Insegnanti italiani del XX
secoloStorici italiani Professore1919 2002 15 luglio 20 maggio Varese VareseFilosofi
italiani del XX secolo. Ambrosoli. Keywords: ambrosoli – cattaneo – Mazzini –
insurrezione milanese – filosofia romana – filosofia italiana – filosofia di
varese – ‘La filosofia è patrimonio dello spirito e non ha patria; l’hanno
invece le dottrine e le scuole.” Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ambrosoli”
--.
Amico (Cosenza). Filosofo. Grice: “I like Amico; at the time when
a philosopher’s duty was to watch the stars, he noticed that instruments are
unnecessary given Aristotle’s conception of concentric orbits – His treatise
was highly popular in Padova; therefore, he was killed – I cannot imagine the
same thing happen to Ayer at Oxford after the success of his “Language, Truth,
and Logic””! Insigne studioso di astronomia, brillante nella conoscenza del
latino, del greco e dell'ebraico, abbracciò la scuola di pensiero
dell'aristotelismo padovano del XVI secolo. Fu autore dell'operetta “De motibus corporum coelestium iuxta
principia peripatetica sine eccentricis set epicyclis” (Venezia, Pattavino e
Roffinelli). Frequenta lo studium dei domenicani e Padova sotto Vincenzo Maggi,
Passeri e Delfino. Per il resto della sua biografia si conosce ben poco se non
quanto trapela dalla sua maggiore opera. Dalla sua opera si traggono le uniche
scarne notizie relative alla sua vita, ovvero, come da lui stesso riportato
nell'opera, che fosse cosentino di nascita. Del filone del peripatismo
padovano. Membro dell'accademia di Cosenza. Amico fu il primo a mettere in
discussione il modello peripatetico tolemaico. L’assassinio d’Amico e provocato
dall'invidia della sua filosofia – impicato da un anonimo che compose
l'epitaffio : «IOAN. BAPTISTÆ AMICO Cosentino, qui cum omnes omnium liberalium
artium disciplinas miro ingenio, solerti industria, incredibili studio, Latine
Grece atque etiam Hebraice percurrisset feliciter, ipsa adolescentia suorumque
laborum & vigilarum cursu pene confecto, a sicario ignoto, literarum, ut
putatur, virtutisque, invidia, interfectus est [ammazzatto da sicario ignoto
per invidia delle sue lettere e virtù. --Monumentorum Italiae, quae hoc nostro
saeculo & a Christianis posita sunt, libri 4, pag.11). Assalito, derubato e
ucciso mentre camminava nei vicoli di Padova. Il processo contro ignoti che
seguì accerta che e scomparsa una borsa contenente le carte con rivoluzionarie
osservazioni. Subito dopo, l’Inquisizione istitusce un processo postumo per
eresia contro lui. Dell'Amico fa menzione Telesio nella sua orazione in morte,
ed il filosofo cosentino Aquino che lo define "così grande filosofo”. Cosenza
gli dedica, inaugurandolo, il Planetario della città che sorge a 224 metri
s.l.m. nel quartiere Gergeri del capoluogo bruzio. Note
Amico, Giovanni Battista, su Consortium of European Research
Libraries,//thesaurus.cerl.org/. 16 febbraio .
amico, giovan battista : d', su OPAC
Catalogo del servizio bibliotecario nazionale,//opac. Ioannis Baptistae
Amici Cosentini de Motibus corporum coelestiu iuxta principia peripatetica sine
eccentricis & epicyclis, su OPAC
Catalogo del servizio bibliotecario nazionale,//opac..Francesco Sacco,
Giovan Battista Amico, su Galleria dell'Accademia Cosentina, Consiglio
Nazionale delle Ricerche CNR. Concetta Bianca, DELFINO (Dolfin), Federico, su
Dizionario Biografico degli Italiani, Enciclopedia Italiana Treccani. Elda
Martellozzo Forin, Padova. Istituto per la Storia , Acta graduum academicorum
Gymnasii Patavini Padova, Antenore. 15 febbraio . Per il testo originale dell'epitaffio si veda
Lorenz Schrader, Monumentorum Italiae, quae hoc nostro saeculo & a
Christianis posita sunt, libri 4, Lucius Transylvanus, Le biografie degli
uomini illustri delle Calabrie raccolte Luigi Accattatis, Cosenza, Tip. Municipale,
Giovan Battista Amico, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Coriolano Martirano, L'arco di Ulisse. Vita ed
opera di Giovanni Battista Amici, Bruttium et scientia, Laruffa, Francesco
Sacco, Giovan Battista Amico, su Galleria dell'Accademia Cosentina, Consiglio
Nazionale delle Ricerche CNR. 15 febbraio . Luigi Accattatis, Le biografie
degli uomini illustri delle Calabrie, A. Forni, 1977, 902. 15 febbraio . Mario Di Bono, Le sfere
omocentriche di Giovan Battista Amico nell'astronomia del Cinquecento, Centro
di Studio sulla Storia della tecnica . Franco Piperno, Da Eudosso di Cnido a
Giovan Battista D'Amico da Cosenza, su Università della Calabria, progetto
"Divulgare la Scienza Moderna attraverso l'antichità",//lcs.unical/.Noel
Swerdlow, Aristotelian Planetary Theory in the Renaissance: Giovanni Battista
Amico's homocentric spheres, su Journal for the History of Astronomy,http://articles.adsabs.harvard.edu/.
Astronomi e gli scienziati calabresi del XVI-XVII secoloV CENTENARIO NASCITA DI
G. BATTISTA D'AMICO, in Provincia di Cosenza,//provincia.cs, Filosofi italiani Professore
Cosenza Padova Accademia cosentina. Ioannes Baptista Amicus Cosentinus. Giovan
Battista d’Amico. Giovan Battista Amici. Giovan Battista Amico. d’Amico. Amico.
L’incipit del nostro “Amico”. Gli anni ’30 del XVI secolo
costituiscono una profonda frattura in fisica tra il “prima” e il “dopo”. Gli
studi condotti nei due millenni precedenti vanno in direzione del geocentrismo,
da Galileo in poi la fisica procede verso soluzioni differenti e
l’individuazione del sistema eliocentrico ne e lo snodo fondamentale. Ma fino a
quel momento, tutto ciò che costituisce “il prima” parte da Eudosso, Aristotele
e Tolomeo. Purbach tenta la fusione tra Aristotele e Tolomeo. Osservando il
cielo, si accorge degli errori contenuti nella Tavola di Toomeo. Decide quindi
di recarsi in Italia, per consultare direttamente i manoscritti antichi
nell’arduo tentativo di re-digere della nuova tavola e più affidabili di quella
di Tolomeo, allora d’uso comune in tutta Italia. Purbach insegna a Padova. Prima
affina la capacità di calcolo computando una tavola dei seni per ogni minuto
primo, quindi redige “Theoricae novae planetarium”. Dal punto di vista tecnico,
il testo contiene l’innovazione di svuotare una sfera omocentrica e di aumentare
lo spazio in modo tale da far posto agli eccentrici e agli epicicli di Tolomeo.
Mette a punto le sue nuove tavola, completandone il controllo attraverso la discussione
con i peripatetici veneti ed il confronto con i manoscritti antichi raccolti
nelle biblioteche italiane. Ma qualche settimana prima di lasciare Vienna per
Venezia, muore. Purbach tenta la fusione tra il sistema del modo omocentrico e
quello matematico dell’epi-ciclo. Dopo di lui, vi e Amico, un cosentino, che
rilevera l’impresa. Pochi anni prima la
pubblicazione del capolavoro di Copernico, sia assiste a una fioritura di testi
dati alle stampe ove le speculazioni sulla sfera omocentrica sono sempre e
ancora in primo piano. Il campo della fisica sono ancora troppo giovani per
avere strumentazioni sofisticate e la fisica viene dedotta, assumendo, forse
presuntuosamente, il carattere di verità. Ma qualcosa si muove. La fisica e la
strumentazione progrediscono e gli filosofi stanno procedendo in un processo
senza soluzione di continuità che culminerà nel metodo. Nella diatriba si
inserisce Fracastoro. Voi certamente non ignorate che coloro che si professano
filosofi hanno sempre trovato grandi difficoltà nel rendere ragione dei moti apparenti
che presenta la fisica. Infatti si offrono loro due vie per spiegarli: l’una
procede mediante l’aiuto di quell’orbita che e detta omo-centrica, l’altra per
mezzo di quella che e chiamata eccentrica. Ciascuna di queste due vie ha i suoi
rischi, ciascuna ha i suoi scogli. Chi che fa uso dell’orbita omocentrica non
arriva a spiegare il fenomeno. Chi che fa uso dell’eccentrica sembra, per la
verità, spiegarlo meglio, ma l’opinione che si formano di questi corpi divini è
indegna e, per così dire, empia. Essi attribuiscono loro delle situazioni e
delle figure che non convengono alla natura dei cieli. Sappiamo che Eudosso e
Callippo, i quali tra gli antichi hanno tentato di spiegare i fenomeni per
mezzo dell’orbita omo-centricha, sono stati ingannati più volte in conseguenza
di questa difficoltà. Ipparco è uno dei
primi che preferirono ammettere l’orbita eccentrica piuttosto che restare
ingannati dai fenomeni. Tolomeo lo ha seguito e, subito dopo, quasi tutti gli
astronomi sono stati trascinati da Tolomeo nella stessa direzione. Ma contro
questi astronomi o, almeno, contro l’ipotesi degli eccentrici di cui facevano
uso, la filosofia tutta intera ha sollevato continue proteste. Ma che dico la
filosofia? È piuttosto la natura e le stesse orbite celesti che hanno
protestato senza tregua. Finora non è stato possibile rintracciare un solo
filosofo che acconsentisse ad affermare l’esistenza di queste sfere mostruose
in mezzo a corpi divini e perfetti”114. Ci si accorge, con decisione, l’ambito
della scienza entro il quale si muovo scienziati, astronomi, astrologi e medici
del tempo. La conoscenza maggiore dei classici ha portato una sorta di
involuzione del pensiero, rientrato nell’ottica di quanto già affermato in
passato, senza apportare grandi e significative migliorie. Da questo punto,
invece, pur rientrando nella materia nota a tutti, sarà proprio il giovane
cosentino a dare una ventata di innovazione in senso ovviamente relativo.
114 Girolamo Fracastoro, Homocentricorum, sive de stellis, liber unus, Venetiis
1535, presentazione. Amico è un filosofo cosentino ucciso in Padova. Della sua
biografia si conosce veramente poco: agli esigui dati certi si contrappongono
notizie fantasiose e di provenienza dubbia. Tra i primi a dare informazioni
sulla sua vita c’è Barrio. Vede la luce il suo poderoso lavoro sulla storia
delle città della Calabria, rigorosamente scritto in latino, alle stampe del De
antiquitate et situ Calabriae. Il risultato non soddisfa lo stesso autore, il
quale decide di emendare quella versione, ma la morte impedisce la prosecuzione
di revisione dell’opera. Quattromani inserisce nell’opera postille esplicative.
Per arrivare alla pubblicazione definitiva bisogna attendere sino a quando Aceti,
dopo un lungo e laborioso lavoro completa l’elaborato con aggiunte e note. Di
Amico si legge una sorta di epitaffio nel capitolo dedicato a gl’uomini di
Cosenza eccelsi per santità, dottrina e dignità. Per una disamina riguardo le
informazioni frutto più di fantasia di qualche erudito locale che di sostanza
di fonti cfr. Dalena, Firenze. Thomae Aceti, Accademici Consentini, et
Vaticanae Basilicae clerici beneficiati in Gabrielis Barrii Francicani De
Antiquitate & situ Calabriae Libros Quinque, Nunc primum ex autographo
restitutos ac per Capita distributos, Prolegomeni, Additiones, & Notae.
Quibus accesserunt animadversiones Sartorii Quattrimani Patricii Consentini,
Romae, ex Typographia S. Michaelis ad Ripam Sumtibus Hieronymi Mainardi, come
cita il frontespizio di una delle copie in possesso della Biblioteca Civica di
Cosenza (Fondo Salfi). “Vi fu anche Amico, che descrisse i moti dei corpi
celesti secondo i precetti dei peripatetici, cosa invano tentata per tanti
secoli dagli antichissimi filosofi e se non fosse stato colpito da morte
immatura avrebbe affrontato fatiche maggiori. Aceti, nelle note, aggiunge
l’epigrafe di Padova, addirittura meno lapidaria del conciso inciso di Barrio.
A Padova si legge di lui nel monumento delle epigrafi d’Italia: A Amico,
cosentino, il quale, avendo percorso felicemente le discipline tutte di tutte
le arti liberali con mirabile ingegno, solerte operosità, incredibile passione, ucciso da sicario ignoto. Ucciso, come si
ritiene, dalla invidia delle lettere e della virtù. Le virtù che ad altri
portarono premi e vita perenne, per costui solo furono causa di uccisione. Andreotti,
nella sua Storia dei Cosentini, cita il nostro nell’elenco dei componenti dell’Accademia
telesiana, presieduta dal grande filosofo bruzio. Vi fiore Amico, nato in
Cosenza – educato a Padova – conoscitore sveltissimo della filosofia e della
fisica. fScrisse costui seguendo la
teorica peripatetica, “De motu corporum coelestium”, descrivendo tutti i
movimenti de’ corpi celesti senza ricorrere, secondo che narra l’Aquino nel
discorso su Telesio, per spiegarli a quel movimento eccentrico ed all’epi-ciclo
inventato da Tolemeo, quando vuole conciliare la sua opinione della solidità
de’ cieli co’ moti de’ corpi celesti. Morì egli in Padova, ucciso -- e non appartenne alla citata Accademia, che
nell’epoca in cui per affari di famiglia dimora un anno in Cosenza. La sua
opera va così intitolata – Ioannis Baptistae Amici – De Motu Corporum
coelestium”. La notizia ricalca, con qualche elemento in più, quelle già
incontrate nell’opera del Barrio. Pochi dunque i ragguagli che si possono
ricavare. Abbastanza poco è noto sulla sua genesi. Nato a Cosenza, morto a
Padova, dove ha studiato, esperto nelle lingue colte, specializzato in metafisica
e fisica, ucciso da mano ignota, proprio per la sua capacità filosofica.
Capacità, questa che lo hanno portato a
essere membro della appena sorta accademia. Barrio, Antichità e luoghi della
Calabria, aggiunte e note di Aceti, osservazioni di Sartorio Quattromani, Roma,
trad. it. di Erasmo A. Mancuso, Brenner, Cosenza, presieduta dal ben più noto
filosofo Telesio, “illustre cosentino”. La sua presenza in Accademia è quasi
casuale, essendo rientrato nella città Bruzia solo quell’anno per affari di
famiglia. Al rientro nelle Venezie, trova la morte. Quali informazioni possiamo
estrapolare e spremere dalle fonti è veramente poca roba. Il gentilizio è di
origine incerta. Il cognome è variamente declinator: Amico, Amici o d’Amico, in
quanto nel latino medievale, nel titolo di un testo di utilizza il genitivo per
quanto concerne il cognome dell’autore. Pertanto si presume che ‘Amici’ sia genitivo
di ‘Amico’, mentre ‘Amici’ sia la mera ripetizione, e “d’Amico” la traduzione
italiana *del caso genitive* latino. Per questo motivo , in questa sede si
utilizza la forma più semplice. La famiglia ha una sua importanza nel contesto
della “città libera” di Cosenza, potendo
permettersi, sia pur con enormi sacrifici, il mantenimento di un proprio membro
agli studi in una città, di fama e retaggio culturale ottimi, ma così lontana.
I sacrifici si posso ben immaginare, mancando, nella crescita di Amico, il
padre, essendo prematuramente morto prima della sua nascita. L’assenza del capo
famiglia, nel contesto del XVI secolo, società di fatto a carattere
patriarcale, non ha sicuramente giovato nell’ambito dell’economia familiare,
essendo assente proprio il fulcro stesso dell’istituzione. Ciò nonostante si
può supporre un sicuro benessere, in quanto, anche in assenza del padre, un
giovane rampollo di famiglia di ottimati puo permettersi gli studi lontani da
casa. Nulla si conosce riguardo la sua formazione cosentina. Di certo, grazie a
qualche insegnante, nel corso degli studi del trivio, conosce filosofia. L’ambiente,
dopotutto, è quello emerso dal retaggio glorioso della Mégale Hellàs, ove gli
studi della filosofia, della scienza, della medicina e dell’astronomia erano,
per così dire, all’ “avanguardia”. E anche dopo lo iato medievale. L. Piovan,
Amico, Telesio, Doria: documenti e postille, in “Quaderni per la storia
dell’Università di Padova”. Dreyer, Boquet e Taton utilizzano la forma ‘Amici’,
ma è presente anche la forma ‘De’ Amici’. È a tutti noto che la città di
Cosenza non sube mai vassallaggi tipici dell’infeudazione. -- nuovi impulsi e ritorni agli antichi studi
erano senza dubbio all’attenzione della koiné culturale cosentina. Ne è esempio
lo stesso Barrio. Nella sua monumentale opera, i riferimenti storici sono in
primo piano, così anche è per Fiore e Marafioti, nonché per lo stesso
Quattromani. Una ricostruzione culturale ‘amiciana’, estremamente verosimile si
deve a Piperno. Le arti del trivio, grammatica, retorica e dialettica, portati
a termine nella città brettia gli avevano assicurato la conoscenza attiva e
passiva delle tre lingue sapienziali, aramaico, greco e latino. Dopo tutto
questo, era partito alla volta del Veneto, di Padova in particolare, per
completare, in quello prestigioo studio à, gli studi delle arti del quadrivio,
geometria, aritmetica, astronomia e musica, in vista di intraprendere poi,
presumibilmente, un curriculum filosofico. In quei tempi l’astronomia era
insegnata in funzione della astrologia e questa a sua volta svolgeva un ruolo
ancillare a fronte della medicina, arte che pratica la diagnostica delle
malattie e ritma l’attività di cura secondo il variare delle configurazioni
degli astri nel cielo notturno; insomma la medicina era profondamente
intrecciata con il sapere astronomico in una sorta di ‘astroiatria’”. Sono
conosciuti però i maestri con i quali Amico ebbe modo di formarsi. È egli stesso
a dichiararlo, nella dedica a Ridolfi, introduzione alla sua opera. Questi sono
tutti nomi che fanno parte del gotha scientifico-culturale dell’ambiente
universitario patavino e non solo. Tra i maestri Amico annovera Delfino,
Passeri, e Madio. Delfino è il più celebre insegnante di astronomia e
matematica. Tra i suoi allievi, divenuti a loro volta famosi, si ricordano, oltre
a Telesio e Amico, Contarini, Piccolomini e Fracastoro. Passeri ricopriva, in
quel lasso di tempo, la cattedra di filosofia naturale, è stato l’autore di un
commento al “De anima”. A lui si deve l’introduzione di Amico agli aspetti più
esoterici e raffinati dell’Aristotele autentico. Sull’ambiente culturale
cosentino del periodo cfr. L. De Rose, Cosenza “faro splendidissimo di
cultura”. L’Atene della Calabria e i Brettii raccontati da Barrio, in G. Masi,
Tra Calabria e Mezzogiorno. Studi storici in memoria di Tobia Cornacchioli,
ICSAIC, Pellegrini Editore, Cosenza. Piperno, Ioannis Baptistae Amici..., -- greco;
mentre il Madio o Maggi, che a sua volta aveva scritto un commento alla “Poetica”,
e già divenuto l’interprete più autorevole della tradizine peripatetica, a lui,
ritenuto il “massimo rappresentante peripatetico” si rivolge il Telesio per un
giudizio sulla propria opera. Quando Amico arriva a Padova, la sua vita si
dipana in due diverse settrici: da un lato la vita universitaria, con i suoi
lustri, gli studi i professori, dall’altro la realtà quotidiana, fatta di
privazioni (di affetti, di soldi), di solitudine. Non avendo fonti documentate
che diano certezze a qualunque ipotesi passibile di verosimiglianza, si deve
necessariamente concentrare l’attenzione sul percorso di studi dell’Amico,
percorso, forse, neanche compiuto sino in fondo, non essendo stata reperita in
alcun modo una pergamena a suo nome. La opera di Amico si incastona nell’ambiente
padovano, ricco di stimoli e personaggi, dimenticata dopo la prematura
scomparsa dell’autore, che tanta parte avrebbe avuto nella genesi della scienza
moderna. L’Università patavina vive,
ormai da tempo, la rifioritura della corrente peripatetica sia per quanto
concerne l’astronomia che per le altre scienze della natura – in questo, Padova
e il Veneto si contrappongono a Firenze e alla Toscana dove è affermata, senza
cesura, una adesione esclusiva al platonismo pitagorizzante. Certo, altre città
in Europa, coi loro Atenei, hanno già imboccato la strada che riporta ad
Aristotele. Si pensi, ad 122 Cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche..., cit.,
p. 53. 123 K. M. Pataturk, Opere inedite perché non stampate, né scritte e
neppure pensate, Valle Giulia, Roma. Piperno annota tristi particolari di un
immaginario quotidiano padovano del giovane cosentino, ricostruito da Pataturk,
non credibile e privo di fonti documentarie. L’autore, il più autorevole tra
gli storici ponterandoti dell’astronomia [Pataturk n.d.A.], afferma che Amico,
durante i lunghi e umidi inverni patavini, usasse lasciar dormire in casa,
accanto a sé, sul letto, schiena contro schiena, il suo cane, un massiccio
pastore della Sila Grande, che aveva condotto con sé dalle Calabrie – come per
proteggersi dalla emarginazione anomica che, ieri come oggi, s’accompagna alla
miseria di studente fuori sede squattrinato, in terra veneta. Il particolare
può apparire irrilevante, anzi fatuo; e trattandosi di una fonte incerta perché
irreperibile conviene lasciarlo cadere. Noi abbiamo scelto di farne uso, perché
questa confidenza tra il filosofo ed il cane e considerata una prova per
avvalorare una leggenda metropolitana che identifica il cosentino con il
castigliano Ruy Faleiro, l’astronomo che, su richiesta del vicentino Pigafetta,
aveva sciolto l’enigma del giorno perduto dai marinai della spedizione di
Magellano”. Cfr. F. Piperno, Le imprese di Pigafetta, www. UNICAL/ variazioni
sul tempo. Il nome di Amico (e in alcuna declinazione) non appare negli Acta Graduum
Academicorum Gymnasii Patavicini. Index nominum cum aliis actibus praemissis, a
cura di Elda Martellozzo Forin, Antenore, Padova. M. Di Bono, Le sfere omocentriche...
-- esempio, a Basilea, Norimberga, Praga, Cracovia e la stessa Parigi. Ma,
sebbene questi centri culturali abbiano conseguito risultati ragguardevoli e
anche maggiori, nessuno di essi può “stare a confronto, sul piano della varietà
di approcci, alla comprensione di Aristotele che si manifesta a Padova e nel
Veneto”127. L’Ateneo patavino è campo fertile per l’educazione di astronomi
(astrologi), medici e filosofi naturali, nella limitrofa Venezia sorgono, dopo
la scoperta della stampa, gli impianti artigianali per l’editoria, che permette
a tutti coloro che sono in grado di leggere e ovviamente alle persone istruite
“di entrare in contatto diretto tanto con il pensiero dei classici quanto con
l’elaborazione teoretica allo stato nascente dei contemporanei – non a caso,
sarà nella città lagunare che verranno pubblicate, nel biennio 1536-37, le
prime due edizioni dell’Opusculum, malgrado che il suo giovane autore fosse, a
tutti gli effetti, un perfetto sconosciuto”128. Il ventiquattrenne cosentino
approfitta del particolare contesto storico e, convinto dagli amici Cipriano
Pallavicini e Giovan Battista Aurio, quasi certamente a proprie spese, presenta
il suo lavoro ai tipografi Giovanni Patavino e Venturino Roffinelli, i quali,
appunto, lo propongono in carta stampata. La ristampa del volumetto, con
aggiunte e correzioni, è tangibile prova dell’interesse che suscita l’argomento
e di come è stato affrontato dal giovane autore. La Repubblica marinara di
Venezia interpreta così il ruolo di collegamento tra le grandi civiltà
mediterranee, latina, bizantina e araba; divenendo, per dirla con De Bono, il
centro di riferimento obbligato tanto per i commerci librari quanto per i saperi
astronomici. Schimitt, L’aristotelismo nel Veneto e le origini della scienza
moderna, in L. Olivieri, “Aristotelismo veneto e scienza moderna”, Antenore,
Padova. Piperno, Ioannis Baptistae Amici... . Piovan, Giovanni Battista Amico. L’autore
documenta come il filosofo cosentino Bernardino Telesio, a Padova nel 1538, si
assunse l’onere dell’eredità debitoria di Giovan Battista Amico, saldando una
pendenza di venti scudi veneti a favore di un certo Giovanni Battista Doria,
d’origine genovese e ritenuto per pregiudizio dedito all’usura. L’entità della
somma è tale da supporre che Amico abbia impiegato i venti scudi per pagare il
tipografo veneziano che aveva stampato il suo Opusculum. Cfr. M. Di Bono, Le
sfere omocentriche... . Resta insuperato il citato lavoro di Braudel riguardo
l’importanza della Serenissima quale coacervo di culture, orientale,
mediterranea e del Nord Europa. 91 Limitandoci qui solo ai testi
d’astronomia editi a Venezia o nel Veneto, vi sono molte editiones principes
degli autori dell’antichità: Arato, Manilio, Aristarco, Proclo, Macrobio,
Igino, Marziano Cappella e così via. L’Almagesto di Tolomeo viene stampato, una
prima volta nel 1515, recuperando dall’epoca medievale, una vecchia traduzione
dall’arabo in latino a cura di Gerardo da Cremona; una seconda volta nel 1528,
sempre nella traduzione latina ma questa volta, ormai in pieno Rinascimento,
dall’originale greco, per opera di Luca Gaurico. L’editoria veneta degli inizi
del secolo XVI non trascura certo le opere astronomiche più recenti o
contemporanee: vedono infatti la luce i testi di Alcabizio, Purbach, Bate di
Malines, Sacrobosco, Regiomontano e così via131. L’aristotelismo veneto non è
una nicchia per accademici, ma una sorta di ideologia filosofica che impregna
di sé tanto la comunità dei colti quanto l’attività produttiva. Si ricordi che
a Venezia esisteva allora un artigianato altamente qualificato che costruiva le
lenti per i presbiti, usando le leggi dell’ottica geometrica riformulate dai
peripatetici arabi. Questa trasversalità rende l’Ateneo patavino una tappa
prestigiosa per i curricula dei più grandi filosofi naturali che insegnano
astronomia; e di conseguenza a Padova convergeranno molti tra i più dotati
studenti di astrologia, matematica e medicina, non solo dall’Italia ma da tutta
Europa. Cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche..., cit.. L’astronomia del
De Motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentrici et
epicicli di Amico Un anno dopo la stampa de Gli omocentrici di Fracastoro132,
Giovan Battista Amico pubblica il suo opuscolo su medesimo tema. Che i due
astronomi siano debitori alle teorie di Eudosso è lo stesso astronomo cosentino
a dichiararlo nei suoi scritti: “Tra gli antichi alcuni si sono sforzati di
unire l’astrologia alla filosofia naturale, altri , al contrario, hanno cercato
di separare queste due scienze. Infatti, Eudosso, Callippo e Aristotele hanno
cercato di ricondurre tutti i movimenti non uniformi, che i corpi celesti ci
presentano, a dei collegamenti tra le orbite omocentriche riconoscibili in
natura; Tolomeo, all’opposto, e coloro che hanno seguito il suo metodo hanno
voluto, andando contro la natura delle cose, ridurle ad eccentrici ed
epicicli”. “Gli astronomi attribuiscono i fenomeni che percepiamo, quando
osserviamo i corpi superiori, agli eccentrici e a quelle sferette che vengono
chiamate epicicli. Ma la loro riduzione di tutti questi effetti a tali cause è
pessima. D’altra parte, non ci si deve meravigliare se hanno errato in tale
riduzione, poiché, come afferma Aristotele nel primo libro degli Analitici
Secondi, ogni soluzione diventa difficile allorché coloro che hanno la pretesa
di averla trovata fanno uso di principi falsi. Dunque, se la natura non conosce
né eccentrici né epicicli, secondo la giusta espressione di Averroè, sarà bene
che anche noi rifiutiamo tali orbite. Noi lo faremo tanto più volentieri in
quanto gli astronomi attribuiscono agli epicicli e agli eccentrici certi
movimenti che chiamano inclinazioni, riflessioni o deviazioni, che non possono
convenire in alcun modo, almeno a mio parere, alla quinta essenza”133. “In
quest’opera, forse, non si troverà nulla di completo, ma riterrò di aver fatto
abbastanza se riuscirò a eccitare gli spiriti più illustri al desiderio di
rendere più chiara questa spiegazione” (Ep. ad card. Nicolaum Rodulphum). 132
Girolamo Fracastoro, Homocentricorum, sive de stellis, liber unus, Venetiis
1535. 133 Giovanni Battista D’Amico, De motibus corporum coelestium iuxta
principia peripatetica sine eccentris et epicicli, Venetiis 1536, cap. 1 e cap.
Frontespizio dell’esemplare conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli.
Prima edizione del De Motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica
sine eccentrici et epicyclis di G.B. D’Amico, Venezia 1536 94 Nella
dedica al Cardinale, il cosentino Amico avverte, con umiltà, l’intento dei suoi
studi, confessando, in pratica, la gratitudine che deve a chi lo ha preceduto:
i classici greci e latini e i trasmettitori arabi. Nei primi sei capitoli
dell’opuscolo, secondo la tradizione, egli compone un breve excursus delle
dottrine astronomiche di Eudosso, Callippo e Aristotele, concludendo che
l’osservazione millenaria della volta celeste non autorizza a pensare che la
natura sia costretta a muoversi per epicicli ed eccentrici. Dal settimo
capitolo inizia a declinare le proprie teorie riguardo l’assetto cosmico.
Amici, per primo, opera un vero e proprio pensiero critico riguardo le teorie
antiche, e sebbene rimanga entro lo stretto cerchio di esse, promuove nuove
formulazioni. Il cosentino dimostra dapprima che se vi sono due sfere
omocentriche contigue i rispettivi assi perpendicolari tra di loro e se i poli
della sfera esterna si muovono da una parte e dall’altra rispetto alla
posizione media; se accade tutto questo, allora si vede facilmente che la sfera
interna ora accelera ora ritarda. Subito dopo osserva che se i poli delle due
sfere formano, più in generale, un angolo di n° gradi e l’uno ruota in verso
contrario rispetto all’altro con velocità doppia, allora il movimento
complessivo sarà una oscillazione su un arco di 4n° (Fig. 33) – in questo
calcolo così elegante il nostro giovane Amico rivela quanto il suo talento
debba, nella sua formazione accademica,alla geometria alessandrina rielaborata
dagli arabi134. 134 F. Piperno, Ioannis Baptistae Amici..., cit. 95
Fig. 33 Introdotta questa innovazione nel sistema eudossiano, il giovane
astronomo può concludere che sono sufficienti quattro sfere per ricostruire i
movimenti apparenti del Sole; mentre per i sei pianeti – la Luna secondo la
tradizione viene considerata tale — ne occorrono di più. 96 Si evidenzia
pertanto una aggiunta di sfere che renda possibile la “salvezza dei fenomeni”,
a discapito di un complicazione che già è palese ai tempi di Aristotele, che
comporta un numero di sfere aumentato a ottantanove, come risulta evidente
nella tabella (3) seguente: Tabella 3 EUDOSSO Saturno 4 Giove 4 Marte 4
Venere 4 Mercurio 4 Sole 3 Luna 3 CALLIPPO 4 4 4 +1 =5 4 +1 =5 4 +1 =5 3 +2 =5
3 +2 =5 ARISTOTELE AMICO 4 +3 =7 16 4 +3 =7 16 5 +4 =9 16 5 +4 =9 13 5 +4 =9 13
5 +4 =9 4 5 55 89 11 26 33 Di conseguenza, il subito solleva una
obiezione decisiva alla teoria tolemaica: la Luna di certo non si muove su un
epiciclo giacché, se così fosse, non potrebbe mostrare, osservata dalla Terra,
la stessa faccia, come invece a noi tutti capita di costatare — secondo la
fisica aristotelica un corpo che compia una rivoluzione attorno ad un centro
deve rivolgere a quest’ultimo sempre il medesimo lato (Fig. 34). cosentino
passa ad esaminare nel dettaglio l’orbita lunare; e 97 Fig. 34
Formulata così l’obiezione, il giovane astronomo si affretta a generalizzarne
la portata: anche gli altri pianeti non possono muoversi su epicicli dal momento
che i pianeti, corpi intrisi di divina perfezione, devono dipanare i loro
percorsi in forme perfettamente analoghe e altrettanto pregne della succitata
perfezione sublime. Quattro sfere vengono quindi assegnate a ogni pianeta, in
grado di svolgere il ruolo previsto, nella teoria tolemaica, per gli epicicli.
La sfera più esterna, detta d’accesso, ha i suoi poli nel piano dell’orbita
planetaria e si muove da Nord a Sud con la stessa 98 velocità con la
quale si muoverebbe il corrispondente epiciclo tolemaico. La sfera successiva,
più interna, presenta dei poli che distano da quelli della prima di un quarto
del diametro dell’epiciclo. Codesta sfera adiacente si muove in direzione
contraria alla prima ma a velocità doppia. La terza sfera, ancora più interna,
detta di recesso, i cui poli giacciono sull’orbita planetaria, si muove da Sud
a Nord. Infine, la quarta sfera, la più interna, ha il suo asse a perpendicolo
rispetto al piano dell’orbita planetaria e ospita, incastonato, il pianeta su
un suo cerchio massimo. La composizione dei diversi movimenti delle quattro
sfere dà luogo, di solito, al moto progressivo annuale del pianeta, da Ovest
verso Est; come, di tanto in tanto a quello retrogrado, da Est verso Ovest.
Solo la Luna, per via della alta velocità della sua quarta sfera, presenterà
unicamente il moto progressivo,sia pure appesantito, di tempo in tempo, da un
certo ritardo (Fig. 35). Fig. 35. 99 Dopo avere così ricostruito
qualitativamente, senza l’uso degli epicicli, tanto la regressione dei pianeti
quanto il ritardo della Luna, il giovane astronomo affronta il problema ben più
intricato di dar conto della variazioni della durata del moto regressivo
planetario e del ritardo lunare. Questo insoluto è risolto con l’attribuzione a
ogni pianeta di altre tre sfere poste tra la sfera d’accesso e quella di
recesso già introdotte, in modo che venga opportunamente variato l’arco
percorso durante il moto retrogrado. Inoltre, per prevenire lo spostamento
della posizione planetaria verso latitudine più alte di quelle osservate,
introduce altre tre sfere – portando così a dieci il numero totale di sfere per
pianeta; e come se ancora non bastasse, per la Luna aggiunge una undicesima
sfera destinata a spiegare il moto ciclico della linea dei nodi lunari,
l’antico Saros dei babilonesi che si ripete ogni diciotto anni circa135.
Malgrado l’evidente complessità del sistema del mondo così costruito, il
cosentino si rende perfettamente conto che dieci sfere a pianeta non sono
ancora sufficienti a dar conto di tutti i movimenti celesti reperiti lungo i
millenni dagli astronomi; e aggiunge così altre sfere, portando alla fine a
sedici quelle relative a Saturno, Giove e Marte, mentre per Venere e Mercurio
ne basteranno, si fa per dire, solo tredici. L’astronomo inoltre ritiene, non
certo a torto, che per procedere a d una previsione numerica, attraverso il suo
sistema del mondo, delle posizioni e dei movimenti dei corpi celesti occorre
fissare con maggiore precisioni le inclinazioni reciproche degli assi delle
diverse sfere; e per far questo si richiedono ulteriori minuziose osservazioni
dei sei pianeti e del Sole. Quanto alle stelle fisse, quelle incastonate
nell’ottava sfera, bisogna che quest’ultima, oltre alla rotazione diurna sia
affetta anche da un altro movimento, chiamato trepidazione, che ricostruisca la
lenta precessione degli equinozi – il che, secondo la fisica aristotelica, può
avvenire solo dall’esterno ovvero deve esistere una nona sfera che trasmette
all’ottava il moto che emana dal motore immobile (Fig. 36). Fig. 36. Si noti
che Amico non confronta la sua teoria con le osservazioni astronomiche più
recenti, bensì ne fa di sue e si tratta di osservazioni del tutto innovative.
Il suo programma è quello di ritrovare tutti i risultati dell’astronomia
tolemaica usando il sistema omocentrico piuttosto che gli eccentrici e gli
epicicli. Non si pone il problema della correttezza sperimentale delle misure
ereditate dalla tradizione medievale. Inoltre l’astronomo cosentino non si
rende affatto conto che il suo sistema, pur intendendo fare salva la fisica
peripatetica, in realtà le va decisamente contro. La capacità che ha il sistema
omocentrico di ricostruire, sommando moti circolari, il movimento rettilineo
dei pianeti nella fase di retrogradazione, testimonia che tra cerchio 101
e retta non v’è quella differenza cosmologica affermata dalla fisica
peripatetica, secondo cui nel senso che il cerchio appartiene alla perfezione
del mondo sopralunare mentre la retta è partecipe del mondo sub lunare, della
imperfezione terrestre137. Bisogna aggiungere ancora che l’Amico è del tutto
consapevole delle obiezioni alle quali va incontro il sistema omocentrico. La
prima si riferisce al fenomeno della variazione del diametro e della luminosità
apparente dei sette pianeti; per esempio, la Luna si mostra più grande in
quadratura che alle sizigie, il Sole ha dimensioni maggiori d’inverno che in
estate, Marte presenta una luminosità variabile con la posizione sulla fascia
zodiacale. Questi fenomeni, infatti, sembravano indicare che la distanza Terra-
Pianeta fosse variabile; e questo era una obiezione fatale al sistema
omocentrico, che richiede appunto una simmetria sferica ovvero la conservazione
della distanza. Amici si confronta con questa questione e la risolve spiegando
come il fenomeno sia dovuto alla contingenza che l’etere frapposto. tra la
Terra ed il Pianeta osservato, non ha una densità uniforme. È necessario
indagare questa spiegazione in dettaglio, giacché, malgrado si sia rivelata
erronea, contiene un tratto essenziale della nuova fisica, quella basata
sull’esperimento e non sull’esperienza. Amici, a Padova ha confidenza con gli
artigiani degli opifici i veneziani – dove si lavorano le lenti per correggere
miopia e presbiopia – e sa che un oggetto guardato attraverso la lente appare
più grande in ragione diretta allo spessore della lente stessa. Egli, quindi
generalizza la verità di questo esperimento all’universo nella sua interezza,
ponendo alla teoria basi di “ottica empirica”. Di conseguenza i pianeti
osservati dalla terra, malgrado si tengano sempre alla stessa distanza, ci
appaiono più grandi quando, lungo lo zodiaco, si trovano in un punto nel quale
l’etere è più denso. Analogamente la Luna si mostrerà più grande alle
quadrature piuttosto che alle sizigie perché in queste ultime il suo forte
splendore dirada l’etere che la circonda, sicché noi la vediamo come attraverso
una lente più sottile che alle quadrature. L’altra obiezione è più di senso
comune ma non per questo meno significativa. Il sistema omocentrico, rivisitato
da Amici, resta notevolmente macchinoso. Esso, come mostrato nella tabella
numero 3, richiede un numero di sfere nettamente superiore tanto di quello
aristotelico quanto dei deferenti tanto degli epicicli tolemaici. Il giovane
astronomo, però, rigetta l’obiezione affermando che egli cerca di ricostruire
il cosmo così come realmente è, riproducendolo per similitudine su scala
ridotta; ed è meno interessato ad un modello che rende sì più facile i alcoli
ma comporta movimenti fisicamente inammissibili. Altrimenti detto, il
cosentino, pur destreggiandosi assai bene con la geometria solida, si riconosce
nella schiera degli “astronomi philosophi” intenti a conoscere la realtà del
mondo e non in quella degli “astronomi matematici” indaffarati a formulare
previsioni astronomiche quando non astrologiche, sulla base del computo.
L’Opusculum si presenta come un trattato moderno, nel senso che il criterio di
verità è assicurato dalla corrispondenza tra realtà fenomenica e proposizioni
della teoria, e non già, come nella teologia medievale, tra fenomeni e parole
della Sacra Scrittura o, andando ancora più a ritroso nel tempo,
l’interdipendenza tra teorie scientifiche e filosofico/religiose del mondo
antico. Nel mondo amiciano e del secolo della Rinascita Dio è una ipotesi di cui
si può fare a meno, e non si trova nell’opuscolo una benché minima citazione
biblica. La separazione tra scienza e fede, così tipica della modernità,
afferma Piperno, è stata già totalmente interiorizzata dall’astronomo
cosentino. L’Opusculum di Amici, come già detto, aveva vissuto una stampa e una
ristampa a Venezia, poi, presso lo
stesso editore. E ancora una terza, postuma, questa volta a Parigi, a cura di
Guillaume Postel, un intellettuale cosmopolita qualche po’ enigmatico, in
bilico tra profezie millenaristiche e rigore scientifico – miscela non insolita
per l’epoca. Tre edizioni di rilievo europeo nel giro di pochi anni e poi uno
stato di latenza, quasi catalettico. Ssi pensi che il suo libro non sarà citato
nella letteratura astronomica fino a quando Dreyer, nella sua classica storia
della cosmologia, gli render. -- Amico non scompare del tutto dalle fonti
letterarie. Il suo nome, assieme a una sintesi dell’Opusculum appare in molti
testi di storia locale quando si ricomincia ad occuparsi di lui in quanto
astronomo: cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche..., -- onore, dedicando
all’astronomo nato a Cosenza un intero paragrafo, volto alla rivalutazione
della figura e dell’opera di Amici. La ragione del lungo silenzio che avvolge
per secoli il nome dell’astronomo cosentino è dovuta al trionfo della fisica di
Galileo in Italia. Infatti, appena solo cinque anni dopo l’assassinio di Amico,
usce dai torchi di una tipografia di Norimberga, il “De Revolutionibus” di
Copernico, canonico della cattedrale di Frauenburg, ben più noto con il nome
latinizzato. La diffusione del De Revolutionibus e capillare in tutta Italia, e
le copie del libro saranno rieditate all’infinito è in atto la pacifica
rivoluzione scientifica, meglio nota come rivoluzione copernicana o di galileo.
L’elaborazione dela fisica subisce uno spiazzamento; lo scontro per l’egemonia
teoretica non avverrà più tra peripatetici e tolemaici, bensì tra questi ultimi
ed i copernicani. Prima si confrontavano due sistemi del modo, entrambi geo-centrici
e geo-statici, che si riferivano alla stessa fisica. Oa la competizione va
svolgendosi tra il sistema geo-centrico argomentato con la fisica aristotelica
e quello elio-centrico bisognoso di una nuova fisica. In questo quadro, Amico
sembra avere imboccato la giusta strada ma in direzione sbagliata. In effetti,
il filosofo cosentino ha posto la domanda decisiva per risolvere la crisi che
agli inizi del XVI secolo attanaglia il sapere astronomico: come riunificare
l’aritmetica di Euclide con la filosofia naturale o astronomia. La questione è
quella giusta. Ma la risposta – massaggiare il cuore ormai esausto d’
Aristotele – s’è rivelata troppo macchinosa; e dunque erronea. Dreyer, A
History of astronomy..., cit. Oltre a questo testo che descrive a grandi linee
il sistema amiciano, va ricordato l’articolo di Swerdlow, Aristotelian
Planetary Theory in the Renaissance: Amico’s Homo-Centric Spheres, in “Journal
of Astronomy”, e ancora l’importante
saggio di Di Bono e i lavori di F. Piperno, qui ampiamente citati. Nato a
Thorn, sulle rive della Vistola, terra incognita contesa tra l’Ordine dei
Cavalieri Teutonici e il Regno di Polonia; anche lui, come Amico, giunto a
Padova, per studiare astronomia e medicina. Mi piace ricordare che ben diciotto
secoli prima Aristarco di Samo ha messo in atto la teoria elio-centrica.
Copernico, anche lui, si è mosso, in qualche modo, guardando indietro: con
l’abissale differenza che i tempi sono ormai maturi. Sulle accuse di empietà
mosse ad Aristarco cfr. L. De Rose, Le ragioni dell’etica nei confronti della
scienza. Tre esempi in epoca antica, in F. Garritano, E. Sergio, Scienza ed
etica, «Ou. Riflessioni e provocazioni». Eppure, sarà proprio quella
ricomposizione, cercata e non trovata da Amico, a dar luogo alla scienza
moderna e quindi alla modernità tout-court – poco più di mezzo secolo dopo, per
opera dei Galilei, toscano tutt’altro che aristotelico, piuttosto intriso di
neo platonismo. -- Giovan Battista, astronomo talentato, è morto giovanissimo,
ucciso forse senza una ragione, prima di poter portare a compimento il suo
destino, forse perché “caro agli Dei”, come vuole la sapienza antica. Non è
dato sapere quale sarebbe stata l’evoluzione del pensiero di Amico, il suo
destino intellettuale, il suo karma scientifico, se fosse vissuto abbastanza,
soltanto pochi anni ancora, da imbattersi nel De Revolutionibus di Copernico.
Le cose non sono andate così; e un giovane dal destino incompiuto, ma
dall’indiscutibile intelligenza ha potuto solo tentare di dare un senso a
teorie che valgono solo dal punto di vista dell’osservatore. Questo è un mondo
antico, come direbbe Leopardi spazzato via a guisa di una mera illusione dalla
rivoluzione astronomica prima e dalla mentalità moderna dopo. F. Piperno,
Ioannis Baptistae Amici..., cit. 146 G. Leopardi, Storia dell’Astronomia, in F.
Piperno (a cura di), Arcavacata, Centro Editoriale UNICAL, 2001, p. 18. 105. Keywords: planteario di Cosenza, pianeta, de motibus
corporis coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis set epicyclis
– motti de’ corpori celesti giusta i principi peripatetici senza eccentrici ma
con epicicli”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Amico” – The Swimming-Pool
Library.
Amidei (Peccioli). Filosofo. Grice: “I like Amidei; he knew
Beccaria well, and thinks, with H. L. A. Hart, that debtors should not
necessariliy go to jail, to which Beccaria famously responded: ‘depends on what
you mean by necessarily should’” -- Cosimo
Amidei (Peccioli), filosofo. Frontespizio del Discorso filosofico-politico sopra
la carcere de' debitori di Cosimo Amidei, ed. Harlem (Paris), 1771. Non si sa
quasi nulla sulla biografia di Cosimo Amidei. Figlio del dotore in
giurisprudenza Domenico Amidei di Peccioli (Pisa), si laureò in Giurisprudenza
all'Pisa probabilmente nel 1746. Per le modeste condizioni della famiglia nel
1739 aveva chiesto di essere ammesso al Collegio di Sapienza, e aveva ottenuto
un posto gratuito il 1º novembre 1741,. Stando ad una lettera di Alessandro
Verri al fratello Pietro, Amidei era un magistrato fiorentino, "notaro
criminale". Fra le poche cose certe
vi è quella che conobbe personalmente Cesare Beccaria, di cui era un ammiratore
e con cui fu in corrispondenza fin dal 1766. Altre opere: “Discorso
filosofico-politico sopra la carcere de debitori”; "La Chiesa, e la
Repubblica dentro i loro limiti. Concordia discors” -- dell'origine
della potestà ecclesiastica -- degli oggetti sopra de' quali si reggira la
postestà ecclesiastica -- dell'origine della potestà politica -- del sovrano --
delle conseguenze -- delle cause della forza della potestà ecclesiastica ne'
governi temporali. de' limiti del sovrano o potestà politica
-- dell'immunità, privilegj ed esenzioni de' beni ecclesiastici -- de'
priviolegij ed esenzione personali degli ecclesiastici -- dell'asilo -- del
matrimonio -- del celibato -- delle professioni religiose -- del
giuramento -- de' benefizj ecclesiastici -- della scomunica -- della
proibizione de' libri -- della religione, e della politica. “De' mezzi per diminuire i mendichi.” L'Amidei è noto
soprattutto quale autore del "Discorso filosofico-politico sopra la
carcere de' debitori" (1770). Ispirata direttamente dal paragrafo XXXIV
del "Dei delitti e delle pene" del Beccaria, l'opera è considerata
una delle più importanti espressioni del riformismo e dell'umanitarismo
settecentesco. L'opuscolo ebbe immediatamente successo: fu recensito con favore
dalle "Novelle letterarie" di Firenze, e dal "Journal
encyclopédique"; l'anno seguente ebbe una seconda edizione, con
osservazioni di Giambattista Vasco, uscita a Milano presso lo stampatore
Galeazzi, e ancora una edizione in testo bilingue italianofrancese. Il testo di
Amidei influì certamente sulla riforma leopoldina del 1776, che, per merito del
ministro Francesco Maria Gianni, abolì la carcerazione per debiti (ma occorre
ricordare come un'analoga riforma venisse promulgata anche in Russia). Nella
concezione relativistica delle leggi e nella critica alla legislazione romana
dell'illuminismo giuridico-politico toscano di quegli anni, l'opera di Amidei
si arricchisce di spunti egualitari rousseauiani (rarissimi ancora nel pensiero
illuministico toscano) dai quali Amidei ottiene la giustificazione teorica per
l'abolizione della pena detentiva dei debitori. Una nuova edizione dell'opera,
apparsa in Firenze nel 1783, è una prova dell'esistenza in vita di Cosimo
Amidei nel 1783; dopo di allora, infatti, non si hanno più notizie biografiche
certe su di lui. La Chiesa e la
Repubblica dentro i loro limiti All'Amidei è attribuita anche un'opera edita
poco prima il Discorso sopra la carcere de' debitori, "La Chiesa e la
Repubblica dentro i loro limiti". L'opera, pubblicata anonima nel 1768, è
stata attribuita a Cosimo Amidei a partire dal 1770, anno di pubblicazione del
Discorso filosofico-politico sopra la carcere de debitori. Finora mancano però
elementi sicuri per confermare tale attribuzione, attestata solo da alcuni
cataloghi di biblioteche e di cui non v'è notizia neppure nel "Dizionario
di opere anonime e pseudonime" di Gaetano Melzi. L'opera uscì anonima e
senza indicazione del luogo dell'edizione; dovrebbe trattarsi di Pavia o di
Firenze. Molti contemporanei ritennero che fosse Napoli, identificando
probabilmente l'edizione originale con una edizione ampliata, con falsa
indicazione di luogo Amsterdam, sequestrata presso lo stampatore Campo di
Napoli; si tratterebbe in realtà di una ristampa contraffatta dello scritto
apparsa nella città partenopea prima che fosse posta in vendita l'edizione
proveniente da Firenze, e che venne sequestrata per la "sediziosa
proposizione" dell'origine popolare della sovranità. Al suo apparire,
infatti, per alcuni spunti contrattualistici rousseauiani, l'opera richiamò
l'attenzione dell'autorità laica ed ecclesiastica e le vicissitudini di cui fu
oggetto sono ritenute importanti per ricostruire la fortuna di Jean-Jacques
Rousseau in Italia. A Roma, autore dell'opera fu ritenuto il Beccaria, e nel
clima di irrigidimento contro le correnti giurisdizionalistiche e
illuministiche che caratterizzò gli ultimi anni di pontificato di Clemente
XIII, essa fu posta all'Indice nel 1769.
De' mezzi per diminuire i mendichi Anche quest'opera, pubblicata anonima
nel 1771 senza indicazione di luogo, ma probabilmente a Firenze, è solo
attribuita a Cosimo Amidei; ma l'attribuzione risale già ai contemporanei,.
L'autore sostiene, in base a una concezione fisiocratica, che il grave problema
possa essere risolto solo per mezzo di una riforma fiscale. Note
Società storica pisana, Bollettino storico pisano 1965300. Società storica pisana, Bollettino storico
pisano 1932517. Carteggio di Pietro e
Alessandro Verri. F. Nevati ed E. Greppi, III (agosto 1769settembre 1770)
Milano 1911, 194-195 C. Beccaria, Scritti e lettere inediti, E.
Landry, Milano 1910289. Landry segnala quattro lettere dell'Amidei al Beccaria,
in Biblioteca Ambrosiana, Milano. Beccaria, B. 231). Frontespizio di Scritti e lettere inediti del
1910 Carteggio di Pietro e Alessandro
Verri, F. Nevati ed E. Greppi, III (agosto 1769settembre 1770) Milano
1911210 Novelle letterarie, 16 febbr.
1770, n. 7, coll. 103 s. Journal
encyclopédique, 1º giugno 1770314
"Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori",
Harlem, et se vend a Paris: chez Molini libraire rue de la Harpe, vis-a-vis la
rue de la Parcheminerie, 1771. F.
Venturi, Settecento riformatore, 2. , Torino, Einaudi, 1976237-249 Archivo General de Símancas, Estado Legajo
6102, lettera di Bernardo Tanucci al marchese Domenico Grimaldi Portici 13
dicembre 1768, f. 157 v. Savio, "Dottrina ed azione dei giurisdizionalisti
del sec. XVIII", in Arch. Veneto, s. 5, LXII (1958), 12 n. 2, 31 ss. vedi lettera citata del Tanucci al
Grimaldi Marco Lastri, Bibliotheca
georgica, ossia Catalogo ragionato degli scrittori di agricoltura, veterinaria,
agrimensura, meteorologia, economia pubblica, caccia, pesca ecc. spettanti
all'Italia, Firenze, 178745 Carteggio di
Pietro e Alessandro Verri. F. Nevati ed E. Greppi, III 17661797, Milano
1911. M. Rosa, AMIDEI, Cosimo, in
Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
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italiani Filosofia Categorie: Giuristi italiani del XVIII secoloFilosofi
italiani ProfessorePeccioli FirenzeIlluministiAmidei. AMUCO: not found. AMIDEI,
Cosimo. - Magistrato fiorentino, "notaro criminale", stando ad una
lettera di Alessandro Verri al fratello Pietro; dati biografici di lui sono
pressoché inesistenti, allo stato attuale della ricerca, se si esclude la
notizia di suoi rapporti con il Beccaria (che l'A. conobbe personalmente e del
quale fu ammiratore), desumibile da un gruppo di lettere dell'A., del 1766-68,
e qualche rapido cenno nella ricordata corrispondenza dei Veri. L'A. è
noto quale autore del Discorso filosofico-politico sopra la carcere de'
debitori, s. l. [ma Modena] 1770, che, ispirato direttamente dal paragrafo
XXXIV del Dei delitti e delle pene, fu recensito con favore dalle Novelle
letterarie di Firenze, 16 febbr. 1770, n. 7, coll. 103 s., e dal Journal encyclopédique,
1 giugno 1770, p. 314. L'opuscolo è un'interessante espressione del
riformismo e dell'umanitarismo settecentesco: esso nella concezione
relativistica delle leggi e nella critica alla legislazione romana (partecipe
in questo del diffuso antiromanesimo del tempo) si arricchisce di spunti
egualitari rousseauiani, rarissimi ancora nel pensiero giuridico-politico
toscano di quegli anni, ed anzi proprio dal pensiero di Rousseau ricava la
giustificazione teorica per l'abolizione della pena detentiva dei debitori (pp.
22-23 dell'ediz. del 1783). Non sfuggi ai contemporanei questo contenuto
sociale dello scritto di là dall'aspetto giuridico della questione tanto che
"persona illuminata" venne richiesta di note al Discorso dell'Amidei.
Apparve cosi, presso lo stampatore Galeazzi di Milano, una seconda edizione
dell'opuscolo, con osservazioni di Giambattista Vasco che ripropose le sue già
note concezioni economico-sociali: Discorso filosofico-politico sopra la
carcere de' debitori accresciuto di note critiche dall'autore de' Contadini, s.
n. t. (cfr. recensione in Europa letteraria, I, 1, 1 sett. 1770, p. 101).
L'anno seguente esso fu edito ancora in testo bilingue, italiano e francese,
Harlem et Paris 1771; ed influi certamente sulla riforma leopoldina del 1776,
che, per merito del ministro Gianni, abolì la carcerazione per debiti (ma sarà
da ricordare qui come anche in Russia venisse promulgata un'analoga
riforma). Nel 1783 a Firenze lo stesso A. curò una nuova edizione
dell'opuscolo, con aggiunte riguardanti "un nuovo progetto di riforma
della Legislazione":l'esigenza di riforma nel campo della procedura penale
si articola in un discorso più ampio, di carattere amministrativo ed
economico-sociale (sul diritto di proprietà). Nelle critiche rivolte ai già
aboliti sistemi dell'Abbondanza e della Grascia, e nella polemica contro le
primogeniture e i fidecommessi, già colpiti dalla legge del 1747, dei quali
viene reclamata la totale soppressione, è introdotto ancora, a difesa di un
libero sistema di economia, il motivo umanitario-egualitario che informa tutto
lo scritto (v. partic. p. 58). Il Giornale enciclopedico di Milano, 1783, t IV,
parte letter., 24 Ott., n. 17, p. 138, sottolineò il significato dell'opera
dell'A., che resta a conferma dell'eco profonda, in Italia e in Europa, di uno
degli aspetti del pensiero del Beccaria. All'A. è attribuita un'opera di
poco precedente il Discorso, La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, s.
l. [ma Firenze] 1768; 2 ediz. ampliata, Amsterdam [Firenze?] 1783. Finora
mancano però dementi sicuri per confermare una tale attribuzione, attestata
solo da alcuni cataloghi di biblioteche (e di cui non v'è notizia neppure nel
Melzi, Diz. di opere anonime e pseudonime). L'opera, particolarmente
importante nell'ambito della pubblicistica giurisdizionalistica del tempo (cfr.
Passerin), contiene chiari spunti contrattualistici rousseauiani, che l'autore
non sviluppa però in senso antiassolutistico: l'interesse è proiettato invece
sui "diritti della Sovranità [che] non si perdono per il non uso, per
essere originalmente ne' Popoli", sui diritti dei principi circa sacra e
sui limiti che la potestà civile può e deve porre ai privilegi, alle immunità e
alle esenzioni della potestà ecclesiastica. Ma gli spunti rousseauiani, pur moderati
ed elaborati - e talvolta avversari, come nelle pagine riguardanti il
rafforzamento del vincolo sociale operato dal cristianesimo, pp. 135, 151-152 -
emergono evidenti, tra l'altro, laddove si discute dei limiti al potere
assoluto e si giustifica, in nome dell'uguaglianza fra I sudditi, l'operato del
duca di Parma contro Roma (pp. 51-56), e soprattutto laddove si polemizza
contro il sistema dei concordati tra autorità statale e S. Sede (pp. 71-80) e
contro il diritto di asilo ecclesiastico (pp. 80-86). Un breve cenno, infine,
al problema della tolleranza religiosa non ha gran rilievo nell'insieme delle
argomentazioni, legate in gran parte, nonostante le suggestioni del nuovo
pensiero di cui si èdetto, a orientamenti tradizionali. La seconda edizione accentua,
in alcuni nuovi capitoli, la polemica circa il carattere civile, del contratto
matrimoniale e quella contro gli ordini monastici. Al suo apparire
l'opera richiamò, per gli spunti rousseauiani, l'attenzione dell'autorità laica
ed ecclesiastica e le vicende di cui fu oggetto costituiscono una pagina
notevole della fortuna di Rousseau in Italia. A Napoli, per la "sediziosa
proposizione" dell'origine popolare della sovranità (cfr. lettera dì B.
Tanucci) venne sequestrata presso lo stampatore D. Campo una ristampa
clandestina dello scritto (proveniente da Firenze) prima che fosse posta in
vendita (11 dic. 1768); a Roma fu ritenuto autore dell'opera il Beccaria e nel
clima di massimo irrigidimento contro le correnti giurisdizionalistiche e
illuministiche, che caratterizzò gli ultimi anni di pontificato di Clemente
XIII, essa fu posta all'Indice nel 1769. preoccupazione e la diffidenza per
itemi rousseauiani dello scritto vennero ancora espresse, a proposito
dell'edizione del 1783, da Scipione de' Ricci in una lettera indirizzata al
granduca Pietro Leopoldo (cfr. Passerin). Fonti e Bibl.: Archivo Generai
de Siniancas, Estado Legajo 6102, lettera di B. Tanucci al marchese Grimaldi,
Portici 13 dic. 1768, f. 157 v. (indica Firenze come luogo di stampa dell'opera;
ma molti contemporanei, cfr. Savio, considerarono napoletana l'ediz. del 1768,
identificandola con la ristampa); C. Beccaria, Scritti e lettere inediti, a
cura di E. Landry, Milano 1910, p. 289 (segnala quattro lettere dell'A. al
Beccaria, in Biblioteca Ambrosiana, Milano, Beccaria, B. 231); Carteggio di
Pietro e Alessandro Verri, a cura di F. Novati e E. Greppi, III (ag. 1769-sett.
1770), Milano 1911, pp. 194-195, 210; Fr. H. Reusch, Der Index der verbotenen
Biicher, II, Bonn 1885, p. 934; E. Passerin, La politica dei giansenisti in
Italia nell'ultimo Settecento, in Quaderni di cultura e storia sociale III
(1954), pp. 269-270; F. Venturi, G. Vasco in Lombardia, in Atti d. Ace. d.
Scienze di Torino, classe di scienze mor. stor. e filol., XCI (1956-57), pp. 41
ss. e nota; Illuministi italiani, Riformatori lombardi, piemontesi e toscani,
III, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1958, pp. 25 (riporta un passo di
lettera dell'A. al Beccaria, da Firenze 6 luglio 1767, riguardante la
traduzione del Morellet del Dei delitti e delle pene),1044; P. Savio, Dottrina
ed azione dei giurisdizionalisti del sec.XVIII, in Arch. Veneto, s. 5, LXII
(1958), pp. 12 n. 2, 31 ss. Cosimo Amidei.
Amidei. Keywords. amidei — implicatura sovrana — implicatura intersoggetiva — implicatura
sovresoggetiva — implicatura sovre-umana — implicatura sovrepersonale — hobbes
— primo disegno — leviatano — carteggio con Verri — carteggio con beccaria
(paragrafo XXXIV — la strada verso l’utopia giuridizzionalistica — la chiesa —
the high church of england — Gianni abolisce la carcerazione per debiti —
tacitoRefs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Amidei” – The Swimming-Pool Library.
Anceschi (Milano).
Filosofo. Grice: “I like Anceschi; he plays with the idea of dialogue as a
mirror (specchio) of ego and alter or ego and tu – I like that. He is the
Italian equivalent of John Holloway, I suppose.” Si laurea sotto Banfi, ricopre
l'insegnamento di Estetica nella Facoltà di Lettere e filosofia a Bologna.
L'interesse per la letteratura e le arti figurative si accompagnò sempre a
quello per la filosofia moderna anti-dommatica. Dopo la pubblicazione della sua
tesi di laurea autonomia naturale,
heteronomia artistica. “Autonomia ed eteronomia dell'arte” edita da Sansoni, le
sue ricerche sulla figura e il modello letterario antidealistici trovarono voce
negli interventi pubblicati su “Orfeo”e su “Corrente di vita giovanile” -- riviste
da lui stesso promosse. Sensibile ai nuovi orientamenti culturali, si
schierò a favore dell'ermetismo e della neo-avanguardia, affiancando
all'attività di teorico quella di critico militante: pubblicò i Saggi di
poetica e poesia. Con una scheda sullo Swedenborg e cura le antologie Lirici
nuovi, Linea lombarda. Sei poeti e Lirica del Novecento. Della voce “ermetismo”
fu autore nell'Enciclopedia del Novecento. Concentratosi sui modelli culturali
dimenticati dal Neoidealismo, si dedica ai temi del Barocco, dando alle stampe
Del Barocco e altre prove Barocco e Novecento. Con alcune prospettive
metodologiche. Non abbandona mai gli studi filosofici: “I presupposti
storici e teorici dell'estetica kantiana”; “Hume e i presupposti empirici dell'estetica
kantiana”; “Burke e l'estetica dell'empirismo inglese”; “Da Bacone a Kant.
Saggi di estetica”. In particolare in “Progetto di una sistematica
dell’estetica e dell'arte” delinea una teoria estetica intesa come fenomenologia
della forma naturale e artistica. Sui principi della fenomenologia critica basò
tutte le successive ricerche. Fonda “Il Verri” di cui fu direttore,
mentre diresse per Paravia la collana La tradizione del nuovo e Studi di
estetica, che raccoglie i risultati delle ricerche filosofiche che egli
condusse insieme con i suoi allievi. Per il suo impegno nel tener vivo il
fermento culturale di questi anni, gli sarà assegnata a Mestre la prima
edizione del prestigioso premio "Amelia" alla "tavola" di
Dino Boscarato. Centrali sono i temi della poetica (“Poetiche del Novecento in
Italia”; “Le poetiche del Barocco, 1963) e delle istituzioni letterarie (Le istituzioni
della poesia”; “Da Ungaretti a D'Annunzio”, Che cosa è la poesia?”. Altre
saggi: “Il caos, il metodo. Primi lineamenti di una nuova estetica
fenomenologica”; e Gli specchi della poesia. Riflessione, poesia, critica”.
Riceve dai Lincei il Feltrinelli per la Critica letteraria. Presidente
dell'Ente bolognese manifestazioni artistiche, dell'Accademia delle Scienze e
dell'Accademia Clementina di Bologna, socio corrispondente dell'Accademia
nazionale dei Lincei di Roma, donò la sua biblioteca (circa 30.000 stampati) e
il suo archivio personale (oltre 18.000 lettere e migliaia di autografi) al
Comune di Bologna; sono attualmente conservati presso la Biblioteca Comunale
dell'Archiginnasio. Premi Amelia 1965-2005, a cura della "Tavola
all'Amelia", prefazione di Sergio Perosa, Venezia-Mestre, 2006, 18-21. Lo stesso anno il premio è assegnato
anche "per le arti figurative", a Virgilio Guidi. Premi Feltrinelli 1950-, su lincei. 17
novembre . Università degli studi di
Bologna, Annuario dell'anno accademico 1995-1996 e 1996-1997, Bologna,
Compositori, 1998, 863–865. Il Verri Giuseppe Pontiggia Salvatore
Quasimodo Alessandro Montevecchi Luciano
Anceschi, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Luciano Anceschi, in Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Luciano Anceschi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Luciano
Anceschi, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Luciano Anceschi,
. Fondo Luciano AnceschiBiblioteca
dell'Archiginnasio di Bologna Approfondimento, su ibc.regione.emilia-romagna.
22 marzo 2005 5 maggio 2001). Studi di estetica, su unibo. 18 gennaio 15 gennaio ). V D M Vincitori del Premio
Feltrinelli Filosofia Filosofo del XX secoloCritici letterari italiani del XX
secoloAccademici italiani Professore1911 1995 20 febbraio 2 maggio Milano
BolognaVincitori del Premio FeltrinelliAccademici dei LinceiAutori del Gruppo
63BibliofiliDirettori di periodici italianiFondatori di riviste italianePremiati
con l'Archiginnasio d'oroProfessori dell'Università commerciale Luigi
BocconiProfessori dell'BolognaStudenti dell'Università degli Studi di Milano. Sembra
proprio che studiare una nozione letteraria voglia dire rendersi conto di ciò
che essa ha voluto significare; studiare l'ermetismo vorrà dire vedere come
l'ermetismo stesso, in quanto movimento letterario e culturale, ha inteso
presentarsi per se stesso nell'attenzione ai motivi di coerenza, ma anche alle
interne variazioni e differenze. Qualche considerazione va fatta, per altro, in
limine intorno al nome. È noto: l'uso della nozione di ermetismo è frequente
nel discorso della cultura per indicare quei movimenti, quelle manifestazioni,
quelle situazioni del pensiero e della letteratura, in cui maniere oscure,
ardue, chiuse e di comunicazione non diretta esigono, per esser partecipate, e
anche solo intese, il possesso di una chiave che pochi sono in grado di
adoperare. Il termine ha un'origine storica abbastanza ben definita e che
istituisce subito il destino dei suoi significati. Dal nome di Ermes
Trismegisto si disse ‛ermetica' una dottrina di tarda età ellenistica in cui
motivi oscuramente mistici di sincretismo filosofico-religioso si fusero con
ipotesi di fantastica alchimia, in un tessuto linguistico segreto, ricco di
allusioni, di difficile partecipazione. Si consideri anche che a Ermes
Trismegisto si attribuisce l'aver chiuso (si disse, appunto, ‛ermeticamente')
un'ampolla di vetro mediante la fusione dei bordi delle aperture. Oscurità, chiusura,
tono di rivelazione sacra, un insieme di difficili connessioni tra mistica e
alchimia, una presentazione immaginosa e immediata di oggetti intellettuali e
riflessivi: ecco alcuni caratteri degli scrittori che per primi furono detti
‛ermetici'; ed ermetici, poi, vennero chiamati talora quei movimenti di
pensiero occulti, misteriosofici, iniziatici, che spesso si posero in antitesi
al pensiero dominante nel secolo, che costituiscono una ormai ben definibile
tradizione secolare, continua, e che talora affiorano nella cultura essoterica
con singolari sollecitazioni e insorgenze. Con intenzioni inizialmente
screditanti, ma il nome venne poi accettato da molti scrittori, ermetismo si
disse anche una tendenza della letteratura italiana tra le due guerre, che,
venuta dopo l'esperienza dei crepuscolari e gli esperimenti dei futuristi, si
distinse nettamente dal rondismo, come corrente dell'ultimo gusto neoclassico,
e da ogni genere di ritornante realismo; ed è ciò di cui qui dobbiamo parlare.
Ci sono opinioni molto diverse su questo movimento. C'è chi, in una ben
definita prospettiva letteraria militante, vede in esso il momento più alto
della poesia e del pensiero poetico del secolo nel nostro paese; e c'è chi,
movendo da un particolare orizzonte sistematico, accusa la ricerca ermetica di
‛perdita della immediatezza' fino a vedervi intellettualismo e, al limite, una
distrazione di giochi verbali; c'è anche chi, secondo un'ispirazione fortemente
ideologica, vede in essa un pericoloso e condannabile momento di evasione
rispetto al dovere della partecipazione e dell'impegno. Solo un'indagine
diretta e particolare potrà definire il diritto e il torto di
considerazioni come queste; e, tuttavia, è difficile disconoscere che si trattò
di un movimento influente, complesso, articolato in diverse disposizioni
dottrinali e di poetica, con varie stratificazioni di momenti interni secondo
una tradizione breve e intensa. Il movimento ebbe vita difficile negli anni in
cui si manifestò, trovò una sua forza contro molti oppositori e reali
resistenze, giunse fino ad operare sul costume e a cadere in un nuovo Kitsch,
si dissolse alla fine della seconda guerra mondiale, ma lasciò
un'impronta viva, e anche un impulso nella cultura della poesia e della critica
che, da un lato, è continuato per anni nel lavoro degli epigoni, e che,
dall'altro, ha condizionato indubbiamente i modi in cui si manifestarono i
movimenti che seguirono. Quanto alle strutture della poesia, forse è riduttivo
il considerare l'ermetismo solo come una tendenza della letteratura italiana
contemporanea, che, riallacciandosi alle correnti simboliste non soltanto
francesi, anzi europee, intende la poesia come esercizio assoluto di linguaggio
che in tanto vale in quanto riesce a esprimere l'intuizione lirica nella sua originaria
purezza, escluso l'intervento di preoccupazioni didattiche, moralistiche,
dottrinali e speculative in una volontà attentamente coltivata e resolutamente
diretta al risalto di momenti di intensità e di innocenza; ma è anche riduttivo
parlare dell'ermetismo solo come dell'espressione di una rivolta in cui si
concreta l'appello orfico-cristiano, religioso, metafisico, negatore della
storia, di una storia che si appiattisce di fronte all'assoluto, libero dalle
strutture rettoriche, e inteso a propositi soprattutto di rinnovazione radicale
dell'uomo. Ritorneremo su queste differenze di pronunzia e sul loro
significato; ma, a questo punto, occorrerà ormai rendersi conto e giustificare
l'uso della nozione di ermetismo nel contesto della situazione letteraria
italiana tra le due guerre e nella individuazione del significato interno del
movimento. L'ermetismo va considerato come un movimento europeo o
italiano, o puramente ‛fiorentino'? Certo, ci furono aspetti, e li
considereremo, della poesia e della poetica d' Europa che si potrebbero dire
ermetici o che hanno avuto rapporti con ciò che diciamo ermetismo, anche tali
che senza di essi l'ermetismo non sarebbe stato possibile. Uno dei connotati
dell'ermetismo è certo quello di aver tenuto aperti i rapporti - se pure in
modo limitato secondo una lettura pregiudicata - con l'Europa in tempi
difficili; ma una situazione, un movimento di cultura che si siano collocati
sotto quel nome si ebbero solo in Italia; trovarono caratteri particolari e
individuati; determinarono una singolare, e un poco astratta, cultura della
poesia per certi aspetti di rara intensità e inquietudine. Il tentativo di
ridurre il movimento solo al gruppo dei ‛fiorentini' dà nel sofistico, o nel
riduttivo; non è certo facile tagliar con il coltello una situazione tanto
compatta quanto varia; molti fatti si diedero contemporaneamente nella
convergenza di letture e di interessi comuni; il ‛gruppo fiorentino' fu certo
autonomo per suoi caratteri, ma nella misura in cui portò certi motivi di una generazione
nuova in un contesto comune. In realtà, nella prima generazione ermetica in
Italia la prima voce fu quella di Giuseppe Ungaretti. Anceschi. Anceschi.
Keywords: ermetismo ed implicatura, grado d’ermetismo dell’implicatura,
l’impossibilita dell’implicatura ermetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Anceschi” – The Swimming-Pool Library.
Andrea (Ravello).
Filosofo. Grice: “I like Andrea, in more than one way! Andrea made me realise how naïve Russell is
with his ‘logical atomism;’ back in Naples, the Accademia degli Investiganti
took thing really seriously. D’Andrea, a lawyer, like Hart, -- his claim to
fmae is having written an ‘apologia in difesa,’ which I would abbreviate as
just ‘in difesa’ of atomism – but my favourite is his unpublication, “Degl’atomi
e degl’atomisti”!” Grice: “In Naples, unlike Oxford – cf. Locke and Boyle – it
was understood that if you are an atomist you are, therefore, a libertine!” -- Da una ricca famiglia, studia a Napoli. Funzionario
del viceré, il duca d'Arcos, a Chieti nel giustizierato dell'Abruzzo
citeriore. Frequenta villa Colonna, dove si illustrano i fondamenti
dell’atomismo. Fondatore del salotto degl’InVESTIGanti alla sua villa
Iambrenghi a Candela. Difende strenuamente l’atomismo nella “Apologia in difesa
degl’atomisti” e nella “Risposta a favore di Capoa”. Avvocato primario del
Regno di Napoli, viaggia e partecipa alla vita intellettuale e agli studi in
molti salotti filosofici italiani. Cortese, I ricordi di un filosofo napoletano
del Seicento, Napoli, L. Lubrano e C., Dogana della mena delle pecore in Puglia
Regno di Napoli. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Accademia
della Crusca. Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto
Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di
Storia della Scienza di Firenze (home page), pubblicata sotto licenza il
rinnovamento culturale del Seicento a Napoli (in occasione del rinvenimento di
un manoscritto sconosciuto degli "Avvertimenti ai nipoti") di Stefano
Capone, sito della Biblioteca di Foggia, Salottieri. Nacque a Ravello (presso
Amalfi), dove la madre si era ritirata in seguito a difficoltà economiche, il
24 febbr. 1625 da Diego, avvocato in Napoli, di buoni natali ma d'incerta
fortuna, e da Lucrezia Coppola, del seggio nobile di Montagna. L'infanzia non
fu felice, per le "gravissime ristrettezze" della famiglia
(Avvertimenti ai nipoti, p. 60), né soddisfacenti gli studi, cui venne avviato
fin troppo precocemente. Compiuti sette anni, infatti, fu condotto a Napoli per
apprendere la grammatica; a nove fu collocato presso la scuola oratoriana dei
gerolamini, ma già ad undici frequentava lezioni di legge, addottorandosi poi
nel marzo 1641, appena entrato nel diciassettesimo anno di età. Egli
stesso doveva sottolineare più tardi, nei suoi celebri Avvertimenti, i
gravilimiti di quell'affrettata educazione. Nello scritto - che è insieme una
sorta di testamento, una autobiografia e il richiamo a un modello di cultura e
di comportamenti valido per tutto il ceto forense - ripercorreva le tappe della
sua formazione, descrivendola come un lineare progresso dalla "grossa
ignoranza", cui sembrava condannarlo l'arretratezza dell'insegnamento e
delle professioni giuridiche alle quali il padre l'aveva avviato, verso
l'incontro con le correnti di pensiero europee, la conquista delle nuove
scienze e una concezione elevata del ruolo dei giuristi nella società. In
questo itinerario intellettuale e civile, ben più dei suoi "direttori",
di cui lamentava anzi il "mancamento", avevano inciso altre
esperienze, personali o comunque estranee ai percorsi tradizionali. Per primo
il rapporto con Giovanni Andrea Di Paolo, il solo in città capace d'illustrare
le dottrine giuridiche con gli strumenti filologici e sistematici della scuola
culta (ibid., pp.86 s.); poi l'impegno, durato oltre un anno dopo la laurea,
per "studiar le materie continue e pei loro principi", abbandonando
l'impostazione praticistica dominante, che riduceva la giurisprudenza ad un
mero esercizio mnemonico o alla lettura disordinata dei decisionisti (ibid., p.
116). Completata così autonomamente la propria preparazione, cominciò a
seguire il padre nel foro e presentò di lì a poco due allegazioni, l'una per la
principessa di Casalmaggiore, l'altra per il principe di Pietraelcina, che gli
procurarono una certa notorietà ed alle quali rivendicava il merito di aver
introdotto nei tribunali napoletani "il nome di Cujacio e degli altri
eruditi", insieme con "l'uso di disputare gli articoli secondo i veri
principi della giurisprudenza" (ibid., p. 118). Frattanto a Napoli,
avvicinandosi la metà del secolo, con i profondi sconvolgimenti sociali e
politici che la segnarono, si definivano le linee di un'iniziativa culturale, promossa
da ambienti diversi, sia umanistici, sia tecnico-scientifici, che non restò
senza conseguenze sul pensiero civile, né trovò indifferenti, o soltanto
passivi, i giuristi e i forensi. Ministri e scrittori di cose legali se ne
fecero anzi protagonisti, cogliendovi con prontezza gli elementi di novità che
potevano dare consistenza e respiro a un discorso critico sul Mezzogiorno
spagnolo. Di tali sviluppi il D. fu testimone attento, interprete
informatissimo, in breve tempo autorevole sostenitore. Grazie ai consigli di
Ottavio Di Felice, "un vecchio assai erudito e molto affezionato della
nostra casa" (ibid.,p. 119),colmò le proprie lacune nella conoscenza delle
"buone lettere"; ammesso poi a frequentare l'accademia di Camillo
Colonna, dove s'illustrava una nuova filosofia "non gran fatto molto
dissimile da quella che oggi chiamano atomista", vi apprese a respingere
il conformismo della dominante cultura ecclesiastica ed il tenace scolasticismo
che la caratterizzava (ibid., pp. 120 s.). Fu l'incontro più fertile della sua
giovinezza ed egli stesso ne ribadì spesso il rapporto di continuità con le
successive esperienze. Le discussioni di casa Colonna costituirono, infatti, il
segnale d'avvio di un rinnovamento intellettuale a Napoli, presto dispiegatosi
con l'arrivo da Roma di Tommaso Cornelio e l'azione intrapresa da talune
accademie, che spostarono energicamente l'accento dai temi letterari o eruditi
a quelli scientifici e sperimentali. Superato, con la guida di Camillo
Colonna, il limite di una scarsa dimestichezza con l'arte retorica, tenne
intanto con unanime applauso un solenne discorso nella Congregazione degli
avvocati di S. Ivone, istituita dai teatini ai SS. Apostoli, e poco dopo, il 10
giugno 1646,la difese in Collaterale, alla presenza del viceré duca d'Arcos,
contro la pretesa dei gesuiti di fondarne una nuova. Con questa arringa (Pro
Congregatione Sancti Ivonis, edita dal Comparato) egli guadagnò la causa e il
favore del viceré, che lo nominò ad interim fiscale di Chieti, dove si recò
alla fine dello stesso anno. Il periodo trascorso in Abruzzo, mentre a
Napoli e in tutto il Regno avevano luogo gravi sommosse, dette luogo a dicerie
malevole sul suo conto, che lo tormentarono per tutta la vita. Un tardo
episodio del febbraio 1682, quando il principe Antonio di Sangro l'oltraggiò in
pieno tribunale con l'epiteto di "Masaniello", provocando persino un
duello tra il proprio campione, Cesare Mormile, e un nipote del D., Antonio
della Marra, lo indusse a scrivere una lunga Relazione de' servizii fatti...
nella provincia di Abbruzzo Citra(s.n. t., ma Napoli 1682), per replicare alle
insinuazioni di aver parteggiato allora per i popolari e per rivendicare invece
il proprio lealismo alle istituzioni regie, sola garanzia di stabilità e di
arbitraggio tra i ceti, e gli atti compiuti a difesa dell'ordine sociale e
giuridico esistente, ivi compreso quello feudale, che era parte integrante
della realtà politica dello Stato. Tuttavia le "seconde
rivoluzioni", che portarono a Napoli alla proclamazione della repubblica
nell'ottobre 1647 ed impressero al moto un carattere indipendentistico in un
quadro politico più complesso e convulso, lo posero ai margini del conflitto
abruzzese, sicché dopo due mesi trascorsi nel convento degli scolopi di Chieti,
dove ebbe modo di leggere Cicerone e Campanella, pervenuta infine l'attesa
nomina del nuovo fiscale e concluso l'affitto dell'arrendamento del sale
nell'estate 1648,partì nel settembre per Napoli, che raggiunse in novembre,
dopo un breve passaggio da Roma. Qui non solo riprese l'esercizio
dell'avvocatura, con crescente successo di prestigio e di entrate, ma si
adoperò soprattutto per un rinnovamento scientifico e culturale, di cui non a
torto il Giannone lo considerò protagonista e promotore principale (Istoria
civile, lib. XXXVII, cap. 5; e lib. XXXVIII, cap. 4).Egli stesso sottolineò in
seguito efficacemente, in una pagina giustamente famosa (Avvertimenti, pp. 124
s.), il significato della svolta verificatasi a Napoli allora; l'importanza
centrale ch'ebbe la diffusione delle opere di Cartesio; il ruolo essenziale di
Tommaso Cornelio nel porre gli studiosi napoletani a contatto con il pensiero
europeo; l'ostilità che le nuove dottrine incontravano presso i circoli
tradizionalisti e la protezione ad esse accordata da taluni aristocratici;
infine il proposito che animava i moderni di modificare l'assetto delle
professioni, in particolare giuridiche, attraverso un confronto più intenso con
le varie scienze. Il momento era favorevole ad un'iniziativa dei gruppi
intellettuali. L'opera di restaurazione, condotta dal viceré di Oñate secondo
un disegno assolutistico volto a consolidare l'autorità delle istituzioni
regie, prospettava un rinnovato compromesso tra monarchia e ceti privilegiati,
deprimeva le aspirazioni della nobiltà più riottosa, maturate nei trascorsi
disordini, offriva spazi nuovi e maggiori di presenza politica e di
affermazione sociale ai forensi ed ai magistrati. Il D. affiancò prontamente
l'azione del viceré e dalla sua paterna cura per il "ristoramento"
degli studi ottenne un avanzamento universitario per Gian Camillo Cacace e
l'attribuzione a Tommaso Cornelio, nel 1653, della cattedra ripristinata di
matematica. Nel frattempo svolgeva una parte considerevole nella breve
rinascita degli Oziosi, tra i quali recitò diverse orazioni, in particolare a
favore della "novella maniera di filosofare" e per un rapporto più
stretto della giurisprudenza con "tutte le altre scienze" (ibid.,p.
125). La grande peste del 1656, lacerando drammaticamente la vita della
città, pose fine d'un colpo agli esperimenti e alle iniziative che si
conducevano a Napoli e che vennero poi ripresi, dopo il flagello, con lentezza
e difficoltà. Rientrandovi dopo il periodo del "contagio", trascorso
nei feudi del principe di Cassano, il D. dovette rinunciare per qualche tempo
agli ambiziosi progetti di politica culturale, cui ritornò solo dopo alcuni
anni impiegati nell'esercizio dell'attività forense per una clientela sempre
più consistente ed altolocata. Si pose infatti in primo piano nelle vicende
intellettuali della capitale a partire dal 1663, quando con numerosi
scienziati, medici, filosofi, come Tommaso Cornelio, Lucantonio Porzio,
Leonardo Di Capua, Giovanni Caramuel e molti altri, dette vita, al primo nucleo
degli Investiganti, che prese a riunirsi in casa di Andrea Concublet, marchese
di Arena. Gli orientamenti dell'Accademia sono noti, così come la
molteplicità ed eterogeneità dei motivi che vi si agitavano: dal probabilismo
allo sperimentalismo, allo storicismo. Altrettanto celebre è l'episodio che ne
riassunse simbolicamente il programma e gli inizi: la visita compiuta
nell'ottobre 1664, sotto la guida del D., da oltre cinquanta accademici, tra
cui numerosi nobili e prelati di rango, al cratere di Agnano, per controllare
la fondatezza degli antichi miti, raccogliere materiali da sottoporre
all'indagine chimica, far esperimento diretto delle caratteristiche naturali
del sito. Tra gli Investiganti il D. ebbe infatti un ruolo cospicuo. Preziosa
cerniera tra i novatori e il mecenatismo di una parte almeno della maggiore
aristocrazia, non pose nulla in istampa direttamente legato a quell'esperienza,
ma di alcune opere fu consigliere ascoltato, di altre fu promotore o
dedicatario, intervenne infine sui temi che si dibattevano non soltanto come
suggeritore o patrono di opere e di iniziative, o come veicolo d'idee,
d'interessi e di libri. Agli argomenti centrali del nuovo sapere - l'atomismo,
le leggi del moto, il rapporto tra elementi fisici ed "incorporei" e,
sullo sfondo, tra metafisica ed esperienza - dedicò in vecchiaia alcuni lavori,
quando l'Accademia era da tempo ormai spenta, ma non cessate le dispute da essa
animate, né l'eco che avevano suscitato negli ambienti napoletani, messi in
fermento dalle energiche controffensive dei gruppi conservatori. Nei manoscritti
filosofici del D. - affidati, come altre sue opere, a una tradizione testuale
non sempre chiarita - possono riconoscersi oggi tre lavori distinti. Il primo è
un'Apologiain difesa degli atomisti (Napoli, Bibl. Oratoriana dei gerolamini,
ms. XXVIII.4.1; esemplare mutilo con correz. autografe), databile al 1685 e
prodotto perciò in un periodo difficile nella biografia dell'autore e in una
fase particolarmente vivace della dialettica politica e culturale napoletana.
Il secondo, la Risposta a favore del sig. Lionardo di Capoa contro le lettere
apologetiche del p. De Benedictis gesuita, tradizionalmente assegnato al 1697,
ma elaborato a partire dal 1695, risale anch'esso a un momento cruciale,
coincidente con la disputa sul S. Uffizio e la conclusione del processo contro
gli "ateisti" (l'esemplare migliore è quello della Bibl. naz. di
Napoli, ms. I D 4, alle cui cc. 286-317 corrisponde il frammento autografo
della Bibl. Oratoriana dei gerolamini, ms. XXVIII.4.1; da segnalare anche la
copia della Bibl. Angelica di Roma, ms. 1340, fatta eseguire per il card.
Passionei dal pronipote del D., Giulio Cesare, nel 1752). Vi è inoltre una
seconda stesura della Risposta, preparata tra il 1697 e il 1698 (se ne
conoscono due diverse redazioni: Napoli, Bibl. naz., ms. IX A 66; e ms.
Brancacc. I C 8). Scritti di replica o di polemica contro il profilarsi,
in momenti di acuto conflitto, anche politico, di una rivincita della cultura
"dei chiostri" sulle istanze del sapere moderno, le opere del D. non
disegnavano un compiuto sistema, né seguivano fonti univoche d'ispirazione.
Adombravano una sorta di filosofia del particolare e del concreto, che si
nutriva di salde radici umanistiche e galileiane, proprie della tradizione
napoletana, innestandovi gli insegnamenti di Cartesio e Gassendi, talvolta di
Spinoza e di altri ancora, secondo un'impostazione che può apparire eclettica o
incline al frammento, ma che rispondeva piuttosto al proposito di rivendicare
il lascito trasmesso dai novatori al pensiero meridionale, il segno da loro
impresso sulla vita morale e civile attraverso lo sforzo d'iscriverla nei
circuiti del "secolo della filosofia", di aprirla, nel modo più largo
possibile, al movimento intellettuale europeo, d'includere infine nel suo
orizzonte i numerosi motivi che lo percorrevano, cogliendone i nodi essenziali
e gli aspetti capaci di stimolare più fresche energie. Perciò, guidate dalla
consapevolezza dei vasti riflessi della battaglia teorica in corso, esse
riaffermavano, contro il dogmatismo ed il verbalismo scolastico imperversante,
il metodo sperimentale, l'intuizione della materia e l'ipotesi atomistica,
l'indagine storica come criterio di verifica delle autorità. Comunque
l'impresa cui il D. dovette maggiormente la sua fama di studioso e il successo
presso le corti di Napoli e di Madrid furono le scritture composte nel 1667 e
nel 1676 per respingere le pretese di Luigi XIV alla successione spagnola e
contestare le tesi della pubblicistica che lo sosteneva. Sin dal 1663 il
re di Francia aveva reclamato i Paesi Bassi alla moglie Maria Teresa in base al
diritto di devoluzione. La contesa si era infiammata via via tanto sul piano
politico-diplomatico quanto su quello giuridico e dottrinale. I rapporti tra le
corone si avviavano a rottura aperta quando, sul finire del 1666, il vicerè
Pietro d'Aragona incaricò il D. di controbattere gli argomenti francesi. Il 28
febbr. 1667 questi sottoscrisse solennemente, alla presenza del viceré una
Dissertatio de successione Ducatus Brabantiae (copia a Napoli, Bibl. oratoriana
dei gerolamini, ms. XXVIII. 3. 16), che venne subito inviata a Madrid. Tuttavia
l'incalzare degli avvenimenti, con l'invasione francese delle Fiandre, seguita
nel maggio, e il moltiplicarsi di trattati e libelli per il Re Sole, assieme al
ruolo ufficioso rivestito nella polemica, imposero al D. di ritornare sulla
materia, sicché nell'estate scrisse febbrilmente una nuova Risposta al Trattato
delle ragioni della Regina Christianissima sopra il Ducato di Brabante, con
altri Stati della Fiandra (Napoli 1667), che traeva spunto da un Traité
anonimo, ma di carattere ufficiale, comparso a Parigi nel maggio dello stesso
anno. La medesima Risposta, ritoccata, venne poi ristampata a Napoli con un
Discorso e un Discorso aggiunto, di argomento storico-erudito, una appendice
contenente la Copia di una lettera... nella quale si dà giudizio della
Dichiarazione... del Re Christianissimo, redatta su incarico del viceré de los
Velez come replica al manifesto di Luigi XIV per la guerra di Messina e già
circolante sotto la data di Roma, 28 genn. 1676, e con altre due lettere di
minore interesse (il libro cominciò a stamparsi nell'aprile 1676 e fu diffuso
nel marzo 1677, come risulta dalla corrispondenza da Napoli di D. Ronchi; Roma,
Arch. Doria Pamphili, fasc. 18.89, 18.90 e 18.91). Strettamente legati
all'occasione politica, gli scritti del D. ne seguirono le circostanze e gli
svolgimenti, ma segnarono anche un passaggio di grande rilievo nella cultura
napoletana del secondo Seicento. Se i due Discorsi, infatti, si avvicinavano in
qualche modo al genere dei "bella diplomatica" che impegnava allora
la migliore giurisprudenza europea, la Risposta confutava le rivendicazioni
francesi in termini ben più avanzati delle consuete dispute avvocatesche,
affrontando il tema della successione nel Brabante alla luce di una ricerca
storica e di una meditazione sulle dottrine di Grozio, che la conduceva a
individuare nel diritto di natura e delle genti le regole proprie al suo
carattere giuspubblicistico. In tal modo rompeva l'isolamento del pensiero
giuridico meridionale, lo apriva al confronto con le correnti d'Oltralpe,
indicava un metodo storico per l'analisi degli ordinamenti e delle istituzioni
che consentiva di determinare la natura privatistica o pubblicistica degli
istituti, i loro rispettivi confini ed i fondamenti giuridici delle relazioni
internazionali. Non è dunque un caso se con quest'opera maturò nel D. un
orientamento non solo giurisprudenziale, ma più largamente civile, fondato, in
politica interna, sulla prospettiva di un accordo di governo tra il ceto
intellettuale ed i viceré; sul lealismo spagnolo, in politica estera, giacché
quell'impero restava, anche nel suo declino e col suo "genio tardo",
atto a conservare più che ad innovare un puntello insostituibile per la pace e
la stabilità dell'Europa, condizione per ogni sia pur relativa autonomia del
Regno meridionale. Con la polemica sulla successione del Brabante prendeva
forza, in sostanza, il difficile tentativo, condotto dal D. con cautele e
prudenza, di collegare la battaglia culturale dei novatori alla riflessione e
all'azione politica. Da allora infatti, nutrita dalla lezione di Machiavelli e
dalle dottrine correnti della ragion di Stato, ma con l'aggiunta di un robusto
realismo, che ne costituisce il tratto più caratteristico e originale, la sua
attenzione si concentrò per circa un ventennio sulla scena internazionale, dove
si decideva lo stesso destino del Regno di Napoli. Il rapporto tra gli Stati,
la debolezza e l'immobilismo del sistema spagnolo, e di quello meridionale al
suo interno, il dinamismo francese, infine l'emergere, da Napoli poco
decifrabile, di altre potenze, divennero così l'argomento principale del suo
nutrito carteggio col principe Doria, ed insieme lo sfondo di alcuni interventi
forensi e di altri suoi scritti giuridico-politici (le une e gli altri editi
ora da Mazzacane). La familiarità col principe risaliva al 1673, quando
dall'ottobre all'aprile 1675 il D. soggiornò presso di lui a Genova, Pegli e
Torriglia, a conclusione di un periodo di viaggi guidati da curiosità
intellettuali, non meno che da motivi di salute. Afflitto da serie crisi di
ansietà e di apprensione, manifestatesi sin dal 1668 ed aggravatesi l'anno dopo
con la morte del padre, forte di una solida situazione finanziaria,
assicuratagli dalla funzione diavvocato primario del Regno, abbandonò la città
poco più tardi, mentre precipitava una crisi nei rapporti politici degli
intellettuali napoletani. Infatti se alla sua intesa col viceré d'Aragona si
dovette l'avanzamento negli uffici del fratello Gennaro nel 1668 e l'incarico a
lui, l'anno successivo, di difendere la "piazza" del popolo contro la
nobiltà, tra la fine del 1669 e i primi mesi del 1670 il clima parve
profondamente mutare, con la chiusura dell'Accademia degli Investiganti e la
partenza da Napoli di alcuni suoi esponenti. Viaggiò per vari anni, con
soggiorni più o meno lunghi in diversi centri italiani, raccogliendo consensi e
amicizie, approfondendo gli studi scientifici e matematici, partecipando con
vivacità alla vita intellettuale deicircoli che frequentava di volta in volta,
come dimostrano le importanti lettere a Lucantonio Porzio (Napoli, Soc.
napoletana di storia patria, ms. XX.B.24) e a Francesco Redi (Firenze, Bibl.
Mediceo-Laurenziana, ms. Laur. Red. 219). Rientrò a Napoli nell'aprile
1675. Le cronache della capitale, le relazioni degli agenti stranieri, le
stesse lettere, spesso settimanali, al principe Doria consentono di seguire
minutamente le sue attività professionali e la sua azione civile negli anni
successivi. Tuttavia, nell'intreccio contraddittorio di una realtà arretrata,
ma vitalissima, nell'accavallarsi di episodi maggiori o anche minimi, nel
complicato scomporsi e ricomporsi dei vari "partiti", esse non si
prestano a facili interpretazioni e non sono state interpretate uniformemente
dalla storiografia. Del resto, qualsiasi lettura degli ultimi anni del D. è
collegata con un giudizio sull'intera vita morale del Mezzogiorno durante il
declino dell'impero spagnolo e nel profilarsi di una generale "crisi della
coscienza europea". Perciò i dettagli di un'aneddotica spesso pettegola,
le sfaccettature di un carattere umano incline alla melanconia, altero, ruvido
ed anche "bizzarro", non possono esaurire il senso della sua
presenza, vigile e critica, nella realtà napoletana di fine Seicento, il suo
ruolo di maestro e guida intellettuale, di capostipite anzi di una genealogia
spirituale che, attraverso il Biscardi e l'Argento, sarebbe giunta fino a
Giannone. Il governo del Velez segnò il momento di più consistente raccordo
con la politica dei viceré e le aspirazioni egemoniche del ceto forense. Ne
sono testimonianza eloquente, tra le altre, le scritture già ricordate sulle
pretese del re di Francia, cui si aggiunse nel 1682 una Risposta al libro de'
Francesi sopra li pretesi diritti del Re Cristianissimo sopra il Regno di
Napoli et di Sicilia (Napoli, Bibl. naz., ms. XI.C. 25). A questa rapida
"informazione" - una replica al Dupuy cui continuò a lavorare anche
senza portarla a compimento - vanno aggiunte le difese in giudizio, sollecitate
dal viceré, del marchese de Viso nel 1675, e dei Brancato e del Guaschi a
partire dal 1679. Nello stesso anno rifiutò, con Carlo Cito, la designazione
per la "piazza" del popolo, e l'episodio dimostra la volontà, e la
possibilità tuttora attuale, di mantenere un'autonomia di partito per gli
intellettuali e i forensi. L'ascesa impetuosa di funzionari e ministri,
profilatasi da lungo tempo e consolidatasi con l'assolutismo amministrativo del
Carpio, spostando definitivamente il peso politico delle due anime del ceto
civile, forense e togata, in favore di quest'ultima, divideva i rispettivi
interessi e disegni e riduceva le possibilità, per la prima, di porsi con forza
propria come centro di mediazione nella dinamica sociale e politica del viceregno.
Perciò il D., emarginato e forse anche deluso dagli ambienti di palazzo (già
nell'increscioso incidente del 1682 non si registrò né l'appoggio del Velez, né
una risoluta solidarietà dei colleghi), si dedicò con rinnovata energia ai
propri studi, per rianimare il gruppo disperso dei novatori dinanzi al ritorno
in forze dello schieramento cattolico e del più oscuro spirito
controriformistico. Alla fine del 1684 morì il Cornelio e quella
scomparsa sembrò segnare la conclusione di un intero ciclo della cultura
napoletana, sicché assunse un significato evidente il carico preso dal D. per
rivendicare il valore del suo insegnamento e la persistente vitalità della sua
lezione. Egli infatti non solo sorvegliò l'edizione delle sue opere inedite,
apparsa poi a Napoli sul finire del 1688, ma fece celebrare, nella primavera
del 1685, un solenne funerale per il maestro, che ebbe il tono di un appello e
di una perentoria riaffermazione di fedeltà ai principi della nuova scienza.
Nello stesso anno stese anche la già ricordata Apologia in difesa degli
atomisti e ricevette, tra ottobre e novembre, le visite di J. Mabillon e di G.
Burnet, che rappresentarono un alto riconoscimento, da parte dell'Europa dotta,
del suo prestigio internazionale e del rilievo degli studiosi napoletani
nell'ambito del sapere moderno. Furono tuttavia episodi che non lo
scossero da una sorta di doloroso isolamento, in cui si inserirono meditazioni
religiose sempre più fitte, d'intonazione etica rigorista, da leggersi comunque
in rapporto con alcune scritture, di difficile datazione, dirette a inserirsi
nei grandi dibattiti europei di filologia biblica (Napoli, Bibl. Oratoriana dei
gerolamini, ms. XXVIII, 4. 1). Di peso più concreto fu invece la nomina,
ottenuta dal viceré conte di Santo Stefano, per la carica di giudice di
Vicaria, della quale prese possesso il 10 maggio 1688. Egli tornava così sulla
scena pubblica, ma attraverso un reclutamento nella burocrazia - sia pur
mitigato dalla maggior comprensione del Santo Stefano, rispetto al Carpio, per
le ragioni culturali dei novatori - che costituiva di fatto un'ammissione del
sopravvento degli uffici sull'avvocatura da parte di chi, come lui, lo aveva
sempre avversato, ed ancora sarebbe tornato a negarlo negli Avvertimenti.
Seguì nel luglio 1689 la promozione a consigliere nel Sacro Regio Consiglio, e
poi a fiscale della Sommaria, dove s'insediò il 5 apr. 1690: tutti spostamenti
che s'intrecciarono con i tortuosi percorsi, e gli intrighi, dei circoli
ministeriali di quella vera e propria "Repubblica dei togati", che
era ormai diventato il Regno di Napoli per sua profonda struttura. Le
funzioni di governo e le competenze finanziarie dell'organismo di cui entrava a
far parte richiesero il suo impegno su questioni economiche di scottante attualità,
che egli affrontò con uno spirito di cui è difficile sottovalutare
l'originalità e l'importanza. Dalle allegazioni (sono note quella dell'ottobre
1690 sul problema dei pedaggi e dei passi, intitolata Iura pro Regio Fisco…, e
l'altra, Ad interpretationem regiarum litterarum quibus fuit declaratum officia
quae sunt de regalibus, in sostegno del carattere pubblico degli uffici;
entrambe in N. Ageta, Adnotationes pro Regio Aerario, II, Neapoli 1692, pp.
180-96 e 299-328) e dai suoi ripetuti interventi in Collaterale, nel corso del
1691 (Arch. di Stato di Napoli, Collaterale. Notamenti, voll. 75 ss.), emerge
infatti un complesso di temi e valutazioni, nei quali prendeva forma una acuta
analisi dell'inferiorità meridionale, capace di coglierne la sostanza economica,
ed un coerente piano di parziali riforme. La linea prospettata dal D.,
spesso ripresa e ampliata nelle lettere al Doria, non può avvicinarsi alla
contemporanea cultura mercantilistica. Essa tuttavia conteneva il richiamo,
d'ispirazione pragmatica più che teorica, alle esperienze europee più avanzate
(olandesi ed inglesi), la denuncia della venalità degli uffici come causa prima
delle disfunzioni del sistema spagnolo e della questione beneficiaria come uno
dei lacci più pericolosi che soffocassero il Regno, infine l'indicazione di
misure concrete sui problemi della moneta, degli uffici, dei passi. Ma la sua
perorazione per la libertà dei commerci e le proposte di riforma corrispondenti
si arenarono subito, nonostante l'intesa col viceré, per la ferma opposizione
del baronaggio. Durante il 1692 si fece perciò più rara la sua presenza nei
diversi consessi ministeriali. Nel 1693 fu sostituito in Sommaria e fu
giubilato nel 1695, mentre risiedeva a Procida, donde dava vita a un rilancio
della sua azione culturale. Di tale intenzione erano state già segno la
collaborazione prestata al Valletta per una scrittura, compiuta in quegli anni,
relativa al conflitto accesissimo sulla giurisdizione del S. Uffizio e la
stampa della Disputatio an fratres (Napoli 1694), un testo capitale della
scienza giuridica di fine Seicento, in cui, con matura sensibilità storica,
egli poneva la consuetudine e l'interpretazione giurisprudenziale a fondamento
del diritto del Regno e dei suoi svolgimenti. Risalgono inoltre allo stesso periodo
alcune scritture e lettere sullo stato politico d'Europa e d'Italia (cfr.
l'ediz. Mazzacane). Le opere dell'ultimo biennio valsero a confermare il
suo ruolo eminente tra le avanguardie intellettuali napoletane, sicché non
sorprende la visita resagli a Procida dal Santo Stefano a metà dicembre 1695
per concordare un'azione contro l'offensiva curiale e gesuitica in atto, che si
esprimeva sul piano e politico e culturale con la controversia del S. Uffizio,
il processo agli ateisti, i libelli polemici tra cui spiccavano per ampiezza di
argomentazioni le Lettere apologetiche del padre De Benedictis, pubblicate a
Napoli nel 1694 sotto lo pseudonimo di Aletino. Ad esse il D. replicò con le
Risposte già ricordate, ma nel frattempo nuovi equilibri si profilavano a
Napoli. Altri temi più direttamente incisivi che non gli appelli per la
moderna filosofia, si offrivano a costituire il cemento ideologico capace di
saldare alleanze diverse tra i ceti e di rimescolarne gli schieramenti. Nella
svolta di fine Seicento, dinanzi all'atto di accusa rivolto dagli ambienti
cattolici alla nuova cultura e ai suoi progetti di rinnovamento, dinanzi ad un
tentativo d'imporre il prepotere ecclesiastico, il ministero togato serrava le
fila, si attestava sull'intransigente difesa della giurisdizione regia,
assumendola in proprio, senza demandarne la definizione a intellettuali
appartati, sia pure di grande prestigio, come il D'Andrea. La sua lezione
investigante non poteva più rappresentare la base per un'intesa tra monarchia,
viceré e magistrati, stabilitasi invece attorno al giurisdizionalismo, e
difatti egli venne del tutto ignorato nelle iniziative del duca di Medina
Coeli. Perciò gli Avvertimenti ai nipoti, completati nel 1696 e destinati a una
straordinaria fortuna, assunsero spesso il tono di una apologia retrospettiva,
pagarono il prezzo della contraddizione tra un modello ancora proposto e il
realistico riconoscimento dei cambiamenti avvenuti. Il primato dell'avvocatura
come alto magistero per il giurista moderno, argomentato con frequenti tinte
neostoiche, e come via regia per acquistare ricchezza e potere, vi si
accompagnava all'ambigua ammissione del risalto sociale e politico conseguito
dal ministero, ispirando una ricognizione minuta sulle vicende del ceto forense
negli ultimi cinquant'anni, che rimane esemplare per profondità ed acutezza di
analisi, ma che non può nascondere il fallimento del tentativo di fissare le
direttrici ideali per i nuovi gruppi dirigenti.Gli Avvertimenti furono
terminati l'anno prima del ritiro a Candela, nei feudi lucani del principe
Doria, dove il D. si ridusse per un impulso di solitudine e per curarsi lo
stato fisico declinante. Morì a Candela (Foggia) il 10 sett. 1698, di una
febbre terzana contratta a Melfi nell'estate. La sua operosità non era venuta
meno neppure negli ultimi mesi. Aveva infatti compiuto da poco un Discorso
politico intorno alla futura successione della monarchia di Spagna (edito di
recente dal Mastellone), che è il suo estremo messaggio agli intellettuali
napoletani nella "cupa" finis Hispaniae. Fonti e Bibl.: Fonte
principale sono le notizie autobiogr. sparse negli Avvertimenti ai nipoti,
pubbl. a cura di N. Cortese, I ricordi di un avvocato napoletano del Seicento.
F. D.,Napoli 1923, con intr., note e append. bibliografica ricche di
riferimenti ai documenti ined. e alle testimonianze più antiche. Per le date di
nascita e di morte si sono tuttavia preferite quelle indicate da L.
Giustiniani, Memorie istor. d. scrittori legali del Regno di Napoli, I,Napoli
1787. pp. 57, 65, confermate rispettivamente dai Registri battesimali della
chiesa madre in Ravello e dai documenti dell'Arch. Doria-Pamphili in Roma,
fasc. 19.8. Circa l'età in cui iniziarono i primi studi, si è adottato l'uso
moderno di considerare l'anno di vita compiuto, anziché quello iniziato. Si è
inoltre collocata la laurea nel marzo 1641, seguendo [G. L. Torrese],
Diligentissima Neapolitanorum doctorum nunc viventium nomenclatura, Neapoli
1653, p. 99, e G. Corrado, Nomenclatura doctorum Neapolitanorum viventium, Neapoli
1678, p. 21; la documentazione archivistica dell'Arch. di Stato di Napoli,
Coll. dei Dottori, lacunosa, ne dà conferma almeno e silentio. L'elenco delle
opere edite e inedite e delle lettere finora rinvenute è fornito da A.
Mazzacane, I misteri de' Prencipi. Lettere e scritti politici di F. D., Napoli
1986. Tuttavia, manca ancora una soddisfacente ricostituzione dei testi,
avviata, per le opere filosofiche, da A. Quondam, Minima Dandreiana. Prima
ricognizione sul testo delle"Risposte di F. D. a B. Aletino", in Riv.
stor. ital.,LXXXII (1970), pp. 887-916 (ma v. anche A. Borrelli,
L'"Apologia in difesa degli atomisti" di F. D.,in Filologia e
critica, VI [1981], pp. 259-80). Per il carteggio, due lettere al Redi sono
pubblicate e commentate da G. Tellini, Tre corrispondenti di F. Redi, in
Filologia e crit.,I (1976), pp. 401-53; numerose altre allo stesso sono
studiate da A. Borrelli, F. D. nella corrispondenza ined. con F. Redi, ibid.,
VII (1982) pp. 161-97; quelle al Doria (ora pubbl. da Mazzacane) sono in buona
parte citate ed utilizzate da R. Colapietra, L'amabile fierezza di F. D. Il
Seicento napoletano nel carteggio con G. A. Doria, Milano 1981, il quale
riassume anche precedenti lavori propri, annota e discute in maniera completa
la letteratura disponibile, antica e recente. Di essa perciò ci si limita a
ricordare soltanto le monografie e le raccolte di saggi che hanno maggiormente
animato, negli ultimi tempi, il dibattito storiografico sull'autore e sul
secondo Seicento meridionale, rinviando agli indici per la precisazione delle
pagine di diretto interesse: B. De Giovanni, Filosofia e diritto in F. D.
Contributo alla storia del previchismo, Milano 1958; Id., La vita intellettuale
a Napoli tra la metà del Seicento e la restaurazione del Regno, in Storia di
Napoli, VI, 1, Napoli 1970; N. Badaloni, Introduzione a Giambattista Vico,
Milano 1961; S. Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella
seconda metà del Seicento, Messina-Firenze 1965; Id., F. D. politico e giurista
(1648-1698). L'ascesa del ceto civile, Firenze 1969 (alle pp. 183-99 il
Discorso politico intorno alla futura successione della monarchia di Spagna);
L. Marini, Il Mezzogiorno d'Italia di fronte a Vienna ed a Roma, Bologna 1970;
V. I. Comparato, G. Valletta. Un intellettuale napoletano della fine del
Seicento, Napoli 1970; Id., Uffici e società a Napoli (1600-1647). Aspetti
dell'ideologia del magistrato nell'età moderna, Firenze 1974; Id., Retorica
forense e ideol. nel giovane D.,in Boll. del Centro di studi vichiani, VI (1976),
pp. 41-75 (alle pp. 62 ss. l'allegaz. Pro Congr. S. Ivonis); R. Ajello, Arcana
juris. Diritto e politica nel Settecento italiano, Napoli 1976; Id.,
Cartesianismo e culturaoltremontana al tempo dell'"Istoria civile",
in Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di R. Aiello, Napoli 1980; P. L.
Rovito, Respublica dei togati. Giuristi e società nella Napoli del Seicento,
Napoli 1991; G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, Firenze 1982. ANDREA
(Francesco ’)nacquenellaCittàdiRavellonellaCoſta d’Amalfi il di 2.4. Febbraio
dell’anno '1625. non già‘nel 162.4. o 1_óz7. come altri fi avvisarono. I suoi
genitori furono Die go e Lucrezia Coppola della ſtessa Città', e nobile del
sedile di Mon 58 -A N Montagna giusta l’avviso del nosiro autore'
(r) . Il Padre , che_ se ne stava in Napoli addetto all’ esercizio del foro ,
appena ch’ ebbe oltrepassata l’infanzia lo se quivi condurre (a), e di~ anni
10..-affidollo alla educazione de’ PP. dell' Oratorio . F in da quesia tenera
età incominciò a dar saggio de' suoi vivaci talenti, ritenendo con iſtupore
quanto legger segli facea, e quanto anche da’dotti sentiva , onde il nome gli
diedero di maeslro di me moria . La sua educazione però, esser dovea tuttaltra
da quella , che gliene diede poi il padre ne’ primi anni di 'sua giovanezza.
Egli accorgendosì della vivacità del figli0,non volle metterlo sot to la
disciplina degli oggigiorno espulsi Gesuiti per applicarlo ben toſto allo
ſtudio della giurisprudenza, anche sul sospetto , che quel li conoscendo i
talenti del giova‘netto persuaso lo avrebbero a ve flire le loro lane ,e privar
con ciò la sua casa degli avanzamenti, ' che avrebbe potuto sperare dalla sua
riuscita ,p Dell’etàdianni12.‘adunquemandollo adiſtudiargiurisprudenza,nien— te
iſtrutto di quegli altri ſtudi necessari a ben intendere questa scienza. Buon
per lui ch’ebbe_a maestro il tanto celebre Giannandrea di Pao lo,ottimo oratore
dique’ tempi, e stato già discepolo di Alessandro ...Turamino Sartese (3):
giacchè a dir del nostro autore (4) corse ri ‘schio di esser discepolo di Gio.
Domenico Coscia Calabrese, sopranno mato Casciana, uomo grosso d’ingegno , e
ſtato già maesiro di Diego suopadre. Fe (i) L0 attesia esso Francesco
nell’introduzione de’ suoi avvertimenti. (2)-Eglì ſtesso lo dice ne’ suoi
avvertimenti, ove parla della casa Rovito. (3) Nicolò Toppi bibliot. napal.
pag. 8. Giangiuseppe Origlia [sud. diNapol. r. a. p. '50. e Pietro Giannone
jlor. civ. del Reg. di Napo!. [ib. 34. :0.8. Q. r. in fin. scrivono ,'che
quiz/Zi ancorchè Senese d’ origine su Napoletana . Ma-si sono ingannati a
partito. Non pochi monumenti abbiamo da potergli reflituir la sua patria. Nel
1604. trovandosi in Ferrara scrisse una lettera al Cardinale Cammillo Borghese
in cui scrive: e Neapoli per Tbyr-renum in pan-iam adveäiur-c Nel-1592. dimessosi
dalla carica .di uditor di Rota nel {oro di Firenze, venne in Napoli, ed occupò
la cattedra di diritto civi le,come appare-dalla letteravindirizzäta a D. Gio.
Zunica Vicerè diNa 'poli, impressa nel libro de exaequariane legarorum,
pubblicato nel i593. e dall’altra scritta dall'autore a Lorenzo Usimbardo., che
fece precedere‘al suo opuscolo sulla L. non puro D.dejimfifri.
Neap.1595.in4.enel1594. per morte del Colombino‘passò alla primaria, e tutte le
opere , che pose qui a luce le dedicò' a’personaggí del suo paese; tal è quella
sana a Giro lamo Cerretano, e Francese* Accarisio patrizj Sanesi , che precede
al suo ,opuscolo ad L. fruit—im‘ , S. Papiníanur D. quem. dorperat. impresso
nel 1600. E* da leggersianche l’accuratissimo Lorenzo Meho in praes. op”. Tura
míni,ëdir.&nen/ir1-770. (4) Ne'suoiavvertimenti. 1 ñ n, o AN
'gç Fece gli intendereildotto GianandreadiPaolo,quantoeglieramal fondato ne’
primi ſtud; ,e qual bisogno avesse ,per ben. coltivare i suoi talenti nello
apprendere la scienza del diritto .Siffatti avverti menti però dispiacendo
all’ambizioso genitore , bramandojl più preſto di vederlo esercitato nel foro,
nell’età di anni 17. con di spensa volle addottorarlo nell’una enell’altra
legge per fargli intraprendere bentoſto un. tal esercizro. Egli non però
l’accorto giovanetto volle secondare i desider) paterni . N o n interruppe per
ciò dopo la laurea dottorale le sue' affiduc applicazioni nella let tura degli
autori latini e greci , tanto prosatori,che poeti. S'in vaghi non poco delle
opere di Virgilio , e di Omero , ed anche de’più scelti poeti toscani, per cui
avendoci acquiſtata una partico lar passione, com’c’ dice, non potè però
giammai vedersi da tan- ’ to a comPorre un *ver/b con'qualchc suo
dispiacimento. Queſta ' insinuazione gliela diede peraltro anche il dotto
Ottavio di Felice, avendogli fatto comprendere similmente quanto
fossenecessariol'ac— quiſto della geografia e cronologia ,senza di cui e’tratto
non avreb be un maggior profitto dalla ſtoria, e che ſtato sarebbe ancor per lui
molto vanta gioso apprendere qualche cosa di moral filosofia. Colla guida de’
su odati valentnomint giunto all’età di anni zo. in cominciò la carriera del
foro, *e ad iſtudiare gli articoli', che oc correano-nelle cause del padre. La
prima scrittura,ch' e‘ mandò a ſtampa fu-sull’ articolo eccitato in un litigio
del, principe di Ca salmaggiore ,se l’interesse ~di più anni pote'a- eccedere
il doppio della sorte principale . Lo spirito di novità con cui mane‘ iol-lo,
piacque non poco alConsigliere Arias de Mesa stato diggi catte 'dratìco di
Salamanca . La seconda in una causa d’ importanza del Principe d’Aquino col
Duca dell’Acerenza per la vendita diGiu gliano, e in risposta di quella fatta
da Giulio Caracciolo. M a poichè incominciò a veder da lungi. lavaſtità delle
scienze, cad iscorgere qualeabilità ancor naturale richiedeasiñameritare ilnome
dioratore,‘moſtrossìsul rincipio Corantoritenuto.diarringarc‘ nelle ruote, che
su nella risoluzron di volersi di ’nuovo,rinchiudeñ re ,-se animato non lo
avessero i dotti, e poſtogli avanti gli occhi
lasuaabilitàesapere.Undiqueſtisuil celebre Cammillo Colonna Signore di somme
cognizioni, dandogli de’savsi) precetti, e la notizia insieme di scelti
scrittori aformarsi un buÒno e diverso ſti— -le degli altri del foro. Ho ammise
i-ndi nella sua letteraria accade-l mia-,che radunava in ogni settimana‘,
perfarlo esercitare sì nello* scrivere, che nel parlare alla, presenza' di
uomini colti. Queſto c sercizio confessa il noſtro autore che gli su di sommo
aiuto, e che .perciò .vedeasinon poco obbligafo aqucſto gran
protectorde’gtovani. Indi siascrissealla congregazione S.lvonc.,ove
,recitò_una.suaart-?l 2. zio 60 AN zione in lode di quella
is’tituzione; ed avendone riportati univerá sali applausi ,incominciò pian piano
ad incoragirsi ,e a deporre quel timore,chel’aveafinallorasorpreso.Quindi
trattenendosiunamat tina* nel Collaterale ,in cui doveasi trattare la tanto
famigerata cau sa tralla succennata congregazione ,ei PP.Gesuiri, iquali
pretendeano -fondarne altra, ed’ essendo ſtato chiamato dal Vicerè Duca d’Arcos
il difensore di essa congregazione , non vi' si trovò per allora. Niu no de’
tanti avvocati della medesima,che vi s1 erano radunati vol le esporsi al
cimento , ed il solo noſtro Francesco di anni ar. non già. zz. secondo vuole il
Giannone (1) si addossò eſtemporaneamente l’in carico,e parlando colla più
sop‘rafflna elo uenza , e sodezza di ra— gione ,ancorchè avesse dovuto
rintuzzare [avversario Francesco Pra to,che parlato avea in favella
Spagnuola’,ne riportò a suo favore siuna compiuta decisione. Queſto dir solea
il noſtro autore, esser ſtato un de’ più segnalati punti di sua vita, e il
primo passo alla gran fama , che andò dipoi sempreppiù acquistando., Volle il
Vicerè crearlo fiscale nella Regia Udienza di Chieti, che vi an
‘dòpoiversolafinedel1646.caricach’e liaccettòmalvolentieri,eche dispiacque e
ualmente aglialtriperve ersi allontanato dal foro un giovanedi
rffattaesettazione.Egliperòdilàadueannivisireſti tui,'e dopo di ave 1
procacciata della gran vfama nel suo eserci zio insieme‘ con D.
Michele-Pignatelli Preside -e governador delle
-armióinambedue’le‘provinciedegli'Abruzzi intempi sìmemo rabili di popolari
rivoluzioni (z). Seguendo quelle provincie l’esem pio della capitale, quel
savio Cavaliere’non trovò più abile Sog getto, che ll giovane'd’ Andrea,onde
valersi in fiff‘atte circoſtanf ze a sedare ilfurore dell’insano popolaccio.
Tanto nell’eseguire le incombenze del Pignatelli, quanto i nuovi ritrovati da
lui, a ben riuscir nell’impresa in vari paesi tumultuati, moſtrò maisem pre una
gran saviezza,ed una più che invecchiata prudenza-Chi unque volesse
soddisfarsene legga la sua scrittura(ch’ io notcrò nel n. 7.) che conservasi
tuttavia *dall’amabile odierno Marchese di Pe scopagano Sig. D. Diego d’Andrea
Regio Consigliere di S. Chiara, -e del nuovo Tribunale dell’ Udienza
dell’Esercito, Marina ,Caſtel
lidiquestaCittà,edell’Alcaida‘to,ilqualgentilmenteme lapassò nelle mani, ond’io
tratte avessi lesuccennate notizie. Sa (1) Giannone [lor. civil. del Reg”. di
Napo!. [ih-38. cap. 54’431. edizd723. (z) E’ norabìle , che tra i rubelli
eranvi in Napoli Vincenzo, e Francesco d’Andrea di altra famiglia
ignobile,edessendo ſtatocreatodalpopoloCon
figlierediS.ChiaraessoFrancesco,mandataindilañnon degliuffiziali s a m dallo flessoinsuriflo
popolo, si credette da taluni, ehegil noſtro Fi -scale d' Andrea fosse stato il
promosso ,- qual equivoco su smentito da esso --Miehele Pignatelli'. O 4. u
1 "A N .ci Sarebbe ritornato'in Napoli fin da Luglio 1648. se
un ordine della Camera non l’avesse dovuto trattenere sino a Settembre dello
ſtesso anno. In qual tempo ripigliò l’esercizio del noſtro foro, e sparse
ditanto intalminiſtcroilgrido-disuararacapacitàedeloquenza,ch’ ebbero ad
appellarlo ilcomun maeſtro ,e il principe degli oratori (r). ,Il Conte di
Ognatte avendo, dinuovo mandato il Pignatelli nelle ſtesse Provincie, ed
avendogli data la facoltà di eliggersi que’ mi niſtri.perUditori,che iù—abilie
dotti gli sembrassero, eglisulle rime fe'scelta del no r0 d’Andrea: ma `per quante
fossero~ state e preghiere fattegli da quel Cavaliere , non volle avvedutamente
interrompere altra volta il corso dell’avvocheria per non essergli, com’
e’disse,nè di utile, nè di decoro. Nell’anno 1656. accaduta in Napoli quella
fiera peſtilenza, sotto il governo del Conte di Caſtrillo, cedescrittaci da
parecchi noſtri ſto rici (2.), volle il Principe di.Cassano seco condnrlo ne'
suoi stati nella Calabria Citeriore . Indi cessato il contagio fatto rrtorno in
N a poli, trovò quasichè tutti morti -i professori del noſtro foro. Per la
scarsezza adunque di queſti, e più ,per la sua 'abilità ;'se gli ac crebbe
ditanto il numero de’clientoli,che tempo non reſtavaglia riſtora'rsi dalle
tante gravi applicazioni,asegno che incomincio ad infaſtidirsidi sua professione,
e a contrarre delle varie indisposizio - uelle di,Antonio Gomez,e di Domenico
Bracati:il primo inqui q sito di capital delitto, l’altro di menomato. zelo
verso del suo So _vrano. L’uomo quanto ‘eradotto, altrettanto ancor fortunato.
Egli ebbe a perorarle,laprima aVanti del-Vicerè Cardinal d’Aragona ,l’al tra
avanti del VisitatorCasati, uom coſtui rigidissimo pe’diritti del suo Sovrano;
e nulladim`eno~ne riporto compiute vittorie, ed alla gran gloria,chevenne
adacquiſtarsiconsiffatti patrocini,ne ,otten ne ancor delle buone' somme, che'
a larga mano gli diedero i rei. Circa queſti tempi essendosene` morto Diego
suo‘genitore,edavanza te più le sue indispofizroni,risolvette' nel 1669.‘di
fare 'un viaggio per la noſtra Italia (3), a ffi n di ricuperare la quasi
cadente dlhîi sa .-~ t — ` -î- 11-.... (i) Vedi il dotto Caſtelli adjeéiio”.
'ad Cart-aber” part. l. say-'l, n.34. et 35. Francesco Maradei prati:.`
universal. proceflur execufi-vi cap. a. n. 64.1). 64. (z) Vedi il.P. D. Carlo
Francesco Riaco :Jil giudizio `di Napoli csi/'sussidi‘ \ ni ed acciacchi sulla
propria salute. ñ " f- Le prime cause , che difese dopo il ritorno dalla
(Calabria, siiron passato conteggio cet.,ln Perugia [658. in 3. e il
.Ragguaglio della mirato losa protezione di S. F rancesco Saverio *ver-fit la
Città e il Regno di Napoli ì nelcontagiodel1656.d’incertoautore,ma
senzafallo_Gesuita,inNapo— - ii, e in Gratz nel 1660. e di nua-vo Napoli .x743.
inps. Parrino teatro de' Vic”) di Napoli t.2. Pag. 191. edi-z: [77_0- . _ . `,
›_~. (3) Vedi il noflro, autore negli avvertimenti a’suot mp0” 5. i. l. O '
'6:- AN lute . Egli girò per lo spazio di anni quattro, e luogo non vi .su j
ove giugnesse,ch’ esatti non avesse i piu alti applausi esegni di ri spetto e
venerazione. lo tralascio a far parola di que’ favolosi rac conti e del m o d o
, 0nd’ egli viaggiato avesse per diverse parti dell’ italia; poichè ſtiam pur
nella certezza d’ essersi fatto dappertutto conoscere,e dappertutto ancora
esige atteſtatì diſtima ediammi razione . ln var} tribunali a preghiere de’ più
grandi del. luogo, eb be a sar sentire la sua eloquenza, e donde partiva
lasciava negli animi di tutti segni di affezione. Grandi furono gli onori, ch’
egli esigettc in Firenze (i) e in Perugia, che in occasion di sua par tenza
composero i Perugini la seghente raccolta intitolatas Affet ti ossequiosì delle
Muse di Perugia nella Partenza del Signor Francesco d’ Andrea Napoletano; In
Perugia 1672.. in 4. Nell’ anno 1672.. alle cantinue preghiere de’ suoi
illuſtri clientoli, e dello ſtes’s’o Vicerè, come si dice , ebbe a ritornare in
vqueſta Ca pitale, e ripigliare per la terza volta l’esercizio del foro. Ella è
coſtante tradizione,ch’vogni qualvoltadovea perorare,radunavansi i più dotti di
queſta noſtra Metropoli, e con essi gli eſteri anco ra (z). Il celebre Giovanni
.Mabillon (3) calato in italia nel 1685. col carattere d’ Inviato del Re di
Francia per visitare le noſtre bi blioteche ed -antichità,dice di averlo
ascoltato non seme! in Mist fn principîs Satriani magna cum eloquentiae flumine
et fulmine Perorantem (4), ancorchè perallora- fosse già di anni 60. Dice
Pietro Giannone (5).,,ch’ egli fosse stato il primo a sar risonare il nome di
Cujacio,~-e di altri eruditi scrittori nelle sue aringhe . Autorità che' venne
abbracciata dal Giannelli (á) ,e dal Grimaldi (7)
avvisandoqueſt’ultimo,`che‘fosseſtato ilprimainn-adattaredelle
operedelfamoso'anacio(8);Ma sÎingannaronosull’autoritàdellostes ... lb‘7 y .-
:l_. (i) Vedi le opere di Franc-,eseqRedi rom. 2. pag. rzt. e rom. 4. pag, 63.
(z) Vedi Tommaso- Burner lnglese nel *viaggio d’Italia, l'autore dell’epi/iol.
de ”He ín/Zímendfl academ., ad Lam. Prism” Venet. 1709.7. 21. e la vita, che ne
scrisse Biagio Majoli A'vitabile impressa nelle ”ire degli Arcadí ì] ~~iilvh to
1- p ' (3) E’ troppo noto nella 'repubblica delle lettere queſto erudítislimo
scrittore ~nato ‘in S. Pierremont nella Diocesi di Reims nel 163‘2‘. 'ed
_entrato nella Cangregazionej di S. Mauro l’afluò- tanta gloria colle sue opere
. Vedi . h Cei-f. biblioteque -hi/Ìarique army”: du .Am/mm' de 'la Congregalìon
a': S'.Maw., Ruinart ‘vita Mobil!. ‘ (4) Mabillon im' Ita/ir. p. to;.‘~ - (5)
Giannone islar. civil. [ib. ;8. cap. 4. ' , › ì -ñ ñ (ó) Giannelli editi-azione
'al figlio cap. 26. p. 230." (7) Ginesio Grimaldi isl_aría del/_e leggi
{Magi/Ira” del Reg. di Nflp.t.x.p.106. (8) Vedi le notizie :siam/ae degli A m d
: mom' , tom.- a. p. 14. a z-r. z” ~ f ,-- _.—,__ì ..IN-M,... _._ñ- `_ .
j l'-ó—. ñ -‘ ñ ó**Lt-ñ.: ax- LA N 63 so nostroFrancesco avendo
volutodarsi un talvanto negliavverti mentiassuoiscrivendo:Iofuiil
rima,chefecisentirene’no/Ìn" tribunaliil”urnediCujacio,e
eglialtrierudiri.Ma chiunque rivolgesse inostri scrittori legali,che gli
fioriron d’ innanzi ,vi rat troverebbe spesso nelle opere loro i nomi'di tutti
quegli autori,che surseroda Andrea Alciati fino algranCuiacio(I).Se questi
sivalea— no nc’ loroscrittì delle autorità -di tutti que’ dotti interpreti
,parte Italiani,veparteOltramontani,come puòcredersi,cheperorando ne’ tribunali
sentir non facessero anche iloro nomi. Questa gloria,
chevolledarsiilnostrod’Andrea,nonsapreicomescrbarcela. .i Che da’ suoi tempi
incominciata fosse.un epoca più felice ,per un cet. tomodo
introdottodalui.nelloscrivere,eadisputargliarticoli, nongià‘secondoil
ocogustode’precedentisecoli,ma iustale regole della ragion civile ,e delle
nostre municipali leggi ,e sì quel vanto che merita assolutamente il nostro
autore. La storia e la cri tica,mezzi valevoli a ben intender le leggi, per
quanto potè l’in trodusse,-siccome'osserviamovnelle prime allega'zioni‘,ch"e’scrisse,
e raccolte poi dal Moccia, e dal Staibano . e ì . - Egli s’impe nò,che.la
giurisprudenza s’inse nasse anche con miglior metodo e’ erudizionc nella noſtra
Univer lfà .'Si adoprò similmen te, che la cattedra di matematica si occupasse
da Tommaso Cor ' nelio gran filosofo e medico’ di quel tempo , ch’egli venir
fece da Roma nel1649.,quegliſtessoche*introdussepoitranoilevopere del celebre*
Renato des Cartes,e volle-annoverarsi trai primi suoi ascoltatori . F e
riſtabilire la .cattedra- di lingua greca con darsi al dot to Gregorio Messeri
verso il1687.. come anche indusse Gio. Batiſta Cacace ad insegnare la
rettorica, nel tempo -ſtesso ch' egli era pro fessore d’ iſtituzioni -civili
,'mancandovi una-tal cattedra nella Uni vcrsità degli ſtud) , ch’ indi fu
eretta , e conferita ad Antonio Orlan dino. Fece ancor risorgere ñl’accademia
degli Oziosi (a),e fu uno de’ fondatori delle accademie degli Oscuri .(3) de’
Razzi (4.) , ‘de gl'I/zveſtiganri (5), e venne asgritt’o alla generale adunanza
‘d’Ar .: , . .aaca ‘(t) Osserva il mio leggitore le opeíe di Francescantonio
d’Adamo, di Vince zo_ Alfani , di Domenico de Rubeis, cet-’per res’tar‘
persuaso- di quel che i è da me afferiro. - ' . . v (z) Nell'anno 1611.‘ Gio.
Batìſta Manzo Marchese di Villa' iſtitui‘ una tal a c c a d e m i a .‘ Vedi G i
u l i o C e s a r e Capa c c i o m i s u r a / f i e r e p a g . 8 . e 9 . e d
g b be il`suo principio addì 3. Maggio ne’chiolii’i di S. Maria delle Grazie...
presso S. Agnello . Vedi Tommaso Coílo memoriale de’succejji del Regno p di
Napo/ì, in detto anno, 16”. g‘ (3) Nel M79. su eretta l’accademia degli Oscar!.
(4) Nell’ anno ſtesso surseì'quell’ altra accademia sotto nome de’ Razzi . (5)
Quella celebre adunanza iſtituìta anche nel 1679. venne protetta da D. -
Ao ~› e cadiacolnomedi'Lariscasafl’o. \* -'- ‘Egli adunque ambiva
‘di riformare il guſto del foro. e della cattedra” e fe de’ sforzi a riuscirci
.-Per quanto potè moſtrossi protettore de’ letterati, co’ quali piacevagli
molto il conversare . Ebbe dell’ a micizia con Lucanconio Porzio , Luca Tozzi,
Cammillo Pelle grino, Carlo Buragna , Grana-alfonso Borrelli , Nicolò Amenta ,
Giambatiſta Capucci , Daniel'lo Spinola, Michele Gentile e, D o menico Scutari
, Pietro Lizzaldi Gesuita , Sebastiano Bartoli, Fran cesco Redi, Antonio
Magliabechi, Giammario Crescimbeni, Giu seppe del Pa a, Gabriello Fasano,
Tommaso` Cornelio , Lionardo deCapua,e
altriassaisiìmi;.moltide’quali,chescrìfferodelleope re, non lasciarono
di`fargliquelle dovute lodi-nelle medesime, e parte gliele dedicarono ancora ,
come il Cornelio l’ opdka de eine, cumpulsione Platania:. ll Crescimbeni
colmollo di lodi nella‘ifla ria del a 'volgarpmſta, e il Redi Co’ seguenti
versi nel suo Bacco 6.1. AN i”Tosì‘ana: ;L- -. ì ñ. ^‘_ E se ben Ciccio d’Andrea
l Con amabilefierezza, \ .ñ‘ . Con terribile doleezàay , -. ‘~ Tra gran mani
d’eloquenza Nella propria mia[presenza › _ ...i` _. Inalzarundi‘*voeva .~9 ñ
y-, -..\ - ' Il Conte di. S. Stefano Vicerè di Napoli lo relesse Giudice di
Vicaria vverso, il 1688. e‘quì debbo notare un errore in cui sono incòrsi v ,
..,‘h —tutti AndreaConcubletMarchesed’Arena,dcflinandolapropriasuacasa.Ve di
Giannone lib. 40. rap, 5. Lionardo di Capua; parer: ragion. 8. Carlo Suv sauna
in Buragnae vita. Lucantonio Porzio in opnseus. de mom graùium,et ` deìorig.
semi-nn . Giannalfonso Borrelli nell’ api/i. dedie. al, suo libro da ,
mazionibu: naturalibus a gra-visure pendentióu:. Gl’iſtirutoti furono T o m m a
so Cornelio, Lionardo, di Capua, il nostro d’Andrea , e il dilui germano‘ fratello
Gennaro, nat-o addì. 4.‘ AgoſtosideL 1637.-e morto nel 1717c~di an ni 80. da
Reggente di Collaterale, e Delegato della giurisdizione.
(i)Gimmaelogiaccademicipart.1.nell’elogiodi.PietroEmiliaGuaseo.A sti dell’ ush
ed autorità della ragion civile lió. l. tap. l. p. 4L‘infin- Gianno
neIibÌ38.mp4... [ib.39.up.1,[ib.40.rap.8.Staibanor.2.resolat.185. Celano `delle
notizie del bello , dell’ antico e curia/ò della Città di Napoli, x. 3.
giornata V. p. 92. Fabroni 'vitae Ita/or. t. 3. p. 332. Ariani comment. , dc
chris iuriseonfl Napo!. p. 26. ` Quel (PA-versa acido Asprino, ` ì ,~~“ Che
nonfl) s’è tigre/70,0 -vina, ’ j- - -‘ ñ" .' ì. -. r.~ ì ~ .-.' -'
.EinaNapolise!-óea- p ‘ Del superi-bo Fasano in; compagnia cet.
nèaltrimentiparecchi-altriscrittori(1). , '\ ñ _..._-ñ-_._.. -ññ . -..r.-
*A 'AN 65 tutti coloro che ne han fatta parola avvisandosi, che il
Re Car lo II.` innalzollo al grado di avvocato fiscale del Real patrimo— nio;
qual carica essendogli troppo odiosa , commutar la volle con quella di Consigliere:
ma da’libri delle discendenze del S. C. ri levasi , ch’ egli ebbe la commessa
delle cause del Consiglier Ste— fano Padilla nel dì zo. Settembre del 1689. e
nel 1691. passò avvocato fiscale, e le sue cause furon commesse al Consigliere
D. Pietro Messones con decreto die 6. mensir sulii. 1691. Dopo anni 9. in circa
di esercizio miniſteriale,ne reſtò talmente annoiato, che rinunciar volle la
toga, e cercar un pò d’ ozio filosofico, avendo menata sua vita da circa anni
50. tralle noiose cure del foro, e in una piucchè assidua applicazione . A tal
fine si ritirò nella noſtra Mergellina,eproprionelladiluimasseria,checomprossi
erdue. zooo. ove fin dal primo giorno assalito dalle frequenti viiredegli amici
e clientoli, si avvide ben toſto, che non avrebbe soddisfat to il suo
desiderio; quindi se passaggio nell’ Isola‘di Procida, lusin gandosi ch’ivi
trovato avesse quel tanto suo bramato intento: ma non gli riuscì nemmeno tal
sua risoluzione, frequentata venendo nel modo iſtesio la dilui abitazione da
numerosa folla- di litiganti a chiedergli qualche suo savio regolamento, ed
inquietato piuc~ che mai veniva dalle visite de’sav) viaggiatori Europei,che
calava no nella noſtra dotta Italia per riverire un uomo, la cui fama erasi
diggià sparsa per tutto l’orbe letterario.Fu coſtretto perciò por tarsi in
Candela terra in Capitanata, ove venne. a morte addì IQ Settembre verso le ore
z:. dell’anno 1698- e di sua età settanta treesimo, e mesi,e non già come altri
scrissero di anni .7t. Il Vescovo di .Melfi si adoprò nella miglior maniera,
onde rendere gli ultimi uffizi alla sua memoriaznè mancò persona,che fatta gli
avesseorazion funebre,laquale è ſtata da me lettamanoscritta,e non s0 se fosse
ſtata benanche impressa. Il titolo èqueſto: In obi tuDominiFranci/ZideAndreaRegiiConsiliarii,acinRegiaCa
mera Fisci Petroni elegiacum carmen ,et oratio nabita ab UJ.D. s0.Bapti/Za
Patetta. Ora altro non resiami,che dare a’leggitori un elenco delle tante 'sue
opere,ed i motivi 0nd’ ebbe a scrivere alcune delle medesime. E’ celebre nelle
iſtorie la controversia mossa da’ Franzesi nell’ anno 1666. sopra il Ducato di
Brabante, ed altri ſtati della Fiandra contro i Spagnuóli . Per affar sì serio
vennegl’impoflo dal Vicerè D. Pietro d’Aragona sul principio del 1667. di
scrivere in difesa del lor Sovrano Carlo Il. Egli l’Andrea eseguì bentoſto un
tal comando, eaddì2.8.FebbraiodelloAſtess’annoglipresentòunasua dotta
scrittura, col titolo: ' .
1.DijkrtatiodesucceffioneDucatusBraáantiae.QuaMenditurmul- - Tom!. vI lam
4 66 AN lam Córislianiflîmae Reginae ad ejusdem _Dueatur la
ereditata-m spem fieri ;per Consuetua'inem illms pravmciae ,quaefilias primi
Îlori *vom: ad parenti-”n berediratem exclnsir liberi: , quam-ui:
mn/?ulisorti;exsZ-Cimdo;quodea,tanquani rivarorumci-vinm propria, ni/Îil commune
habent, eum sucçe zone_ Publica tori”: Principal”. Volle intanto il Vicerè, che
m dllUl presenza sotto scritta l’avesse, affinchè sr'egiata del suo nome,
impoſta avesse in Europa una più alta e maggiore autorità,e così manoscritta
inviol la in [spagna. Ella non su mandata a ſtampa per non dar nuovo motivo a’
Franzesi di dire, che i noſtri fossero ſtati iprimi a pro vocar li al cimento,
non avendo pubblicata alcuna delle scritture, ch’ in i in poi produsse-ro. M a
nel mese di Maggio, come siebbe avviso,che il ñRe Criſtianiſtimo era giunto co’
suoi eserciti nelle frontiere della Fiandra, e che n"el medesimo tempo
avea fatto pub blicare di suo ordine una scrittura inlingua spa nuolasi), coi
tito tolo: Traffado delos Deree/ms de la Reyna C riflianiflimn fi)er *vario:
E/Zador dela Monarquia de Españ'a ; toſtochè l’ebbe nelle mani ilVicerè D.
Pietrantonio d’Aragona l’inviò alnoſtro autore con ordine di rispondervi,nel
mentre ilRedi Francia entratone’ paesi bassi avea incominciato ad usarvi tutti
gli atti della ostilità. L’ Andrea vi fece la desiderata ris`poſta,e su una
delle più celebri scritture, che vedute si fossero in tal occasione. Eccone il
titolo: z. Ri/jdo/Za al trattato delle ragioni della Regina Cbri/liani/Iìma/b
pra il Ducato del Brabante, con altri fiati della Fiandra , nella
qualesidimoslral'ingin/lizia dellaguerra mossa dalRe diFran cia Per la
conquisha di quelle Provincie ; non o/lanti le ragioni, eee _fifim
pubblicateinsitonome,PerlaPretesasueeeflioneafavor della Regina
Cbri/lianijsima. In Napoli Anno 166'”;- infl Fu ripro dotta con un nuovo
discorso, ed alcune lettere' nel 1676. in4. Nel mentre che ilnoser d’Andrea
ſtava mandando a ſtampa lasur riserita rispoſta,comparve altra conftttazione
alla ſtessa scrittura de’ Franzesi,scritta da un dotto miniſtro in franzese, ed
essendone ve nuta una sola c0 ia in queſta Capitale, su da un eruditissimo mi.
niſtro volta in lingua Spagnuola , e mandata di nuovo a ſtampa, e finalmente
tradotta in italiano. Intanto un certo Aubery avvo— cato della Corte del Parlamento
di Parigi diede fuori un libro: Des _ju/les Pretentions du Roi sur l’Empire
.Paris 1667. a cui si dice dal Giannone (2.),che l’Andrea data-vi aVesse
altrarispoáia, —e (I) Vedi l'informazione al ieggitore di esso d'Andrea
'impressa nella risposla al` trattato delle ragioni cet. Giannone ci!. [ib. 39.
cap. i. (a) Vedi Giannone lio. 39. cap. i. As N 67 e'd impressa
nello ſtesso anno 1667. in 4. (I). . x 3- Disputatio a” flames influida no/Zri
Regnisucco-dan!, eum frati-i deeedenti non sunt eonjum‘îi ex eo latere, ande ea
oàvenerunt . A d intelleéium Con/lirationis Regni m‘ de [iiceeflionibus ,de sue
cessionenobilium.Neap.apudParrinum,etMarian-11694.in Ei la è ſtata riſtampata
molte volte .Nel 1717. ex typogr. Simoni/ma; e nel 1769. Avendo in queſta dilui
opera consutato Andrea d’lfier nia, videli dopo la sua morte un certo Dottor
Gio. Bernardino Manieri dar fuori propugnaeulnm Winiense, come nei dicoſtui ar
ticolo t'ratterò più a lungo. . 4. In un opera del Cardinal de Luca (z)trovasi
una sua scrittura:sii per sèererariorum APO/Zolieorum /uPPreflione. . 5.
Consultariones in muffa sanno”. Majoratus s0. BaPti/Zae. Tro— vansi presso
Gio.Torre (3). ì ó.RejÌmnsajm‘is’flipersuceeffionesaltata-ia,etquando babe”;la
cum, neene. Si hanno presso lo stesso Torre (4). 7. Relazione de’jèr-vizj fatti
nel tempo., ea’e/ercitö il Po/Zo di avvocatofi/ealenella
rovineiadiAbbruzzeCitra,eParticolar mente di tutto ciò‘, e e da lui si operò in
ser-vizio di LM. menz tre din-arena le rivoluzioni Popolari; cominciate in
Napoli nel di 7.diLuglio 1647.ete/Zinteneldi‘6.diAprile164.8.in Le altre sue
opere rimaſte inedite,sono: Varie lezioni intorno allafilosofia dellescuole, e
del moderno gu flo introdotto nell’arte difilosofare.Furonrecitaredaluinell’ac
cademia degli Oziosi , e quantunque i suoi. sentimenti sembrassero flrani per
allora, furon dipoi abbracciati e 'coltivati, Trattato degli atomi con varie
lezioni filosofiche. Voiqarizzamento dell’erica d’Ari/Zotile. ‘ ' Difesa della
filo/olio di Leonardo di Capa/t, contro l’Aletino indi— rizza/z al Principe di
Feroleto. Queſt’ opera , ch’ avrebbefi dovuta mettere a luce, giacchè in essa
l’autore fe pompa dei suo sapere, e varie furono le inchieſte de’letterati, non
so perchè trascurato lo avessero i suoi eredi. Infatti il nofiro dotto Nicolò
Amenta (5) scrisse:non ba gnam', consomma mio piacere, e con profitiarne ‘ non
(1) Alle altre scritture de’ Franzesi , non vi mancarono ‘altri
dottíopposirori, che leggersi possono nel Diario Europeo rom.XV. X V L e XVIII.
e men tovate vengono dall’erudito Struvio Syntagm. [Ji/Zar.Germ. dafl'ertat.”
S.” (7.)De Lucatraéi.deoffieiis.Romae1682. ' ñ . (3) Jo. Torre traff. de
susiefliom in Majoraxibmflet. Lugduni Ani/fln
1688.1.:(4)*Idemma‘.deprimogenitìs'Italia:eap.39.5.7.e9.ct”11.40.5.6.Lugdu- l m
1686. › (5) Amenta nella Vita dì Lianarda di Caploa pag-.54. ` * 2 . ñ.
53 AN non poco, ho letto, e riletto: nè jb perchè il dilui fratello ,il
Tagguarde'vole per tanti capi, Regçente del Collateral Consiglia, Gennaro
d’Andrea ,non l’/7a fatto Pubblicare Per 'via delle [Zam pe, quantunque ne
[/rabbia i0fatto pregare. In tretomi in foglio ella conservavasi nella celebre
libreria diGiuseppe Valletta (1). ln un de’ Codici Magliabechiani in Firenze
(z) evvi una lettera- di esso Francesco de’ 2.3. Agosio 1685. con cui gli
chiede notizia di var) libri, che consultar dovea per tal suo lavoro. Disror/b
della nobil famiglia della Marra . ,. Discor/n sopra la /uc‘reflirme di ?pagna
in morte quando filC-'Có’dsldel ReCarloII.d'Au/lriagia}disperatod'a-verprole.Lo
scrissestan— do in Candela colla data’ del di 15. Aprile 1608. Zisa/jime ,
ojjiano avvertimenti a’suoi nipoti, D. Gia. e D. Andrea , per farlor
divvisare,eneasoslenerelacasanellagrandezza,in
cuiegli,eilReqqentesuofratellol’a'vean Palla,unicomezzo era l’avvor/;eria .
Quelli avvertimenti, ch‘ egli scrisse nell’ età di an ni 71. non sono ſtati
impressi per aver incontrato l’oſtacolo di alcuni personaggi, ch’ebbero a
scorno il sar vedere la di loro ori gine da qualche professore del noſtro soro.
Son tante però le copie a penna siſtentino in queſto nostro Regno, e fuori, ch’
è riuscito vano il loro impegno. Si vuole ch’ egli avesse compilata quella
s’toria di alcune famiglie no bili del nosiro Regno, che altri però
attribuiscono al Presidente Gaetano Argento.Ma imoderni noslri critici la
vogliono a ragion tuttagdi esso d’ Andrea ’scorgendovi in essa un metodo tutto
suo proprio , poichè l’Arge’nto quanto dotto, altrettanto un pò scarso
nell’ordine delle scritture. Lasciò finalmente più volumi di allegazioni, come
dice ne’ suoi avi vertimenti, mapochediqueſte sonoſtate conservatedaalcuniscrit
t-ori,ed inseritenellediloroopere,come dalStaibano,Silva,Ma radei, e Sorge (3).
ANELLO (Gabriella)mandò'a ſtampa: De judieiornm civiliflm
ordineadNeapolisTribunaliumnormam,necnonpro-w'nriarum, [cz-,Fumane,qua e:
Curiarum infimarum Regni aélitandi i” aligui Imc minima 'varietas,
advertitur,Pro Clerieorum PraHicorum in ÌBÌÌÌQEÌIti”,6tF.P.juvemsisusa,
con/*cripta:bre-w,Foggiaeſtu dio/ae ju'UC’ÎIH-ls'l dieatus. Anno 1-780. in 8.
ANGELIS (Baldaffarre de) dicesi giureconsulto Napoletano‘, edeb be a nascere
nella decadenza del secolo XVI. come rilevafi dal '' . . le (l) Vedi i giornali
rie’letterati Venez. t. 24. pag. 89. (z) Sognare Vlsl. Francesco d'Andrea cet.
133. (3) Smge in'sua pale/ira iuris t.z. allega:.7. Parlando del
DiCapua,ilVolubile,aiprincipiidel1683, dice che vent'anni prima a Napoli era
fiorita l'Accademia degli Investiganti; un semplice calcolo ci riporta adunque
all'anno 1663. Le parole del Volubile sono anche confermate, nello stesso
luogo,da Cesare di Capua (73). Io credo,adunque, di non errare affermando che
questa Accademia fu fondata nel 1663 e che il Buragna fu tra i fondatori
principali, pur non potendo, però, frequentarla a lungo, perchè alla fine di
quello stesso anno dovette allontanarsi col padre da Napoli. E , del resto,
l'Accademia non fa che dar nome e sede ad una associazione di uomini già uniti
da anni in un'intima comunanzadistudi,diintelletti,diaspirazioni.Andrea Con
cublet, uomo amante degli studi e delle dotte compagnie, è il fondatore, dirò,
materiale dell'Accademia, a cui assicurò (72) Non premessa al Parere dello
stesso, come da alcuni fu scritto, per la già notata confusione fra le opere
del Di Capua. Cfr. le n.6 e 61 di questo capitolo. (73) Nelle citate Lezioni la
lettera del Volubile è preceduta da una prefazione di Cesare di Capua, che ci
informa essere state queste Lezioni del padre suo, ancor vivente in quel tempo,
recitate appunto nelle riunioni degli Investiganti; e anche il Di Capua,
scrivendo nello stesso 1683, parla della Accademia come di cosa anteriore di
venti anni. Non vi può esser quindi dubbio. -76 V la vita con
la sua munificenza é la sede col suo palazzo ; ma,virtualmente,l'Accademia
esisteva già(74). Fra gli Investiganti, col Di Capua, col Cornelio, col Buragna
, col Borelli, coi fratelli D'Andrea , troviamo G. B. Capucci, Camillo
Pellegrino (75), il dotto vescovo Giovanni Caramuele, Sebastiano Bartoli, L. A.
Porzio e qualche altro. Dal Volubile sappiamo che l'Accademia aveva per impresa
un cane bracco col motto lucreziano : « Vestigia lustrat »; motto e impresa che
ben rendono, insieme col titolo, la fi sonomia, gli scopi, gli ideali degli
Investiganti. E , invero, gli Investiganti non vanno confusi con gli
Addormentati, gli Insensati, con tutte quelle migliaia di in coscienti
perditempo che avevano formate le tante Accademie di quel secolo. L'Accademia
degli Investiganti si collega direttamente a quella del Cimento, fondata sette
anni prima a Firenze, e ne trapianta a Napoli l'opera e le idee ; essa,
attraverso il Borelli e il Cornelio, mette capo a Galileo. Il Susanna stesso ci
dice che il titolo era stato scelto appunto ad indicare come gli Investiganti
si proponessero di percorrere le nuove vie scientifiche e filosofiche,
procedendo con la ri cerca e l'esperimento, simboleggiati nel cane bracco e nel
motto. In mezzo ai cultori della scolastica e della casistica, (74) Anima degli
Investiganti, anche per la sua grande attività, fu Leonardo di Capua ; non è
però esatto dire, come il CARINI, (op. luog. cit.), che l'Accademia fu fondata
dal Di Capua; i contemporanei riconoscono, concordi, nel Concublet il
fondatore, tanto è vero che, scomparso lui, l'Accademia morì. Così erra
l'ORIGLIA, nell'op. cit., vol. II, p. 89 affer mando che il Vicerè Oñate favori
l'Accademia degli Investiganti, perchè, come abbiamo veduto, il viceregno
dell'Oñate durò sino al 1653 e gli Investiganti si costituirono in Accademia
dieci anni dopo. Secondo il D'AFFLITTO, op. cit., vol. I, p. 333, uno dei
principali fondatori del l'Accademia fu F. D’Andrea. - 77 (75) Questo
illustre storico che nell'Apparato delle antichità di Capua iniziò la via, che
poi il Muratori percorse con passo gigantesco, morì nel
1663;percuil'essereilsuonon fraquellidegliInvestiganti,èuna nuova confermadiquantofu,piùsopra,stabilito:checioèl'Accademia
era già costituita nel 1663, - 78 che ancora abbondavano a Napoli,
gli Investiganti sorgevano a rappresentare nuove idee, nuove cose e nuovi
tempi; ed è perciò che è una gloria pel Nostro l'esserne stato uno dei
fondatori, mentre, nello stesso tempo, è documento della sua grande cultura
scientifica e della modernità del suo in telletto. (76) Dell'influsso
esercitato dagli Investiganti contro il vaneggiare della grande turba dei
poetastri seguaci del Marino, abbiamo, fra le altre, una prova nelle parole
dell'abate DE ANGELIS, contemporaneo, nella citata Vita di Antonio Caraccio,
luog. cit., p. I, p. 145. Scrive il De Angelis : « In poco conto erano in quel
tempo per tutto il regno di Napoli .... la vaghezza e la purità dello scrivere
italiano.... tenute. Per lo contrario erano intesi i componimenti di coloro che
dal proprio sregolato capriccio e r a n d e t t a t i , c o n i m p r o p r i e
m e t a f o r e . . . . e c c . » . A g g i u n g e p o i c h e il C a raccio
si tolse da questa cattiva schiera di poeti per i consigli e gli esempi degli
Accademici Investijanti «uomini per universale consentimento an noverati tra i
maggiori e più ce'ebri letterati dell'età presente e della
passata»;efraimaggioridi siannoverailNostro.InfattiL’Imperio vendicato del
Caraccio non si può dire, in generale, infetto di cattivo gusto secentistico,
al contrario di altri scritti anteriori dello stesso poeta. Senonchè il
Cornelio, il Di Capua e il Buragna erano, oltre che scienziati e filosofi,
uomini di lettere e gli ultimi due, insieme con qualche altro, anche poeti. E
come nelle scienze, così nelle lettere, gli Investiganti rappresentano un
profondo distacco da tutto ciò che è comune, anzi volgare ; essi, voltando le
spalle al marinismo, proclamano la necessità di una nuova poesia più conforme
al buon gusto e alle patrie tradizioni poetiche. Fra gli Investiganti non c'è
nessun m a rinista; essi ritornano al Petrarca e lo spogliano degli ele menti
secentistici che vi s'eran sovrapposti e intorno eserci tano un influsso
salutare, che fu da parecchi, della genera zione che sorgeva, sentito (76). E
poichè il Di Capua, in questo tempo,aveva per sempre abbandonate le muse,dob
biamo ritenere che il Nostro, il maggior poeta fra gli Inve stiganti, in questa
Accademia, in cui portò un contributo notevole di profondi studi scientifici,
abbia esercitato un preponderante influsso letterario, che
corrisponde a quello esercitato dallo Schettini nell'Accademia Cosentina (77).
Il nome del Nostro si lega, dunque, a tutta una rivo luzione intellettuale, che
abbraccia la scienza, la filosofia, la letteratura, e che certo deve essere
meglio studiata e valu tata. Se avessimo le opere scientifiche e filosofiche
del B u ragna, potremmo considerare tutti e tre i lati del prisma ; ma non
abbiamo che alcuni dei suoi versi,iquali però ba stano a dlarci testimonianza
delle idealità poetiche di questa Accademia,della quale sono ifrutti migliori.
Ma ci riman gono altri scritti scientifici, come quelli del Di Capua, già
citati, e, con nuove ricerche, sarà possibile collocare gli I n vestiganti
nell'importante posto che loro spetta, fra gli acca demici di questo secolo.
Quanto durò l'Accademia ! Per meglio fissare alcune circostanze della vita del
Buragna, dobbiamo cercare di ri spondere a questa domanda, almeno
approssimativamente. Il Susanna scrive che la vita di questa Accademia fu breve
(78) (77) Nell'esaminare le rime del Buragna, meglio vedremo delinearsi questa
verità. In fondo gli Investiganti sono precursori dell'Arcadia, tanto è vero,
che fra essi colui che più visse, il Di Capua, fu poi Arcade. Ma ognuno sa che
vi furono due Arcadie e che la prima aveva in sè ideali poetici nobilissimi.
(78) Come al solito, le vaghe espressioni del Susanna sono malfide per
stabilire una cronologia con sufficiente esattezza. Egli ci spiega come il
Nostro, anche durante la sua dimora a Lecce, e cioè, come fu già detto, dal
1663 al 1667, potesse continuare a prender parto ai lavori degli In vestiganti,
tuttochè lontano da Napoli ; infatti ora permesso di inviare per iscritto le
proprie idee sciontifiche e filosofiche. Dice il Susanna, (e cito il brano
perchè getta un po' di luce sui procedimenti di questa A c cademia ): «Licebat
absentibus, ex Academiae institutis, sua mittere de Philosophicis rebus
cogitata, quae recitarentur in congressu et per expo rimenta ad veritatis
expenderentur trutinam . Moris quippe erat altera hebdomadae die ibi dicere
quae quisque sentiret ; altera, voro, insequentis heb d o m a d a e ex p e r i m
e n t i s d i c t a e x e r c e r e » . S u s a n n a , o p . l u o g . c i t
., f f. 6 , r . e 7, v. Il metodo rispondeva agli scopi, ma vi era il difetto,
comune a tante Accademie, anche gloriose, di voler creare una discussione che
era fine a sè stessa e di cui, spesso, non v'era bisogno. -79
e ciò ripetono coloro che ho citato; anzi il Caravelli (79), in un
accenno, scrive : « Disgraziatamente la coraggiosa ed importante Accademia morì
quasi sul nascere ». D'altra parte lo stesso Susanna viene a parlare
dell'Accademia soltanto a proposito del ritorno del Nostro da Lecce, dicendo
che egli fu accolto dai soci festosamente e prese parte alle riunioni
degliInvestiganti,cheperò,dopononmolto,cessarono.E così altri contemporanei,
pur notando la breve esistenza dell'Acca demia, non ci parlano di una vita
addirittura effimera; anche l'opera esplicata dagli Investiganti presuppone una
certa d u rata della società. E se il Nostro prese parte ai convegni in casa
del Concublet, dopo il 1667, e cioè dopo essersi defini tivamente stabilito a
Napoli, e se, d'altra parte, l'Accademia non ebbe lunga vita, la fine degli
Investiganti dovrà cadere fra il 1668 e il 1670. Ma io credo che l'Accademia
abbia continuato a vivere fino a quest'ultimo anno ; me ne foruisce una prova
abbastanza convincente la valutazione delle cause per cui l'Accademia stessa
finì. Il Susanna scrive che ciò avvenne per essere Andrea Concublet venuto a
mancare (80); e così, su per giù, gli altri (81). Ora, tenendo legittimamente
per sicure le notizie dei contemporanei, noi sappiamo che nel 1670 il Concublet
era ancora nell'Italia meridionale; in fatti appunto in questo anno G. Alfonso
Borelli stampava (79) CARAVELLI, op. luog. cit., p. 178. ( 8 0 ) P e r ò , ( e
d a p p a r e a n c h e d a l l e p a r o l e d e l V o l u b i l e ), s i t r
a t t a d i partenza e non di morte del Concublet, come credette il CARINI,
nell'op. cit., p. 523. Il Volubile non ci dà alcuna notizia sulla durata
dell'Ac cademia . (81) Qualcuno accenna ad ostilità dei Vicerè verso gli
Investiganti ; e, anzi, il CARAVELLI, al medesimo luogo dell'op. cit., fa
terminare l'esi stenza dell'Accademia per soppressione ordinata dal governo. «
Fosse, scrive, invidia o sospetto, o innato spirito del male, la dottissima e
tran quilla adunanza fu messa in mala voce e, dopo qualche scissura e qualche
atto violento, ne fu ordinata la soppressione dall'imbestialito governo vi
ceregnale ». Senonchè, per vero dire, e non per tenerezza verso l'infausto
governodeiViceré,questanotizianonrisultadaalcundocumento deltempo,
80 IntalmodoilBuragnaaccrescevalasuadottrinaelasua fama, ma
s'avvicinava rapidamente per lui anche il momento
dirinnovareildolore,giàprovatodiecianniprima;ildo lore di staccarsi ancora da
tutta quella operosa vita di pen siero, da tutte le più care abitudini
intellettuali e le più n o bili amicizie, per ricominciare il pellegrinaggio
nella provincia. L'ora della giustizia era scoccata per Giovan Battista
Buragna, dopo lunghi dolori. Per quanto fitta fosse la tela di calunnie, di cui
parla il Susanna, per quanto i Vicerè (82)È l'opera: De motionibus naturalibus
a gravitate pendentibus. Reggio 1670, non del tutto ignota agli studiosi. (83)
L'Accademia ci fornisce ancora una prova della impossibilità che il Buragna sia
rimasto a Cosenza sino al 1665. (Cfr. la nota 48 di questo capitolo).
L'Accademia verrebbe a protrarre la sua vita oltre i limiti cho le notizie del
Volubile e del Di Capua consentono. - 81 - una sua opera scientifica
(82), dedicandola al Concublet, parlando, anzi, nella dedica, degli
Investiganti e della impor tante opera loro; ed è troppo noto il significato di
queste dediche a mecenati intelligenti e generosi, perchè debba di lungarmi a
dimostrare che ciò prova la presenza dello stesso Concublet a Napoli. Non si
può, quindi, di molto errare fissando dal 1663 al 1670 la durata di questa
Accademia, che racchiuse la più eletta. Francesco D’Andrea. Andrea. Keywords:
investiganti, salotto degl’investiganti, villa Iambrenghi, Candela,
investigare, vestigio, motto: investigare, sequere, segno – segno, di sequere,
non sequitur, sequitur, il cane, che tipo di cane e il meglio investigante –
l’atomismo – vestigio, Boezio, vestigio, segno, nota – latinismo, Cicerone su
vestigio, nota, segno, notificare, segnare, segnificare, significare,
vestigare, investigare, interpretare il segno, seguere il segno, segno non
sequitur, segno e consequenza, sequenza logica, segno e sequenza, etimologia di
‘vestigare’ – cfr. tedesco ‘steigen,’ anglo-sassone stagan, greco stechos --. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Andrea” – The Swimming-Pool Library.
Andria (Massafra).
Filosofo. Grice: “I like Andria; of course he brings more problems than
solutions but that’s philosophy even if his philosophical credentials are
obscure! “He did write a philosophical chemistry and a philosophical
agriculture, but that’s because at Naples there were only two faculties: law
and philosophy – he also wrote a ‘medicina filosofica’ – Grice: “Andria’s
theory of life – as he calls it – osservazione generalie sulla teoria della
vita’ – owes a lot to Aldini and Haller-- Mainly he elaborates and refines Haller, if
you believe it – it’s all Italian to me, so it’s eccitbabilita, sensibilita, ed
irritabilita. “Andria goes on to define this eccitabilita in terms of the
‘fluido elettrico’ con ‘sende nel cervello e nei nervi’ – which galvanism
smacks of Aldini. Grice: “Andria classifies ‘vita vegetale’ o delle piante, and
‘vita animale’ – Note that ‘social life’ is understood by ‘eucarioti’ of higher
order, in terms of reproduction (of life – hence re-productum). A fronte de'
profondi misteri dell'immensa, ed eterna meccanica, colla quale l’Autor del
tutto à voluto che sian le cose disposte ed ordinate, la forza dell'umano
intendimen to si trova per l'ordinario talmente oppressa dalla propria
picciolezza ed imbecillità, che o totalmente impossibile le riesce di
penetrarvi dentro, o appena l'è concesso di conoscerne le più esterne
apparenze; o pur finalmente, sembrandole di esser riuscita nel suo disegno,
realmente non fa altro, che delirare e perdersi dietro la brevità e l'inezia delle
sue idee.» (N. Andria, Osservazioni generali sulla teoria della vita,
1804).Tre anni dopo la sua morte il suo nome apparve nella Biografia degli
uomini illustri del Regno di Napoli il suo primo profilo bio-bibliografico
Gennaro Terracina. Studiò nella città partenopea giurisprudenza, pubblicando
nel 1769 un Discorso politico sulla servitù. Decise, poi, di proseguire i suoi
studi applicandosi alla medicina. Allievo di Domenico Cotugno e Giuseppe Vairo,
a soli 23 anni aprì a Napoli una scuola privata; a 27 concorse con il Cirillo
per l'ottenimento della cattedra di medicina pratica, poi conferita a
quest'ultimo. La sua attività di cattedratico, svoltasi tra Sette e
Ottocento, nel contesto di un particolare periodo storico, fu principalmente di
ricerca e didattica presso l'Università Regia degli Studi di Napoli, dove
ricoprì vari insegnamenti dalla storia naturale, alla medicina teoretica e
pratica, all'agricoltura. Pubblicò diverse opere ad uso degli studenti di
medicina ed apprezzate altresì in varie parti d'Europa. Nel 1808 Nicola
Andria prese a dettare lezioni di medicina teoretica; nel 1811, di patologia e
di nosologia. Malato ed ormai cieco, fu congedato agli inizi del 1814,
insignito del titolo di cavaliere da Gioacchino Murat (cognato di Napoleone), e
il 9 dicembre morì di tifo a Napoli, dove fu seppellito nella chiesa di Santa
Sofia, insieme al collega Antonio Sementini. Nicola Andria ha subìto per
più di un secolo una "congiura filosofica" perché medico e perché di
Massafra, da cui gli epiteti spesso riferiti, nei pochi profili apparsi, alle
sue origini provinciali; tuttavia, egli fu decano a Napoli ed ebbe amicizia e
consuetudine epistolare con i nomi più noti ed importanti del panorama
scientifico europeo dell'epoca. Non esistono studi sull'autore, eccezion fatta
per alcuni contributi arenatisi agli anni ottanta del secolo scorso. Nicola
Andria fu socio fondatore e membro del Real Istituto d'Incoraggiamento e del
Comitato Centrale di Vaccinazione, oltreché di molte altre Accademie italiane
ed estere. A Massafra, città natale del medico filosofo, com'egli stesso si
definisce, portano il suo nome ben tre vie (Via Niccolò [sic] Andria,
Lungovalle Niccolò [sic] Andria e Vico Casa di Niccolò [sic] Andria) e una
Scuola Media. Il 10 settembre 1997, in occasione del 250esimo
anniversario della nascita, a Massafra è stato fatto un annullo filantelico
speciale e una cartolina commemorativa. Pensiero «Non vi è una materia in
Natura che abbia per sua qualità intrinseca la vita, e meriti perciò di esser
chiamata vivente. Né la vita è un fenomeno semplice, che a una sola materia
appartenga, e nasca da una sola forza. Molte son le materie, e queste fra loro
diversissime, che concorrono alla formazione di una macchina, in cui la vita
risiede, le quali materie intanto, trovandosi separate, niuna vita
producono» (N. Andria, Osservazioni generali sulla teoria della vita,
1804) Il contesto storico in cui Andria vive fa da “cerniera” ai due secoli più
importanti della storia della scienza e della civiltà: il Settecento e
l'Ottocento hanno “gestato” l'umanità contemporanea, provocato le guerre e
portato l'uomo sulla Luna. Andria vive a Napoli, per certi versi quasi
“fulcro” e “convoglio” delle principali idee e scoperte dell'epoca; la sua
particolare sensibilità di scienziato di formazione filosofica lo porta ad
assorbirne il carattere rivoluzionario e ad “anticipare” i tempi. La sua
condizione di provinciale in-urbato, tuttavia, lo “veste” di una semplicità ed
umiltà di cuore, la quale si esprime nelle lodi del creato e dell'uomo,
«congegni perfettissimi» di straordinaria bellezza. Oggi, questo
significa “ri-orientare” la ricerca scientifica verso un fine che non sia
l'“utile” economico (politico, militare), ma ricerca del vero e del bello nella
tutela e nella salvaguardia di tutta l'umanità. Dagli anni cinquanta
dell'Ottocento la circolazione delle idee andriane (di “freno vitalistico” al
meccanicismo più sterile) si arena sulla sponda di un “nuovo lido”: quel
meccanicismo biologico che dell'anima e del pensiero ha fatto solo un aggregato
chimico di molecole. L'eco dell'appello di Nicola Andria, così instancabilmente
perpetrato, in ricerca come in didattica, si perde; si perde alle soglie di una
svolta importante, la stessa che avrebbe prodotto la Grande Guerra, il delirio
dei nazionalismi, la credenza che debba sopravvivere il più abominevole degli
uomini, dove “fortezza” vale essenzialmente in-umanità, dis-umanità,
non-umanità. «Il filosofo [...] in tutto questo giro di cose, ravvisando
le tracce della sapienza infinita di un Dio, è obbligato ad esclamare: quanto
ammirabili, o Signore, sono le opere tue!» (B. Vulpes, in N. Andria, Elementi
di Chimica Filosofica). Opere: “Discorso politico sulla servitù” (Napoli,
Campo); “Piano di un corso di chimica pratica” (Napoli); “Trattato delle acque
minerali” (Napoli: Manfredi); “Lettera sull'aria fissa” (Napoli); “Elementi di chimica filosofica” (Napoli: Manfredi)
-- Delle forze e delle materie di cui si occupa la chimica -- Del fuoco, sti che
nederivano --- Delle principali combinazioni dell’ossigeno ede'composti chene
risultano -- INTRODUZIONE alla Chimica – Dell’unione delle altre materie fi .
nora non iscomposte , e de’ corpi,che quindisene otten -- Della
cristallizzazione -- ne,edellasublimazione -- Della fusione . X zir X piùsolidi
basamenti del globo terraqueo, che indi ne sorgono -- Dell'ossigenazione ,
& quindi della combustione e dell'atmosfera terrestre .-- Della congiunzionedelleterre,ede?
-- Della soluzione. --- Degl’altri
generi di combinazioni – Dell’operazioni chimiche -- Della distillazione, dell'evaporazio
-- Della fermentazione, e della putrefazion. “Elementi di Fisiologia, Napoli,
V. Manfredi); “Materia Medica” (Napoli, V. Manfredi, “Elementi di Medicina
Teoretica” Napoli, V. Manfredi); “Istituzioni di Medicina Pratica, Napoli, V.
Mandredi); “Prospetto generale dell'istituzione di agricoltura”; “Osservazioni
generali sulla teoria della vita, Napoli, V. Manfredi); “Riflessioni su di un
caso singolarissimo di gravidanza fuori dell'utero”; “Elementi di Medicina”. A
partire da V. Cuoco, vari studi sono stati editi a proposito della Rivoluzione
napoletana del 1799, la quale diede vita alla Repubblica partenopea, preparata
dal triennio giacobino sin dal 1796. Per
l'internazionalità del suo pensiero si vedano gli studi di M. A. Duca in Il
pensiero scientifico di Nicola Andria, Massafra, A. Dellisanti, , 95-9
Melania Anna Duca, Il pensiero scientifico di Nicola Andria, Antonio Dellisanti
Editore, Massafra Melania Anna Duca,
Nicola Andria: Epistolario (1775-1794). Lettere a Canterzani, Haller e
Spallanzani, Antonio Dellisanti Editore, Massafra. Melania Anna Duca, Nicola
Andria et les origines de la psychiatrie moderne. Une contribution
historiographique, in «Psychofenia», n. 23,
Melania Anna Duca, Troubles de l'alimentation, hypocondrie et mesmérisme
en Nicola Andria, in «Psychofenia», n. 24,
Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Niccolò Andria
Sito dedicato al medico e filosofo Nicola Andria, su nicolaandria. 21
ottobre 15 maggio ). Felice Mondella,
«ANDRIA (D'Andria), Nicola», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 3,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1961. iFilosofi italiani del XVIII
secoloFilosofi italiani Professore Massafra Napoli. Francesco Nicola Maria
Andria. Andria. Uno de' fenomeni piùs orprendenti, che nell'immensa università
delle cose continuamente si ammiran, è senza dubbio la vita, o sia quel
l'assortimento di circostanze particolari che à luogo negli esseri organizzati,
e che decide del la loro individuale esistenza. La qual cosa fa , che riesca un
tal fenomeno per noi anche il più importante, non solo per l'interesse che la
no stra curiosità ne prende , come di un affare che tanto da vicino ci riguarda
, ed è tutto nostro privativô;ma dippiùperl'impegno,incuina turalmente ci dee
mettere,di ravvisarne le prin cipali molle , ed i mezzi percið di farlo corre
re alla lunga , e con passi meno stentati è più sicuri . Disgraziatamente però
è accaduto per conto della vita quello che à soluto sempre avvenire trattandosi
de'gran fenoineni della natura,tutte le volte che si è dall'uomo concepito l'
ardito disegno di rischiararli , o d'interpetrarli in qua lunque modo . A
fronte de profondi misteri del l'immmensa ed eterna meccanica , colla
quale a2 l'Au. / 582663 |Autordeltuto à volutoche sian le
cose di sposte ed ordinate , la forza dell'umano intendi mento si trova per
l'ordinario talmente oppres sa dalla propria picciolezza ed imbecillità ,che o totaliñente
impossibile 'le riesce di penetrarvi dentro tutto si è abbandonato all'
osservazione ed all'indagamento de solifatti. Col favore di un metodo cosi
servile, che è pur .quello di cui la Natura si compiace , è permesso alle volte
di giugnere allo scuoprimento di qualche picciola.
edisolataverità,laqualeincanto senzal'aju. to di altre innumerevoli , all'
intendimento u m a notuttaviaignoteenascoste sarà . tana dal render piena e
perfetta ogni nostra cox poscenza . Nelle cose qui da noi rammentate ; e che da
ogni uomo anche di niuna esperienza son fa cilmente ammesse econosciute,sembra
esser con tenuta la ragione , perchè nella cognizione del , appena fes 4
1% è concesso di conoscerne le più esterne apparenze ; o pur finalmente j sem
brandole di esser riuscita nel suo disegno , real. mente non fa altro ,che
deliraré e perdersi die tro la brevità e l'inezia delle sue idee.Se qual che
volta diversamente è avvenuto ; è stato appunto, quando diffidando l'uomo di
sèmedesi sempre lon dine Ma pur bisognerà convenire,che fra
le dif ficoltà, onde1'umana ragione trovasicontinuar mente inceppata,ed in
mezzo delle tenebre,che l' avvolgono e rendono i passi suoi sempre vam cillanti
ed inceni ,qualche verità di primo or 5 fenomeno della vitatanto picciolo
avvanzamena to si sia finora fatto , quanto ognun sa ; non ostante l'importanza
del medesimo , e la forza colla quale , come si è già osservato , à dovuto
richiamar sempre a sè l'attenzione e l'indagine umana . Ne fanno testimonianza
le tante cose , che in tutte l'epoche della Medicina se ne sono dette ed.i
tanti sistemi che se ne sono imma ginati.Iquali,adireilvero altroapparato per
lopiùnonanno chediunapesanteerus dizione,quella cioè che ordinariamente pud tro
varsi nella storia delle idee e de'pensierialtrui , ricavati non dalla
natura,ma dal fondo di un'im maginazione ,spesse fiatę riscaldata,e mal pre
venuta . E se ammirazione qualche võlta pare che tai sistemi si abbian
conciliato , cid solo va inteso per parte di coloro , che senza conoscer l'arte
ben difficile di saper non sapere , e privi perciò di ogni criterio , tutto
ammettono ed in gojano ,contenti della sola apparenza , o di qual che picciolo
inal concertato artifizio. dine alle volte si rinviene,che una
facile e ge sterale osservazione fa saltare agli occhi della maggior parte,o
che gratuitamente si trova dal la Provvidenza accordata per intrinseco ed essen
ziale appannaggio dell'umano intendimento .In una tal rubrica dee
principalmente quell'assioma registrarsi di logica universale , in cui è
stabili to secondolediverseinnumerevoli circostan. ze ,che possono aver luogo
nella grande ,e nel laminuta esempreugualmentesorprendente meccanica della
Natura . Ne inutile sarà ora di osservare ,che una tal cosa sembra trovarsi
prin cipalmente verificata nel gran fenomeno della vi ta , ove gli Uomini fin
dal principio an dovuto conoscere ed ammettere una forza,che unicamen te ne
decide.Del che ne abbiamo un argomento non equivoco nel privilegio,col quale un
tal fe nomeno à solo meritato di esser nel comun lin guaggio annunziatocon una
parola,ladi cui eti mologia vien precisamente in quell'altra voce che in
Natura niun fenomeno vi sia senza una forza che lo produce , e che il principio
perciò di ogni movimento , o azione , o fenome no che si voglia dire ,in una
forza consiste.Se non che questa forza medesima può esser sem plice o composta
, intrinseca o altronde ricerca ta con 71 contenuta,che per
immemorabile universal con: senso altro che forza non à soluto mai indie care
(a). Questa semplicissima osservazione , che è pur vera e grande e da ogni
ragion sostenuta , sembra la più atta a somministrare un solo pune to di
appoggio , onde alcuno possa spingersi in un'analisi profonda delle cose della
vita ; e in tal modo potrà ben procacciarsi di che ragione, volmente contentare
la sua curiosità,e,ciò che importa molto di più , soddisfare quella cocente
natural sollecitudine ,che ognuno à di render la propria esistenza,per quanto
all'Uom permes so,piùdurevoleemenoinfelice,Almenocosi sembrando al nostro corto
intendimento ,prendes rem volentieri una tal traccia per ordinare l'ana
lisidellavita eportarlaperoratantoinnan zi,quanto dalle nostre deboli forze, e
dallo sta to attuale delle nostre cognizioni potrà esser permesso . E mentre
questo , e non altro , sarà (a) "Vita" viene da "vis", come
anche "virtus", "vir","virilitas", le quali
parole tutte fignificano forza : o ciocchè nella forza consiste, o la
contiene Nella..considerazione mo difare,ilprincipalsegno
dellenostremife che qui ci proponia ilnostroprincipalfine ciifaremundoveredi
non andarci divagando in altre cose aliene dal medesimo, o poco atte a
raggiugnerlo.Eviterem soprattutto le citazioni ; ed ogni esame di opi nioni
diverse ed il rischio perciò di attribuir ad alcuno ciò che ad altri appartiene
e di andar nuovendo picciole ed inutili gelosie . Contenti di prender dal sacro
deposito della Scienza ciò che al nostro bisogno potrà esser bastante , la
--scerem ad ogni depositario poi la cura di riven dicar il suo , tutte le volte
che lo crederà o p portuno al proprio interesse · Per noi, l'avrem certamente a
singolar fortuna quando ci venisse accordata la sola scarsa lode ,.che neppur a
coa loro sinega,chenon potendo per naturale inet titudine alcun vantaggio
recare,se ne dimostra no almeno premurosi ed invogliati . Della qual nostra
buona volontà ci lusinghiamo che ottima testimonianza ce ne potrà
principalmente venire da Giovani che alle nostre lezioni an sempre assistito ,
o da chiunque altro che non isdegna di trovar tuttavia buono per il suo uso ciò
che per mezzo nostro l'è potuto in qualunque modo pervenire. sarà
sarà l'assioma di sopra stabilito , dal quale si potrà per avventura losviluppo
ottenere di con seguenze importanti , che disposte con metodo dalla natura
istessa suggerito , ci potran forse a quel termine condurre , che formerà ora
l'og geito principale di ogni nostra ricerca. Se la vita dunque in una forza
consiste 3 che continuamente si esercita bisognerà neces sariamente supporre
attaccataed inerente una tal forza alla macchina che vive, Questa qualunque facoltà
che negli esseri organizzati risiede per vivere , si è voluto in questi ultimi
tempi ecci tabilità chiamare.In vece di una tal parola,non saressimo
ripugnanti, che quella ancor si usasse di vitalità,e d'irritabilità
universale,e di for za nervosa,o altra qualunque di simil calibro ; le quali
ancorchè si sia preteso che possan cose diverse designare , in ultima analisi
perd real mente non sono intese,che adichiarare il prin cipio generale della
vita considerato dadiversi lati, o sotto forme diverse . Fra 'l' espressioni o
r qui accennate noi intanto riterremo laprima, si perché si trova bastante per
esprimer ciò che accade ,si perchè troviam un tal nome già qua si
universalmente ammesso .COM 9 b > ? Vi sarà anche per foi un altro
motivo , quello cioè di potersi tal Osserv. lità 1 + 10 cosa
in questo modo rappresentare , qual da noi si crederà più opportuna , senza
esser obbligati di ammetterne qualunque altra corrispondente al le altrui idee
. Una definizione , che venga a tempo , toglierà sempre ogni equivoco ,che nel
le diverse maniere di immaginare può aver luo go , ogni volta che con una sola
voce sia venu to il talento di annunziarle . E ' un fatto costante che durante
la vita si sentano dagli esseri organizzati le impressioni , che molti agenti son
capaci di farvi , ed alle quali si risponde sempre con del movimento , o con un
particolar senso che si risveglia . L'ec citabilità è quella su di cui cade
l'operazione di ogni natural agente . Questi agenti medesimi si an poi voluto
chiamare stimoli,e il prodotto della di loro operazione eccitamento . Il quale
non dichiarandosi altrimente che per mezzo del moto,edelsenso,possonoben
quindiqueste due cose rappresentare le forme principali del medesimo.Sembra
dunque che per la vita vi bi sogni l'eccitabilità da una parte onde viene il
senso ed il moto ,e dall'altra il concorso de'sti. moli onde l'eccitabilità si
mette in azione .Sena za eccitabilità l'operazion de'stimoli è inutile, e niuna
vita produce , e senza stimoli l'eccitabi Tutti gli stimoli poi , per
ragion della di loro intrinseca particolar natura lità non è richiamata'a
qualunque azione , ed alle ordinarie forine di eccitamento . si sono divisi in
esterni , ed interni . Nella classe de primi l'aria va messa , ed ilcalorico,e
laluce,ed il cibo,ed il sangue, ed ogni altra material cosa , quam li da noi si
sono considerate sempre come gli stia moli della vita ,econ tal frase le
abbiamo an che indicate tutte le volte che ci è toccato d'in terpetrarle . Di
questi stimoli intanto mentre che gli esterni molte volte bastano a risvegliare
un giro di eccitamento e di vira comune niera di operare , e diversa m a 9 a
tutti gli esseri orginizzati , non bastano poi senza il concorso degli interni
a costituire una vita per feita , com ' è quella dell'uomo , fra tutti gli al
tri esseri che vivono il primo certamente ed il più nobile. gli organ può
operare. Per interni al contrario s'intendono i movimenti dell' animo e quindi
ogni morale azione , che non lascia pur in una maniera dichiarata di rimbombare
sugli organi del corpo , Corrisponde tutto ciò perfettamente a quello , che gli
antichi delle sei cose , c o m u nemente dettenon naturali,intendevano,le che
fisicamente su Quan b2 Quando l'affare è precisamente considerato
me' termioi finora proposti , niuna conseguenza potrà dedursi onde favorir
dichiaratamente lo statoattivo,opassivodellavita.Ogni quistio ne diventerà
perciò inutile,e sarà dissipato si. milmente lo scandalo , che alcuna delle
opinioni accennate potrebbe recare a chi non ama occu parsi delle cose
profondamente . Trattandosi di opposti,facilmente possono diuna medesima co sa
intendersi , quando questa si consideri sotto i vari suoi aspetti,o in
circostanzediverse.La vita a senso nostro può ben rappresentare uno stato
passivo guardata per un lato ,e nel tempo stesso uno stato pienamente attivo
guardata per 1'altro.L'eccitabilità,o siailgerme immedias to della vita
relativamente ai stimoli de' quali nulla può valere, è assolutamente pas
siva.Ma addiviene di botto attiva dietro l'azio ne de' stimoli medesimi ,
ricavando dal suo pro prio fondo quell'energia ed attività,che spiega nell'
eccitamento.Si potrebbe da alcuno chiamar: reazione quella dell'eccitabilità.Ma
questa reaa. zione medesima non è a buon conto che una lità dunque è passiva
relativamente ai stimoli , vera azione qualunque abbia potuto essere il motivo
, ed il modo di risvegliarsi. L'eccitabi senza , atti attiva
relativamente all' eccitamento ed a tutto il resto che ne può venire.Con una
tale inter petrazione possono dunque benissimo restar con ciliate le due idee
opposte , le quali si trovano ugualmente vere , allogandosi ognuna nella sua
propria nicchia . Nè converrà dimenticarsi in questa spezie d'indagine ,che non
essendovi azio ne in Natura , che non sia il prodotto di un'al tra , per
l'intelligenza della prima basterà cono scere ed ammettere quella , che
inimediatainente laprecede,eneformaperciòlacagione imme diata . Perchè
altrimente per uscir d'imbarazzo', e finirla presto , Essendo una verità di
fatto l' eccitabilità ; ossialafacoltà cheàlamacchinaviventedi e muoversi , non
lo sarà meno il doversi quella trovar. sempre inerente alla maça 13 si
potrebbe da principio ricor rere alla suprema volontà dell'Autor del tutto ,
ove senza contrasto alcuno incomincia la serie alternadicagioniedeffetti,chel'immensa
ca tena rinchiude delle cose del Mondo . Ma in tal modo bisognerebbe pur
convenire ,che invece di sciogliereilnodo nonsifarebbealtrocheru vidamente
tagliarlo ,e distruggere così ogni fi lo,nel quale è unicamente
raccapezzatol'ordi ne delle cose . poter sentire chig di ravvisarvi
distintamente l'uomo os e l'uomo arterioso , e l'uomo muscolare ed il nervoso
, 14 china suddetta in tutto il corso della vita . a tutti i peza non che
può nascere il dubbio , che una tal fa coltà risiegga ugualmente applicata a
tutti i zi della macchina vivente,o pure alcuno ve ne sia onde si propaghi , e
venga agli altri comu nicata . Vi sono de' Fisiologi che nella costitu zione
della macchina animale vi ravvisano tante parti , che con un singolar andamento
dimostra no di esser molto fra loro diverse Se , quantunque poi tutte intese
alla formazione di quelli uno , che l'intera macchina rappresenta e cosi di
tutto il resto . Corri sponde tutto questo apparato di nuove parole, o per Si
an voluto insignire col nome particolare di sistemi , ed è quindi insorto il
sistema irrigatore , il sistema assorbente , il nervoso , il muscolare , il
cellula re , e ogni qualunque altro che il bisogno potrà richiedere . Vi è
stato chi segnando con mag gior precisione i contini diversi di cotai siste mi
, per rilevare in tal modo l insigne differen za che fra i medesimi sembra
passare ,e la gran parte che ciascuno di essi nella costituzione del corpo
prende , non à avuto difficoltà nella con siderazione , che à voluto fare della
macchina umana seo , Noi intanto non sapressimo cosi facilmente
intendere quanto la particolar considerazione de' pezzi della macchina animale,
principalmente di versi fra loro per la diversità delle forme,o di altre
circostanze non essenzialiallaparticolar na tura della di loro pasta originale
, possa contri buire a far ravvisare l'eccitabilità nel suo unico e vero e
general aspetto . Sembra la medesima esser qualche cosa di cale importanza ,
alleforme,oadaltreminoricircostanzeappar tenga,ma bensi direttamente alla pasta
già ram 15 e per dir meglio di parole usate con nuova regoa la , a ciò
che da altri con tuono più semplice ediungustopiùantico manelfondosignifi.
cante lo stesso , si è derto sostanza cellulare vasi,enervi,emuscoli',eossa nel
farne la particolare storia , e stabilire colla medesima i fondamenti della
Fisiologia . Prima di passare ad altri argomentinon sa ràsuperfluo
soggiugneranche qualchecosasul flo gisto,affinchèintalmodo
iprincipiantis'istruisca no di una dottrina ,la quale ne'tempi precedenti
haavutotantoluogo intutteleteoriechimiche. E'anzi a tutti noto di essersi
introdotto qua si universalmente l'uso di questa vocabolo an cora nelle altre
Scienze . I Chimici , dopo di Sthal, pretendevano generalmente che
dovesse X 68 X in X 69 X intendersiper flogistoquella
talcosa,che ata caccandosi a'corpi producesse in qualunque modo il principio
della loro infiammabilità .si altri. buivanoin oltre al medesimo moltissimi
altri fenomeni. Siccome nella combustione si raduna una grandissima quantità di
fuoco, di cui prima non eravi alcun vestigio,cosi Sthal sorpetto che in questa
operazione si sprigionasse quel fuoco , il quale trovavasi nascosto nel corpo
infiammabile . Questo fuoco nascosto in modo da non dar segno della sua
presenza costituiva il flogisto . E quindi si ravvisaa primo colpo d'occhio,
che il fogi sto fosse indentico col calorico aderente . M a la natura
de'fenomeni richiedeva che quello com stituisse un ente di suo genere ,
trasfersisi tutto intero da uno in un altro corpo . Quindi bisognò immaginare
una materia ,o sia una base , alla quale il fuoco , o sia il calorico , si at
taccasse ed in certo modo addivenisse fisso, cosi composto acquistasse
un'adesione colle para ti de' corpi infiammabili . Nella prima edi
zionediquestenostreistruzionicisiamo indu striati di esporre questa teoria,
sostenendola con tutte le nostre forze; e per lo spazio di quasi cinque lustri
ce ne siamo serviti nel ri schiarare tutti gli argomenti chimici. Ed in ve ro
colla sua applicazione vedevamo che i feno meni non restavano spiegati con
molta infelici tà . Questo è stato ancora conosciuto da ruta ti i Chimici di
gran nome , che fiorirono dopo di Sthal, onde la teoria del flogisto si era qua
potesse affinchè E3 si > X 70 X siresa universale fino
a'tempi presenti.Non può negarsiperd,chenonmaiiltlogistocosi inimaginato
siabbiapotuto apertamente diinostra re ; e dal fin qui detto si deduce la sua
ipotetica composizione.Cid non ostante era una teoria comoda , ed avea il suo
luogo per mancanza di una migliore.Il progresso però della Chimica pneumatica ,
il quale a tempi nostri è addivenu to grandissimo, non solo l'haresa sempre più
dubbia , ed inetta alla spiegazione de'fenomeni ; ma ( quello che magiormente
importa ) ne le hasostituitaun'altra meno ipotetica,e più corri spondente
aifenomeni.Eglièvero,cheifau tori dell'antica teoria abbiano fatto grandissimi
sforzi per conciliare tutte le nuove teorie col flogisto ; ma ora senza
difficoltà può dimostrarsi che questi sforzisiano stati infelici,come biso gnosi
sempre di nuove finzioni, o di false in terpretazioni. Keywords: chimica
filosofica, implicatura bio-chimica, biologia filosofica, teoria della vita,
vita, virtu, virilita – l’implicatura flogistica – Grice: what science?
Palmistry? What deliverance? Phlogiston theory? Rhetorical questions: he means
No and No. Or non rhetorical and they are formidable obstacles to his
constructive realism about which he could care less!--. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Andria” – The Swimming-Pool Library.
Angeli (Venezia). Filosofo. Grice: “I like Angeli – I’m glad he
dropped the ‘degl’angeli” – but then I would because he is into the infinite
(insert infinity symbol here) as so am I – mainly in my elucidation of that
Anglo-Saxonism of Indo-European origin (Latin, ‘mentatum,’ ‘mentitum,’
‘mentitura,’ dicitura) – ‘mean’ – I refer to a self-referential clause to solve
the problem, but then I also refer to Plato on geometry and the idea of a ‘de
facto’ versus ‘de iure’ instantiation of a ‘regressus ad infinitum’ – So Angeli
is bound to charm me!” Frate dell'Ordine dei gesuati, nel 1668, con la
soppressione dell'Ordine voluta da papa Clemente IX divenne prete secolare.
Delfino e fedele allievo di Bonaventura Cavalieri, insegna a Padova. Fu l'unica
voce autorevole di fine Seicento che continuò a difendere la teoria degli
infinitesimi, in palese conflitto con i gesuiti. Si dedica allo studio della geometria,
continuando le ricerche di Cavalieri eTorricelli. Passa quindi alla meccanica,
su cui spesso si trova in conflitto con Borelli e con Riccioli. Opere: “Della gravità dell'aria e fluidi,
esercitata principalmente nei loro omogenei” (Padova, Cadorin); “Problemata
geometrica sexaginta” (Venezia, La Noù); “De infinitorum spiralium spatiorum
mensural” (Venezia, La Noù); “Accessionis ad steriometriam, et mecanicam”
(Venezia, Noù); “De infinitis parabolis, de infinitisque solidis ex variis
rotationibus ipsarum, partiumque earundem genitis” (Venezia, Noù);
“Miscellaneum geometricum” (Venezia, Noù). Note
Fonte: M. Gliozzi, Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in
. Mario Gliozzi, «ANGELI, Stefano
degli», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 3, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1961. Àngeli, Stefano degli, in
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Amir
Alexander, Infinitamente piccoli. La teoria matematica alla base del mondo
moderno, Torino, Codice edizioni, 353.Kirsti Andersen, "Cavalieri's method
of indivisibles." Arch. Hist. Exact Sci. 31 (1985), no. 4, 291-367 Stefano degli Angeli, su TreccaniEnciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Stefano degli Angeli, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Stefano degli Angeli, su MacTutor, University of St
Andrews, Scotland. Opere di Stefano
degli Angeli / Stefano degli Angeli (altra versione), su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Pietro Magrini, Sulla
vita e sulle opere del Padre Stefano degli Angeli matematico Veneziano del sec.
XVII memoria di Pietro Magrini, letta all'Ateneo Veneto 10 Luglio 1862:
Estratta dal Giornale Arcadico; tomo 45 della nuova serie, Tip. delle belle arti,
1866. Filosofia Matematica Matematica
Categorie: Matematici italiani del XVII secoloFilosofi italiani Professore1623
1697 23 settembreMorti l'11 ottobre Venezia Padova. Stefano
d'Angeli, veneziano, lettore nello studio di Padova, provinciale veneto della
sua religione de' gesuati, che fu soppressa, e discepolo di Cavalieri, di cui
scrisse, 'Herculem geometricum alterum Bonaventuram sc. Cavalerium, cui
devotione i habitu sui conjunitillimus eiusque sub disciplinis tyrocinium in
geometria ad novem dumtaxatmenses, ipso a vivis mei mortali angore, qui tunc ad
eram, o geometrarum omnium luctus, aciactura sublatum, posui auspican tillinum,
orc: Siren de celebre Cavalieri colle molte opere, che manda alla luce, e
spezialmente per la sua geometria degl'indivisibili, l'origine della utilissima
analisi degl'infinitamente piccoli, come Itall'oinne fanno menzione i Chi
ariss. Giornalisti. Ma sono opere dell'Angeli: "Problemata", "De
infinitis parabolis", "Miscellaneum hyperbolicum, o
parabolicum"; "Miscellaneum geometricum", "De infinitorum
spiralium spatiorum mensura". Le Considerazioni sopra la forza di alcune
ragioni Fisico-matematiche addotte da Riccioli nella sua "Astronomia
Riformata" *contro il sistema copernicano*; le seconde *contro il moto
diurno della terra piegato da Manfredi nelle risposte alle prime riflessioni di
Stefano de Angeli; le terze e le quarte sopra la lettura di Borelli sopra la
confermazione di una sentenza dello stesso prodotta da Zerilli , ecc;
"Della gravità dell'aria, e de'audi"; "Dialoghi due" ;ed
altri tre gli stampo. The concept of infinitesimal was beset by
controversy from its beginnings. The idea makes an early appearance in the
mathematics of the Greek atomist philosopher Democritus c. 450 B.C.E., only to
be banished c. 350 B.C.E. by Eudoxus in what was to become official “Euclidean”
mathematics. We have noted their reappearance as indivisibles in the sixteenth
and seventeenth centuries: in this form they were systematically employed by
Kepler, Galileo's student Cavalieri, the Bernoulli clan, and a number of other
mathematicians. It was Galileo's pupil and colleague Bonaventura Cavalieri
(1598–1647) who refined the use of indivisibles into a reliable mathematical
tool (see Boyer [1959]); indeed the “method of indivisibles” remains associated
with his name to the present day. Cavalieri nowhere explains precisely what he
understands by the word “indivisible”, but it is apparent that he conceived of
a surface as composed of a multitude of equispaced parallel lines and of a
volume as composed of equispaced parallel planes, these being termed the
indivisibles of the surface and the volume respectively. While Cavalieri
recognized that these “multitudes” of indivisibles must be unboundedly large,
indeed was prepared to regard them as being actually infinite, he avoided
following Galileo into ensnarement in the coils of infinity by grasping that,
for the “method of indivisibles” to work, the precise “number” of indivisibles
involved did not matter. Indeed, the essence of Cavalieri's method was the
establishing of a correspondence between the indivisibles of two “similar”
configurations, and in the cases Cavalieri considers it is evident that the
correspondence is suggested on solely geometric grounds, rendering it quite
independent of number. The very statement of Cavalieri's principle embodies
this idea: if plane figures are included between a pair of parallel lines, and
if their intercepts on any line parallel to the including lines are in a fixed
ratio, then the areas of the figures are in the same ratio. (An analogous
principle holds for solids.) Cavalieri's method is in essence that of reduction
of dimension: solids are reduced to planes with comparable areas and planes to
lines with comparable lengths. While this method suffices for the computation
of areas or volumes, it cannot be applied to rectify curves, since the
reduction in this case would be to points, and no meaning can be attached to
the “ratio” of two points. For rectification a curve has, it was later
realized, to be regarded as the sum, not of indivisibles, that is, points, but
rather of infinitesimal straight lines, its microsegments. La prima opera
alquanto diffusa, ch'egli c o m pose e pubblicò in Venezia nel 1658 , ha per
titolo: Problemata geometrica sexaginta circa conos, sphae ras, superficies
conicas,sphaericasque praecipue ver santia. In questo volume sono svolte con
tutto il rigore della scuola dottrine,che in tali materie fan no continuazione
a quelle di Archimede e di A p o l lonio Pergeo. Frequentissime occasioni gli
si pre sentano di usare la teoria degl'indivisibili,e fra que ste è la
tesi,dove dimostra che il conoide parabo lico è la metà del cilindro ad esso
circoscritto. Il grande Newton nella sua Arithmetica Univer salis si occupa
anch'egli a lungo di questa propor zione, perchè la prende come suo tipo ad
insegnare la maniera, con cui l'analisi algebrica debba asse starsi alla
risoluzione delle questioni geometriche; ed è in questo luogo ch'egli
stabilisce le regole , che poi servirono a tutti gli analisti di norma in così
fatti esercizii. L'inglese geometra , dopo tutte le opportune considerazioni,
arriva a darci riphaeria subtendatur ab ipsis. pe per satemi il termine,
confermò ed ampliò con più s o lenne espressione nella molto profonda sua opera
di recente pubblicazione, che versa sui Porismi di Euclide . E d eccovi esperte
tutte le riflessioni che m'indussero e m ' incoraggiarono a passare a rasse gna
i lavori dell'uorno che mi proposi oggi di farvi ricordato . In mezzo ai tanti
curiosi problemi di questo li bro trovai degno di menzione quello così
annunziato: Datis tribus lineis invenire semicirculum cuius risoluzione del
problema una equazione del terzo la Quello che alcun poco potè
turbarmi nell'esame di questa opera si fu la qualche importanza , che il nostro
degli Angeli sembrava attribuire al così detto paradosso geometrico , perchè
abbagliò lo stesso Galileo, ed è che il centro di un cerchio è eguale alla sua
circonferenza. Questo giuoco di parole,che come vedesi non presenta alcun senso
se non as surdo, era un fatale intoppo nel quale si urtava quasi sempre nell'
uso del calcolo degl' indivisibili, ed eccovene l'origine. ! 20
grado,dicui,come è notissimo,non puòfarsila co struzione se non per mezzo delle
coniche sezioni. La sola riga ed il compasso non possono qui essere usate allo
scopo, se non nel caso, in cui due delle date rette sieno eguali,poichè in
allora l'equazione cubica può comodamente venire abbassata al grado secondo. Il
degli Angeli scioglie i due casi , senza la face dell'algebra,che allora non
era accesa,l'uno per locum planum, secondo illinguaggio scolastico, e l'altro
per locum solidum. Le sue costruzioni sono elegantissime,e mostrano chiaro che
istintivamente anche gli antichi avevano un -segreto oracolo di a n a lisi, che
domesticamento consultavano,ma non fa cevano vedere al volgo. Vi risovvenga, o
Signori, di quei due solidi d e scritti da me poco fa, cioè di un emisfero e di
un cilindro incavato da un cono rovescio,cilindro che lo circonda, dei quali
così facilmente si appalesa. l'equivalenza. Or bene : questa equivalenza si de
duce col provare, che tagliati dovunque idue corpi con un medesimo piano
segante parallelo.colla base comune d'entrambi, il circolo nato
nell'emisfero eguaglia a puntino la zona circolare spettante al
cilindro incavato. E siccome ciò ha luogo per ogni piano segante immaginabile,
dicevasi con molta fretta che ciò doveva effettuarsi anche nel piano tangente
alla sommità della superficie sferica ; il che, come si vede, presentava da una
parte un centro (cioè il punto di contatto) e dall'altra una circonferenza,
cioè lo spigolo nudo del cilindro terminato; dunque per la presa analogia,il
centro, cioè quel punto di contatto, doveva essere eguale a quella circonfe
renza . Noi lo accorderemo di buona voglia, se sono così teneri di questa
inezia , poichè sotto il riguardo di superficie (e qui si tratta di superficie
soltanto) così il centro come la circonferenza si possono egua gliare,perchè
sono entrambi eguali a zero; ma que sto strano vaniloquio non può insorgere a
pretesa, se non in quei casi speciali , ove si richiama ad uno stato anteriore
di rapporto , e non può certo aver modo di entrare quando sitrattassediun qua
lunque cerchio isolato in un piano. Bastava riflet tere che il ragionamento
dimostrativo non era ri volto che a' piani seganti; dunque il piano tangente
non v'entrava se non ad indicare il limite dove il rapporto di eguaglianza
andava a cessare.La man canza di un linguaggio ben formato, e che ci fu dopo
dalla teoria dei limiti perfezionato, impedì forse la spiegazione chiara del
sofisma per parte Questa menda del nostro autoreriflessa sopradi lui dallo
splendore di un gran nome ,è a dismisura can cellata dai tanti lavori di gran
lena ch'ei porse nel seguito. Tale è il suo Miscellaneum hyperbolicum 21
di tri cotanto valenti e degnissimi di rispetto. geome pubblicato
nel 1659 , e dedicato agli Illustrissimi Cinquanta del Senato di Bologna in contrasegno
di gratitudine per quella illustre città ; nella quale sua opera tratta
profondamente dei centri di gra vità dell'iperbola, delle sue parti e di alcuni
so lidi , dei quali nessuno fino allora aveva parlato. Insegna a quadrare la
parabola in doppia manie ra ed a guidare le tangenti a tutta la famiglia pa
rabolica. Sulla parabola inoltre e sui co noidi di essa risolve curiosi
problemi spettanti ai massimi , inscrit tibili ed ai minimi circoscrivibili. In
questo suo li bro l'autore ambisce di pretendere alla priorità sul la Faille e
sul Guldino medesimo , il quale nella rinomata sua opera Centro -barica , così
confessa la sua mancanza in questo proposito : deest hoc loco hyperbolae
ejusque partium centri gravitatis investi gatio . L'opera uscita dalla sua
penna nel 1660 è m e ritevole di ricordanza,tanto per la persona alla quale
viene dedicata, quanto e molto più per la materia che l'autore vi ha svolta. È
stato umiliato quel lavoro all'eminentissimo cardinale Gregorio Barbarigo,
Patrizio Veneto, ve scovo allora di Bergamo, e che in seguito , come tutti
sanno, fu vescovo di Padova e morì nel 1697, cioè l'anno medesimo della morte
del nostro degli Angeli, ed il quale vescovo fu poi annoverato fra i beati dal
suo concittadino Carlo Rezzonico,Papa sotto il nome di Clemente XIII. La
dedica, o Si gnori, era degnissima,poichè sappiamo dalla storia della vita del
Barbarigo .ch'egli era dottissimo nelle cose matematiche, e per ciò sembra che
a buon di 22 Parlando della materia del trattato,che s'inti
tola De infinitorum spiralium spatiorum mensura , ella valse a collocarlo in un
gran posto fra i geo metri del suo tempo: e quel soggetto fu poi anche ampliato
coll'aggiunta ch'ei vifeced'un altro trat tato, detto De spiralibus inversis,
stampato in P a dova nel 1667. Fine a quell'epoca gli antichi a v e vano assai
beve conosciuto ed usato le proprietà , gli spazi, le tangenti della Spirale di
Conone o di Archimede,ma di poco o nullasieravarcatoque sto termine. Il degli
Angeli ci racconta egli stesso di essere stato parecchie volte stimolato a
scandagliare più a fondo in questo mare,quando trovavasi in Roma . E quelli che
così eccitavanlo erano un Michelangelo Ricci,da lui chiamato il Corifeo
degl'italiani geo metri, al che fece eco pienamente anche il Montu cla; poi un
Francesco Slusio, riputato geometra fran cese, ed infine un matematico inglese
di fama, Ric cardo Albio . Essendo egli allora troppo giovane ri cusò di
affrontare cotali gravi ricerche, confessando modestamente il carico non
trovarsi adattato agli omeri suoi. Ma più tardi,essendo in Venezia, e ri
svegliatosi in lui colle nuove forze acquistate a n che il coraggio ,
intraprese lo studio delle infinite specie di spirali, e fu allora riverito per
la novità dell'argomento e per la profondità della trattazione. Dopo di lui
altri valenti coltivarono questo campo e lo trovarono ancora fecondo. Se non
che la glo ria di esaurire in tutta la sua estensione un tale argomento era
riservata al più moderno chiarissimo 23 ritto e senza lusinghe il degli
Angeli lo invocasse col nome di Geometrarum Mecenas peritissimus.
matematico Varignon,inuna bellissimasua memoria, citata spesso e spesso
indicata a modello ai giovani studiosi , la quale si trova inserita nelle
Memorie dell'Accademia delle Scienze di Parigi per l'anno 1704. Tuttavolta a
non iscemare di un punto il meritodelVeneziano,tornaopportuno ilriflettere che
quella Memoria straniera comparve 44 anni più tardi, e di quegli anni di
abbondanza, nei quali ľ analisi ardita aveva tanta sua ala distesa. Copiusi
problemi di tutte le specie riguardanti le aree delle figure piane ed i volumi
dei solidi non che i loro centri di gravità , si contengono tanto nella seconda
parte di questo libro delle Coclee , quanto nel Miscellaneum Geometricum
prodotto nel 24 Alle ora accennate due opere va unita per m e rito
d'interessanti investigazioni quella del 1661 De infinitarum Cochlearum
mensuris ac centris gra vitatis,dedicata a Leopoldo II dei Medici,granduca di
Toscana, quegli sotto i cui validiauspiciisi for m ò e crebbe l'Accademia del
Cimento . In questo dotto lavoro descrive la forma delle infinite coclee
sìstrette esìallargate,chesigeneranopermezzo di triangoli, di rettangoli, di
semicerchi,ed altre fi gure piane scorrenti con duplice moto , l'uno circo lare
e l'altro progressivo, con diverso rapporto di velocità; ed assegna col metodo
degl'indivisibili i volumi di questi solidi strani ed apparentemente
intrattabili. Si propone in tale memoria l'autore di continuare e di estendere
la strada tracciata ed i n cominciata assai pregevolmente dal Torricelli , m a
ehe questo celebre uomo per cagione di morte la sciava ad altri da
percorrere. 1660 , quanto ancora nell'opera pubblicata nel 1662 ,
cioè nell'anno primo in cui era entrato nella Pa tavina Università e che si
intitola: Accessio ad Ste reometriam et Mechanicam in qua traduntur m e n s u
rae et centra gravitatis quamplurium solidorum. 25 . Nell'anno 1661 ideò
un nuovo genere d'in vestigazioni nell'opera intitolata de Superficie U n
gulae, a cui si unisce una seconda parte, che tratta de quartis liliorum
parabolicorum et cycloidalium . Ciò che porgesse a lui il destro di mettersi a
trat tare questi argomenti lo racconta egli nella sua pre fazione. Già
nell'anno 1659 era comparso in R o m a un opuscolo de cycloide et de figura
sinuum , che vantava per autore un Onorato Fabri Gesuita , sotto
ilpseudonimodiAntimoFabio:ilbuondegli An geli s'invaghì di quest'opera ed
indovinò che nella figura dei seni ivi celebrata latitabat non spernen d u m
geometricum mysterium . E svelò a quanto pare pel primo ilmistero,dicendo che
quella curva che noi chiamiamo sinusoide, altro non era che la sezione obbliqua
d'un cilindro tagliato diagonalmente con un piano condotto pel raggio del
quadrante base e sviluppata in un piano. Quantunque quell'Onorato Fabri non sia
un nome molto onorato nella storia della scienza, poichè fu quest'uomo mai
sempre av verso al Galileo e combattè ostinatamente tutte le belle scoperte dei
giorni suoi, ilnostro matematico fa di lui qualche caso rispetto al citato
libretto. Per altro è facile indovinare ch' ei lo faceva con una piccola dose
di spirito di partito, giacchè sco priva nel Fabri un grande settátore del
metodo del Cavalieri. E tanto anzi il Fabri lo usava con in 3 26
Quell'opuscolo per tanto del Fabri diede occa sione al degli Angeli di
combinare problemi di tutte le specie intorno alle unghie cilindriche,ai loro
cen tri di gravità, ai solidi da esse con varia maniera di movimento
ingenerati. Raddoppiata la superficie svolta in piano dell'unghia cilindrica in
tre modi diversi, egli costruisce una simmetrica figura, ch'ei chiama un giglio
ungulare, dal quale poi altri gigli germogliano con altri ideati movimenti, e
di tutta questa fantastica famiglia di figure aventi tutte per elemento
l'unghia cilindrica , valuta secon do il solido le aree , i punti di equilibrio
, i vari conoidi derivanti da quelle: e le stesse combinazioni, e gli stessi
oggetti si propone nei suoi studi sulla semicicloide . Queste descritte, ed
altre molte di eguale va lore, sono le opere geometriche del professore degli
Angeli, opere il dobbiamo pur dire con ricresci m e n t o , le quali al pari di
quelle di altri illustri suoi contemporanei non vengono più lette. La ragione
di questo abbandono non è a mio credere soltanto il Fu quel secolo uno dei più
brillanti e privile giati,sì per la moltitudine degli uomini di genio su
periore, e si per la grandezza dei trovati. Sembra che la natura abbia voluto
in quei giorni di deca temperanza,che ilnostro autore a suo riguardo così
si esprime: ut ad indivisibilium arenam percurrendam fraeno potius quam
calcaribus indigere videatur. progresso della scienza ed il lasso del tempo ,
che corre da quelli a'nostri anni, poichè le verità m a tematiche non sono
soggette aprescrizione di tempo; la causa più vera e profondamente
morale. 27 denza delle lettere mostrare quanto ella era capace di
produrre per largo compenso alla dignità del l'uomo. L'Italia prima del sapere
maestra , dopo la barbarie dell'età di mezzo diede in questo se colo
potentissimi e rinomati ingegni,un Luca Vale rio, un Galileo, un Torricelli, un
Viviani , un C a valieri,un Pucci e moltissimi altri.Ma l'Europa produceva in
quel tempo in altri climi il Nepero inventore del nuovo calcolo logaritmico, il
Guldino scopritore di un nuovo cammino nello studio delle curve, il Keplero che
tutti sanno, il Roberval; poi il Pascal, il Cartesio , il Newton; poi l'Huygens
e la portentosa famiglia dei Bernouilli, e quel mira colo del Leibnizio, di cui
tante si onora l'umano intelletto. E come la comunione espansiva di que ste
straniere intelligenze fece salire a passi gigan teschi il sapere e lo
unificava , è ben da credere che il tributo, che a questo cumulo di ricchezza
l'Italia poteva recare, avrebbe certo accresciuto il tesoro della scienza o di
molto accelerato ilsuo an damento nella matematica pura, come l'Accademia del
Cimento fece già a pro' delle naturali scienze. Ma gl'italiani, rispettate
alcune eccezioni,si tene vano in disparte nel purismo sintetico, ed offerivano
solitari sagrifizi alla greca sapienza, benchè con at tività e maestria nuove
ricchezze portassero a que gli altari ed a quei templi vetusti.E mentre sde
gnavano di dare ad altri la mano nella grande in vestigazione della verità,
ebbero talvolta a provare qualche umiliante disinganno;come avvenne fra gli
altri al Viviani nel suo vantato Ænigma geometri eum, che ben presto fu
spiegato in più modi ed in più luoghi dagli oltramontani analisti.
Attenutisi troppo scrupolosamente al linguaggio ed alle forma lità degli
antichi, e non avendo voluto adottare quel calcolo algebrico, che tanto
facilitava agli altri le dotte ricerche, si vennero a chiudere le porte per
arrivare fino ai nepoti, e non rimasero le faticose ed ottime loro opere che
come venerabili m o n u manti di storica scienza, che visitati non vengono se
non da pochi pazienti eruditi. Mi si perdoni questa digressione, che per in
tendimento aveva di mettere le produzioni del mio encomiato Stefano degli
Angeli nell'aspetto sotto il quale è lecito oggi di riguardarle, e passiamo a
par lare delle polemiche sue scritture. 28 È notissima nella storia della
scienza la lunga lotta, che si riscaldò fra lui ed il Padre Giambat tista
Riccioli Gesuita, uomo rispettabilissimo per la multiforme sua dottrina
letteraria e scientifica, e so prattutto riputatissimo astronomo.Questo dotto
pro fessore, che in compagnia del P. Grimaldi suo al lievo, giovò non poco
colle sue esperienze a conser mare le leggi dei gravi cadenti scoperte dal
fioren tino Filosofo, ebbe poi a macchiare inescusabilmen te il suo nome
coll'essere divenuto uno dei più pertinaci combattenti, che mai facesse
battaglia al grande Italiano sulla sua tesi del moto diurno della Terra. Ma il
sapiente Riccioli non si teneva contento ai soliti plateali sofismi
stiracchiati fuori dalle sagre carte dagl'ignoranti; egli invece si sbracciò a
con trastare in sul serio quel movimento del globo con argomenti fisico
-matematici. Oltre alla tante volte addotta difficoltà di concepire la
rotazione della terra a cagione della forza centrifuga, che dovrebbe
ge nerarsi , a detta degli avversarii , in tutti i corpi terrestri nel moto
circolare diurno,per cui la massa del globo ben presto verrebbe disfatta ,
argomento che si abbatte colla dimostrazione consueta che la velocità della
terra dovrebbe essere 17 volte m a g giore dell'attuale perchè la forza
centrifuga potesse eguagliare soltanto la gravità dei corpi , il Padre Riccioli
aveva coniato un argomento fisico -m a t e m a tico tutto di suo gusto,al quale
credeva che nes sun uomo di scienza potesse rispondere. Immaginatevi, ei
diceva, che un grave siasi la sciato cadere dalla cima di una
torreelevata,tanto che il corpo debba impiegare p. es. cinque minuti secondi
per battere il suolo nella caduta. Dividendo quest'altezza in cinque parti nel
rapporto dei tempi parzialidiquesta caduta con moto uniformemente ac
celerato,cioè 1, 3, 5, 7, 9, figuratevi che il grave abbia ricevuto l'impulso
da occidente in oriente a principio , c o m e voi pretendete , e troverete
naturale ch'esso debba descrivere una curva. Ora il calcolo mi dimostra che le
parti od archi di questa traiet toria rispondenti ai varii tempi summentovati
sono pressochè eguali. Laonde le velocità del Il professore degli Angeli
nell'anno 1663 , quando 29 questi varii tempi , rappresentate da quegli
archi , dovranno essere eguali,cioè nell'ultimo tempo come nel primo; dunque il
corpo cadente dovrebbe bat tere la terra colla stessa forza come nel primo i
stante così anche nell'ultimo , lo che è contrario all'esperienza, e perciò
questo vostro sognato moto della terra non può esistere. in corpo
già da sei anni si trovava all'Università di Padova , si propose di
abbattere tutti gli argomenti dell'a stronomo Gesuita, e ciò fece trionfalmente
in va rie riprese colle sue prime , seconde, terze e quarte considerazioni
sopra la forza degli argomenti fisico matematici del P. Riccioli contro il moto
diurno della Terra,stampate in Padova. La confutazione sparsa per quei suoi
quattro opuscoli riuscì un poco lunga e forse prolissa, poichè la compose alla
forma di conversazioni fra un certo Conte Lescysky, un si gnore Offreddi ed il
Matematico di Padova , ch'era egli stesso. La lentezza dei ragionamenti e delle
d e duzioni dipendeva naturalmente dalla forma in dia logo dell'opera, poichè
metteva il personaggio prin cipale nella necessità di togliere le più piccole
dif ficoltà ed obiezioni degli altri due interlocutori. Ma la sostanza delle
ragioni del Matematico di Padova si ristringeva a mostrare che il Padre Ric
cioli, per altri conti commendevole,siera mostrato con sua vergogna in questo
affare, atteso lo spirito di partito, assai inesperto nelle leggi più comuni
della Meccanica.Mostrò cioè d'ignorare che nell'urto dei corpi contro un
ostacolo irremovibile, come il piano sottoposto alla torre , dipendere doveva
la forza della percossa non tanto dalla velocità asso Juta, di cui è il corpo
animato, ma ancora dalla di rezione con cui la percossa discende. La velocità
accordata pure che sia eguale nell'ultimo tempo come nel primo, non è poi
egualmente inclinata nel corso della traiettoria nei varii tempi rispetto alla
verticale.Decomposta in fatti la velocità assoluta in in una verticale e l'
altra orizzontale, soltanto la 30 Ad ogni modo questa lunga
controversia fu tutta col vantaggio del nostro concittadino, ed ebbe nella sua
schiera tutti i veri scienziati d'allora, e non solo per questo conflitto, m a
per la più possente ragione, ch' egli fu per carattere uno dei più caldi
sostenitori del progresso in tutti i rami delle scienze fisico-matematiche. Ed
invero nell'anno 1671 faceva di pubblica ragione in Padova due lunghi dialoghi
fisico-m a t e matici; e tre altri nel successivo anno 1672, che avevano per
titolo Della gravità dell'aria e dei flui di esercitata principalmente nei loro
omogenei: nei quali con amene conversazioni fra quegli stessi in 31 prima
doveva operare nell'urtare; e siccome le in clinazioni della velocità nei varii
tempi erano diverse, diverse pure dovevano risultare le componenti v e r
ticali; e queste appunto si trovano, con facile di mostrazione, nello stesso
rapporto crescente, come se non esistesse l'impulso orizzontale; e per ciò si
conchiude che il moto della Terra per nulla si o p pone all'esperienza, e può
ben anche con essa sus sistere. Rilevata così l'impotenza del grande Achille
del Riccioli si usarono dall'autore tutti gli ar gomenti indiretti, che
potevansi per allora mettere innanzi . Là prova diretta del movimento rotatorio
della terra , come ben sapete, signori , era riservata ai giorni nostri; chè ce
la diede quel preclaro ingegno del sig.Faucault, per mezzo del pendolo da lui
idea to, e poi da quel suo giroscopio , che rende sen sibile il fenomeno fra le
pareti d' un gabinetto di fisica. terlocutori di sopra nominati ,
si svolgono tutte le leggi dell'idrostatica e si sciolgono le minute diffi
coltà di certi paradossi , già noti in quella materia , e dei quali in allora
ben pochi precettori davano una chiara spiegazione. Non pretende il nostro
autore, com'egli asserisce con modestia nella introduzione, che queste súe
composizioni contengano cose del tutto nuove e non tocche dagli altri ; m a
essergli stato di eccitamento a scrivere il desiderio di gio vare ai
nobilissimi scolari di quel sapientissimo s t u dio:i quali, diceva il nostro
professore,camminando al dottorato pei ponti delle dottrine peripatetiche e
delle formalità, poco o nulla vedevano della filoso fia sperimentale. La quale
dichiarazione serve farci conoscere ad un tempo e lo stato delle p u b bliche
istituzioni d ' allora, e gl' intendimenti del n o stro degli Angeli sul vero
scopo degli studii pegli uomini socievoli. Ma non è a credere ch'egli con tato
zelo del sapere calcasse unicamente le sole aride ed ardue vie della severa
matesi e delle scienze. Abbiamo invece ogni motivo per ritenere ch'egli nella
clas sica letteratura fosse molto perito, egli che per molti anni della sua
fresca età n ' era stato precettore fra i suoi: egli che con tanta sveltezza di
dicitura usò mai sempre familiarmente la lingua del Lazio. Ed inoltre nelle
lunghe dedicatorie epistole, rivolte ai più distinti personaggi dello stato e
della chiesa , lo troviamo come uomo familiarissimo degli ameni stu di spargere
sali ed argutissime mitologiche allusioni, e questo con frequente uso ed anche
abuso a se conda del gusto del secolo. Il Bresciano dottissimo 32
A coronare il monumento ,che oggi m'ingegnai d'innalzare in questo
letterario ricinto al nostro c o n cittadino Stefano degli Angeli, non mi
rimane che porvi sopra un'ultimaghirlandadifiori,cioèdifare ricordanza delle
qualità dell'animo suo. E qui sarò breve poichè l'affare è assai vecchio .
Questo sacer dote così esaltato e venerato dai suoi confratelli per più di
trenta anni, così accarezzato e tenuto per familiare ed amico da tanti nobili e
famosi per sonaggi, la intera vita del quale non respirò che osservanza
scrupolosa dei proprii doveri, e fu inces santemente modellata alla ricerca e
diffusione del vero, non poteva essere dotato che di bella indole e di soavi
costumi. E mi basta ad accertarmene per tutte la testimonianza del più volte
citato sto rico contemporaneo della Patavina Università , Carlo Patino, che col
degli Angeli viveva domesticamente , ed il quale al suo riguardo si esprime con
queste parole : Singularem Stephani comitatem , m o r u m » que suavitatem
experiuntur quicumque illam d e » siderant , adeo facilis est omnibus ,
benignus et » beneficus. In ejus gloriam dictum sit nullum a » m e inventum ,
qui vel levissime de ejus dictis » factisque conquereretur ». 33 E qui
darò termine alle mie illustrazioni sulla vita e sulle opere Mazzuchelli
ricorda la corrispondenza che regnava fra il degli Augeli ed ilcelebre antonio
Magliabechi, in assai scritti di argomenti scientifico-letterari , e questo
legame col fiorentino filologo serve bastan temente a dichiararlo non
istraniero al consorzio dei dotti contemporanei di tutte le classi. di questo
insigne matematico e filosofo veneziano. Il desiderio di togliere
da ob blio ingiusto e di mettere in piena luce i diritti a fama non peritura di
quest'uomo il nome del quale così stretto si lega ad uno de' trovati più belli
dell'italiano ingegno, m'infuse costanza, e dolce mi sembrò la fatica nella
lettura di opere,che at tualmente pei modi mutati sono poco leggibili. So che
potrebbe taluno ricantarmi essere ilnostro pre sente così fervido d'interesse
nella scienza e nelle sue applicazioni al materiale benessere della vita da
impedirci di guardare addietro nei secoli che f u rono. Ma io penso che sia non
ultimo fragl'inte ressi del progresso e di quelli che lo promuovono , il
celebrare con sagro zelo la memoria ed il bene fatto dai trapassati. Imperocchè
con questo g e n e roso operare tramanderemo un buon esempio ai n e poti, a
quei nepoti 34 « che questo tempo chiameranno antico », di non mancare di
gratitudine ai primi informatori del bello,dell'utile e del vero.Così
impediremo loro di gettare addosso un guardo compassionevole sui nostri
prodigiosi lavori, che ora vagheggiamo con giusto orgoglio , m a i quali per
fermo, secondo mento delle mondane cose,si contenteranno in al lora di venire
conservati e posti in opera come materiali alla costruzione di nuovi e più
amati edi fizii . Stefano degli Angeli. Angeli.
Keywords: implicatura stereometrica – parabola infinita – Grice’s infinity –
regressus ad infinitum, i cinque solidi platonici – la scatologia di Platone –
il cerchio infinito – concetto limite, ottimalita – fisica e metafisica, fisica
e aritmetica – aritmetica e geomtria – il moto diurno della terra, il sistema
di galileo – antropocentrismo, ferita narcissista. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Angeli” – The Swimming-Pool Library.
Angiulli (Castellana). Filosofo. Grice: “I like Angiulli; especially
since he brought some grice to the mill, as he crossed the pond to read “System
of Logic,” but his heart is in Berlin --
he loved that monumental ‘aula magna’ where Hegel taught. “Once a
Hegelian, always a Hegelian.” He loved Feuerbach because he multiplied
dialectic – la dialettica della dialettica – Garin loved this!” If there is a hashtag here is
#metafisicacritica, since Angiulli oddly concludes with a synthesis:
metaphysics (which includes the view that ‘la natura delle cose e la
fenomenalita’) should be part of what he calls the ‘ricerca’ (and which Lakatos
translated as ‘research’) --.” Grice: “I love the fact that Angiulli, seeing
that Mill was so erudite yet never attended Oxford, thought that Oxford was
perhaps ‘acccidental’” – Grice: “Another thing I love about Angiulli is that he
can quote direct from greek, as in his note on nature spawning itself, without
(a) the need to translate or (b) provide the boring stuffy academic source!” Importante
esponente del positivism. Inizialmente
allievo di Bertrando Spaventa, uno degli interpreti del pensiero hegeliano in
Italia, successivamente Angiulli si allontanò dalla scuola hegeliana napoletana
dopo un soggiorno biennale di studi in Germania nonché in Francia e in Inghilterra,
dove conobbe la sua futura sposa: Mary della nobile famiglia dei Romano di
Patù, nipote di Liborio Romano. Aderì al positivismo, ma rifiutò l'agnosticismo
di Herbert Spencer, mentre ritenne possibile giustificare la "religione
dell'umanità" (di Auguste Comte) in base alle scienze positive. Iniziò la sua carriera d'insegnante di
filosofia nel liceo "Vittorio Emanuele" di Napoli. In seguito divenne
professore di antropologia e pedagogia nell'Bologna e dal 1876 ordinario di
pedagogia in quella di Napoli, dove fu anche incaricato dell'insegnamento di
etica e di filosofia teoretica. Fu più
volte assessore alla pubblica istruzione nel Comune di Napoli dal 1884 e
candidato senza successo al parlamento nazionale. Angiulli era ritenuto un
progressista vicino al socialismo che egli invece contestava come dimostra la
sua corrispondenza epistolare con Marx che aveva avuto modo di conoscere in
Germania. Massone, fu affiliato Maestro
nella Loggia Fede italica di Napoli. Il pensiero pedagogico Angiulli riteneva che
ci si dovesse adoperare per una riforma dell'istruzione in senso popolare e
nazionale inserendo questo progetto nell'ambito di un rinnovamento dell'intera
società che solo tramite l'educazione sarebbe riuscita a mantenere nel tempo le
proprie caratteristiche. Occorreva dunque una fusione fra cultura, sistemi
educativi e la politica sociale realizzando così il programma del pensiero
positivista che, secondo Angiulli, ha un valore soprattutto pedagogico, di una
pedagogia scientifica, secondo i dettami positivisti, ma anche letteraria e
liberale. La pedagogia quindi non potrà
non tener conto dell'antropologia che dimostra l'importanza della famiglia come
nucleo fondante della società e della sociologia che stabilisce il collegamento
tra educazione e una politica laica e liberale.
È nella famiglia, secondo Angiulli, che avviene la prima forma di
pedagogia dove il padre rappresenta l'autorità e la madre il temperamento,
tramite l'affetto, dei comportamenti infantili: elementi questi essenziali
destilla formazione armonica di un cittadino in grado di esprimere solidarietà
sociale e volontà di progredire resistendo a quelle pressioni clericali che
caratterizzavano i primi anni della nascita dello stato unitario italiano. I grandi progressi
compiuti in questo secolo in ordine alle scienze p o sitive hanno avuto il loro
riverbero nelle industrie e in tutto ciò che si po trebbe dire scienza pratica,
la quale ha fatto dei passi giganteschi. È stato questo che ha contribuito a
infiltrare nell'animo di tutti , nonchè un senso pratico della vita assai più
raffinato , la tendenza al sacrificio di ogni più nobile cosa di fronte
all'interesse. Data una tale costituzione psicologica, parecchi problemi son
sôrti nel campo teorico. Si èdetto:– A che la Poesia, a che l'Arte ? Il tempo
delle finzioni , delle illusioni e dei sogni è passato ; ora si cerca ciò che
ha un'utilità più o meno immediata, la realtà ci s'im pone. Il terreno delle
emozioni si va sempre più restringendo e l'intelligenza pervade tutto.— Il
grido Non piùPoesia si è accompagnato col grido Non più Metafisica (Nicht mehr
Metaphysik ), ed abbiamo ancora nelle orecchie gli anatemi lanciati non solo
contro la Metafisica,ma anche contro la Filo sofia in genere. Il puro
specialista in fatto di scienza si ascriveva ad onore il dispregio per ciò che
fosse Metafisica. Questo stato però si può dire che sia durato poco,e da tutte
parti re centemente è surta una reazione benefica contro la corrente
antifilosofica. Ma se ci è un certo accordo quanto ad ammettere la
Filosofia,regnano ipiù grandi dispareri per ciò che concerne i limiti da dover
assegnare a tale disciplina. La maggior parte dei scienziati, per esempio , ha
compreso che ciascuna delle loro scienze speciali ha per iscopo precipuo la
scoverta di leggi sempre più generali, di leggi che raccolgano sotto il loro
dominio il maggior numero di fenomeni. Generalizzando sempre,si arriva a certi
principii che offrono sinteticamente la genesi di quasi tutti i fatti
primitivamente raccolti e descritti dagli scienziati;esponendo e discutendo
tali principii, sidiceche si fa la Filosofia di quella data scienza. Per
codesti specialisti quindi non ci sarebbe una sola Filosofia, o meglio, la
Filosofia come scienza a parte, ma ciascuna scienza avrebbe la sua. E pur
volendo ammettere,notarono al cani, la Filosofia quale scienza a sè, ad essa
non rimarrebbe altro compito che quello di volgere intorno alla Dottrina della
Conoscenza. Ci furono altri che proclamarono un sogno la sintesi cosmica, per
modo che tutti i sistemi metafisici passati e futuri non avrebbero per loro che
il valore di aspirazioni dell'anima, di espressioni di amore per l'Ideale.
Codeste opinioni sono sostenute da filosofi di molto merito, nè si creda che
non siano giustificate in nessuna guisa; ciascuna invece contiene una parte
di verità; il difetto sta nell'aver esagerato troppo l'importanza di co desta
parte e nell'aver escluso gli altri elementi. Quelli, per esempio, che hanno
visto nella Metafisica nient'altro che ilromanzo dell'anima,non hanno tutti i
torti, giacchè se in ogni lavoro scientifico quasi quasi si trova la nota della
sensibilità, molto più si rinviene questa nella Metafisica che è un lavoro
d'insieme. Le condizioni della conoscenza non sono sempre in uno stato di
semplicità ideale, ma si vanno sempre complicando,e l'oggetto della ricerca non
appare con una nettezza definita , nè l'intendimento è comparabile ad uno
specchio terso. L'uomo non ha abbastanza facoltà per quest'opera di
creazione,perchè scovrire è creare. L'immaginazione
entra in giuoco,muo vendo dal fondo stesso del temperamento, di cui
quest'immaginazione è un riassunto. Ogni spirito di scienziato ha dunque un
certo fare originale, sub biettivo,anche nell'ordine delle conoscenze più
lontane dalla complessità della vita. Che avverrà in ordine alle conoscenze più
viventi e più complesse, e fra queste in ordine alla più complessa di tutte,
come quella che riflette l'uomo e il mondo, vale a dire alla Metafisica? I
sostenitori dell'opinione che la Metafisica debba considerarsi come un romanzo
dell'anima,ragionano a questo modo. Costruire un sistema è com piere, per mezzo
di un'ipotesi esplicativa, la somma delle conoscenze esatte fornite
dall'esperienza. Noi possediamo sull'universo e sull'uomo una certa quantità di
nozioni positive, noi le coordiniamo e completiamo per via di una teoria
generale,allo stesso modo che un geometra disegna una circonferenza intera
secondo il semplice frammento di un cerchio. E queste nozioni posi tive,
materia indispensabile della nostra ipotesi,ci sono apportate dall'espe rienza
in due modi distinti. Da una parte il filosofo conosce i risultati ge nerali
delle scienze sperimentali nel tempo in cui egli lavora, e vi conforma la sua
immaginazione d'inventore d'idee; dall'altra parte questo filosofo ha subìto,
almeno nella sua infanzia e nella sua giovinezza, le influenze infini tamente
multiple e complesse della sua famiglia , dei suoi amici , della sua
città,della sua regione. La sua vita sentimentale e morale ha preceduto ed
accompagnato la sua vita intellettuale. Questa seconda iniziazione si unisce
alla prima in modo che la scoverta d'una dottrina si trova essere insieme un
romanzo dello spirito ed un romanzo del cuore. Coloro che limitano l'obbietto
della Filosofia solo alla dottrina della co noscenza, neanche sono
completamente nel falso. Se l'oggetto della Filosofia come sintesi cosmica è la
ricerca della genesi dei principii fondamentali di ciascuna scienza speciale, è
chiaro che per gradi si risale, generalizzando sempre, dal dominio di ogni scienza
speciale a quello della Filosofia. Le con dizioni della scienza moderna son
tali che il puro specialista quasi quasi si potrebbe dire che non è un vero
scienziato.I legami fra le varie scienze sono oggi così stretti,che s'impongono
alla considerazione di tutti.Ed ipro blemi un tempo di esclusiva pertinenza
della Filosofia entrano ora nel d o minio delle scienze speciali. Identificando
l'oggetto della Metafisica con la realtà immanente dell'esperienza e
identificando il metodo di studiarlo coi procedimenti della scienza positiva,
essa o non deve esistere, o si converte nella Fisica , intesa come scienza
prima ed universale , in quanto tocca il problema cosmico, il problema dei
principii fondamentali ed universali, pro blema che emerge da sè dalle scienze
speciali, senza alcun lavorio partico lare. La Filosofia però è la
continuazione delle scienze positive,costituendo la loro unità, il loro tutto,
ma non è che un lavoro di compilazione. Come còmpito speciale ed originale
della Metafisica non rimane alla fin delle fini che la Dottrina della Conoscenza.
L'obbietto del saggio dell'Angiulli è
appunto quello di esaminare i titoli che la Filosofia pud presentare per essere
riconosciuta come scienza separata che ha un còmpito proprio. È stato per
questa ragione che mi è sembrato opportuno dilungarmi prima un pochino nel
delineare come stanno le cose attualmente. Prima e contemporaneamente alla
pubblicazione del libro dell'Angiulli, parecchi altri hanno mostrato come la
Metafisica fosse da considerarsi quale scienza con un obbietto ben definito. E
si può dire che tutte le scuole filo sofiche contemporanee siano d'accordo su
questi punti, che il vero oggetto del nostro sapere è la sintesi dello scibile,
la ricostruzione ragionata del mondo analiticamente conosciuto,che la veduta
metafisica deve essere sug gerita principalmente dai risultati delle scienze
sperimentali, e di queste essere la migliore spiegazione possibile, e che non
ha valore quella tratta zione metafisica, alla quale non sia fatto precedere un
accurato esame del potere conoscitivo umano,una critica cioè della conoscenza.
Gli Idealisti però non consentono che la Metafisica sia dichiarata una scienza
positiva, perchè, a differenza di queste , essa ha un doppio intento : ha per
oggetto materiale il pensiero, che differisce dagli obbietti delle altre
scienze, e per oggetto formale lo studio delle relazioni supreme onde i singoli
fatti si col legano fra loro.Le cognizioni proprie della Metafisica,secondo
costoro,si ottengono bensì mercè l'osservazione, purchè questa sia psicologica
, razi nale, anzichè solo empirica. Poi il procedimento della Metafisica
nell'addurre la ragione delle conoscenze, non è quello delle discipline
positive; queste debbono limitarsi all'esperimento ed all'induzione, laddove
quella, oltre tali metodi, deve seguire speciali criteri suggeriti dalla
critica della conoscenza, Ora comincio col domandare: A quale delle
categorie di pensatori ac cennatepiùsuappartiene l’Angiulli? A nessuna: per lui
oltre la Filosofia di ciascuna scienza, c'è la Filosofia il cui obbietto è la
sintesi cosmica e del sapere. Egli ritiene che i progressi delle scienze
positive non hanno fatto pernientemutarel'obbietto dell'antica Metafisica –Sintesi
cosmica (Cosmologia), Sintesi del sapere (Dottrina e Critica della Conoscenza)
e Valore dell'esistenza (Etica) -- ma hanno solamente portato una rivoluzione in
ciòche riguarda il metodo da seguire nella soluzione del problema metafisico.
Angiulli qualifica la sua Metafisica come scientifica e progressiva,dichiaran dola
scienza e non meno positiva delle altre. Se tale quesito fosse stato for mulato
da un dommatico spiritualista o materialista che fosse, ci sarebbe da
meravigliarsi poco, e la cosaavrebbepocoopunto importanza; ma il tenta tivo di
una metafisica scientifica fatto da un partigiano così illustre del metodo
sperimentale, è cosa degna di ogni considerazione. per distinguere
l'apparenza dalla realtà. Finalmente l'ordinamento delle parti nelle singole
scienze è parziale, invece la disposizione di esse nella Meta
fisicaètotale:quelleordinanocose,fatti;questa,oltrelecose,devedisporre
ancheleidee,eordinarel'essereeilconoscere.Conchi one, la Metafisica e una
scienza razionale, non positiva. Lasciando da parte ora le sottigliezze
metafisiche che non fanno progredire d'un passo la scienza, dirò che tra i
filosofi contemporanei quegli che molto si è occupato del problema metafisico è
stato il Fouillée. Mentre la scienza pura e semplice, egli dice, non bada che
ad oggetti particolari, fac e n d o astrazione dalla mente che li conosce, come
d'altro canto la psicologià non si occupa che dei fatti mentali, facendo del
pari astrazione da ciò che si co nosce per via dei poteri mentali, è solamente
la metafisica che si occupa della relazione, del nesso esistente tra gli obbietti
e la mente ; e la vera realtà sta appunto in tale relazione, in tale
corrispondenza. Però, a senso suo, tutte le altrescienze, compresala Psicologia,
sarebbero dachiamarsipro priamente scienze astratte, mentre solo la Metafisica
sarebbe da dirsi concreta . Insomma, l'oggetto della metafisica volgerebbe
intorno alla reazione di tutto il nostro organismo mentale (conoscenza,
volizione, sentimento) di fronte al Mondo.IlFouillée delrestoaccennasolamente
aivariproblemimetafisici, ma non ne svolge, nè alcuno ne approfondisce, vuoi in
fatto di cosmologia, vuoi in fatto di psicologia, non forma, direi ,un trattato
dei problemi metafisici, in modo che ti si dia la genesi delle idee filosofiche
odierne positive. Tale merito era riservato, si pud dirlo con orgoglio,all'Angiulli
,m e rito tanto maggiore, per le difficoltà che offriva il soggetto. La parte
vera mente importante ed originale del suo saggio è di non aver solamente
proclamata l'esistenza di una metafisica positiva e progressiva, di non averne
solamente ideato il disegno, m a di aver eseguito questo, di aver gettato le
basi di una Cosmologia e di una Psicologia quale oggi si può avere dal Positivismo
ragionato. I partigiani dell'esperienza o non devono ammettere una Metafisica,
o, se devono ammetterla, non possono accettare che quella,di ciamo pure,
abbozzata dall'Angiulli. Esporrò ora a grandi tratti i con cetti fondamentali
dell'autore. Se gli oggetti della realtà conoscibile sono studiati dalle
diverse scienze positive, rimane sempre da studiare l'insieme degli oggetti e
le scienze stesse e quindi i rapporti, le connessioni esistenti tra gli oggetti
particolarmente studiati dalle scienze, e tra le scienze stesse; campo codesto
riservato alla Filosofia. Il dimostrare che è impossibile la formazione di una
sintesi cosmica è già una ricerca filosofica. Ma veramente l'analisi degli
oggetti cosmici è inseparabile dalla sintesi in cui essi ottengono il loro vero
valore. E le scienze stesse si volgono a raggruppare più fatti sotto una
nozione o una legge generale,o più nozioni e più leggi sotto una nozione od una
legge ancora più alta.Ma in questa opera giungono a toccare un limite che di
mostra la loro insufficienza. Gli ultimi sostegni e gli ultimi legami dei loro
concetti sorpassano i confini delle loro indagini ; perciò non possono trovare
nella propria sfera la soluzione compiuta anche dei problemi speciali. La filosofia
comprende quella parte di ogni scienza che s'innalza a principii e ad
ideeuniversali, quellapartechericonducequesteideeequestiprincipii ad una unità
superiore. È parte di ogni scienza ed è una scienza a sé. Ed il Girard
,dimostrando che la Filosofia non è un'opera aggiunta alle scienze, sibbene una
loro parte integrante, distingue itna Filosofia delle scienze particolari, una
Filosofia dei diversi gruppi di scienze,ed una Filo sofia centrale che è la
loro sintesi ultima e definitiva. L'Angiulli con ra gione insiste molto su
questo, appunto perchè rimanga ben chiarito il con cetto che dobbiamo formarci
della Filosofia, e del suo compito nella cultura e nella vita. Le scienze, egli
dice, per sè sole scoprono verità che diremo astronomiche, fisiche, chimiche ;
la Filosofia scopre verità cosmiche. Solo quando le verità attinentisi ai
fenomeni meccanici, fisici, chimici, biologici, sociologici si collegano in un
principio, in un rapporto comune, si ha una verità cosmica. Quando il Lagrange
con la sua splendida applicazione del principio delle velocità virtuali a tutti
i fenomeni meccanici, fuse in un tutto orga nico i diversi rami della meccanica
che erano stati fino allora studiati sepa ratamente, ottenne una conquista
scientifica di un grado superiore. Quando ilGrove
el'Helmholtz,mostrandocheivarimodidelmovimento pos sono essere trasformati
l'uno nell'altro, apparecchiarono una base comune allo studio del calore, della
luce,dell'elettricità e del moto sensibile,conquista rono una verità,la
quale,sebbene tocchi già la sfera della filosofia,non esce ancora dai cancelli
di una scienza speciale. M a quando il principio delle v e locità virtuali e il
principio della correlazione delle forze furono dimostrati entrambi corollari
del principio della persistenza della forza, conseguenze necessarie di un
medesimo assioma, allora la verità conquistata appartenne all'ordine filosofico.
Cosi anche quando Von Baer sostenne che l'evoluzione di un organismo vivente è
un progressivo passaggio dall'omogeneità della struttura alla eterogeneità,
egli scoprì una verità biologica;ma quando Spencer applicò questa medesima
formola all'evoluzione del sistema solare, della terra,della
vita,dell'intelligenza,della società,egli conquistò una ve rità filosofica, una
verità non semplicemente applicabile ad un ordine di fe nomeni, ma a tutti gli
ordini. Dopo averfissatocodestipunti,ilimitidellaFilosofiasembranobencir
coscritti, nè vi dovrebbe esser luogo a discutere,se,poniamo,una data teoria
sia da considerarsi come teoria filosofica,ovvero tale che non esca dai confini
delle scienze speciali. Pure non è così, come si vedrà più giù, quando mi
fermerò un po' sulla teoria darwiniana. L'Autore passa subito a fare
l'applicazione dei principii su esposti. Svolge dapprima il concetto largo che
bisogna formarsi dell'esperienza, ag. giungendovi l'elemento sociale e storico,
entrambi tanto importanti; passa poi a delineare la dottrina della conoscenza,
mostrando giustamente come sia impossibile trattare un tal soggetto, senza
prima far precedere delle note paramente psicologiche. E poichè la Filosofia, se
èsintesi del conoscereè anche sintesi dell'essere, Angiulli, nella parte III “
del suo libro si occupa della dottrinadell'evoluzione cosmica. Quivisono
raccolti i più recenti risultati scientifici, ed è notevole che l'Angiulli
è perfettamente al corrente di ogni novità in ordine alle scienze della natura.
Io non scenderò a partico larità; mi fermerd solo un momento su cið che
concerne la Biologia, tanto per offrire un esempio della difficoltà che si
prova a giudicare se una data teoria scientifica possa aspirare all'onore di
essere detta filosofica. Porrò prima il quesito: Qual'è l'importanza che nella
sintesi cosmica, qualesipuòformareoggi, ha ladottrina darwiniana? A
questoriguardo regna ancora un po' di confusione: c'è chi vorrebbe vedere
nell'idea darwi. niana la legge del mondo,e quindi nel darwinismo una dottrina
filosofica, e c'è chi pensa proprio il contrario. Giova premettere che non va
confuso il Trasformismo col Darwinismo : il primo certamente racchiude un
pensiero generale che rasenta almeno il dominio della filosofia; dar ragione di
tutto il mondo organico per via di trasformazioni graduali e consecutive è
certa mente un'idea che raccoglie il massimo numero di fatti particolari
organici e nello stesso tempo tenta di darne la spiegazione ; tanto più se si
pensa che un tempo tutto lo studio del mondo organico si riduceva a fare un in
ventario più o meno ordinato degli esseri organizzati. Ma il Trasformismo è benaltra
cosa del Darwinismo: questo in fin dei conti non è che una forma particolare di
quello. Il Darwinismo è nient'altro che una teoria generale,la quale non esce
dai cancelli di una scienza speciale. Ed infatti: raccoglie esso il massimo
numero di fatti che si osser. vano nel mondo organico? Tenta , dico tenta e non
a caso, di risolvere il massimo numero di problemi organici? La sua formola è
tanto generale da dare la spiegazione della genesi dei fatti più importanti in
Biologia? Pone esso tutti i problemi di origine ? L'idea del trasformismo era
già vecchia ; C. Darwin non ha fatto che togliere da tale veduta tutto ciò che
poteva sembrare estraneo alla scienza. Ed è stata l'impronta scientifica da lui
data a tal genere di studi che ha fatto sì che le scienze ausiliarie
concorressero a controllare i risultati già per altra via ottenuti. M a la
selezione naturale non spiega tutti i fenomeni organici e molto meno connette
questi coi fenomeni fisico-chimici.Di qui il bisogno che si è sentito di fare
l'integrazione, come si è detto, della teoria
darwiniana:siècompletata,sièperfezionata,aggiungendovi molti altri elementi che
l'hanno trasformata tutta. Essa, ridotta ad una teoria pretta mente
scientifica, non offre quell'universalità propria di una teoria filosofica. È
per questo che l'integrazione non concerne elementi accessori,ma riguarda la sostanzialità
di essa. Per il Darwin, invero, dalla carestia dipenderebbe la variazione,
mentrechè si è notato che il primo fondamento della varia zione risiede
nell'opera della nutrizione, la quale riesce ad un accrescimento della sostanza
vivente, per quel processo naturale onde essa, col concorso favorevole dei
mezzi dell'ambiente esterno, accoglie in sè nello stadio evo lutivo più di
quello che non perda. Dall'abbondanza dei mezzi nutritive -- Cfr. MORSELLI, Lesioni
di Antropologia L'Uomo secondo la Teoria dell'Evoluzione, Dispense -- come
ha notato il Rolph, dalla prosperità, non dalla miseria, dipende la variazione,
l'accrescimento della materia organizzata. Questo accrescimento, segnando in
pari tempo una conquista di nuovi caratteri ed una divisione di attività e di
attinenze, si porge come svolgimento, come progresso. Giova notare anche qui che
la prima storia della vita comincia dal rispecchiare le condizioni
dell'ambiente ove essa si svolge. Innanzi alla lotta coi rivali l'essere
organizato deve, di contro alla varietà degli agenti esterni, conquistare il
suo posto. La legge della concorrenza non può essere il primo sostegno
dell'evoluzione biologica:èsolounepisodiodiquesta.La leggemalthusiana deve
essere mantenuta in confini più giusti, poichè il rapporto della ripro duzione
di fronte ai mezzi dell'esistenza, cangia, si trasforma col perfezio namento
degli organismi. Chi voglia persuadersi di primo acchito come siano essenziali
gli ele menti introdotti nell'integrazione fatta della teoria darwiniana, non
ha che a volgere uno sguardo a ciò che tanto lucidamente ha scritto l'Angiulli
nella parte biologica della sua sintesi cosmica. Egli, guardando sempre le cose
da un punto di vista generale, cerca sempre di connettere e di scovrire i
rapporti esistenti fra le cose, mentre il Darwin, puro scienziato, non vi
presenta che serie di osservazioni con le rispettive dichiarazioni, senza mai
tentarediunificare.L'Angiulli,peresempio,vidicechebisogna ricon durre i
principii e le leggi esplicatrici della derivazione delle specie all'effi cacia
delle funzioni stesse della vita nutrizione e riproduzione adat tamento e
trasmissione ereditaria. La legge dell'evoluzione biologica sarebbe la stessa
della Fisiologia , dilargata nello spazio e nel tempo. A base del l'evoluzione
biologica rimane quella virtù della variazione che scaturisce dalla complessità
e dall'indefinitezza della composizione della materia orga nizzata. Cosi
l'ultimo principio esplicativo delle forme e delle proprietà degli esseri
viventi si trova in un cangiamento chimico. La trasmissione ereditaria si
risolve in una semplice partecipazione di proprietà chimiche. Si è sentito il
bisogno di ricorrere ad altri ausiliari per la dichiarazione del mondo
organico, facendo sempre l'applicazione del principio posto, che bisogna
spiegare la derivazione delle specie mediante l'efficacia delle fun zioni stesse
della vita. Così anche la sensibilità e la motilità, se sono fun zioni
integranti della vita, debbono avere un'efficacia trasformatrice
degl’organismi. Senza gli stimoli della irritabilità , dice Virchow, non vi ha
lavoro organico, nessuna assimilazione di materia formativa, nessuno svolgimento.
Inoltre, come le attività e i rapporti della vita si accrescono e si
moltiplicano, si accrescono e si moltiplicano del pari i fattori della varia
zione.Ed a misura che i singoli fattori si elevano, nello svolgimento della
vita, ad una forma più alta, acquistano un'efficacia trasformatrice sempre
maggiore. Perd dobbiamo attribuire col Virchow alle forme più elevate della
sensibilità e della motilità, al pensiero ed all'azione volitiva una m a g
giore efficacia trasformatrice e perfettiva degli organismi concreti. Coi fatti
della sensibilità e del movimento è congiunta nella sostanza organica la
disposizione a riprodurli, che fu detta memoria, ed è il fonda mento
dell'abito, senza di cui sarebbe impossibile la variazione degli
esseri viventi. In tale proprietà va implicato quel processo di
coordinazione o ag gruppamento degli effetti dell'esperienza che altri ha
considerato come nota speciale dell'intelligenza. All'occasione di un sol
termine di una relazione di un gruppo, dato da una sperienza presente, si
riproducono anche gli altri termini non dati,ma con esso
congiunti.Ora,l'anticipazione immaginativa è una condizione essenziale dei
progressi della variazione perfettiva. La varia zione non avviene soltanto come
effetto di azioni o di stimoli presenti, per manenti,ma avviene anche in
anticipazione di azioni non presenti;non vi è un adattamento a relazioni
attuali, ma benanche un adattamento a rela zioni future e previste. L'interna
attività della rappresentazione anticipativa è sufficiente per sè a produrre
una certa modificazione della struttura orga nica in anticipazione della
funzione.Così si ristabilisce una specie di finalità negl'intimi svolgimenti
della vita, rilevando l'efficacia dell'attività intellet tiva come fattore
della trasformazione delle specie. Oltre all'adattazione per opera
dell'immaginazione anticipativa, vi ha un'adattazione più specialmente
intellettuale, perchè riguarda circostanze nuove e non previste,e non si
riconosce in un abito già formato. Questa specie di adattazione selettiva o
raziocinativa si appalesa gradatamente nella serie degli organismi, comin
ciando dai più bassi, m a senza di essa sarebbe inesplicabile l'acquisto di
molti istinti el inesplicabile il progresso della vita animale. La varia zione,
per esser progressiva e perfettiva, non può essere accidentale, abban donata
alla pura lotta esterna degli organismi, ma deve essere promossa da una
funzione coordinatrice ed anticipatrice delle relazioni dell'esistenza. Ora
domando : Dopo un'integrazione di tal fatta, la quale si potrebbe chiamare la
filosofia della trasformazione delle specie, perchè riunisce sotto un unico
principio, giusto o falso che sia, tutti i vari elementi che concor. rono alla
derivazione delle specie organiche, che cosa è divenuta la teoria darwiniana
vera e propria, quale uscì dalla mente del suo autore? Niente altro, mi pare,
che un caso particolare della grande legge della variazione organica. Già Darwin
stesso confessa che egli rifugge dall'occuparsi dei problemid'origine,equindi
di quellid'ordine generale;eppure,chivuol fare la filosofia della natura
organica non può fare a meno di trattare la que. stione della genesi della
vita, come di penetrare nella natura intima dei fenomeni implicati in
essa,quali la nutrizione,la crescenza,la riproduzione,
lasensibilità,lamotilità,lavariabilità.E l'Angiulli,chehaintesodi porgere le
linee principali di una sintesi biologica, ha trattato a modo suo tutte codeste
questioni. Potrà essere discutibile la soluzione data del problema, ma questo
va sempre messo col tentativo della discussione. Alla teoria darwiniana manca
per questo ogni individualità propria, e può entrare nei sistemi filosofici più
diversi; individualità e precisione che (1)Qui espongo semplicemente
l'integrazione della teoria darwiniana offertaci dal l'Angiulli, non ne faccio
la critica, perchè ciò non risponderebbe allo scopo che mi son proposto più sopradimostrare
come il Darwinismo sia una pura teoria scientifica, non filosofica. Dirò solo
che sarebbe oltremodo necessario precisare sia l'immaginazione anticipativa
organica che l'adattazione raziocinativa. le vengono impartite
dall'integrazione fattane, la quale racchiude un pensiero filosofico. Il
concetto della selezione è per se stesso abbastanza elastico,e si presta alle
più disparate interpretazioni, ond'è che per vedere un concetto filosofico in
essa,la si è più o meno piegata alle proprie idee. La selezione, si è detto, è
il fatto stesso della variazione prodotta dal complesso delle attinenze e delle
condizioni interne ed esterne dell'essere vivente: è un'espressione a b
breviativa di tutte le condizioni interne ed esterne di esistenza: non è la
causa della variazione, ma è l'espressione di essa .La selezione, si è anche
detto, non deve circoscriversi a significare l'accumulazione di quelle varia
zioni che sono utili nella lotta coi competitori, ma deve essere intesa in un
senso più generale, cioè come quell'aspetto della variazione che rende l'or
ganismo atto a sopravvivere,come espressione metaforica del fatto che ogni
equilibrio di forze meglio adatto a sopravvivere, sopravvive. Intesa a questo
modo,rispondo io,la selezione naturale diviene un con cetto astratto, una forma
vuota,e non più una legge concreta e produttiva, o,meglio,esplicativa dei fenomeni.
Se essa non ci si presenta come un con cetto definito e preciso, si può lasciarla
impunemente da parte. Ma è poi vero che nella mente del Darwin la selezione
naturale significasse ciò che vogliono alcuni filosofi d'oggi? A me non pare:
per lui era la legge dell'e voluzione organica. Aggiustarla ora in varie guise
prova sempre più l'inde terminatezza delle vedute darwiniane, rileva la poca
esattezza da parte di chi sconvolge le idee, ed in ogni caso è reso sempre più
certo il fatto che la teoria darwiniana vera e propria è perfettamente estranea
alla Filosofia. L'ultima parte dell'opera dell'Angiulli riguarda l'etica ; vi
si trova la giustificazione completa del titolo La Filosofia e la Scuola. Dirò
solo che codesta parte non è inferiore alle altre da qualunque punto di vista
si voglia considerare. Ora non mi è concesso discuterla; spero di farlo in
altra occasione,ma non concluderò senza affermare che questo dell'Angiulli è
fra i lavori filosofici dell'ultimo decennio, di cui maggiormente possa onorarsi
il pensiero italiano. sono, come l'Ente, altro che umane astrazioni.
Noi non conosciamo il pensiero se non come un'attività , una funzione
dell'umano organismo. Però lo spirito assoluto, e tutte le altre entità metafisiche
sono una produzione di questa umana attività, un fenomeno psicologico. Vale
dunque solol'opposito diciò che affermavaHegel:in luogo cioè di essere la
natura e la materia una manife stazione del pensiero, egli è il pensiero una m
a n i fesiazione della natura e della materia. Oltre alla materia non vi ha
altro principio. Il materialismo ed il naturalismo è dunque ad un tempo la
conse guenza e la confutazione dell'eghelianismo .Questa specie di dialettica
della dialettica egheliana è un fatto storico,ilcui maggiore autore fu il Feuerbach
, 12 M W L'io assoluto dell'Hegel, cioè il pensiero e lo spirito assoluto
, affermato c o m e principio e verità di tutte le cose,non è altro che la
massima di Pro tagora spogliata del carattere d'individualismo . Se Protagora
esprimeva esagerato un fatto reale, H e gel esprime esagerata un'astrazione
spiritualistica, che non è meno relativa del relativismo sofistico. Feuerbach
tornaall'uomo concreto.L'uomo èan cora per luiilcentro della filosofia,ma nè
più co m e l'individuo arbitrario dei sofisti, nè più come l'universale
astratto dell'Hegel, si bene come tutto l'uomo,come sensibilità e come società.
Di con tro all'idealismo si riafferma il realism. Solo Però l'astrazione è
produzione di nuovi concelli solo in quanto è trasformazione di
precedenti.Anche per la psicologia moderna vale ciò che vale per la geologia
modern a; le funzioni ed i prodotti psicologici sono spiegabili con le stesse
forze fisiche e fisiologi che,con l'aggiuntadelfattoredeltempo.L'eredità.
psicologica è un altro fatto accertato dalla scienza moderna e capace di recare
molta luce in siffatte quistioni. Noi non facciamo che continuare le atti
iudini e le conquiste del passato. Ilprogresso è l'educazione dell'umanità ;la
civiltà è un risultato d'esperienza, e non un miracolo di rivelazioni. Ma con
tutte queste aggiunte e modificazioni dell'empirismo voi, si dirà,non potrete
mai elevarvi sopra la sfera del sensibile;ossia le cause che voi potete
ricercare non possono essere che altri fatti
primitivi;eleleggichevoipotetescoprirenon pos sonoessere altro ,che le relazioni
costanti dei fatti. Precisamente questo : così l'uomo moderno ha in sè stesso
il suo punto di appoggio, e la storia ha in sè stessa la sua legge, senza
bisogno di entità teologiche o metafisiche che la dirigano, come la natura ha
in sè stessa l'energia ed il principio della sua esistenza e della sua
spiegazione. La natura fondamento della natura, ecco il grande principio della
cultura ccidentale (ουδένάνευφύσιοςγίγνεται,γίγνεται 27.12.çúcevēxo.oto.). Allora
ricadetenel positivismo schiell . No, perch è se il positivist a r i l i c n e
come. Opere: “La filosofia e la ricerca
positiva: quistioni di filosofia contemporanea”; L'idealismo assoluto
confutato dal materialismo. L'idealismo ed il materialismo nel corso della
storia della filosofia. La filosofia greca. La filosofia naturale dei romani
antichi. La fondazione della scienza positiva. Il medio evo. Il risorgimento
italiano. La filosofia moderna. Il secolo XVIII. Il criticismo di Kant in
Italia. La filosofia speculativa. La ricerca scientifica. La critica filosofica
e la scienza positiva. La filosofia positiva -- il positivismo filosofico in
Italia. Che cosa manca al positivismo filosofico. Gli altri sistemi
contemporanei. Vacherot, Renan, Taine, Comte, Mill, Littré. La filosofia come
ricerca positiva.– V.La filosofia e la storia. “Gl’hegeliani e i positivisti in Italia e altri scritti
inediti”(Savorelli); Pubblicazione dell'Accademia toscana di scienze e lettere "La
Colombaria". Gli hegeliani e i positivisti in Italia. Positivismo e
socialismo. Problemi di etica; Evoluzione, educazione e società. Il prof.
Haeckel e la pena di morte. Dal carteggio di Andrea Angiulli". Collezione
"Studi". “La pedagogia lo stato e la famiglia”;
Natura complessa della quistione sociale. Riguardalari or
ganizzazione della cultura nei diversi strati della socie tà. Problema
dell'educazione. Antinomie dei sistemi pedagogici. Una Pedagogia scientifica è
resa impossibile dalle dottrine della teologia e dell'ontologismo. La teoria
dell'educazione presuppone la legge dello svolgimento nel campo della biologia
e della sociologia. L'attuazione di un sistema scientifico dell'educazione
nazionale presuppone la costituzione dello Stato libero, il trionfo libertà e
di ordine. Appartiene agli uffici dello Stato. L'istruzione scientifica. La
scuola laica. L'eliminazione del catechismo non rende la scuola antireligiosa.
Non vi ha conflitti tra la scienza e la religione in generale. La perfezione
religiosa deriva dai progressi della scienza. La scienza la religione e la
morale. La scienza e l'arte. La scienza e la quistione economica. La scienza e
la quistione politica. Difficoltà per l'attuazione del l'istruzione
scientifica. La riorganizzazione delle scuole normali. Le condizioni dei
maestri elementari. Insufficienza dell'azione diretta dello Stato. La famiglia.
L'opera della madre. Il punto culminante del problema. L'istruzione richiesta
nella donna per compiere il suo ufficio di sposa, di madre, di educatrice.
Insufficienza dell'istruzione per migliorare il carattere e la condotta umana.
Una dottrina di H. Spencer. Il Lewes.Verità della politica scientifica.
L'educazione è un dovere nazionale. È un principio di VIII parziale
di questa dottrina. È anche vero che l'istruzione determina gli affetti e
conferisce al perfezionamento morale e pratico. Il Luys. Il Littré. Il nostro
discorso rimane saldo ad ogni modo. Ammesso come vero che la condotta sia
determinata dalle associazioni del sentimento, rimarrà vero che solo dalla
conoscenza delle leggi onde si formano coteste associazioni, cio è solo
dall'istruzione scientifica dipenderanno in ultima analisi gl'indirizzi
dell'operare, il miglioramento morale dell'individuo e della razza. “La filosofia e la scuola” La quistione
fondamentale della filosofia. Rapporti tra le scienze e la filosofia rispetto
alla conoscenza della realtà. L'unità dell'oggetto e del processo conoscitivo.
La filosofia non è una pura somma de' risultamenti delle scienze. Le scienze
generano la filosofia. La moltiplicazione delle scienze agevola l'opera della
filosofia. Tre modi d'intendere quest'opera della filosofla riguardo alle
scienze. La filosofia è una ricerca progressiva, e può scoprire verità di un
ordine superiore. Il *fondamento esplicativo* delle scoperte scientifiche è
dato dalla filosofia. Influenza reciproca della scienza e della filosofia nel
corso della storia. La filosofia come dottrina generale della conoscenza e
della scienza. Medesimezza di natura tra la conoscenza comune, la scienza e la
filosofia. Relazione storica della logica o dialettica e delle scienza.
Classificazione della scienza. Dottrina del Comte. Rapporto delle scienza
astratta e della scienza concreta. Un concetto della filosofia più compiuto di
quello del Comte. La dottrina dello Spencer. Gli stadi dell'evoluzione cosmica
e la clas sificazione della scienza. Il posto della psicologia filosofica nella
classificazione della scienza. Bain, Spencer. La ricerca *meta-fisica* come
*compimento indispensabile* della scienza e della dottrina della scienze.
Lacuna del Comte. Il lato *logico* o dialettico ed il lato *cosmo*-logico della
meta-fisica. La ricerca delle origini e degli elementi generativi dei fatti è
una nota caratteristica della scienza e della filosofia. Contraddizione del
Comte. Il Littré. L'inconoscibile dello Spencer. Il lato metafisico dell'etica.
La religione dell'umanità e dell'inconoscibile. Sistema e speculazione. IV. Il
problema della critica. Ladottrina del Kant si muove sopra un supposto
*non*-critico. Gli elementi della conoscenza. Il molteplice. I problemi della
filosofia, della sensibilità. Le forme dello spazio e del tempo. Le
categorie del l'intelletto. L'attività sintetica originaria della mente. La
funzione sopra-individuale della conoscenza. Critica della dottrina kantiana.
Il neo kantiani e i vetero-kantiani. I neo-criticisti e i vetero-criticisti. La
critica e la psicologia filosofica. Il Liebmann, il Riehl, il Goering, il
CARNERI. Il positivismo francese. John S.Mill. I Spencer, Lewes. La critica
dell'esperienza e la dottrina della conoscenza. Il falso supposto dualistico
della vecchia critica. L'unità dell'io è un'illusione metafisica. La genesi
della coscienza. L'embriologia mentale. Le facoltà psichiche sono una
derivazione dell'esperienza. Gli elementi dell'esperienza debbono ricercarsi col
soccorso dell'esperienza stessa. Le esperienze incoscienti. Le leggi della vita
e le leggi dell'esperienza. Il senso e l'intelletto. La sensazione e la
coscienza. L'attività trasformatrice dell'esperienza. L'esperienza ereditaria e
l'esperienza individuale. L'esperienza abbraccia tutt'i lati della mente. La
legge dell'esperienza e la legge dell'associazione. L'esperienza individuale e
l' ESPERIENZA sociale e COLLETTIVA esperienza collettiva. L'esperienza storica.
La psicologia sperimentale e la dottrina della conoscenza. Le leggi della
sensazione e del pensiero. L'elemento a priori della conoscenza è un prodotto
dell'esperienza stessa. Trasformazione dei gradi più bassi della conoscenza
mediante le attività più elevate della mente. La genesi dei concetti e delle
categorie. Le note della necessità e dell'universalità della conoscenza. Il
principio della regolarità nell'ordine della realtà. Il realismo sperimentale.
Le proprietà del reale. Lo spazio ed il tempo. Il fatto, la legge e la causa.
La metafisica. La dottrina dell'evoluzione cosmica. Il problema intorno alla
concezione del mondo. Sguardo storico della dottrina dell'evoluzione cosmica. I
fattori della dottrina scientifica dell'evoluzione. Gli elementi primitivi
della materia e della forza. La sostanza e il divenire. Due lati di un unico
problema. Interpretazione più esatta del processo di evoluzione. L'evoluzione
biologica. L'origine della vita e della mente. Le pro prietà capitali
dell'essere vivente. La nutrizione, la riproduzione, la sensibilità, la
motilità. L'origine delle specie viventi spiegabile mediante l'azione delle
attività fondamentali della vita. La dottrina del Darwin. Estensione del
principio della lotta per l'esistenza. La selezione è il *risultato* non la
causa della variazione. L'efficacia dell'elemento psichico. L'*evoluzione
sociale*. La legge dell'associazione nel seno della biologia. *Formazione della
società etnica*. Struttura e funzioni dell'*organismo sociale*. Esagerazione
dell'analogia biologica. La dottrina del Comte e dello Spencer. Dallo studio
degl'individui non si può ricavare l'esplicazione del fatto sociologico. I
fattori che determinano la differenza specifica e qualitativa del fatto
sociologico. Il consentimento volontario e la creazione di prodottiche debbono
essere appresi. Rapporti tra i prodotti della cultura nello svolgimento
progressivo della vita sociale. La dottrina dell'Etica. La sociologia mette
capo al problema dell'etica. La dottrina del l'etica compie il concetto della
filosofia. Nell'etica si accoglie un problema di un significato cosmico.
L'etica e la religione. La dottrina dell'evoluzione è il fondamento più saldo e
perfetto dell'etica, ed è il fondamento di una nuova religione. La religione
nella sua forma primitiva è una scienza nascente. Gli elementi costitutivi
della religione. Il lato pratico, il lato estetico. La legge morale e la legge
dell'ordine cosmico. Il fatto morale è il *prodotto* no n il presupposto
dell'evoluzione. L'ottimismo e il pessimismo. Il concetto d'evoluzione e la
nuova dottrina del migliorismo. La base biologica sociale storica dell'etica.
Il fattore dell'ideale nell'etica e la quistione della libertà umana. La
libertà è un prodotto sociale e storico. L'educazione rinnovatrice
dell'esistenza sociale è una funzione dell'etica. L'educazione nel suo metodo e
nel suo contenuto scientifico. Opinione dello Spencer. Le materie
dell'istruzione designate dai fini della vita. Il loro ordinamento conforme
allaclassificazione delle cognizioni scientifiche. Il fine dell'istruzione non
si raggiunge se non si porge una intima connessione tra i diversi rami degli
studi. Questa connessione è l'opera della filosofia. La filosofia nei diversi
gradi della scuola. Gl’insegnamenti della scuola primaria debbono essere
animati da uno spirito filosofico per raggiungere la loro efficacia educativa.
Lo studio della filosofia nella scuola media. Trasformazione di questa scuola
secondo i bisogni della cultura moderna. Lo studio della psicologia nella
scuola media. La teorica della conoscenza. Lo studio della filosofia
all'università. Efficacia pratica e sociale di questo studio. Curiosità Al professore è stata intitolata, nel 1906, la
Società Ginnastica Angiulli di Bari. Note
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A. A. e la fondazione della pedagogia scientifica, Lecce 2008. Positivismo Pedagogia Famiglia Altri progetti
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Angiulli Eugenio Garin, Andrea Angiulli,
in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Opere di Andrea Angiulli, . Andrea
Angiulli, in L'Unificazione, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Filosofia
Istruzione Istruzione Filosofo del XIX
secoloPedagogisti italiani 1837 1890 12 febbraio 2 gennaio Castellana Grotte
NapoliMassoniProfessori dell'BolognaProfessori dell'Università degli Studi di
Napoli Federico II. Angiulli. Keywords: l’antisignano del positivismo
filosofico – metafisica critica – l’organismo sociale, il fatto sociale, la
collettivita, il fatto collettivo, il fatto sociale – la societa, la
collettivita, la collettivita etnica, la razza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
ed Angiulli” – The Swimming-Pool Library.
Annunzio (Pescara). Filosofo. Grice: “I will call him a philosopher.” D’Annunzio e il
fascismo è una storia italiana. I Contemporanea. L’Illuminismo oscuro
Il rapporto tra il vate e il fascismo è molto più complesso e
burrascoso di quanto si pensi: un poeta buono nell'infondere emozioni e a
forgiare l’immaginario collettivo, ma che poco ha a che spartire con Mussolini
e la dottrina fascista. Difficile trovare un personaggio più divisivo di
Annunzio. O lo si ama o lo si odia. Chi lo ama, solitamente, sa vagamente
perché. Chi lo odia, il più delle volte, non ha idea della ragione. Pochi si
addentrano nel personaggio, nelle opere, nella biografia, nella sua filosofia,
e finiscono per apprezzarlo per le sue magnificenze e contraddizioni, senza
amarlo né odiarlo. L’uomo presenta slanci superbi e difetti inemendabili, che
si elidono e restituiscono l’immagine di una persona straordinaria.
Propaganda Filippo Tommaso Marinetti. Come si seducono le donne Manuale di
seduzione futurista. Coraggio, coraggio, coraggio: ecco l’afrodisiaco supremo
della donna! Una celebre contraddizione di Annunzio fu l'adesione al fascismo.
La questione viene spesso relegata a una semplicistica organicità del vate al
regime e alla sua dottrina politica, cosa che lo rende – come se interventismo,
erotomania, morosità, dissolutezza e tossicodipendenza non bastassero – inviso
e disprezzato dai più. Dire che Annunzio fosse un antifascista sarebbe
un’esagerazione fuori luogo, dire però che fosse un fascista fatto e finito è
altrettanto un errore, perché ben poco condivideva di quella dottrina e certo
non fu amico di Mussolini. Il personaggio e le sue scelte sono figli di quel
tempo complesso, e della lacerante crisi che l’Italia vive. Proiettiamoci
allora con l'anima in quegli anni terribili. Cartolina disegnata da
E. Anichini per il centenario dantesco. Si vede l’Italia tra Dante e Annunzio,
in una specie di simbolico passaggio di consegne. Il vate, nella mano destra un
fascio curiosamente capovolto, è rappresentato come la più illustre personalità
d’Italia: colui che, come Dante unifica linguisticamente lo Stivale, lo unifica
con la forza della parola e delle mani. È una cartolina pubblicata per conto
dei fascisti, in cui di Mussolini non si fa la minima menzione. Per tutti, se
un duce ci è non può che essere Annunzio. È finita la Grande
Guerra e l’Italia è sull’orlo di un altro conflitto, una guerra civile. I
reduci sono delusi e arrabbiati, sia i cosiddetti interventisti democratici –
quelli che intendeno portare il popolo in armi alla liberazione dei compatrioti
sotto dominio straniero –, sia gli interventisti nazionalisti – coloro che
auspicano che l’Italia, sconfiggendo lo storico rivale dispotico e arrogante,
potesse sedere al tavolo delle grandi potenze – si trovano a stringere un pugno
di mosche: alle trattative per la pace l’Italia ottiene ben poco ed è trattata
con sufficienza. Tre anni di combattimenti, 600 mila caduti e la vittoria sul
campo non garantiscono quanto era stato promesso nel Patto di Londra -- è la
vittoria mutilata. I nazionalisti insorgono. Annunzio ha occupato Fiume e la tiene
fino a quando lo stesso governo italiano bombarda la città mettendo fine
all’avventura della Reggenza Italiana del Carnaro. Come se non bastasse, in
Italia scoppiano scioperi e rivolte. Gl'operai si ribellano, occupano le
fabbriche, erigono barricate. Scioperano gli agrari, i sindacati si mobilitano,
le piazze sono in tumulto, il Partito Socialista si agguerrisce: si compie il
biennio rosso, che culminerà, almeno simbolicamente, nel Congresso di Livorno,
quando la corrente massimalista del Partito Socialista secede, dando vita al
Partito Comunista. I fascisti seminano violenza in tutta la Val Padana e anche
oltre. Si scagliano contro i socialisti e le loro sezioni, contro gl'operai, i
contadini, i comuni amministrati dalla sinistra. Sono il primo antidoto
repressivo al biennio rosso. Obiettivo prestabilito: i rossi, la canaglia
bolscevica, i pacifisti traditori. Uniti nella lotta, socialisti, comunisti e
anarchici fronteggiano un nemico comune, le squadre di camicie nere.
La classe dirigente liberale è impotente, il parlamento litigioso e
inconcludente, i politici non hanno consenso: le trattative di pace sono state
condotte con scarsa convinzione e l’amministrazione pubblica è allo sbando. La
gestione dell’ordine pubblico è quasi inesistente, tanto che frange
dell’esercito, delle forze dell’ordine e alcuni prefetti iniziano a
simpatizzare coi fascisti: almeno loro riescono a garantire un minimo di
ordine, seppure in maniera inadeguata a uno stato di diritto. Qui si
incastra una doppia illusione. Da un lato, parte della borghesia industriale e
agraria foraggia i fascisti in funzione anti-rivoltosa, contro i propri stessi
lavoratori indisciplinati. Dall’altro, la classe politica *liberale* ritiene
che queste squadre di *incolti picchiatori* siano utili a mantenere ordine e a
prevenire una possibile rivoluzione socialista, e che spariranno a breve come
tutti i fenomeni pittoreschi, capeggiate come sono da cinici opportunisti,
violenti agitatori e da un parolaio magico. Gl'uni e gl'altri credono di
potersi servire di questo movimento finché lo si farà durare, per i propri
comodi. Annunzio legge nella Capponcina -- è noto per le opere
letterarie, i saggi filosofici decadentisti, le avventure amorose e per il suo
gusto nel bel vivere. La guerra, Fiume e le folle sono di là da venire. A
questa età, Mussolini si appresta a diventare capo del governo. In tutto ciò
Annunzio *è l’italiano più famoso all’estero* e più influente in patria. La
parola del Poeta non è quella di uno scrittore o un politico normale. Annunzio
è un *eroe di guerra*, è l’artefice dell’Impresa di Fiume. Occupa le prime
pagine dei giornali di tutto il mondo -- è uno scrittore acclamato, il più
tradotto, il più amato e il più odiato. Ha un seguito enorme, migliaia di
sostenitori appassionati, reduci di guerra e ammiratori comuni, e centinaia di
legionari fiumani legati a lui da giuramento -- è un uomo che può raccogliere
attorno a sé migliaia di fedeli, persone che tra le altre cose conoscono le
armi. È un uomo pericoloso. Quando arringa, unisce; quando dileggia, divide. È
bipartisan il Vate, piace a tutti e non appartiene a nessuno -- è inserito fino
al collo nell’ALTA SOCIETÀ, piace agl'ARISTOCRATICI -- è un fervente patriota,
beniamino di tanti nazionalisti. Ha incassato la stima di Lenin e in alcuni
momenti pare davvero un rivoluzionario, per questo lo osservano diversi
proletari. Lo vorrebbero con loro anche molti fascisti. Ma Annunzio non
ricambia il favore ai demagoghi che credono di aderire alla realtà e non
aderiscono se non alla loro camicia sordida. È un ottimo momento, ma il Vate
temporeggia. Stanco, disilluso, disgustato dalla politica e dal governo
*liberale* che gli ha tirato addosso le granate, a lui che, *monarchico* e
patriota, vanta sette medaglie al valore. Si è ritirato nella villa di Gardone,
sul Lago di Garda, e sostiene che non c’è oggi *in Italia* nessun
movimento politico sincero, condotto da un’idea chiara e diretta. Perciò è
necessario che noi facciamo parte di *noi stessi*, immuni da ogni mescolanza e
contagio. Annunzio osserva il caos in cui l’Italia versa e decide di non
gettarsi nella mischia. Lui ha già combattuto, non è questo il suo terreno.
Spera in fondo che un giorno non lontano tutta Italia lo richieda a gran voce
come paciere, novello *dittatore romano* che scongiura la guerra civile. Ha
tutte le carte in tavola ma non le sfrutta. Dice di sé. Mi auguro di essere la
persona alla quale un giorno si penserà dicendo: Avanti! Non resta che
lui! I fascisti credono sia arrivata la loro ora, ma manca un vero condottiero.
Mussolini è l’ideologo, l’*inventore* del movimento, ben lontano dal diventare
il *duce degli italiani*. Colui che in questo momento viene acclamato come
*duce dalla gioventù* è Annunzio, il condottiero che deve portare al potere *la
giovane Italia* nata nelle trincee, scalzando la pletora di politici vecchi e
mercanteggianti che hanno vinto la guerra non per merito loro e hanno svenduto
la patria allo straniero. Annunzio ha il carisma, il seguito, la statura
culturale per trascinare i giovani e i reduci a Roma, compiendo quella
rivoluzione italiana che *nulla ha a che fare con la rivoluzione bolscevica*.
Ci sperano i suoi seguaci, meno lo agogna lui. Annunzio è però anche un
cialtrone, un oratore capace di trascinare le folle nei momenti bui ma del tutto
inadeguato alla politica intesa come mediazione e governo quotidiano.
Ciononostante vanno in molti a bussare alla sua porta. Contemporanea
Nicola Maiale In Fiamme Violenza politica in Italia dalla belle époque alla
marcia su Roma. Mussolini sigla il patto di pacificazione coi socialisti, che
prevede la rinuncia bilaterale alla violenza e la *costituzionalizzazione* del
movimento fascista, e all’interno dello stesso movimento le polveri esplodono.
"Chi ha tradito, tradirà" si legge sui manifesti affissi dagli stessi
fascisti a Bologna. L’ovvia implicatura è al tradimento del Mussolini
socialista. La massa fascista, le squadre e i rispettivi ras, ripudiano la
guida di Mussolini, che ricambia con le dimissioni (rigettate) e affermando che
quello che era un movimento ideale si è trasformato in una banda armata al
servizio del capitale. Mussolini è politicamente fuori gioco e i ras invocano
il duce che è tornato da Fiume da pochi mesi. Dino Grandi e Italo Balbo si
incaricano dell’ambasciata a Gardone per offrirgli la guida del fascismo.
Annunzio rifiuta nettamente, senza rispetto, e i due se ne vanno sdegnati.
Anche Gramsci compie il pellegrinaggio! Non si sa quale sia la proposta perché
Annunzio rifiuta di incontrarlo poiché, dice, non posso lasciarmi imporre
i colloqui. Forse Gramsci vuole trascinare il poeta nel Partito
Comunista, più probabilmente proporgli di unire i suoi legionari alla
resistenza antifascista. Perché si sa che Annunzio non ama i fascisti, seppure
con una certa ambiguità, e il disprezzo è ancor più motivato dai toni che in
quel momento Mussolini assume nei riguardi del Vate, quando smette la riverenza
e dice apertamente che le iniziative politiche di Annunzio sono irrilevanti,
che egli è inaffidabile e capriccioso, inservibile e intrattabile. Non ha tutti
i torti. Annunzio sarà anche stato l’eroe di guerra, il condottiero che prende
Fiume in armi e la tiene per un anno e mezzo, ma è pur sempre un poeta, un
dandy *narcisista* e *dissoluto*, uomo adatto alle arringhe, a infondere
emozioni e volontà, a forgiare l’immaginario collettivo, ma di cosa sia la
politica non ne ha idea e non vuole saperne nulla, disgustato com’è da tutto e
tutti, desideroso solo di crogiolarsi nella sua solitudine e tornare ad essere
quel che era, un operaio della parola, come ama sempre definirsi. I
due personaggi appaiono quanto mai diversi. In questa immagine si ritraggono un
Mussolini primo *deputato* fascista, *sguardo severo* e *abbigliamento scuro*,
minaccioso nell’espressione, e un Annunzio in uniforme, gli occhi persi nel
vuoto, indubbiamente più affascinante, ma *meno granitico*. Nel periodo
precedente la marcia su Roma Annunzio mostra particolare ostilità al fascismo.
Dopo il fallito tentativo di Gramsci, sono ricevuti i capi della CGIL e persino
Čičerin, commissario sovietico agli Affari esteri, tutti per attrarlo
nell’orbita antifascista. Ma le parole faticano a trasformarsi in fatti. Di
agire stivali sul terreno non se ne parla. Si fa vivo addirittura Nitti, il
Cagoja, l’odiato primo ministro dei tempi fiumani, che gli scrive:
bisogna unire tutte le forze per finire questo regime di stupidità e di
violenza, per riportare l’Italia ai suoi ideali di democrazia, di libertà e di
lavoro. Non m’importa di me. Tu vedi il pericolo e puoi agire sulla *gioventù*,
infiammandola e riportandola al buon sentiero. Francesco Saverio Nitti Il
momento di Annunzio è giunto, può mettere finalmente d’accordo le forze in
lotta e prendere le redini di un paese nel caos. Viene organizzato un incontro
tra Nitti, D’Annunzio e Mussolini. Due giorni prima il poeta cade da una
finestra della stanza della musica, dal primo piano del Vittoriale. Sul volo
dell’arcangelo, come lo chiama, vede fatta molta *dietrologia* e qui la storia
fatta con i “se” potrebbe sbizzarrirsi. Chissà cosa sarebbe successo se si
fossero incontrati e Annunzio avesse espresso la sua terzietà e l’opposizione
rispetto a un governo fascista. Fatto è che l’incontro viene annullato. Il
poeta non lo sa ancora, ma è definitivamente uscito di scena. La
foto ritrae Mussolini come tutti lo conoscono. Non veste ancora l’uniforme ma
già fa mostra di tutto il suo stile: attorniato da *camicie nere*, posa con lo
sguardo arcigno, la mascella prominente e le mani sui fianchi. Pittoresco e
quasi ridicolo all’apparenza, conquista nonostante ciò le folle, armato della
retorica altisonante e aggressiva, trionfale e accattivante, che ha in parte
imparato da Annunzio. Mussolini va a trovarlo ma non viene ricevuto. Si
incontrano ugualmente ma senza risultati tangibili. Ormai i tempi sono maturi,
i fascisti vogliono il potere e vanno a prenderselo. Ricorre l’anniversario
della vittoria e Annunzio è invitato nella capitale per presenziare le
celebrazioni, per questo la marcia su Roma viene anticipata di una settimana.
Mussolini teme che il Vate possa effettivamente convogliare alcune correnti in
favore del governo e compromettere l’iniziativa fascista. Le squadre
imperversano per le strade di Roma. Vittorio Emanuele III rifiuta di firmare lo
stato d’assedio e convoca Mussolini. Annunzio è ormai un relitto della
politica. L’uomo che poteva fare non ha fatto, colui che aveva forze vive,
uomini, consenso e autorevolezza, non aveva né l’idea né l’ambizione.
Obnubilato dalla sua stessa grandezza, si è rimpicciolito fino all’inutilità.
Forse l’aveva proprio cercata questa inutilità, non gli interessava praticare
la politica quanto ritrovare se stesso e la sua arte, in solitudine, se è vero
che confidò a un amico pochi mesi prima. "Ho voluto ri-entrare nel
silenzio, ho voluto essere un capo senza partigiani, un *condottiero senza
seguaci*, un *maestro senza discepoli*. Gabriele D’Annunzio Mesi dopo,
uno che per vivere la Grande Guerra ha falsificato la carta d’identità e si è
qualificato come giornalista, che aiuta l’esercito italiano in Veneto nel servizio
ambulanze, uno scrittore di nome Ernest Hemingway, scrive di Mussolini come del
più grande bluff d’Europa. Aggiunge che sorgerà una nuova opposizione,
anzi si sta già formando, e sarà guidata da quel rodomonte vecchio e calvo,
forse un po’ matto, ma profondamente sincero e divinamente coraggioso che è
Annunzio. Purtroppo per l’Italia, cui nei successivi anni non verranno
risparmiate sofferenze e costrizioni, la previsione di Hemingway non si rivela
esatta. Un’opposizione è effettivamente incarnata dal Comandante, ma rimane
silente, sepolta nelle mura del Vittoriale e dell’incombente vecchiaia.
Comunismo d'annunzio fascismo fiume Gabriele D'Annunzio Italia Mussolini prima
guerra mondiale seconda guerra mondiale Socialismo socialisti italiani. La
costituzione più bella del mondo. Quella sì, fu davvero “la più bella
costituzione del mondo” e non per modo di dire. Per i contenuti, lo stile, la
prosa, l’idealità che sprigionava. La Carta del Carnaro non fu scritta da pur
insigni costituzionalisti e rivista da politici, come la nostra costituzione.
Fu scritta da un grande sindacalista e rivista da un grande poeta-soldato.
Parlo di Alceste De Ambris e di Gabriele d’Annunzio. Fu animata dal confluire
di tre grandi energie: l’amor patrio, lo slancio poetico e lo spirito
sindacalista rivoluzionario. All’articolo 2 della parte generale, scritta da De
Ambris sono condensate tutte le parole chiave della carta: democrazia --
diretta, sociale, organica, fondata sulle autonomie, sul lavoro produttivo e
sulla sovranità collettiva di tutti i cittadini. È d’Annunzio a parlare nella
sua stesura della volontà popolare, del fato latino, e d'evocare il Carnaro di
Alighieri, l'estremo confine della civiltà romana, e il culto della
lingua. È d'Annunzio a sostituire 'repubblica' con quella più
classica 'reggenza' -- intesa come governo del popolo. Fu Annunzio a
richiamarsi ai produttori e agl'ottimi. E fu Annunzio a indicare nella bellezza
della vita, del lavoro e della virtus, la credenza religiosa collocata sopra
tutte le altre, che guida lo Stato. La forte impronta sociale e popolare
della carta non impede il culto aristocratico dell’eccellenza e la tutela delle
arti e delle discipline più nobili, del corpo e dell'anima. Nella
carta è garantita ogni libertà dei cittadini, il voto universale
-- è poi ribadita la funzione sociale della proprietà privata ed era
disegnato l’assetto delle corporazioni di arti e mestieri. Nove corporazioni
raccoglievano i lavoratori nelle loro articolazioni (terra; mare, operai,
impiegati, liberi professionisti, intellettuali); la decima corporazione era
enigmaticamente riservata alla forze misteriosa del popolo in travaglio e in
ascendimento, al genio ignoto, all’uomo novissimo, a colui che fatica senza
fatica -- è risolto il dilemma tra parlamentarismo e
presidenzialismo, riconoscendo centralità al lavoro e sovranità al popolo dei
produttori -- è introdotta la figura di un comandante, inteso come il
dictator romano, con pieni poteri ma limitati a un breve arco di tempo.
Elementi costitutivi della carta sono l’auto-decisione del popolo, la
possibilità di indire referendum, la tutela dei sacri confini nazionali e della
civiltà italiana-latina-romana, l’istruzione e l’educazione del popolo come il
più alto dei doveri della repubblica, la musica riconosciuta nella costituzione
come un’istituzione religiosa e sociale. Nel linguaggio d’oggi dovremmo dire
che sovranismo, amor patrio e populismo furono i cardini ideali della carta del
Carnaro. La fusione tra poesia, trincee e sindacalismo è il suo timbro originale.
Veniva poi costituita una Lega di Fiume che une in un solo fascio la forze
sparsa di ogni. Cerca l’adesione della Russia Bolscevica ma si rivolge anche ai
paesi islamici. Annunzio esalta il risveglio dell’Islam, auspice Italia,
dispensatrice di diritto e giustizia. Memorabili i discorsi fiumani d'Annunzio
che prepararono il terremo alla reggenza del Carnaro e al suo statuto. Da
L’orazion piccola in vista del Carnaro a l’Hic manebimus optime. E a Fiume vi
rimane davvero. La carta del Carnaro non è il sogno proibito di una
città-utopia separata dalla storia e non è nemmeno il frutto di
un’avventura velleitaria d'un eroe disoccupato a caccia di emozioni, come l’ha
sbrigativamente liquidata Emilio Gentile -- èinvece la visione più lucida
e ardita della politica e della società di combattenti che la guerra la fano
sul serio. Così De Ambris sintetizzò la carta ad Annunzio. Diamo al mondo
l’esempio di una costituzione aristotelico-vichiana-nietzscheiana che in sé
accolge ogni libertà e ogni audacia di Platone, facendo rivivere la più nobile
e gloriosa tradizione della nostra stirpe italica. Esempio perfetto di
rivoluzione conservatrice.Annunzio. Keywords: Alighieri, quarnaro, reggenza,
non repubblica, musica, dictator romano, commandante, il fiume, il fiumenismo,
sindacalismo, utopia, dystopia, revoluzione conservatrice, implicatura
fiumenista, la filosofia in d’annunzio, la carta di carnaro, aristotele, vico,
Nietzsche. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Annunzio” – The Swimming-Pool
Library.
antiseri: Grice: “Antiseri makes a distinction between what you CAN
say and what you MUST ‘tacere’ (i. e. left implicit). Not exactly what I was
thinking when I made the explicit/implicit distinction, but similarly! His
point is that for Vitters, questions of the mystic – which Antiseri compares to
Bonaventura! -- -- ‘la logica di un mistico y la mistica di un logico’! genial –
I was thinking more along the lines that ‘You’ve just committed a social gaffe’
is best left implicit (“She is a windbag’) – our of manners, etiquette, and
what I call the principle of conversational gentility!” – “So I find the ‘must’
too strong, and change it for a ‘may’ – but in Antiseri’s case, the point is
conceptual: you just CANNOT make the mysitic explicit, and there is a need (his
word) to keep whatever the mystic is Unexpressed.” Grice: “I like Antiseri, and
he indeed quotes me, not only because he MUST, as in his history of
contemporary philosophy, but because he LIKES it ( cf. Italian piacere) – as
surprised I was when I see that when discussing the future of metaphysics
within analytic philosophy he relies on my Third-Programme for the BBC!” Grice:
“Antiseri reminds me of myself, when he discusses ‘senso commone’ and
‘filosofia anallitica’ and ‘linguaggio ordinario’ – that’s why I used to joke,
when lecturing in the New World – and at Welleseley, no less! – about the
“Oxford School of Ordinary Language Philosophy”! Grice: “While Antiseri invests
a lot to make logic of Austin, he has to because he has posited himself as
giving ‘lezione di filosofia del linguaggio’!” Grice: “Most importantly, his
key words, such as solidarity, are very much along the lines that base my
‘ethics of conversation’ which is Kantian in spirit --.” Grice: “Antiseri has
to fight how to deal with this Kantianism along utilitarian lines, as when he
confronts ‘horizontal’ to ‘vertifical’ (i. e. bad) subsidiarity – where a
principle of subsidiarity – or respect for ‘il bene commone – gets balanced
with the principle of solidarity. A Calvinist approach, to some!” – Antiseri:
“It is amusing that Antiseri is forced to defend the relevance of the Romans,
where that is taken for granted at Lit. Hum. Oxford!” -- Dario Antiseri
(Foligno), filosofo. Originario della città umbra di Spello, si laurea in
filosofia nel 1963 presso l'Perugia; ha poi proseguito i suoi studi presso
varie università europee sui temi legati alla logica matematica,
all'epistemologia ed alla filosofia del linguaggio. Divenuto libero docente nel 1968 ha iniziato l'insegnamento
presso l'Università "La Sapienza" di Roma e l'Siena. È inoltre membro
dell'Advisory Board del Centro Studi Tocqueville-Acton. Dal 1975 al 1986 è stato ordinario di
filosofia del linguaggio presso l'Padova mentre, dal 1986 al 2009, ha assunto
la cattedra di "Metodologia delle scienze sociali" alla LUISS di Roma
per poi ricoprire l'incarico di preside della Facoltà di Scienze politiche
della stessa Università tra il 1994 ed il 1998. Nel febbraio del 2002 è stato
insignito, assieme a Giovanni Reale, di una laurea honoris causa presso
l'Università Statale di Mosca. Collabora stabilmente con il quotidiano
Avvenire. Dario Antiseri ha pubblicato
testi didattici di filosofia oltre a testi di divulgazione filosofica e di
autori stranieri, in particolare ha contribuito a far conoscere in Italia il
pensiero di Karl Popper. Critiche Il
pensiero del professor Antiseri è da tempo sottoposto a critiche sia
all'interno della Chiesa sia all'interno del mondo intellettuale liberale. A
tal proposito sono interessanti le critiche recentemente mosse al pensiero
dell'intellettuale da Assuntina Morresi sul giornale on-line L'occidentale e
l'articolo del 2005 su "espressonline" di Sandro Magister in cui
l'opera di Antiseri viene definita "apologia del relativismo". Altrettanto interessante è il commento al
relativismo di Antiseri apparso sul web nel blog di Fabrizio Falconi, e quello
di Litta Modignani pubblicato sul sito Critica liberale. Opere:
“Perché la metafisica è necessaria per la scienza e dannosa per la fede”
(Brescia, Queriniana); Epistemologia e
metodica della ricerca in psicologia, Padova, Liviana Editrice); C'è ancora
spazio per la fede?, Milano, Rusconi); “Il filo della ragione, Roma, Donzelli);
“Liberi perché fallibili, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Trattato di
metodologia delle scienze sociali, UTET Università); “Come lavora uno storico,
Roma, Armando); “Liberali. Quelli veri e quelli falsi, Soveria Mannelli, Rubbettino);
“L'università italiana. Com'è e come potrebbe essere, Soveria Mannelli,
Rubbettino); “Tre idee per un'Italia civile, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Credere
dopo la filosofia del secolo XX, Roma, Armando); “Didattica della storia:
epistemologia contemporanea, Roma, Armando, Karl Popper, Soveria Mannelli,
Rubbettino); “L'agonia dei partiti politici, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Epistemologia
e didattica delle scienze, Roma, Armando); “La medicina basata sulle evidenze,
Edizioni Memoria); “La Vienna di Popper, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Quale
ragione?, Milano, Cortina); “Teoria unificata del metodo, UTET); “Cattolicesimo,
Liberalismo, Globalizzazione, Soveria Mannelli, Rubbettino, Karl Popper. Protagonista del secolo XX,
Soveria Mannelli, Rubbettino); “Cristiano perché relativista, relativista
perché cristiano. Per un razionalismo della contingenza, Soveria Mannelli,
Rubbettino); “Epistemologia, clinica medica e la "questione" delle
medicine "eretiche", Soveria Mannelli, Rubbettino); “Principi
liberali, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Idee fuori dal coro, Roma, Di Renzo);
“Ragioni della razionalità [ 1], Soveria Mannelli, Rubbettino); “Cattolici a
difesa del mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Come leggere Kierkegaard,
Milano, Bompiani); “Come leggere Pascal, Milano, Bompiani, Credere. Perché la
fede non può essere messa all'asta, Roma, Armando); “Epistemologia, ermeneutica
e scienze sociali, Roma, Luiss University Press, Introduzione alla metodologia
della ricerca, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Prefazione a Joseph Agassi, La
filosofia e l'individuo, Roma, Di Renzo); “Ragioni della razionalità [2],
Soveria Mannelli, Rubbettino); Relativismo, nichilismo, individualismo.
Fisiologia o patologia dell'Europa?, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Teorie
della razionalità e scienze sociali, Roma, Luiss University Press); “L'ermeneutica
è scienza?, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Liberali e solidali. La tradizione
del liberalismo cattolico, Soveria Mannelli, Rubbettino); “La «via aurea» del
cattolicesimo liberale, Soveria Mannelli, Rubbettino); “La società aperta» di
Karl Popper, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Von Hayek visto da Dario Antiseri,
Roma, Luiss University Press); “Dario Antiseri e Gianni Vattimo. Ragione
filosofica e fede religiosa nell'era postmoderna, Soveria Mannelli, Rubbettino);
“Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, Milano, Bompiani); “Dialogo
sulla diagnosi. Un filosofo e un medico a confronto, Roma, Armando); “L'attualità
del pensiero francescano. Risposte dal passato a domande del presente, Soveria
Mannelli, Rubbettino); “In cammino attraverso le parole, Roma, Luiss University
Press); “Contro Rothbard. Elogio dell'ermeneutica, Soveria Mannelli, Rubbettino);
“Liberali d'Italia, Soveria Mannelli, Rubbettino, Note
Questioni disputate, su chiesa.espresso.repubblica. Marx, un falso profeta sconfitto dalla
storia, su lanuovabq. Contro Popper,
Bruno Lai, Armando Editore, Vedi L'impegno dei cattolici in politica si misura
sui valori non negoziabili Archiviato il 21 gennaio in . di Assuntina Morresi, l'Occidentale, 12
giugno . Vedi Questioni disputate. Un
filosofo cattolico fa l'apologia del relativismo di Sandro Magister,
chiesa.espressoonline, 3 novembre 2005.
Vedi Il relativismo inevitabile? Risposta a Dario Antiseri, Il blog di
Fabrizio Falconi, 1º gennaio . Vedi La
falsa "laicità" che piace al Corriere Archiviato il 30 aprile in . di Alessandro Litta Modignani,
Fondazione critica liberale, 29 maggio .
Giuseppe Franco, Per una biografia intellettuale. In dialogo con Dario
Antiseri, in Giuseppe Franco , Sentieri aperti della ragione. Verità, metodo,
scienza. Scritti in onore di Dario Antiseri nel suo 70º compleanno, Pensa
Editore, Lecce , 23–43. Relativismo. Citazionio su Dario
Antiseri Sito ufficiale, su
docenti.luiss. Dario Antiseri, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dario Antiseri, su BeWeb, Conferenza
Episcopale Italiana. Opere di Dario Antiseri, .
Registrazioni di Dario Antiseri, su RadioRadicale, Radio Radicale. Tocqueville-Acton Centro Studi e Ricerche, su
tocqueville-acton.org. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del
XXI secoloInsegnanti italiani del XX secoloInsegnanti italiani Professore1940 9
gennaio FolignoProfessori della SapienzaRoma. In un saggio in
"Roma", Antiseri studia e spiega 'Se e perché studiare ancora il
mondo romano.' Non posso qui ripetere tutte le argomentazioni, cui rimando
volentieri, ma il succo del discorso sta in questi due punti. Primo. Niente
avviene al di fuori di una tradizione culturale. Le stesse rivoluzioni sono
tali rispetto a una determinata linea di svolgimento, che ne costituisce il
presupposto; perciò i grandi rivoluzionari sono stati tutti buoni conoscitori
del passato. Secondo. La nostra tradizione culturale italiana è quella latina.
Non c’è possibilità di auto-identificazione e di innovazione se la si ignora.
Quindi lo studio di quell’ antico è una condizione di fatto della nostra
civiltà italiana. Se ci fermassimo al primo punto, dovremmo considerare di buon
auspicio per le nostre sorti la ripresa, che si sta verificando, di interesse
per il passato, da quello immediato e locale al più lontano nel tempo e nello
spazio. Visto più da vicino, questo interesse non collima col secondo punto.
Non solo questo passato italiano è romano, ma è selettivo. Accomuna
l’archeologia industriale ai graffiti preistorici, la cultura materiale e i
valori. La selettività di per sé contraddice al *momento* romano *antico*
correttamente inteso. Anzi gli toglie la staticità del *classico*, cioè del
modello unico, esemplare perfetto e irripetibile (quindi fuori della storia) e
lo ricolloca nella dinamica dell’evoluzione umana, lega la unica Roma
all'Italia d'oggi. Questa elettività diventa filosofica, quando considera il
romano *antico* -- in sue fasi monarchica, repubblicana ed imperiale -- un
momento come un altro, senza speciali incidenze sulla storia. Peggio, quando si
configura in qualche modo come una ri-edizione della tesi della priorità
vetero-italica, palaeo-italica, o archaeo-italica, sulla civiltà classica.
Peggio ancora, se pre-dilige il *passato* eroico dell'Omero romano, Virgilio,
quale che sia come tale, come un tutto indifferenziato, solo perché diverso. Si
rischia di tornare così alla cultura dei sassi, che Leopardi rimprovera ai
romani del suo tempo (lettera al de Sinner, cioè all’antiquaria di
settecentesca memoria (cioè senza storia e senza lingua). Se nell’interesse
verso *il romano antico* non ha per noi un posto preminente i tre *momenti* del
romano antico -- regno, repubblica, principato -- questo è segno di perdita di
storicità vichiana, gentiliana, o croceana, di oscuramento di valori, di
restringimento di orizzonti. Quel momento del romano antinco non è importante
solo perché ha aperto vie, costruito ponti, tracciato città, su cui ancora
insistiamo, ma perché ha dato un impulso decisivo a un complesso filosofico, di
idee, mentalità, istituzioni, che costituiscono ancora i nostri parametri
abituali e la nostra cultura di italiani. Gli altri momenti forti, da cui si
può volta a volta, non senza ragione, far partire la nostra riflessione
storica, il rinascimento toscano, l’Unità d’Italia mazziniana, si sono
misurati con questa tradizione romana antica, l’hanno arricchita o combattuta,
mai ignorata. Se riteniamo naturale ancor oggi rifarci alla nostra genesi
civile romana, dobbiamo subito porci il problema se si debbano studiare Roma e
se non sia riduttivo assumere come punto di partenza *solo Roma*, cioè studiare
la civiltà *latina*, del Lazio. Non si tratta di rinnovare la vecchia questione
dell’originalità romana, che una volta costituiva un passaggio obbligato per
ogni storia della letteratura latina. Quel problema rispondeva a diverse
contingenze storiche e teoriche. Il suo ambiente culturale era Roma, dove il nazionalismo
rispecchiava se stesso nella superiorità di Roma rispetto ai barbari. Il
sostegno teorico era offerto dal mito del classicismo romano, cioè del modello
a-storico e perfetto, attingibile solo dagli eletti. Nelle ultime fasi della
sua storia, la tesi trova forti resistenze in Italia per la convergenza di due
motivazioni diverse. Da una parte il nostro nazionalismo, culminato nella
grande guerra, dall’altro la nuova estetica simbolista di d'Annunzio, che
insegna a fare filosofia in se stessa. Oggi quei condizionamenti storici e quei
presupposti teorici sembrano molto lontani. Del resto, a parte le punte
polemiche, già la ricerca aveva portato a una revisione di fatto di questi
atteggiamenti. La contrapposizione poi di una *romanolatria* è più pensabile
come ideologia politica. Il mondo romani costituisce una unità, ma non tanto in
senso sincronico, quanto in senso diacronico. Roma si dispone in successione,
in una unità dinamica. Roma è fatto antico e non solo a livello dotto. Non è un
fenomeno solo neoterico, ma anche delle origini e della fine. Roma accentua la
tradizione per raccoglierne l’eredità e stabilire così il suo diritto
successorio alla leadership mondiale. E’ corretto che i moderni pongano il
problema in modo non diverso dagli antichi romani. Di qui discende anche la
legittimazione a fare di Roma un possibile punto di partenza della riflessione
storica. Se la civiltà romana è tradizionale, nell’atto
stesso di arricchire, trasformar, e diffonder una tradizione, studiare
Roma è universale. Rimane ai romani antichi il merito di molte creazioni,
e di averle trasmesse al futuro. Il concetto dell’uomo e della comunità,
la storiografia, la scuola, la retorica rimangono quelle ereditate da Roma.
L’asse culturale si conserva intatto. Si può senza difficoltà riconoscere che
l’eredità romana, dal diritto alla lingua, non ha finito di operare. Si pensi
per esempio alla lingua italiana, che, pur diversa com’è ormai dalla latina,
conserva di quella i caratteri costitutivi e le energie generative. La stessa
evoluzione del 'volgare' si è svolta e si sta svolgendo secondo modalità sempre
latine. Un fatto significativo rimane il latino medioevale, che non è più il
latino classico ed è una lingua di dottrina, però è una lingua viva, perché
usata nella comunicazione reale. La sua peculiarità consiste nel non dipendere
da matrice italica nazionalista. Usano il latino medioevale le genti che si
riconoscono in un’unica cultura. Così quella lingua diventa propria anche dei
non-neolatini e coopera alla formazione di una nuova unità, l’Europa, ben
diversa, anche geograficamente, dall’Impero. L’Europa è una formazione
post-romana, con materiali latini. Questa è un’importante ragione oggi per lo
studio anche del solo latino. Quasi come uno slogan si potrebbe dire che Roma
ha generato l’Occidente (una civiltà), l'Italia, e l’Europa (una storia).
Entrambe le prospettive sono sprovincializzanti. Non c’è niente di più
istruttivo che consultare i volumi dell’Année Philologique, che non solo si
fanno di anno in anno più grossi, ma vedono allargare la partecipazione agli
studi classici a paesi sempre più lontani e che sembrerebbero estranei a questa
tradizione: dagli stati dell’Est alle nazioni in via di sviluppo. Segno che
questa cultura non è neanche solo nazionale o europea o occidentale, ma ci
appartiene come uomini senza esaurirci. Questi concetti sono generalmente
ammessi e non hanno perciò bisogno di particolare documentazione. Ne discendono
però alcune conseguenze sui modi corretti dell’atteggiamento odierno verso il
mondo romano. Anzitutto si rifiuta l’ideologizzazione, specie politica. È
invece oggetto di studio questo atteggiamento nel passato, specie recente
(Fascismo, Nazismo: cfr. specialmente la rivista Quaderni di storia). Fa ancora
ideologia (postuma e alla rovescia) chi osserva da una parte sola quest’uso
politico del classico in passato (in genere considerandolo al servizio del
potere o della classe dominante). In realtà l’ideologia del classicismo è
sempre reversibile, fornisce insieme Bruto e Cesare, come è avvenuto a cavallo
fra Sette e Ottocento. Ma in genere le ricerche hanno un respiro più ampio,
volte come sono a indagare la presenza degli studi classici filosofici nella
cultura moderna, quindi la partecipazione degli antichisti latinista e la loro
relazione con gli orientamenti e movimenti coevi: è molto di più non solo della
ideologia, ma anche della diretta influenza dei classici sui moderni . Rifiuto
dell’ideologia e studio della presenza dei classici e del classicismo nel mondo
moderno presuppongono senso vivo della storicità, ossia della continuità
antico-moderna, che vuol dire due cose insieme: un legame che ci unisce agli
antichi e l’alterità che, senza contraddirlo, ci distanzia. Di qui il rifiuto
anche dell’esemplarità e del presentismo. L’esemplarità fa del romano un
modello perfetto, imitabile ma irraggiungibile; questa concezione, oggi
improponibile, in altri tempi ha avuto una sua funzione attivizzante (come
nell’Umanesimo). Le conseguenze del mutato atteggiamento sono evidenti. Non si
definisce più un’età aurea, non si parla più di declino, ma di trapasso.
Decadenza romana o tarda antichità? intitolava H. Marrou un suo piccolo libro
(ed. it. Jaca Book, Milano). Il tardo antico richiama molta attenzione. I
convegni comensi, indetti in occasione del XIX centenario della morte di Plinio
il Vecchio (e oggi disponibili negli Atti in tre volumi), si sono spinti molto
oltre l’età dello scrittore celebrato, studiando la tecnica, la città,
l’economia (vedi i titoli: Plinio il Vecchio sotto il profilo storico e
letterario: Tecnologia, economia e società nel mondo romano; La Città antica
come fatto di cultura). Rinunciando infatti all’ideale della esemplarità, il
concetto di «classico» (nel senso di romano) esce dalla sola categoria del
bello e del perfetto una volta per tutte e si arricchisce di valori e di
problemi esistenziali. Si supera anche l’antinomia classico = forza contro
debolezza, anacronisticamente riproposto dalla edizione italiana di un libro
composto da W. Otto mezzo secolo prima (Spirito classico, La Nuova Italia,
Firenze). Si esplorano province nuove (i papiri di Ercolano e l’epicureismo
campano). Qualche volta si registrano scoperte notevoli (dopo Menandro,
Callimaco, Cornelio Gallo, Rutilio Namaziano, la Seconda Centuria del Poliziano
ecc.). Si ricuperano, nella loro umanità e nel loro valore documentario, autori
e movimenti minori: il Favorino di Arelate di A. Barigazzi (Le Monnier,
Firenze), le Questioni neoteriche (che comprendono i novelli) di E. Castorina
(La Nuova Italia, Firenze). Anche nella filologia nostrana nasce l’interesse
verso i rapporti fra Roma e la cultura d'Etruria (G. Scarpat, Il pensiero
religioso di Seneca e l’ambiente d'Etruria, Paideia, Brescia nuova ed. F.
Arnaldi, La crisi morale dell’età argentea, « Vichiana ». Estesa e
polidisciplinare è la bibliografia sui rapporti tra Roma ed Etruria. Sono meno
frequenti le monografie, ma non mancano le sintesi come quella celebre di P.
Grimal, Le siècle des Scipions. Rome au temps des guerres puniques, Aubier,
Paris -- Paideia, Brescia). Intensa è l’attività traduttoria dell’editoria
italiana: va da A. D. Leeman, Orationis ratio. Teoria e pratica stilistica
degli oratori storici e filosofi latini. Il Mulino, Bologna a R. Syme, Tacito
(che è un grande affresco dell’età tacitiana), Paideia, Brescia di P Boyancé,
Lucrezio e l’epicureismo, Paideia, Brescia, ancora a R. Syme, La rivoluzione
romana, Einaudi Torino, da M. Pohlenz, La stoa, La Nuova Italia, Firenze, a W.
Jaeger. Paideia, La Nuova ltalia, Firenze, a H.I. Marrou, Storia dell’educazione
nell’antichità, Studium Roma. Ho citato un po’ a caso fra i titoli più famosi.
La stessa ampiezza di questa produzione, con la eterogeneità dei suoi titoli,
testimonia la lontananza attuale da un ideale ristretto di esemplarità. Di
recente si è verificato, invece, un breve successo dell’ atteggiamento
antitetico, cioè del presentismo, più rilevabile a livello di letteratura
scolastica che scientifica, forse nel tentativo di rendere accettabile l’antico
a un determinato pubblico, facendone vedere l’analogia col moderno. Il
procedimento però è rischioso. Proiettando sull’antico la luce del moderno,
tende a ritrovare in quello un doppio del presente, quindi ne rende inutile lo
studio e impedisce di vedere i legami storici, cioè le fondamenta lontane del
moderno, che legano e insieme differenziano, distinguendo nella continuità. Già
il Rostagni avvertiva questo pericolo, riflettendo sul suo stesso lavoro
(Aristotele e l’aristotelismo nella storia dell’estetica antica, « Studi ital.
di filologia classica » ora in Scritti minori I, Aesthetica, Bottega d’Erasmo,
Torino, spec. p. 235): eppure è noto quanto egli fosse guidato da un certo
crocianesimo, andando alla ricerca di un’estetica dell’intuizione presso i
classici. Il pericolo oggi si ripresenta leggendo i classici alla luce di altre
ideologie attualizzanti. Legittimo è invece studiare nell’antico temi e
problemi, che sentiamo vivi, ma sempre con coscienza storica, ossia proprio per
scoprirne la formazione lontana: pace- . libertà, progresso, lavoro, scienza .
L’atteggiamento corretto sarà dunque di porsi davanti all’antico senza cessare
di essere moderni e (poiché quell’antico è greco-romano, cioè la nostra origine
culturale) senza negare il debito e senza cancellare l’intervallo : dunque
alterità più legame storico. Questo comporta anche l’uso di strumenti
ermeneutici nuovi e la modernizzazione dei tradizionali. Di alcuni impieghi di
tecniche recenti danno qui sotto saggio i contributi di V. Cremona e di G.
Proverbio: sono appena esempi, cui altro sarebbe da aggiungere. Così, molto
vivace è oggi la narratologia; e è il Convegno internazionale «Letterature
classiche e narratologia» a cura dell’Istituto di Filologia Latina
dell’Università di Perugia.. Gli strumenti tradizionali a loro volta hanno
compiuto i progressi di tutte le tecniche; per la filologia in senso stretto
danno informazioni il saggio e il materiale approntati da L. Castagna. Mezzi
vecchi e nuovi si intrecciano per conseguire risultati più fini: A. Grillo ha
messo la narratologia a servizio della critica testuale per risolvere alcuni
problemi di lezione dell’Ilias Latina in Critica del testo. Imitazione e
narratologia. Ricerche sull’Ilias latina e la tradizione epica classica,
Bibliot. del Saggiatore, Le Monnier, Firenze. E’ facile constatare la
differenza da una meccanica applicazione di criteri lachmanniani (almeno come
vengono volgarmente intesi). E si veda quale cammino si è percorso dalla
ricerca grezza e materiale delle fonti (la famigerata critica dei «fontanieri»)
alla più sofisticata tecnica allusiva e alla memoria poetica. A loro volta
quelle che un tempo venivano chiamate discipline ausiliarie (archeologia,
topografia, epigrafia ecc.) non solo si sono giovate dei progressi delle
tecniche applicate, ma hanno esteso il loro campo ben al di là del mondo
greco-romano, abbisognando quindi per competenza di un discorso riservato (come
del resto la storia generale, intrecciata al diritto e all’economia, oltre che
a queste stesse discipline e alla cultura materiale, nella prospettiva di una storiografia
totale). Non si possono infine dimenticare alcuni graditi incontri o
addirittura ritorni. La linguistica, sorta fuori e in opposizione alle lingue
classiche, è salita man mano dalla frase al testo e ha ricuperato concetti
della grammatica nata dal greco e dal latino. La logica e la critica letteraria
hanno riscoperto la retorica classica senza la mediazione della filologia
greco-latina, incontrandosi e quasi confondendosi con questo genere di studi.
Della retorica, affermatasi a Roma come tecnica politica e poi diventata
cultura, paideia e letteratura, si ripete oggi mutato nomine la dicotomia, da
una parte nei mass media e nella pubblicità, dall’altra nella critica
letteraria. Gli antichisti cooperano da parte loro a questo riavvicinamento:
gli Elementi di retorica di H. Lausberg, ed. it. Il Mulino. Bologna, si
presentano come un moderno manuale di linguistica; quella di E. Cizek,
Structures et idéologie dans «Les Vies des Douze Césars» de Suétone, Editura
Academiei e Les Belles Lettres, Bucuresti Paris è insieme un’analisi
strutturalistica e retorica (studia la sovrasignificazione fornita, al di là
dei concetti, dalla loro distribuzione). In questa prospettiva molte analisi
letterarie su testi moderni rivelano una straordinaria possibilità di impiego
di strumenti antichi.
Dario
Antiseri. Antiseri. Keywords: antiseri — implicatura solidale — il
concetto di solidale -- liberali d’italia – il principio del liberalismo – la
mistica di Gentile e il liberalismo di Croce — Grice — metaphysics in Pears 3rd
programme — Grice p.331 — ‘violazione consapevole della massima’ — flouting the
maxim — la scuola di Oxford di filosofia analitica del linguaggio ordinario —
Austin, Grice, … gruppo di giocco – Grice sa benissimo che la massima e
violabile intenzionalmente e comunicativamente — Fidanza — il mistico — la
logica di un mistico -- Roma – la relevanza della filosofia del mondo romano
antico -- — La mistica fascisdta di Gentile —Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Antiseri” – The Swimming-Pool Library.
ANTONINI Grice:
“I like Antonini, or Cinesio – you see, one problem of these Italians – but cf.
Occam – by sticking to the first-name is that a researcher in the longitudinal
history of philosophy has to check references to Aegeius viterbensis and
Aegidius Cinesio! It was only recently that he was found to be one of the
Antoninis! His place in the longitudinal history of philosophy is that famous
pendulum between Plato and Aristotle – so after Aquinas’s Aristotle, Egidio –
an almost Tuscan man! – finds Plato more pleasing – especially his philosophy
of love in the symposium, the references to Ganymede as representing ‘amore,’
and he has the cheek to display all this hardly scholastic erudition (more of a
renaissance thing) in his commentary of Lombardo’s sentences! Delightful – my
favourite is his reference to Ganymede, for here we have the treatment of a
subject (Zeus) of another subject as an object – and that’s just only one
reading of Zeus’s intention --.” Grice:
“In any case, the sacrificial status of Ganymede is recognised in the Platonic
tradition – as the manipulative use of a subject by another subject who is
subjected as an object, rather --.” Antonini: Essential Italian philosopher.
Antonini (n. Viterbo), filosofo. Egidio da Viterbo «Sono gli uomini che devono essere
trasformati dalla religione, non la religione dagli uomini» (Egidio da
Viterbo, prolusione al Quinto Concilio Lateranense) Egidio Antonini da Viterbo,
O.E.S.A. cardinale di Santa Romana Chiesa Egidio 2Egidio da Viterbo, affresco
XVII secolo (part.), Sala Regia, Palazzo dei Priori, Viterbo Stemma egidio
Incarichi ricopertiPriore generale dell'Ordine di Sant'Agostino, Cardinale
presbitero di San Bartolomeo all'Isola (1517) Cardinale presbitero di San
Matteo in Merulana (1517-1530) Vescovo di Viterbo e Tuscania (1523-1532)
Patriarca titolare di Costantinopoli (1524-1530) Cardinale presbitero di San
Marcello (1530-1532) Amministratore apostolico di Zara (1530-1532)
Amministratore apostolico di Lanciano (1532) Nato1469 a Viterbo
Ordinato presbiteroin data sconosciuta Nominato vescovo2 dicembre 1523 da papa
Clemente VII Consacrato vescovo10 gennaio 1524 dall'arcivescovo Gabriele
Mascioli Foschi, O.E.S.A. Elevato patriarca8 agosto 1524 da papa Clemente VII
Creato cardinale1º luglio 1517 da papa Leone X Deceduto12 novembre 1532 a
Roma Manuale Egidio Antonini da Viterbo, o semplicemente Egidio da
Viterbo (Viterbo), filosofo. Apparteneva all'Ordine degli Agostiniani. Nacque
a Viterbo, da Lorenzo Antonini e Maria del Testa, in un giorno imprecisato tra
l'estate e l'autunno del 1469Pur essendo i genitori di origini modeste, fecero
compiere ad Egidio studi approfonditi presso il convento agostiniano viterbese
della Santissima Trinità. Forse influenzato dalla predicazione di Mariano da
Genazzano, presente a Viterbo nel 1485, tre anni dopo, nel 1488, all'éta di
diciotto anni, entrò nell'Ordine degli Agostiniani, presso il medesimo convento
per esservi ordinato sacerdote. Sotto il priorato di Giovanni Parentezza,
studiò filosofia, teologia e lingue antiche (greco, ebraico, arabo, aramaico,
persiano) e si perfezionò, cominciando anche ad insegnare, presso le case del
suo ordine ad Amelia, Padova, Firenze, Roma, Viterbo ed in Istria. A Padova
(1490-1493) incontrò più volte Pico della Mirandola, con il quale discusse di
astrologia e cabalismo, ma, soprattutto, in quella città curò nel 1493 l'editio
princeps di tre commenti aristotelici di Egidio Romano, con notazioni contrarie
ai peripatetici e ad Averroè. Alcuni anni più tardi conobbe a Firenze
l'umanista Marsilio Ficino, di cui fu allievo e successivamente amico, e con il
quale si perfezionò notevolmente nello studio delle dottrine neoplatoniche,
specialmente in rapporto alla loro assoluta compatibilità con i principi del
Cristianesimo. Nella primavera del 1497 il cardinale Riario, protettore degli
Agostiniani, che aveva per lui grande stima, lo richiamò a Roma dove, dopo una
duplice e complessa prova, conseguì il magisterium in teologia. Oratore
di straordinaria efficacia, particolarmente apprezzato in quegli anni da papa
Alessandro VI, quindi dai suoi successori, paragonato da taluni a Demostene, fu
in contatto con i maggiori intellettuali del tempo; oltre alla fitta
corrispondenza con Marsilio Ficino, va ricordata la frequentazione che ebbe a
Napoli con Giovanni Pontano (che gli dedicò il dialogo Ægidius) e con gli
intellettuali della sua Accademia. Nel giugno 1506 papa Giulio II gli
affidò la guida dell'Ordine agostiniano come Vicario apostolico; l'anno successivo
(1507) il capitolo generale dell'Ordine lo confermò alla sua guida come Priore
Generale, incarico che mantenne per molti anni, durante i quali riformò
profondamente l'Ordine stesso, riportandolo agli antichi fasti con il pieno
recupero della regola di S.Agostino. Durante quegli anni fu uno dei più stretti
collaboratori di Giulio II, che accompagnò nella sua missione contro Bologna e
dal quale fu inviato come nunzio apostolico a Venezia e Napoli per ottenere
l'adesione di quegli stati alla crociata progettata dal pontefice: venne anche
inviato nella città ribelle di Perugia e ad Urbino. Il 3 maggio 1512 il papa
gli conferì il prestigioso incarico di tenere l'orazione inaugurale del Quinto
Concilio Lateranense: Egidio pronunciò così una celebre, accorata allocuzione
in cui parlò con determinata onestà dei mali della Chiesa, suscitando viva
emozione nei presenti, molti dei quali lodarono lo stampo ciceroniano dell'orazione.
Morto Giulio II, anche il suo successore Leone Xappartenente alla potente famiglia
fiorentina dei Medicicontinuò la stretta collaborazione con Egidio, che impiegò
in importanti missioni diplomatiche, come quella del 1516 in Germania, quando
ottenne una difficile pacificazione tra Massimiliano I e la Repubblica di
Venezia. Il papa innalzò Egidio alla dignità cardinalizia nel concistoro del 1º
luglio 1517 creandolo cardinale prete con titolo di San Bartolomeo all'Isola;
quasi subito il porporato viterbese optò per il titolo di San Matteo in
Merulana, antica chiesa agostiniana; molti anni più tardi, poco prima di
morire, avrebbe infine optato per il titolo di San Marcello. Nel 1518 Leone X
lo nominò cardinale protettore dell'Ordine degli Eremitani di Sant'Agostino e,
nello stesso anno, lo inviò come legato pontificio in Spagna per una complessa
missione nella quale avrebbe dovuto impegnare Carlo V alla crociata contro i
turchi. In quel periodo fu anche governatore di diverse città dello Stato
Pontificio. Occorre altresì ricordare come a meno di quattro mesi dalla sua
nomina a cardinale e quando Egidio era ancora Priore Generale degli
Agostiniani, un monaco agostiniano tedesco, Martin Lutero, affisse sulle porte
della Schlosskirche di Wittenberg le notissime 95 tesi che avrebbero dato
inizio alla riforma protestante. Dopo la scomparsa di Leone X ed il breve
pontificato di Adriano VI, il 18 novembre 1523 fu eletto papa, con l'appoggio
di Egidio, un altro Medici, Clemente VII, che, pochi giorni dopo l'elezione, il
2 dicembre, conferì al cardinale viterbese la nomina a vescovo proprio della diocesi
di Viterbo: l'anno successivo Egidio venne nominato patriarca latino di
Costantinopoli e amministratore apostolico dell'arcidiocesi di Zara. Purtroppo
in quegli anni le indecisioni e gli errori politici di Clemente VII crearono
problemi gravissimi al governo della Chiesa: il papa finì per schierarsi con i
francesi, ma prima la sconfitta di Francesco I a Pavia, poi le incertezze della
lega di Cognac aprirono le porte alla discesa in Italia di Carlo V con i suoi
lanzichenecchi, culminata nel terribile Sacco di Roma (1527), durante il quale
venne distrutta -tra l'altro- tutta la ricchissima biblioteca di Egidio nel
Convento di Sant'Agostino. Il porporato si trovava allora nelle Marche e, per
soccorrere il papa, assediato in Castel Sant'Angelo, organizzò -impiegando
anche il proprio denaro- una spedizione armata, che non ebbe però fortuna per i
molti ostacoli frapposti dai signori locali. Dopo quei dolorosi momenti la
salute di Egidio andò peggiorando: questo fatto non gli impedì, peraltro, di
tenere, durante il concistoro pubblico una famosa ed appassionata orazione
sulla necessità di riformare la Chiesa dopo lo scisma luterano. Clemente VII
dichiarò la sua disponibilità, ma sarà solo il suo successore, Paolo III,
conterraneo di Egidio, a convocare l'importante Concilio di Trento, che
segnerà, con la controriforma, la prima importante reazione della Chiesa al
protestantesimo. Poco prima di morire il cardinale fu nominato arcivescovo di
Lanciano; amministrò la diocesi lancianese a titolo di commenda per sette mesi,
fino alla morte. Morì a Roma il 12 novembre 1532 e venne sepolto nella
chiesa di Sant'Agostino, dove lo ricorda una semplicissima lapide sul pavimento
della navata centrale, a cornu evangelii rispetto all'altar maggiore.
Filosofia, Ebraismo, Cabala Egidio da Viterbopartic. di affresco XVIII
secolo, Sala del Cenacolo, Convento Santissima Trinità, Viterbo Egidio deve
certamente essere considerato uno dei maggiori filosofi di quei secoli. Il suo
primo impegno importante fu quando, studente a Padova, curò nel 1493 la
pubblicazione con commento di tre opere del filosofo e vescovo agostiniano
Egidio Romano, vissuto tra il XIII ed il XIV secolo: elaborò così un'autentica
avversione nei confronti della filosofia di Aristotele e dell'averroismo,
contro i quali ritenne che l'unico possibile antidoto fosse, specie dopo
l'incontro con Marsilio Ficino ed in perfetta armonia con Sant'Agostino, il
neoplatonismo, inteso come «pia philosophia», cioè nella sua piena
compatibilità con i valori cristiani. Uomo dottissimo, volle leggere tutte le
opere che studiava nelle lingue originali in cui erano state scritte, per
meglio comprenderne il vero significato: acquisì in tal modo una straordinaria
conoscenza, oltre che del latino e del greco antico di cui aveva padronanza assoluta,
dell'aramaico, per il Talmud e varie parti della Bibbia, dell'arabo, per il
Corano e le opere di Averroè, e dell'ebraico, per la Torah. Ebbe una fitta
corrispondenza con l'umanista tedesco Johannes Reuchlin, finissimo conoscitore
dell'ebraismo, con il quale si intrattenne a lungo sia su temi relativi
all'Antico Testamento sia sulla cabala (in ebraico Qaballáh), argomento da lui
già affrontato con Pico della Mirandola, che trattava dei misteriosi
simbolismi, parte dei quali nascosti nei numeri e nelle lettere stesse
dell'alfabeto ebraico, che potevano avvicinare l'uomo a Dio. Le problematiche
della letteratura ebraica e della cabala occuparono gran parte dei suoi ultimi
anni di vita, quando tentò ripetutamente di ricondurre in ambito cristiano tutte
le altre culture, dedicandosi in particolare ad approfonditi studi e ricerche
sullo Zohar. Lo scrittore e l'oratore Raffaello:La disputa del
Sacramento (affresco, Roma, Stanze Vaticane) Egidio da Viterbo in
preghiera, particolare di pala d'altare, chiesa Santissima Trinità, Viterbo
Rimane ben poco della cospicua produzione letteraria di Egidio, sia a causa
della perdita della sua biblioteca durante il Sacco di Roma, sia perché lui
stesso, per modestia, non volle dare alle stampe molte delle sue opere. Tratta
quasi tutti i campi della filosofia alla letteratura, dall'astrologia alla
storia, dalla poesia alla geografia, dalla teologia all'arte: a quest'ultimo
proposito si ritiene che il programma iconografico per gli affreschi di
Raffaello della Disputa del Sacramento e della Scuola di Atene nella Stanza
della Segnatura sia stato largamente ispirato dalla sua opera, con la probabile
mediazione di Tommaso Fedra Inghirami. Da notare come Antonini preferisce di
solito ritirarsi in luoghi tranquilli, come l'Eremo di Lecceto, presso Siena, o
la sua città natale, Viterbo, o, ancora più spesso, due rifugi nei dintorni di
quest'ultima: un Convento nell'Isola Martana, sul Lago di Bolsena, ed un Eremo
nella selva del Monte Cimino. Meritano comunque menzione tre ecloghe latine di
stampo virgiliano (Paramellus et Aegon, -- Paramello e Egone -- in
Resurrectione Domini – la risurrezione del Signore -- e De Ortu Domini – L’orto
di Dio --, sei madrigali dedicati alla famiglia Colonna ed una favola silvestre dello stesso periodo (“Cyminia”,
in volgare italiano viterbese. La a sua maggiore opera filosofica è costituita
dai “Commentaria sententiarum ad mentem et animum Platonis” (I comentari dei
sentenze sull’anima di Platone”, brevemente detta Sententiae ad mentem
Platonis, che presenta l’ostilità all'aristotelismo e la necessità di
sostituirlo, l'anima e la dignità umana; “Historia XX saeculorum” racconta le
vicende di Alessandro VI a Leone X, attinsero a piene mani vari storici, da
Gregorovius a Pastor, anche se il loro giudizio complessivo sulla Historia è
perplesso, se non addirittura negativo. Tra altre opere meritano anche menzione
il “Libellus de litteris sanctis”, sul significato recondito delle lettere
dell'alfabeto romano, e la Scechina che guarda in la cabala. Il campo nel
quale Egidio riuscì comunque a dare il meglio è quello della retorica o
dialettica colloquenza filosofica, divenendo uno dei migliori oratori di quei
decenni, forse il migliore in assoluto, con giudizi sempre entusiastici da
parte di tutti quelli che ebbero modo di ascoltarlo. In realtà egli era
veramente dotato di un'eloquenza drammaticamente coinvolgente, capace di
suscitare grandi emozioni negli uditori, sia che fossero ricchi principi, sia
che si trattasse di poveri popolani; lo aiutava probabilmente lo stesso aspetto
fisico, ascetico, con il viso pallido e scavato e la barba fluente. Tra le
orazioni conservate vanno ricordate: quella nel certamen che lo vide trionfare
su tre filosofi peripatetici e conseguire il magisterium. Altre opere: “De aurea
aetate” (o De Ecclesiae incremento), tenuta in San Pietro su incarico di Giulio
II per onorare re Manuele I del Portogallo che aveva scoperto nuove terre e
riportato una grande vittoria navale, lavoro dottissimo e ricco di riferimenti
cabalistici; l'orazione delConcilio Lateranensegrande onore concessogli dal
papache provocò indicibile emozione negli astanti e fece definire l'agostiniano
viterbese il nuovo Cicerone; è in quest'ultima orazione la celebre sentenza di
Egidio. “Sono gli uomini che devono essere trasformati dalla religione, non la
religione dagli uomini”. Va infine ricordata l'orazione tenuta in occasione di
un concistoro, sulla necessità di riformare la Chiesa, che viene da molti
considerata come il vero preludio al celebre Concilio di Trento, convocato da
Paolo III. Genealogia episcopale Arcivescovo Gabriele Mascioli Foschi,
O.E.S.A. Cardinale Egidio Antonini da Viterbo, O.E.S.A. Note Notizie molto precise sul suo luogo di
nascita e sul suo esatto cognome sono reperibili nel lavoro di Giuseppe
Signorelli, Il cardinale Egidio da Viterbo etc.,Libreria Editrice Fiorentina,
Firenze, 1929. L'opera dello storico viterbese, con una ricchissima
documentazione bibliografica, costituisce un indispensabile fondamento
monografico per lo studio di questo porporato; in particolare Signorelli
precisa, con riferimento a numerosi manoscritti, perché debba essere ritenuta
Viterbo la città natale di Egidio ed in base a quali errori diversi storici
abbiano, sbagliando, ritenuto Canisio il suo cognome:il cognome esatto è
Antonini. Quanto sostenuto dal
Signorelli è pienamente confermato da G.Ernst,Egidio da Viterbo, in Dizionario
Biografico degli Italiani, Treccani, 1993, in quella che è probabilmente la più
completa monografia su Egidio reperibile on-line, con notevole . Pur essendo acclarato il cognome Antonini,
appare peraltro corretto chiamarlo semplicemente EGIDIO da VITERBO: Ægidius
Viterbiensis o Viterbii è il nome con cui viene indicato nella bolla papale di
nomina cardinalizia relativa al concistoro è il nome che compare nelle bolle da
lui sottoscritte ed è, infine, il semplice nome che compare sulla sua lapide
sepolcrale nella Chiesa di S. Agostino in Roma; sempre Egidio da Viterbo sono
intitolate le principali monografie a lui dedicate da Signorelli, Ernst, Massa,
O'Malley ecc.. Va infine ricordato come lo stesso Comune di Viterbo abbia
chiamato Via Egidio da Viterbo la strada a lui dedicata parecchi anni fa nel
centro storico cittadino e con la medesima intitolazione Egidio da Viterbo vi
siano altre istituzioni viterbesi.
L'epoca della nascita è indicata ancora dal Signorelli (op.cit.), che
cita vari documenti del periodo. Si veda
in proposito Lettera a Mannio Capenati, agosto 1504 citata in: Francis X.
Martin, Friar..., cit., Appendice III, pag. 346
De materia coeli; De intellectu possibili; Egidii Romani commentaria in
VIII libros Physicorum Aristotelis
Egidio non ricambiò mai la simpatia di papa Borgia, anzi il suo giudizio
sul pontificato di Alessandro VI fu terribile, con parole di inusitata durezza;
si veda Cesare Pinzi, Storia della Città di Viterbo,
IV,lib.XVI,pag.394,Viterbo, Agnesotti, 1913.
Lo dice espressamente il Signorelli, op. cit., capo II, pag 5. Per la precisione fino al 25 febbraio 1518,
giorno in cui depose l'incarico davanti al Capitolo generale dell'Ordine,
consegnandolo nelle mani dell'amico Gabriele Di Volta, nominato due giorni
prima con breve di Leone X proprio su proposta di Egidio; v. G. Signorelli, op.
cit., Capo VI, pag. 68. Lo sottolinea
bene Ernst (op.cit.). L'episodio che
vide Egidio alla testa di un esercito è ricordato in un intero capitolo (Da
Vescovo a Duce) nella monografia del Signorelli, op.cit., capo VIII. Papa Paolo III, era nato come Alessandro
Farnese nella cittadina di Canino, situata ad una trentina di chilometri da
Viterbo. La lapide, fatta collocare dal
Priore Generale Gabriele Veneto, reca la seguente iscrizione: D.O.M.AEGIDIO
VITERBIENSI CARDINALIGABRIEL VENETUS GENERALISMDXXXVI (v.S.Vismara,Una grande
figura religiosa del Rinascimento:Egidio da Viterbo su Biblioteca e società
in//bibliotecaviterbo/biblioteca-e-societa/index.php?fasc=12 ; il volumetto
contiene gli Atti di un interessante Convegno di studi su Egidio da Viterbo ,
nel anniversario della morte). Occorre notare come la lapide originale, praticamente
distrutta dal tempo, sia stata sostituita nel 1982 , a cura dell'Ist. Stor.
Agostiniano con una nuova lapide che riporta, integralmente, l'iscrizione. Il
background intellettuale e la relativa fonte egidiana dei due affreschi della
Stanza della Segnatura sono stati promossi dallo storico gesuita Pfeiffer
(Heinrich Pfeiffer, Die Predig des Egidio da Viterbo über das goldene Zeitalter
und die Stanza della Segnatura, in: J. A. Schmoll gen. Eisenwerth, Marcell
Restle, Herbert Weiermann , Festschrift Luitpold Dussler, Monaco-Berlino,
Deutscher Kunstverlag, Id., La Stanza della Segnatura sullo sfondo delle idee
di Egidio da Viterbo, Colloqui del Sodalizio, serie II, n°3, 1970-1972, pagg.
31-43; Id., Zur Ikonographie von Raffaels Disputa : Egidio da Viterbo und die
christlich-platonische Konzeption der Stanza della Segnatura, Roma, Università
Gregoriana Editrice) ripreso da Ernst, op.cit., e da G.Polo, Egidio da Viterbo
e Raffaello, in Biblioteca e Società, cit., pagg. 21-22. Il ruolo di Fedra
Inghirami quale mediatore tra Egidio e Raffaello è stato inizialmente
ipotizzato da Paul Künzle, Raffaels Denkmal für Fedra Inghirami auf dem letzen
Arazzo, in: Mélanges Eugène Tisserant,
VI, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, e si ritrova in:
Christiane L. Joost-Gaugier, Raphael's Stanza della Segnatura: Meaning and
Invention, Cambridge, Cambridge University Press, 2002. Per una sintesi si
veda: Ingrid D. Rowland, The Intellectual Background of the School of Athens:
Tracking Divine Wisdom in the Rome of Julius II, in: Marcia HallRaphael's
School of Athens, Cambridge, Cambridge University Press, Biblioteca apostolica vaticana, Ms Vat.lat.
6525 Il più autorevole di questi
manoscritti è certamente quello autografo esistente presso la Biblioteca Nazionale
di Napoli (Mss.lat.,IX,B,14). Tutti i
giudizi degli storici sono ben riportati dal Signorelli, Riprendendo il
Signorelli, descrive bene le sue grandi doti oratorie Sandro Vismara, Biblioteca
e società, ATTI del Convegno...,op.cit.,pag.11.
Proprio a questa orazione si sarebbe ispirato Raffaello per due
affreschi della Stanza della Segnatura, cioè la Disputa del Sacramento e la
Scuola di Atene (v.Pfeiffer e Polo, ocitt..)
S.Vismara,op.cit.. Il testo
latino recita letteralmente: Homines per sacra immutari fas est, non sacra per
homines. Egidio da Viterbo,
"Ecloghe", Jacopo Rubini , Sette Città, . Rafael Lazcano,
Episcopologio agustiniano. Agustiniana. Guadarrama (Madrid), Hubert Jedin,
Riforma Cattolica o Controriforma, Morcelliana, Brescia, Francis X. Martin, The
problem of Giles of Viterbo: a Historiographical Survey, "Augustiniana", Francis X. Martin, Friar, Reformer, and
Renaissance Scholar: Life and Work of Giles of Viterbo Villanova, Augustinian
Press, John W. O'Malley, Giles of Viterbo on Church and Reform: a Study on
Renaissance Thought, Leiden, Brill, 1968 Heinrich Pfeiffer, Le Sententiae ad
mentem Platonis e due prediche di Egidio da Viterbo, in: Marcello Fagiolo ,
Roma e l'antico nell'arte e nella cultura del Cinquecento, Roma, Istituto della
Enciclopedia italiana, Cesare Pinzi, Storia della Città di Viterbo, IV, Agnesotti, Viterbo, François Secret,
Notes sur Egidio da Viterbo, "Augustiniana", Giuseppe Signorelli, Il cardinale Egidio da
Viterbo agostiniano, umanista e riformatore, Libreria Editrice Fiorentina,
Firenze, Viterbo Ordine di Sant'Agostino Umanesimo Cabala ebraica Altri
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Egidio da Viterbo, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Egidio da
Viterbo, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio da Viterbo, su sapere, De Agostini.
Egidio da Viterbo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica,
Inc. Egidio da Viterbo, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio da
Viterbo, su ALCUIN, Ratisbona. Egidio da Viterbo, su Find a Grave. Opere di
Egidio da Viterbo, . Egidio da Viterbo, in Catholic Encyclopedia, Robert
Appleton Company. David M. Cheney, Egidio da Viterbo, in Catholic
Hierarchy. Biblioteca e società, ATTI
del Convegno di Studi su Egidio da Viterbo nel 450º anniversario della morte,
su bibliotecaviterbo. Rassegna bibliografica [collegamento interrotto], su
bibliotecaviterbo.ÆGIDIUS OF VITERBO, Jewish Encyclopedia (la voce contiene,
peraltro, alcune inesattezze) Salvador Miranda, VITERBO, O.E.S.A., Egidio da,
su fiu.eduThe Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International
University. Articolo della rivista Theological Studies (O'Malley) dedicato al
pensiero riformistico di Egidio da Viterbo , su bc.edu. PredecessorePriore
generale dell'Ordine di Sant'AgostinoSuccessore13.escudo.oar.png Agostino da
Terni, O.E.S.A Gabriele da Venezia, O.E.S.APredecessoreCardinale presbitero di
San Bartolomeo all'Isola Successore CardinalCoA PioM. Domenico
GiacobazziPredecessoreCardinale presbitero di San Matteo in
MerulanaSuccessoreCardinalCoA PioM.svg Cristoforo Numai, O.F.M.Obs. Charles de
Hémard de DenonvillePredecessoreVescovo di Viterbo e
TuscaniaSuccessoreBishopCoA PioM.svg Ottaviano Riario2 dicembre 152312 novembre
1532Niccolò Ridolfi (amministratore apostolico)PredecessorePatriarca titolare
di Costantinopoli Successore PrimateNonCardinal PioM.svg Marco Corner Francesco
de PisauroPredecessoreCardinale presbitero di San MarcelloSuccessoreCardinalCoA
PioM.svg Enrique Cardona y Enríquez9 maggio 153012 novembre 1532Marino
GrimaniPredecessoreAmministratore apostolico di ZaraSuccessoreArchbishopPallium
PioM.svg Francesco Pesaro (arcivescovo metropolita) Cornelio Pesaro
(arcivescovo metropolita)PredecessoreAmministratore apostolico di
LancianoSuccessoreBishopCoA PioM.svg Angelo Maccafani (vescovo)10 aprile12
novembre 1532Michele Fortini, O.P. (vescovo) Filosofi italiani del XVI
secoloCardinali italiani Professore Viterbo RomaAgostiniani italiani Cabalisti
italianiCardinali nominati da Leone XPatriarchi latini di
CostantinopoliEbraisti italiani. Raptus GANYMEDIS. Ubi ea de AMORE tractavimus,
quae aeterna sunt, nunc ad ea accedimus, quae ad mortales usque proveniunt.
Utrumque enim in symposio disputatum est a Platone, et quod magnus deus AMOR
est, quod ad aeternitatem pertinet, et quod medicus est curatorque mortalium,
quod vergit adtempus. Quam quidem sententiam plerique eorum contempserunt,
quisibi sapientes videntur, quique rationem sensilibus, non sensilia ratione dimetiuntur.Rati
ex aeterna causa res novas absque medio provenire non posse, ne aeterna,
stabilis, immotaque res, de ea enim causa praecipue loquuntur, quae firma
immota semper est, quasi quae novam rem pariat. Iam a priore statu mota
videatur, eademque et immota et mota esset, quod veri nulla potest ratione.
Sane divinus ille Amor ex aliquo semper effertur inaliquid,quod si quamanatex aliocogitetur
Amor,aeternaprogressione fluit a Parente ac Filio. Sin vero ut vergit in aliquid
prospi-ciatur, aut qua in id vergit, quod amatur, velut a patre proles, atque
eaprogressio perpetua est, aut qua in id rapitur, quod ex Amore ut, velut
inmunera, quae hominibus divinitus tribuuntur. Qui quidem divini AMORIS adventus,
tam aeternus non est, quam homines, quibus illa donantur.Mortales sunt, aeterni
non sunt; neque accessus ille, illaque curatio quic-quam in Deo collocat novi
nisi ex nostra quadam cogitatione. Sed id innobis oritur, quod ad aliquid est,
in nobisque non eo in amore mutation ut, quemadmodum orientem solem
spectantibus, dexter est antarcticus polus, articus sinister, quibus rursus
occidentem spectantibus contrariaratio ut, efficiturque et dexter arcticus et sinister antarcticus, ac quam-quam
immoti semper poli sint, qui tamen dexter erat sinister efficitur,non caeli parte, sed spectatoris
corpore commutato. Ita sane ut, cumad bonas hominum mentes, cum ad morbos
animorum curandos, ille loquntur V; locuntur N pariat]
percipiat V sint] sunt ac. V Utrumque … est] Symp. NV ; Symp. N medicus … mortalium] Symp.
N V accedit amor. Ita ad aegrum se conert, ut agitationem ac motum,
nonamor ille divinus, sed solus aegri animus patiatur. Nam cum gemini AMORES, geminaeque
sint Veneres, sicut Platoni placet, uterquesi processerit, urorenoscorripit.Sedalterperturbationum,morborum,malorum
omnium causa est; alter sedationes, salutem, bonaque plane omnia elar-gitur.HincMenonillePlatonicusait,
mortals non nisi divino gurore correptos bonos eri. Quae quidem sententia
oraculo consentit, quo praedicatum est, caeli regnum vim pati atque a violentis
mortalibus rapi. Utenim malus furor in era humanam sortem rapit mentem, ita
divinus spiritu vehementi, supra hominum vires in caelum usque correptam
men-tem vehit. HIC ILLE RAPTVS DIVINVS
EST QVEM SVPERIOR FABVLA IN PHYRGIO PVERO COGITARI VOLEVAT QVEM IN CÆLVM AD
DIVINAS DAPES NON SVO CONSILIO PROTECTVM SED DIVINO POTIVS RAPTV ADVECTUM
PRODEBAT – RAPTVMQVE AMAVIT NON NISI AB AMATORE – VT HOMINVM AD DIVINA
RAPIENDORUM POTESTAS NON NISI IN DIVINVM ET AMOREM REFERATVR. Nam Plato cum
tres furors ostendisset: Musarum, Bacchi, Apollinis, quartum etiam Veneris adiecitomnium
maximum, sacratissimum, divinissimum. Aeterna vero de causa novi aliquid procisciquid
prohibet, a libera praecipue atque immota omnino. Quippe quae idcirco non
mutata usque iudicatur, quod quae aeterna voluntate in tempore se acturam
statuit, eastatuto tempore fecit. Quare tantum abest ut mutata dicenda sit,
quod in tempore quicquamegerit, ut mutatautique dicenda esset, si quod constituit,
in tempore non egisset. Adde quod non ponimus spiritum illic esse, ubi prius
non uerit, sed alia ratione esse quam uerit. Atque ita ad nos in tempore dicimus
procisciillum cum divino aliquot coniungitur munere, quo prius nobis non coniungebatur.
Callistoetenim, et amanti deo miscetur prius, et deinde ab eodem in caelum
rapta est. Quibus quidem in rebus, non divinum AMOREM sed illam mutatam esse
voluerunt, cumprius divina AMICITIA ac deinceps etiam caeli sede a divino AMORE
donata est nactaque. Spiritus munus est quippe quem non aquis mergi sed
superaquas erri scriptum est. Aquae etenim multae, Solomone teste, extinguere
non possunt charitatem, quae una more olei virginum prudentum obrui in undas
non potest, sublime tutumque supernatat. Ita quos sanctus [amor in marg.
V animus] animis ac. V Quare] quarum ac. V esse]
etiam V esse] esset V etenim om. V
Salamone N V cum … placet] Symp. N N V Menon … eri] Men. N N
V puero] asteriscus N Nam … divinissimum] Ion N V ;
Phaedr. Ion N caeli … rapi] Mt. Aquae … charitatem] Cant.] ille AMOR
inhabitat, nihil mali metuunt, nullos adversos re ormidant ventos, nulla
malorum tempestate iactantur. Quam quidem rem et prius Homerus et postea Maro
posteris prodiderunt. Arctos Oceani metuentes aequore tingi, quod hii, quos
divinus AMOR corripit, agitari ortasse quandoque nonnihil possint, mergi ullis
tempestatibus non possint. Iam verode AMORIS processibus quaesitum saepe est,
duonesint, anunus. Alii duos aciunt, quod aeterna res eadem rei non aeternae
esse non debeat. Aliiunum dumtaxatessecontendunt,quia duo sunt ad aliquid in spiritu:alterum
re, alterum ratione. Quod vero ratione, non re ponimus, nihil erum constituat
oportet. Res ex re oritur, non ex solius principio rationis. Nos medium
malentes, modo quodam unum, modo alio duos processus esse volumus, omnis enim
progressio inter duos iaceat terminosnecesse est, ut Daedali volatus e Cretensi
coepit carcere, Calcidicaque levis tandem super adstitit arce. Aquam etiam,
quam in horto voluptatis esse docet Moses, vel ex onte unde manat, uel ex
alveis in quos manat,spectare possumus. Si ex onte, unam, si ex alveis, plures
esse dicendumest. Ita erme et AMORIS divini processus. Si ontem unde fluit
adspicias, unus dumtaxat erit immortalis aeternusque, sicut unum esse
principiumostendimus unde manat. Sin vero ea spectes, in quae tendit, quia alterum
est aeternum, alterum temporarium, ut spiritus divinus et HUMANUM genus, id circo
duosesse progressus asseverandum est. In onte enim si quid est quod sit ad aliquid
in processu spiritus, unum dum taxatest. In unibus vero non unum, sed duo
reperiuntur, quorum alterum in spirituaeternum, alterum in hominibus temporarium
residet. De aeterno quidem Hesiodus disseruit, qui etiam Aristotele teste, erram
et ante eam Chaos, hoc est vacuum, ut
idem interpretatur quod ii concedant oportet, qui mundum volunt conditum fuisse,
ut etiam consensit interpresAverroes ante haec vero, utpote rebus antiquiorem AMOREM
constituit,cuius postea partes uere, super aquas erri, et ut alii melius, rudi
mundi et silvae et materiae incubare. AMOREM itaqueis vates aeternum essececinit,
quem temporarium quoque universa ecit antiquitas,cum Iovem tra-xisse nxerunt ad
Danaes, ad Laedae, ad Alcmenae consuetudinem. Nec aliud plane per divinos
amores, per amatas Deo puellas, et (si ss esset ii N re ponimus]
reponimus V onte V spiritum V concedunt
V Almenae N V Arctos … tingi] Virg. N V omnis …
est] Phy.;. Phy; .Phy. N N V Aristotele … Chaos] . Phy. N N V Arctos
… tingi] Geo. .Calcidicaque … arce] Aen. .dicere) per Iovis adulteria
intellexere, nisi AMORIS divini adventum in homines, cum ex innumerabili pene
mortalium turba ad interitum, adineros, ad miseriam properante, quidam
seliguntur Deo cari, quibus et verum agnoscere, pedem retrahere, caelum contempta
terra conscendere datum est. Dat siquidem Plato in Euthyphrone Divino AMORI,
quicquidin mortalibus vel studiosi, vel sancti reperitur. Omne enim Diis AMICVM
sanctum, diis vero NON AMICVM PROPHANVM arbitrabatur. Quicquid itaque spei,
quicquid salutis, quicquid recti in hominibus esse potest, exmunere deorum esse
voluit, cum ALCIBIADES ad bene, recteque agendum censuit non sufficere mortales. Id quoque vestigatione
dignum putavere, ancum AMORIS Divini muneribus, quae donantur hominibus, ipse etiam
Divinus AMOR Deus, ac ipse a nobis spiritus una cum muneribus possideatur.
Plato in “Symposio” illud Hesiodi, quod prius adduximus, commemoravit,
antiquissimum deorum esse AMOREM ut spiritum ostenderet Deum esse maximum,
turbas novorum Deorum ipsa aeternitate antecedentem. Antiquissimum vero et
primum intelligimus non modo qua deos alios anteit, verum etiam qua divina in
nobis antecedit dona. Primum namque donorum omnium AMORE facit Aristoteles in
Rhetoricis, quare nisi prius mortalibus AMOR detur, nunquam divina munera tribuuntur
de iis, inquam, muneribus, quae AMICITIAM nobis conciliant divinam. Deum
praeterea Aristoteles in maximo caeli circulo esse vult, ea dumtaxat nisus
ratione, quod simplices incorporeaeque substantiae eo in loco sunt, sicuti in
loco esse possunt, ubi actiones exercent. Quodsi id agit AMOR ille divinus in
nobis, ut ex impiis pii, ex iniustis iusti, ex hostibus AMICI efficiamur, non potest idem ipse AMOR non esse
innobis. Iungimur quoque non modo muneribus cum illa suscipimus, sedipsi etiam
Deo, quem probetum nosse tum AMARE incipimus. Notitia enim AMORque Dei, quae
praecipua a Deo munera generi humano tribuuntur, ut Deo et propius iungamur et
iunctissime haereamus efficiunt. Atqui
sicut Apostolo placet, quicunque haeret deo, ut unus cum Deo spiritus evadat,
oportet. Fit denique in nobis dato munere ad aliquid, quo non modo dona suscepta,
verum etiam dantem AMOREM aspicimus. Quamobrem efficitur, ut AMOR ille, qui deus est, alia quam prius ratione
possideatur a nobis. Possidetur autem cum sese nobis insinuat, cum in udit se
animo, cum sinui penetralibusque amatae mentis illabi- ut]
et V nixus V ille sl. N suscepimus V ut]
et V prius in marg.V autem] etiam V .– Dat …
reperitur] Eut. N V ; Eutyphrone N Plato … Amorem] Symp. N N V] tur.Quod
si parum id persuaserimus, non potest Apostoli oraculum non persuadere, qui Dei
AMOREM in discipulorum cordibus praedicat diffusum per spiritum, inquit, sanctum, qui datus est nobis. Quo
quidem loco incredibile immortalium munus ostenditur, quo non modo divina dona,
verum etiam Deus ipse donorum dator sese et dat et exhibet animae humanae. Ex
iis vero, quae dicta sunt, dubitatio exoriri potest, sienim AMOR est donorum primum,
nullo nos donari munere sequitur, nisi prius AMOREM spiritumque suscipiamus.
Cum tamen non nullos constet improbos Spiritus divini dona suscepisse, spiritum
tamen minime suscepisse. ria nomina intelligenda sunt nobis, quae saepe a rismegisto
et a Platone in medium afferri
consuevere. Deum namque apellitare soliti sunt patrem, verum, bonum. Patrem
quidem nominant illamut causam, a qua pro ecti sumus. Verum, ut id quod summum
intelligimus. Bonum, ut id quod ut beatisimus adamamus. aria itaque divina nominasunt,
tres etiam rationes quibus in nobis est Deus. Quaenim Pater ac causa rerum est,
omnibus inest rebus. Ea namque, quae sunt, similitudinem servant eorum, unde sunt,
atque hoc pacto in rebus est Deus. Esentia, potestate, praesentia, quemadmodum
publica senatus decretal censuerunt. Ego omnia impleo, dicebat oraculum. Quam
quidem rem divinarum rerum consultissimus Maro in rusticis carminibus
scriptamreliquit. Ab Iove, inquit, principium musae. Iovis omnia plena. Ubi et
sententiam et sententiae causam elegantissime posuit scribens, Iovis esse plena
omnia, atque ideo ab eo principium musae facere. Qui locus longe altius agit,
quam prima carminis ronte videatur, voluit enim Iovis plena esse omnia, quoniam
Musae principium, atque ortus a Iove ipso est. Filias enim Iovis Homerus Musas ecit.
Musas etiam caelestesque deos una cum rebus omnibus a principio conditos a Deo
fuisse constat. Quare id circo docet omnia esse plena Deo, quod Musae rerumque
omnium pater est et causa ac principium Deus. Primamque rationem describit, qua
Deus rebus inest, eiusque rei causam ostendit, quod Musae rerum quesit et pateret
principium. Didicitex imaeo Deum esse non modo Musae, sed et rerum patrem, ubi
insignis illa Platonis sententia est, actarum rerum patrem invenire difficile est, effari autem nulliunquam as est. Quod enim sit Deus, magno tandem
negotio coniicimus, quid autem sit nullo studio, nullo labore in terris
animadvertimus. rimegisto illam] illi N intelligmus beatissimus]
beatissimus V inquit sl. N ac] et V advertimus V Ab
plena] Virg. NV Didicit … est] im.NNV At esse ubique Deum
Academia semper voluit, utpostea, non semel Plotinus testatus est, cuius quidem
doctrinam ad Maronis interpretamenta necessariam esse, vel Servius atetur.
Altera ratio, qua inest nobis Deus,est cognitionis et mentis, quod quidem divinum
munus ii soli possident, qui sunt mentis rationisque participes. Iungitur
namque Deo mens dum contemplatur Deum, utque divinas quasdam speculatur
imagines, quibus aciem dirigit in divinam lucem; atque hoc pacto in
contemplante estDeus per similitudines atque imagines quasdam, quibus modo
quodam coniungimur Deo. Tertia ratio est cum inest nobis deus non modo tamquam
verum cognoscentibus, sed tanquam bonum summum adamantibus. Illud cognitionis,
hoc amoris est opus. Id menti convenit, hoc daturaffectui. Quarum quidem rerum illud est
interstitium, quod rei speciemaltera, altera non speciem, sed rem ipsam
assequitur. Species enim lapidis, teste Aristotele, in animo est, non lapis,
cumcontra bonumipsum ac malum, non in rerum imaginibus, sed in ipsissintrebus. Quaretertius
hic nodus quoiungimurdeo, tanto est superiorepraestantior,quantoaurum, atque
homo auri hominisque imagines antecellit. Licet intelligentia qua-dam nos ratione
iungat Deo, ita tamen iungit, ut scientiae et mathematicae solent, quae aciunt
necessaria quadam consecutione, ut cognitas res et coelum cognoscamus, non
tamen praestant, ut etiam intellecta possi-deamus. At amor, qui similitudinibus
imaginibusque contentus esse nonsolet, ad res ipsas, quas optat, se recipit,
nec unquam nisi pulchro poti-tus conquiescit. Cognitio quidem rerum
similitudines ad cognoscentem vehit, amor vero amantem ipsum ad rem pulchram
rapit. Iarbam quem novit Dido, non admisit, quem amavit Aeneam virum cepit, non
enimilli colloquia, non convivia, non munera, non consuetudo sat uit,
quinpotius nunquam destitit, donec “speluncam Dido, dux et troianus eandem devenirent,
ubiarctissimo connubiivinculoiungerentur. Atquehocest quod in Republica Plato
monet, AMORIS nexum multo esse mathematicis artiorem, cum disciplinarum necessitas
similitudini mentem iungat, AMORIS vincula pulchro ipsi devinciant. Adde quod
velut Maro AMORIS retinacula ut arctissima esse demonstraret, matrimonii illa et
nuptia- vel sed V ii ipsi ac. V atque N altera
om. NV sint sl. V nodus] modus ac. V potitur
V Iarbam] Hyarbam N V
mathamaticis V denunciant V esse est] Enn. VI lib. cap. et
lib. cap. N N V hoc artiorem]. Reip. N NV speluncam … devenirent] Aen. Rumiugosigni
cavit. Idem quoque hicidem quo de agimus Spiritus effecit in AMATORIIS canticis, commercia
namque humanarum animarum et inmortalis Dei, quae caritate amoreque
conciliantur, non aptiori nomine appellate sunt, quamc onnubii atque nuptiarum.
Quam obrem liberis, qui mores canit et castos et divinos, ab Ieronimo, Origene,
aliisque senatus principibus VIRIS Epitalamii titulo inscriptus est, haud alio
plane consilio, quam ut cum amoris nodum cogitemus, efficacissimum arbitremur. Est itaque in rebus
Deus maximus primo quidem modo sicut causa iniis, quae vel proveniunt vel
oriuntur ex causa. Est rursus in eo animante, quirationisest particeps, quadam et
specierum similitudine et intelligentiae luce. Et denique in hoc ipso per sanctos
caritatis amorisque complexus. Primum quidem naturae opus est, alterum studii,
tertium AMICITIAE. Primum dat nobis essentiam, sequens cognitionem, postremum
gratiam atque benevolentiam. Deus siquidem in primo et intellectum et mentem praebet
homini, in secundo dei species et enigmata, in postremo AMORIS bene ciodatseipsum.
Iam itaque constarepalam potest, quaemunera AMORIS ea sint, quae cum exhibentur
hominibus, efficiunt
ut auctor quo-que ipse exhibeatur. Licet enim, qua pater et causa rebus insit
omnibus,praecipuum tamen inhabitandi munus, quod ad amorem pertinet, nullis cum
muneribus praestatur hominibus, nisi ea AMORIS, gratiae, amicitiaesint. Extat oraculum
clarissimum, quo AMORIS hoc divinissimum significatum est munus: “ad eum,”
inquit, “veniemus, in quo, et nobis domicilium faciemus. Hoc idem in Platonico Symposio
indicat, quod in AMORIS ortu enia Poro miscetur, ut aperte AMORIS vis intelligatur,
cuius inaestimabili et bonitate et beneficio et, ut non speciei, non
similitudini, sedipsi Deo anima copuletur. O beatum munus! O felices AMORIS
VIRES, O Fortunatos HOMINES, ubi divinus ille flagrat AMOR, ubi suas Deus exercet
nuptias, ubi amatae sponsae commiscetur, ubi tanquam in thalamo cubat suo.
Quidfasces, quid imperia, quid utiles hominibus voluptates prosunt? Qui si unum
hunc AMOREM non possident, male omnia atqueexilio possident. Qui ut parentem et
causam colunt deum, parum sese aellureevehunt, caelum que lunae dum taxat aspiciunt,
quam terrae naturam sapere volunt et Aristoteles et Averroes, proindeque torpentes
acgelidi AMORIS munera acesque non sentiunt. Qui vero contemplantur atque]
ac V costare V quoque quo V inestimabili V ;
inextimabili N N ac a V Hoc copuletur Symp. N V ad
aciemus Io. ut verum in Mercurii orbem oculos attollunt, unde artium et
discipli-narum munera tribui generi humano abulantur. Qui etsi amoris flam-mas
nondum concipiunt, quoniam tamen orbis ille venereo iunctus est, nec sua stella
a Veneris stella procul unquam migrat, atque utraque semper circum flammeum
ardentemque micat solem, idcirco ab intelligen-tia, modo recta piaque sit, ad
amoris ignes acilis patet aditus. Qui autemetiam Mercurii somnia virgamque
apertis oculis transiliunt, quasi vene-reae columbae pennis, nisi ad Veneris se
flammas caelumque recipiunt,quo qui tandem convolant, non in concertatione
similitudinum dimicant vel laborant, sed in pace in id ipsum dormiunt laeti
atque requie-scunt. Has pennas optabat olim vates: “quis,” inquit, “dabit mihi
pennasut columbae, quibus simul volabo, et requiescam!” Huc se venturum isetiam
ut poterat sperabat, geminas qui forte columbas aspiciens, quaetum caelo venere
volantes, maternas agnovit aves. In hoc denique AMORIS caelumtertiumraptusilleest,quiamoremabsquerebusaliissatisesse,res
alias absque amore nihil esse arbitrabatur. Non itaque cum vatici-niis, non cum
prophetia, non cum miraculis semper datur deus. Quaeomnia, ut idem testatur, si
habeam, unum AMOREM non habeam, nihilomninosum. Quod vero sit donorum primum acitutaliquasempercum
donis AMOR detur; si -- prior testo con note – apparato critico – Antonini. Ubi
ea de AMORE tractavimus, quae aeterna sunt, nunc ad ea accedimus, quaead mortals
usque proveniunt. Utrum queenim in Symposio disputatum est a Platone, et quod
magnus deus amor est, quod ad aeternitatem pertinet, et quod medicus est
curatorque mortalium, quod vergit adtempus. Quam quidem sententiam plerique
eorum contempserunt, quisibi sapientes videntur, quique rationem sensilibus,
non sensilia ratione dimetiuntur. Rati ex aeterna causa res novas absque medio provenire
non posse, ne aeterna, stabilis, immotaque res, de ea enim causa
praecipueloquuntur, quae rma immota semper est, quasi quae novam rem pariat.Iam
a priore statu mota videatur, eademque et immota et mota esset,quod eri nulla
potest ratione. Sane divinus ille AMOR ex aliquo semper effertur inaliquid, quod si qua manatex
aliocogitetur AMOR, aeternaprogressione fluit a Parente ac Filio. Sin vero ut
vergit in aliquid prospi-ciatur, aut qua in id vergit, quod amatur, velut a
patre proles, atque eaprogressio perpetua est, aut qua in id rapitur, quod ex
Amore ut, velut inmunera, quae hominibus divinitus tribuuntur. Qui quidem
divini AMORIS adventus, tam aeternus non est, quam homines, quibus illa
donantur. Mortales sunt, aeterni non sunt; neque accessus ille, illaque curatio
quic-quam in Deo collocat novi nisi ex nostra quadam cogitatione. Sed id innobis
oritur, quod ad aliquid est, in nobisque non eo in amore mutation ut, quem ad modum
orientem solem spectantibus, dexter est antarcticus polus, articus sinister,
quibus rursus occidentem spectantibus contrariaratio et, efficiturque et dexter arcticus et sinister
antarcticus, ac quamquam immoti semper poli sint, qui tamen dexter erat
sinister efficitur,non
caeli parte, sed spectatoris corpore commutato. Ita sane ut, cumad bonas
hominum mentes, cum ad morbos animorum curandos, ille accedit amor. Ita ad
aegrum se confert, ut agitationem ac motum, nonamor ille divinus, sed solus
aegri animus patiatur. Nam cum geminiAmores,geminaequesintVeneres,sicutPlatoniplacet,
uterquesiprocesserit, urorenoscorripit.Sedalterperturbationum, morborum,
malorum omnium causa est; alter sedationes, salutem, bonaque plane omnia elargitur.
Hinc Menon ille Platonicus ait, mortales non nisi divino urore correptos bonos feri.
Quae quidem sententia oraculo consentit, quo prae-dicatum est, caeli regnum vim
pati atque a violentis mortalibus rapi. Utenim malus uror in ra humanam sortem
rapit mentem, ita divinus spiritu vehementi, supra hominum vires in caelum
usque correptam mentem vehit. HIC ILLE RAPTVS DIVINVS EST QVEM SVPERIOR FABVLA
IN PHYRGIO PVUERO COGITARI VOLEBAT QVEM IN CÆLVM AD DIVINAS DAPES NON SVO
CONSILIO PROTECTVM SED DIVINO POTIVS RAPTV ADVECTVM PRODEBAT – RAPTVMQVE AMAVIT
NON NISI AB AMATORE VT HOMINVM AD DIVINA RAPIENDORVM POTESTAS NON NISI IN
DIVINVM AMOREM REFERATVR. Nam Plato cum tres furoresostendisset: Musarum, Bacchi,
Apollinis,quartumetiam Venerisadiecitomnium maximum, sacratissimum,
divinissimum. Aeterna vero de causa novi aliquid procisci quid prohibet,
alibera praecipue atque immota omnino. Quippe quae idcirco non mutata usque iudicatur,
quod quae aeterna voluntate in tempore se facturam statuit, eastatuto tempore fecit.
Quare tantum abest ut mutata dicenda sit, quod intempore quicquamegerit, ut mutat
autique dicenda esset, siquod constituit, in tempore non egisset. Adde quod non
ponimus spiritum illic esse,ubi prius non uerit, sed alia ratione esse quam
uerit. Atque ita ad nos in temporedicimus procisciillumcumdivinoaliquoconiungiturmunere,
quopriusnobisnonconiungebatur.Callistoetenim,etamantideomisce-tur prius, et
deinde ab eodem in caelum rapta est. Quibus quidem inrebus, non divinum amorem,
sed illam mutatam esse voluerunt, cumprius divina amicitia ac deinceps etiam
caeli sede a divino amore donata est nactaque. Spiritusmunus est quippe quem
nonaquis mergi sed superaquas erri scriptum est. Aquae etenim multae, Solomone
teste, extin-guere non possunt charitatem, quae una more olei virginum
prudentumobrui in undas non potest, sublime tutumque supernatat. Ita quos
sanc-tus ille Amor inhabitat, nihil mali metuunt, nullos adversos reformidant ventos,
nulla malorum tempestate iactantur. Quam quidem rem et priusHomerus et postea
Maro posteris prodiderunt: “Arctos Oceani metuen-tes aequore tingi, quod hii,
quos divinus amor corripit, agitari ortasse quandoque nonnihil possint, mergi
ullis tempestatibus non possint. Iam vero de AMORIS processibus quaesitumsaepe est,
duonesint,anunus.Aliiduos aciunt, quod aeterna res eadem rei non aeternae esse
non debeat. Aliiunum dumtaxatesse contendunt, qui aduosuntad aliquid in spiritu:
alterum re, alterum ratione. Quod vero ratione, non re ponimus, nihil rerum
constituat oportet. Res ex re oritur, non ex solius principio ratio-nis. Nos
medium malentes, modo quodam unum, modo alio duos pro-cessus esse volumus,
omnis enim progressio inter duos iaceat terminosnecesse est, ut Daedali volatus
e Cretensi coepit carcere, Calcidica que levis tandem super adstitit arce. Aquam
etiam, quam in horto voluptatis esse docet Moses, vel ex onte unde manat, uel
ex alveis in quos manat,spectare possumus. Si ex onte, unam, si ex alveis,
plures esse dicendumest. Ita erme et amoris divini processus. Si ontem unde
fluit adspicias,unus dumtaxat erit immortalis aeternusque, sicut unum esse
principium ostendimus unde manat. Sin vero ea spectes, in quae tendit, quia alterum
est aeternum, alterum temporarium, ut spiritus divinus, et huma-numgenus, id circoduosesse
progressusasseverandumest. In onteenimsi quid est quodsitad aliquidin processu spiritus,
unum dumtaxatest. In nibus vero non unum, sed duo reperiuntur, quorum alterum
in spirituaeternum, alterum in hominibus temporarium residet. De aeterno quidem
Hesiodus disseruit, qui etiam Aristotele teste, erram et ante eam Chaos, hoc
est vacuum, ut idem interpretatur, quod ii concedant oportet, qui mundum volunt
conditum fuisse, ut etiam consensit interpres Averroes ante haec vero, utpote
rebus antiquiorem Amorem constituit,cuius postea partes uere, super aquas erri,
et ut alii melius, rudi mundi et silvae et materiae incubare. AMOREM ita queis
vates aeternum essececinit,quemtemporariumquoque universa ecit antiquitas,cum
Iovem traxis senxerunt ad Danaes, ad Laedae, ad Alcmenae consuetudinem. Nec aliud
plane per divinos amores, per amatas Deo puellas, et si as essetdicere per
Iovis adulteria intellexere, nisi AMORIS divini adventum inhomines, cum ex innumerabili
pene mortalium turba ad interitum, adineros, ad miseriam properante, quidam
seliguntur Deo cari, quibus et verumagnoscere, pedemretrahere, caelum contemptaterraconscendere
datum est. Dat siquidem Plato in Euthyphrone Divino Amori, quicquidin
mortalibus vel studiosi, vel sancti reperitur. Omne enim Diis AMICUM sanctum,
diis vero NON AMICUM PROPHANUM arbitrabatur. Quicquid itaque spei, quicquid
salutis, quicquid recti in hominibus esse potest, exmunere deorum esse voluit,
cum ALCIBIADES ad bene, recteque agendum censuit non sufficere mortales. Id quoque vestigatione
dignum putavere, ancum AMORIS Divini muneribus, quaedonantur hominibus, ipseetiam
Divinus AMOR Deus, ac ipse a nobis Spiritus una cum muneribus possideatur.
Plato in “Symposio” illud Hesiodi, quod prius adduximus, commemoravit,
antiquissimum Deorum esse AMOREM, ut Spiritum ostenderet Deum esse maximum,
turbas novorum Deorum ipsa aeternitate antecedentem. Antiquissimum vero et
primum intelligimus non modoqua deos alios anteit, verum etiam qua divina in
nobis antecedit dona.Primum namque donorum omnium AMOREM facit Aristoteles in
“Rhetoricis”, quare nisi prius mortalibus amor detur, nunquam divina munera tribuuntur
de iis, inquam, muneribus, quae amicitiam nobis conciliantdivinam. Deum
praeterea Aristoteles in maximo caeli circulo esse vult,ea dumtaxat nisus
ratione, quod simplices incorporeaeque substantiaeeo in loco sunt, sicuti in
loco esse possunt, ubi actiones exercent. Quodsi id agit Amor ille divinus in
nobis, ut ex impiis pii, ex iniustis iusti, ex hostibus amici efficiamur, non potest idem ipse Amor non esse
innobis. Iungimur quoque non modo muneribus cum illa suscipimus, sedipsi etiam
Deo, quem probe tum nosse tum amare incipimus; notitiaenim AMORque Dei, quae
praecipua a Deo munera generi humano tri-buuntur, ut Deo et propius iungamur et
iunctissime haereamus efficiunt. Atqui
sicut Apostolo placet, quicunque haeret deo, ut unus cum Deospiritus evadat,
oportet. Fit denique in nobis dato munere ad aliquid,quo non modo dona suscepta,
verum etiam dantem AMOREM aspicimus. Quam obrem efficitur, ut AMOR ille, qui Deus est, alia quam priusratione
possideatur a nobis. Possidetur autem cum sese nobis insinuat, cum inudit se
animo, cum sinui penetralibusque amatae mentis illabitur. Quod si parum id persuaserimus,
non potest Apostoli oraculum non persuadere, qui Dei amorem in discipulorum
cordibus praedicat diffu-sum
“per Spiritum,” inquit, Sanctum, qui datus est nobis. Quo quidem loco
incredibile immortalium munus ostenditur, quo non modo divina dona, verum etiam
Deus ipse donorum dator sese et dat et exhibet animae humanae. Ex iis vero,
quae dicta sunt, dubitatio exoriri potest, sienimA AMORES tdonorumprimum, nullonos
donarimunere sequitur, nisiprius AMOREM Spiritumque suscipiamus. Cum tamen
nonnullos con-stet improbos Spiritus divini dona suscepisse, Spiritum tamen
minime suscepisse. ria nomina intelligenda sunt nobis, quae saepe a risme-gisto
et a Platone in medium afferri
consuevere. Deum namque apelli-tare soliti sunt Patrem, Verum, Bonum. Patrem
quidem nominant illamut causam, a qua protecti sumus; Verum, ut id quod summum
intelli-gimus; Bonum, ut id quod ut beati simus adamamus. ria itaque divina nominasunt,
tres etiam rationes quibus in nobis est Deus; quaenimPaterac causa rerum est,
omnibus inest rebus. Ea namque, quae sunt, simili-tudinem servant eorum, unde
unt, atque hoc pacto in rebus est Deus:essentia, potestate, praesentia,
quemadmodum publica senatus decretacensuerunt. Ego omnia impleo,” dicebat oraculum.
Quam quidem rem divinarum rerum consultissimus Maro in rusticis carminibus
scriptamreliquit: “Ab Iove,” inquit, “principium Musae; Iovis omnia plena”;
ubiet sententiam et sententiae causam elegantissime posuit scribens, Iovisesse
plena omnia, atque ideo ab eo principium Musae acere. Qui locuslonge altius
agit, quam prima carminis fronte videatur, voluit enim Iovis plena esse omnia,
quoniam Musae principium, atque ortus a Iove ipsoest. Filias enim Iovis Homerus
Musas fecit. Musas etiam caelestesquedeos una cum rebus omnibus a principio
conditos a Deo fuisse constat. Quare idcirco docet omnia esse plena Deo, quod
Musae rerum-que omnium pater est et causa ac principium Deus. Primamque rationem
describit, qua Deus rebus inest, eiusque rei causam ostendit, quod Musae rerum quesitet
pateret principium. Didicitex imaeo Deum essenon modo Musae, sed et rerum
patrem, ubi insignis illa Platonis sententia est, actarum rerum patrem invenire
difficile
est, effari
autem nulliunquam as est.” Quod enim sit Deus, magno tandem negotio coniicimus,
quid autem sit nullo studio, nullo labore in terris animadvertimus. At
esse ubiqueDeum Academia semper voluit, utpostea, non semel Plotinus testatus
est, cuius quidem doctrinam ad Maronis interpretamenta necessariam esse, vel
Servius atetur. Altera ratio, qua inest nobis Deus, est cognitionis et mentis,
quod quidem divinum munus ii soli possident, qui sunt mentis rationisque
participes. Iungitur namque Deo mens dumcontemplatur Deum, utque divinas quasdam
speculatur imagines, quibus aciem dirigit in divinam lucem; atque hoc pacto in
contemplante est Deus per similitudines atque imagines quasdam, quibus modo
quodam coniungimur Deo. Tertia ratio est cum inest nobis deus non modo tamquam
verum cognoscentibus, sed tanquam bonum summum adamanti-bus. Illud cognitionis,
hoc amoris est opus. Id menti convenit, hoc daturaffectui. Quarum quidem rerum illud est
interstitium, quod rei speciem altera, altera non speciem, sed rem ipsam
assequitur. Species enim lapidis, teste Aristotele, in animo est, non lapis,
cumcontra bonumipsum ac malum, noninrerumimaginibus, sedinipsissintrebus. Quaretertius
hic nodus quoiungimur deo, tanto es tsuperiorep raestantior, quantoaurum, atque
homo auri hominisque imagines antecellit. Licet intelligentia quadam nos
ratione iungat Deo, ita tamen iungit, ut scientiae et mathemati-cae solent,
quae aciunt necessaria quadam consecutione, ut cognitas res et coelum
cognoscamus, non tamen praestant, ut etiam intellecta possi-deamus. At amor,
qui similitudinibus imaginibusque contentus esse nonsolet, ad res ipsas, quas
optat, se recipit, nec unquam nisi pulchro poti-tus conquiescit. Cognitio
quidem rerum similitudines ad cognoscentem vehit, amor vero amantem ipsum ad
rem pulchram rapit. Iarbam quem novit Dido, non admisit, quem amavit Aeneam
virum cepit, non enimilli colloquia, non convivia, non munera, non consuetudo
sat uit, quinpotius nunquam destitit, donec “speluncam Dido, dux et Troianus
ean-dem devenirent, ubi arctissimo connubiivinculoiungerentur. Atque hoc est
quod in Republica Plato monet, AMORIS nexum multo esse mathematicis artiorem,
cum disciplinarum necessitas similitudini mentem iun-gat, amoris vincula
pulchro ipsi devinciant. Adde quod velut Maro amo-ris retinacula ut arctissima
esse demonstraret, matrimonii illa et nuptiarum iugo signi cavit. Idem quoque hicidemquodeagimus
Spiritus effecit in
AMATORIIS canticis, commercia namque humanarum animarum etinmortalis Dei, quae
caritate amoreque conciliantur, non aptiori
nomineappellatasunt,quamconnubiiatquenuptiarum.Quamobremliberis,qui AMORES canit et castos et divinos, ab
Ieronimo, Origene, aliisque senatus principibus VIRIS Epitalamii titulo inscriptus
est, haud alio plane consilio, quam ut cum amoris nodum cogitemus, efficacissimum arbitremur.Est itaque in rebus
Deus maximus primo quidem modo sicut causa iniis, quae vel proveniunt vel
oriuntur ex causa. Est rursus in eo animante, qui rationis est particeps,quadamet
specierum similitudine et intelligentiae luce. Et denique in hoc ipso per sanctos
caritatis amorisque complexus. Primum quidem naturae opus est, alterum studii,
tertium AMICITIAE. Primum dat nobis essentiam, sequens cognitionem, postremum
gratiamatque benevolentiam. Deus siquidem in primo et intellectum et mentem praebet
homini, in secundo dei species et enigmata, in postremo amo-risbeneficiodatse ipsum.
Iamitaqueconstarepalampotest, quaemunera AMORES ea sint, quae cum exhibentur
hominibus, efficiunt
ut auctor quo-que ipse exhibeatur. Licet enim, qua pater et causa rebus insit
omnibus,praecipuum tamen inhabitandi munus, quod ad amorem pertinet, nullis cum
muneribus praestatur hominibus, nisi ea amoris, gratiae, amicitiaesint. Extat
oraculum clarissimum, quo amoris hoc divinissimum signi-catum est
munus: “ad eum,” inquit, “veniemus, in quo, et nobis domicilium aciemus.”HocideminPlatonicoSymposioindicat,quodinAmorisortu
Penia Poro miscetur, ut aperte Amoris vis intelligatur, cuius inaestimabili et
bonitate et benficio et, ut non speciei, non similitudini, sedipsi Deo anima
copuletur. O beatum munus! O felices AMORIS VIRES, O fortunatos HOMINES, ubi
divinus ille flagrat Amor, ubi suas Deus exer-cet nuptias, ubi amatae sponsae
commiscetur, ubi tanquam in thalamocubat suo! Quid asces, quid imperia, quid utiles
hominibus voluptates prosunt? Qui si unum hunc Amorem non possident, male omnia
atqueexilio possident. Qui ut parentem et causam colunt deum, parum sese
aellureevehunt,caelumquelunaedumtaxataspiciunt,quamerraenatu-ram sapere
volunt et Aristoteles et Averroes, proindeque torpentes acgelidi Amoris munera acesque
non sentiunt. Qui vero contemplantur ut verum in Mercurii orbem
oculos attollunt, unde artium et discipli-narum munera tribui generi humano fabulantur.
Qui etsi amoris flam-mas nondum concipiunt, quoniam tamen orbis ille venereo
iunctus est,nec sua stella a Veneris stella procul unquam migrat, atque utraque
semper circum flammeum ardentemque micat solem, idcirco ab intelligen-tia, modo
recta piaque sit, ad AMORIS ignes facilis patet aditus. Qui autemetiam Mercurii
somnia virgamque apertis oculis transiliunt, quasi vene-reae columbae pennis,
nisi ad Veneris se flammas caelumque recipiunt,quo qui tandem convolant, non in
concertatione similitudinum dimi- cant vel laborant, sed in pace in id ipsum
dormiunt laeti atque requie-scunt. Has pennas optabat olim vates: “quis,”
inquit, “dabit mihi pennasut columbae, quibus simul volabo, et requiescam!” Huc
se venturum isetiam (ut poterat) sperabat, “geminas qui orte columbas
aspiciens, quaetum caelo venere volantes, maternas agnovit aves.” In hoc
denique AMORIS caelumtertiumraptusilleest, qui AMOREM absquerebusaliissatisesse,res
alias absque amore nihil esse arbitrabatur. Non itaque cum vatici-niis, non cum
prophetia, non cum miraculis semper datur Deus. Quaeomnia, ut idem testatur, si
habeam, unum Amorem non habeam, nihilomninosum.Quodverositdonorumprimum acitutaliqua
semper cum donisAMOR detur. Simplicitertamenexactequedari non dicitur, nisi dum
munera tertii sunt generis et divina cum AMICITIA tribuuntur. Egidio Antonini. Antonini.
Keywords: Ganimede, amore, amare, amatore, amante, amatum, significatum. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Antonini” – The Swimming-Pool Library.
Antonino
(Roma).
Filosofo. – marc’aurelio: antonino -- Grice: “Some call him Aurelio, but I call
him Antonino, since the first time his thing was published in Latin, his thing
was under ‘M. Antonini,’ no clue about the Aurelius!” -- Grice: “I once
suggested to Strawson that he should write a dissertation on a comparison of
Barberini’s and Xylander’s translation of Marcus Aurelius; you see, he was a
Roman who philosophised in Greek; and he was translated to Latin only in the
1550s; and into Italian a century later! Sir Peter responded: “I guess you want
me to detect all the misimplicata!’ ‘Misimpiegato,’ I replied!” Solo il presente ci è tolto, dato che solo questo
abbiamo.» (Marco Aurelio, Pensieri) Marco Aurelio Antonino Augusto (in
latino: Marcus Aurelius Antoninus Augustus; nelle epigrafi: IMP·CAES·M·AVREL·ANTONINVS·AVG.
Meglio conosciuto semplicemente come Marco Aurelio, è stato un imperatore,
filosofo e scrittore romano. Su indicazione dell'imperatore Adriano, fu
adottato dal futuro suocero e zio acquisito Antonino Pio che lo nominò erede al
trono imperiale. Nato come Marco Annio Catilio Severo divenne Marco Annio
Vero, che era il nome di suo padre, al momento del matrimonio con la propria
cugina Faustina, figlia d’Antonino, e assunse quindi il nome di Marco Aurelio
Cesare, figlio dell'Augusto (Marcus Aurelius Caesar Augusti filius) durante l'impero
di Antonino stesso. Antonino e imperatore sino alla sua morte, avvenuta per
malattia a Sirmio secondo Tertulliano o presso Vindobona. Mantenne la
coreggenza dell'impero assieme a Lucio Vero, suo fratello adottivo nonché suo
genero, anch'egli adottato da Antonino Pio. Morto Lucio Vero, associa al trono
suo figlio Commodo. È considerato dalla storiografia tradizionale come un
sovrano illuminato, il quinto dei cosiddetti "buoni imperatori" menzionati
da Edward Gibbon. Il suo regno fu tuttavia funestato da conflitti bellici
(guerre partiche e marcomanniche), da carestie e pestilenze. Marco Aurelio è
ricordato anche come importante filosofo stoico, autore dei Colloqui con sé
stesso (Τὰ εἰς ἑαυτόν nell'originale in greco). Alcuni imperatori successivi
utilizzarono il nome "Marco Aurelio" per accreditare un inesistente
legame familiare con lui. Busto dell'imperatore Marco Aurelio (Musei
Capitolini, Roma). Nome originale Imperator Caesar Marcus Aurelius Antoninus
Augustus Tribunicia potestas 9 anni (da solo), 6 con Lucio Vero, 4 con Commodo
e 15 con Antonino Pio per un totale di 34 volte: la prima volta dal 1º dicembre
del 147, rinnovata annualmente al 10 dicembre di ogni anno. Cognomina ex
virtute Armeniacus nel 164, Medicus e Parthicus Maximus, Germanicus, Sarmaticus.
Titoli: Pater Patriae, Salutatio imperatoria10 volte:[1] I (al momento della
assunzione del potere imperiale) nel 161, (II) nel 163,[11] (III) 165,[12] (IV)
166, (V) 167,[13] (VI) 171,[14] (VII) 174,[15] (VIII) 175,[16] (IX) 177[17] e
(X) 179.[1] Nascita26 aprile 121[18] Roma Morte17 marzo 180 Sirmio o Vindobona (attuale
Vienna) PredecessoreAntonino Pio SuccessoreCommodo ConiugeFaustina minore
FigliDomizia Faustina Aurelia Tito Aurelio Antonino Tito Elio Aurelio Lucilla
Annia Aurelia Galeria Faustina Tito Elio Antonino Fadilla Annia Cornificia
Faustina minore Commodo Tito Aurelio Fulvio Antonino Marco Annio Vero Cesare
Vibia Aurelia Sabina Adriano Un altro figlio di cui non si conosce il nome nato
dopo Tito Elio Antonino GensAnnia DinastiaAntonini PadreMarco Annio Vero
adottivo: Antonino Pio MadreDomizia Lucilla Consolato3 volte: nel 140, 145 e
161. Le principali fonti per la vita e il ruolo di Marco Aurelio sono
frammentarie e spesso inaffidabili. Il gruppo più importante è rappresentato
dalle biografie contenute nella Historia Augusta, composte in epoca successiva
al IV secolo.[34] Le biografie derivate principalmente da fonti ormai perdute
(come Mario Massimo), ma anche da Eutropio e Aurelio Vittore, ovvero quelle di
Marco Aurelio, Adriano, Antonino Pio e Lucio Vero, sono ritenute accurate e
affidabili. Di Frontone, maestro di retorica di Marco e di vari funzionari di
Antonino Pio, si conservano una serie di manoscritti irregolari, che coprono il
periodo che va dal 138 al 166. Nei Colloqui con sé stesso Marco offre una
finestra sulla sua vita interiore, ma gran parte dei libri risultano senza
riferimenti cronologici e con pochi accenni al mondo esterno. La più
attendibile fra le fonti del periodo è Cassio Dione, Egli scrisse una storia di
Roma dalla sua fondazione al 229, chiamata Historia romana.[36] Altre fonti
letterarie e giuridiche, come gli scritti del medico Galeno, le orazioni di
Elio Aristide e le costituzioni imperiali dello stesso Marco Aurelio forniscono
ulteriori informazioni sul contesto storico e sociale in cui visse
l'imperatore. Epigrafi e monete possono integrarle, così come i numerosi reperti
archeologici. La sua famiglia e di origine romana, ma stabilita da tempo a
Ucubi (Colonia Claritas Iulia Ucubi), una piccola cittadina. Essa salì alla
ribalta alla fine del I secolo, quando il suo bisnonno, Marco Annio Vero, fu
senatore e forse pretore. Il nonno, anch'egli di nome Marco Annio Vero, fu
elevato al rango di patrizio. Il terzo Marco Annio Vero, cioè suo padre, sposa
Domizia Lucilla. Lucilla maggiore, la di lei nonna materna, eredita una grande
fortuna, tra cui una fabbrica di mattoni (figlina) a Roma, attività alquanto
redditizia in un'epoca in cui la città era interessata da una notevole
espansione edilizia. La famiglia della madre e di rango consolare, mentre
quella del padre vanta addirittura una discendenza da Numa Pompilio. Busto di
Marco Aurelio giovane uomo, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, collezione
Farnese. Il busto (fino al collo) è un rifacimento moderno. Nacque da Vero e
Lucilla il sesto giorno prima delle calende di maggio, l'anno del secondo
consolato di suo nonno Marco Annio Vero, corrispondente all'anno 874 dalla
fondazione di Roma. La sorella, Annia Cornificia Faustina, nacque probabilmente
nel 122 o nel 123. Il padre Annio Vero muore giovane, durante la sua pretura,
quando Marco ha solo tre anni. Anche se difficilmente può averlo conosciuto, scrisse
nelle sue Meditazioni che ha imparato modestia e virilità dal ricordo di suo
padre e dalla sua reputazione postuma. Lucilla non si risposa più. La madre di
Marco, come da usanza della nobilitas, trascorse poco tempo col figlio,
affidandolo alle cure delle domestiche. Ciononostante, Marco accredita a sua
madre l'insegnamento della pietà religiosa, la semplicità nella dieta e come
evitare le vie dei ricchi. Nelle sue lettere Marco fa frequente e affettuoso
riferimento alla madre, manifestandole la sua gratitudine, nonostante mia madre
fosse condannata a morire giovane, trascorse i suoi ultimi anni di vita con me.
Dopo la morte del padre, anda a stare dal nonno paterno Marco Annio Vero. Ma
anche Lucio Catilio Severo, descritto come il bisnonno materno di Marco
(probabilmente il patrigno o padre adottivo di Lucilla maggiore), partecipa
alla sua istruzione. Crebbe nella casa dei suoi genitori, sul Celio, dove era
nato, in un quartiere che avrebbe affettuosamente ricordato come il mio Celio.
E una zona esclusiva, con pochi edifici pubblici e molte domus nobiliari fra
cui il palazzo del nonno, adiacente al Laterano, dove Marco avrebbe trascorso
gran parte della sua infanzia. Marco era riconoscente al nonno per avergli
insegnato a tener lontano il brutto carattere, ma era anche grato agli eventi
che gli evitarono di vivere nella stessa casa con la concubina presa dal nonno
dopo la morte della moglie, Rupilia Faustina. Evidentemente questa donna o
qualcuno del suo seguito potevano costituire una tentazione per Marco. La sua
istruzione avvenne in casa, in linea con le tendenze aristocratiche del tempo. Uno
dei suoi maestri, Diogneto, si dimostrò particolarmente influente, introducendo
Marco a una visione filosofica della vita e insegnandogli l'uso della ragione.
Per volere di Diogneto, prese a praticare le abitudini proprie dei filosofi e a
utilizzarne l'abbigliamento, come il ruvido mantello greco. Altri tutores,
Trosio Apro, Tuticio Proculo edAlessandro di Cotieno, descritto come un
importante letterato (il principale studioso omerico del suo tempo),
continuarono a occuparsi della sua istruzione. Deve ad Alessandro la sua
formazione nello stile letterario, rilevabile in molti passi dei Colloqui con
sé stesso. Adriano, convalescente nella sua villa di Tivoli dopo aver rischiato
di morire per un'emorragia, scelse Lucio Ceionio Commodo (conosciuto poi come
Lucio Elio Cesare) come suo successore, adottandolo contro la volontà delle
persone a lui vicine. Lucio però si ammalò e morì, costringendo il princeps
Adriano a indicare un nuovo successore, quando la scelta cadde su Aurelio
Antonino, il genero di Marco Annio Vero che il giorno successivo, dopo essere
stato attentamente esaminato, fu accettato dal Senato e adottato col nome di
Tito Elio Cesare Antonino. A sua volta, come da disposizioni dello stesso
princeps, Antonino adotta Marco, allora diciassettenne, e il giovane Lucio
Commodo, figlio dello scomparso Lucio Elio Vero. Da questo momento Marco muta
il suo nome in Marco Elio Aurelio Vero e Lucio in Lucio Elio Aurelio Commodo. Rimase
sconcertato quando seppe che Adriano lo aveva adottato come nipote. Solo con
riluttanza passò dalla casa di sua madre sul Celio a quella privata di Adriano,
che si ritiene non fosse ancora la casa di Tiberio, come veniva chiamata la
residenza imperiale sul Palatino). Adriano chiese in Senato che Marco fosse
esentato dalla legge che richiedeva il venticinquesimo anno compiuto per il
candidato alla carica di questore. Il Senato acconsentì e Marco divenne prima
questore, ricevette quindi l'imperium proconsulare maius e il consolato. L'adozione
facilitò il percorso della sua ascesa sociale: egli sarebbe verosimilmente
divenuto prima triumvir monetalis (responsabile delle emissioni monetali
imperiali) e in seguito tribunus militum in una legione. Marco probabilmente
avrebbe preferito viaggiare e approfondire gli studi. Il suo biografo attesta
che il suo carattere rimase inalterato: mostrava ancora lo stesso rispetto per
i rapporti come aveva quando era un cittadino comune ed era così parsimonioso e
attento dei suoi beni come lo era stato quando viveva in una abitazione
privata. La salute di Adriano peggiorò al punto da fargli desiderare la morte, tentando
anche il suicidio, impeditogli dal successore Antonino. L'imperatore,
gravemente malato, lasciò Roma per la sua residenza estiva, una villa a Baiae,
località balneare sulla costa campana, ove morì infine di edema polmonare. La
successione di Antonino era ormai stabilita e non presentava appigli per
eventuali colpi di mano. Per il suo comportamento, rispettoso dell'ordine
senatorio e delle nuove regole, Antonino fu insignito dell'appellativo
"Pio". Governo con Antonino Pio (139-161) L'adozione (Monumento
dei Parti, oggi presso il Museo di Efeso di Vienna): Antonino Pio (al centro)
con Lucio Vero di sette anni (a destra) e Marco Aurelio di diciassette anni (a
sinistra, alle spalle). All'estrema destra, sembra esserci Adriano. Magnifying
glass icon mgx2.svgEtà antonina. Subito dopo la morte di Adriano, Antonino
pregò la moglie Faustina di accertarsi se Marco fosse disposto a modificare i
suoi precedenti accordi matrimoniali. Marco acconsentì a sciogliere la promessa
fatta a Ceionia Fabia e a fidanzarsi con Faustina minore, la loro giovane e
bella figlia, inizialmente promessa a Lucio. Ricopre il suo primo consolato nel
140, con Antonino come collega. In qualità di erede designato, fu quindi
nominato princeps iuventutis, il comandante dell'ordine equestre. Assunse il
titolo di Cesare,[69] divenendo Marco Elio Aurelio Vero Cesare, ma in seguito
si schermì dal prendere troppo sul serio l'incarico. Su invito del Senato,
Marco venne inserito contemporaneamente nei principali collegi sacerdotali, tra
i quali figuravano i pontifices, gli augures, i quindecemviri sacris faciundis
e i septemviri epulones. Antonino gli chiese di prendere la residenza nella
Domus Tiberiana, uno dei palazzi imperiali sul Palatino. Marco avrebbe avuto
difficoltà a conciliare la vita di corte con le sue aspirazioni filosofiche,
anche se ammirò sempre e profondamente Antonino come un uomo giusto, esempio di
condotta integerrima. Marco si convinse che la vita serena a corte doveva
essere un obiettivo raggiungibile, dove la vita è possibile, allora è possibile
vivere una vita giusta, la vita è possibile in un palazzo, per cui è possibile
vivere la vita proprio in un palazzo affermò, trovandolo comunque di difficile
attuazione. Nei Colloqui con sé stesso Marco sembrava criticarsi per aver
abusato della vita di corte di fronte alla società. Come questore, Marco sembra
abbia ricoperto un ruolo amministrativo secondario: i compiti erano la lettura
delle lettere imperiali al Senato, quando Antonino era assente, e più in
generale quello di essere una sorta di segretario privato del princeps. I suoi
compiti come console furono invece più significativi, presiedendo le riunioni
che avevano un ruolo importante nelle funzioni amministrative del corpo
statale. Si sentiva assorbito dal lavoro d'ufficio e se ne lamentò con il suo
tutore Frontone: Sono senza fiato a causa di dover dettare quasi trenta
lettere. Egli era stato, nelle parole del suo biografo, preparato per governare
lo Stato. Il 1º gennaio 145, Marco venne nominato console per la seconda volta,
a soli ventiquattro anni. Una lettera di Frontone esortava Marco a dormire
molto in modo che potrai entrare in Senato con un buon colorito e leggere il
discorso con una voce forte. Marco si era lamentato di una malattia in una
lettera precedente: Per quanto riguarda la mia forza essa è migliorata, sto
cominciando a guarire e non vi è alcuna traccia di dolore nel mio petto, ma
riguardo l'ulcera sto facendo un trattamento e faccio attenzione a non fare
nulla che interferisca con esso. Marco era di salute cagionevole: lo storico
romano Cassio Dione, scrivendo dei suoi ultimi anni, lo elogiò per essersi
comportato a dovere, nonostante le numerose malattie. Matrimonio con
Faustina Busto di Faustina Minore, Louvre, Parigi. Nell'aprile del 145
Marco sposò la quattordicenne Faustina, come era stato programmato. Secondo il
diritto romano, per far sì che il matrimonio potesse aver luogo, fu necessario
che Antonino liberasse ufficialmente uno dei due figli dalla sua autorità
paterna; in caso contrario Marco, in quanto figlio adottivo di Antonino,
avrebbe sposato sua sorella. Poco si sa della cerimonia stessa. Vennero coniate
delle monete con le immagini degli sposi e di Antonino, che avrebbe officiato
la cerimonia come pontifex maximus. Nelle lettere rimanenti Marco non fa
esplicito riferimento al matrimonio, durato trentun anni, e accenna solo
raramente a Faustina. Dopo aver indossato la toga virilis nel 136 iniziò
probabilmente la sua formazione oratoria. Aveva tre maestri di greco, tra cui
Erode Attico, e uno di latino, Marco Cornelio Frontone, che Marco ricorda spesso
come suo maestro di stile e di vita nei Colloqui con sé stesso. Frontone e
Attico erano gli oratori più stimati dell'epoca, ma divennero suoi precettori
solo dopo la sua adozione da parte di Antonino. La preponderanza dei tutores
greci indica l'importanza di quella lingua per l'aristocrazia di Roma. Questa
era l'età della seconda sofistica, una rinascita della letteratura greca.
Sebbene istruito a Roma, Marco userà il greco per scrivere i suoi pensieri più
profondi nei Colloqui con sé stesso. Erode era un uomo molto ricco e discusso,
forse il più ricco d'Oriente e mal sopportava gli stoici, ma era un abile
oratore e sofista; Marco, che sarebbe diventato proprio uno stoico, non lo
ricorda affatto nei suoi Colloqui, nonostante si fossero incontrati molte volte
nel corso dei decenni successivi. Quinto Giunio Rustico in un disegno riportato
nel Crabbes Historical Dictionary. Busto di Erode Attico in marmo, risalente al
II secolo d.C. e conservato al Museo del Louvre di Parigi. Frontone godeva di
grande reputazione: nel mondo consapevolmente antiquato della letteratura
latina era considerato, come oratore, secondo solo a Cicerone, una fama che
oggi, in base ai pochi frammenti rimasti, può lasciare meravigliati. Non
correva una gran simpatia fra Frontone ed Erode; eppure i due seppero in ultimo
far scorrere una vena di reciproca cortesia e gentilezza, grazie anche a Marco.
Frontone non divenne insegnante a tempo pieno di Marco e continuò la sua
carriera di avvocato. Una causa famosa lo portò in contrasto con Erode, che era
il principale accusatore di Tiberio Claudio Demostrato, un notabile ateniese
difeso proprio da Frontone. L'esito del processo è ignoto, ma Marco riuscì a
far riconciliare i due. All'età di venticinque anni Marco cominciò a
disamorarsi degli studi in giurisprudenza, mostrando segnali di un diffuso
malessere. Era stanco dei suoi esercizi e di prendere posizione in dibattiti
immaginari. In ogni caso, l'istruzione formale di Marco era ormai finita. Aveva
mantenuto con i suoi insegnanti buoni rapporti e continuava a seguirli con
devozione, anche se la lunga istruzione ebbe negative influenze sulla sua
salute.[89] Quando Marco era giovane Frontone lo aveva messo in guardia contro
lo studio della filosofia, disapprovando come una deviazione giovanile le sue
lezioni con Apollonio di Calcide. Pur se Apollonio potrebbe aver introdotto
Marco alla filosofia stoica, sarebbe stato Quinto Giunio Rustico, il vero
successore di Seneca, ad aver esercitato la maggior influenza sul ragazzo.
Marco s'ispirò anche ad Epitteto di Ierapoli, le cui letture fu proprio Rustico
a suggerire. Nascite e morti nella famiglia. Il 30 novembre 147 Faustina diede
alla luce una bambina di nome Domizia Faustina Aurelia. Era solo la prima di
almeno quattordici figli (tra cui due coppie di gemelli) che Faustina avrebbe
partorito nei successivi ventitré anni.[92] Il giorno successivo, 1º dicembre,
Antonino Pio attribuì a Marco il potere tribunizio, mentre l'imperium, cioè
l'autorità sugli eserciti e sulle province imperiali, potrebbe essergli già stato
conferito. Il potere tribunizio conferiva a Marco il diritto di proporre un
provvedimento con prelazione sul Senato e sullo stesso Antonino. Questi poteri
gli furono rinnovati, insieme ad Antonino, il 10 dicembre.La prima menzione di
Domizia nelle lettere di Marco ne rivela la salute malferma.[94] Lui e Faustina
furono molto occupati nella cura della bambina, che sarebbe morta poi nel
151.[92][95][96] Nel 149 nacquero a Faustina due gemelli, celebrati da
una moneta con cornucopie incrociate sotto i busti dei due bambini e la scritta
"felicità dei tempi" (temporum felicitas). Essi però non
sopravvissero a lungo. Tito Aurelio Antonino e T. Elio Aurelio, questi i nomi
ricavati dagli epitaffi, morirono molto presto (entro la fine del 149) e furono
sepolti nel mausoleo di Adriano. Lo stesso Marco scrisse: Uno prega: «che io
non debba perdere mio figlio!»; ma tu devi pregare: «che io non tema di
perderlo! Marco Aurelio: aureo FAUSTINA MINOR RIC III 682-808351FAVSTINA
AVGVSTA, busto con drappeggioFECVNDITA-TI AVGVSTAE, la Fecunditas (fertilità)
seduta, con un bambino sulle ginocchia e altri due in piedi AV (7,37 g); 161
circa Il 7 marzo del 150 nacque una bambina, Annia Aurelia Galeria Lucilla, cui
seguì Annia Aurelia Galeria Faustina, che sembra sia nata non più tardi del 153
(un altro figlio, Tito Elio Antonino, viene citato dalle fonti nel 152). Una
moneta celebra la fertilità dell'Augusta (FECVNDITAS), raffigurando due bambine
e un bambino (Lucilla, Faustina e Antonino, appunto). Il maschio non sopravvisse
a lungo, considerando che sulle monete del 156 erano raffigurate solo le due
femmine. Egli potrebbe essere morto nel 152, lo stesso anno in cui mancò la
sorella di Marco, Cornificia.[92][96] Un settimo figlio nacque e morì
poco dopo tra la fine del 157 e gli inizi del 158, come risulta da una lettera
di Marco, datata 28 marzo del 158. Nel 159 e 160 Faustina diede alla luce altre
due figlie: Fadilla e Cornificia, che portavano i nomi delle defunte sorelle di
Faustina e di Marco.[99] Altri figli nacquero in seguito, oltre a Commodo e al
gemello di questi, Fulvio Antonino. Si trattava di Marco Annio Vero Cesare,
Vibia Aurelia Sabina e Adriano, che morì anche lui giovanissimo. Lucio divenne
questore all'età di ventitré anni, due anni prima dell'età legale (Marco aveva
ricoperto lo stesso incarico a soli diciassette anni).[63] Nel 154 ottenne il
consolato all'età di venticinque, sette anni prima dell'età legale. Lucio non
aveva altri titoli onorifici, tranne quello di figlio dell'Augusto. Aveva una
personalità molto diversa da Marco: amava l'attività sportiva di ogni genere,
in particolare la caccia e la lotta, e aveva evidente piacere ad assistere ai
giochi circensi e alle lotte dei gladiatori. Non si sposò fino al 164. Antonino
Pio non condivideva i suoi stessi interessi: desiderava mantenere Lucio in
famiglia, ma non era sicuro di potergli dare gloria e potere. Come si nota
dalle statue di questo periodo, Marco cominciò a portare la barba (oltre ai
tipici capelli arricciati dell'età antonina), proseguendo la moda iniziata da
Adriano,[102] seguita da Antonino e che durò a lungo, sostituendo il
tradizionale aspetto dell'uomo romano, completamente sbarbato. Nel 156 Antonino
Pio compì settanta anni. Godeva ancora di un discreto stato di salute, seppure
avesse difficoltà a stare eretto senza utilizzare dei sostegni. Il ruolo di
Marco andò via via crescendo, in particolare quando il prefetto del pretorio
Gavio Massimo, che per quasi vent'anni era risultato di fondamentale importanza
con i suoi consigli su come governare, morì tra il 156 e il 157. Il suo
successore, Gavio Tattio Massimo, sembra non avesse lo stesso peso politico
presso il princeps e poi non durò a lungo.[104] Nel 161 Marco e Lucio furono
designati consoli insieme, forse perché il padre adottivo sentiva avvicinarsi
la fine che infatti giunse nei primi mesi dello stesso anno. Secondo i racconti
della Historia Augusta l'imperatore, che si trovava nella sua tenuta di Lorium,
due giorni prima di morire aveva fatto indigestione, vomitò e fu colto da febbre.
Aggravatosi il giorno successivo, il 7 marzo 161, convocò il consiglio
imperiale (compresi i prefetti del pretorio Furio Vittorino e Sesto Cornelio
Repentino) e passò tutti i suoi poteri a Marco, ordinando che la statua d'oro
della Fortuna, che era nella camera da letto degli imperatori, fosse portata da
Marco. Diede quindi la parola d'ordine al tribuno di guardia, «equanimità», poi
si girò, come per andare a dormire, e morì. Dopo la morte di Antonino Pio,
Marco Aurelio era di fatto unico princeps dell'Impero. Il Senato gli avrebbe
presto concesso il titolo di Augusto e di imperator, oltre a quello di Pontifex
Maximus, sacerdote a capo dei culti ufficiali della religione romana. Sembra
che Marco dimostrasse, almeno inizialmente, tutta la sua riluttanza a farsi
carico del potere imperiale, poiché il suo biografo scrive che fu
"costretto dal Senato ad assumere la direzione della Res publica dopo la
morte di Pio". Egli deve aver avuto una vera e propria paura del potere
imperiale (horror imperii), considerando la sua predilezione per la vita
filosofica, ma sapeva, da stoico qual era, quello che doveva fare e come farlo.
Anche se nei Colloqui con sé stesso non sembra mostrare affetto personale per
Adriano, Marco lo rispettò molto e presumibilmente ritenne suo dovere metterne
in atto i piani di successione. E così, anche se il Senato voleva confermare
solo lui, egli rifiutò di entrare in carica senza che Lucio ricevesse gli
stessi onori: alla fine il Senato fu costretto ad accettare e insignì Lucio
Vero del titolo di Augustus. Marco divenne, nella titolatura ufficiale,
Imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto mentre Lucio, assumendo il
nome di famiglia di Marco, Vero, e rinunciando al suo cognomen di Commodo,
divenne Imperatore Cesare Lucio Aurelio Vero Augusto. Per la prima volta Roma
veniva governata da due imperatori contemporaneamente.[109] Fin dalla sua
ascesa al principato, Marco ottenne dal Senato che Lucio Vero gli fosse
associato su un piano di parità (diarchia),[62][69] con gli stessi titoli, ad eccezione
del pontificato massimo che non si poteva condividere. La formula era
innovativa: per la prima volta alla testa dell'impero vi era una collegialità e
una parità totale tra i due principes. In teoria i due fratelli ebbero gli
stessi poteri, in realtà Marco conservò una preminenza che Vero mai contestò. Le
ragioni pratiche di questa collegialità, voluta da Adriano forse per onorare la
memoria di Lucio Elio, adottandone il figlio, e al tempo stesso lasciare
l'impero a Marco Aurelio di cui aveva capito le grandi qualità, non sono
completamente chiare. A dispetto della loro uguaglianza nominale, Marco ebbe
maggior auctoritas di Lucio Vero. Fu console una volta di più, avendo condiviso
la carica già con Antonino Pio, e fu il solo a divenire Pontifex Maximus. E
questo fu chiaro a tutti. L'imperatore più anziano deteneva un comando
superiore al fratello più giovane: Vero obbedì a Marco... come il tenente
obbedisce a un proconsole o un governatore obbedisce all'imperatore. Subito
dopo la conferma del Senato, gli imperatori procedettero alla cerimonia di
insediamento presso i Castra Praetoria, l'accampamento della guardia
pretoriana. Lucio affrontò le truppe schierate, che acclamarono la coppia di
imperatores. Poi, come ogni nuovo imperatore, da Claudio in poi, Lucio promise
alle truppe un donativo speciale, che fu il doppio di quelli passati: 20.000
sesterzi (5.000 denari) pro capite ai pretoriani, e in proporzione agli altri
militari dell'esercito. In cambio della donazione, pari a diversi anni di
stipendium, le truppe giurarono fedeltà ai due imperatori. La cerimonia non del
tutto necessaria, considerando che l'ascesa di Marco era stata pacifica e
incontrastata, costituì comunque una valida assicurazione contro possibili rivolte
da parte dei militari. In seguito a questi eventi sembra che la moneta
d'argento, il denario, cominciò un lento processo di svalutazione, che portò
sia alla riduzione del suo peso che del suo titolo (% di argento presente nella
lega), che passò dall'89% dell'epoca di Traiano al 79%. Il funerale di Antonino
fu celebrato in modo che lo spirito potesse ascendere agli dèi, come era
tradizione. Il corpo venne posto su una pira. Lucio e Marco divinizzarono il
padre adottivo attraverso un sacerdozio preposto al suo culto, con il consenso
del Senato. Secondo le sue ultime volontà, il patrimonio di Antonino non passò
direttamente a Marco, ma a Faustina, che in quel momento era incinta di tre
mesi. Durante la gravidanza sognò di dare vita a due serpenti, uno più
agguerrito rispetto all'altro. A Lanuvium nacquero infatti due gemelli: Tito
Aurelio Fulvio Antonino e Commodo, che poi sarebbe succeduto al padre come
imperatore. A parte il fatto che i gemelli erano nati lo stesso giorno di
Caligola, i presagi sembra fossero favorevoli, e gli astrologi trassero auspici
positivi per i due neonati. Le nascite furono celebrate sulla monetazione
imperiale. Statua equestre di Marco Aurelio (Equus Marci Aurelii Antonini), in
bronzo, situata al Campidoglio (copia moderna non fedele dell'originale che si
trova ai Musei capitolini) Subito dopo l'adozione, Marco promise come sposa a
Lucio la figlia undicenne, Lucilla, nonostante fosse formalmente suo zio. Alle
celebrazioni dell'evento, furono donate delle somme per i bambini poveri, come
aveva fatto in precedenza Antonino Pio quando volle commemorare la moglie
scomparsa. I sovrani divennero popolari tra la gente di Roma. Gli imperatori
concessero piena libertà di parola, come dimostra il fatto che un noto
commediografo, un certo Marullus, poté criticarli senza subire ritorsioni. In
ogni altro momento, sotto qualsiasi altro imperatore, sarebbe stato
giustiziato. Ma era un periodo di pace e di clemenza e il biografo riporta che
Nessuno rimpiangeva i modi miti di Pio. Marco Aurelio sostituì vari funzionari
dell'impero: Sesto Cecilio Crescenzio Volusiano, responsabile della
corrispondenza imperiale, con Tito Vario Clemente, un provinciale, originario
del Norico, che aveva prestato servizio militare nella guerra in Mauretania e
in seguito aveva servito come Procurator Augusti in cinque differenti province.
Costituiva l'uomo adatto per affrontare un periodo di emergenza militare. Lucio
Volusio Meciano, che era stato uno degli insegnanti di Marco Aurelio, era
governatore della prefettura d'Egitto. Marco lo nominò senatore, poi prefetto
della tesoreria (Praefectus aerarii Saturni) e poco dopo ottenne anche il
consolato. Il figlio adottivo di Frontone, Gaio Aufidio Vittorino, padre dei
futuri consoli di età severiana Gaio Aufidio Vittorino e Marco Aufidio
Frontone, venne nominato governatore della Germania superiore. Non appena la
notizia dell'ascesa imperiale dei suoi allievi lo raggiunse, Frontone lasciò la
sua casa di Cirta e il 28 marzo rientrò nella sua residenza romana. Inviò una
nota al liberto imperiale Charilas, chiedendo di potersi mettere in contatto
con gli imperatori poiché, disse in seguito, non aveva osato scrivere direttamente
agli imperatori. L'insegnante si dimostrò immensamente orgoglioso dei suoi
allievi. Egli, ripensando al discorso tenuto per l'ascesa al consolato del 143,
elogiò Marco con queste parole: C'era allora una straordinaria capacità
naturale in te, perfezionata ora in eccellenza, il grano che cresceva è ora un
raccolto maturo. Lucio era invece meno stimato dallo stesso precettore, i suoi
interessi erano di livello inferiore. Annia Lucilla, figlia di Marco e moglie
di Lucio Vero Il primo periodo di regno procedette senza intoppi, così che
Marco Aurelio poté dedicarsi alla filosofia e alla ricerca dell'affetto
popolare. Ben presto, però, nuove preoccupazioni avrebbero significato la fine
della Felicitas temporum, che il conio del 161 aveva con disinvoltura
proclamato. Nell'autunno del 161, il Tevere esondò dalle sue sponde, devastando
alcune comunità italiche e gran parte di Roma. Annegarono molti animali,
lasciando la città in preda alla carestia. «Marco e Lucio affrontarono
personalmente questi disastri» e le comunità italiche colpite dalla carestia
furono aiutate, permettendo loro di rifornirsi del grano della capitale. In
altri tempi di carestia, gli imperatori avevano tenuto le comunità italiche
fuori dai granai romani. Gli insegnamenti di Frontone continuarono nei primi
anni di regno di Marco. Frontone riteneva che, visto il ruolo ricoperto da
Marco, le lezioni fossero più importanti oggi di quanto non fossero mai state
prima. Riteneva che Marco desiderasse riacquistare l'eloquenza di una volta,
eloquenza per la quale aveva per un certo periodo di tempo perso interesse. Frontone
ricordò nuovamente al suo allievo l'antitesi tra il suo ruolo e le sue aspirazioni
filosofiche: Supponiamo, Cesare, che tu possa raggiungere la saggezza di
Cleante e Zenone, eppure, contro la tua volontà, tu non possa comunque avere la
mantella di lana del filosofo. I primi giorni di regno di Marco furono i
più felici della vita di Frontone: il suo allievo era amato dal popolo di Roma,
era un ottimo imperatore, uno studente appassionato, e, forse più importante,
eloquente come lui voleva. Marco diede prova di grande abilità retorica nel suo
discorso al Senato dopo un terremoto avvenuto a Cizico. Aveva trasmesso il
dramma del disastro, e il senato era stato intimorito: improvvisamente la mente
degli ascoltatori era più violentemente agitata durante il discorso, che la
città durante il terremoto". E Frontone ne fu enormemente soddisfatto. Politica
interna: l'amministrazione dello stato In politica interna, Marco Aurelio si
comportò, come già Augusto, Nerva e Traiano, da princeps senatus, cioè
"primo tra i senatori" e non da monarca assoluto, rivelandosi
rispettoso delle prerogative del Senato, consentendogli di discutere e di
decidere sui principali affari di Stato, come le dichiarazioni di guerra alle
popolazioni ostili o le stipule dei trattati, come anche sulle nomine alle
magistrature.[131] Avviò anche una politica tendente a valorizzare le altre
categorie sociali: ai provinciali fu reso possibile raggiungere le più alte
cariche dell'amministrazione statale. Né ricchezza, né illustri antenati
influenzarono il giudizio di Marco, ma solo il merito personale. Egli concesse
cariche a persone che riconosceva come illustri eruditi e filosofi, senza
guardare alla loro condizione di nascita. L'assetto amministrativo introdotto
da Augusto quasi centocinquant'anni prima, che fino a quel momento aveva
preservato l'Impero anche quando si erano succeduti imperatori dissoluti come
Caligola e Nerone, oppure in occasione della guerra civile del 69, era
imponente e la sua classe dirigente cominciava ad acquisire piena
consapevolezza del proprio potere. Marco istituì l'anagrafe: ogni cittadino romano
aveva l'obbligo di registrare i propri figli entro trenta giorni dalla loro
nascita; colpì l'usura, regolarizzò le vendite pubbliche e distrusse tutti i
libelli diffamatori che circolavano su molte persone.[135] Proibì i processi
pubblici prima che fossero raccolte prove certe, garantì ai senatori l'antica
immunità dalle condanne capitali, a meno che ci fossero prove certe e una
condanna ufficiale. Impiegò il denaro non in splendide architetture, ma in
opere di ricostruzione estremamente necessarie, o in migliorie della rete
stradale, da cui dipendeva la difesa dell'impero e il progresso del commercio,
o in fortezze, accampamenti e città.Egli non amava particolarmente i giochi
gladiatorii e gli spettacoli cruenti del circo, ma li indiceva e li frequentava
solo se non poteva esimersi; più tardi formò unità militari ausiliarie di
gladiatori a supporto delle legioni del nord, ma dovette richiamarli per il
malcontento del popolo che, nonostante le economie necessarie a causa della
guerra, reclamava il suo divertimento. Non riuscì a realizzare i suoi ideali
stoici di eguaglianza e libertà perché l'esigenza di controllare le finanze
locali portò alla formazione di una classe burocratica che presto volle
arrogarsi diritti e privilegi e che si costituì quale classe chiusa.
Marco Aurelio Pontefice Massimo Trascorse, inoltre, molto tempo del suo
regno a difendere le frontiere. Tra le altre leggi proibì la tortura per i
cittadini eminenti, prima e dopo la condanna, poi per tutti i cittadini liberi,
come era stato in epoca repubblicana. Restò valida per gli schiavi, ma solo se
non si trovavano altre prove. Venne comunque proibito di vendere uno schiavo
per utilizzarlo nei combattimenti contro le belve. Nei processi da lui
presieduti cercò sempre la massima giustizia ed equità per tutti, anche quando
doveva emettere una condanna secondo le leggi.[142] Marco e Lucio stabilirono
ad esempio la non punibilità di un figlio che avesse ucciso un genitore in un
momento di follia, materializzando così un primo concetto di infermità mentale.
Come molti imperatori, Marco trascorse la maggior parte del suo tempo ad
affrontare questioni di diritto come petizioni e controversie, prendendosi
molta cura nella teoria e nella pratica della legislazione. Avvocati di
professione lo definirono un «imperatore versato nella legge» e, come sosteneva
il grande Emilio Papiniano, «molto prudente e coscienziosamente giusto». Egli
mostrò uno spiccato interesse in tre aree del diritto: l'affrancamento degli
schiavi, la tutela degli orfani e dei minori, e la scelta dei consiglieri
cittadini (decuriones). Rivalutò la moneta da lui svalutata, ma due anni dopo
tornò sui suoi passi a causa della grave crisi militare che l'impero stava
affrontando a causa delle guerre marcomanniche. E mentre il fratello Lucio era
impegnato in Oriente contro i Parti, Marco era impegnato a Roma in questioni
familiari. La prozia Vibia Matidia era morta e sul suo testamento pendeva una
disputa legale, dato che il suo ingente patrimonio aveva attratto l'attenzione
di molte persone. Alcuni dei suoi clientes erano riusciti a farsi includere nel
suo testamento attraverso vari codicilli. Tuttavia, le sue volontà non potevano
essere riconosciute come valide, poiché in contrasto con la lex Falcidia:
Matidia aveva infatti assegnato più di tre quarti del suo patrimonio non alla
propria familia ma a gente estranea, fra cui un gran numero di suoi clientes.
Marco si trovò così in una posizione imbarazzante, dato che Matidia non aveva
mai confermato la validità dei documenti, anche se sul letto di morte alcuni
dei sedicenti eredi avevano colto l'opportunità per farli convalidare. Frontone
esortò Marco a portare avanti le rivendicazioni della famiglia ma quest'ultimo,
studiato attentamente il caso, preferì che fosse il fratello a prendere la decisione
finale. Benché a Roma vigessero la tortura e la pena di morte, applicate con
facilità soprattutto nei confronti di schiavi e stranieri, la normativa di
molti imperatori "illuminati" cercò di ridurre il numero di reati
punibili con pene severe, come in passato aveva già fatto Tito. Per Marco anche
gli schiavi andavano trattati come persone, seppure subordinate, e non come
oggetti, evitando quindi ogni crudeltà e rispettandone la dignità, a differenza
dei cristiani che spesso non si pronunciavano a favore della classe servile. Alcuni
critici tuttavia temevano che il movimento filosofico-giuridico legato alla
politica di affrancamento degli Antonini, se non fosse stato profondamente
ancorato al sistema economico romano, basato principalmente sulla schiavitù,
avrebbe portato all'abolizione de facto dell'istituto servile entro un secolo,
ed avrebbe comportato gravi ripercussioni economiche. Marco mostrò un grande
interessamento affinché a ogni schiavo fosse data la possibilità di
riguadagnare la propria libertà, qualora il padrone avesse espresso la propria
disponibilità a restituirgliela. Si racconta, infatti, che in una causa di
manomissione, portata alla sua attenzione dall'amico Aufidio Vittorino, e
citata in seguito dai giuristi come un precedente decisivo, egli favorì uno schiavo.
Coerente con lo stoicismo, filosofia contraria alla schiavitù, emanò numerose
norme favorevoli alla classe servile, estendendo le leggi già promulgate dai
suoi predecessori, a partire da Traiano, e ribadendo per esempio il concetto di
diritto di asilo per gli schiavi fuggitivi (che potevano essere puniti e uccisi
in ogni modo dal padrone) garantendo loro l'immunità finché si trovassero
presso qualsiasi tempio o qualsiasi statua dell'imperatore. Sul letto di morte,
Antonino Pio aveva espresso la sua collera nei confronti di alcuni re clienti,
che il Birley interpreta fossero quelli posti lungo i confini orientali. Il
cambio al vertice dell'Impero romano sembra infatti abbia incoraggiato Vologese
IV di Partia ad aggredire, nella seconda metà del 161, il Regno d'Armenia,
alleato dell'Impero romano, nominando un re fantoccio a lui gradito, Pacoro
III, un arsacide come lui. L'Impero dei Parti, sconfitto e parzialmente
sottomesso da Traiano quasi cinquant'anni prima (114-116), era così tornato a
rinnovare i suoi attacchi alle province orientali romane dagli antichi
territori dell'Impero persiano.[154][156] Il governatore della
Cappadocia, Marco Sedazio Severiano, convinto che avrebbe potuto sconfiggere i
Parti facilmente, condusse una delle sue legioni in Armenia, ma a Elegia fu
sconfitto e preferì suicidarsi, mentre l'intera legione veniva completamente
distrutta. E mentre tutto ciò accadeva in Oriente, nuove minacce si profilavano
lungo le frontiere settentrionali della Britannia e del limes germanico-retico,
dove i Catti dei monti Taunus erano penetrati negli Agri Decumates. Sembra che
Marco non fosse pronto ad affrontare simili problematiche poiché, come ricorda
il suo biografo, non aveva potuto maturare un'adeguata esperienza militare,
avendo trascorso l'intero periodo del regno di Antonino Pio in Italia e non
nelle province, al contrario dei suoi predecessori, come Traiano o Adriano. Scena
di guerra tra Romani e Parti, sul Monumento dei Parti a Efeso, celebrativo
delle vittorie di Lucio Vero e Marco Aurelio contro Vologese IV. Poco dopo
giunse la notizia che anche l'esercito del governatore provinciale della Siria
era stato sconfitto dai Parti e che si stava ritirando disordinatamente. Era
quindi necessario intervenire con grande rapidità, anche nella scelta dei
migliori ufficiali da inviare lungo quel settore dell'Impero così
strategicamente importante. Marco pose a capo della spedizione (expeditio
parthica) il fratello Lucio perché, come suggerisce Cassio Dione, era robusto e
più giovane del fratello Marco, più adatto all'attività militare. Birley
suggerisce che Marco volesse spingere Lucio ad abbandonare la vita dissoluta
che conduceva e a capire i suoi doveri. In ogni caso, il Senato diede il suo
assenso, e nell'estate del 162 Lucio partì, lasciando Marco Aurelio a Roma,
perché la città ha chiesto la presenza di un imperatore. Era però necessario
affiancare a Lucio un adeguato staff militare (comitatus), ampio e ricco di
esperienza, e che comprendesse anche uno dei due prefetti del pretorio: il
prescelto fu Tito Furio Vittorino. I rinforzi vennero inviati da numerose
province imperiali fino alla frontiera partica. Frattanto Marco si ritirò per
quattro giorni a Alsium, una nota località turistica sulle coste dell'Etruria,
ma le numerose preoccupazioni gli impedirono di rilassarsi. Egli scrisse allora
all'amico Frontone, dicendogli che avrebbe evitato di descrivergli nei
particolari quello che stava facendo a Alsium, perché sapeva che sarebbe stato
rimproverato. Frontone rispose ironicamente e lo incoraggiò a riposare,
prendendo esempio dai suoi predecessori: Antonino era stato un appassionato di
palaestra, di pesca e di teatro, Marco trascorreva invece gran parte delle sue
notti insonni a risolvere questioni giudiziarie. Dai loro scambi epistolari
sappiamo che Marco non riuscì a mettere in pratica i consigli di Frontone
poiché ho doveri che incombono su di me che difficilmente possono essere
delegati e rimandati, adducendo la sua devozione al dovere. Conclude
informandosi della salute dell'amico e salutandolo addio mio ottimo maestro,
uomo dal cuore buono. Frontone rispose qualche tempo dopo, inviando all'amico
una selezione di letture e, per rimediare al suo disagio per lo svolgimento
della guerra contro i Parti, una lunga e meditata lettera, piena di riferimenti
storici, indicata, nelle edizioni moderne sulle opere di Frontone, De bello
Parthico (Sulla guerra partica). Frontone scrive che, anche se in passato Roma
aveva subito pesanti sconfitte, alla fine i Romani avevano sempre prevalso sui
loro nemici: Sempre e ovunque Marte ha cambiato le nostre difficoltà in
successi e i nostri terrori in trionfi.[164] Il teatro delle
campagne militari orientali di Lucio Vero Intanto Lucio, partito dall'Italia e
giunto dopo un lungo viaggio in Siria, fece di Antiochia il suo "quartier
generale", trascorrendo gli inverni a Laodicea e le estati a Daphne. Durante
la guerra, nel periodo autunnale/invernale del 163 o del 164, Lucio andò a
Efeso per sposarsi con Lucilla, secondo quanto stabilito da Marco, nonostante
circolassero voci sulle sue amanti, in particolare su una certa Panthea, donna
di umili origini. Lucilla aveva circa quindici anni e venne accompagnata dalla
madre Faustina, insieme a uno zio di Lucio, Marco Vettuleno Civica Barbaro,
nominato per l'occasione comes Augusti. Marco che avrebbe voluto accompagnare
la figlia fino a Smirne, in realtà non andò oltre Brindisi. Una volta tornato a
Roma, inviò istruzioni specifiche ai governatori provinciali affinché non
preparassero alcun ricevimento ufficiale. La capitale armena Artaxata, venne
presa nel 163 e alla fine di quello stesso anno Lucio assunse il titolo di
Armeniacus, pur non avendo mai partecipato direttamente alle operazioni
militari, mentre Marco si rifiutò di accettare l'appellativo fino all'anno
successivo. Al contrario, quando Lucio venne acclamato imperator, anche Marco
accettò la sua seconda salutatio imperatoria. Le armate romane si attestarono
stabilmente in Armenia e l'ex console di origine emesana, Gaio Giulio Soemo,
venne incoronato re tributario d'Armenia, con l'assenso di Marco. Vide le
armate romane entrare vittoriose in Mesopotamia, dove posero sul trono il re
vassallo Manno. Avidio Cassio raggiunse le metropoli gemelle della Mesopotamia:
Seleucia, sulla riva destra del Tigri, e Ctesifonte su quella sinistra.
Entrambe le città vennero occupate e date alle fiamme. Cassio, nonostante la
penuria di rifornimenti e i primi effetti della peste contratta a Seleucia,
riuscì a riportare indietro e in buon ordine la sua armata vittoriosa. Lucio
venne così acclamato Parthicus Maximus, mentre insieme a Marco venne salutato
nuovamente imperator, ottenendo la sua seconda acclamazione imperiale. Ancora
Avidio Cassio invase il paese dei Medi, al di là del Tigri, permettendo a Lucio
di fregiarsi del titolo vittorioso di Medicus, mentre Marco otteneva la IV
salutatio imperatoria e il titolo di Parthicus Maximus. I Parti si ritirarono
nei loro territori, a oriente della Mesopotamia. Marco sapeva di dover
ascrivere il maggior merito della vittoria finale allo staff militare del
fratello Lucio. Tra i comandanti romani si distinse Gaio Avidio Cassio, legatus
legionis della III Gallica, una delle legioni siriane. Al ritorno dalla
campagna, a Lucio venne tributato un trionfo (12 ottobre del 166). La parata
risultò insolita perché comprendeva i due imperatori, i loro figli e le figlie
nubili, come una grande festa di famiglia. Nell'occasione Marco elevò i due
figli, Commodo di cinque anni e Marco Annio Vero di tre al rango di Cesare (il
gemello di Commodo, Fulvio Antonino, era morto l'anno precedente).[176]
Scambi commerciali con l'Oriente Magnifying glass icon mgx2.svgRelazioni
diplomatiche sino-romane. Proprio durante la guerra partica Marco potrebbe aver
favorito l'apertura di nuove vie commerciali con l'Estremo Oriente. Si ricorda,
infatti, negli annali del "Celeste impero", un'ambasceria inviata
presso l'Imperatore cinese della dinastia Han, Huandi (nel 166), nella quale i
Cinesi chiamarono l'imperatore romano col nome di Ngan-touen o Antoun. Ciò
sembra confermare che tale ambasceria (forse composta da soli mercanti), sia
giunta in Estremo Oriente proprio durante il regno di Marco Aurelio o del suo
predecessore, Antonino Pio, in quanto Antoun equivarrebbe in lingua cinese al
nome latino della famiglia imperiale degli "Anto[u]n-ini". Statua di
Marco Aurelio in uniforme militare (Museo del Louvre, Parigi). Marcomanni
e Sarmati nel 178 Il figlio adottivo di Frontone, Gaio Aufidio Vittorino, venne
inviato, dal 162 al 166, a governare la provincia della Germania superiore, ove
si trasferì con l'intera famiglia (a parte un figlio che rimase a Roma con i
nonni). La situazione lungo la frontiera settentrionale si presentava
estremamente difficile. Una postazione lungo gli Agri Decumati era stata
distrutta e sembra che molte delle popolazioni dell'Europa centrale e
settentrionale fossero in fermento. Regnava, inoltre, molta corruzione tra gli
ufficiali romani: Vittorino fu costretto, infatti, a chiedere le dimissioni di
un legatus legionis che aveva preso tangenti e numerosi governatori esperti
vennero sostituiti da amici e parenti della famiglia imperiale. Le tribù
germaniche e altri popoli nomadi avevano iniziato le prime incursioni lungo i
confini settentrionali romani, in particolare in Gallia e sul Danubio. Questo
nuovo slancio verso occidente era causato dalle pressioni che subivano a loro
volta dalle tribù germaniche più orientali e settentrionali. Una prima
invasione di Catti nella Germania superiore era stata respinta nel 162. Molto
più pericolosa fu l'invasione del 166, quando i Marcomanni della Boemia,
clienti dell'impero romano dal 19 (ma ribelli sotto Domiziano, che vi scatenò
contro un'offensiva), attraversarono il Danubio, insieme a Longobardi e altre
tribù germaniche. Contemporaneamente, i Sarmati Iazigi attaccarono i territori compresi
tra il Danubio e il fiume Tibisco. Secondo la Historia Augusta, conclusa la
guerra partica, scoppiava così quella contro i Marcomanni, una coalizione di
natura militare, composta da una decina di popolazioni germaniche e sarmatiche
(dai Marcomanni propriamente detti della Moravia, ai Quadi della Slovacchia,
dalle popolazioni vandaliche dell'area carpatica, agli Iazigi della piana del
Tibisco, fino ai Buri di stirpe suebica del Banato). Era la naturale
conseguenza di una serie di forti agitazioni interne e dei continui flussi
migratori che avevano ormai modificato gli equilibri con il vicino Impero
romano. Questi popoli erano alla ricerca di nuovi territori dove insediarsi,
sia in conseguenza della forte spinta che subivano da altre popolazioni, sia per
il continuo aumento demografico della Germania Magna. Erano, inoltre, attratti
dalle ricchezze e dalla vita agiata del mondo romano. In quel periodo la
frontiera danubiana non poteva contare su buona parte dei suoi effettivi, sia
perché molte legioni avevano dovuto destinare consistenti distaccamenti alla
guerra partica, sia perché la grave epidemia di peste aveva falcidiato numerosi
reparti. Tale epidemia avrebbe causato una catastrofe demografica prolungatasi
per oltre un ventennio e paragonabile a quella causata dalla peste nera. Nel
166/167 avvenne il primo scontro lungo il limes pannonicus ad opera di poche
bande di predoni longobardi e osii che, grazie al sollecito intervento delle
truppe di confine, furono prontamente respinte. La pace stipulata con le
limitrofe popolazioni germaniche a nord del Danubio fu gestita direttamente
dagli stessi imperatori, Marco e Lucio, ormai diffidenti nei confronti dei
barbari aggressori, recatisi pertanto fino alla lontana fortezza legionaria di
Carnunto (nel 168).[184] Al ritorno dalla campagna partica l'esercito
portò con sé una terribile pestilenza, in seguito conosciuta come la
"peste antonina" o "peste di Galeno", che si diffuse a
partire dalle fine del 165 per quasi un ventennio, mietendo milioni di vittime
e riducendo drasticamente la popolazione dell'Impero romano. Qualche anno dopo
la malattia, una pandemia che oggi si ritiene potesse invece essere vaiolo o
morbillo,[185] avrebbe finito per reclamare la vita dei due imperatori stessi.
La malattia scoppiò di nuovo, nove anni più tardi, secondo Dione, e causò fino
a 2.000 morti al giorno a Roma, infettando fino a un quarto dell'intera
popolazione. I decessi totali sono stati stimati in cinque milioni. La colonna
di Marco Aurelio o colonna antonina, fatta costruire dal figlio Commodo Dopo
che la morte colse Lucio agli inizi del 169 (secondo la Historia Augusta in
seguito ad un attacco apoplettico che lo colpì non molto distante da
Aquileia,[187] mentre autori moderni sostengono che il decesso, forse causato
dalla stessa peste, sopraggiunse mentre era impegnato in nuove manovre militari
lungo il limes danubiano), Antonino si trova ad affrontare da solo i barbari
ribelli e con decisione, piuttosto che imporre nuove tasse ai provinciali,
organizzò una vendita all'asta nel Foro di Traiano degli oggetti preziosi
appartenenti al patrimonio imperiale, tra cui coppe d'oro e di cristallo,
vasellame regale, vesti di seta, trapunte d'oro appartenuti anche all'augusta
moglie, oltre a una raccolta di gemme trovata in un forziere di Adriano. In
quell'anno Marco diede alla figlia Lucilla, rimasta vedova di Vero, un nuovo
marito, il fedele Claudio Pompeiano, un militare esperto e affidabile, premiato
in seguito con il consolato, nel 173. Marco avrebbe voluto associarlo al trono,
al posto dello scomparso Lucio Vero, conferendogli perlomeno il titolo di
Cesare, ma egli rifiutò sempre la porpora imperiale. Frattanto lungo il fronte
settentrionale, i Romani subirono un paio di pesanti sconfitte contro le
popolazioni di Quadi e Marcomanni le quali, una volta penetrate lungo la via
dell'ambra e attraversate le Alpi, devastarono Opitergium (Oderzo) e
assediarono Aquileia, il cuore della Venetia, la principale città romana del
nord-est dell'Italia. Questo evento provocò un'enorme impressione: era dai
tempi di Mario che una popolazione barbara non assediava dei centri del nord
Italia.[192] Contemporaneamente la popolazione dei Costoboci, proveniente
dalla zona dei Carpazi orientali, aveva invaso la Mesia e la Macedonia,
spingendosi fino in Grecia, dove riuscì a saccheggiare il santuario di Eleusi.
Dopo una lunga lotta, Marco riuscì a respingere gli invasori. Numerosi barbari
germanici vennero allora stabiliti nelle regioni di frontiera come la Dacia, le
due Pannonie, le due Germanie e la stessa Italia. E sebbene ciò non costituisse
una novità, Marco si adoperò per creare sulla riva sinistra del Danubio, tra
l'odierna Repubblica Ceca e l'Ungheria, due nuove province di frontiera
chiamate Sarmazia e Marcomannia. Quelli che erano stati insediati a Ravenna si
ribellarono e riuscirono a impadronirsi della città. Per questo motivo, Marco
non portò mai più nessun altro barbaro in Italia, e mise al bando quelli che
qui si erano stabili ti in precedenza. Marco fu così costretto a
combattere una lunga ed estenuante guerra contro le popolazioni barbariche del
Nord, prima respingendole e "ripulendo" i territori della Gallia
Cisalpina, del Norico e della Rezia, poi contrattaccando con una massiccia
offensiva in territorio germanico e sarmatico, in scontri prolungatisi per
diversi anni. L'imperatore, in seguito a questi conflitti, poté fregiarsi dei
cognomina Germanicus (172) e Sarmaticus (175), ma contestualmente abbandonò
ufficialmente i titoli Armeniaco, Medico e Partico, che non volle più tenere dopo
la morte di Lucio Vero, giacché andava a quest'ultimo il merito del loro
conseguimento;[195] tuttavia egli, per via dell'impegno profuso lungo il fronte
pannonico, non riuscirà più a far ritorno a Roma. Dione e gli altri
biografi raccontano anche alcuni episodi particolari della guerra, come il
cosiddetto miracolo della pioggia, rappresentato anche nella scena XVI sulla
colonna di Marco Aurelio.[196] I Romani, circondati dai Quadi in territorio
nemico, si salvarono a stento da un possibile nuovo disastro. L'evento fu
utilizzato dagli apologeti cristiani per sostenere che non sarebbero state le
preghiere dell'imperatore a ottenere la pioggia in favore dei soldati romani
assetati, ma quelle di alcuni legionari di fede cristiana.[197] Sempre
nel 172-173 scoppiò una violenta rivolta in Egitto, guidata dal sacerdote
Isidoro, che arrivò a minacciare la stessa città di Alessandria. L'intervento
di Gaio Avidio Cassio e le discordie interne ai rivoltosi portarono alla fine
del conflitto entro breve tempo[198]. Rivolta di Cassio (175) Magnifying
glass icon mgx2.svgAvidio Cassio § La ribellione. Nel 175, mentre preparava una
nuova campagna contro le popolazioni della piana del Tibisco, l'imperatore fu
raggiunto dalla notizia che il governatore della Siria, Avidio Cassio, uno dei
migliori comandanti militari romani, alla falsa notizia della sua morte, si era
autoproclamato imperatore. Secondo quanto ci tramandano sia Cassio Dione che la
Historia Augusta, Avidio Cassio accettò la porpora imperiale per volere di Faustina,
poiché la stessa credeva che Marco stesse per morire e temeva che l'impero
potesse cadere nelle mani di qualcun altro, visto che Commodo era ancora troppo
giovane. Cassio venne acclamato imperator dalla Legio III Gallica mentre la
gran parte delle province orientali, escluse Cappadocia e Bitinia, si
schieravano a fianco dei ribelli. All'inizio Marco cercò di tenere
segreta la notizia dell'usurpazione, ma quando fu costretto a renderla
pubblica, di fronte all'agitazione dei soldati si rivolse loro con un discorso
(adlocutio) rivelando di voler evitare inutili spargimenti di sangue tra
Romani. Ma dopo soli tre mesi, quando la notizia della morte di Marco si rivelò
ufficialmente falsa, il Senato romano proclamò Cassio hostis publicus, nemico
dello stato e del popolo romano e Avidio fu ucciso dai suoi stessi soldati. La
testa dell'usurpatore fu portata a Marco, come testimonianza dell'uccisione, ma
l'imperatore, che avrebbe voluto dimostrargli il suo perdono e salvarlo, non
esultò, al contrario esclamò: Mi è stata tolta un'occasione di clemenza: la
clemenza, infatti, dà soprattutto prestigio all'imperatore romano agli occhi
dei popoli. Io però risparmierò i suoi figli, il genero e la moglie, lasciando
metà del patrimonio paterno ai figli di Avidio Cassio, e donando una grande
quantità di oro, di argento e di gemme alla figlia.[200] Viaggio in
Oriente (175-176) Marco Aurelio: aureo[201] MARCUS AURELIUS RIC III 357-159422M
ANTONINVS AVG GERM SARM, testa laureata con corazza e paludamentumTR P XXX IMP
VIII COS III, la Felicitas con caduceo e scettro AV (7,33 g); coniato nel 176
Nell'ultimo decennio di regno, mentre si trovava lungo i confini settentrionali
imperiali, Marco scrisse i Colloqui con sé stesso, tornando di rado a Roma.
Insieme alla moglie Faustina, al figlio Commodo, al seguito composto dai
comites del consilium principis e a un ingente esercito, Marco visitò le
province orientali nel 175-176.[202] Partito da Sirmio nel luglio del 175, dopo
essere passato per Bisanzio, Nicomedia, Prusias ad Hypium e per Ancyra, giunse
a Tarso, sostando in Cilicia dove, secondo Dione, molti si erano schierati
dalla parte di Avidio. Poco dopo aver passato la località di Tanya, Faustina
morì in circostanze poco chiare in un villaggio di nome Halala, sito in
Cappadocia ai piedi dei Monti Tauri. Cassio Dione riporta alcune versioni sulla
morte dell'Augusta: una prima ipotizza il suicidio, motivato dall'aver stretto
accordi per la successione con Avidio Cassio; una seconda chiama in causa la
gotta; una terza vedrebbe Faustina morire di parto dopo un'ennesima gravidanza
all'età di quarantacinque anni. Dopo la morte venne divinizzata ufficialmente
con degne cerimonie a Roma, per volere del Senato. L'Augusta, che aveva spesso
accompagnato il marito in guerra, era stata la prima delle imperatrici romane a
essere insignita del titolo di mater castrorum.[204] Halala, il villaggio dove
era morta, venne rinominato "Faustinopolis". In suo onore furono
istituiti collegi di sacerdotesse e create le puellae Faustinianae, in ricordo
dell'istituzione benefica sorta in memoria della madre, la moglie di Antonino
Pio, istituzione che si occupava di fanciulle orfane della penisola
italica.[204] Le fonti antiche, in contrasto coi Ricordi di Marco Aurelio,
spesso accusarono Faustina di dissolutezza e di aver ripetutamente tradito il
marito, con marinai e gladiatori, tanto che da una di queste relazioni sarebbe
nato Commodo, secondo una diceria riportata dal biografo della Historia
Augusta. Dopo questa ennesima disgrazia famigliare, il princeps ripartì per la
Siria, forse fermandosi a visitare la città di Antiochia (che si era schierata
con Cassio), perdonandone i suoi abitanti, e qui potrebbe avervi svernato,
incontrando alcuni personaggi locali come il patriarca Giuda I. Riprese,
quindi, il suo viaggio per giungere nell'estate nel 176 in Egitto, dove
ricevette una delegazione dei Parti. Nel viaggio di ritorno dall'Oriente, dopo
essersi imbarcato per l'Asia Minore, passò per Efeso, poi Smirne (dove incontrò
Elio Aristide) e, da ultimo, Atene, dove il filosofo cinico Zenone aveva
fondato la scuola stoica, sotto il famoso portico dipinto, dichiarandosi
"protettore della filosofia". Istituì quattro cattedre permanenti di
studio, finanziandole, una per ogni principale scuola filosofica: platonici,
aristotelici, epicurei e stoici.[209] In Grecia prese parte anche ai riti dei
misteri eleusini.Durante il tragitto lungo l'Asia Minore e la tappa a Atene si
rivolsero a Marco Aurelio e a Commodo anche alcuni padri apologisti cristiani. Decise
di associare al trono imperiale il figlio Commodo, l'unico maschio superstite
tra i suoi figli (dopo la morte del giovane Marco Vero Cesare e quella di
alcuni nipoti), nominandolo Augusto e concedendogli la tribunicia potestas e
l'imperium, benché avesse nei confronti del figlio alcune perplessità.[214]
Marco celebrò, quindi, il matrimonio di Commodo con Bruzia Crispina. A Roma, si
dedicò ad amministrare la giustizia, cercando di riparare a torti e abusi del
passato; dispose la celebrazione di giochi circensi, mettendo però un limite di
spesa a quelli gladiatorii. Il 23
dicembre del 176, Marco, che aveva battuto le popolazioni germaniche e
sarmatiche a nord del medio corso del Danubio, ottenne per decreto del Senato
romano il trionfo insieme al figlio Commodo, da poco nominato Augusto. In suo
onore venne eretta una statua equestre, tuttora custodita nel Palazzo dei
Conservatori. Offensiva finale in Marcomannia e Sarmatia (177-180)
L'impero romano alla fine del regno di Marco Aurelio, nel 180 L'apparente
tregua sottoscritta con le popolazioni germaniche, in particolare Marcomanni,
Quadi e Iazigi, durò però solo un paio d'anni, fino al 177. Il 3 agosto del 178
Marco fu infatti costretto a marciare ancora una volta verso la frontiera
danubiana, a seguito di una nuova sollevazione dei Marcomanni. Non sarebbe mai
più tornato a Roma. Egli fece della fortezza legionaria di Brigetio il suo
nuovo quartier generale e da qui condusse l'ultima campagna nella primavera
successiva del 179, che aveva come obiettivo quello di occupare stabilmente
parte della Germania Magna (Marcomannia) e della Sarmatia.[219] Si racconta
infatti che: «I Quadi essendo poco disposti a sopportare la presenza di
forti romani costruiti nel loro territorio tentarono di migrare tutti insieme
verso le terre dei Semnoni. Ma Marco Aurelio Antonino che ebbe queste
informazioni in anticipo della loro intenzione di partire per altri territori,
decise di chiudere loro tutte le vie di fuga, impedendo la loro
partenza.» (Cassio Dione, 72, 20.2.) Dopo una vittoria decisiva nel 178,
il piano per annettere la Moravia e la Slovacchia occidentale (Marcomannia),
per porre fine una volta per tutte alle incursioni germaniche, sembrava avviato
al successo, ma venne abbandonato dopo che Marco Aurelio si ammalò gravemente
nel 180, forse anch'egli colpito dalla peste che affliggeva l'impero da anni. La
sua salute, da sempre fragile e in costante declino, sembra lo costringesse a
fare uso anche di oppio per alleviare il dolore persistente che lo affliggeva
da anni allo stomaco, rimedio prescritto dallo stesso Galeno.[221] Morte
(180) Eugène Delacroix, Ultime parole dell'imperatore Marco Aurelio, una
rappresentazione moderna della morte di Marco: l'imperatore, al centro, siede a
letto, circondato da amici e dignitari, e stringe il braccio di Commodo (a
destra), vestito di rosso, sbarbato e abbigliato in maniera orientaleggiante,
con orecchini e una corona, e che appare distante e poco interessato. «Uomo,
sei stato cittadino in questa grande città: che ti importa se per cinque anni o
per cento? Quel che è secondo le leggi ha per ognuno pari valore. Che c'è di
grave allora se dalla città ti espelle non un tiranno o un giudice ingiusto, ma
la natura che ti ci aveva introdotto? (...) A stabilire che il dramma è
completo infatti è chi allora fu responsabile della composizione, ora del
dissolvimento; tu invece non sei responsabile né dell'una né dell'altro. Quindi
parti sereno: chi ti congeda è sereno.» (Marco Aurelio, 12.36.) Marco
Aurelio muore nella città-accampamento di Vindobona (Vienna).[19] Secondo
invece quanto riferisce Tertulliano, uno storico e apologeta cristiano suo
contemporaneo, sarebbe invece deceduto sul fronte sarmatico, non molto distante
da Sirmio (odierna Sremska Mitrovica, nell'attuale Serbia),[20] che fungeva da
quartier generale invernale delle sue truppe, in vista dell'ultimo assalto. Il
Birley ritiene infatti che Marco potrebbe essere morto a Bononia sul Danubio
(che per assonanza ricorda la località di Vindobona), venti miglia a nord di
Sirmio. Iniziando a stare male, chiamò Commodo al capezzale e gli chiese per
prima cosa di concludere onorevolmente la guerra, affinché non sembrasse che
lui avesse "tradito" la Res publica. Il figlio promise che se ne
sarebbe fatto carico, ma che gli interessava prima di tutto la salute del padre.
Chiese pertanto di poter aspettare pochi giorni prima di partire. Marco,
sentendo che i suoi giorni erano alla fine e il dovere compiuto, accettò da
stoico una morte onorevole, astenendosi dal mangiare e bere, e aggravando così
la malattia per permettergli di morire il più rapidamente possibile. Il sesto
giorno, chiamati gli amici e deridendo le cose umane disse loro: perché
piangete per me e non pensate piuttosto alla pestilenza e alla morte comune? Se
vi allontanerete da me, vi dico, precedendovi, statemi bene. Mentre anche i
soldati si disperavano per lui, alla domanda su a chi affidasse il figlio,
rispose ai subordinati: a voi, se ne sarà degno, e agli dèi immortali. Nel
settimo giorno si aggravò e ammise brevemente solo il figlio alla sua presenza,
ma quasi subito lo mandò via, per non contagiarlo. Uscito Commodo, coprì il
capo come se volesse dormire, come il padre Antonino Pio, e quella notte
morì.[224] Cassio Dione aggiunge che la morte avvenne "non a causa della
malattia per cui stava ancora soffrendo, ma a causa dei medici che, come ho
chiaramente sentito, volevano favorire l'ascesa di Commodo", anche se
secondo il Birley, "è inutile avanzare ipotesi". Officiato il
funerale, venne cremato, e fu immediatamente divinizzato, mentre le sue ceneri
furono portate a Roma e deposte nel mausoleo di Adriano, che divenne così il
sepolcro di famiglia da Adriano a Commodo e, forse, anche per alcuni imperatori
successivi, finché il sacco visigoto della città lo danneggiò gravemente. Le
sue campagne vittoriose contro Germani e Sarmati furono commemorate con la
costruzione della Colonna Aureliana e di un tempio. Marco Aurelio aveva
stabilito che a succedergli fosse il figlio Commodo, che già aveva nominato
Cesare nel 166 e poi Augusto (co-imperatore). Questa decisione, che mise di
fatto fine alla serie dei cosiddetti "imperatori adottivi", venne
fortemente criticata dagli storici successivi, poiché Commodo non solo era
estraneo alla politica e all'ambiente militare, ma fu inoltre descritto, già in
giovane età, come estremamente egoista e con gravi problemi psichici,
appassionato in maniera eccessiva di giochi gladiatorii (a cui lui stesso
prendeva parte), passione ereditata dalla madre. Marco Aurelio riteneva,
a torto, che il figlio avrebbe abbandonato quel genere di vita così poco adatto
a un princeps, assumendosi le necessarie responsabilità nel governare un Impero
come quello romano, ma così non fu. A conclusione del principato di Marco
Aurelio, Cassio Dione scrisse un elogio all'imperatore, pur descrivendo il passaggio
a Commodo con dolore e rammarico. Marco non ebbe la fortuna che meritava,
perché non era fisicamente forte e poiché dovette affrontare, per la durata del
suo regno, numerose difficoltà. Proprio per questo motivo lo ammiro
maggiormente, in quanto egli, in mezzo a difficoltà insolite e straordinarie,
non solo sopravvisse ma salvò l'impero. Solo una cosa lo rese infelice, il
fatto che, dopo aver dato l'educazione migliore possibile al figlio, questi
deluse le sue aspettative. Questa materia deve essere il nostro prossimo
argomento, dato che da quel periodo dei Romani deriva oggi la nostra storia,
decaduta da un regno d'oro a uno di ferro e ruggine.» (Cassio Dione, 72,
36.3-4.) Carattere e pensiero filosofico Magnifying glass icon mgx2.svgColloqui
con sé stesso, Pensiero di Marco Aurelio e Letteratura greca alto
imperiale. Statua equestre di Marco Aurelio (Roma, Musei capitolini)
Marco Aurelio fu l'ultimo grande esponente dello Stoicismo. Marco scrisse i
Colloqui con sé stesso, come esercizio per il proprio orientamento e
auto-miglioramento. Il titolo è stata un'aggiunta postuma, originariamente
Marco intitolò l'opera “A se stesso”, ma non si sa se avesse intenzione di
renderla pubblica. Il saggio è considerato uno dei capolavori filosofici di
tutti i tempi. Sii come il promontorio contro cui si infrangono incessantemente
i flutti: resta immobile e intorno ad esso si placa il ribollire delle acque.
«Me sventurato, mi è capitato questo». Niente affatto! Semmai: «Me fortunato,
perché anche se mi è capitato questo resisto senza provar dolore, senza farmi
spezzare dal presente e senza temere il futuro». Infatti una cosa simile
sarebbe potuta accadere a tutti, ma non tutti avrebbero saputo resistere senza
cedere al dolore. Allora perché vedere in quello una sfortuna anziché in questo
una fortuna?» (Marco Aurelio, 4.49.) Politica religiosa e atteggiamento
nei confronti dei cristiani Magnifying glass icon mgx2.svgPersecuzione dei
cristiani sotto Marco Aurelio. Sebbene Marco abbia da sempre seguito la linea
indulgente degli imperatori Adriano e Antonino Pio, che continuò nei confronti
dei culti ammessi, è elencato tra gli imperatori persecutori dei cristiani.
Molti disordini si verificarono sotto il regno di Marco Aurelio, segnato da
epidemie, carestie e invasioni e più volte le folle diedero la caccia ai
cristiani, ritenuti responsabili di tutto (per aver causato la collera degli
dèi, avendoli negati), e i martiri furono numerosi. Marco Aurelio,
personalmente, non mostrò esplicito disprezzo per i cristiani, né li considerò
un vero pericolo, ma piuttosto dei fanatici.[229][230] Monetazione
imperiale del periodo Magnifying glass icon mgx2.svgMonetazione degli Antonini.
Il prototipo di statua equestre è senza alcun dubbio la statua equestre di Marco
Aurelio. In precedenza l’opera bronzea si trovava nella piazza del Campidoglio
a Roma, prima di essere sostituita da una copia e trasferita nell’adiacente
Palazzo dei Conservatori. Historia Augusta, Cassio Dione, Aurelio Vittore, De
Caesaribus, 16. Tertulliano, 25. Grant 1996,27. Testo per esteso dell'epigrafe: Imperator
Caesar Marcus Aurelius Antoninus Augustus.
Il luogo della morte è incerto tra Sirmio o Vindobona: Tertulliano, 25:
(LA) «[...] cum M. Aurelio apud Sirmium rei publicae exempto die sexto decimo
Kalendarum Aprilium [...]» «essendo stato Marco Aurelio strappato allo
Stato a Sirmio il 17 marzo.» Aurelio Vittore, De Caesaribus, 16.14: (LA)
«Ita anno imperii octavo decimoque aevi validior Vendobonae interiit, maximo
gemitu mortalium omnium» «Il diciottesimo anno del suo governo, tra grandi
lamenti, il più forte e più grande di tutti gli uomini morì a Vindobona»
Riportato invece così in Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus, 16.12
(compendio, più tardo, della stessa opera di Vittore, attribuita a lui stesso,
ma con molta incertezza): (LA) «Ipse vitae anno quinquagesimo nono apud
Bendobonam morbo consumptus est» «Egli stesso, nel cinquantanovesimo anno
della sua vita, venne consumato da una malattia a Vindobona.» Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1.9;
McLynn 2009,24. Cassio Dione, 69, 21.1.
Asse della zecca di Roma antica (del 151-152), RIC, III, 1308a
(Antoninus Pius); BMCRE,1917; Cohen, Cassio Dione, 72, 11.3-5. Machiavelli 1531, I.10. Gibbon 1776-1789, capitolo I: Estensione e
forza militare dell'Impero nel secolo degli Antonini; in particolare I.78, in
cui l'autore descrive il buon governo degli imperatori adottivi; inoltre,273
nota 4 del testo disponibile su Google libri, in cui usa l'espressione
"good emperors". Cassio Dione, 72, 14.3-4. Il libro completo,
che parla dell'epidemia avvenuta sotto Marco Aurelio, è andato perduto; questa
nuova epidemia fu la più grave che lo storico avesse mai visto, a quanto narra
nella "vita di Marco Aurelio".
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 12.13, 17.1-2 e 22.1-8. Renan 1937.
Tra questi vi furono: Marco Aurelio Probo (CIL XI, 1178), Marco Aurelio
Mario (imperatore nelle Gallie), Marco Aurelio Caro e Marco Aurelio Carino (CIL
VIII, 10956), oltre a due imperatori suoi omonimi, Caracalla (AE 1911, 56) ed
Eliogabalo (il cui nome imperiale ufficiale era "Marco Aurelio
Antonino"; CIL VI, 40677 e AE 1990, 469) e che furono i primi, pur non
appartenendo alla dinastia antonina, ad usare il suo nome. Questi ultimi due,
in particolare, come già il padre di Caracalla, Settimio Severo, che aveva
riabilitato la memoria di Commodo, divinizzandolo e rimuovendo la damnatio
memoriae imposta dal Senato, e dato al figlio il nome di Marco Aurelio,
cercavano un collegamento diretto con gli Antonini al fine di nobilitare le
loro origini africane e asiatiche, quindi provinciali. Inoltre, una delle mogli
di Eliogabalo era una nipote di Marco Aurelio stesso, Annia Faustina. Il nome
Marco Aurelio divenne, quindi, un nome di famiglia dei Severi e, come «Cesare»,
«Augusto» e, più tardi, «Flavio», venne utilizzato come prenome imperiale da
molti altri. Birley 1990,317-318.
Birley 1990,269 ss. Birley
1990,316. Birley 1990,313-319. CIL II, 656 (p 696). Birley 1990,31. Historia Augusta, Marcus Aurelius, Birley
1990,32-34. McLynn 2009,14. Birley
1990,34. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1.5. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1. Poiché suo fratello Marco Annio Libone è
stato console nel 128 e difficilmente potrebbe essere stato pretore più tardi
del 126, Annio Vero deve essere stato a sua volta pretore prima di questa data,
verosimilmente, appunto, nel 124. Birley
1990,34-35; Marco Aurelio, 1.2 Birley
1990,36-37; Tacito, Dialogus de oratoribus, 28-29; Marco Aurelio, 5.4. Marco Aurelio, 1.3. Birley 1990,40; Marco Aurelio, 1.17.7. Birley 1990,35; Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 2.1; Marco Aurelio, 1.14.
Birley 1990,39; Marco Aurelio, 1.1.
Marco Aurelio, 1.17; Birley 1990,39.
Marco Aurelio, 1.4. Marco Aurelio,
1.6. Norelli,75 Marco Aurelio, 1.6;
Birley 1990,43. Marco Aurelio, 1.10 e
1.12; Birley 1990,46. Birley
1990,51-52. Guido Clemente
2008,629-630. Birley 1990,55 ss.
Guido Clemente 2008,630. Birley 1990,69.
Birley 1987,38-42. Birley, Cassio
Dione, 69, 22.4; Historia Augusta, Hadrianus, 25.5-6 Cassio Dione, 69, 22.1-4; Historia Augusta,
Hadrianus, 24.8-13. Birley 1990,63-66;
Grant 1996,12. Birley 1990,63.
Mazzarino 1973,328. Marco Aurelio, 6.30:
"Bada di non cesarizzarti, di non impregnarti con la porpora: succede
infatti". Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 6.5; Birley 1990,67-68. Marco
Aurelio, 1.16. Marco Aurelio,
5.16. Birley 1990,68. Marco
Aurelio, 8.9. Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 2.4 e 3.6. Birley
1990,108. Frontone, Ad Marcum Caesarem
4.8 (trad. da Haines 1.184 ss.). Cassio
Dione, 71, 36.3. Grant 1996,24. Birley 1990,110-111. Marco Aurelio, 1.11. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 2.4;
Cameron 1967,347. Aulo Gellio, 9, 2.1–7
e 19.12; Birley 1990,76-78. Birley
1990,65-67; molti critici moderni hanno avuto dubbi per l'ammirazione dei
contemporanei. Filologi di fama espressero numerose critiche: Barthold Georg
Niebuhr, lo descrisse "frivolo", Samuel Adrian Naber lo trovò
"disprezzabile" (Champlin 1980, capp. 1-2); altri lo hanno definito
"pedante e noioso", scrivendo che le sue lettere non offrono né
l'analisi politica di un Cicerone né l'introspezione di un Plinio (Mellor 1982
commentando Champlin 1980); una ricerca prosopografica degli anni '80 ha
riabilitato, almeno in parte, la sua reputazione, cfr. ad esempio, sempre Mellor
1982 su Champlin 1980. Birley 1990,88
ss. Birley 1990,78. Birley 1990,113. Birley 1990,114 ss. Birley 1990,83 ss.; Marco Aurelio, 1.8. Marco ricorda Epitteto come una guida
spirituale, facendo spesso riferimento alle sue Diatribe e al Manuale come ad
esempio in Marco Aurelio, 11.34, dove lo cita e ne commenta alcune
massime. Birley 1990,336-339.
Birley 1990,126 ss. Champlin
1980,174 n. 12. Frontone, Ad Marcum
Caesarem 4.11 (trad. da Haines 1.202 ss.). Birley 1990,130-132. Marco Aurelio, 9.40. RIC, III 682
(Aurelius); MIR, 18, 13-2a; Calicó, 2055 (moneta illustrata); BMCRE,399
note. Inscriptiones Graecae ad Res
Romanas pertinentes, 4.1399, tradotta da Birley 1990,140. Birley 1990,205 e 339. Historia Augusta, Lucius Verus, 2.9-11 e
3.4-7; Birley 1990,132-133. Forse in
omaggio ai filosofi greci o a causa di una cicatrice (cfr. Melani, Fontanella e
Cecconi,58). Bianchi Bandinelli e
Torelli 1976, scheda 131 (ritratti di Adriano).
Birley 1990,137-138. Birley 1990,140. Cassio Dione, 71, 33.4-5. Historia Augusta, Antoninus Pius,
12.4-8. Birley 1990,142; Historia
Augusta, Pertinax, 13.1 e 15.8 Birley 1990,142-143. Historia Augusta, Lucius Verus, 4.2. Historia Augusta, Marcus Aurelius,
15-16. Historia Augusta, Lucius Verus,
3.8; Birley 2000,156 Historia Augusta,
Marcus Aurelius, 7.9. Savio
2001,331. Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 7.10-11; Historia Augusta, Antoninus Pius, 12.8; Birley
1990,144-145. Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 19.1-2; Birley 1990,145.
Historia Augusta, Commodus, 1.2. Birley 1990,145-147. Birley 1990,145-146 cita Mattingly 1940,
Marcus Aurelius and Lucius Verus, nos. 155 ss.; 949 ss. Cassio Dione, 71.1, 3; 73.4.4–5. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.1.
Birley 1990,150. Historia Augusta,
Marcus Aurelius, 8.8; Birley 1990,151 cita Eck 1995,65 ss. Vittorino minore fu console assieme al nipote
di Marco Aurelio, Tiberio Claudio Severo Proculo nel 200 (AE 1996, 1163 e CIL
III, 8237). Birley cita Frontone, Ad Verum Imperator 1.3.2 (trad.
da Haines 1.298 ss.). Frontone, Ad
Antoninum Imperator 4.2.3 (trad. da Haines 1.302 ss.). Birley 1990,148
ss. Historia Augusta, Marcus Aurelius,
8.4-5. Birley 1987,278. Birley
1990,158 ss. Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 8-10 e 12. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 10. Pulleyblank 1999. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 11.
La grandiosa colonna di Marco Aurelio di fronte a Palazzo Chigi (alta 42
m) fu eretta per ricordare proprio le vittorie sul fronte germanico-sarmatico del
Danubio. La colonna era sormontata da una statua dell'Imperatore, dove ora è
posta quella di san Paolo, così come accadde per la colonna di Traiano, dove
venne posizionata una statua di san Pietro in sostituzione di quella
dell'Optimus princeps), in Coarelli 2008,42-43.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 17 e 23. Renan, Eusebio, 5.1.77. Codice Giustinianeo, Digesto, 1, 18, 13. Codice Giustinianeo, Digesto, XVIII,
1,42. Historia Augusta, Marcus Aurelius,
24.1-3. Codice Giustinianeo, Digesto,
XLVIII, 9, 9, 2. Codice Giustinianeo,
Digesto, XXXI, 67.10: «Item Marcus imperator […] et ideo princeps
providentissimus et iuris religiosissimus cum fideicommissi verba cessare
animadverteret, eum sermonem pro fideicommisso rescripsit accipiendum». Birley 1990,165 ss.; Millar 1993,6 e ss. Vedi
anche Millar 1967,9-19 Frontone, Ad
Antoninum Imperator 2.1-2 (trad. da Haines 2.94); Birley 1990,164; Champlin
1980,134. Historia Augusta, 24.1-3. Svetonio, Titus, 8 e 9. Casadei e Mattarelli 2009,107-108. Bloch 1947.
Renan 1937,336-337. Birley
1990,170-172. Historia Augusta,
Antoninus Pius, 12.7; Birley 1990,148. Birley 1990,149. Mazzarino 1973,335 ss. Frontone, De Feriis Alsiensibus 4 (trad. da
Haines 2.19); Frontone, De bello Parthico 1-2 (trad. da Haines 2.21-23); e 10
(trad. da Haines 2.31); Guido Clemente 2008,633. Luciano di Samosata, Alessandro, 27. Cassio Dione, 71, 2.1; Luciano di Samosata,
21; 24-25 Cassio Dione, 71, 2.1. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.9. Birley 1990,151-154. Birley 1990,154-155. Champlin 1980,134; Frontone, De Feriis
Alsiensibus 4 (trad. da Haines 2.19); Birley 1990,156-157. Frontone, De bello Parthico 10 (trad. da
Haines 2.31); Birley 2000,150-164; Birley 1990,157. Historia Augusta, Lucius Verus, 9; Historia
Augusta, Marcus Aurelius, 9.4; Birley 1990,159.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.4-6; Historia Augusta, Lucius
Verus, 7.7; Birley 1990,162. Birley 2000,163. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.1;
Historia Augusta, Lucius Verus, 7.1-2; Frontone, Ad Verum Imperator 2.3 (trad.
da Haines 2.133); Birley 1990,159; Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius
Verus, 233 e ss.. Birley 2000,162.
Farrokh 2007,165; RIC, III, Antoninus Pius to Commodus, n. 511-513255 e
n. 1370-1375322. Birley 1990,163. Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius
Verus, nos. 261ff.; 300 ff. Birley 1990,174. ILS 1098; Birley 1990,179-180; Mattingly
1940, Marcus Aurelius and Lucius Verus,401 ss.. Birley 2000,164. Birley 1990,183. Birley 1990,180; Pulleyblank 1999; Mazzarino
1973,338 ss.. Frontone, De nepote amisso
2 (trad. da Haines 2.222); Frontone, Ad Verum Imperator 2.9-10 (trad. da Haines
2.232 ss.) Birley 1990,164-165.
Lucio Dasumio Tullio Tusco, un lontano parente di Adriano, fu inviato in
Pannonia superiore, per sostituire l'esperto Marco Nonio Macrino. La Pannonia
inferiore venne affidata al poco conosciuto Tiberio Aterio Saturnino. M.
Servilio Fabiano Massimo venne trasferito dalla Mesia inferiore a quella
Superiore quando Iallio Basso si era recato ad Antiochia di Siria da Lucio
Vero. La Mesia inferiore venne allora affidata al figlio, Marco Ponzio Leliano.
La Dacia venne divisa in tre distretti, governati da un senatore pretoriano e
da due procuratori. La pace non poteva durare a lungo, la Pannonia inferiore
disponeva di una sola legione, ad Aquinco. Cfr. Alföldy 1977, Moesia
Inferior,232 ss.; Moesia Superior,234 ss.; Pannonia Superior,236 ss.; Dacia,
245 ss.; Pannonia Inferior,251. Birley
1990,189. Southern 2001,203-206. Ruffolo 2004,84. Birley 1990,
194-197. Stathakopoulos 2004,95. Birley 1990,186-187. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 14.8;
Historia Augusta, Lucius Verus, 9.11.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 17.4.
Cassio Dione, 72-2, 3; 73-4,5 e 20,1; 74-3, 1,2. Birley 1990,207; Alföldy 1977, Moesia
Inferior,232 ss.; Moesia Superior,234 ss.; Pannonia Superior,236 ss.; Dacia,245
ss.; Pannonia Inferior,251. Questa
invasione avvenne secondo Birley 1990,184-186, 194-196 e 207-208 ed altri
studiosi moderni (Brizzi e Sigurani 2010,393-394 e 398) nel 170. Birley 1990,208-213. Guido Clemente 2008,635. Kneissl 1969,206-207. Infatti i cognomina
Armeniaco, Medico e Partico sono assenti nella documentazione di carattere
ufficiale posteriori al 172, come ad esempio i diplomi militari: nello
specifico si veda, ad esempio, AE 1990, 1023 o AE 1987, 843 (entrambi del
179). Historia Augusta, Marcus Aurelius,
24.4. Tertulliano, 5, 6. Michael Grant, The Antonines. The Roman
Empire in Transition, Routledge, 1994,50.
Birley 1990,230-231. Cassio
Dione, 72, 27-29; Historia Augusta, Marcus Aurelius, 26.10-12. RIC, Marcus Aurelius, 357 corr. (no P P);
MIR,18, 322-2/35; Calicó, 2017; BMCRE,674. Astarita 1983,155-162. Birley 1990,239-240. Historia Augusta,
Marcus Aurelius, 26.3-9. Historia
Augusta, Marcus Aurelius, 19.1-8 e 26.3-9.
Ammiano, Historia Augusta, Marcus Aurelius, Cassio Dione, 71, 1.1. Birley 1990,243-244. IG II2 3620
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.1.
Historia Augusta, Commodus, 12.4.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.5.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.11-12. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.8;
Cassio Dione, 71.31.1 Historia Augusta,
Marcus Aurelius, 27.6. Historia Augusta,
Commodus, 12.5; Historia Augusta, Marcus Aurelius, Historia Augusta, Commodus,
12.6. Birley 1990,259-261. Guido Clemente 2008,636. Cassio Dione, 72, 36; Grimal 2004,228. Birley 1990,264. citato in Antonio de Guevara, Vita, gesti,
costumi, discorsi, lettere, di Marco Aurelio imperatore, Venezia, 1557,80. Historia Augusta, Marcus Aurelius, Cassio
Dione, Birley Cassio Dione, 72, 36.3-4.
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Aurelius, in Edward N. Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for
the Study of Language and Information, Stanford. Predecessore: Antonino
Pio161–180 (con Lucio Vero, dal 177 con Commodo)Commodo Predecessore Console
romanoSuccessoreConsul et lictores.png Gaio Bruttio Presente Lucio Fulvio
Rustico II140 Marco Peduceo Stloga PriscinoI con Imperatore Cesare Tito Elio
Adriano Antonino Augusto Pio IIcon Imperatore Cesare Tito Elio Adriano Antonino
Augusto Pio IIIcon Tito Enio SeveroTito Statilio Massimo145 Gneo Claudio Severo
Arabiano II con Lucio Edio Rufo Lolliano Avitocon Imperatore Cesare Tito Elio
Adriano Antonino Augusto Pio IVcon Sesto Erucio Claro II Appio Annio Atilio
Bradua161Quinto Giunio Rustico IIIII con Tito Clodio Vibio Varocon Lucio Elio
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marzoNati a Roma Morti a Sirmio Aforisti romani Dinastia antoniniana Consoli
imperiali romani Stoici Annii Auguri Sepolti a Castel Sant'Angelo Marco Aurelio
Persone legate ai Misteri eleusini. Italian philosopherone of the most important
onesVide his letters to his tutor Frontino -- Marcus Aurelius, Roman emperor
(from 161) and philosopher. Author of twelve books of Meditations (Greek title,
To Himself), Marcus Aurelius is principally interesting in the history of Stoic
philosophy (of which he was a diligent student) for his ethical self-portrait.
Except for the first book, detailing his gratitude to his family, friends, and
teachers, the aphorisms are arranged in no order; many were written in camp
during military campaigns. They reflect both the Old Stoa and the more eclectic
views of Posidonius, with whom he holds that involvement in public affairs is a
moral duty. Marcus, in accord with Stoicism, considers immortality doubtful;
happiness lies in patient acceptance of the will of the panentheistic Stoic
God, the material soul of a material universe. Anger, like all emotions, is
forbidden the Stoic emperor: he exhorts himself to compassion for the weak and
evil among his subjects. “Do not be turned into ‘Caesar,’ or dyed by the purple:
for that happens”. “It is the privilege of a human being to love even those who
stumble”. Sayings like these, rather than technical arguments, give the book
its place in literary history. Ab avo meo Vero didici
placidis esse moribus et iram abstinens. Ex estimatione parentis mei cius recordatione
ad verecundiam et VIRO dignos mores usus sum. Matre in studio pietatis erga
deos isberalitate gimitatus. Præterea in abstinendo anno perpetrandis modo sed
et cogitandis flagitiis. Tum in frugalitate victus, ab opulentia comitante luxu
remotissima. A pro-avo id habui ut ne in publicos ludos comcarem sed bonis præceptoribus
domimex uterer, intellige regnullis hac in re parcendum sumptib. Ab educatore,
ne auriga Praginus, aut Venetus, neuc palmularius aut scutarius fierem. Ab
eodem tolerare labores, esse contentus parvo, operari, non immiscere mc multis
negociis, haud facile calumniam admittere, didici. A Diogneto, tudium in res inanes
non conferre, fidem abrogare iisque de incantationibus, de monug pfligationib.
acid genusalii reb pitigiatores et impostores referent. Nec animi causa
coturnices alere, aut fi milium rerum studio et cupiditate teneri. Ite libere dicta
ferre æquo animo, PHILOSOPHIAE ME ADDICERE, audire primo Bacchiu, deinde
Tandasidem ac Marcianum, scriber dialogos puerili etate grabatu, pellem, aliağ ad
greca disciplinam pertinentia, usurpare. RUSTICI monitu in ea deveni
cogitatione, mores meos correctione ac cultu opus habere. Non esse imitandos sophistas,
non esse instituendas de contemplationibus scriptiones ne que oratiunculas
adhortatorias declamandum neq speciem VIRI exercitiis dediti, ac laboriosi
ostentandam. Ad hæc rhetorica, poetica ed atrologia abstinendum, domincuesticu,
negaliis huius modi rebutendum. Epistolas scribendas simpliciter, quomodo
ipsius ad matrem meam est epistola Sinueſſam missa. In super placabilitatem este
et in alloquio facilitatem exhibendam iis qui stomachu nobis moverint, aut aliquid
deliquerít, simulatqii redire adofficium volint. Diligenter etiam legendum, nec
omnino considerationem accuratam satis putandum, ne æceleriter adsentiendum
loquacite LOQUACITER CONVERSANTIBUS. Commentarios Epicteti legendos, quorum et
e domo sua mihi copiam fecit. Apollonius medocuit ut libertatem secta rer,
certamg constantiam, negalio un quam, ne minimum quidem, quam ad rectam
rationem respicerem ac semper mei similis essem in gravibus doloribus a
missione prolis, morbis diuturnis. Uc quem in vivo exemplo evidenter
contemplarer, posse eundem et durissimum esse et remissum quam maxime. Tum
etiam ut in percipienda doctrina menon morosum præberem sed circumspicerem de
homine qui palam experientiam et in tradendis scientijs facultatem mia nimum
suorum bonorum putaret. Præterea modum beneficia utiis videntur ab amicis
accipiendi ne vel accepta ea nos viliores redderent vel stupidem ne gligerenturato
permitterent. In Sexto de præhemdi comitatem et exemplum domo ad arbitrium
patris familias institute, vivem di secundum naturam, gravitatem nion simulatam,
ing consulendo amicorum commodis sagacitatem, facilitatem erga privatos, mores
omnibus accomodatos. Quo fiebat, ut eius consuetudo omni adulatione suavior
ipseos codem tempore in summa apud cos quibus cum agebat veneratione esset.
Porro autem expedicam viam acrationem inveniendi et disponendi præcepta ad usum
vitæ necessaria. item quod nequc iræ neo alius cuius animi commotio nis ullum
indicium dabat, sed simul et quam maxime affectibus vacuus et humanissimi erat
ingenii. In codem honc stam famam finciactatione. Multa rumorerum scientiam
citra ostentationem. Alexandrum Grammaticum obseruabam ab increpationibus sibi
tempera re, neque ignominiose castigare si quis barbarum, lolocum, aut absonum
quippiam protulisset sed civiliter id modo o dicendum fuerat, pronunciare.
Perinde ac si respondens vel suam sententiam interponeret, aut rationem re ipsa
non verbo cum altero conferret. Aut omni no alia quadam solerti et occulta correctione
idem efficiebat. A FRONTONE didici ut scirem quæ consequeretur tyranidem
invidia quæ varietas simulatione. Et quod omnino qui nobis patria icidicunt in
humaniores quodammodo fint reliquis. Ab Alexando Platonico, ne crebro neve nil
necessitate coactus cuiquam dicerem scriberemúeme esse occupatum ne ve
identidem impendetia negocia prætendendo debita familiaribus officia
detrectare, A CATULO, ne parvi facerem li quid amicus conquereretur, etiam et
nulla id ab eo fieretratione. Sed anniterer eum in pristinam gratiam rcducere. Item
ut summa animi contentione præceptorum laudem prædicarem. Uti de Domitio et Athenodoto
traditum est. Ut yliberos vere diligere. A fratre meo SEVERO amore familiarić
et ucritatis iustitiæ. Per eundem cognovi Thrasea, Helvidium, CATONEM, Dionem,
BRUTUM. Idem mihi autor fuit ut animo conciperem formam reipublicam in qua
æquis legibus codemý iure omnia administrarent, ac regni, cui nihil cf afet
libertate subditorum antiquius. Eun dem observans curis esse vacuum, constantiam
in honore PHILOSOPHIAE habendo, beneficentiam et liberalitatem perpetuam
servare, bene sperare ac de amicorum in amore certo libipolliceri, aq bus animo
elſet factus alieno idiis non occultum ferre. Nec amicis eius opus esse ut de
ipsius voluntate coniectura facerent sed eam apertam elle. Maximus adhortatus
me est, ut suo exemplo me ipsum regerem, neq ulla in re præcipitarem, animo
bono cùm aliis in calibus, tum in morbis essem. Ut moribus ut erer temperatis, blandis,
ac gravibus ut quæ instituissem expedite necma gnacum molestia perficere.
Dicebat libi verba facienti aut a genti quic quam nemine non fidem habuisse ex
animi ipsum sententia loqui vel agree. Nullius rei admiratione se obstupuisse
nunquam aut seſsi nasse, aut cunctatum fuisse, nec trepidasse neq mæstitiæ, neo
gaudii nimium fuisse, neqz iracundum neq suspiciosum sed beneficum, placabilem,
veracm, magis có Itantia erroris secura o erratorum correc ioné præ se tulille.
Neminem fuisse, afe 1 abipfo conteptum, aut ipso pstantiorem putaret.
Liberaliter quoß facetum fuisse. Patris notavi humanitatem et inijs quæ semel
essent accuratem deliberata, pmansionem vanægloriæ et eorumque putant, ne que
sunt tim honoru contemptu, tudium laborum, assiduitatem. Libenter audiebat cos,
qaliqd reip. utile poterant adducere. In tribuendo unicuip dignitate suu firmiter
pſeuerabat, pitusubi intendendum et ſet, ubi remittedum. AMORES ADOESCENTU
lorum coercebat, utilitati publicæ, oes cogitationes intendebat. Amicis sec uncce
nan dı, autiter faciendi necessitate remittebat etque necessitate aliqua
impediti cum non conitati fuerant, cunde fempirfum inveniebant.In consiliis
accurateqd conducere possetīqrebat, ac conftanter, nec ob uiis quibusg
cogitationik. contento fine consultandi faciebat.Amicitiam conservabat, neq vel
satietaté amicorum capiebat, ne ad eosparandos furore aliquo ferebat. In
oib.reb. ola sua i se repogta habebat, læto vultu. Longe futura puidebat. Arq
et minima antem pparabat, idý citra tumultum. Acclamationes, oems adulationem
compescebat. Quæ ad magistratum erant necessaria, semper custodiebat, sumptus
procura bat, ncq detrectabat dcijsreb, causam dicere. Deos citra superstitionem
cole þat, homines ne demerebatur, ncquc auram popularem captabat. In omnib, his
sobrius, costans, nusquam ineptus, aut novitatis studiosus. Has porrò res, quæ ad
vitę commoditatem aliquid conducunt, quas fortuna suppeditat, liberaliter,
fimulý sincfastu tractabat, ita ut & liadeffent, haud solicite iis
uteretur, nec defidcraret, li deeflent.Nemo fuit, quieum aut sophistam, aut
vernam, aut hominem de schola esse diceret. Sed VIRUM MATURUM, absolutum,
adulatione superiorem, qui et seipsum regere, et ali ospoflet, Iam PHILOSOPHIAM
VERAM profitentes in honore habens, reliquis nihil exprobravit. Cæterum in consuctudi
ne familiari commodus gratiosuso extra fastidium erat. Corpus suum moderate curabat,
non ut qui vitæ CUPIDUS, aut cuiforme elegantia curæ esset, non tamen interim
negligenter. Itag suæ diligentiæ causa paucissimis medicorum pharmacis et fomentis
opus habuit. Id in co praeclarissimum fuit, quod facultate alicuius rei
præditis concedebat abso invidia, utoratoriæ, historiæ, legum, consuetudinum,
aliorum gid genus. Quin etiam ut gloriam iis rebusquibus excellebant,
adipiscerentur, operam suam ipsis navabat. Eccum ageret omnia secundum instituta
maiorum, ne hoc ipsum quidem studebat consequi, ut videretur a maioribus
accepta obserualle. Ad hæc non erat vagus aut levis sed locise et negociis
iisdem soleba timmorari. Post intentissimos capitis dolores, recens at que
alaçer ad consueta opera redibat. Praeterea pauca ad modum habebat arcana et
hæc quoq tantum derebus publicis. Prudens porroerat, moderatus cum in
spectaculis exhibendis, tumin operum extructionibus congiariis et aliis huius modi
negotiis. Guippe vir ed ex usu foret potius, quam quem gloria fa &tum sequeretur,
reputans. Non utebatur alieno tempore balneis, non erat ædificandi CUPIDUS, non
de ciborum, non vestium texturæ aut infacturæ, non formæ corporis elegantia
anxius. Comitatus ei e prædio qui eum ab inferiori casa deduceret. Inter Lanuvinos
plerum Tusculano publicano utebatur, etiam deprecante. Omnino in eius moribus nihil
in erat in humanum, nihil in verecundum, nihil procax, ne quod dicitur ad
sudorem usque. Sed omnia ita apta et
concinna ut li per otium cogitata fuissent, compositem, placidem, firmiter et sibi
in vicem convenienter. Ac commodari posset ei id quod de Socrate memoratur,
quod et abstinere potuerit,et frui reb.istis, quibus et carere ple rio per
infirmitatem & in fruendo continere se nequeunt: at temperare fibi ab
utroque uitio pofle et sobrium permanere, id VERO VIRI eft animo integroinui conspræditi:
quod ille in morbo maximi præstitit.A diis bonos avos, bonos parentes, bonam
sororem, bonos praeceptores, familiares, necessarios, amicos bonos accepi feren
omnia bona: tum g in nullum eorum quicquam deliqui, quam quam ita affectus, ut,
si occasio incidisset, utiq aliquid tale admisissem verum beneficio deorum
evenit, neresita caderent, ut hoc in me depræhenderetur. Id quoque iis acceptum
refero, quod non diutius apud concubinam avisum educatus, quodad PUBERTATEM
CASTUS perveni, neque ante eam VIR sum factus sed tempus expectavi. Quod
principi et patri subditus fui, qui erat omnem mihi superbiam excussurus,
oftenfurúsque pofle eum qui in aula vivat et ftipatoribus carere & vestibus
pictis et facibus, ftatuisý certi generis, reliquo ğluxu: Sed licercei proximum
privato homini habitum ſumere: imò verò eum splendorem eos, qui principes
rempub.gerere velint, demissio, res segnioresg efficere. Itemque eum fratrem sum
nactus, qui moribus fuis me ad curam mei ipsius habendam posset excitate, honore
autemet amore in me suo delectare . Quod
hberi mi hi neque indole, neque corpore pravinati sunt. Quodmagnos in rhetorica,
poetica, reliquisg studijs progressus non feci, qme fortassis planem detinuissét,
si me feliciter pficeresenlitlem. Quod mature cos a quibus sum enu tritus in
dignitate constitui, quod mihi videbantur cupere, quodg id iuvenib. Adhuc praestiti,
neo diu cas future spela cavi. Quod Apollonium, RUSTICUM, Maximum cognovi. Quod
perspicueat ą sæpe numero naturalem vitam cum ani momeo reputavi, qualisnam ea
esset: nimirum quodad deos attineret & co rum munera, cogitationcsoninde
conceptas, nihil iam obstarc, quin aut secundum naturam viverem, aut non. Atque
boc quidem fore mca culpa, qui deûm monitus,actantùm non præcepta non
obferuaffem . Quòd in cali uita mcum corpus tandiu durauit.Quòdncquecú
Benedicta,nc cumThcodoto rem ha bui , fed & pofteàamore cócitus, rcctæ
rationi parui. QuòdRuſtico fæpiusin dignatus,nihil prætercà admiferim, cu ius
mepæniterepotuiſſet. Quòd ma ter, cum esset adhuciu venis moritura, reliquos
tamen vitæ suæ annos mocum exegit. Quod quotiescung pauperi ali cui, aut alias
indigenti opitulari statuissem, nunquam audivi, pecuniam mihi non esse, unde id
facere et quod mininum quam usu ucnit, ut alterius ope indigerem . Quod uxorem
ita obsequentem, mei AMANTEM ac limplicem habui. Quod alumni quibus liberos
meos credere idonei non defuere. Quod in somnis cum alia mihi remedia funtdata
tum contra sanguinis ex creationem ac contra vertiginem, hocg Caietę. Sicut
Chrękę cuğanimü ad PHILOSOPHIA adiunxič
ſem, nó incidi in sophistam aliquem aut scriptore vel a SYLLOGISMOS dissoluere
doceret aut meteora traderet. Olahực deorum auxilio, forcuna indigent. Hec in
Quadis ad Granuam. Solobatis sibi prædicere, erit ut incidam in curiosum,
ingratum, contumeliosum dolosum, invidum,
DISSOCIABILEM. Omnia hęcijs euenc runt ignoratione bonorum et malorum. Ego
vero, quinaturam boni perspectam habeo, quòdhoncstum fit, & mali, quod
turpc, ipfamg eius qui peccat natura, quod mihi lit cognata non quia ciul dem
carnis efs aut feminis sed mentis et divinem particulæ particeps a nullo cocum
lædi pollum. Nequccnimiamo V turpitudinem aliquam quisquam con ijciec. Ei porrò
quod mihi cognatum est, negira scipossum, neque insensus esse: ute nim unus
alterum iuvaret in suo opere, eo nati sumus, ut manus, ut pedes, ut palpebræ,
ut superiorum inferiorum o dentium ordines. quare contra natura est, ut in
vicem nobis repugnemus: atqui succensere at a versari se invicem, idquidem est
repugnare. Quidquid ego sum, idomne constat caruncula, animula et mente.
Proinde missos fac libros, neß stude, non enim licet. Quin tu, ut mox vitam cum
morte commutaturus,cor pussperne, quod est tabus, ossicula et reticulí
muliebris instar plexus nervorum, venarum arteriarum. Animaquog considera,
qualis ea sit. SPIRITUS nimirum , ne que is idem semper, sed qui in horasali us
efflatur, alius ſorbetur. Restat tertia pars, principatum obtinens. Proindelic
tecum reputa. Senex es? Ne patere hanc principem partem ulcerius feruire, necß
alieno impetu raptari, neq fatú uel præ sensi niquem fer, vel im pedes
subterfuge. Res decorum plenæ sunt prudentiæ. Fortuitæ aut non carent natura,
complexude corum quæ a prudentia administratur. Inde omnia fluunt:necessitas
etiam accedit, et totius universi cuius tu pars es utilitas. Porrò autem quòd
natura univerſi fert, quod quem ad eam facit conservandam, id bonum est unicui
vis univerli particulæ. Conseruant autem mundum, quemadmodum elementorum, ita
& exipsis concretarum rerum mutations .Hec sufficiant tibi, ac sem per
præceptorum locum habcant. Librorum vero Gitim proijce, ne murmurans moriare
sed vere placatus, at ex animo gratiam diis agens. A Emento quandiu hactenus ea
diftuleris, ac quoties prorogato tibi à diis tempore, co non ususlis. Certe
aliqua do te animadvertere oportet, cuius mundi pars sis et a quo mundi gubernatore
de fluxcris. Tum finem præscripti tibi temporis futurum. Quodquidem tempus G
ocio sus intra parietes consumpseris, elabet, nequeredibit unquam tibi
defuncto. Singulis horis animo in id incumbe ut fortiter, quemadmodum ROMANO ET
VIRO CONVENIT id quod præ manibus est, per agas, accurata & non fi &ta
gravitate, humanitate, liberalitate, iustictia g adhi bitis .Interea animum
tuum ab omnib aliis cogitationib. abduc: quodita fict, si unum quodlibet
negotium, eorum quæ in vita tua exequenda cibi fintpo stremum elfe iudicans, ita
conficias, ut ne quid vanitatis, affectuum a conglio avertentium, simulationis,
AMORE SUI, aut earum rerum quæ fato quodam ei negotio adiunctæ sunt improbationis
admittat. Cernis, quam pauca Gint ea, quorum có pos vitam felicem ac diuinæ
similem ui uerc homo potest? nam ea qui adferuarit, ab eo dijnihilultrà
exigunt. Ignominia te ipsum affice anime, contemnete ipsum inquam ut enim
honore te ipsum afficias, non tibi præterea tempus suppetet. Vita enim unicuiqueid
præbet. Quæ tibi propemodum iam exacta eſt. Nonigitur te ipsum venerare sed
felicitatem tuam aliorum in animis reposita habe. Non patere ab ijs quæ
extrinfecus accidunt, te circúagi,ſed otium tibipa raut boni aliquid
addiſcas,ac uagari de fine.Eft & alter declinandus error : nó . nulli enim
actibus uitæ ſuæ'confecti de lirant,quòdfcopum nullum habent,ad qué omnes ſuos
conatus & cogitatio nes dirigant. Haud temere quisquam repertus est infelix
ea de causa quod non inquireret quid aliorum animis accideret. Qui ucrò luiiplius
animi motib. non obsequitur, necessario miser est. Horum semper oportet
recordari, quæ sit uniuerli natura, quæ mea, quomodóque hæc ad illam lit affecta,
qualis pars ca cuius totius Git : adhæc neminem esse qui obstet, quo minus semper
ea, quæ naturæ cuius tu pars es Gintconfentanca et agas et dicas. THEOPHRASTUS
in comparatione peccatorum, ubi ostendit communiorem ea inter se conferendi
rationem, PHILOSOPHICE, inquit, ea quæ per cupiditatem conmittuntur peccata,
graviora esse iis quem periram. Et enim iratus videtur cum dolore quodam et
occulte correptus animo a recta ratio ne divertere. Qui vero per cupiditatem
peccat, victus a voluptate, intemperantior altero censetur, magilý EFFEMINATUS.
Recte igitur et ut PHILOSOPHO diagnum erat. In maiori esse culpa pronunciavit
cui voluptas, quam cui dolor peccandi fuisset causa: ac omnino hic ante læsus,
& propter doloré iratus, ille sponte sua ad delinquendum cupiditatis
explendæ causa fertur. Omnia tibi ita et agenda sunt et dicenda et cogitanda,
ut Giam nunc vitam in exitu esse arbitreris. Cæterum e vivis discedere, si
quidem dii sunt, nihil habet incommode. Neque enim ii te aliquo malo sunt
affecturi. Sin autem, vuel non sunt dii, uc!res humanas non curant, quid atti
nebatui vere in mundo deum, ac prouidenti z uacuo? Enim vero et sunt dii et
rerum humanarum curam gerunt et ut ne homo in ea, quæ re vera sunt mala, incideret,
id quidem in eius potestate posuerunt. In reliquis rebusliquid mali inesset,
utique & hinc ei prospexissent, ne omni noin malum incideret. Quod uerò hominem
deteriorem non efficit, quonam id modo uitam eius poflet redderepeiorem? Et
quidem um niuerli natura nunquam neg perigno rationem ,ncg fciens quidem , non
ua lens autem cauere autemědare illa, tan tum errorem admiſerit,neque imbecil
licatis,nequeinſcitiæ caula, ut bona & mala bonis malisque hominibus
promiscuem et ex æquo accidant. Atqui mors et uita , honor et ignominia, dolor
et voluptas, opes et paupertas, omnibus hæc uniuersa eadem ratione hominibus cum
bonis tum malis contingunt, ſuntg neque honesta, neque turpia: ergo neque bona
quidem, neque mala. Quam celeriter omnia aboletur, in müdo quidem corpora, in
quo autem etiam corum memoria. Omnia quæ sub sensum cadut, ac præsertim ea, quæ
vel voluptate alliciu ut, vel dolore terrent, vel faste suo clara sunt, quam
vilia sunt ca omnia et contemptione digna, quam sordida, obnoxia interitui et
mortua? Intelligentiæ est, indagare quidnam sintii, quorum opiniones et voces
gloria. Quidnam estmors? Certe si quis ea per se intueatur, cogitatio neg omnia
ab ea separet, quæ ciinesse videntur, isi am nihil aliud existimabic esse mortem,
quam opus naturæ. At vero PUER EST, qui nature aliquod opus formidat. Et quidem
mors non opus solum est naturæ sed et prodest ei. Qoónam modo Deus hominem
attingis et qua hominis parte ?preterea quomodo affe citur eo tactu pars illa?
Nihil miserius cít eo, qui omnia circulando scrutatur, et quod aiunt ea etiam
quæ ſunt infra terram rimatur, coniecturağ ea quæ in aliorum animis eueniant
inquirit, neg ſentit ſufficere,utſuu quiſq quiin ipſo ineſt genium obferuet,
eumlegitimè colat.Colitur autem, fi quis ſeiplum ab animi perturbationib.à
vanitate,ab in dignatione eorum caufa quæ à diis aut hominibus aguntur
concepta,uacuum conseruet. Quæ enim dijagút, virtutis causa honorem quæ ab hominibus,
cognationis nomine AMOREM merentur: nonnunquam etiam miserationem, ratione
ignorationis eorum quæ bona aut mala ſunt. qui sane defectus non uilior eſt eo,
quo ne inter album et nigrum discernere poſsimus, impediunt. Quodf tria annorum
millia tibi vivenda forent, insuperg triginta alia, tamen recordandum tibi est,
neminem aliam ab ea quam vivit uitam deponere, negaliam dep nere quam eam quam
vivit. Itagidem est longissimum spatium cum eo quod est brevissimum. nam quod
praesens eſt, id omnibus idem est, quanquã id quod perijt, non fitidem, atqid quodamitti
temporis punctum eſſe apparet. Ete
nimncß præteritum aliquis,neß futu rum quicquã amittere poteft:qui enim id ei
adimatur, quod ne habet quidem. Duo itag hæc memoria sunt tenenda, unum, omnia
ab æterno eſſe ciufdé for mæ, atq circulo reuolui,nequedifferre quicquam,
eadémne cétum aliquis, aut ducentis annis , an uerò infinito videat tempore.
Alterum, quodis qui diutif sime uixit, & is qui celerrimem moritur, tantundem
amittunt: eo enim tantum priuantur, quod præsens est, quando id etiam solùm
habent: quod autem non habet, neid ne deperditur quidem, Universa elle ſita in
opinione. Quod patet ex his quæ cum Monimo Cynico sunt disputata. Perſpicua
autem eft c ius quod dictum eſt utilitas, fi quis ea tenus eius fuauitatem
admittat, quate nus ueritati congruit. Anima hominis contumelia se ipsam multis
modis afficit. Primo, quum quantum in se ipsa Gitum eſt,abſceſſus quidam, &
qua fulcus mundi fit. Abscedit autem à natura, quando ea quæ fiunt, iniquo fere
animo: cuius quidem naturæ una in par e reliquæ singulorum naturæ omnes
continentur. Deinde, quum hominem aliquem auerlatur, aut lædendi causa
adversatur: hoc est iratorum. Tertiò, quum uoluptati aut dolori ſuccum bit.
Quartò, quum fimulat, fidéquc aliquid autfacit aut loquitur. Quin to , quum
fiquam actionem aut cona. tum ad nullum certum scopum diri git,fed fruftrà
quicquam,nulláque con fequentia agit: quum oporteat etiam minima quæg ad certum
finem referri. Finis autem animantiratis eprædi to propoftus eft utrationem
atque Le gem ciuitatis uetuſtiſsimæ fequatur. Humanæ quidem uitæ tempus,momë
tum eft, natura fluxa ,fenſus obſcurus: totius corporis temperamétum putrc
fcitfacilè ,animauaga eſt, fortuna quæ fit, difficile eſt colligere ,
famaincerta eſt. Atque ut ſummam rei dicam , o mnia quæ ad corpus pertinent,
fluuij naturam habent, quæ ad animā,inſom nij & fumi:uita bellum eſt, &
peregri natio , fama poſt mortem ,obliuio eft. b4 Quid ergo eſt quòd tutò hominem por fit deducere?
PHILOSOPHIA. Ea verò in hoc consiſtit, ut genium quiin te est, incontaminatum
conferues, atqz illesum , la voluptatibus et doloribus superiore: ut nihil
fruſtrà, nihilfictè aut falſò agas: nihil cures, agátne quicquam alius, aut
omittat.Præterea, ut ea quæ accidūt, fa tóue eueniunt, ita accipias, tanquã
inde miſſa,unde tu quoqueneris.Poftremò, utplacıdo morté animoexpectes,quip
penihil aliud ,quàm diffolutionem ele métorum eorum ,ex quibus unūquod libet
animal concretum eſt. Iam Gipfis elementis nihil mali euenit continenti bus
iſtis mutationibus, quibus ipfain ter ſe alia identidem in alia uertuntur,
quænam causa est, cur de mutatione universi corporis, dissolutionéque fini
ſtrum quicquam suspicari debeamus? Cum ea fecúdum naturam fiat. nihil vero
malum est, quodnatura cuenit. Hæc Carnunti disputata. qonhoc tantum est
considerandum, singulis diebus vitam cossumi, parcég eius ſubinde
minorérelinqui: fed & hoc cogitandum ,getſiquis diutius lit uictu
rus,incertum tamen eſt,lítne fuppedita tura eadem intelligentia ad cognoſcen das
res et contemplationem cuiusfiniseft peritia rerü diuinarű at humanarum, Etenim
& delirare ceperithomo,fpira bit quidé nihilominus, nutrietur, imagi
nabitur, appetet, reliquasgid genus facultates retinebit: ca vero vis, qua se i
plo uti queat, rationes officii subduce re accuratas, quæ animo pręcepitin or
dinem collocare, de coipſo an iam tem pus fit uitam relinquendi delibcrare, ac
fi quæ alia sunt, ad quæ obcunda ratione probè exercitata opuseft, ea inquã uis
iam antem extincta est. Feftinandum eſti gitur,nonidcò ſolú, quòd fubinde moc b
s ti propiores fimus, fed &quia
rerum in telligentia nos ante exitum uitæ deſti tuit.Id quoß observandum, ca
quę appendicis quafi loco adhæréthis quæ na tura fiunt,haberenonnihil gratiæ
& o blectationis.Viquum panis pinlitur,ui demusquaſdam particulaseius
rumpi: quod ipſum etli quodãmodo accidit præter inſtitutú piſtoriæ artis, habet
ta mennónihil decoris,appetitumg cibi ſuo quodammodo excitat. Ficus quog quú
maximè maturæſunt, fati scut, itém Oliuis maturissimis quiddam putredi
niproximum ,pulcritudinem peculiaré addunt. Iam ſpicas deorſum le flecten tes,
leonis ſupercilium , fpumam apro rú ex ore effluentem ,multa eiuſmodi alia
fiquis ſeorſim confideret,intelliget ca ctGlongèabſuntà pulchritudine,tas men
quia rebus naturalibus inhærent, & eas conſequuntur,co &ornatum his
adferre , & delectare. Quam obrem qui attentiùs ea quæin rerum natura fi
untmente contemplatus fuerit , nihil pon eleganter eſſe factum putabit , e tiam
corum quæ appendicis loco res naturales conſequuntur . Itaque ue ros belluarum
rictus haud minori cum uoluptate afpiciet, quàm quos picto res & figuli
effingunt: uetulæ etiam & ſenis maturam ætatem , puerorúmque amori aptum
florem caſtis oculis in tuebitur: multaque alia cernet, non a. pud omnes fidem
inuenientia sed apud eos folùm , qui naturam , ciúſque opera rectè intelligit.
HIPPOCRATES quummultos sanasset morbo, ipſemor bo deceffit. Chaldæi multis
finem vitæ prædixerunt: post ipsos etiam fatum arripuit, Alexander, Pompeius,
& C . Cesar, quum totas urbes toties deleuiſ ſent, commiſſó queprælio multa
cqui. tum peditúmque millia cecidissent, i pli quoque tandem uita exceſſerunt. HERACLETUS,
multa de natura rerum et incendio finem univerfo allaturo quum disputasset, ipse
intercutc aqua distentus, ftercore bubulo oblitus mortem obijt. DEMOCRITUM
pediculi, SOCRATES CICUTA absumplit. Quorſum hæc? Ingressus es vitam,
navigasti, uc et us cs: discede. Quod fi abcundum esti n aliam vitam, equidem
neibi quido erit quicquam dijs uacuum :lin omnissensus adiinet, non iam
præterea dolores ac uoluptates ferēdæ, nec ferviendum vaſi tantò deteriori.
Quinimo quod servit, id supererit, nimirum mens et genius: cum uas illud terra
fit , & tabus.Proinde reli quum uitæ tépusne abſume de alijs co gitando,
nifi ad commune aliquod co modum id referatur: alioquin enim in terim ab alio
negotio detineberis.Nam cogitare,quid hic uelille agat, quamob rem , quid
loquatur, quid cogitet, quid moliatur automnino de alijs effe folici tum, id
uerò efficitur euagemur,neque obferuemus eam quæ principatú in no bis obtinet
partem .Itaq;in ſerie cogita tionú declinanda eſt uanitas, omniúş maximè
curiofitas, & malitia.Adſuefa cere teipfum debes, ut de his tantùm re bus
cogites , de quibus fi quis te fubitò interroget quid nunc mediteris, confe ftim
liberè pofsis refpondere , hocaut boc:nimirum ut ftatim conſtet,cogita tiones
tuas eſſe ſimplices,placidas,con fentaneas animali fociato alijs , ac negligenti
earum quæ ad uoluptatéoble & ationemúefaciant cogitationum ,ua cuo
contentionis, inuidiæ, fufpitionis, aliorúmue, quæ ſi te animoagitaffefaf fus
eſſes,pudore ſuffundi oportuiſſet. Virad hunc modum compoſitus, non eft cur
diutiusexpectet nomen eius, qui in optimorum Gii numero. Est enim fa cerdos
quasi et administer deum, uti turg eo, quod in ipso tamquam sacrario est positum.
Id autem hominem præstat purum a voluptatibus, inviolatum à do Ioribus, intactum
A LIBIDINE inſciumo mnis malitiem, certatorem maximi certaminis (ne scilicet
ullus cum affectus de ijciat altem tinctum iustitia, ex animo contentum ijs quæ
eveniunt, fató vedesti nata ipsi sunt, non sæpe, ncg niſi magna & publica
necessitate urgente, de alio rum dictis, factis, aut cogitationibus meditantem.
Solis enim iis quæ in ipso sunt ad agendum intentuseſt, ac quæ à fato universi
ipsi sunt deſtinata, continenter conſiderat. Nam illa cenſet honeſta &
pulcra: quæ uerò fibi obtigerunt, cabo Dacſſe perſuaſum habet: quippe uniufs
cuius factű & constat aliunde, & fecü aliud adfert.Meminit etiam oia
ratione prædica eſſe interſe cognata, eſſeſ ,ho minis naturæ cóueniens, ut
omniūho minú curā gerat : exiſtimationem auté non ab omnibus hominibus petédam,
sed ijs tantùm, qui naturæ conuenienter vivunt. Qui uerò aliter uiuunt, hi
quales ſe domi & extra ædes,noctu at que interdiu gerant,ac quibus fc homi
nibus admiſccant, perpetuò memoria tenet : ab his igitur laudariſe nihil cu
rat, quum ij ne fibi quidem ipfis pro . bentur. Ne inuitus accedas ad agen dum,
neque cotus humaniimmemor, neque non bene cogitata re, neque pa tere te
retrahi:nein cogitationibustuis aftutiam ſecteris,nequeuerbolusfis ,ne que
multa negocia ſuſcipias. Enimue ro Deus qui in te ineſt, præfit'tibi,ma ſculo
animanti , ſeni, ciui,Romano, ac principi, qui ſeita comparauerit, ut ad abitum
inſtructus expecter quando re ceptui ex hac uita canat. Neiuramen toindigeas,
néue hominis alicuius teſti monio , Hilari eſto uultu, ac qui exter " A nominiſterio
poſsit carere., eám quam alij ſuppeditent quietc. Rectú elle expe dit te, nó
quilapſus ſe erigat. Si quid in uita humanainuenis potius iuſtitia ,uc ritate ,
temperantia , fortitudine,autfi quid aliud melius eſt, quàm animum tuum eſſe
ſeipſo contentum, quatenus præſtat ut fecundum rectam rationem agas: ſi, inquam,
in fato , & ijs quæ abfo tuo delectu tibi ſunt deſtinata inucnis aliquid
his quæ dixi præſtabilius, caut fruaris toto animo incumbe.Sin co qui in te eft
collocatus genio nihil præftan tius inuenis, qui & appetitus fibijpfi
fubiecit, & uifa examinat, &à perſua fionibus ſenſuum ut dicebat
Socrates scipsum abduxit, féque Dco ſubmißt et pro hominibus procurat: fi hoc
inferiora omnia , & uiliora de prehendis, nulli alteri rei locum con cede,
nefemel ad eam inclinans , poft hac proprium illum tuum bonum præ ferre omnibus
rebus nequeas. Nes fas enim eft ullam aliam diuera generis rem bono rationcprædito,
& effe &tri ci opponi : ut laudem popularem, principatum, divitias,
voluptatum perceptionem: hæc omnia,quel parùm te iis accómodare uiſum
fuerit,confeftim præualent et à recta uia abducunt. Tu uerò , inquam ,
fimpliciter ac liberè id quod eſt meliuselige,eiginhære :me lius autem eſt id
quod conducit. At hocipſú fi ea ratione fitutile, quatenus métem habes, serva: lin
quatenus es ani mal,repudia, & iudicium integrum reti ne. Id modo cura, ne
quid , p tuo como do amplectaris, quòd pofsit aliquando tecompelleread
fallendum fidem ,pro dendam uerecundiam, odium alicuius, fufpitiones,
imprecandum, ſimulandú, appetendúmue aliquid, quod parietes & uelamenta
degideret. Etenim quimé tiacgenio fuo, & facris uirtutis eius pri mas
defert, is tragediam nullam exci tat,nongemet,nó ſolitudinis,nófrequé tiæ
hominum indigebit: plerung uiuet nekappetés quicquā, neqfugiens.diú ne aparuo
téporis {patio incluſa cor pori animautatur, nihil omnino cura bit:nam etli
continuo migrandum fit ,i . ta facile diffoluétur ut fi ad aliam quan dam
functionem uerecundè ac decen ter obeundam ſe conferat. Id unum fi per
uniuerſam uitam obſerues,ut cogi caciones tuæ ſíper lint de ijs rebus quæ ad
ſocietatem ciuilem nato animali, ei que rationis compoti cóueniant , nihil
unquam in animodeprauatú, nihil puc rulentum , nihil contaminatú ,nihilſug .
gillatú invenies Ncą uerò fatum uitá imperfectam adhuc abrūpit, quemadmo dum dici
poſſet de tragãdo fabula no . dum peracta diſccdéte.)præterea nihil feruile,
nihilfucatum ,nihil alligatum, nihil abſciſſum , nihil obnoxium ,nihil
occulcum. Venerare facultatem cogita trice : in co.n.ſuntoía , ut pars cui prin
cipatum obtinés nihil unquam animo concipiat quod fit naturæ inconueni ens, aut
conſtitutionianimalis ratione præditi.Illiusautem conſtitutionis eſt munus,ut à
temeritate alieni, coétui hu mano adiuncti, dijsý obſequentes li mus. Proinde
omnibus proie & is, hæc modo pauca comprchende, acmemo ria tene, gunufquifq
tantùm , id quod præſens eittemporis punctum uiuit: reliquum uitæ aut iam exactum
,autin in certo politum est. Exiguū ſanè tempus quod uiuit quil:perexiguus
etiãter ræ, in quo uiuitur,angulus:etia longiſsi ma poſt obicú fama, cxiguum
cft , quæ &ipſaper ſucceſsionem cóſeruaturho múculorum mox moriturorum ,
acne ſe quidem ipfos cognoſcentium , nedů cum ,quiiampridem fato conceſsit. Ad
dendum his quæ commemoraui præce ptis unum , nempe eius quæquouis tem pore
animo noftro cogitanda accidit rei, definitionem ſeu deſcriptioné effe
faciendam,quo tecúipſe differerepof fis, quęnam lit eiusnuda &abomnibus
alijs ſeparata natura , ac qualis: tú quod proprium eius nomen, quæ item appel
laciones eorum , è quibus ipfa confiata eſt , & in quæ diſſoluet. Nihil
enim per indeaninum magnitudine extollit, ac uia & uerè poſſe lingula,quæ
in hacui. ta nobis occurrunt, examinare, atß eo modo ſemper intueri,utunà
deprehen datur, cuinam uniuerli parti unuquod. que uſui ſit, quo in precio
habendúra tione cum iplius.uniucra , cú hominis, 14 qui ded quiciuis cſt
ſupremæ ciuitatis, ac cuius quaſi domus lunt reliquæ ciuitates . Quid eft,
quibusex elementis concres tum . & quandiu fert natura cius ut per maneat
id, quòd modò cogitatione ani momco attulit?quaporrò uirtuteadid uſus
cric?ſcilicetmanſuetudine, ortitu dine, ueritate, fide, ſimplicitatc , ea qua
totus ex me aprus fum , cęteris?de lingu lis ergo dicédum . Hoc divinitus
venit, hoc faci connexio, casus $ aut fortuna attulit,hoc pfectum eſt à cognato
mco & focio ,ignaro quidem quænam effet cius natura: ego autem & noui,
& cofc cundum legem ſocietatis naturalem u toræquo animo,iuſté ,limulgin mc
dijs rebus coniecturam facio ut unicui que ſuum ut dignum eſt tribuam. Sirea
&am rationem fequens, id quodinſtat agas diligéter,firmiter,æquo animo,nc
quc inftituto negotio alia admiſccas, ſcd cuum geniumGincerum conſerues,
perinde ac fi iam is dimittendus tibieſ let, atqita ſi perſeucres nihil
expectás, nihil fugiens,fed eo quod ſecúdum na turam agis, & heroica in
dictis factiſas ueritate cótérus, bene uiues. Nemo aut eſt, quihocimpedire
poſsit.Quéadmo dum mediciad ſubita malacuranda,in promptu ſua inſtrumenta
habent, at ferramenta : fictu ad res diuinashuman nalý præcepta inſtructa
habe,atos para ta :omniaş etiam minimaita age,ut mc mineris hæc duo genera
interfe eflc có nexa. Neg enim rem ullam humanárc ctè perfeceris,niſi ſimulcam
ad deosre feras:neq contrà. Non erra amplius. Non eniin commentarios leges
tuos, neque priscorum ROMANORUM et græcorum acta, excerptas ex libris, quæ
tibijpfi in ſenectute utenda repoſuiſti. Itaqad fi nem propera,uanaló (pes
miſlas faciés, tibiipfi opem fer, fiquidé(dum licet )tui rationem habesullam .
Neſciunt quàm multa fignificet uocabulum furari, ſerc re, emere,quieſcere,
uidere quid sit agendum. Quorum hocnon oculis cernitur, ſed alio uiſu.Corporis
ſuntſenſus, ani miappetitus, mentis praecepta. Imaginari aliquid , & uiſum
concipere,nobis cu pecoribus eſt communc.Moueriappe titus explendi cauſa ,id
quidé & belluis contingit et ANDROGYNIS et Phalaridi et NERONI. Porrò
mentem ducé habere ad ea quæ apparent eſſe officij, corum etiá eſt, qui deos
eſſe negant, qui patria deſerunt, qui fimulac fores clauſere,ni hil non turpe
perpetrant. Si igitur reli qua his quæ dixinius omnibus funtcó munia,reliquum
ſanè eft aliquid, quòd proprium lit uiri boni: nempe æquo a nimo ferre ca
quęaccidunt,fatog eie ueniút, in pectore collocatum genium non commouere, neg
turba uiſorum perturbare,ſed quietum ſeruare, cique decenter tanquam Deo
obſequi: nihil à ueritate alienum loqui,nihil præteriu ftitiam agere. Quòd fi
nemohominum credat eum fimpliciter, uerecundè , ac tranquillo animo uiuere,
tamdnneque ſuccenſebit cuiquam, nez deflecter à femita ad finem uitæ ducente:ad
quem finem uenire debet homo purus, quie tus, ac diffolutu facilis, & qui
nulla ui coactus ultrò ſuo ſc faro accommodauerit. VAE in nobis ineſt pars prī
cipatum tenens, ea di ſecun dum natura fe habeat, ita ad ea quæ accidunt
comparata cit,ut quouis tépore facile ad id quod poſsibile eft &conceditur
ſe adiungat. Neg.n. materiã aliquä fibi ppria ſubic ctá habet, fed ut cum
exceptione qua dam'ad ea fertur, quę propofita ſunt,ita id quod offertur ei,
pro materia sua accipit. Quemadmodúignis, quiijs quæ inciduntpręualet,à quibus
exiguus ly chnus fuiffet extinctus: at copiofiori gnis ſtatim ea quæ ipG
iniecta lunt, Gibi accommodat,ato conſumir,atg ex ijs ipfis augetur.Nihil
agendú fruſtrà,ne aliter, quàm ſecundum contemplatio nem, qua artisdefectus
compleatur.Se ceflus uulgò quærunt hominibus,rura, litto ra,montes: tu quoq
ſoles maximè cadeliderare. Atqui id planèeft rudiữ & & abiectæ ſortis hominum. Tibi qua cúq
uiſum fuerit hora licet in teipſum recedere:nuſquam enim neg tranquil lior, nec
maioris otii ſeceſsus homini datur, quàm adanimum ſuum : præſer cim ei qui
intus ea habet, in quæ aſpici ens,ftatim ſummam animi tranquillita tem reperit
:bene nimirumomnibus in tus compofitis.Cótinenter igitur te eò recipe,ac
teipfum renoua. Breuia auté fint quædam , & elementorú uicem ob tinentia,
quæ tibiſtatim occurrant, om nig te molcftia liberent, & remittent nihil
indignè ferentem corum ad quæ reuerteris. Quid enim fersindignè ?nú
hominüimprobitatem ?Reputa tecü,i ta eſle ſtatuendum,ratione prędita ani..
mantia unum effe alterius caulanatum : tum æquanimitatem parté cflciuftitiæ :
item non ſua cos peccare uolütate:quá multi exercitisinimicitijs, odijs, ſuſpi
tionibus, confoſsi perierunt,ac in cine remreda & ifunt:ita &
deſinetádem . At molcftú tibi eft fatum tuum ? in mētem reuoca quomodo uniuerfi
partes difti xerit uel prouidentia ,uel atomiillę,uel quodcungillud fuit, ex quo demóftra tum
eft,múduminſtar ciuitatis effe. At quæ corpus attingūt,ca te afficiūt?cogi ta
intellectú, cu femel feipfum college rit,ſuamý uim perfpexerit non permi ſceri
Spiritui leniter aut aſperè moto: præterea quæ de uoluptate & dolore auditu
perceperis,repete, atqillis adfé tire. Sed forlitan gloriola teſolicitúte
net?refpice quá celerrimè omnia obli uione delcantur,quod fit chaos infiniti
utrinæ æui,quá inanis famæfonus, quã ta inconftantia &incertitudo opinio
num humanarum, quàm arcto includā tur hæc omnia loco. Quippe punctum eſt
terra,at huius iplius quàm perexi guus angulus habitai? quot uerò ſunt in ca
ipſa, aut quales illi , qui.tefint lau daturi?Proindememento in hanc (quã
demonſtraui,particulam tui recedere; idó præcipue cura,ne cupiditate traha
ris,fedliber mane,relợita intuere,ut VIRUM UT HOMINEM UT CIVEM UT ANIMAL
MORTALE conucnit. Cæterum ex his quæ tibi infpicienti quàm maximèin promptu
cffe debcãt, duo funt:alterú ,gresipfæ animā non contingut , ſed extra eam fic
matæ perſiſtunt.Perturbationes tátùm ex internis opinionib.naſcunt. Alterú,
goía hæc quæ cernis, statim mutabun tur, nec crunt amplius perpetuog.com gita,
quoriam eorú mutationib.ipfe in terfueris.Mundus quidérerum in uari as fubinde
formas mutatio eſt, uita in o pinione confiftit. Si intelligentia eſſe pręditu
,hominibusnobis inter nos eſt comune, erit &ratio , ob quam illud no bis
adeft cómunis: ſin hæc, etiam ratio quæ præcipit quid agendum fit,quido
mittendum , communis eric omnium: proinde &lcx. Quód Gita habet,ciues
ſumus: crgo ciuitatis alicuius partici pes. Quo reliquit, múdú ciuitatis loco
esse: cuius.n. alius civitatis dicere possimus comunionem esse humano generi?
utruita ex hac comuni civitate nobis eſſe capacib, intelligentiæ, utiratione,
& legi, datú est, an aliunde? Utenim ter renæ mihià cesra aliqua particulæ
sunt tributæ & humorab alio quodā elemento, ités ſpiritus,calor, &
ignca natura, ſuis fingula à fótib. admcderiuataſūt, puso nihil enim eſt ,quod non alicunde &uc niat
, & aliquò abcat .) ita & intelligétia nobis aliunde data eſt . Mors ,
perinde acuita ,arcanum cftnaturæ opus , ex ijſ dem elemétis in eadé confufio
& mix tio.Deniq non est eares, cuius pudere aliquem debeat: neque enim eſt
contra caufas animalis mente donati, ncg có tra eius ſtructuræ rationem. Hæcita
, hiſq de caufis fiút neceffariò. Quod qui fieri nolit ,perinde faciat , acli
ficum ar borem fucco uelit carere . Omnino au tem memineris ,intra breuiſsimum
tem lo pòſt , ne nomen quidem ucftrum ſu pererit. Tolle opinionem , fimul etiam
de accepto damno abolebitur cogita tio :hacý ſublata , ipſum etiam danum non
crit. Quod hominéſeipfo deterio rem efficere nó poteft , id neg uită eius
pciorem reddit ,ncg lædit ,nec extrin Tecus , neg intrīſecus . Natura
utilitatis hoc neccſſariò fccit , ut quicquid acci dat ,iufte accidat : quod,
fi diligenter observes, ita haberc inuenies : atq hocdi co ,non tantùm caufarum
consequentia ita fieri, fed etiam ratione iuſtitiæ , & ab aliquo, g tribuat
unicuip dignita te ſuū . Itaq ,uti coepiſti,obferuare hoc perge, & quicquid
facies, hoc modo a ge,adhibitabonitate , quo modo uerè bonus intelligitur:idgin
omnibus tuis obſerua actionibus. Nonita tibi fentić dum eſt, quemadmodú is
quiiniuriá fa cit , uel iple fétit,uelte cxiſtimare uult: ſed resipfæ quid uerè
lint,perſpice.Sem per hçc duoin promptu habenda ſunt: alterú,utea tãtùm agas,
quod ratio cius partis, quæregnum in te, & poteſtatem
obtinetlegislatoris,te hortat, idý pros pter hominum utilitaté. Alterum , ut fi
quis adfit, qui te corrigere, & ab aliqua opinionc deducereuelit, ſententiamu
tes :modò ut ea mutatio fidé mereatur iuſtitiæ autpublicę utilitatis,aliúſuchu
iufmodi cauſa, nóuoluptatisgloriæúc gratia facta eſſe. Ratione præditus es: cur
ca non uteris ? quid enim prætcrca deſideras, ca ſuum obeuntc officium ? Scis
te, utparté , interiturű in co, quod te produxit universo: imò potius facta
mutationc allumcris ad mcntem cam quæcſtreliquarum origo.Multa thuris grana
eidem aræ impolita, unum altes ro priusignicorripit, ſed nihil intereſt. Intra
decimum diem, Deus uideberis ijs ,qui te nuncbeſtiam & fimiam putát:
fiquidem ad præcepta &ueneratione métis reflectas,ne & cogites uitam
tibi in immenſos annos prorogatum iri. Mors imminet, ergo dum vivis et licet
,bonus ut sis cura.Quantum otij lu cratur, quinon uidet quid proximus di
catsagat, aut cogitet, ſed tantùm quid ipfe agat, curato ut hoc iuftú fit &
fas. At quifecundum Agathonem fortèbo numno circunfpicit nigrosmores , fed
propofitamlineam recto ,non uago cur fu tenet. Quifamæ poftmortem cupidi tate
ducitur,non cogitat quenlibetco Tum, quiipfius mentionem fint facturi, mox
ipfum etiam moriturum : deinde itidem eum quihuic ſuccedit, idő.co uſcs, dum
omnis memoria per attoni. tosinanifama,extinctoſý homines p pagatu aboleatur.
Quinetiam fingeim mortales fore eos, qui tui recordentur, immortalemg tuifutură
memoriam .. quid ergoid adte,ne dicam ,mortuum ? quid ueluiuo tibilaus
proderit?nifi ra tionecuiuſdam difpenfationis: omitte enim nunc naturæ munus,
huic tempo ri non conucnicns et de quo fuo loco erit differendum . Omne quod
pul chrum eſt,ex ſeipſo tale cſt , atquc in ſc ipſo abſoluitur ,nullámque ſui
partem habetlaudem . Ideoid quod laudatur, co ipfoncß peius fit, neq melius.
Idý ctiam deijs intelligiuolo, quęcómuni ori nominc pulcraaut bona dicuntur, ut
quæ ex materia fiunt, &artis opera . Id autem quod rcuera bonum eft, noa
magis alia quadam re opus adid, ut fit bonum, habet, quàm lex, ueritas, cran
quillitas animi,uerecundia :quid horú uelli laudetur bonum fit, uel uitupera
tione corrumpitur? Smaragdus quidem niſ laudetur, debonitate sua aliquid a
mittit? quid aurum , ebur, purpura, cul ter , floſculus, arbuscula? Si
permanent animi, quomodo cosab æterno capit aer : & quomodo terra abęuo
uſquchu matorum corpora recipit? Quemad modum hîc corpora quum aliquádiu in
terra delituere,mutantur,diſsipatag fpacium alijs cadaueribus præbent:fic animæ
in aérem ſubuectę,quum aliquá diu ibiperftiterunt,mutantur, fundun turg,
&ad menté omnium aliarum ge nitricem adiungunt , eağ ratione alijs aduentantibus
locum cedunt. Hocrea fpóderi poteſt, pofito animas eſſc cor poribus
ſuperſtites. Neq uerò tantùm multitudo ſepultorum eo modo cor porum
confideranda eſt: ſed & corum quæ quotidie comeduntur à nobis, &
beftijs animalium et fic quodammo do ſepeliuntur magno numero, acni hilominus
fuppedicat ſpatium alijs, p pter corum in fanguinem , aërem , calo
remgmutationem. Ratio autem ucri tatis conſtat, ſimateria & caufæ inqui
rantur.Non eſt uagandum ,fed in omni appetitu iuſticię ratio habenda:omnig in
cogitatione,certitudinis.Quicquid tibi,ô Naturarerum , conuenit, id omne
mihiconuenit,nihilſ mihi uelimmatu rum eſt,ueltardú , quod tibi ſit tépeſti uum
:oéid fructum meum puto , quod tuæ ferunthoræ .Ex tcfunt, &in una to omnia,
ac in te unam omnia redeunt, Quidam dixit, ô chara Cecropis urbs. ego autem de
tccur non dicam , ô cha ra Dei urbs ? Pauca age , inquit, fi tibi tranquillitas
animi curæ eſt. Nihil co plus cnofert, quàm ea quæ neceffe eft, agere , &
quæ ratio animalis ad ciui lem ſocietatem nati, ac quo ca modo dcligit. Id enim
non modò rede a gendo, fed & paucaagendo animi tran quillitatem parit. Nam
ex his, quæ plurima &agimus & loquimur,fi quis ca quæ non ſunt
neceffaria tollat, is &maiori otio utetur, & pauciores per turbationes
experietur. Itaque lingu . lis in rebus circunfpiciendum , ne quid non
neceſſarium agamus: acnon mo dò actioncs, fed & cogitationes inuti les funt
uitandæ. ita cnim fict, ut nea . &tiones quidem fuperuacaneæ conſe
quantur.Facpericulum ,ut tibiboniui uita quadret:eius inquam ,qui fato fibi
deſtinata æquo fert animo, contentus eſtiuſtis ſuis actibus, &
placidoftatu:ui diſti illa ,hæc quoqueintuere.Non per turbatcipfum , fed
fimplex efto.Si quis U MAwy peccat, fibijpfi peccat. Tibili quidbom ni obtigit,
ab initio tibiid fato tuo fuit deſtinatum . Omnino autem breuis quum sit uita ,
curandum ut præſens tempus lucreris rectam rationem & iu ftitiam ſequutus:
ac in remiſsionibus animi ſobrius fis . Aut compofitus eſt certo ordine mundus,
aut cófuſo quæ ram rerum temerè mixtarum , mundus tamen . An quum in te ipſo
poſsitor dolocum habere, uniuerſum nullo or dine conſtare dicemus? præſertim om
nibus in co rebus ita digeſtis, diffufis, atque inter fe affectis . Mores nigri
uocantur mores effæminati, duri , fe ri, pecorum aut infantium fimiles, ſto
lidi,fucati,fcurriles,cauponarij,tyran nici. Si peregrinus in mūdo habetur,
quæin mundo funt , non cognofcit: haud minus peregrinus erit , qui ea quæ
fiunt:non cognofcit: exul, quiciuilem rationem fugit: cæcus, quiintelligen tiæ
oculos clauſos habet: pauper, qui alio indiget , nequein fe habet omnia quæ ad
uitam conducunt . Abſceſſus,ſiuculcus mundi-eſt , qui ſe à communis naturæ
ratione feiungit ,in dignè ferendo ea quæ cueniunt:(caeń quæ te produxitnatura,
omnia pfert.) fruſtum à ciuitate amputatum , quiſu am animam à communi &
unica om nium ratione præditorum méte reſcin dit. Alius line toga
philoſophatur,ali us abfg libro ,alius feminudus,panes ſe non haberè,&
tamen ingſtere rectæ rationi dictitans,alius ſe diſciplinis ſuis non alere , &
tamen perfeuerare profi tens.Tu artem quam didiciſti,dilige, in cağacquieſce.
Reliquam vitæ partem : ita exige, ut q ex animo dijs omnia tua
commiſeris,negullius te hominisuel ſeruum uel tyrannum conſtituas. CóGidera
ſuerbigratia) quęVeſpaſia nitēpore euenerint: inuenies homines tum nuptias
contraxiſſe, liberos aluiſ ſeægrotaſſe,diem ſuum obijffe, bellige raſſe ,feſtos
dies egiſſe, negociatos fuif ſe,agricultură exercuiſſe,adulatosfuif
ſc,præfractos ſe geſsiſle, suspicionibus indulgfie, inſidias feciſſe,quoſdami
uo tis mortem uocaſſe,alios quiritatos de præſentererum ſtatu,amalle, theſauros
d TU collegiſſe,conſulatus et regna expetiif fe.Nonne corum omnium uitaiå aboli
ta eſt ?Rurfus ad ætatem Traiani defcé . de: invenies eadem omnia , atque cius
quo ætatis hominesmortuoseſſe,eo dem modo ſi etiam reliquas ætates et gentes
totas conlideres, uidebis quàm multicú ad ſummú cótendiſſent,paulò poſt
ceciderint, & in elementa reſoluti fint.Præſertim uerò hi memoria recole di
ſunt,quos ipfe cognouiſti uana affc Etantes , cum agere fecundum id ad quod
natura erant facti , cizinhærere, &eo contenti effc ceflarent.Id quoque
opuseftmeminiffe,in unaquauis actio necantum uerfandum ,quantum digni tas cius
& modus permitcunt:ita fiet,ut non diutius quum par litreb.exiguisim moratus,
nullú faſtidiú cótrahas. Vlita ta quondā uocabula, nuncinterpreta tionis loco
funt: ita et corum quifuerút olim celeberrimi, nunc quodammodo ſunt glossæ, ut
Camillus, Cæso,Volcſus, Leonnatus, cum paulò post SCIPIO, CATO, inde AUGUSTUS,
ADRIANUS, ANTONINUS. Ist hus : omnia enim hæc euanida ſunt, & mox in
fabulam abeunt: mox obliuio. nc oí a obruuntur.Ato hocdicodeijs, qui ad
miraculü ufo clari erant : relig enim fimulato animam efflarunt, obscuri, &
ignoti facti ſunt. Quáquá quid eſt omnino,cuius fit memoria lempiter ħa? Omnia
füntinanía. Quid eftigitur, in qd Geſtudio incúbendú? Vnicú hoć, ut
cogitationes antiuftæ , actiones ſo cietatem humanam refpiciant , ratio te punő
fallat,itag lis alo affcctus,ut quæ cúqaccidút,catanğneceſſaria,nota,ab codé
principio & fonte promanantia, approbes. Vltrò te fato ſubmitte, pate regid
teijs quæ ei uiſum fuerit rebus destinare:oia in diéfunt, cum id recordat alicuius,
túid, cius fit mentio. Nunquá nó con dera , oía permutationes fieri, neq
uniuerſi naturæ quicquã eſſe ulita tius,ĝres mutare, & innouare. Omnia em
quæ in natura ſubliſtűt,femina qua G ſunt corum , quæ cxillisſunt naſcitus ra ;
eftautem nimium rudis hominis exi Ntimare ea cătùm ſemina cfTe, quæ in cer ram
aut matricem deijciuntur. IM lam morieris,neque in pofterumeris is
quinunces,fimplex, perturbationu uacuus,nihilſuſpicans extrinfecus tibi poffe
damni afferri, omnib . benignus, prudentiam in eo tantum utiuſtè agas poſiram
cenſens. Intuere aliorum principem partem, acquænam fugiant,quæ ſequanturpru
dentes. Tuum quidem malum non eſt in al terius animo pofitú,neg in conuerlio
neulla aut mutatione cæli. Vbi ergo? in opinione demalistua. Nihiligitur malum
eſleiudica , & omniabenehabc bunt.Quòd li corpus, quod animo tuo eft
proximum ,fecetur,uratur,ſuppure tur,putreſcat,tamen ea pars , quæ iudi care de
his debet, quietaGt:hoceft,exi ftimet nihil effe neque bonum ,neque malum ,quod
exæquo poteft bono at que malo accidere:nam quod'ei qui ſe cundum naturam
uiuit, exæquo acci dit, id neque fecundum , neque contra naturam eft, Aſsiduè
tecum cogita,mundum eſſe animal quoddam unum,unam naturā, uno animo præditum,
quomodo om nia ad eius fenfum unicum rcferantur, omnia ab co unico appetitu
mouétea gantur, ac omnes res omnium rerum caufæ aliqua ex parte fint,tum quis
ca rum inter fe contextus & ordo. Animula es , quæ cadauer geſtat: ut
Epictetus dicebat. His qin mutatione funt, nihil eſtma lum: utnequebonum
quicquã his qui è mutatione exiftunt. Aeuum , fluctus quidam eſtrapidus carum
quefiunt rerü :fimulcnim unum quodß & apparet &præterit, &aliud
ſubſequitur, moxitem aliud ſuccedet. Omne quod nobis accidit , ita conſue tum
eſt, & notum , ut roſa uere, fructus æftate. Eadem eſtratio morbi, mortis,
calumniæ, inſdiarum, omniumg eorü, quæ ſtultis uel gaudium, uel triſtitiam
afferunt. Quæ ſubſequuntur ſubinde, ca præcedentibus rite ſuccedunt.Non enim
numerus tantum certus eft eorü, àfolaneceſsitate dependens:fed & có
fentanca corum inter ſe colligatio. ac quemadmodum certo ordine resinter fe
ſunt coaptatæ, ita quæ fiunt,non ſuc ccfsionem nudam ,fed mirabilemctiam
quandam inter fe coniun &tionem etne ceſsitudinem oftendunt. Dictum Hera
cleti ſemper eſtmemoria tenédum :ter ræmortem fcilicer eſſe aquam ,aquæ ac rem
,aêrisigné,idý uiciſsim . Eius quo quc exemplum recolendum ,quineſcie bet quorſum
iter duceret, Et quod cum rationc quæ uniuerſum admini ſtrat, continenter
conſuetudinem ha bentes , tamen ab ea diſcrepant: itag in quæ quotidie
incidunt, ca noua ipfis & peregrina uidentur. Non tanquam ſi dormiremus,
agendum nobis eſt & lo quendum: in fomnis enim tantum uide murnobissgere
aut dicere. Nequeimi tádi ſunt nobis pueri , qà parentib.fuis * hucé,nudè,
Gicutaccepimus,Quéadmo dulias tibi Dcorūdiceret, moriendum tibi aut cras, aut
ad diētertiú : nojā ma gnopètertiú dié craftino pferres,nifi a nimielies oio
abiectiſsimi.quátú emeſt interuallum? Eodēmodoiudicanon in magno effe fouédú
difcrimine,poſtmil lenos acaonos, anuçrò çras decedas. Crebrò reputa , quàm
multi medici fint mortui, qui ſæpenumero ægrotos inſpi cientes ſupercilia
contraxerint : quot Mathematici, qui alijs exitú è uita præ dicédo
ſeiactauerint:quotphilofophi, quide morte & immortalitate multa
alleruiſſent:quotre bellica laudati, qui multos occiderant : quot tyranni, qui
magna cum inſolentia tanquamimmor tales poteſtate luauſi crant:quot urbes
mortuę( utita dică)ſunt,Helico, Pom peij,Herculanú,& aliæ innumeræ .Col
lige etiam ,quos tuipſc noftiunum poſt alium ,cuius funus curaffet mortuos:Et
quod heri fuit piſcis ,cras critfalfamen tum, aut cinis. Momentancum itagté pus
à natura eſſe conſtitutum , conſide randum eft æquoſ animo è uita abeun
dum:perinde ac Goliua maturitaté co ſecuca G decidat,arboréqipfam tulit ac
genuit ,collaudet, & gratiasagat. Simi lis elle debespromontorij, adquod al
fiduè fluctus alliduntur : ipſum autem perfiftit,utcunque undęæftuantes cir cùm
ferátur.Diceret aliquis: infęlicem mé,cuiboçacciderit:quinimòfelicem t me,
quihunc cafum fine dolore perfe ram , & nec præſentibus frangar, necfu tura
extimeſcam.Nam unicuiqtaleąd potuit accidere: at non cuiuſuis craç,li ne dolore
cum caſum excipere. Curigi tur illud potius infortunio, quam hoc felicitati
adſcribis? autcuridinfelicita tem hominis appellas,in quo nihil mali palla eſt
hominis natura? an uerò dam num tibi humanæ naturæ uideri poteſt id, quod non
eſt contra uoluntatem naturæ çius? Quid ergo? Numcaſus ifte ef ficere poterit,
quominusfis iuſtus, magnaminus,temperans,prudens, circum fpectus,tutus ab
errore,uerecundus, li ber?autadimereomnino quicquam co rum ,quçhominis naturę
funt propria? Proinde quoțies inciderit quicquam, quod ad dolorem te prouocet,
recor dare huius præcepti,non illud informado nium eſſe appellandum
,fedfelicitati tri buendum , quòd id fortiter feran Eft quidem
ignobile,præſenstamen ad contemnendam mortem auxilium , memoria repeterc eos,
qui uitam inlon giſsimum extraxerc tempus. Quid enim hi 57 1 hi amplius
consecuti sunt, quàmij, qui immaturamorte ſuntabrepti? Vtique ipfi etiam
defuncti iacent , Cadicianus, Fabius,Iulianus,Lepidus, alijſ corum fimiles, q
cúmultosex tulissent, ipfidein de elati sunt. Omninoeņexiguū eſt ſpa çium,
időper quotlabores,inter quos, &quali in corpuſculo exigendum? Ne
igiturmortem prore difficili accipe. In tuere cius quod retro eſtæui uaſtiratë,
& eius quod reſtat ,immenſam longitu dinem :in tanto tempore quid præſtat
is qui tres ætatcs, ci qui uixit triduum ? Semper breuiorem uiamingrederc:
brevissima autem est ea, quamnatura præ ſcripſit. Itag in omni & fermone
& a . & ioncidfectare, quòd eſtrosiſsimum . Hocpropoſitum laboribus
,militia, çura rei familiaris, & folicitudi neliberat. Anè cum grauatim à
fom no ſurgis, in promptu tibi ſitcogitare,tead humanum opusfaciendum
ſurgere.lca que ergo dices) grauatè acccdo ad agé da ea, quorum cauſa natusſum,
ac pro ter quæ in huncueni mundum? scilicet in hocfactus, ut decumbesin lectome
ipsum calefaciam? Atquihoc iucundi dius eft. Ergónead uoluptatem natus es,
nonad agendum ?nonuides plantu las, palierculos, formicas,arcaneas, a pes,
lingula hæc luo intenta officio : tu uerò ea quæ funt hominis obire recu ſas, nc
ad id te confers, quod naturæ tuæ conuenit? At uerò quiete opus eſt. Sane: fed
& huic ,modü ftatuit natura, pinde,utedédi,bibédig: atqui tu ultra modú
&laq gfatis é, pcedis:n reb.uc rò agedis intro moduſubliſtis. Fit hoc cò ,
qateipſum nó diligis:alioqn eń & natura tua, cius voluntate diligeres.Et
cnim alij qui ſuas artes amāt, operibus fuis ita incumbunt, ut neque balneorü nog
cibi curá habeant. Tu naturm tua non tanti facis, quanti aut tornator, aut
histrio suam artem, quanti avarus argentum , &inanis gloriæ cupidus glo
riolam. Hi enim quarum rerum ftudio tenentur,dum eas augere poſsint, cibų
&fomnum poftponunt. At tibi actio nes ad ſocietatem ſpectanteshumanam
uiliores uidentur', 'minorig opera di gnæ ?Quàm facile eft omnem cogitatio nem
quæ animo aut perturbationem af ferat,aut nóconueniat, reijcere, & delc re,
ſtatimg effc in fumma animi tran quillitate? Omnem fermonem & actionemque
fit fecundum naturam, dignam te iudi . ca:nca te auertat ab ijs reprehenfioare
fermones aliorum ca consequentes. Sed fi quid fa & o dictúue pulchrumeft,idte
neindignum putes. Alij cnim aliam ra fionem ,alios appetitus fequuntur :ad quos
tibi non eit refpiciendum ,fed re Cta via cò pergendum,quò &tua,& comunis
omnium ducitnatura: utriuf que autem una eademg eſtuia per ca quæ funt
fecundumnaturam progre: dior,donec morte finiam: expirans qui dem eam, quá
inſpiro quotidie animā, cadens uerò in terram, ex qua &femen meum pater,
& fanguinem mater,&lac nutrix collegit: quæmeterratot iam an
nos'quotidie alit cibo ac potu, quamc calcantem fert, ac totmodisipla abu
tentem. Auſteritatem tuam ut admirêturno est. Sit fanè, at multa alia ad quæ tc
non eflenatura aptum, dicere non po tes.Eaigitur profert, quętota funtin te:
integritatem, grauitatem ,laborum tole rantiam, uoluptatum abftinentiam ,ani
mum ſua ſorte contentum, pauca defi derantem ,placidum ,liberum, àcurioſi tate
& nugis alienum, altitudine prædi tum.Nonſentis,quam multa poſsisprę ftare,
de quibusnulla eſt excufatio na turæ ad ea non aptæ : & taméadhucfpó te tua
inferius manes. Quid? Ante natura parum bene in ſtructa cogit indigna
ri,cúctari, adulari, corpuſculum tuum incuſare, tuam ſortem improbare,leuć
eſſe, animouagari:nonmehercle,fed his omnibus iampridem ut liberareris malis,in
tua fuit poteſtate.Hoc tantum erat uitij, quod tardioris ingenij, ac qui non
facilè affequeretur ea quæ traderé tur,exiſtimari poteras: Sed & hoc exer
citationeerat corrigendum ,neſubinde cogitares de tua tarditate, néue ca de
lectateris. Eorum qui bene alijs faciút,triaſune genera:primum corum ,
quiſtatim exhi bito beneficio , ſtatim etiam quam ſint meriti gratiam reputant.
Alterum co rum , quiid quidem non faciunt,ta conſcij quid fecerint,debitorem
ſeiam habere cogitant.Tertij quodammodò ne hocipfum quidem quod fecere,no
runt:uiti ſimiles, quæ uuam cum protu lit , ut femel ſuum deditfructum , nihil
præterea quærit. Equus ficucurrit , canis fi uenatus eſt,apis fi mel fecit
,fatis eſt. Homo auté l benè fecit,non reuocatur, ſed ad ali ud negocium
tranſit, quemadmodum uitis,ut rurſum fuo tempore uuam producat . In his nc
igitur eſſe debent, quæ aliquomodo fine conſequentiaid faciunt?equidem .ſed
hocipſum debet confequi. Propriū cnim est inquit animalis lege sociati, ut sentiatle
et societatis causa egisse &ut velit omninoid eû qui ſocietatis eft
ciuſdem, sentire. Verum clt quod dicis: quod autem nunc dici tur, excipe .
Proptereà ex eorum numc ro eris,quorüantè feci mentionem. Hi enim
uerifimilitudine quadam proba bili abducuntur. Quòdh intelligereuis quidná
litid, quod diximus, netimcas, ne obid actio aliqua ſocietati hominü inferuiés
tibi Gt omittêda.Athenienlių erathocuotu:plue,pluuiã ò chare lu piterin agros
& cáposAthenienſes de mitte. Enimuerò aut nihil eft optandū, aut omnino
fimpliciter, & liberalitcr. Quod dicimus Aeſculapium huice quitationé ,
illi lotioné in frigida,alteri utnudispedib.ambulet, iniúxiſſe :nihil aliud eft
cú dicim°, natura uniuerfi huic hoimorbú, defectú autamiſsionémen
brialicui'impofuit.Náutilliccum dici mus iniunxiſſe,intelligit.AEſculapium HUO
O unam rem ad alterāordinafic, uerbigra tia ,camrem reſpectum habere ad fanita
té:ica hicidqunicuiqaccidec, rationé babet & rcfpectumad fatū.Ita enim hęc
nobis accidere & cógruere dicimus, ut opificesquadratoslapides in muris aut
Pyramidibus extruendis congruere a lerunt , quippe certa cos collocation ne inter
ſe componétes. Omnino enim una quædam eſt harmonia: atg ut uni uerG huius
corpus ex omnib.corporib . eſt compactum , ita ex omnib.caufis Fa tum ſuprema
cauſa conſtat.Id quod di co,etiam rudiſsimi intelligút homiues: dicút enim
,hocſors cius tulit,hoceica ratimpolitú.Accipiamusergo hæcita, utilla quæ
Acſculapius impofuit: nā & in illis multa ſunt aſpera, quæ tamen fpc
ſanitatis ferimus.Tibi crgò corú quęcó munis naturatibiiniúxerit perfectio ,fi
milis ſanitati iudicet:atqita æquo ſuſci peanimo oía quæ fiút( ctiāli gd durius
uidcat. ) quoniã adidducunt, quod ra tioncmúdić fanicas,népeadfelicitaté.
Nihileſ accidiſſet tibi, nifi in réuniuer Gita ect:ncq cnim una quæuis natura i
quicquam fert,ſed id modò, quod re fpcctum
adid quod ab ea adminiſtratur, habcat. Quare duæ ſunt rationes,cur ea que
tibicueniunt, çquodebeas animoferre. Vna, quiaſors tua ficferebat, & tibi
de ſtinata erant ab antiquiſsimacauſa fata li habentiaad te certum reſpectum.Al
teras quòd ca faciunt adprofectum , & perfe &tionem , ac permanentiam
eius, quòduniuerfo praecſt. Totum enim muti latur,fi etianminimam partem conti
nuitatis & coherentieutmembrorum , ita etiamcaufarum difcindas. Id autem
quantum intc eft,facis , quotiesea quæ tibi obtigerút,moleſtèfers,ac quodam
modo tollis. Faftidire,animumdeſpondere,ac de terrerinódebes, fi nó ubiq tibi
fuccef ſusrefpondet,fecundum recta præcep ta agere fingula cupienti :ſed
fruſtratus conatu,cum redintegrare, & æquo ani mopleraq humanaferre : neque
debet te eius,ad quod redis ,poenitere.Nequc tibi eſt ad philofophiam tanquam
ad pædagogum redeundum :Sed utſolent qui ex oculis laborant,ad ſpongiam &
ouum, alij ad cataplaſma &perfufioné confugere.Ita enim nó opuserit tibi o.
ſtendi,utrectęrationiobedias:ſed in ca ipſe acquieſces. Memento philofophiam ca
tantum poſcere, quæ natura etiam tua exigit: tu aút aliud quippiam
uolebas.Vtrum uc rò horum blandius'eft an nonhocpa eto dccipit uoluptas ? Vide
gratior no gt magnamitas, libertas, simplicitas,æ quanimitas, fanctitas? Quid
enim ipſa prudentia Git acceptius,ubicùm animo tuoreputes facultatem quæ
ſcientiam certam , & certis conſequentijs nixam habet,nuſquamlabi, &
ubiq ſucceſſum habere? Res quidem ipfæ in tanta quodam modo uerſantur obfcuritate,
ut philo fophorú plerifcb & ijs no ignobilibus, omnino pcipipoſſe nihil uifum
fit:Stoi ci tamé poflc percipi, ſed planè difficul ter,cenſucrunt.Eft omnis
noſtra aſſé lo talis, utfalli & mutati poſsit:quis c nim ſenó pofle errare
dixerit ? Trasfer itag cogitationes ad ipfas res fubice & as ,acuide quàm breues , uilesø Gne, quæ
ctiam à cinædo, fcorto ,autprædo ne poſsint teneri.Inde tranG ad mores corum,
quibuscum uitam degis , inter quos uix eſt etiam gratiofifsimum per ferrc,ne
dicam , quod uix ſeipſum quis perpeti pofsit. Tanta igitur in caligigine,
sordibus, tātoo rerum, temporis, motuumý, & rerum quæ mouentur flu xu , non
uideo quid lit effe in honore, aut obferuantia hominum. Contrà præ ftat feipfum
confirmare, acmortemræ quo animo expectare,ncqmoram indi gnè ferre, fed in his
modo acquieſcere duobus: uno, quòd nihil mihi accidet, quod nó fitſecundum
naturam uniuer fi:alterum , quòd licet mihi, nihil agere quod contra Deum
geniumg fit meú demo em ad hocme cópellere poteft. Subinde hoc
teipſuminterroga: quam adrem nunc utoranimo meo? at & exa mina teipfum :ea
pars, quam principem uocant, quomodo núc habet?cuiusaío prçditus ſum ? num
pueri, num ADOESCENTIS, num mulierculæ , num tyranni, num iumenti,num feræ? Qualia
fint illa, quæ uulgò bona ha bentur, etiam hinc euidens fiat.Sienim animo
concipias ca quæ ſunt reipfa bo na, utprudentia, ut temperantia,utiu fticia ,ut
fortitudo,hisiam antè reputa tis, nihil porrò audies nominari bonú, quod nófub
hæc referatur. Quæ uerò uulgus hominum bona putat ,ca qui an tè mente
conceperunt,fimulatq nomi nari audiút,perfacilè accipiút,perinde ut liquidà
Comico appolice di& ú eft. Hæc eſt fere uulgi de differentia bo norum
opinatio :alioquin enim haud co peruentum eſſet, ut uera bona auer
ſarent,diuitiarū aút, voluptatis aut glo riæ métionéita admitterét, utſcitè ato
urbanè dicta.Progredere ergò,acinter roga,(intne in honore habendaet in bo nis
ducenda hæc, quæ fi animo tuoima ginatus fueris,aptè quis dicere poſsit, cum
quiiſta poſsideat,propterhác co piam ncubi quidem cacec habere. Ex forma &
materia conſto : ho. rum uerò neutrum in nihil uertetur, ut neque ex nihilo
extitit. Ergo om nis mci pars permutationem redigetur in aliquam mundi partem,
atqhæcrur fus in aliam uniuerli portioné tranſibir, ido ad infinitum uſ.
Huiufmodi auté mutatione & ipfe extici, & parétes mei, ide in infinitum
uſo retrò eunti licet dicere:quãquam certis alioquin circui tibusmundusadminiftratur.
Ratio et rationalis ars, facultates funt abiipfæ ſufficientes,fuisg operib.
Progrediunturàſuo principio, acper gunt ad finem propoſitum :habent a &
tiones earum à uiæ cuiinGftuntilleno men apud gręcos, utfine netoptásons:nos
rectas effectiones dicere poſſumus.Ho rum nihil de homine dicipoteſt,neque enim
ei conucnit, ea ratione, qua homo eft : Non hæchomo,ncgiplius natura
profitetur:non eſt ca in humana natura perfectio.Proindein externis rebusnc
quaquam erit finis homini cóftitutus, nepid bonum , quod finem illumabfol
uit:Alioquin hominis partes non fuif ſét,ut eosdeſpiceret,nem laudedignus,
quiſeita parat,utillis non indigeat:no que qui illis rebus abſtinct, bonus dici
mercrctur, fiquidem cæ bona ellent Nunc uerò tanto quiſ melioreſt, quá to
magisſeipſum ab illis rebusabſtinet. Talis erit intellectus tuus, qualia ſunt
ca,de quibus ſubinde cogitas : nam à ui bis fcu cogitationibus illis animus im
buitur.Inficeigitur eum adliduitatehu iuſmodi cogitationum , qualesſunt:ubi
cunqueuiuere,ibietiam bene uiuere li cet :uiuere autem licet in aula, ergo etiã
bene uïvere licet in aula. ltem alicuius rei caufa fingula ſunt facta cui ucrò
gra tia unúquodgfa & ú eft,adid fert, ado aút fert in eo finis eius é
poſitus: ubi ue ro finis ,ibi ét bonú unicuiq. Ergo finis animanti ratione
prędito ppolituseft, focictas, natos cnim nos effe ad eājiam pridem eft
demonſtratum . An uerò non euidens eſt, deteriora præstantiorum , rurſumýex his
unum alterius caufa esse. Præftantuerò inani mis animata,atq inter hæcipfa, ca
quæ rationem habent. Ioſani eſt,ſectari impoſsibilia. At fic ri non
poteft,quinmaliſuomore agāt. Nihil cuiquam accidit,nifi ita Natu rá deſtinarit.
Id quod alius iniquè fert, e bas wal
wide ولا bus alteri accidit, qui fiue ignorationc cius caſus,ſineut
magnanimitatem oftédat, cóftantiā tuetur,atqillæſus manet.Ini quú cſtigitur
admittere,utinſcitia et o pinio prudētiäſupent. Etenim res ipfæ
animúnequaqattingunt, non intrātad eu,ncg mouere, ncq uertere poffunt.
Solusipſe ſeipſum ciet, ac quale iudicia umtulerit, talia ea quæ accidere,
fiunt. Alia róeſumma nobis eſt necefsitu . do cũ hoíe
cóftituta,quaeibenefacere, eumý ferre iubemur :cú aúcimpedire conant noſtras
actiones , nó magis ad nos attinet, ộ Sol, uétus:beſtiæ. Ato hi qdé impedire
effectú aliquãdo pofsint: animi uero appetitioné, & affectum no
qucunt,quiahæcexceptioné habét , & conuerlionem.Ná omneid quodimpe dimento
fuit effectioni,id animus ad ca quæ præcellerút,cóuertit, atßcomo do id , quod
instituto operi, uiccoßinitę obftitit,ei iam confert aliquid . Id quodin múdo
eft præftantiſsimū, cole. Eit aútid, qd oíbusreb.utitur,oía gubernat.
Similiterid quoßhonora, q in te elt primú: nimirú illi alteri cogna tum, cesa
üles DO Pe quatum ,quòd & cæteris quæ in teſuntom nibus utitur, & tuam
uitam regit. Quod civitati nullum affert detri mentum ,idnc ciui quidé nocet. Hæcre
gula recoléda tibič, quotieſcúq telæ ſum aliquâ eſſe cogitas.Sin ciuitas dam no
affecta cft, ei qui ítulit,ſuccéferenó debes. Quid neglectú eft?Sæpenumero
códdera, ệ celeriter oía quæ & funt & fi unt, abripiãtur &
cuanefcát. Etenim & ipfęnaturę amnisinſtarin adſiduo funt fluxu , &
cffectiones cótinétib.mutatio nibus obnoxiæ , & cauſarúinfinitæ ſunt
uices:denią nihilferè perſiat, aut ſui fi mile durat.lā & pręteriti, &
uenturiçuí infinita é, in qua oſaabolentur,uaftitas, Quî ergo ſtultitiæ nó
damnet, qin hoc tā cxiguo téporis articulo ſupbit,appe tit,autmoleſtia fe
affectú quiritaf. Universæ rerum naturam recordare, cuiusmini . mã parté tenes:
totius zui,cui' breue & mométaneútibi éattributúſpacium :fa ti , cuius
perexigua ad te portio ptinet . Peccatalius qs aduerſummc uiderit, ſuā habet
affectioné, ſuum a &um. Ego in præſentia id habeo, quod me habere i t c
& C a & 1 uult cómunis natura: agogid qd'age remeiubetmea natura . Pars
animitui princeps neinucrtatur ullo uelleui uel alpero carnis motu , neg
admittat per fuafones quçinmembrisoriuntur, Sed circumſcribatcas. Quòd fi ex
ratione alterius conſenſusad intelligentiam ef ferútur,nimirum quatennsea cum
cor pore copulata eft, tum quidem ſenſui, cum is a natura proficiſcatur,
reluctan dum non eft: opinioniautem mali aut . boniadfentiremensnon debet.
Viuendum eſt cum dijs.Vitam ucrò cum dijs agit, qui continenterijs ſuum animum
oftendit probātem ea quę ipli fatum tribuit, agentemg ea quægenio placerent:
quem lupiterſuæ quandam particulā naturæ unicuiæ prælidé, du coşdedit, nimirú
mente atæ rationé. Neiraſcaris ei qui hircú olet, autcui aia fætet; nihil, n.ad
teidcmaliredibit, Alæ iplius, & osita ſunt affecta,utne ceflc ùthæcmala
conſequi, Rationc,inquis, præditus eſt homo, ac fi scrutari uclit , intelligere
poteſt quainre delinquat.Benereshabet. Proinde tu, qui & ipfe præditus es
ratione, mentem eiustuæ mentis motu cxcita, doce, commonefac: li enim obtempe
rat tibi, fanabis eum , negira opuserit. Nonita hic uiuendú eſt tibi,ut Tra
gedo autſcorto qui egrediés uiuere co gitat. Quòd li tibinon cóccditur,tunc
uita excedere, ita quidé,ut qnihil mali patiatur,acfumiinitar abeat, Quid hoc
rei eſſeputas? Dum uerò nihilme tale abducit,liber permaneo ,neq mequif quam
prohibet agere ,ut uolo, uolo au. tem ,ut naturæ animantis ratione predi ti,
& ad certum nati conuenit, Mens quæ mundum gubernat, ſocic tatisrationcm
habuit:itag & inferiora præftantiorumcaufa effecit,& pręſtan tiorum
unum alteri ſubdidit. Videt , ut ſubiecerit , cóiunxerit,ac unicuiq ſecu dú
dignitaté ſuú tribuerit,ea quęlunt pręſtátiſsima,mutuo cófenfu deuíxerit.
Quomodo uſus es hactenus dijs, pa rentibus, fratrib. uxore, liberis, docto
ribus, alumnis,amicis,familiaribus, fa mulis? an in huncuſquediem in nemi nem
horrcū uerbóuefuiſti iniurius! Reminiſcere étą ſupaueris , actolc raueris : tum
fabulam uitæ tibiiam pera tam,teş tuo miniſterio defunctum ef ſe. Quàm multa
uidiſti pulcra? quot uo luptates quotdolores deſpexiſti? quot peruerfis
hominib. æquúte præbuiſti? Quamobré animi artis & diſciplinæ uacuiarte
& fcientia præditum confun dunt? quem uerò animum arte & ſcien tia
præditum uocas?cum ,qui principi um & finem cognoſcet,et mentem , quç per
uniuerfam rerum natură penetrat, acper omnes fæculorum curſus defini tos atq;
ftatosmundum gubernat. lãiá cinis eris, &oſſa nuda, nihil öter
nomé(liquidéid ſupererit) tui reſtabit. Noméautnihil eftõſonitus. Atea quæ
magniin uita precij habent,uana ſunt, putrida, cxigua, atą inſtar catellorum
mordicantiŭ, aut pucrorü inquietorů, quimodò rident,mox plorant. Cæterű
fides,pudor,iufticia, & ueritas. Climatib . tcrræ cæld petiere relictis.
Quid ergò reſtat, te hîc detineat? fen Gliane tam fluxa, torý mutationib .
cxpofita ?an ſenſus, obſcuri, & qui facilè decipiantur?animula ipſa, quæ
cft ex halatio à ſanguine? gloria inter huiuf modi homines, inanis illa ? Quid
ergo aliud operiris,niſiuelextinctionem ,uel translationem ,idý æquo animo?Quid
interim dum eam occafio adducit ,tibi fuffi ciet? Quid aliud, quàm deos uene
rari &collaudare,hominibus beneface re,eos &ferre, & ijs
abftinere:quæ cx tra tuæ carunculæ & animulæ ſunt po fata fines,ea
meminiſſenex poſſeſsióis, nco poteſtatis tuæ eſſe? Semper potcs uti
ſecundisſucceſsibus, Gredtæ uiæ in Giſtere uis,duo hæc obferuare, quæ di uinæ
menti communia funtcum homi nis , omnisg ratione præditi aſalis ani mo: unum,
non poſle te ab alio impedi ri:alterum ,iniuſta uoluntate & actione | bonum
eſſe collocatum, cumý ad fino efle appetitionesdirigendas: Si hocneg mca
fitmalicia,ncqactio eſtàmeaproficiſcensmalicia:nequcco munitatidāno eſt, quid
folicitus deco ſum ?querò dānúě cómunis focictatis ? Non debemus nos
cogitationib.om ninoabripiédos præbere, fed opitulari quátum eius fieri poteſt,
& dignum eſt, etiam li in medio lit defectus:ncqueid pro damno ducere.ca
enim cófuetudo mala eſt. Sed quemadmodū ſenex di ſcedens rhombum alumni
poſcebat, memorrhombú cffc.ita etiam hic: quo niam bonú aliquid fiatin roſtris.
Heus homo,oblitus es, adhæc lint? lanè: Sed ca,in quibushiſtudiú
ponát.Propterea tu quoqs ſtultus es fa & us? Aliquando uteung
relictus,factusſum felix. Felici tas auteſt, utbonam tibiipfifortem uendices :
id eft ,boni motus ani mi,bonæ appetitiones,bonæ actiones. Aturauniuerfi ſuo
guberna tori obedies eft, acbene có polita: quæ uerò cam guber nat mens,nulláin
ſeipſa ha betmalè agendicauſam : quippenihilei ineft uitij,nc peccat,nc ab ea
quic quam læditur: omnia uerò fecundum cam fiuntatßperficiuntur. Nullo ponein
diſcrimine,algenſne, an calens, dormiturićsan ſomni fatur, malian benè
audiens,moriens an aliud quid agens id facias , quod te decet: quando mors etiã
una eft carum a & tio num, quæ ad uitam referuntur. Sufficit igitur ea
etiam imminente, id quodin ſtat,benè collocare. Intrò refpice.Nullius rei
nequepro pria qualitas,neqid quod cidebetur, te fallat. Omnia quæſubiccta
ſunt,celerrimè mutantur, & autin halitum refoluun tur, fiquidem fit
compacta corum ſub ftantia,aut diſsipantur. Mens uniuerli gubernatrixſcit quó
ſe habeat, quid agat, & quá habeatma teriam ſubiectam . Vlcilcédi ratio
optima eſt,ne ſimilis fias cius, qui iniuriam fecit. Unohocte oblecta, inguno
hocac. Quieſce, ut ab una ſocietatis humanæ tuendęcauſa ſuſcepta actione,ad
aliam tranfeas, dei memor. Princeps hominis pars eſt ea, quæſe ipfam excitat
atą cict, feğz talem, qualem vult,efficit,præſtatý ut ea quæ eue niunt talia,
qualiaipſa uult , fibi uidean tur. 04 Omnia fecundú naturā uniuerG fiúc:
negenim poſſunt fieri fecundú ali ali quam ,ſiue extrinfecus circumdantem, fiue
incluſam ,fiue foris ſuſpenſam . Vniuerſum aut confufio quædam eſt, &
cótextus fortuitus rerum iterum àſé diuellendarum & diſsipandarú: aut
unitionc ordine , & prudétia conſtat. Si prius illud uerum eſt, quid
eft,curcu pia inani huic colluuiei & mixeuræim. morari? quid aliud
expetendum ,quàm ut in terram utcungredigar? quid per turbor?quicquid
egero,tamen difsipa tio mc corripiet. Sin altero mó res ha bet, uencroreú,
animoſ conftári ſum , & gubernantimundum confido . Cum te rerum præſentium
ſtatus nó nihil perturbat,celeriterad teredi,neg ultràquàm neceſſe é , à
modoeius quá inftituiſti cantilenæ difcede. Nam co fa cilius harmoniam
tueberis, ſi continen ter ad eam reuertaris. Sitibi Amul &nouerca, &
mater effet, illam quidem coleres, &tamen crebrò ad matrem te recipercs.
Eadem eſtribi ratio aulę & PHILOSOPHIæ . Quarc ad hanc sæpe numero revertere,
& in hacac quiefce, quæ efficit,ut &res aulicæ tibi tolerabiles
uidcantur, & tu duminijs ucrſaris,ferri queas. Quid cogitandum est de cibis
& id genus rebus ? hoc eſſe piſcis ca dauer , illud auis , aut porci: item
Fa lernum , ſuccum eflc exiguum uuulz purpuram capillos elle ouiculæ, modi. co
teſtudinis fanguine imbutos: tum coitum ,inteſtini parui affrictioné, mu ciğ
excretionem non fine cóuulấone. Cogitationes hæ præclarę ſunt: nam ré ipfam
attingunt,acpertranſeüt, ut qua lis cafit ,cerni poſsit.His per omnem ui tam
utendum eft:aclicubiresquàmma ximè uidetur comprobatu digna,tegu mentis cſt
nudanda, ut & eius in cófpe dum ueniat uilitas,& id,quo fe oftenta bat,
ei adimai. Etenim fucus impoſtor eſt callidiſsimus,ac tummaximèin frau dem
inducit,cum quis maximèfe res ſe rias & dignas tractare putat. Videigit,
quid de Xenocrate ipſo Crates dicat: Pleraq, inquit,corum , quæ uulgus ad miratur
, fi fub habitu aunatura conti nerent, ad latiſsimè patentia genera ré
uocabat,utlapides,ut ligna,ficus, uites, oleas.Quęſubarctiorib.aliquanto , ad
animata ,utgreges,arméta.Si qua paulò plº haberćt gratiæ ,hęcad eareducebac a
cópræhédútur fub ala róe prędita,nó quidé uniuerſali,ſed quatenus artes tra
ctat , aut alias facultates: aut ipſa per fc . au L fcæſtimabat, ut:quidnam
cſſct,poſside remultamancipia.Qui uerò animūra •• tione præditum cû omnibus
ſuis facul tatibus,ciuilis coetus ſtudio uenerat, reliquarum is rerum nullam
curat. Sed omnibus poſtpoſitisſuum animum ita affectum ,atgita fe mouentem, ut
ratio ni & ciuili ſocietati cögruit,conſeruat: ijs quiſunt eiufdem generis
, utiden præftent,auxilio eſt. Quædam iam fiút, quædā mox exiſtent, quin
&cius quod fic, pars iam nuncaliqua euanuit. flu xus, & alterationes
continenter mundű renouất : quemadmodum infinitum æ uum temporis adſiduolapſu
nouü ſub indereddit.In hocita @ flumine quifná ca quæ præterferút, ac
quibusinfiftere nonpoſsit, honore aliquo dignetur?is quidem perinde lit ,acli
quis unum de præteruolátibus paſſerculis diligerein cipiat,atisiamè conſpectu
cius abica rit.Itafe & uita uniufcuiufque hominis habet,ut halitus a
fanguine ſublatus,& aër inſpiratus. Quale.n.eft quod femel animāattrahimus,
& efflamus,id quod identidemfacimus,tale ctiam eſt , quòd f ac ad all a .
ba omnem reſpirádi facultatem , quam hc ri aut nudius tertius nati accepimus,
eò reddimus unde accepimus.Quod uege tamurmoreſtirpium ,reſpiramusmore pecudú,
& ferarú , quòduitsafficimur, quòd appetitionis cauſa mouemur, q
congregamur, quòd nutrimur,omnia hæcnonmaioriſunt in pretio ponéda, quàm quòd
excernimus cibirecremé ta. Quid igitur honore dignü est? num plauſus?nequaquá.
Ergo nelaus quidé populi,quænihil eft aliud quãplauſus 1 nguarú.Sublata igit
etiâ gloriola, quid reſtat, quod ſuſpiciamus & ueneremur? Equidéhoccenſeo, ut
quemadmodú fa ciiinſtructiś à natura fumus,ita mouca mur.Eò nos etiam
diligentia opificum , &artes ducût. Ois.n. ars huc collimat, utid quod
paratú eft,aptü fit & idoneu adopus , cuius operis cauſa paratú eft. Idé
querit uinitor,idé qui pullos equo rum domat,idé qui canes educat. Ergo
&inſtitutio primęætatis & doctrina co contédunt:isý finiseſt,quem
expetere debeas. Húc córecutus,nihileft in alijs rebus quod ſis tibi
quæliturus. Quòd fi pergas ES pergas alia eciã expetere , nec liber cris, neg
tibi ſufficies ipſe, negeris affectuú uacuus:neceſſariò.n.inuidebis,æmula beris
,liniſtra ſuſpicaberisdehis , quiilla tibi adimere poſsúc ,infidiaberis ijs ,
qui ? id quodmagni fit à tepoſsidét.Oino.n. necesse est cu esse aio pturbato,
qiſta de fiderat :fępe etiá deos incufare . Quiuc rò mente ſuam reuereturato
colitis & fibi ip , probabitur, & cum cætu homi num bencei conueniet ,
cúmque dijs conſentier ,id eft,laudabit quæcunque ij diftribuunt &
ordinauerunt. Infrà , ſuper , atque circum te motus ſunt elc métorum . Motus
uerò uirtutisin eorú nullo eft,fed diuiniore quadá , & adin telligendum
difficili'uia procedit . Vide quid aganthomines. Eos qui eodem cú iplis
uiuúttépore, laudare nolūt:ipfi uerò à pofteritate laudari magnü exiſti mant
:nimirúabijs quos ne uiderunt, neq uidebūtunqua.Id uerò haud mul tò aliud eft,
quàm ſi dolerét , non à prio ris etiá ætatishominib. felaudatos esse. Non, li
quid allegintelligétia tua neqs , id daullopoile apprehendi homine exiſti 0 co
ert as f 2ti ma: Sed quicquid homo poreft, quic quid ei conuenit, id &
tibiconcediiu dica.ln palæſtra fi quis unguibus aduer farium
laniauit,autcapiteincuſſo ferijt, nonindignamur, ncq;offendinjur,nco inſidiarum
fufpectum habemus : caue mus quidem nobis abeo ,non ut abho ſte, ncquc Gniſtrum
quid de eo ſuſpica mur,tantùm placidè cum declinamus. Id fieri debetetiam in
reliquis uitæ partibus, ucidem de alijsſentianus, quod de ijs, cum quibus
collucamur:poflu muscnim (utdixi) citra fufpitionem & odiűabijscauere,
& cosuitace. Si quis meredarguere poteft, & demonftrare, quòdnon recte
ſentiam ,aut agam,læto animo fentétiam mutabo :ucritatem.n . quæro, quæ nemini
unquam dáno fuit; damnum autem facit,quiin crrorc & i gnorationcſua pmanct.
Ego, quodcft mci officij, ago, cætera menonauellúc. Autenim anima,autrationc
carent,aut uiæ ignara errant. Animantia rationis expertia,tú omnes ciuſmodi res
& fub . iccta,magno & liberali animo ſunt ufur panda
tibi,ncmpcrationeprædito. Hominibus uerò, ut ipſis quogmentcin ſtructis rationeſocietatis
habita utere. Inomdisciònegocio deos comproca rc:neos ſolicitusefto,quantum
tempo ris fpatium tibi adagendum detur:fuffi ciúteoim ucitres huiuſmodi horæ.
Ale xander Macedo ,agaloß eius , mortui in idem ſuptredacti: autenim aſſumpti
ſunt ad mentēmundicam, qua fati ſunt reliquorum animi , aut diſsipati ſuntin
atomos, unus perinde atgalter. Cum animo tuo conlidera,quàm multa uni co
temporis momento fiantin uniuſcu iuſ @ noftrûm ,cùm animo, tum corpo re :ita
fict,utnó mireris, quòdlógè plu ra, imò uerò omnia quæ in mundohoc fiunt,fimul
extent. Si quis à te quærat, quomodo fitnomen Antoniniſcriben dum: nónne
fingulatim omnes literas proferres? Quid ergo fi qui iraſcuntur, num uiciſsim
tu quoque ſtomachabc ris?nó potius numerum inibis placidè ; Ingularum rerú ?
Itac ctiam hîçmemé to luis omnc officium quibuſdam con ſtare numeris: quos li
imperturbatos ſeruaueris, ncq indignatibus alijs ipfo com Spro MIUS. quog
indigneris,recta uiaid quod pro pofuifti,perficies. Inhumanum effe ui
detur,hominem impedire, ne ad ea fera turquæ ei utilia & cognata uidetur.
At quiid tu ne faciant prohibes quodam modo,dūiniquo animo fers cos delin
quere.Ferútur enim utiqueadid, quod naturæ fuæ coniunctum , & utile putāt.
Sed res nó ita habet . IditaB oftéde eis, & & doce citra
indignationé.Morsfinem imponit ſenſuum motus, & cogitation num officijs
,animúģàcorporismini- situ ſterio liberat. Turpe aút eft in hac uita, in qua
corpus tuũlabori nỏ fuccubit animú tuú elāgueſcere.Videne à pręfé tiſtatu
deiectus obruaris. Poteft.n.hoc fieri.Itaq; cóferua teipfum Gmplice, bo ne
núintegrū,graué,apertū ,iuſtitiæ ſtudio fum ,piúerga deos, benignú, humanú, ad
officiunituendúforté,annitere utta lite lispermaneas, qualetefacere uoluit phi
c loſophia.ucnerare dcos,ſalaté homini busaffer. Breue eſt uitæ in terra degen
dæ tempus,omniſg eius fructus, ſancta animi conftitatio , & actiones commu-
beri pitati hominum utiles .Omniautdecet Anto SE maig Sophie Antonini
diſcipulum.age. Quæ fuerit eius in agendo fecundum rationem fir mitas, quæ
ubiqueæqualitas, quæ ſan ctitas, memento : quæ uultusferenitas, accomitas .
Quantus ille gloriæ con temptor, quod eius in percipičdis reb. ſtudium , quum
nihil prętermitteret,ni fi prius accuratèperſpexiſſet,ac cogno uiffet.Vt
tulerit iniuftè ipfum repræhé. dentes, neque conuitium his repoſuc rit:ut
nihilproperatè aut cupidèaggrel fus fit: ut calumnias nó admiſerit, ut di
ligens fueritmorum actionúmque exa minator:non obtrectator,conmeticu loſus ,
non ſufpitioſus, non fophifta. Quàm paucisfuerit contentus , ut do moleco,
ueſte, cibo,famulatu :quàm tolerans laborum ,quàm lenianimo: ut
tempusnequeadueſperam propter ui ctustenuitaté egerit,ita ut neexcernere niſi
coſueta hora opus ei effet.Queeius in amicitia fuerit conftantia , &æqua
bilitas : quomodo tulerit cos, qui ipfius fententia liberè impugnarent,gauilulý
fuerit,fi quis melius aliquid oſtêderet. Qua ille deos religione coluerit citra
ſuperſtitionem ,recordare, ut iibi quo quc ultima hora perinde atque is fuit re
¿ te tibi coſcio adueniat. Expergiſcere, & tcipſumreuocafomnog diſcuſſo co
gitans quæ te inſomnia perturbarint,ui gilās ea intuere,utilla inſpexiſti, Ex
cor pufculo & anima con to . Corpuſculo nihilintereſt interres , neque enim
po teft difcrimen ftatucre. Rationiautem inter ca diſcrimen habetur, quæ nóſunt
ipfius actiones: has uerò oés in ſua ha bet poteſtate. Quod ipſum tantùm eſt de
præſentibusaccipiendum ,præteritę enim & futurę animi actiones,ipſe quo que
nullum habentiam diſcrimen.Ma nuiacpedi,dum ſuum agunt officium , nullus
eſtpræter naturam labor.ita ho mini quoqueea agenti quæ ipfius ſunt partium ,
nullus eſt præter naturam la bor:ergo nę malum quidé.Quotuolua
ptatibus,acquantis frui contigit latro nibus, cinædis, parricidis , tyrannis ?
Nonnc uidos ut qui ſordidas profiten . tur artes, uſque ad certum finem ſe pri
uatis hominibus accómodent? nihilom minus tamčſuæ artis rationcm retinét, nab
ea decedere uolunt. Nónne aútturpeft, fi architectus &medicus magis lux
artis rationé reuercatur,quá ſuam homo , quæ quidé ei eſt cum deo communis?
Aga& Europa, anguli ſunt mandi: uniuerſum mare, guttamundi: Athos, glebula
mundi : omne inſtans tempus,púctum cſt æternitatis. Omnia
funtparua,mobilia,interituiobiecta: 0 mnia inde ueniunt , profecta à principe
uniuerfi,aut per conſequétiam . Etenim rictus lconis, lethalia uenena, omniaos
maleficia ,ut ſpina, cænú, pulcrarum & bonarum rerum ſunt additaméta, Non
igitur ea aliena ab eo quod colisimagi nare,ſed fontem omnium rerum confi dera.
Qui preſentia cernit,omnia uidit, quæ ab æterno fuerunt, & in infinitum uſg
erunt, Omnia enim ſunt eiuſdem generis, & conformia.Sæpenumero co gita de
omnium in hoc universorerum connexu, mutuag affectionc, Quodá cnim modo omnia
inuicem ſunt impli cata ,ca ratione amica mutuò. Aliud enim ex alio
confequitur,propter con fantem motum, ac conſpirationem & fs unitionem (ut
ita dicam )ſubeſſe. Quib. negotijs addictus es ſorte tua, his teac commoda :
& quibus tehominib.fatū adiûxit, cos amore,idig uero ,proſeque re.Organa,
inſtrumenta, uaſa, quumid agunt,cuius gratia funt adornata, bene habent et quidéis
qui ea parauit, abeſt abipfis.At in his quæ natura continen tur,remanet, intuſý
eſt uis ea paratrix. Ita tanto magis honoranda eſt, &exi ftimandū, li
ſecundum cius uoluntatem agere perſeueres, oía tibifecundum mé tem eſſe:idéo de
alijs hoíbus oíbusin tellige . Quodcu exijsreb.quæ extra te ,negin tua uolútate
ſunt pofitæ ,tibi Ppofueris,boniuel malinoie, id, fi uel utmalú tibi cótingat ,
uelfi, cú pbono ducas,adipiſcinon poſsis , efficiet ut & deos incufes ,
& odio habeas homines quiin cauſa ſūt,aut eo certe noíe ſuſpe cti habét, g
uelmalú hochabeas,uelbo no careas.Propterhác rerú differentia, quam ipfi
ftatuimus , fituc multa pecce mus. Quod fi ſola ea, quæ in nobis ſunt
pofita,bona&mala tractaremus,nihil cauſęreſtaret,ne aut Deú incufaremus,
aut cú hoíbusinimicitias ſuſciperemus. Oés ad eúde finé & effectú agimus:
pars ſciétes, & certo ordine,pars inſcij. Qué admodú &
dormiétes.Heracletus nifal 1 lor dixit eſſe operarios,qui adiuuétlua opera hæc
quæ in múdo fiút. Alius aút alia róneid opus adiuuat :ſupuacanea opera eft eius
qrephédit, & reniticonat ijs quæ fiút, ea reſcīdere:nā & hocuti tur
múdus. Proide animum aduerte, in quorú tute numero reputes. Nã admi
niſtratorhuius uniuerd, utiq teutetre &è , & accipiet te inter
cooperarios.Tu vero ne ſis huiuſmodieorú pars, qualis eſtinfabula uilis ille et
ridiculus versus, cuius mentioné Chrysippus facit. Sólne pluuiæ munia obire
cupit,aut Aeſcula pius terræ frugé ferētis? Quid ucròfyde ra, anno diuerſa
quidélingulis eſt actio, quętnadcómune opus cóferat?Quod fide me & his
quęmihieuenire debue rút, dij cófultauerüt, rectè nimirú mihi confuluerút. Nam
Deum fine confilio agentemnc cogitarequidem facile est: quæautem fuiſſet cauſa
, propter quam malè mibi confultum uoluiſſet? Quid inde ad deos , & ad
uniuerſum ( cuius maximè habentróné fru & usredijſſet ? Sin de me priuato
nihil conſultauerüt, ac deuniuerſo utigrationes duxerunt, ex quo quum ea
conſequutur que mihi cueniunt,non debet mc eoruinpcenite re.Sanède nulla re eos
confilium inire, impiū eſt credere : autneſacrificãdum , neprecandum
,neiurandum quidé, ne que quicquam corum faciendum ,quæ fingula tanquam cum
preſentibus & u nà uiuentibusdijs agimus. Sed tamen fi nihil illi de nobis
ftatuerüt,licet mihi dcmeipfo cóGliú capere, ac demea uti litate deliberare.
Vtile aút eſt unicuig id, quod eſt naturæ eius & conſtructio ni cófentaneú
. Atnatura mea rationis eft cópos, & ciuili cætui accommodata. Civitas mihi
est et patria,quatenus quidem ANTONINUS SUM, ROMA. Quate nushomo,mūdus:hçcigit
tantùm mihi funt utilia , quæ his ciuitatibus condu cunt. Quælingulis
cucniút,ca profunt uniuerſo : id eratfatis ſcire. Sed &hoc addendum, quòd
fi animaduertere uc lis ,ubig uidebis: quæ homini, autalijs hominibus * Sed
nuncuocabulumu tilis accipiamus latius, ut etiam medijs rebus pateat.. Quæ in
theatro aut fimili bus locis uides,ca quum ſemper eadem ſpectentur, &
uniformia, fpe & aculiſa tictatem afferunt. Idctiam de tota uita ſentiendum.
Omnia enim fuperiora & inferiora eadem funt et exijſdem cauſis
excitcrunt.quouſ igitur?Adliduooís generis homines conlidera, qui ex om nis
generis profeſsionibus & nationi busmortuiſunt:ita ut ctiam ufque ad
Philiſtioncm, Phoebum et Origanio nem deſcendas. Hic fanè cogitandum , idem
euenturú nobis,quodaccidit tot cloquentibusoratoribus,totgrauibus philosophis: HERACLETO,
PYTHAGORæ, SOCRATI, tot Heroibus prius,deinde tot du cibus, tyrannis: tum
Eudoxo,Hippar cho, Archimedi, alijs acutis ingenijs, magnanimis,laborioſis,
callidis, contu macibus,his ipfis ,qui caducam hanc & & in dies
durantcm uitam hominūſub ſannarút,utMenippo &fimilibus.Hos omnes cogitandum
eft dudú eſfemor tuos:quid auté maliinde habent?Quid hi, quorumne extant quidem
nomina? Vnumhocſummi cſt pretij, ueritate iuſtitia feruata,mendacib . &
iniurijsho minibus placidú uiuere. Cùm teipfum oblectare uis , cogita virtutes
corú qui uiuunttecum : ftrenuitatem eius, illius uerecundiam, aut liberalitaté,
aut aliud quippiam. Nihil enim eſt,quòd tantam afferatlætitiam , quantam
limilitudines uirtutum in eorum quibuſcú uiuimus moribus expreſſæ,ac fefe
cófertim offe rentes cófpectui.itaqz in promtu haben dæ.Noniniquè fers, tot
libras te appen dere, &non trecentas: ita etiã quòdan norum certum , &
conon maiorem ui ues numerum, indignari non debes.Etc nim ut corporis tanram,
quanta cibi eſt tributa,portionem probas: ita &de té pore tibi ſentiendum
eft. Annitendum eft nobis, ut perſuadeamusijs cum qui bus agimus: lin minus,
etiam illis inuitis id agendú eft,quod iuftitiæ ratio iubet. Quod li quis ui te
impediat,tranfi adę quanimitatem, eo impediméto ad al terius uirtutis
opusabutere:memor, tc cú exceptione quadaíftituere actioné, negca
appeterc,quęfieri nequeat.Itaq is füitimpetus animi tui , cui ſatiſfiat, ii id,
cuius caufa citatuses, cóſequat. Glo rięcupidus, alienā actioné pluo bono
reputat.uoluptuarius affectioné,quai ple afficit:méte uerò pręditus, ſuã actio
né.Licet etiá nihil de hisexiſtimare.ipſe .n.res nó funt eius naturæ, ut iudiciú
no ſtrúefaciat. Adſuefac te, ut alio docéte cogitationes nó aliò diuertas,fed
totus animo diceris fisintétus. Quodalucari nó pdeſt,id ncapiquidé pdeſt. Sinau
tæ malè gubernét, aut no rectè curétur ægroti,dicúr:alius erat quærendus,cui
mecómitterē: aut quo hic faluté naui gātib. uelægrotis ſanitaté afferet? Quá
multiiam unà cũhis, quibuſcúin mun dum uenerüt, ex múdo exceſſerút ?Mor bo
regio laboratib.melamarú uidetur: morfis àrabida beſtia , aqua eft timori:
pueris fphęrula pulcra cft. Quid ergo i raſcor? aut tibi minor uis uidetur elle
fal Gitatis, q bilis apudictericũ, aut ueneni apud morſum à rabioſo
animali.Nemo prohibebit, quin fecundú rationé tuæ naturęuiuas:nec tibi quicqua
accidet, quod fit cótrarónéuniuerg .Qualcsfút illi, quibus cupimus placere, aut
ppter qd, g cis ſuperlis,autper quasactiones? quàm celeriter æuum omnia abſcon
. dat: imò quàm multa iam nunc occultauit? eſtmalicia ?id, quod iệpenumero
uidiſti.Et quic quid omnino acciderit, ex peditin promptu te habere hanc
rcgula, ſæpeid effe à te uifum. Om nino fi ſuperiora &inferiora animore
petas,inuenies omnia cadem eſſe, quo rum plenæ sunt priscæ ,mediæ , recéteró
hiſtoriæ ,& urbes, & domus :nihilnouú eft ,omnia uſitata & breui
durātia tem pore.Neque uerò alia ratione extingui poſluntopiniones, quàm
cogitacioni bus quæ ijs respondent, abolitis : quas quidem ut continéter
reſuſcites , in tua cft pofitum poteſtate. Poſſum de re oblata exiſtimare, id
quod oportet : li hoc poflum , quid eſt cur animo pertur ber?Quæ ſuntextra
mentem meam, ni hil omnino ad cam attinét. Hoc modo affectus,rectus eris.
Reviviscere potes: nam fi res quas antè uidiſti, rursus apud animum tuum
contempleris , exactam uitæ partem qualirepetes. Inane pompa ſtudium , fabulæ
ſceöi tægreges,armenta,uelitationcs,oſsicu lumcatello proiectum ,auteſca in
piſci nám iniecta,formicarūlaborcs,& one: rum geſtationes,murium
perterritorü diſcurſus, Gimulacra ncruis tracta ut le moucát. In his igit
oportetanimo pla cido, &non elato confiftere, & intelli gere,tanto
unumquem dignum eſſe, quâto ea in quibus ftudium fuú is po ſuit . In oratione
ſingula uerba, inijs quæ fiunt, lingulęappetitiones ſuntant maduertendę: ato
hic ftatim uiden dú,quam ad finem cæ referantur; illic quidfignificent:
Sufficitne intellectus meus ad hanc rem, an ſccus? Quòd G fufficit,utoř cô ad
rem propogtam tanquam inſtrume to mihiab uniuerli naturaconcello Sin g. contrà
, aut eam rem alteri cuidam, qui melius id poſsit , perficiendam relin
quo,præfertim fi alioquin id agere offi cium meúnó iubet:autipfe perago pro
uirilimea,adſcito mihi auxiliario,cuius opera mca'mensid efficerepoſsit ,quod
in præſentia fitcommodum , & focieta ti hominum conducat. Quàm multi
quondam fucre cele bres, quorum nunc fama eft obliuioni tradita? quàm
multietiam horum , qui iſtos celebrauerunt , è medio funt fub lati?) Ne ducas
tibi pudori, li cuius auxilio uſus es.Propofitúeftenim tibiid agere, quod fit
tuarum partium : perinde ac militiin oppugnatione muroru. Quid ergò faceres, li
tu claudicans folus con ſcendere propugnaculum nequires: ab alio adiutus,pofles?
Ne te perturbent futura. Nam fi ita uſus erit, peruenies ad ea eadem inftru
ctus ratione, qua nunc in præfentibus uteris . Omnia inter ſe ſunt complexa
ſacro nodo és i nodo neg quicquam ab altero eſ alie ñum , ordincenim omnia
certo funt dif polta , unum eundem mundum ex ornent. Mundus ex omnibus conſtat
unus , unusqueper omnia diffufus est d Deus, una natura,unalex,unaratio cô
munis omnibus ratione præditis ani mantibus, una ucritas:Siquidem etuna eſt
perfectio eorum quę eiuſdem funt ni generis , eiufdemó participia rationis ui
animantium .. Omneid quodmateria conſtat, ce lerrimè in uniuerlo abolei: omois
cau io fa, celerrimè in rationem uniuerfi adlus mitur:omnium rerum memoria quàm
20 primùm æuoconfunditur. id Ratione prædito animali cadem a. EEtio &
fecundum naturam eſt, & fccun dum rationcm. Rectus,an qui erigatur? Quam
ra. Itationem in unitis & compactis corpori bus habent membra , eatn
obtinent ra tione prædita animalia in diullia, præ parata ad unam quandam
actionem. Hæc cò magis animum tuum tanget, ſi crebro tibiipfi dicas : pars fum
cius, quodeſtex ratione præditis conflatū , corporis:Si autem propter elementum
R.dicas te eſfc partem , nondum ex ani mo diligis homines, nondum ex bene
ficentia delectationcm capis, quam ue rè apprehendat animustuus,adhucde cori
tantùm cauſa ita agis , non ut in te ipfumbeneficium conferens. Sanèalijsquęcun
& accidant,corum eft, fi uelint, ca culparc.Ego quidem re bus mihi
contingentibus, niſi in malis eas ducam, nihillædor:& licet mihi ea non
putaremala. Quicquid alij loquantur & faciant, mc quidem oportet ellebonum
:haud aliter,gliaurū uel ſmaragdus,uelI pur pura ſemperita diceret, quicquid
alij dicant, aut faciant, ſmaragdum eſſe o. portet,me colorem ſeruare mcum.
Mensipſa ſeipſam nó perturbat,hoc cſt ,non afert fibiipfiullam cupiditaté
autmctum.Si quid aliud eſt, quod pof fit cam terrere aut dolorem afferre, fa
ciat ſanè: ipſa quidé per ſenulla opinio. nc libihosmotus affert. Corpuſculum
ucrò uerò ipſum curet , ne quid patiatur dis cato, ſi quid patitur.Animonullus
me tus dolor,aut opinio horum accidere pót.negem ci ſunthabitusad hęc. Per le
omnimetu mcns uacat , niſ feipfam deftituat:ita &perturbationis, & im
pedimenti exors. Felicitas eft bonus dæmo, ſeu bonü. Quid igiturtu hic agis
phantafia ? ubi, unde ueniſti, non enim te opushabeo. Sed uenifti fecundum
priftinam con fuetudinem : non tibiſüccéſco, faltem abi , Siquis mutationem
timct,is cogitet able ea nihil fieri poffe , ncque eſte ca quicquam naturæ
uniuerli amicius.An tu lauare poffes, nifi ligna mutarentur? aut ali,nifi
nutrimétomutato ?autquid nam aliud utile poteft abf mutationc fieri ?Non ergo
uides etiam tuimutatio nem carum limilem eſſe ,ac perinde nc ceffariam uniucrü
naturæ. Per uniuer ſam naturam:tanquam per torrcntem , tranfeunt omnia corpora,uniuerſo
ipa cognata, & eius opcrum adiutoria, uti et nostra invicem luntmembra.
Quot Chrysippos, Socrates et Epictetos xuí iamn deglutijt. Idem de omnire &
homi ne tibiad animum accidet. Vnum hocmeſolicitumtenet,ne ad faciam ,
quodhominis conſtitutio aut nolit factum ,aut alio modo, uel tempo re factum
velit. Propediem erit, ut et tu omnium re rum obliviſcaris,& nulla Gtuſquam
tui memoria. Proprium hominieſt,ut etiam cos di Jigat,qui peccant. Fiethocl in
menté tibi ueniat, elle cos tibi cognatos , im prudétia, & inuitos
peccare,paulò pòſt & te, & illum qui peccauit,moriturum ; idý
potiſsimum ,nó lælum te ab co.no enim eius peccato tua mens deterior, quàm fuerat,facta
eſt, Natura mundi , ex uniuerſitatetaną ècera modò equum finxit,moxco con fuſo
, materia iſta ad fabricam arboris ulacſt,deinde ad homunculi, inde ada .
liarum rerum.Harum ſingulæ quá bre uiísimo duraruntſpacio . Atquiarcula
utlicompingatur,nihil eftmali:ita neli diffoluatur quidé. Irati uultus oío eft
cótra natyrä,quádo fæpius immoriedi fit prętextus,aut ad extremú extinctus eſt
,ut oſo inflammarinópotuerit.Hoc ipfo intelligere labora, irá à ratione effe
alienam . Nam fi etiã ſenſus peccati nul lus erit, quæ erit uiuendi cauſa?
Quæcung uides, ea iam iam à guber natrice mundi natura in alias, rurſuso &
deinceps in alias mutabit formas:ut femper recens fit mundus. Si quís aliquid
contra te deliquerit, ftatim cogita quánam boni uel malio pinionc pcccauerit:id.n.fi
cernas, miſc reberis eius,acneobmiraberis,neq ira fceris.Nam
autipſeidé,quodis,bonum putas, aut aliud quidda eiuſdé generis: venia ergo
danda: Sin tu secus de bonis et malis iudicas, cò placabilioreris ei qui falsus.
Non deijs quæ abſunt, tanquam de præfentibus cogitandum eſt:fed præſentium ea
quæ ſunt aptiſsi ma, deligenda funt,illorumg caulame moria repetendū ,quánam
rõefuiſſenç quærenda fiquidem abfuiffent.Caueta men præſentia adeò probes, ut
etiam in honore ca habeas,ac fi quãdo abſint,p turberis.Intra teipſum uertere. Hæceſt
natura mentis,utiuſtè agens, in hocg acquieſcés,nihil extra fe quærat, Aufer
uiſå inhibemotum ncruorú, cir cunſcribe inſtans tempus,cognoſceid quod
uclţibi,uel alij accidat, diuide fubiectum in materiam &formam , co. gita
de poſtrema hora, Quod peccatú eſt, ibi ceſſat , ubi pec cațum ſubliſtit,
Intendenduseſtanimus ijs quæ dicuntur,mente penetrandum in causas et effectus,
Exorna teipfum fimplicitate& uere cúdia, coś, ut quæ ſunt medio inter uir
tutem & uitium loco, in nullo ponas di fcrįmịne, Diligehumanum genus, obſe
quereDeq:is enim aitomnia fieri certa lege. Quod fi diuina ſunt etiam elemen
ta. Sațiseſt meminiſſę,hæc omnia certa lege conſtare,aut admodú paucaſecus,
Mors é auţ diſsipatio ,qui indiuidua rum particularum ſecretio ,aut exinani
tia,autextinctio, aut migratio , Dolorli fitintolerabilis, mortem af,
fert:diuturnus ferri poteſt,interimga. nimus ſuam retinet tranquillitatem ,ne
que fit deterior. At partes dolorç con fectæ, ipsæ quæratur,fiquidem poflunt.
Honinum opiniones de gloria intue cil re, quales Gint, quid propolitụm habc
cidant,quid fugiant, Lide Viß in littore maris arenæ cumuli Co- alij
ſuperaliosappulg ,prioresoccultát, įta in uita quo priora à ſubſequenti bus
celeriter abſconduntur. Platonicũ .Quiigituranimocſt præ unditus alto et
cognitioné habet omnis temporis, omnisg naturæ ,an tu cúpu er tas exiſtimarç,
quòd hominis uita ma - gnum ſit aliquid ?Nequaquam ,reſpon sc ditille. Ergo
,inquam nemortem qui B: dem in malisille reputabit? Minimè Era uerò, Antiſthenicum
,Regium eftmalè au dire, çum bene feçeris. Turpe eſt uulta co obſequi
intellectuiſco componercita uutisiubeat,cumipfeintellectusſeipſum non
componatat ornet. Namrebus iraſci,nihilfanè expedit: Iram curăt enim noſtram
nihil.Dijslę. tiignaris, & nobis gaudia doncs. Frugiferam uti fpicam mcæ
uitæ mc tam.* At hoc quidem effe, illud nona then Lam LIK trCurl be Quod ſi dij
me , libcross ncgligunt, Ratio eft & huic. Meum enim est bbene efle et
iustitia. Non una lugere, Deg tremere. Platonica. Ego autem haudiniuria hoc
retule. rim.Non rectè dicis, ô homo,liputas ef ſe uel uitam uel morté aliquo in
diſcri mine ponendam ciuiro, qui uel alicu ius fit precij:acnon id potius unum
có fiderare cum inter agendum ,iuſténcan iniuftè agat, & eáne fintuiri boni
anue rò fecus.Reienim ueritas, & Athenien ſes, ita habet, ut quo quis loco
ſeipſum conſtituerit,exiſtimansita optimum el fe,aut cum ita Gtoptimum ,cò
colloca tus fuerit, ibi (mea quidem ſententia ) perGftere debeat, ac quoduis
pericu lum ſubire,neg mortem , uelullam alia rem turpitudine grauioré ducere.
Sed heus tu ,uide,ne animimagnitudo,cibo pum aliud quidpiam ſint, quam ferua
re, & feruari. Neque enim conceden dum eſt,eum reuera uirum diçimereri, qui
quantocuný tempore uiuendum, acquc rationem uitæ habendamputat: Sed 1 leo sel
gar, CO all 1 WC 1 ef Sed eum , qui dehis cura deo commife la, credens
mulieribus , non pofle fa tum ab ullo euitari , id consderandum porrò ducat,
quánam rationetempus uitæ conceſſum fibi quàm optimè exi , Curſus liderum
conſiderareexpedit, quali eos comitaremur , & elementorú mutuæ mutationes
crebrò cogitandæ . Hæ enim cogitationes uitæ humilis for des abſtergent. Bene
eſt à Platonchoc dictum.Etiam cùm de hominibus loq. mur , intuendum est in pes
terrenas . Etc nim qui memoria altius repetierit ho minú cógregationes
,exercitus,agricul turas,nuptias ,pacta ,ortus,interitus,iu 1. diciorum turbas
, uaftitates regionum , varias. Barbarorum gentes , ferias , lu dus, nundinas ,
in ſumma, qui colluui cm illarum , & ex contrarijs compol tum præteritorum
aceruum , tantas 191 imperiorum mutationes recoluerit, is ecià futurā præuiderc
poterit. Quippe et candem hæc habent cum præteritis for mam , nem alio
possuptmo fieri, Itaçćç Cu alia edbo en idem eſt, quadraginta, an decies milių
ſpacio annorum uitam humanam exa mines, nihil enim amplius uidebis. Exterra
enim nata in terramredacta funt:quæucrògenus traxeruntcælitus, redicre ad
æthercúpolü: fiuehæc quæ dissolutio complexuum , quibus ato miiunguntur, sive
elementorum passio nis expertium dissipacio. Cibis, potug, & magicis adeo
artibus Avertimus currum, & mortis fugi mus uiam. Flantem diuinitus auram
Opus eft tolerarclaboribus, Luctu, lachrymisg calentibus. Est aliquis te
peritior luctæ :quid tú? at rófocietatis humanę ſtudioſior eſt, non uerecundior
, non ita commodè fert ca quæ accidunt, nó ita mitis homi num peccatis. Vbicung
poteft aliquid perfici,fecun dum cómuné dijs & hominibusratio ncm, ibi
nihil eftmali.Nam ubi utilita tem conſequi licet actionis, quære&a uia
proccdit fecundum conſtitutioné i hominis,ibinon cft uerendum nequid fubfit tog
fubfit damni. Vbig & femper in tuacſt manupofitum ,ut ca quæin præfentia di
biacciderunt, & approbes piè, & cúbo minibus quicccum lint,iuftè agas,
&ui ſa oblata artificiofe examinesne, quid non facis perceptum admittatur.
Noli aliorum mentes circumſpicere, ſed cò recta intuere, quò te natura ducit,
cùm uniuerli, per ea quæ tibieueniunt,tum tua per ca quæ tibi ad agendum ſunt
propoGta. Id autem unicuiq ad agen dum proponitur, quod eft eius conſti tutioni
conſentaneum. Porrò ita con ſtituta ſunt & comparata fingula: reli qua
quidem omnia corum cauſa, quæ mente ſunt prædita,nimirumdeteriora pręſtātiorum
causa, ratione autem pro ditorum unum alterius caufa factú cft. Primas igitur
inter partes ex quibus ho mo conſtat , ca pars obtinct, que fo cietatcm
humanamreſpicit:alteras,ca, fibi à perſuaſionibus corporeisillo
abſtinet.Rationccnim & intellectu prę ditimotusproprium eſt ,ſeipſum circa
ſcribere, &nco ſenſitiuæ,ncqueappe titiuçmotioniſuccumbere:harumem utrag
ctiam brutorum cft. 1 qua Atintelle&iua principatum obtine re, neq ab illis
regiuult:neciniuria, quig pecuius natura ferat ,ut omnibus reli quis ipſa
utatur. Tertiú eſt ,uacuitas te meritatis & erroris. Quibus intéta pars
princeps,rectà progrediat, ſuis cóiéta. Tanquam mortuo, &qui hactenus
tantùm uitæ uſura fuerit cóceſſa, quod ſupereſt uiuendum tibi crit fecundum
naturam ,tanquam ex abundanti. Tu ſolus ca diligens , quæ tibi fatum iniunxit, contentus
efto . Quid enim magis congruum, quàm ut ſingula cue niunt,ftatim cosante
oculos habere, & cum eadem ipfis cucniffent, indignati ſunt,nouitatem rei
mirati, &repræhen derunt ea. Vbinuncijſunt?nufquam . Quid attinet te corum
fimilem effe uel le ? acnon potius alijs fuum morem rc linquere , ipfein hoc
effe, utrebustuis bene uraris? Idý poteris præftare, nec deeritmateria , modò
animaduerte , & ftude , uttibiipliin omnibus actionib . uidearis honeftatem
confecutus. Vtri ufgz uerò actionum finis recordandum cft.Intrò
reſpice:intuseft fons boni,ſem per ſcaturiens,fiquidem femper fodias. Corpus
conftare,acneq motu, ncg habitu diffolutum effe debet. Sicutem mens efficit, ut
vultus Gt compolitus & aptus , ita detoto corpore uttale Gt annitendú eſt.
Omnia hæc curandu é, ut ne oftétationis caula Gimulata fint. Vivendi ars palæſtricæ
cft, quòd ſal tatoriæ fimilior,eò quòdipfa quo cu rat,utad ea quæ incidūt,neq;
ancè lune præcognita,parata fit et à caſu tutum hominem feruet. Adliduò
inquire, qualesij fint, quos teftimonium de te ferreuis, ac quæ co rum fint
mentes.Ita nco cos qui inuo luntariè peccantculpabis,nee teſtimo
nijegebis,fiinipfosfontes infpicias,un deijopinionesfuas,appetitiones hau
ſerunt:Omnis animus, inquit illc , non ſua ſponte priuatur ueritatc : idem
sentiendum de iustitia, temperantia, benignitate, omnibusý limilibus.Atnecef
ſariū eſt quâ maxime, id te nunquã nó meminiflc:ita. n. erga oés crismitior.
Dcomni dolorein própru fit tibi co gitare, cum ncg turpem efle, neqmen
tégubernątricem reddere deccriorem feras. Id quog recordare,multa cú ea quippe
hæcnegrationc materiæ , nem ſocietatis humanędamnum accipit. In maiori autem
dolorum numero etiam Epicuri dictum prodeſt,eum ncg into lcrabilem eſſe,ncg
æternum. fiquidem finium recorderis,ac non preiudicium in * dem habeantcum
dolore naturam , ta men occultèmodò moleſta eſſe :ut dor miturire, eſtum
ferre,nauſeare:quorum aliquod li moleftè fers, dic tibiipfi,te dolori
ſuccumbere. Vide neita afficiaris contra inhuma nos, ut homines contra homines.
Vnde nobis conſtat Socratem fuiffc illuſtrem et meliori conſtitutionc præ
ditum? Non enim ſatis eſt eum clariori morte occubuifle ,aut peritiùs cum So
phiſtis diſputalic , & patientiùs in frigo re pernoctalle, & Salaminium
abdu cere iuſſus,fortiter rcpugnaſſe, acíuijs maieſtatem uultus præ ſe
tuliſſe,dequo maximè dubitari poteſt an uerú id fuc rit. Sed hocconſiderandum
eſt, quo ani mo fuerit Socratcs,an potuerit conten tus efle, Siiuſtumfc hominibus
præbe ret, ac pium erga deos, annequç teme rè ob aliorum maliciam
litindignatus, nec ullius inſcitiæ ſubferuiuerit, an ni hil corum quæli uniuerſi
natura attri buiſſet, tanquam peregrinū autintole rabile acceperit, nunquám ne
affecti bus carnis conſentientem mentempræ buerit. Non ita confudit omnia
natura,ut no liceat circúfcribere ſeipſum , & quæ ſont propria cuix,
caipfum in ſua reti nere poteftatc.Admodum cnim poſsi bile eſt,ut quis diuinus
uir fiat,acă ne mine cognoſcatur. Hụius ſemper me mento:atqhuius etiam ,
quòduita bca ta in pauciſsimis rebus eft pofita. Nog guia deſperattice
Dialecticú autPhyl cum futurum ,iccirco etiã liberú ,pudi cum ,fociabilem ,deog
obedientem to fieri poſſe. In maximaapimi uoluptate licețui uere, tutum ab omni
ui,utcung omnes quæ uolunt contranos clamitent:etia li corporeæ huius molis
membra å ferig laniétur.Quid enim obſtat,quominus intcrim meas ſeipfam conſeruet
in tran hic 10 5 quillitate,uero de rebus præfentibus iudicio , & uſu corú
quæ ſuntpræma. nibusexpedito : ita quidem ut iudiciú rei fubicctæ dicat : fanè
cu natura tua họces,etfi aliud uideris :urg ulus dicat rei oblatæ : Ego te
quærebam . Semper cnim id quod adeſt, materia mihi eſt exercendæ uirtutis
rationalis & ciuilis, omninog uirtutis humanę aut diuinç. Omni enim id
quodaccidit,deo eft aut homini familiare,ncgnouum, ncgin fractabile,ſed
conſuctum & tractabile. Perfectio morú hocpręſtat,ut omne diétanquá
ſupremūagas,nihil tremas. nihiltorpeas,nihil Gmules.Dij, cu Gar immortales,
tamen non indignè ferút, quodin tam diuturno zuo ſemper om nino tot improbos
homincs perferre debeant: quinimo illorum curam fum mamgerunc. Tuautem qui
iamiam cef fabisuiuere,defperas,idg unus è numc romalorum.Ridiculumeft te non
fuge rc tuáipfiusmaliciam , id quod potes, aliorum uelle fugere, quodnonconce
ditur tibi. Quicquid rationalis et ciuilis tua uis inuc vn . ich inuenerit nc rationi cóſentancū,ncq
ad focietatem conducens , id rectè ca indignum iudicabis. situ benè alicui
feciſti, & cſt, quià to beneficium acceperit, quid præter hæc duo
tertiumaliquid requiris ftultorü more,ut & uidearis bcnè feciflc , &
gra tiam recipias. Nemo defatigatur accipi endo aliquid utile. Atqui utile tibi
cita tcſecundum naturam aliquid agere: nc igitur dum alij prodes , dcfatigare
tibi aliquid boni parando. Vniuerfi natura olim ad mundum fa bricandum fe
contulit:nunc autem uck omnia quæ fiunt, confequétia fiút ſua, , uel ctiá in
præcipuis corum, ad quæ fa mundi gubernatrix natura confert, ra tioninullum
locum efle & cóGlio, tené dumeft. Hoc, & memoria tencas, multis in
rebus animo ut his tranquilliori cffi ciet. hs 1 'D quoqad minuendamglo riæ
cupiditatem facit, quòd non licet tibi adhuc totam uitam ,quæàprima tuaæta te
fuit,philofophicè uiuere: fed cumul tis alijs , cum uerò tibi ipli manifeſtum
eſt factum ,teproculà PHILOSOPHIA abef fea Gonturbatæ igitur funt tuæ ratio
nes.cumaço ipfeiam nomen philofo phi facilèpoſsis adipiſci, & tuum inſti tutum
repugnet. Siitaque uerè perfpe xiſtį, in quo litrespofita, omitte curare quis
habearis:fatis autem fit tibi fireli quú uitæ arbitrio naturæexigas. Quid ca
uelit , cogita , hinc te nihil diuellat. Expertus enim es circum quotres ua
gatus,nufquam uitam beatam inuene ris:nonin ratiocinationibus, non in di uitijs
, non in gloria, non in voluptate, nullibi.Vbi uero eſt ?in agendo ea, quæ
hominis natura requirit.Quomodo ita aget? Si eahabeatdogmata,à quibus có ſentạneæ
appetitiones &actiones ueni ant.Quęſunt illa?debonis& malis.Sci
licetNihil , effebonühomini, quod nó reddit iuftum ,temperantcm ,fortem , li
beralem :nihilmalum ,niſi quod horum contrarium efficiat. In omni actione à
teipfo quere, qua lis ca tibi Gt. Nec poenitentia eiusmoue re:parum abeſt, ut moriaris
, &omnia è medio fint. Quid prætcrca requiro , li præſens a &tio
animalis eſt mente prædi ti,ſocietatis hominum ftudiofi et deo æqualis.
Alexander, Caius, et Pompeius, quid hiad Diogenem, Heraclitum, vel Socratem? Hi
enim nouerant res, earum cau ſas,materias :ita erant ipſarum mentes.
inſtructę.Ibiuerò, quibusin rebuseſſet prudentia, & feruitus. Nihilominus
cadem facicnt,eciam litute ruperis. Primum cſt hoc,neperturberis:om nia
ſecundum uniuerli naturam eucni unt:paulò pòft,nuſquam eris,ficut núc Adrianus
& Auguſtus. Deinde in rem ipfam intucre,eamg cólidera,recorda tusoz debcrc
tc eſſebonum uirú , acad hominis natura uelit , ageid quod pro pofitum eſt
cóftanter, aciuſtiſsimetúc te egiſſe puta:modòplacidè,uerecúdè, & citra
ſimulationem cgeris. Vniuerli naturehoc agit,ut quæ hoc modo habcnt,aliòmutet,
& exuno lo coin alium res transferat: Omnia con Itant mutationibus, neß
quicquã mc tue: nihil enim noui,omnia uſitata cue niunt, & æqualiter
diſpenſantur.Cæte fum unaquęg natura,firccta uia ingro diatur,fibiipfi
fufficit.Natura autem in tellectiuaid facit, G'in cogitationibus, id
obſeruet,ne falſo,aut obfcuro aftipu letur: impetus animi ad eas folum actio
ncs dirigat, quæ faciunt ad ſocietatem hominum : catantum appetat & uitat,
quæ in nobis funt pofita: omnia quæ à communi natura tribuuntur grata ha
beat.Hiuius enim pars eſt,bcutnatura fi lij,naturæ ftirpis pars eſt: nifiquod
hæc eſt eius naturæ quę & ſenſu & intelle Au carcas,impedirepoſsit:Hominjsną gratis non iraſci. tura,pars eſt naturæ quæ
impedirinon poſsit,intelligat,& iuita fit:liquidem æ qualiter , &
pdignitate uniuscuiuſuis tempora,ſubſtantiam ,actionem , & eué ta diuidit.
Congdera autem æqualitaté că inuenturum te fifingulas res exami nes : finunam
cum uniucrGs conferas, non item. Atqui licetlibidinem arcerc,uolup tatibus
&doloribus ſuperiorem eſſe, item gloriola: licet ctiam ſtupidis & in
Nemo te audiat uitam aulică repræ hendere,ac ne tu quidem teipfum. Penitentia
eſt repræhenlo quędam fui ipfius,propter bonü aliquod dimif ſum :bonú uerò
,oportet utile effe, ideo qúe ciºcura é haběda uiro bono & ho neſto.At
nullus talis pænitentia ducc turobneglectam aliquam uoluptatem , ergo
uoluptasncqin bonis eft, ncoin utilibus numeranda. Resita expédendæ ſunt.Quid é
hocp ſc, & fua, ppria cóftitutionc? ģei° ſubită tia &materia , quæ
forma?quod eius in mundo officiú ,ac quandiu permanet? Si difficulterà fomno expgiſcaris,
reminiſcere conſentaneum eſſe tuæ conſti tutioni , & naturæ humanæ, ut
aliquid agas quod coetui humano pſit. Atdor mire,etiam brutis eſt communc. Quod
autem unicuiq ſecundum naturam eſt , id & magisproprium ei eſt, &
cognati us, adde etiam gratius. Hoc aſsiduo & quibuſcũæ incidétibus
cogitationib, li fieri pofsit, in promptu habendum . Si de natura,
affectibus,aut alijs reb. diſputare cum aliquo libet,ftatim teip fum antè
interroga: Quænã is ſentit de bonis &malis.Nam opiniones de uolu ptate
& dolore, eorumg efficientibus, de honore, ignominia, morte, uita. Non
debet mihinouum aut mirum uideri , li quæ res hoc aut hoc modo a gát: cogitabo
em, ita opus efle fieri. Co gitabo, licut turpe fit uelle me in mira culum
raperefificus fructum ſuum pro ducat, ita etiam, fi mundus ea proferat, quorum
eft ferax: etiam medico & gu bernatori turpe fit mirari uelle , li quis
febricitaret, aut fi aduerſus uentus exi Iteret. Memento mutare ſententiam ,
& re aệ & èmonentiobſequi,perindeeffe libe ri. Tua enim adio fecundum
tui animi impetum fit atque iudicium , tuamo mentem. Siin tua eſt poteſtate,cur
facis? linin alterius,quid repræhendis? atomósne, an Deuni? quorum utrungeſt
cum inſa nia coniunctum.Nihiligitur repræhen dédum.Nam fi potes,uel eum qui cau
ſa eſt,corrige,ucl,fi prius nequis,rem ip fam : lin neutrum ,quid iamtibi
profuit repræhēdiffe? atqnihil fruſtra faciédű. Quod moritur,non excidit è mun
do :nam ut conftat, & mutatur , ita etiã diffoluiturin elementa, quẹtibifunt
cũ mundo communia.atq hæc ipfa ctiam mutantur,negindignè ferunt. Vnum .
quodgeſtad certum finem factum , ut uitis,equus.quid mirum? etiam ſol, &
reliqui dij pofluntdicere,cuius rei cau fa facti funt. Tu ucrò cuius cauſa ?
num uolupta tis? uide an hocferat intellectus. Natura confilium inijt de
uniuſcuiuſ quereitam finc,quàm initio & duratio nc. Si quis pilam inſublimçiacier,
quid h nam ea uelcûm effertur, uclcum defert, aut cadit quid bonimaliucpatit
?Quid bullæ boni accidit fi conſtet,autmaligi diffoluatur ? Idem de lucerna
poſsisin telligere. Cogita quidfiat corpuſculo Genelcat, ægrotet,fi ſcortetura
Breuis uita cft & laudantis, & cius q laudatur , cius quimentionem
facit, & eius, cuius mentio fit:prçterca fit hocin angulo portionis mundi,
acncque ibi quidem omnes contentiunt, imò nelie bi quidem ipfi quifqua. Tota
ucrò ter ra punctumeft. Animum aduerte ſubicctæ opinio. ni,actioniaut di&to.
Meritò hçcpatcris, malles uerò cras bonus fieri quàm ho dic. Siquid ergo , id
ita fit à me, ut ad benefaciendumhominib.referatur.Ac cidit mihi aliqd
,referoidad Dcos, om niumg rerum fontem ,& originé,à qua omnia inter ſe
connexa dependent. Lauare,quæ tibires uidetur? Oleum, sudor, sordes, aqua, ſtigmenta:
omniaab ominanda.Ita fe omnis pars mundi, om nisgres ſubiecta habet. Lucilla
Verum, deinde Lucilla fecunda Vini, da Maximum.Secunda Diotimum,Fau Itinam ,
Antoninus hæc omnia. Cęterű Adrianum , inde Celer. * Vbi ucro auſte ri illi
&uates , & inflaci ? ut ex auſteris Charax, et Demetrius Platonicus,
Eudemon, & fi qui alij tales. Omnia in diem durant.iampridem mortui
ſunt:quorú dam ne minimo quidem tempore dura uit mcmoria: quidam fabula facti
ſunt: ponnulli etiam c fabulis jam cuanue rűt.Idigiimemoriatenédú, g necelſeç
rit autdiſsipari tuâmixturā, autextin guianimulă,autmutari,ctaliò trasferri.
Læticia hois é, ut faciat quæciſuntp pria.Propria aút cius funt:beneuolétia
crgaſuũ genus,cótéptusmotuúq ſunt in lenGb.diftin &tio inter uiſa pbabilia,
cótéplatio naturæ uniuerfi, & corúqſe cundú că fiút.Itě tres refpeétus:unus
ad cauſam pximā,alter ad diuină çaufam , à quaoíaoíbus cueniüt,tertius ad cose
nobiſcü uiuút. Doloraut corporima lus é:ergo ipfum id pnúcict,autalo.Scd
animuspoteft fuam tranquillitatem & ferenitatcm conferuarc, ncc dolorem pro
malo ducere. Omnc enim iudici ým, omnis impecus,appetitio , & inclinatio
intus eſt:ncq.ci dolorquicquam mali affert. Quare omnia uila tolle ex animo,
Continenter te ipſum admone:Núc in mea cft poteſtate,ut in animo hocni hilfitmaliciæ
,nihil cupiditatis, nihil. cu multus: accum omnia ita cernam, uti funt,
fingulis utor pro ipsorum dignitate. Hoc tibi licere,memineris fecúdum naturam.
Loquere & in ſenatu, & cum quibus cunghominibus compofitè.Sana ora
tione non eſt apertè femper utendum . Aula Augufti,uxor,filia,ncpotes,po
ſteri,ſoror,Agrippa,cognati,proping, amici,ſoror, Agrippa,cognati, propinqui,
amici, Areus Mæcenas, niedici, sacerdotes: omnino totam aulam mors
abripuit.Deinde etiam accede, ubinon unusmodò eſt mortuus homo.Defecit tota
Pompeiorum gens:hincmonimen tis etiam inſcribi uidemus,fuiſſe aliqué cius
familiæ ultimum . Quàm anxij uc rò fuere maiores cius, ut aliquě ſuccel forem
relinquerent : & tam necesse eft aliquem efle ultimum. Vita componenda est
ita, ut conftet uniuſcuiuſ actionis ratio. Quarum li unaquęg ſuum , quantum
cius fieri po teſtpræſtet officium , contentus fis :at queid quominusfiat,nemo
tibi obfta re poterit.Sedobftabit,inquis, aliquid extrinſecus. Nihil quidem ,
quodiufti ciæ ,modcſtię &prudentiæ impedimen tolt. Atqui fortaſsis
aliquiduim agen dihabens impediet? quin tu id impedi menti boni conſule , fico
ftatim facto tranfitu adid quo conceditur moderá to ,alia emergertibi adio ,
quæ ad cam, de qua loquimur, conſtitutionem qua dret.Accipiendumline faſtu,
dimitten dum cum facilitate, Si quando uidiftimanum abſciſlam , uelpedem
,capútuc amputatum alicu biſcorâmă corporciacere,cogita ei ſe adfimilarc pro
uirilifuahunc, qui im pá bat ea quæipli eueniunt,ſeg à commu ni ſocietate
feiungit,aut agit aliquid ab čaalienum , Ita tu te ipſum ab unitione Dáturali
abrupiſti,cuius eraspars narº: nücuerò teipſum abfcidiſti.Id uerò fei tum eft,
quòd iterum tibilicetei adiun gi:id quod
nulli alij parti deus concef fit, ut ſeparata & auulla rurſum inoleſce ret
toti.Hicmihi bonitatem conlidera, quæ homini tantum honoris detulit. Nam &
initiò iplius in manu pofuit,ac à toto auelleretur: & deinde, ut auulfus
redier,iterug cócreſcerco locü partis recuperarepoſſet , dedir.Nãquéadmo
dugngulç ferè rationis cópotes naturą ab ea cæteras facultatcs , ita nos quoß
hanc ab ipſa accepimus. quemadmo dumenim ipſa omne id quod obftat &
rcfiftit,cóuertit, & fato fubijcit, ſuam partcm efficit:ita animal rationc
prædi tum poteft omne impedimentum pro ſua materia accipere,coğuti adid, qd
intenderat. Note cogitatio totiusuitæ confuna dat: neq animum aducrte ijs ,quæ
mul ta uidentur dolorem poffe afferre.Sed ſingulis rebus oblatis à te ipfo
quæro, quid náca in rc Gtintolerabile:id cnim pudebit te
fateri.Deindememineris,ne que præterita tibi , ncquefutura ullam
afferremoleſtiam , fed præſentia tantű . Achæc cxtenuantur,& fuis ca
limiti, bus, determines , cogitationem tuam redarguas,fi ca tam cxiguæ reinó
Grfo rendæ. Num iam domini tumulo adfident Panthca, aut Pergamus? Num Adriani sepulchro
Chabrias & Diotimus? ridi culum hoc. Quid verò G adGderent, ſentiréntne
illi ? autuoluptatem cape Tent, fiquidem ſentirent? aut fi cam ce piſſent, an
coimmortales eſſentreddi te? Nónnchis quoquefatum fuit ,ut ſencs &uetulæ
priùs ficrent, inde mo scrétur ? Quidautem illi poftmodò fa ciét , his mortuis?
Oia hæc fætida funt, & tabus in facco . Si acutèuidere potes,afpiccetquàm
fapientiſsimè iudica,inquitille. In conſtitutionc animantis mente præditi
nullam inueniouirtutem quæ iuſticiam cxpellat: Sed quæ uolupra . tem
cijciat,uidco continentiam . Si tuam opinionem detrahas ab ea quod uidetur
dolorem afferrc, ipfe in tutiſsimo es collocatus.Quisipſe? Ratio.Verùm ego ,
inquies, non ſumra tio.Efto.Proinde ratio ſeipſamnedolo re afficiat:Si quid
aliudin te eſt quodlæ datur,ipſum de fe iudicet. Cùm impedit fomnus aut
appetitus, idmalú accidit uegetatrici animæ: quæ &alia ratione offenditur.
Ita fi mensim pediatur ,fitcum damno mente prædi tę naturę.Hæcoía ad te
tranſfer.Dolor, uoluptas,attinguntte?Si uiſus impedia tur quominuscernat,impedituriã
fen ſus. Quòd fi abſos exceptione aliquid appetis,iamid cú rationis capacis par
tis incommodo fit :lin communetibi p poſitum eſt, neg læſus es, nec impedi tus.
Mentis quidem proprias actiones nihil aliud impedire poteft:nonenimac tingitur
ab igni ferro ,tyráno ,autcalum nia ,aut alia ulla talire . Sphæra cum fit
,rotunda manet. Indignum eſt, me mihi ipfi dolorem afferre,quinullum unquam
aliúlubens læferim. Alijs aliæ res læticiam afferunt:mihi, fi pars mei princeps
fana ſit, ne auerſe tur quenquam uel hominem, uel humanum calum :Sed omnia
placidis afpici at oculis , omnia accipiat, ijsý utatur uti dignum est. Difce
præsens tempus tibiip, gratificari. Qui commendationem pofterita tis magis
curant,nó reputant dos horú Similes futuros,quosnuncægrè ferunt, argipä сcia
mortales. Porrò quid om nino tua intercít, a talibusi) uocibuste cantent,autita
de te fèntiant. Tolle mc, & ponc quocung uoluc tis, ibi enim utar genio
mcopropicio.i. cótéto,& habeat ſe &agar naturæ mica confequenter. Id
uerò an dignum eft,ut malè props tereàhabeatanimusmeus, ac feipfo de terius
?abicctus, appetens, anxius;per . territus? Ecquid co dignum inueniam ? Homini
dihilaccidere poteft quod nó fit humanum, nccboui,uiti,ſaxo quic quam, quod
nonlit confentaneumcius naturæ . Quòd fi unicuigid contifigit; quod &
cófuetum eſt,& naturale,quid eft cur indigneris? nihiliticoletabile ci
bicommunisadfert natura. Sin propter cttrancam aliquam ré perturbaris: nó A
illa tibi,fed tuum de ea iudicium , molc ſtiã affert : id uerò ut abolcás , in
tua eſt poteſtate. Quòd fi quid eorú quæ in te ſunt, te moleſtat, quis eſt qui
prohibe at,ncopinionem emendes? Similiter Gi doles te hocnon agere,prodeft cogi
tare,curnon potius agasaliquid , quàm doleas: ſin aliquod potétiusobſtat,no li
dolere, cùm nófiat tua culpa,neagas. At uidetur ujuendum non elle ,nig hoc
agatur: placidus ergo uitam relinque: quádo &is qui agit,moritur æquusim
pedientibus. Memento partem tui principem ſu perari non poffe, cum in ſe
collecta fc ipsa contenta est, neque quicquam pre ter uoluntatem agat, etiam fi
noninftru eta ratione pugnam conferat. Quid er gò fier, li étà rõe parata,
circúſpectè de reb.iudicet.Itaqmés ab affećtibus libe ta,arx é:
nihil.n.munitius homo habet, quò refugiés fuperari nópót.Id qui nó uidit,indoctus
est: qui uidit, ncq eòrc fugit, infortunatus. Siqd uiſa aut cogitationes tibi
renú. ciāt,caue aliquid cu addas. Renunciacú 'cit, eft ,aliquem tibi malè
dixiſſe. Eftoid al latum ,non taméid quo $ ,cflc teleſum. Video puerú
ægrotare:uideo, sed g inpericulo Gt,non uideo, Ad hunc modú ſemper ingifte
primis uilis, nihilipfein tus adijce:ita nihil mali erit.Imòhocad 1.dc,noſlete
omnia quæ in mundo cuc niunt. Cucumis amarus cit ,omitte cum: uc i pres in uia
ſunt, declina cas :ncq uerò dicas, Cúrnam hæcin mundo sunt facta. Ridereris
enim ab homine naturæ rerű indagatore, haudſecus quàm à fabro aut futore,
damnares quòdinofficina ramenta & reſecamenta operum uide : res.Atquihi ca
poſſunt aliquo abijce re: uniuerli natura nihil extra fe habet. Verùm hocin
cius arte potiſsimùm mirari decet, q cùm ſeipſam circumſcri pâffet, omnia quæ
in ſe habet, quæ ob noxia corruptioni,ſeniog , & nulli ele uſus uideantur ,
in ſeipſam tranſmutat, rurfus ex his alia noua efficit: ita utne que fubftãtiá
extra ſe requirat, neqlo cum ,quò uiliores res eijciat.Contenta eſtigitur
ſuoloco,materia:& arte. Neqin rebus agendis flu & uandum eſt, ncqucin
communi uita turbandú , ncquecogitatiouibus uagandum , nego omnino animus
contrahendus, aut fü bito impetu efferendus,ncg uita occu pationibus inanibus
attcrenda.Cædes peragunthomines , mactant,exccran tur: quid hęc
poffunt,quominus mens tua permancat pura, prudens,modeſta, iufta? Quemadmodum
fi quis limpido & dulcifontiaſsiſtens, eiconuicium fa ciat:illa quidem ob
id non ceſſat purā aquam ſcaturire: quin &fi quis lurum, aut ftercus
inijciat,tamen ſtatim illa dif fipabit atą eluet,ncgabijs obturabit. Quid ergo
agendum , ut fontemper en nem habeas,non ciſternam? Compone te ipſum ,ut fis ad
oés horas liber, man fuctus,fimplex ,uerecundus. Qui neſcit effe mundum, neſcit
ubi ür. Qui neſcit, cuius rei cauſa fit natus, ncß quis ipſefit ,neq; omnino
mundú cflefcit.Quorum alterutrum cui decft, is cuius gratia extiterit,dicere
ncqucat. Vter uerò tibi elegantior uidetur, isą plaudentium fugit laudem
,anilli, qui ac negubi,nequc qui fint,cognoſcunt, Laudari cupis ab hic , &
feipfum ſpa cio unius horæter execrat?placere uis homini, qui ne fibi quidem
ipfe proba tur?nifi is probeturlibiipa ,qui ferè om nium eorum , quæ
egerit,poenitétia cor ripitur. Non iam tantùm unà ſpirandus eſt circumfuſus
aër, fed & confentiendum cum méte quæ uniuerfa complectitur. Haud em minus
uis intellectrix omni ci, quod cam trahere poteſt,circumfu fa eft, quam
ſpiritus ſpirare uolenti. Generatim malicia mundo non ob eft:inſpccie
auté,nihil lædit proximu: Soli ci obeltcui & conceflum eſt , ut cũ primüita
uolucrit,liberari ea poſſit. Non magis ad meam uoluntas alie na pertinet, quam
uel anima eius , uel caro.Nam etfi maximè uerum eft, una noftrûm cffc alterius
cauſa natū , tamé principes noftrum partes ,ſuum quæli. bet dominium
obtinct.Etenim curalte rius malicia,mihieſſer malo? cum non Elit uiſum Deo,ut
in alterius Gt potefta te, cſſemeinfelicemSol diffufus effe uidetur? atæ omni.
no quidem fufus eſt, non tame effuſus, Fulio enim eius,cxtenſio.Itaq &
fulgo res eius, quos nos radios,actinas ab ex tendendo Græci dicunt. Quod autem
Git natura radij,uidere eſt, fi inſpiciaslu men ſolis per anguſtum in umbrofam
donum immiffum . Recta enim im mittitur, & diuiditur ad obiectum foli dum corpus,
quòd aërem intercipit :ibi ucrò permanct,ncq decidit. Ita &intel lectum
fundiac difundi, non tamen ef fundi oportet: quippe utextendatur,ne quc ui
& temerario impetu ad obiecta impedimenta impingat:ne concidat, fed perftet
, & illuftretid, à quo acci pitur, id quidem , quòd eum transmit
tet,ſplendore ſeipſum priuabit . Qui mortem metuit, aut amiſsioně ſenſuum timet
, aut diuerfum fenfum , Quod& amitượt ſenſum ,nihilutig ma lifenriet; lin
alium ſenſum adipiſcetur, aliud erit animal, neg amittetuitam . Homines unus
alteri cauſa natifunt, Diſccigitur,aut fer, Aliterjaculú,alitermens fertur.Hæc
enim etâ cauta ſit, &in deliberatione uerſetur, rectà tamen fertur.ingredi
in principem cuiuſuis partem: præbet au tem etiam alij unicuique ingredi in ſu
am principalem partem. Viiniuſtè agit, impietatis reus eſt. Etenim cùm uni uer
natura ratione prędi ta animantia eò effecerit ut quantum eius dignum eft,unum
alteri profit,noceatautem ne quaquam : qui uoluntatem cius præua ricat, impius
utißeſtin omniú dcorú primam .Acqui mentitur,etiam impic tatisin candem dcam
fefe obligat. Na tura enim uniuerfi,corúcſt natura,quæ funt:hęc autem omnia
interfecognata funt . Porrò autem cadem Veritas dicituf,uerorųý primaeft caufa.
Quii. tagſtudiò mentitur, cò quod decipit, impius eſt: quinon dedica opera,eò ,
p ab uniuerh natura diſcrepat , &quòd præter decorum agit, repugnās uniuer,
b naturæ :repugnatenim ei, quiin con frariam partem à ueris deflectit, prætop
quam iplius natura ferat, quęcioccalio nes præbuit, quibus neglectis non pót
jam uera à fallis diſcernere. Impietatis reus is quoque eſt, qui uoluptates tan
, quam bonum appetit, dolorem utma, lum fugit.Hic enim peceſſe eſt ſæpenu merà
incufet communem natura,quae ſi ça aliquid præter dignitatem bonis malísue
tribuerit:ppterca, quod fæpe mal¡ uoluptatibus fruuntur,cag.quib . efficiútur
eæ ,poſsidet:boniuero dolo re afficiunt, & in caufas dolorişincidūt. Jam
qui dolorem metuit mețuet aliquá do aliquid eorum ,quçinmundo fient: įd uerò
impium eſt.Rurfus qui uolupta tem confectatur,non abftinebit fe ab in juſticia
:id uerò palàm impietas eít, O portet autě ad ea ,quæ natura in utraq partem
æqualia effecit (nca cnim utra que feciffet,niſi ad utranæ partem exx quoſe
babuilſet)eum qui naturam uult lequi ducem, fimiliter æqualiter eſſe ef fectum
,Ita & qui dolores & uoluptates, mortem & uitam ,gloriam &
ignomini am ,quibusæqualirationcutitur natu 14, nonin eodem ponitmomento, pro
culdubiò impiè agit. Quod auté dixi, Naturam communcm ijs exæquo uti, ita
intelligendú eſt,qdea cueniút in u traque parté conſequentia quadam, iu xta
antiquum prouidentiæ impetum , quo illa ab aliquo principio ſe ad res i ta
diſponendas contulit,complexa ra ționes quaſdam corum quæ ellent futu ra ,
deſtinatis quibusdam facultatib . ex quibus nafcerentur ſubicctæ , muta ţiones,
& fucceflus eorum, Gratiofius quidem crat, hominem mendacij, fimulationis,
luxus & ſuper biæ omnis inexpertum mori: ſecunda (aiunt)nauigațio
eft,fatietate horum af fcctum antemigrareè uita quàm illa ui tia probare.
Nondum ne tene experien tia quidem docuit,utpeſtem fugias? Pestis enim eft ca
intellectus corruptio, lo gè magis, quàm aëris quædam intempe' ries ifta
&mutatio. Hæc enim animali peftis eft,quatenus uiuitillud : hæcho minum,
qua ratione ſunt homines. Mortem non contemne, boni camć conſule, quippe
remexijs unā,quasna turadecreuit.Qualcenim eftiuueneſco re, ſeneſcere, augerc, uigerc,
dentes, barbam, canos ferre, liberos crcare, uterű ferre, parere, reliquæ $
naturales effe ctioncs, quas tempora uiteadferút, tale eft etrādiffolui. 'Hominis
ita ßrationc utentis cft,mortem ncggraucm ,ncquc uiolentam , neg contemnendam
rem exiſtimarc,fed operiri eam , tanquam u nam è naturalibus actionibus:perinde
atque nunc expectas, quando fætus ex utero tuçuxoris edatur, ita expectanda
etiam hora, quaanimula tua ex hocre ceptaculo excidat. Quodfi rudequidé, ſed
taméquod corattingere poſsit,do cumentum accipis,omninò ut facile fo ras mortem
efficiet, fi cogites, quales ij fint à quibus diſcedas, & à quorum morum
litanimus tuus ſeparandus col luuica luuie. Iraſci quidé ijs qui tecum uiuút,
nequaquam debes, ſed corum curā gc rere,ijsý placidum te prebere:Cogitan dum
tamē tibi eſt,te ab hominibusnon idem tecum fentientib . diſcedere. Hoc enim
unam erat,quod poterat retinere in uita', G fuiffet homini datum uiuere cum
ijs,quieademſentirent:Núc uides quàm laborioſa fitinter unà uiuentes diffenfio
,ita ut dicas:ô mors, uenicele riùs,ne quádo ipſe quog meiipfius ob liuiſcar.
Quipeccat,abiipfi peccat: quiiniuftè agit, & biipfi iniuftè agit, ſco malum
efficiens ipſum ,lædit. Sæpenu merò iniuriam facitis qui nihil agit, nó is modò
quiagit. SiadGt certa de rebus fententia, & a ctio ſocietatem humanam
ſpectans, & animus ita affe & us,ut boni cóſulat om nia quæ accidunt
præter id quod eſt à cauſa profectum: hæcli adfint, ſuficiút ad opiniones
tollendas, Gftendum im petum animi, extinguendum appetitú , &habendum
paratam apudſeſc parté principalem . Vna uita brutis animantibus eft dis
tributa:unamens, rationem adeptis. Qucmadmodum una eſt terrenorú ter ra, &
unam lucem uidemus , unum aêre trahimus. quæcáqucuidendi & uiuédi uim
habcmus. Quæ commune aliquid habent,con tendút ad id quod eft eiufdem generis.
Omne terrenum ad terramuchit ,omnc item humidum, aut aërcum ad ſuum iti dem
genus,ita ut neceſſe fituiea inde in tercludi.Ignis furſum effertur, propter
clemétarem igncm: omniuerò hic igni aliquid eſtparatum utinflammctur,ita ut
omnis materia paulò ficcior facilè i gnem concipiat,quia minus eft in eius
temperic id quod inflammationě pro hibeatItag & omnc, id quod commu nis
mentis eſtparticeps, limiliter ad co gnatum ſuum contendit:atq etiam am plius.
Quanto enim eſt alijs rebus præ Itantius, tanto ¶țius ut cómiſcea tur
cum co quod eiufdemcſt generis. I taquc apudipla ſtatim bruta inuenta ſunt
examina, greges,pullorum educa tiones, atq id genusquali amores.Ani macnim iam
in his eſt, ido quod ea in unum conduceret, apud præftantioré partem
reperitur:id quodin plantis,la pidibus &lignis nó inuenitur.Atapud ratione
õdita animalia,ciuitatcs funt,ct amiciciç, & domus, & concilia:ingbel
lo pacta & induciæ. Apudpræſtátiora, etiam ex diuerfis modis unitio quædá
conftat, ut apud aftra adcò aſcenſus ad fuperiora conſenſum etiam in de iua dis
cfficere potuit. Atqui apud catan tùm, quæ mentem habent,obliuio mu tui ſtudij
& conſenſus reperitur, & hic modònon uidetur quomodò adſe in uicem
affluant.Quanquam etiam fi fu giant homincs hanc coniun &tioncm ,ca men ab
ea corripiuncur, naturanimirú præualente. Vidcbis autem id quoddi co, li animum
aducrtas. Facilius cnim inuenies tcrrcum aliquid nulli terreno adiunctum , quàm
hominem ab homini bus auulſum . Fructumfert &homo,& deus,&mú
dus,fuo unumquodą temporc : quòd lconfuetum cſtin uite, ut luum fru & ű,
nullum communem ferat, tamen ratio fructumfert &communem &propriú, naſcunturg
ex eo alia quædam eiuſmo di, qualis est ratio.
Peccataliquis.Sipotes,meliusillum doce:fin uerò, meminerismanſuetudi nem
tibipropterea datam : nam & ipli dij illis ſunt clementes, qui& nonnul
lis ad conſequendam fanitatem diuiti as, &gloriam ,auxilium ferüt:adeò funt
benigni. Id & tibi licet, neque impedit quiſquam Labora, non ut miſer, nec
ut qui uel miſericordia ,uellaudé conlequi ſtude as:idunum tibi fit propoſitum
agere ſe cundum ciuilem rationcm . Hodie omni me periculo exemi,imò uerò omnia
quæ uidebantur mala cie ci: nihil enim extrà erat,fed omniaintus in opinione
mea. Omnia hæc, quæ in caducis funt, fa miliaria iam mihifecit experientia:du
ratione autem ſunt diurna, materia for dida,omniatalia, qualia erat etiã apud
illos, quosſepeliuimus. Resipfæ extrafores ſtát,nihilipfæ de feipfisnorūt, neß
pnunciát. Quid igit deijs pronunciat?ratio. Negidperſua fione, fionc,ſed
actione diſtinguit bonum & malum ciuilis animalis ratione prædi ti: ſicut
ncßuirtusneg uitiú in perſua fione, fed actione. Lapidi in altum coniecto nihil
mali accidit fi dccidat,ncg bonum , quòdin ſublime effertur. Introſpice corum
animos, & uidebis quosij iudices timcant, & ut hi ſeipfos iudicent.
Omniafunt in mutatione,ac tuipſe quog in perpetua alteratione, ac quo dammodo
corruptione. Quin & totus mundus. Alterius peccatum ibi eſtre linquendum,
ut firactionis defcctus,ap petitus,opinionis quics,ac quaſi mors. nihil mali.
Tranfi nunc ad ætates , ut puericiam , adoleſcentiam ,iuucatutem ,ſenectam:
horum omnium mutatio eft mors.aun quid mali?Trág deinde ad uită ſub auo acam
,ſub matre, ſub patre: quinetiã ali as multas mutationes & fines inucni cs,
quære ex teipso, an quid mali Git?Ad cundemmodum eſt etiam totius tuz ui sæ
finis, quies,acmutatio. Perpende mentem tuam ,uniuerfi,ac proximi:tuam ,ut ea
iuſtam reddas.uni uerfi ut recorderc cuius pars fis: proxi mi, ut uidcas
fitnein ca igooratio ,an uc rò incellcctus. Simul intelliges te factú ad
explédum ciuile corpus,atqita om nem actionem tuam facere ad uitam ci uilem
complendam.Etenim quecúquc tua actio nó ad focictatem humanam , tanquam finem
uel propinquum uel remotum refertur ,illa uerò uitam inter polat,& unitatem
eius foluit; turbaso ciet,ficut in populo cam plebs ſeceſsio nem facit. Abhac
concordantia. Pue . rorumirę,ludicra ſpiritus qui cadauera geſtant:ut co
efficacius accidatidquod eſtin Necya. Vade adqualitatem cauſa , čamgå materia
ſecretam confidera, tum quàm diu permanerc omnino pofsit ca pro pria qualitas.
Paffus esinnumera, eò quod non có tentus fuiſti cua mente agere ca,ad quæ crat
facta.Sed hæc fatis. Cum te alius repræhendit aut, odit, aut aliquid
talcpronunciat,afpicecorú animulas: intra, & uide quales Gint.Cer nes nihil
eſſe tibi laborandú, ut hocuel illud ij de teiudicent. Bene quidem ijs uelle
debes: Datura em amicifunt, eos dij omni ratione iuuant,perinſomnia,
uaticinia.Hæc quidem de quibus ijcer tant , circulus ſunt rerum mundanaa rum,
quæ ſurſum deorſumgab unoz uoin alterum uoluuntur. Aut ad fingulas res uniuerſi
intelle ctus ſe applicat, quod fi eftita, id , quò ca ſe applicat:approba. Aut
ſemcltan tum impetüfecitipfa més, reliqua om nia conſequéter fiunt.* Et quid
unum alicui. Quodam enim modoAtomi. Omninò autem , que Deus fit, recte omnia
habent : ſiue temerè ſunt omnia; i nunquid & tu ? lam nosomnesterra
occultabit :poſt ipfa quogmutabitur: & res deindealię item in infinitum
mutabuntur.Enimuc ro qui fluctusmutationum & motuum confiderabit, earumg
celeritatem , is omnia mortalia contemnet. Torrentis inſtar cauſa uniuerſi
rapit omnia. lam ó ipſa iſta ciuilia quàm ſuntuilia? & quàm k uidenturhomunciones
iſti philoſophi cè agentes,pleni eſſe muci? Quid facien dum ? quod nuncnatura
poſcit,cò con tende îi liceat , neqcura ,an fit aliquis mortalium
hoccogniturus.Neo Plato nis remp. ſpera: Sed contentuseſto ,G uel minimum
procedat:hứcqueipſum ſucceſſum cogita quàm non fit exi guus . Mutat aliquis
illorum ſuum placitum ? atquiline horum mutatio ne quid eſt, quàm feruitus
gementium, &perſuaſos ſe esse simulantium. Vade nunc et Alexandrum et Philippum
et Demetrium Phalereum mihi dic, Vide rint an ſcierint quid communis uolue
ritnatura, & an leipfos ſub diſciplina te nuerint.Quod ſi tragicè tantùm
ſeſe o tentarunt,nemo me damnauit , ut co gar eos imitari.Opus philoſophiæ
ſim-, plex eft , & uerecundum.Nolimeaddu cere ad faſtú, qui præſeferat
grauitaté. Supernè contemplari infinitaarmen ta,ſacrificia ,omnis generis
diuitias , in tempeſtatibus & ferenitate: quæ facta funt,cum ijs nata,
quæitem deceſſerút. Conſidera etiam uitam eorum qui ante te,& qui poſt te
uiuét: horú ét, qui hodie apud Barbarosuiuút: @multico rum ne nomen quidem tuum
sciant, mul ti ſtatim obliuiſcentur, mulu cũ te núc laudent, ftatim ſunt
culpaturi . Deniz quam res nullius momehti lit memoria aut gloria , aut aliquid
tale. Vacuitas perturbationum in his quæ ab extrinſe ca cauſa accidunt ,
iuſticia in ijs , quarū actionum tu es cauſa : hoc eft impe tus animi , &
actio , quæ finem habe at ſocietatem humanam : id enim eft tuæ naturæ
conſentaneum . Multa fup uacanea ex hisq te perturbát,precidere potes,q tota in
tua ſunt opinione fità, multūý laxitatis et ſpacij tibi acqrere. Torūmundū alo
cócipe,tuuğæuú per pēde, tú celeré lingularú rerú mutatio . né.breue.f.efſe
tēpus ab ortu ad interi.. túid uerò q huncfequit ,idó pillú prę
ceſsit,infinitú. Oía quę uides,celerrime interibút: hi quo ,quieorú interitú ui
dent, ipfi quog mox peribunt. Qui decrepita lenecta moritur, idem ferer cum co,
quiimmaturamorte cadit. Quænam ſunt eorum mentes , quib. rebus ſtudent,quæ
habent in honore, quæ amant?iudicate nudas ipforum in tueri animas.Cum
uituperando obeſſc, aut prodeſſe laudando ſe putant, quæ cítilla opinio?
Amiſsio uitæ nihil eft aliud quàm mu tatio: hacautem delectatur natura uni
uerfi, fecundum quam omnia fiunt rc te. Abæternoreseiuſdem formæ natæ ſunt,
licg eritin infinitum . Quid ergo dicis omnia facta, & futura male. Ergo
nullus inter totdeos repertus eſt, qui ca corrigeret,ſed damnatuseſt mundus ut
perpetuis malis conflictetur. Vide quàm putris ſit omniú rerum materia ,aqua,
puluis,oſsicula,fætor: rurſus calli terræ ,marmora:fęces, aurű & argentum
:crines,ueſtis,fanguis, pur pura,omnia reliqua eiuſdemmodi. Eti am quæ fpiritu
conſtant, alio modo ta lia, atq ex hisin hæcmutantur. Satis miſeræ uitæ eft,
& murmuris, & & imitationis? Quid perturbaris? quid in hisnoui? Qui
terret te ?nú formala ſpicc cã.nú materia ? afpiceilla. Extra hæc nihil eft.
Quin &iam crga deos ſim pliciot &melior esfaćtus. Idem eft Gue tribus
hæc, live centum annis ea diſcas. Si peccauit , malum apud ipſum eſt: fortaſsis
autem non peccauit. Aut ab una aliqua mente tanquam onteomnia progrediuntur,
quæ cor poribus accidunt:proinde pars non de bet euentis totiusfuccenfere.
Autato miſunt omnia,confufio , & diſsipatio ; quid ergò perturbaris?Menti
tuæ dicis . Mortuus es ?perijſti, efferatus es , ſimu las, cs in cætu, aleris?
Aut nihil poffunt dij, aut aliquid. Si nihil ,cur non compræcaris eos?Sin pol
ſunt,cur non magis etiam pecis ut dét tibi, ne quid horum metuas, autexpe
tas,ncque magis doleas ſi abſit,quam ſi adfit.Omnino cnim li poſſunt adiuua
reij homines , etiam in hoc poterunt. Fortè dices,Dcusea in meapoſuit pote
ftate.Efto . Nónne crgo præſtatteijs ģ in tua ſunt poteſtate uti libere, quàm
de · ijs quæ non ſuntin tua man u pofita,ſo icitum eflc , animo feruili & abiecto
9 3 k 3 Quis autem tibi dixit , deos non in his etiam, quæ penes
nosſunt,auxilium ad ferre?Incipe ergo precari de his, et uide bis.Precat alius
, ut cum aliqua cubet: tu petę , ne eius rei appetitustibioriat. Alius petit,
ut certa releuetur, tu, neca leuari tibi op' ft.Alius,ne amittat filiú : tu ,
ne idipfum metuas. Omninò adhuc modum uota concipe, & quid fitfutu rum
uide. Epicurus ait fibicum ægrotaret, nul la fuiffe de corporis affectione cum
ſu is colloquia ,fed decaufis rerum natura lium præcedentibus diſputatum conti
nenter.Eı rei ſe intentum , mentem ha buifſe perturbationum uacuam, ut quę
motuum corpuſculi nullam partem ac ciperet, ſuum bonum cuftodiens,idea qúe ſe
ne medicum quidem qui appli caret pharmaca adhibuiffe; Sed uitam benè
habuiſſe.Tuquod is in morbo po tuit,hoc liquid alterius rei incidat,ob ſerua.
Vt eniin non defiftere à philoſo phia propter quæuis negocia, neg cũ quouis
uulgari homine nugari,omnib, Sectis é cómunc.lic in omniactione cie b h ti incumbendum
ſoli, q ppoſitum eſt,in ftrumétog quoadidutimur. Si cui? impudentia
offenderis,ftatim percótare teipfum , an poſsit fieri, ut nulli fint in múdo
impudétes.nó pótaūt hoc fieri: neigitpoſtula id qd herinequit :alio quin ipse
quoß un'eris eximpudétib. ijs, quos effe in mundo oportet. Idem de uerſuto
,infideli,omnidenim quocú quemó uitiofo in próptu ſit tibi cogita re.Ná
firecorderis neceſſarioid genus hominú efle , fingulos æquioré te prebe bis.Id
quoq utileé,ftatimcogitare,quá homini natura uirtuté cótraid pecca tú
dederit.Remediū.n.tribuit, cotra in gratos manſuetudiné,cótra aliud uitiū, aliud
pharmacũ. Olo aút licet tibi in ui am reducere eu qui errauit: nā oís q pec
cat, cò errat, pàppofito aberrat. Denique quid inde tibidamniallatú é:inue nies
quidénullú eorú quib.iraſceris, tale quippiam fecisse, quomés tua fit futu ra
deterior:atquiin hocunico fitú crat, ut malú tibi atg dánú accideret . Quid
verò malum aut novum accidit, fi indoctus į homo agit suo modo: uide ne tu
tibiip c 2 0 k 4 ſe potius ſisrepræfendis, quinon præ fenferis fore, utisi: a
peccarct. Eenim anſam tibi omnino præbuit ut cogita res, confentaneum eſſe utis
ita pecca ret.Ac tamen eius oblitus,miraris eum deliquiſſe? Maximè ucrò fi cui
infi delitatis uel ingratitudinis cauſa ſuce cenſes, intra te conuertere.
Proculdu bio enim à te peccatum eſt, fi eum ita affectum iudicauifti fidem
feruaturum : aucl beneficium conferens,non eo có tentus fuiſti quod dederis ,
neque fru - & tum teipſa ex actione capere cogitaui ſti. Quid enim aliud
requiris, cum ho mini bene facis?non cibi ſatis eſt ,te tuæ naturæ conuenienter
egiſſe, ſed & mer cedé inſup defideras, perinde ac fimer çede oculus
poſcat,quia uiderit,autpe des ppter grellus. Quéadmodú enim hæc ad certūfiné
facta ſunt,ita ut ſecun dúfuam conſtitutioné atą naturam ſi egerint, fuum finem
adepta ſciamus:ita homo adbeneficentiam natus , & quid beneficij cótulerit,
aut aliud quid ege rit ,quod ſocietati humanæ conducat, fecitid ,cuiusgratia
eſt factus, conſecu tus cft id, quod ad eum pertinebat. Ris aliquando , ô
anima, bona, simplex, unica , & nuda, ſplendidior corpo re tibi circumiceto
. Gu ſtabis olim amoris affo ctum :plɔna eris,nullius indigens , nihil
deliderans ncg animati neque inanimi ad fruitiones uoluptatum :ncqtempus
requires : quo diutius fruare,neq locũ, regionem , aut aèris commoditatem , nec
hominum conuenientiam .Sed có tenta eris præfenti ſtatu , dele & aberis
omnibus quæ cruntin promptu, tibig ipfi perſuadebis,omnia tibiadeſſe,om nia
cuareétè habere,omnia à Dijs tibial lata,probabisquæcúq ijs probabunt, ac quæ
tibi ad perfe&ti animalis ſalu tem dabunt,quod bonum eft, iuſtum , honeſtum
,omnia generat at continet & ample &titur, quæ diſſoluuntur cò, ut alia
exiplis exiftant. Eris aliquando ta lis, utita cum Deo & hominibus uiuas,
utne quid in ijs repræhendas, neg ab illis damneris.Obferuaquid natura tua
requirar , quippe qui tātùm à natura gu berneris :id deinde fac &admitte ,
nifi tuanatura,qua animales, cò fiat deteri or.Secundo loco animaduertédumeſt,
qd animalis natura quæin te eft, requi rat:idgo mne omittendum eſt, nifide
terius tit habitura ea natura , ob quam rationis particeps diceris: nempe ciui
lis , & rationalis. His uſus regulis, nihil ages fuperuacancum . Omni quod
tibi euenit , aut ita euc nit,ut tu laturuses , aut ſecus.Si como do, quo tuid
ferre potes , non fer ægrè, fcd utnatura tua te docet: fin cótrà , no litamen
indignari, etenim ipſum peri bit.Enimuerò memento cam eſſe tuam naturam ,ut
omnia feras ca,quæ an into lerabilia iudicare uelis nécne, in tua eſt fitum
poteſtate,ſecundum uiſa, qua id tibi prodeſſe aut conuenirc ducis. Siquis
errat; docercillum debes benigne, & oftendere quid non animaduer
terit.Siidneſcis,teipfumaccuſa,imò ne teipſum quidem. Quidquid tibieuenit, id
omne abę. terno tibi deſtinatum eſt,atą à conne xu caufarum fataliter tributum
. Nam &quod tu es, et quæ tibi cueniút, ab æ terno dependent. Siue ex
impartilibus corpuſculis, fi uc natura mundus conftat, id primum conſtat,eflcte
partem totius quòd à na ra gubernatur.Deinde,coniunctionem tibi quandam eſſe
cum eiuſdemgeneris partibus.Horum memor,quatenus par tem me eſſe totius fentio,
nihilægrè fe ram eorum , quæ à toto mihi tribuútur. Parti enim nihil poteft
nocere, quod to ti prodeſt. At totum nihil habet, quod nóip6 profit.Id , cùm
omnibu set có mune naturis , tú Vniuerſi naturæ hoc accedit, quod ne ab ulla
quidemextrin feca cauſa poteſt cogi, ut aliquid fibi dá nofum producat.
Quatenus uerò mihi cognatio quædam eſt cum partib . quę funt eiuſdem generis ,
nihil agam quod non refpiciat communitatem , imà ſemper ad communem utilitatem
diri gammeas actiones, & à contrario auer tam.Hisita conſtitutis ,necefle
eſt uitá proſperos habere ſucceſſus: ficut & ci uis uitam profperam
intelligeres,proce dentis per actiones ciuibus utiles , boniş consulentis
quæcung ei civitas tribueret. Omnes partes mundi interire necef farium eſt, hoceft,
alterari. Quod fi hoc etiam malumipfis fit ,nónne uniuerfum malè poſsit
perdurare, partibus ad inte ritum, &alterationem cóparatis. Vtrú enim
natura inſtituitſuas partesmalè af ficere,malog obnoxia, & quidéneceſ
ſariò,efficere?aut perimprudentia hoc admifit ? Vtrung quidem non eft ueri li
mile. Quin etiam ratione Natura omiſ ſa, ipfarum rerum naturam confideret, item
ridiculum erit hóc. Simul enim di cere, quod mundi partes à natura factæ ſintad
mutationes et carummutatio ncs quafi contra naturam euenientes mirari aut indignè
ferre, abſurdum ſit: præſertim cum fingula ex quibus ſunt conflata, in ea etiam
diffoluantur. Aut enim diſcretio fit clementorum, cx qui bus concretæ ſunt res,
aut mutatio, ſoli di quidem in terram ,aèrci autem in ae rem, ita ut hæc quoß
aſſumantur in Ra tionem uniuerfi, fiuehoc certis conuer fionibus inflammabitur,
fiue perpetuis uicibus renouatur. Solidas autem &ae reas partesnon opinare
ab ortu te habc re : omnia iſta heri & nudiustertius ex alimento et inspirato
aêre affluxerunt: hæcgmutanti, non id quod ex utero matris attulifti.
Poneaut,hocte admo dum adiungere propriæ qualitati:nihil rcuera,puto ,adid quod
dicitur. Cùm fumpferis tibiipfinomina hęc, bonus,uerecundus,uerax, intelligens,
prudens,alti animi,caucne quando ifta nomina,amittas,alijsg camutes. Celc riter
ea aſo repete, acrecordarcnole in telligentis indicari ſcientia dc fingulis
rebus percipiendi, & eú, qui cogitatio nibus alienis non occupetur: pruden
tis uerò, uoluntariam approbationem corum , quæ communis natura tribuc rit
:altitudine animi,mentis intentioné & ſublimitatem , ſupraleues & duros
motus carnis, gloriam ,mortem , aliasg res elatæ. Siigitur teipſum dignum his
nominibus præftiteris,non id appetés, utab alijs ita appelleris,alius
eris,alião ingredieris uitam . Nam talem te porrò elle,qualis hactenus
fuifti,hoceftin hac uita raptari &inquinari, nimis ſtupidi eft hominis,
& VITAM AMANTIS, fimiliso eorum , qui in pugna aduerfusferas fe meſi ſunt. Hicnim
pleniuulnerum & ta bi,tamen hortantur, ut in craftinum fer ucntur,iterum
pugnaturi aduerſus eof dem ungues & dentes. Itaq te paucisi ſtis nominibus
accommoda, ac,& qui dem pofsis,ea tuere, perinde at hin In ſulas quaſdam
fortunatas commigral ſes.Sin teinferiorem ijs eſſe ſentis, fece de audacter in
angulum aliquem ,utibi uictoriam obtineas: aut omnino è uita abi, non
iratus,ſed Gimplici & libero ani mo, atæ uerecundo, cùm id unum in ui ta
egeris,uteo modo difcedas. Vt auté memoriam illorú nominum retincas, haud
exiguú tibi ad feret adiumentú, ſi recorderis deorum , atß eos nolle fe adulari,fcd
hocuelle, ut ratione prædita animalia, ipforum quàm fimilima ef ficiantur.
Ficus,canis,apis,ſuum quoduis offi ciumfacit: idem eft &hominis partiú.
Mimus , bellú, terror,ſtupor,ſeruitus: hæc quotidic delebút facra illa tua pla
cita, quæè contemplatione naturæ rc rum hauſta circumfers. Omnia autem, ita
ſuntinfpicienda &agenda,ut & cir cumſtantijs fimul ſatisfiat, &
cognitio inactioné uertatur,ferueturó animicó ſtátia ex earūſciétia accepta. Ignorat,
non tñ cft abfcóditú Quando capies fru &tum fimplicitatis?qñ grauitatis?
quan do cognitionis fingularum rerum ? quæ : nimirum fiteius natura, quis in
mundo locus, quandiu ferat eius natura ut du ret , quibus ex rebus conflata
fit, quis eam poſsit poſsidere,quis dare autadi Aranca, ſi muſcamceperit,
exultat: alius G leporem, aut piſciculum ,aut fu cm , aut urſum , autfarmatas
,nónne hi ſunt prædones? Si opiniones exami ncs, quomodo unumin alterum tranf
mere. mutetur,uiam ac rationem contempla di parabis.Continenter autem hucani
mum aduerte, teý huic parti adlucfac: nihil eſt enim quòd perinde animum magnum
efficiat.Corpus enim exue, in telligensgiamiam te ex hominibus di ſcedentem
ifta omnia deſerturum ,torů teipſum da iufticiæin actionib . tuis ſer uandæ, in
reliquis quę eneniuntrerum naturæ totum te cómitte: quid alij uel fentiant de
te, uel agant contra te, ne ad mentem quidem tibi tuam accidat. Duobushis
contentus eſto , ut & iuftè agas in præſentia , & id quod nunc tibi
obtigit,boniconſulas. Omnes alias oc cupationes,omnia ſtudiamiſſafac ,huic modò
intentus,ut rectà ſecundum lege ingrediaris, deum ſequens. Quis lituſusderebus
tanquam ſuſpe Etis deliberādis hinc patet. Si quid age dum fit,uideasą id elle
ex uſu, firmiter cò procedendum. Sın id nonintelligis, inhibendaactio , &
optimis utendum confiliarijs.Quòd G alia his aduerſa oc currant,progrediendum
eft iuxta præ fentes occaliones,animo ci quodiuftú uidetur intento . Optimum
enim eſt cú áttingere ſcopum . Quietus fimul, & ad motus facilis, fi mul
& lætus , & conftans eftis, qui ra-. tionem ubiq fequitur ducem.
Interroga ex teipfoftatim à fomno ex pergefactus,nū tua interſit, fi quæ iuſta
funt & reétè habent , in aliorum fint poteſtate?Nihilintereſt. Nunquid
oblicus es, illi qui aliorum fermonibus & laudibusfeiactant,qua les in
lecto fint,quales inméta quid ? a gant ,quæ fugiant, quæ confectentur? quæ
furentur,quærapiant? non quidé manibus & pedibus, ſed precioſiſsima ipforum
parte,qua acquiri poteſt ( ſi qs uelit) fides, uerecundia,ueritas,lex,bo
nusgnius . Omnia danti & recipienti naturæ p bè inſtitutus & uerecundus
dicit : Da quicquid uis , aufer quicquid uis . Ne que hocaudacia elatus dicit ,
fedeio bediens, camś probans. Vitæ cxigua reſtat pars :uiue tanquá inmonte.
Nihilem refert hîc ne fisuel illic,modò ſcias te ubig in mundo, tan quam in urbe
eſſc. Videant, inquirant hominemhomi nes uerum ac fecundum naturam uiué
tem.Sinon ferunt eum , occidant:præ ftat'enimhoc,quàm illo modo uiuere, Noniam
præçerea tibidiſputandum eſt, qualísnam ſit uir bonus: fed curan dum, ut fis
uir bonus. Subinde tibi ante oculos pone æuũ totum , & uniuerſam
natura:cogita, uc res ſingulæ ratione ſubſtantiæ nuclei fint oliuarum
,temporis,tenebri cóuer lio :1dý de ſingulis rebusindaga .Quem admodum exiam
diffoluátur, finto in mutatione ac qualiputrefactione & dil ſipatione:
utunumquodą ſuam ucluti mortem habeat.Quiſuntilli, qui nunc
comedunt,dormiunt,coêunt,uentrem purgant?cum quiimperant alijs, ſuper
biunt,indignantur,inferiores increpát? quibusilli paulò antè feruierunt, &
qui bus de caulis?quieruntpaulò pòft? Vnicuiqid prodeft, quod naturau niuerG
fert,atx co quidem tépore, quo ca fert. Expetit quidem pluuiam terra: expetit
autem uenerandus æther cum eſt repletus nubibus in terram decide re,ita &
mūdusid agere cupit,quod fit: dico itaqmundo,meei adſentiri. Itag & hocfit,
& dicitur fieri, quod mundus uultita fieri.Authic uiuis, & te adſuefe
ciſti, aut aliò te confers, & hoc uoluiſti: aut defunctus tuo munere
moreris. Nihil eſt præter hæc. Bono ergo esa nimo. Semper fit euidens , hoc
efſe agrú : 1 & quomodo omnia funt hieijs qui in ſummo luntmóte,autin
littore , autu . biuis. Omnino enim inuenies Platonis illud, ftabulo in monte
abditus : & ba lare. Quid eſt mens mca ? ad quid nunc ea utor?Eſtne aliquid
mentis uacuum ? cftne aliquid à comunitate diuullum ? num affixum & admixtum
carni , ut il ludunàmutetur? Qui dominum ſuum fugit, fugitiuus eſt.Lex autem
dominus eft. Ergo qui cótra legem agit, fugitiuus eſt. Acdolo-, rem
aliquis,iram , aut metumconcipit, propter aliquid eorum quod facūeſt, uçlât ,
uel fict ſecundum uoluntatem & eiusqui uniuerſum gubernat.Hic uerò lex eſt
tribuens ſuum unicuif. Ergo 13 qui hoc modo timet, dolet , aut irafcit, &
fugitiuuseft. Pater semine in uterum matris dimillo abijt. Inde ſuccedés alia
cau ſa agit, & abſoluit facum ,animaduerten dum eſt ex quo quid efficiatur.
Rurſus cibus per fauces dimittetur,deindealia cauſaluccedens,ſenſum ,appetitum
,ui tam ,robur,omniaģiſta aliaefficit.Ita ea, quæ in tanta occultatione fiunt,
co Gderanda ſunt, facultasģita conſiderá da eft ,ut& eam quæ deorſum , &
eam quæ ſurſum uergit uidemus, non ocu lis quidem corporeis , fed haud minus
tamenperſpicuè. Alsiduò conſiderandumeſt,quomo do omniahęcſint,qualia
fuerint,aclint bulæ atqfcenæ earundem in ſpeciem rerum , quasuelexperientia
uidiſti, uel exantiquahiſtoria cognouiſti,ut,aulá Adriani,totam Antonii
aulam,totam Philippi aulam, Alexandri,CroG.Om nia enimhæc, talia erant. Tantú
per alios animo tibi finge cũ, quialicuius rei caufa doletautindigna tur,fimilem
efle porcello qui mactatur, & calcitrat at grunnit, Similisetiã ei qui
gemitin lectulo ſolustacitè alliga tionem noftram . & quod ſolianimali
ratione prędito datum eſt ut rebusque cueniütfpóte obſequat. Olo aut ſequi
eas,oíbusé neceſſariū.In fingulis reb. rereexteipfo debes , fitnemors mala,
proptereà quòd ea re te fit fpoliatura. Cuni alicuiusoffenderis peccato,fta tim
ad te reuertere , ac cogita quain fi milire tu pecces: ut,Quòd argetum ,uo
luptatem ,gloriolam in bonisducas. Id iram mox obliuione delebit : accedat
autem & hoc,uteum inuitum peccare ſcias. Quid uerò faceret coactus? Tu; li
potes,efficene cogatur, Cùm Satyronem uides,Socratium ti bifinge conſpectu
dari:cùm Eutychen, Hymenem ,uel Euphratem cervis, Eutychionem, Syluanum,
Alciphronem, uel Trophæiferum imaginare: Xenophon . te uiſo , Critonem aut
Scuerum: denis ſingulis aliquem priorum certa ratio ne limilem oppone.
Simuluerò tibi ad animum accidat,Vbinamfuntilli ? nusquam ,autubicung. Ita
nunquam non cernes res humanas fumum ellc & uani tatem.Maximè fi recorderis
id quod ſe mel mutatum eſt, nihil fore in infinito tépore . Tu aut in quo
tempore es ? aut qui non ſufficit tibi, breue hoc honeſte exigere?quam materiam
, o ſubiectum fugis? Quid enim ſunthęcoia,nifi ex ercitia rationis quæ accuratè
perfpexiç naturam earum quæ in uița occurrunt rerum . Perduraigitur, dum eas
res tibị familiares reddas: Quéadmodú ualid ventriculus oía fibi effiçit
familiaria : & ignis ſplendidus quidad ei inijcias, fla mã ex co
&fulgore edit. Nulli liccat uerè dicere,nó efſe te fimplicé et bonu: sedmentiatur,
quicúq hocde te ſentit. Id uerò omne penes te eſt:quis enim pa
hibeat,nelisbonus&fimplex ? Tibimo ftet ſententia ,nó uiuere,nifi talis ſis
:ne que enim patiturratio te niâ talem . Quid Git, quod poſsit de propoſita
materia rectiſsimè dici, uel agi, conſide ra:quicquid erit,facere tibi uel
dicere li cet,nemine obſtate:neo prætēdete im pediri.Nexprius deſine
ſolicitudiné, ita ſis affectus,ut qďuoluptuarijs ſunt deliciæ, id tibi fit
actio in ſubiecta & ob lata materia , humanæ cóftitutioni co
ſentanea.Oé.n.id qdlicet tibi agere ſe cundú natură, p uoluptatehabendú é:
licet aút ubią .Nam cylindro quidem non datur,ut quouis loco feraturſuo ,p prio
motu, ut negaquæ, neg igni,ne alijs, quęànaturaautanima rationis ex
pertereguntur:multa enim ſunt quęob ſtent eis, & intercipiant.Mensautem, ſi
ueratio per omnia quæ reſiſtunt perge re poteſt ſecundum ſuam natura & uo
luntatem.Hanc facultatem anteoculos tuos ponens, g mens per omnia poſsit ferri,
ficut ignis ſurſum , lapis deorſum , cylindrus per decliue,nihilpræterea re
quire.Reliquaimpedimenta aut corpo reiſuntcadaueris,autpræteropinioné, ipfius
métisremiſsionénó lædunt,ne que ullú afferunt malū :Alioquin is qui
impediret,malus confeftim fieret. Na reliquæ res omnes ita ſunt compara tæ ut
fi qd eis maliaccidat,ftatim dete riores fiåt.At hîc, a oío dicédüeſt,meli or
etiam fit homo , maiorique dignus į aude,fi rectè utatur ijs quæ occurrunt.
Omninò autem memoria tenendum eſt,ei qui natura ciuis eſt,nihil poſſe no
cumenti accidere, quod nonidem ciui tati noceat.Atqui huic nihilnocet,nifi quod
obfit legi.Eorum uerò , quæ incó moda autinfortunia uocant , nihillegi officit
:ergo neg ciuitati,ncg ciui. Qui morſus eſt à ueris dogmatibus, ei ad
recordationem uacuitatis dolorú & metusſufficiet uel minimum . quale illud:
Sternit humi uentus folia. Haud aliter genus humanum . Foliorum uerò rationem
obtinent &liberi tui , &ij homines qui acclamát &
collaudantita,utfidem mereri uide antur, aut contrà execrantur,aut tacitè
repræhendunt & fubfannant. Foliorú rationem obtinent et hi, qui famam po
ſteritatis excipient.Hęcenimomniana fcuntur tempore ueris :pòſt animus ea
deijcit: inde alia ipſorum in locum ſyla ua producit.Breuitas uerò téporis om
nibus eſt communis. Tu autem omnia perinde atque æterna fugis aut appetis,
paulò pòft moriturus:& cum quite ef feret,alius lugebit. Sani oculi eft
,omnia uiſlia cernere, & non uiridia tantum uelle, quòd faci unt ij, qui vitio
aliquo oculorum laborant.Idem de sano auditu et olfactusentiendum, utriqomnia
fui generis senli lia esse promptè appræhendenda: qua ratione etiam uentriculus
ad omne a limétum paratus debet effe ,inſtar mo læ , quæ ad quæcunque molienda
para ta eſt.Proinde & més ſana parata debet eſſe ad omniaquæ occurrunt. Sed
ea ģ hoc tantum curat, ut liberi fint ſalui, ut ab omnib.laudentur eius
actiones, ocu lo fimilis eft uiridia, autdenti tenuia tan tum uolenti. Nemo eft
adeò felix, cui mortuo non Gintadftituri quidam , qui malú quod ei obtigiſle
putatur , haud malè lit con ſulturus:probus,dicent, & fapiens crat: nónne
ad extremum aliquis dicet fe cum , Etipfe aliquando reſpirabo-ab
hocpædagogo.Nulliquidem noſtrum erat grauis,fed feng tamen clam nos ab
coſperni. Hæc de bono uiro dicentur . ant. Nobis quàm multa ſunt alia, ppter
quæ multi ſunt, qliberari à nobis cupi Hæcmoriens li cogites, cò facili us
diſcedes hinc , reputans te ex ea uita abire , ex quaijipli q ei' ſunt
participes, quorum gratia táta certaminafuftinui, precatus ſum ,pcuraui,meuolüt
migra re,fortaſſe aliquid meamorte alleuatio nis fperátes. Quidé,curdiutius hic
mo rari quæras? Nihilo tn minus benignus illis diſcede,morem tuum ſeruans, ami
cus,beneuolus,propicius:negutis qui abripiatur,ſed quibenemoritur,animu la
facilè ſe foluente è corpufculo. Eo modo & ab his diſcedendum eſt, quib.
nos natura accommodauit & mifcuit. Difloluitnunc? diffoluor et à familias
ribus abducor, non reluctans, non vim patiens. est enim et hoc unum corum, quç
fiunt secundum naturam. Asvesce, utin omni re teipsum per con teris. Hçustu
quorſum hocrefert? A teipso facinitium , teg primo examina, Memento facultatem
motricem corporis intus latere. Hæc est facundia, hæcuita, hoc est, ut ita
dicam, homo. Nunquam circumiecta vasa animo tibi propone et instrumenta hæc
tibi afficta. Similia enini sunt dolabræ, cotantum differentia, quod adnata
funt. Alioquin sine causa, quæ ea movet et continet, haud maio ri sunt usui, quàm
radius te xtrici, calamus scriptori, flagellum auriga. Aec propria sunt animi
ratione præditi. Se ipsum videt, se ipsum componit feipfumtalé, quale vult,
efficit, fru &tus quosfert, ipfepercipit,(Erenim plantarú fructus, atg
etiam animalium , alij percipiunt.) fuum finem conſequitur, quicung ui tæ fit
terminus: nó utin ſaltatione, & a gendis fabulis,alijs id genus rebus fit,
ut fi quid offendatur,tota actio fiat irri ta : fed is animus omni in parte,
ubicuß depræhendatur, id quod oblatum eſt,e fedum & nullius rei indigum
reddit, ita ut dicere poſsit ſeſuum habere.Con plectitur pręterea totum mundum,
eiſ inanc circundatum ,figuram eius, infini tatem qui , certis conuerlionibus
con Itantem regenerationem uniucrſarum rerum contemplatur. Inde cognoscit, ncgnouum
aliquid pofteris cuen turú,nem eos qui ante nos fuere,quica amplius
nobisuidiffe:fed quod is qui è quadraginta annorú,fi méte utaturferè oía
præcerita &fucura uidet in reb.eiul demformę.Hecquoß eifunt propria, amorproximi,ucritas,uerecundia,
utni hil feipſa præſtantius ducat,quod qui dem ei cum Lege eſt commune,itaut ai
hilinterfitinterreciam rationem , &ra tionem iufticiæ. Cantilenam iucundam
,faltationem , & pancratium contemnes, Siuocélua uè fonantem diuidas in
fingulos fonos, ata ſeorlim de fingulis ex teipfo quæ ras an ab co patiarete
uinci:pudorcpro fe & ò afficieris.Idem dereliquis fuomo do
intellige.Deniqin omnib .illis quæ nonfunt uirtus, nec à uirtute profici
ſcuntur, memento ad partes corum re fpicere, diuifiones illa in cótemptum
adducere : ids in uſum totius uitæ eft transferendum. Qualis eſt aia quęparata
fit, fiiamde beat à corpore ſolui, & uel extingui,ucl
diſsipari,uelconſtare.Vtautem licpara ta ſit , à peculiari iudicio uenit: non
ut fimpliciter mortem aliquis ſubcatid Chriſtiani faciunt,fed bene ſubductisra
tionibus & cum grauitate, ita ut & alte ri hoclincuerború cxaggeratione
per, fuadere poſsis. Egi aliquid ad ſocietatem humana códucens: ergò utilitatem
ſum cóſecu tus.Id femp occurrat, nequnquādebt. Quã tenes arte?Bonuseſſe. Quánam
fic hocratione? Si contempler , partim na tură uniuerâ partimhominis ſtructurā.
Initiò Tragoediæ prolatæ ſunt, quæ monerent de ijs quæaccidere homini bus
ſolent, eam eſſe.rerum naturam , ut liceueniant.At uerò quib . in ſceną
delectabamini, curijſdem offendimini in maioreuitæ humanæ theatro ? Vide . ris
quidem ,quod ita hæcdebuerint per fici,quodý ea feruntetiam ij, qniclama
uerunt. Id Cithoron. Et fanè quædam utiliter à poëtis dicuntur , quale eſtil
ludin primis. : Quod li dijmenegligút , &liberos, Rationem habet illud.item
. Nam reb. iraſciſanènihil expedit. Frugiferam utiſpicam meæ uitæ me tam. aliag
id genus. Poft Tragedia uetus Comædia illata eſt,libertatédiſci plinæ
accommodatam habens, cazip fa haud inutiliter nos monens, ne faſtu
extolleremur. Cuius fimile aliquid etiã Diogenes uſurpauit. Poſthas &media
quædã comedia & ad extremú noua aſſumptæ ſunt, haud alium ob finem , a ad
ſtudiú artis imitando oftentandæ . Dici enim & ab hisipfis quædam utilia, nonignoratur:
fed tota huius poëſeos & fabularum ,ſcriptionis intentio qué nam finem
reſpicit? Quomodoeuidens fit,non eſſe aliud uitæ propofitú ita có modú ad
philofophádū,ut eftid, quod núc tenes?Ramusà pximoamputari ra monó pót, an
& à tota arborere fecet: fic homo etiã ab uno auullus hoie,nó pornó écà
toto excidiſſe cætu. Itagra mum quidem alius aliquis, homo feip ſum à proximo
feparat, cum eum odit aut auerfatur:ignorat uerò étà tota ciui li ſocietate
ſecadéroeabrumpitur. Ve runtamé hoc habemus munere louis, hác ſocietaté
cóftituit,ut rurſum adcre ſcere pximo, & explere totú poſsimus: Ettamen ſi
hæcauullio fæpius admitta tur ,efficie,ut uniriiterum at coaleſce rehaud facile
pofsit id quod erat auul fum :tum uerò , quòdfatent plátatores, non eadem eſt
ratio rami qui ab initio floruit cum arbore,manfitgin ea ,&e. ius qui
amputatus;rurſus deinde eſt in fitus. Oportet igitur in eadem arborc elle, etfi
nonidem cum omnibus ſentias. Qui tibi ſecundum rectam rationem procedenti
impedimento funt,ut auer tere teà recta actionenópoffunt,ica ne que tua erga
ipſos beneuolentia depel lantte:utrobiß teipſum eundem ferua, utnon modò
iniudicado cóftantia, & agédo , fed &aduerſus eosqte phibere conantur,
aut aliâs indignantur,māſue tudiné tuearis . Haudem minusinfirmi eſt illis iraſci
, ô defiftere ab actione, & concideremetu perculſum : utrunque eft eius qui
ordinem ſuú delerit , quod alter mctu facit,alter odio cognati fibi,
&amicinatura. Nulla natura arte inferior eſt: quip PC cùm artes fint naturæ
imitatrices. Quodſi eſt,utiq naturaomnium perfe & tiſsima &omnia
compræhendens, ar tium folertiæ nequaquam cedet. Porro omnes artes præftantiorú
gra tia faciunt uiliora:ergo & cómunis na tura. Acoz hic eſt ortusiuſticiæ:
ab hac reliquæ uirtutes dependent:non enim conitabitiuſticia,ſi uelrebus ſuapte
na tura neqz bonis nec malis nimium tri buamus,uel temerarij,ucl errori procli
ues erimus: Non ueniunt ad teres eę, quarum fu ga uel appetitu perturbaris,fed
tu quo dam modo ad eas accedis :iudiciumita la que deijs quieſcat,ita
etipfçquieſcent, & & ne ſequeris eas,neg fugies. Animus globo
ſimiliseſt , figuræ æ quabilis, quandones effertie, negcó trahit,ſed
luminefulget, quo in omnib. & rebusueritatem cernit,& in ſe quoque
Contemnorab aliquo : uiderit. ego ibi curabo ,nequid contemptu dignum a gam autloquar.Oditmealiquis:
uide ip rit.Ego quidem omnibus ſum placidus ces &beneuolus,atco ipſo
promptus ad ne ch ere cm que ipſo. 100 god m oftendēdos alijs ſuos
errores: neß hoc exprobrādi cauſa, aut ut patientiam o ftentem meam , fed
ingenuè & pro bè. Quantus erat Phocion, nifi idip ſum præ ſe tuliffet. Intus
enim omnia oportetrectèhabere, & à dijs conſpici hominem nullam rem indignè
ferenté, autquiritantem . Quid enim mihi mali accidit,fi alius id agit, quod
eſt naturæ tuæ commodum? nó accipies id quod nuncnaturæ uniuerfi eſt
opportunum, cum ſis homo eò deftinatus,ut commu ni utilitati inſeruias? Qui
contemnunt fe mutuò , ijdem mutuò ſe demerentur: & qui mutuò de primatu
contendunt, mutuò libi con cedunt. Quam putiduseſt, & fallusille , qui
dicit : Statui fimpliciter tecum agere. Quid agis ? non erat hoc præfari opus:
ipla reshocoftendet.Statim ipſo in uul · tuinſcriptus debet efTe fermo,acftatim
ex iplis oculisapparere : Quemadmo dúex afpectu amatores ſenlum ſui ama
fij.ſtatim cognoſcunt.Omninò uir bo nus & fimplex hircoli debet aliquld fi mile
habere, ut qui ei adeft, uelit, nolit, tń cius fimplicitate depræhendat. One
tatio aut ſimplicitatis, infidiæ ſunt te étæ :neq uerò quicộ turpius eftfubdo
lis acinfidis congreſsib .Hocoím maxi mè fugito. Bonus,fimplex& manſuelº
uir ,hæc oíaí oculis habet, ncg calatét, Rectiſsimè uiuédi facultas é in tuo
aío pofita,nimirú ut res neg bonas ne quemalas,in nullo ponas diſcrimine. Id
fet, & unamquamlibet eorum conté pleris diuiſim , & rationetotius,memor
nullam earúin animis noſtris de ſe poſ fe excitare opinionē, negadnos ueni re:
sed ipsas quidem quieſcere,nosautem effe, q deijsiudicia faciamus apudnos,
easýnobis quali depingamus:cú liceat tñ autoío no depingereillas, aut fihoc oío
ſit admiſſum ſtatim delere. Exigui temporis attétio hæc eſt, indefinis erit
uitæ .Quid obftas,quo minus hęcrectè habeant ?Quęli ſuntſecundú naturam,
gaudeillis, & erútfacilia :ſincótra natu ram ,quære quid fit tibi fecundum
natu ram ,atpid contéde et si gloria careat. Ignoſcedūé.n.oīci, ſuuğrit bonum. Videunde
uenerint omnia , ex quib. conſtent,in quod mutentur,qualia fint inde futura
,tum nihilmalicis accidere . Primùm , quis mihi ad eos reſpectus. Nati
fumusinuicéun ' alcerius gratia.A lia autem ratione natus fum utipfisprę ſim ,
ficut aries gregi, aut taurus ar mento . Rem altius repetc. Sinó conſtat mú dus
ex atomis , utią natura cum guber nat. Quod fi detur, utiq deteriora præ
ftantiorumgratiafunt: hæcuerò, unum propter alterum . Deinde, quales illi ſunt
in menſa ,le cto ,alibi?Maxime autem quib . illi funt neceſſariò
opinionibusaddicti, & qua to cum faſtu aguntſua. Tertium eft . Sircctè
faciunt hæc, nó eſt indignè ferendum : ſinfecus, at non ſponte,ledignoratione
peccant. Omnis enim anima invita privatur cum veritate, tum eo, ut possit cum
uno quoli betut eſt dignum ,uiuere. Itaque dolo reafficiútur,li iniuſti,
ingrati, auari,om ninoſiniurij erga aliosdicantur. Quartum eſt.Ipfequoginmultis
delinquis, es ipſorum ſimilis:ac tametG quibuſdam peccatis abſtines, tamen ha
bitum ea faciendihabes, ac uel metus, uel gloriolæ conſectandem causa, aut
aliud ob malum, abstines similibus peccatis. Quintunc hoc quidem ſatis ſcis, an
peccent. Quædam enim ordinc fiút. Omnino autem multa experiri opusē, antè quàm
certum aliquid dealiorum actionibus ſtatuas. Sextum.ut maximèſtomacheris,ta men
uita hominum eftmométanca, ac paulò pòſtomncsmorimur. Septimum.Non actiones
ipforúno bis moleſtiam exhibent, cùmeæfint in ipforum animis : fednoftræ
opinioncs. Itaq tolle uoluntatem iudicandi de rc aliqua tanquam mala : limul ſuſtuleris
iram .Quomodo, inquies,tollam? Sire putes,non eſſerem turpem.Namnig.fo la
turpitudomalum eſſet,tu quogne ceffariò multis modis peccares,ficres latro,
& omnia tentares. Octauum.Multò grauiora adferunt dolor & ira ,quam
obaliorum pecca : ta concipimus, quam ipla illa , ob quæ m 3 raſc imtur &
dolemus. Nouú manſuetudo , li genuina fit, no adſcititia aut fucata,inuictač.
Quid uerò uel extremæ libidinis homo tibi faciet, fi conſtantermanſuetudinem
fer ues, acl res ita ferat , placidè eum hor teris ac doceas eo ipſo tempore ,
uacás huic reitum , cùm is te lædere nititur. Si dicas,Noli fili, ad alias res
nati ſumº: ego quidem non lædar,ſed tu: ido eia pertè & integrè oftendas,
neque apes, ullum aliud eorum quæad cætű apta funt natura animalium ita agere.
Oportet autem neque irridendi,neque conuitiandi caufa hocfacere,fed aman ter,
atq ita ut ne cor mordeatur, néue ccio abuti uidearis , acne quis adftans
mirctur,fed ut cum ſolo, ita loqui de bes, etiam fi alijadlint. Horum nouem
capitulorum memento, tanquam a Musis li ea dono accepiſſes. Acincipe tan dem
homo efle, dum uiuis . Tam vero cavendum ne irascaris eis, quam ne aduleris.
Utrunque enim a societate est alienum et damnosum . In promptu tibi fit ira
accedente, non iram esse VIRI, fed man ſuetudinem: id ut humanius, ita &
VIRILUS EST, requiritgrobur, nervos et fortitudinem: quænon ſunt apud indignan
tes & morolos.Nam quanto proping or eftmanſuetudouacuitati affcctuum ,
tanto & potentia: acquemadmodum dolor,in impotétes cadit, fic & ira. Uter
que enim uulnus accepit, &herbápor rexit. Quod fi lubet , etiam decimum à
duce Muſarum donum accipe:nempe, Inſani eſſe ,uellene praui homines pec
cent.qui enim hocpetit, id petit, quod fieri nó pót.Alijs uerò cócedere ut fint
mali, modònein tepeccent, ingrati eſt, et tyranni. Quatuor potiſsimum motus animi
continenter ſuntobferuandi, ac, fi eos deprehenderis, inhibendi. Primò, ut dicas.
Hæc cogitatio non erat neceflaria. Alterum ,hocfacit ad ſocietatis diſſolu
tionem.Tertium, hoc non ex te dices: nam non à le dicere, inter abfurdiſsima
eft reputandum . Quartum : tibiipa ex probra , eſſe hoceius, quidiuiniorelui
parte uincatur, & cedat ignobiliori & mortali parti , corpori ſcilicet
&eius craſsis uoluptatibus. Aêreū, & oésigneęparticulæ quęcó miſtæ ſunt
tuo temperamto, cth natu ra ſurſum efferantur,tamen ut obediãt ordini
uniuerli,ab ipſa mixtione conti nentur.Similiter omne terrçumin te, &
humidum,cùm natura ſua deorſum fe rantur, tamen in ſublimimanét, non in fuo
naturaliloco. Adcò elementa uni verſo obtemperant, aca quò deſtinen tur per
uim, manent, donec diſſolutio . nis rurſum canat claſsicum.Nonnc igi tur
iniquum lit, ſolam tuam rationem nolle obedire,ſuumglocú indigne fer
re.Etquidem nihil ei uiolentum impo nịtur: ea modò, quæ eius naturæ conue
niunt. Et tamen ea non ſuſtinet, fedin contrarium fertur.Motusenim adiniu
fticiam ,luxuriem iram ,dolores, & me tus, nihil aliud eft,quàm ſeceſsio à
naru ra: & cùmanimusaliquid corum quęc ueniunt indignèfert, tunc quoqueluú
locum deſerit. Etenim ad equalitatem & pietatem cóftructuseſt haud minus,
quàm adiuſticiam : quia & hæ (pecies funt uirtutum ,quibus benè defenditur
focietas humana, imò etiam antiquio resiplis iuſtis actionibus. Quinon eundem
per omnem uitam propofitum habet fcopum , is unus & idem eſſe,p totā uitam
nequit.Non fa tis eſt, id quod diximus, niG & hocad datur, qualem eſſe
oporteat eú scopú. Quemadmodum enim non eſt Gmilis de bonis utcunqueplurium
opinio ,ſed quæ eſt certorum quorundam commu nis:ita & ſcopus ciuilis,
& communita tem reſpiciens eſt ſtatuendus, Adhuc qui oés fuos animi impetus
direxerit, omnes actiones ſimiles reddet,cogmo ſemper ſuieșit fimilis, Murem
montanum, et dameſticum huiusý pauorem & fugam , Socrates, & uulgi
opiniones,Lamias uocabat,puerorum terriçulamenta. Lacedæmonij peregrinis ſub
umbră fede adugnabāt in ſpectaculis, ipli quo uis loco fedebant, Socrates
Perdiccæ quærenticur nő ad ipfum ueniret,refpondit:nc turpiſsi mointeritu
peream.hoceft,ne benefi cio affectus, idnon poſsim compenſaa re. In Epheliorum
literis crat hocprz ceptum, quod iubebat quotidie remi nilci alicuius ex
antiquis, qui uirtutem coluiffent. Pythagorei manè nos coelum afpice se
iubebant,ut recordemur eorum ,qui femper fuum officium præſtant: ité or
dinis,puritatis, & fimplicitatis nudæ:a ftris cnim nullum eft uelamentum .
Memento qualis fuerit Socrates > củ pellem præcingeret, cùm Xáthippe uc fte
fumpta procefsit:acquæ dixerit fo cijs Socrates pudorc affectis, ac recede
tibus, cum uiderent eúin iſto ornatu . Núquàm fcribere &legere alios do.
cebis: nih ipſe prius didiceris: id multò magis inuita eſt præſtandum.Seruus
es, ratione cares.tú charũ cor mihi rifum fuftulit. Virtuti grauibus facient
conui cia urbis . Infani eſt, ficus hyeme quærere.Tale eft puericiam quærere
præteritam . Epictetus puerum oſculatus, interi us cum eo fe collocutum dixit.
Fortaſsis cras mortem obibis. Abo minaris hoc : nihil dictu graue cft, ingt,
quod aliquod opusnaturæ defignat:ni ſi abominere , quod fpicæ'metuntur: Vua
primùm cruda,deinde matura fit, pòſt palla:hæc omnia rei ſuntmutatio nesnonin
nihilum, ſed in id quodiam non eft. Nemo ut dicebat Epectetus latro eſt
uoluntatis.Ars autem , aitidem , in ueniéda eft in adſentiedo, utgimpetus
animiferuentur,ita uthabeátautadiun ctam exceptionem, spectét societatem et
dignitatem. Cupiditate omnino abſtinendum çít, neque inclinandum ad ea quæ non
ſunt penes nos. Itaq , inquit,non de leuire,ſed de in . fania certatur,nib
SOCRATES dixit.Vultis ne compotes rationis animos habere, aut non ?uolumus.
Cuiuſmodi, bonos ne an prauos ?ſanos. Cur ergo nó quæritis? Quia habemus. Quid
igitur conton ditis? Mnia ista, quæ per circui tus temporum adipiſcio ptas,iam
nunc habere potes, nifi tibiipfi invides: hoceft, Siomneid gpręte. rijt
,omittast,uturum prouidentię com mittas,id modò quod præſens eſt ,diri gens ad
ſanctitatem & iuſtitiam : alte ram , ut boni conſulas ca quæ tibi fatū
tribuit etenimid natura tibi attulit alteram , ut liberè ac fine ambagibus ueri
tatem loquaris,agasok ſecundum lege, & ut dignum eſt. Non impediat autem
teneg aliena malitia ,aeg opinio ,ncß vox,nequc fenſus circundare tibi carnis. Id
enim curet, quod afficitur. Itaq jamio exitu cùm fis,tantummentem tu am ,idç
quod eſt in te diuinum ,uenera beris:neo morrem metues,fed nequan do uiuere non
fecundum naturam incipias. Sichomo eris dignus mundo quite protulit,nec amplius
cris tan quam peregrinus patria tua , admirans ca quæ quotidie eueniunt,ncg de
hac uclillare dependebis. Videt dcus omnia mentesnudas à ua lis materialibus
& corticibus iftis repurgamentis.Sola enim fua intelllige tia ſola ifta cótingit,
quæ abipſohucde fluxerút ac deriuata funt. Quodipfum tu quoque li facere
afucſcas,magna cx parte efficies, ne ita circútrahare. Qui cnim nó aſpicit
carncm circumicctam , occupaturin ueſte, domo,gloria, relia quisg exterioribus
ac quali tabernacu lo contemplando. Tria ſunt ex quibus conſtas:corpus, anima, mens.
Priora duo tátum ea ratio ne tua funt, quòd corum curam geris: Tercium folum
ucrè tuum est, quod si separes à te. Quæalii dicunt aut faciunt aut
quetuipſe,aut ģte futura pturbát, aut quæ corpori tibi circundato, uela
nimulæunànatæ præter cuam uolunta tem accidunt , ac quæfluctusexterna . rum
rerum uoluit :Ita ut intellectus ab illis rebus, quæ fato una sunt, exemptus
libera apud feipfam uitā uiuat, agensiu Ita,probás euéta, dicens uera, fi inquam
remoueas à menteres quæ ci conſenſu quodam naturæ adhærent, itemģfutu rum &
præteritum tempus , efficies ex tcipfo globú, qualis illcEmpedocleus. Sefolo
exultās,totus ceres atqz rotú dus:Diſces id tátú uiuereg uiuis, hocé. in præsentia.I
ta fiet, ut ad fine ufo ui tæ tibi ſupereſt, pofsis abſque petürba tionibus
generosè,& geniū tuú pbás atq amās exigere. Sæpenumeròmihi mirari
ſubijt,quidnãeſſet rei , q homi nes cùm feipfos magis ĝ quenquam ali um
diligat, iñ ſuam de ſeſe exiſtimatio nem minoris ducant quàm aliorum . Quòd fi
quis Deus,aut prudens præ ceptor mandet, ne quid homo apud fe ipſum cogitet
animóue concipiat, nisi id statim lit prolaturus, certè ne unum quidem diemid
coleret: adeòmagis ue remur, quid proximus de nobis fit exi stimaturus, qusm quid
ipsi nos. Qui fit , quod Dij , cum oía pulchrè & humaniter ordinauerint ,
hoc unu neglexerint,quod nonnullos homines apprime bonos, acin quos in plurimus
ſuam erga deum pictatem quaſi teſſeris fecerunt teſtatam ,unuinig lele familia
res multis pijs actionibus et facrificijs effecerunt, femel fato functos
nonredu cunt,fedomnia extingui finunt. Idaute Gita é,ſcias deos
aliterinſtituturos fuif fe,& aliter fieri expediuiſſet.Nam fieraj iuſtum ,
erat utiq etiam poſsibile: ac di erat secundum naturam, certe naturaid tulisset.
Quod ergò res nó ita habet Si tamen non ita habet,id tibi faciatfidem non
fuiſſe ex uſu, ut aliter quàm eft fie ret.Vides enim ipſe quoquete, dúhoc
fcrutaris, cum Deodeiure diſceptarc. Atqui non hocmodo cũ dijs colloque remur ,
nili cos optimos eſle &iuſtiſsi mos putaremus.Si autem tales funt, ni hil
certè in rerum difpenfione iniuftè accontra rationem neglectumpręteric runt. Ad
sue facte ad ea etiam, de qbus de ſperas.Etenim læua manus, cum adalia obeunda
ſitinhabilis ,propterca q non conſueuit: tamen frænumfortius quàm dextra
continet. Qualete corripiecmorscorpore et ani mo ?Conlidera uaftitatem æui quod
an te & poft te est, brevitatem vitæ, materiæ imbecillitatem. Causas ipsas
ab integumentis nudas inspice. Quo referantur actiones vide. Quid dolor, voluptas,
mors, gloria, quis sibi ipsi occupationum sit causa.Neminem ab alioimpediri,
omnia opinionibus constare. In uſu placitorum Gimilem oportetel ſe pancratiaftæ
, nó gladiatori:hic enim enſem quo utit li deponit, interficitur, alter verò
manum semper habet paratam, camg ut ex uſu eſt conuertit. Huiuſmodi res
conſiderandæ ſunt, diuiſione earum facta in materiam , formam et respectum.
Quanta est potentia hominis? Cui licet nihil aliud facere, qid ,quoddeus sit
laudaturus et amplecti omnia quæ ei Deusobtulerit. Quodad naturam
conſequitur,eius cauſa dei non ſunt culpandi, nam nex volentes ,neg inuiti
peccant nec hoíes. Quamridiculus clt & perigrinus, qui ratur ca quæ in vita
fiunt. Omnia funt aut neceffitas fatalis,at que ordo ineuitabilis, autprouidentia
placabilis : aut confufio inanis & nul lum habés pręfectum .Quòdfi eft
necef fitas ineuitabilis, quid reluctaris? fin p uidentia quę admittit
placationcm, dignum præbe teipſum diuino auxilio. Sin confufio eft, cui
præſtnemo,conté tus eſto , gin tanto rerum fluctuipſe in te habes mentem : quòd
ſi te abripiat æftus,abripiat ſanè corpuſculú, animu: lam ,acreliqua:mentem
quidemnó ab ripiet. Quaſi uerò lumen candela tanti ſperluceat dum extinguatur,
ne @ splendorem amittat: Veritas autem in te et iustitia et temperantia ante
obitum tuú extingui debeat. Siquis deſe opinionem peccati præ beat, cogita:ecqd
nofti, finepeccatú ? ac fi peccauit:quid ſiipſe ſeipſum dam net , ide perindeeſt
ac ſuum ipfius lædere oculum. Qui autem prauos pecca renon uult eius
limiliseft, quinon uult ficum in ſuo fructu fuccum ferre, infantes plorare ,
equum hinnire: acli quz ſunt alia neceſſaria.Quid enim aliud faceret,
quihuncfibi habitum contraxit. Si igitur trux eſt, cura eum morbum. Sinon
conuenit,neagas:& non eſt uc rum ,ne dicas. Tui animi motusita Gint
compoſiti,ut omnia circunfpicias.Co gita , quid fit quod cogitationem tibi
commouet: idğ excute dividendo in causam, materiam, respectum, tempus, intra
quod ea resdesinet. Senti vel tan dem, elle aliquid in te præſtantius ac di
uinius quam ca ſunt, quæ affectus ciét, ac quæ te mouent. Quid enim est intellectus?
nummetus, nu suspicio, num CUPIDITAS, num aliquid aliud tale? Primò cogita
nihilfruſtra eſſe agen dum, neq quod non aliquò referatur: deinde, ut non aliò
ĝad ſocietatehuma nā referatur. Paulo post nusquam eris, nec quicquam eorum quæ
núc cernis nco quisq eorû q núc uiuunt. Omnia cnim nata ſuntitaut mutétur,
vertatur et pereant , ut in eorum locum alia na ſcantur. Omnia opinione
cóſtát:hęc aúteſtin tua poteſtate. Tolle igit,cu lu bet,opinioné,eritộtibi tanĝ
pronto riú præteruecto oía ſerena, & linus flu etibusuacans. Nulla, quçcung
ca fic actio malú aliquid patitur,fi ſuo tempo re definat : icutnesis, qui
agit, ca róc aliquid mali accipit. Itidem & corpus omnium in uniuerſum
actionú , quod eſt uita,li ſuo tempore deſinat,nihilma li ea rationcpatitur
:neqisquioppor tunè finem facit ſeriei iftiactionú,malú aliqd' fecit. Tepusucrò
debitum et terminum natura costituit. Aliquamdo et privatim utin senectute. Oio
aut univerli natura. Cuius quidem partib.mutatis, fem perrecens &
uigesmundus perdurat. Seper uerò id pulchrū é & fpecioſum , o códucit
uniuerſo.Finisita g uitæ, în gulis mala quidẻ có nó pót.gene cúnố fit turpis :
quippe necuolútate ènoftra depédens,&àfocietate nó aliena. Bona aútfit: cú
& opportune fiat reſpectu u niuerli , & profit, &diuinitus accidat.
His cogitatis , tria hæcin ,pmptu habe. Primúut in agendo cures, ne quid fru
Itra agas, aut fecus quàna ipſa iuſtitia e giflet:in rebus extrinſecus accidentib.
easfortunæ nutu ,aut puidétiæ obtigif fe :quarú neutra éīcuſanda. Secundum, qua
le unum quodlibetam privatioe fuéritufa dum animam accepit ,indeý,donccca reddidit
:ex quibus conflatum fit et in quæ diffoluatur. Tertium ,ſurſum elato animo
humanas res intuere , earumý multiplicem uarietatem : quàm multa circùm in aëre
& inætheréhabitét:caſ te uiſurum , quoties in ſublime attolla ris:
utſintomnia.unius ſpeciei , & breui tempore durent. Hisne superbimus? Eijce
opinionem , & faluus es . nemo id prohibebit. Rem aliquam moleftè ferés,
oblitus es omnia fieri fecundum uniuerfi natu rā; &quod peccatum fit
alienum :præ terea omnia ita ut nuncfiunt, femper fa eta effe , &
futura,núcý fieri ubiq :item quæ homini fit cũ uniuerſo genere ho minú
coniunctio:nó ea ſanguinis autſe minis,fed mentis communicatio. Obli tus es
etiam mentem uniuſcuiuſg eflc Deum et inde fluxiſſe: nihil cuiĝpro prium effe,
ſed illinc & fætum , &cor puſculú & ipſam animulā ueniſſe.Obli t'es
oía uerſariin opinione, gid tm qd præſenseít,unuſquitg uiuit, & amittit.
Crebrò apud animú tuú recole cose certis de rebus nimium sunt indignati, qui maxima
gloria,calamitate, inimicitia, aliáue quacüq fortuna effloruerút. Deinde quære,
ubi nam sintista. Nempe fumus sunt, & cinis et fermo. Aut ne hoc ipsum
quidem. Simulad mentem tibi accidat, qualia Gntomnia. Ut Fabius Cattullinus
rure, Lucius Lupus in hor tis obijt, Stertinius Baijs, Tiberius Caprei, Velius
Rufus Et omnino opinionis cauſa diſcrimě inrebus indifferentibus ftatutum.Tum
quàm uile fit omne quod reliſtit. Item quanto magis fit philofophięconfenta
neum , in data materia tueri iuftitiam , modeſtia ,ac fimpliciterdijs
obſequi.Fa ftus enim qui ſuperbiæ uacuitatem o ſtentando exercetur , omnium eſt
gravissimus. Qui quærit cur Deos colas, quomo do eos uideris, aut elle
deprehenderis, ei reſpondebis, primùm efle cos uigles: deinde absqz hocſit, tamen
animam me am cum non uideam ,nihilominusma gnifacio:ita Deosquoq ex uiribus co
rum quas identidem percipio ,cùm eſſe intelligo,tum ueneror. In cò ſita eſt
uitæ falus, ut fingulas res totas intuea ris, quid in iis formæ sit, quid
materiæ: toto ało ageut iufta agas et vera dicas: Quid enim superest, q ut
fruaris uita bo nis bona annectédo,ita ut minimú ſpa cium intermittas. Vnú
eftlumenſolis, ét fiintercipiaturparietibus, muris,alijs innumeris rebus.
Vnaeſt communis na tura,etſi certo modo affectis corporib. infinitis
diſtincta.Vna anima, et si naturis in numeris,proprijs circúſcriptio nibus diſtributa
uideatur. Una étmens, etsi discreta uideat.Reliquæ proinde di ctorum
partes,tanquam ſpiritus & ſub iecta inſenſata, & inuicé nihilcóiunctio
nis habentia, tamen ipfa quoqà mente & eius potentia continentur.Atpecu
liariter intellectuseiuſdem generis ad iungit ſe naturis, neo a societate
divellitur. Quid quæris? Ut vivas? Id est sentire,appetere,creſcere,deſinere,
loqui, cogitare. Quid horú deſideratu dignu est? Quod Guilia sunt oia hæc,ad
extrc mú te cófer, népe ut fequaris rationem &Deú ducem. Sed utrum huic
instituto pugnat, ægrè ferre aliquid , an uerò morsid abolet? Quanta pars
immenſi infiniti ę ui attributa eſt unicuiq? celeriterea in æternitate euaneſcit.
Quanta pars universi? Quantas est univers? quantula in glebula terræ repis? Hæc
omnia tecum cogitans, nihil animo magnum conci pe, hoc tantum , ut ductu naturæ
agas, &feras quæ communis fert natura. Id cura, quomodomens tua ſeipſa
utatur. In hocenim ſunt omnia. Cætera fine à uoluntate dependeant,quc ſccus,
mor tua ſunt, fumus. Id maximè ad contemptum mortis facit, phi ét ,qui dolore
in malis, &uo luptaté in bonis duxerüt, tamen ea dei fpexerunt. Quiid
tantùmboninom nc dignatur, quod eft opportunum , ac cui perinde eſt pluresne an
pauciores fecundum rectam rationem præftiterit actiones,negin aliquo ponit
diſcrimi ne,lógioréné an brcuiori tempore mű dum contempletur, ei mors nequaqua
eſt terrori. Heustu, ciuis fuiſtiin hac magna urbe, adattinet, utrum quinquénio?
Etenim quod secundum leges, id omni bus est æquum. Quid ergo grave accidit, si
te urbe emittit dominus. Non is quidem iniustus iudex, sed natura quæ te
introduxit; perinde ac fi prætorhi ſtrionem emitrate theatro, in quod cum introduxerit.
Quod fi is dicat, fenon quinque, sed tres modo actus recital fe, recte dicet.
Atvero in vita tres actus fabulam implet. Finem enim is determinat, qui et
concretionis olim fuit et nunc est dissolutionis autor. Tuneutrius es causa.
Discedeigitur æquo animo. Nam. &is qui te dimittit, propicius tibi
est. Riconosco da Vero, mio avolo, la piacevolezza de’ costumi e'l non
adirarmi. Dalla riputazione e ricordanza di mio padre una modestia virile.
Dalla madre, la pietà verso gl'iddii, la prontezza nel donare ed il contenerini
non solo dall'onprar male ma dal fermarmi cicziandio col pensiero. Ancora la
semplicità nelle vivande e l'esser lontano dal vivere dovizioso. Appresi dal
bisavolo di non frequentare le pubbliche ragunanze, e di valermi in casa di
buoni maestri, col conoscere che in questo è di mestiere lo spendere senza
risparmio. Dall'aio, di non parteggiare ne co' prasiani ne co' veneziani, ne
co’ palmulari ne con gli scutari. Ditrava gliar volontieri, d'abbisognar di
poco, d'operare da me medesimo, ne di troppo infaccendarmi, e difficilmente ammetter
le calunnie. Da DIOGNETO, di non perdermi in cose vane e non prestar fede a ciò
chei prestigiatori e gli stregoni dell'inicantare e discacciare le demonia e di
altre cose tali si vantano, di non nutricare coturnici ne perdersi circa si
fatti trattenimenti, di sopportare l'altrui libertà del parlare, D'ESSERMI
FATTO DOMESTICA LA FILOSOFIA, l'haver udito primieramente Bacchio, appresso Tandaside,
Marciano, l'haver composto nell'era puerile dialoghi, e di contentarmi di uni
letticciuolo e di pelle e di tutti altre cose alla greca. Da Rustico: di formar
in me concetto che i miei costumi habbiano bisogno di correzione, e di coltura,
di non divertirmi all'imitazione de' sofisti, di non comporre sopra MATERIE
SPECULATIVE e di distendere orazioncine efore tative, overo con altrui stupore
ostentare di esser huoino di A vita rigorosa e benefico, di lasciar la
rettorica, la poetica e l'elegante parlare, e no andar con l'abito solenne per
casa ed usar si fatte cose, e discriver letteruzze semplicemente, come da lui
medesimo fu scritto da Sinoessa a mia madre, di rendermi senza indugio
reconciliabile co’ quelli, che danno qualche disguſtoso commettono qual che
errore, subito ch'e'volessero ritornare al buono, nella lettura non contentarmi
di passarla superficialmente ma con accuratezza, di non esser inconsiderato in
dar l’assenso a ciarle e che leggessi i commentarii d'Epitteto, prouedendomi
d'un esemplare di quelli ch'egli teneva in casa. Da Apollonio, il proceder con
franchezza, con una ferma costanza senza vacillare e non rimirare ad al ître
por grande che fosse, che alla ragione e l'esser sempre il medesimo ne' dolori
più acerbi, nella perdita della prole e nelle lunghe malattie, dal vivo esemplo
di lui riconobbi che può l'huomo esser fiſo e inficmemente rimer ſo . Era egli
non tedioſo nello fpiegare;e ſcorgeuafi vn huo. mio, che riputaua ben chiara
mente l'infima delle ſue doti la pratica , e ſpedita maniera dello ſpiegare i
Theoremi . Da lui ancora imparai come biſogni riceuer dagli amici le grazie ,
ſenza rimanerne perciò oppreffo,nemeno co me inſenſato ſprezzarle. Da Seſtola
piaceuolezza el'eſempio d'vna.caſa guida ta con carità: Il proponimen to di
viuere fecondo natura: Vna grauità ſenz'affettazio ne:L'inueſtigare attentamen te
il guſto degli amici: Il tollerare gl'idioti, e quelli, che opinano ſenza
conſiderazio ne:L'effer con tutti confacce uole, ficchè la sua conversazione
aggradiua aſſai più di qualſivoglia anche luſinghe uole adulazione; ed era in
quello ſteſſo tempo ſomma mente riyeriro da quelli , che feco erano: E di più
yna ap prenſiua nell'inuentare,e diſ porre con buon ordine le maffime
neceſſarie al viuere . Non moſtraua mai alcun fe gno ne dira,ne d'altro affetto
maera aſfai lontano da tutte le passioni; ed inſieme eglice lebraua, e lodaua
gli altri, ma ſenza ecceſſo ; ed era di gran sapere senza ostentazione. Da
Aleſſandro Gramatico, il non ilgridare, ne riprén dere ingiurioſamente , ſe al
cuno cometteſſe Barbariſmo, o Solleciſmo, o altro,chenon bene fonaua ; ma con bella
maniera ſuggerire quel tanto appunto , che ſi douea dire , apportandolo per
cagione di riſpoſta , di confermamento , o di conſiderazione ſopra la coſa
ſteſſa, non ſopra la paro la, o con qualch'altro manie roſo , e coperto
auuertimento , 9 Da Frontone imparai qual ſia il tirannico liuore, la frode, e
la doppiezza;e come tutti quelli chiamati da noi “patrizi” sieno in certa manie
. m A 4 ra disamorati. D’Alessandro il platonico,non iſpeſſo, ne ſenza ne
ceflità il dire , o fcriuere ad alcuno di non hauer punto di reſpiro; e per tal
modo ſpeſſo eſentarſi dalle conuenienze che per l'affetto ſono douute a quelli,
che con noi viuono ſotto preteſto , che li negozi ciaſſediano. Da CATULO di non
havere in poca stima le querele de gli amicisancorchè foffero ir ragioneuoli ;
maprocurare di ritornarli nel solito stato ; CO , sì ancora di celebrar di cuo
re li precettori;le quali coſe fi rammentano di Domizio, e di Athenodoto :
Finalmente di amare con vero affetto i figli uoli. Dal mio fratello Vero
l'affezione verso i domeſtici ; l'amor della verità e della giuſtizia . E per
fuo mezzo hebbi notizia di Traſca, Elvidio, CATONE L’UTICENSE, Dione, e MARCO
BRUTO; c mi formai nell'immagina zione vn reggimento di Re pubblica , con leggi
eguali a ciaſcuno , e di vn Regno, che antepone ſopra tutte le coſe la libertà
de' ſudditi . Dal medeſimo appreſi la negli genza difeſteiro, e la coſtan za
nel PREGIAR LA FILOSOFIA, anteponendola a ciascun'altra cosa; e la beneficenza
e la liberalità, non mai intermessa, lo sperar sempre bene e l’asicurarmi di
esser AMATO DAGL’AMIICI. Non taceva, lasciando di fare la correzione a coloro,
che conosce la meritassero sicchè a quelli , A 5 che gli crano caduti di grazia
non lo tene celato. E non bisogna alli suoi amici conghietturare intorno a quello
ch'egli voleva o non voleua, ma la di lui volontà e apertamente palese. Fu
eſortazione di Massimo esser padron di se stesso, non lasciarsi aggirare in
cosa alcuna ed esser di buon animo in tutti gli altri accidenti, ancora nelle
malattie. Esser ben aggiustato ne' costumi, foane e onorevole e senza
querimonia esecutore delle cose proposteli. E che tutti credessero ch'e' PARLA
COME SENTE e che nel fare in nulla male opera. Di niente si maraviglia terriua:
in niuna cosa e frettoloso o tardo o perplesso , i ne s'at accdioso o si faceva
befe fe o vero era collerico o sospettoso, ma benefico, indulgente, e verace, e
pare ch'e'e più tosto retto per natura, che corretto per istudio, ne giammai
alcuno si tene da lui disprezzato ne manco presume di stimarſi di lui migliore e
ſe fu faceto fu con modo. Appresi dal padre addotivo, l’imperatore ANTONINO
PIO, la mansuetudine e la stabilità nelle cose già con esaminamento deliberare,
di non esser vanaglorioso negli onori di apparenza ma amatore della fatica,
operando di continuo, e di eſſer pronto ad v dir quelli che hanno da suggerir
cose PER UTILE COMUNE, Iin mutabile in
dare a ciascuno quello che ſecondo il proprio merito gli era dovuto, ed esser
discreto ad usar il rigore, come la moderazione, dove bisogna. Non era egli distratto
con l'affetto verso de giovani ma al pubblico totalmente intento. Non merte GLI
AMICI in necessità che feco cenassero ne bisogna che lontano peregri nafiero
per lui, però lo trovano l'istesso quelli che per qualche necessità erano rima
Ai indietro. E ricercatore ne'consigli esquisito e fermo. Non s'attacca ad ogni
sufficiente indagazione delle opinioni che gli occorreno. Attento e a
conseruarsi GLI AMICI de quali mai non si attedia ne pazzamente amavali e si
contenta d’ogni cosa con volto sereno. L’antiuedendo , e preordinando di
lontano, eziandio le coſe minime senza strepito. Non vuole sentirsi d'attorno
ne acclamazioni ne adulazioni. Tenendo in buona guardia le cose necessarie al principato,
e sempre provveduto di ciò che a quello fa mestiere, sopportando con pazienza
se di questi e simili rigori viene tacciato. Non e superstizioso circa gl'iddii
ne quanto agli huomini troppo popolare, cattando l'aura della plebe, ma in
tutto attento, e ſodo, non dimenticando mai il convenevole. E quelle cose che
conferiscono in qualche modo agli agi della vita delle quali la fortuna gli
tera stata liberale ;vfaua ad un’ora senza fasto , e iſchiettezza , dimodo
ch'egli godeua indifferentemête del le preſenti , non bramando ciò chenon
haueua . Non vi fu alcuno ; che diceſſe di lui che fosse Sofista, o Caſalingo o
pedante ; mavn perſonag gio maturo,perfetto ,ſuperio . re alle adulazioni ,
capace a gouernar ſe ſteſſo e gli altri ; ed oltre ciò onoraua quelli , che
veramente eranoFiloſofi; tuttauia non dileggiava gli altri.Era di più nelle
conuer fazioni huomo compagncuo le, egrazioſo, peròfenza te dio.Del proprio
corpo tene ua cura quanto conueniua , non come huomo del tutto dedito a
prolungare la vita , o per fare il bello , però ne meno con traſcuraggine , ma in
maniera tale, che col propio riguardo aſſai rade vol. te haueſſe biſogno di
medi camenti , o al di fuori epitçi marſi. E ſpezialmente cedeua ſenza inuidia
a que’tali, ch'e rano dotati di qualche facul tà , come a dire , o di ben lare
, o dinotizia per via d'if toria, foſſe di leggi, o foſſe di coſtumi, o di altre
fi fatte co ſe; anzi ſtudiauaſi che ciaſcu ņo ſecondo il proprio talen to
acquiſtaſſe nome e crediato . E facendo ogni coſa ſe condo gl'inſtituti
de'maggio . ri,non perciò veniua ad appa fire rigido guardatore dell'
antichità, non efſendo amico di muouerſi leggiermente , ſuariare,ma di
diinorare ſem pre ne'medeſimi luoghi, ed affari . E dopo i paroliſmidem dolori
di teſta tornania ſubito freſco , e vigoroſo alle ſue ſoli te operazioni.Egli
non hauea ua di molti arcani , ma po chiſſimi , molto radi, e queſti ſolamente
circa gli affari del comune . Andaua con pru denza , e miſura nel conce dere
gli ſpettacoli, nelle fab briche pubbliche, e congia rij , e ſimili opere , fi
come colui, che riguardava a quel to , che conueniuà di fare e non alla gloria
, che dal te coſe fatte ne era per ri fultare : Non vſaua bagni fuor di tempo
,non era vago di edificarc, non inuentore di viuande, ne di teſſiture, etine
ture di drappi, ne ambizio fo di ſeruirù di bella preſen za . A Lorio ýſaua la
tonica cheſe gli prouuedcua dalla balla villa , e così sſana ordinariamente per
Lanuuio : ma nel Tuſculano per ſoprauue fta yn tabarro ; e di tal licen za ne
faceua come ſcuſa . Era inſomma tale il ſuo tenor di viuere, non diſguſteuolc,
non iinmodefto , non eccedente nelle ſue azioni , ne comeſi dice in prouerbio ,
Infino al ſudore ; ma tutte le coſe fue ſi annouerauano così ben dif poſte ,
come ſe foſſero fatte a bellagio , placidamente, or dinatamente, con ogni vigo
re , e conſonanza fra diloro . Onde a propoſito di lui ſi po teua dire , ciò
che di Socrate ſi racconta ch'egli poteua aſtenerſi, e goderſi di quelle coſe,
delle quali molti, e ncll? aftenerſi s' indeboliſcono , e nel goderle ſi
moſtrano in temperanti. Ma l'eſfer padro 3 nic di ſe , e lo ſtar ſaldo , e sobrio
nell'vno e nell'altro , è da huomo, che ha l'animo ben aggiuſtato , ed inuitto
, come ſi vide nella malattia di MASSIMO. Dagl'Iddij riconoſco l'haucr hauuto
buoni auoli, buoni genitori , buona ſorel la , buoniprecettori, buoni dimeſtici
, parenti, amici , e quaſi ogni coſa buona : che, niun di loro inconfiderata
mente io offendeſfi , benchè con tal natural diſpoſizione', che ſe foſſe venuto
il caſo , io vi farei traboccato . Tuttauia per grazia degl'Iddij non ſe gui
tal combinamento di co le , che ſi diſcopriſſe queſta mia inclinazione: E che
io no foſſi più lunga mente alleua to appreſſo la concubiņa di mio auolo , come
dell'hauer conferuata immacolata la mia pubertà; e che io non mi riſentiſsi
d'eſſer in età virile prima del tempo, anzi in ol tre d'hauer indugiato dopo
che io peruenni a quell'età : L'effereſtato ſoggetto ad un Principe padre , il
quale era per farmi por giù ogni altcri gia, e per farmi appréderc che ſi può
viuere in Corte ſenza che ſieno necaffarie le guardie , le veſti ſegnalate , le
cerimonie delle fiaccole, e delle ſtatue, o altro ſimile ap parato ; ma che ſia
lecito il trattarſi sù l'andare di priua to,ne quindi auuilirſi , o de primerli
per far quello , che conuiene ad vn Principe in riguardo del pubblico go uerno
· Ancora d ' efformi tocco in forte vn fratello tae le , che poteua co’ſuoi
coſtu. mi eccitare in me vn eſatta cura di me ſteſſo , mentre in- : fieme con
l'onore , e con l'a more mi ricreaua : D'hauer hauuto figliuoli d'indole non
tralignante, ne di corpicciyo lo mal fatti: Che io non fa ceſſi maggiori
progreſſi nella Rettorica , e nella Poctica, o in fi fatti ſtudij , ne'quali
for fe mi ſarei troppo ſuagato, ſe mi fofſi auuiſto che in quelli felicemente
m' auanzaua : Che io preueniſſi di colloca re nelle dignità i miei edu catori ,
concioffiecoſa che mi pareua eli lo defiaſſero , non nutrendoli di ſperan za ,
come che cffendo ano cora giouani poteſſero al pettare quello che poſcia io era
per fare : Parimente d'ha uer io conoſciuto Apollonio, Ruſtico , e Maſsimo :
Che ſo uente , e chiaramente mi li presétaſse nell'immaginazio nc la forma
della vita c011 ueniente alla natura . Onde', per quanto appartiene agli Iddij
per le ammonizioni,as ) iuti, ed iſpirazioni da eſsi co partitemi, non vi è
ſtata coſa , che mi tolga il viuere rego lato alla natura , o che'l man camento
non proceda al tronde , che permia colpa, e per non offeruare io gli au
uertimenti, de'quali fui da lo ro come addottrinato : Che: il corpo mio fia
durato nella ſorte divita , che io ho menato: Di non mieſſer non ſolo accoſtato
ne a Benedetta, ne a Theodoto ; mache ancora dopo dalle paffioni ' amore ho
conferuato la men te fana : Che ſpeffe volte tro uandomi adirato con Ruſtico io
no fia traſcorſo tantoltre , che me ne habbia hauuto a pétire:E che giacchè mia
ma dre era per morir giouane, io viuuto ſia cô eſſa inſieme ne glivltimi anni
ſuoi.Ogni vol ta che io habbia voluto fou uenire il pouero ,o qualunque altro
biſognoſo, non vdij mai che i denari , co’quali poteffi ciò fare mi mancaffero
; ne mai accadde tal’vrgenza, che io da altri gli accattaffı. D’ hauer
conuerfato con vna moglie tanto riuerente , tan .. to amoroſa, e tanto ſchietta
: Che ho haluto buona forte negli educatori per li figliuo li: Che in
ſognomifieno ſtati fuggeriti molti rimedij, prin cipalmente quello allo ſputo
del fangue, e quello alla ver tigine; di ciò hebbi la grazia in Gaeta ed anco
in Chre fa: Che, eſſendomi io dato al l'acquiſto della Filoſofia, non
m'abbattei in qualcheSofiſta; ne conſumai il tépo in iſqua dernare ſcartafacci,
ne in or dire , e ſoluere fillogiſini ; ne mi ſmarrij tra le quiſtioni
meteorologiche . Queſte co fe tutte riconoſco dall'aiuto degl'Iddij, e dalla
loro for tuna ; dimorando io nel pacſe de' Quadi preſſo il fiu me Granua. Di
bel mattino ho così da predire a me ſteſſo: E’faci le che io m'incontri in tale
, che ſia o importuno , o diſ grazioſo, o proteruo, o malizioso o invidioso , o
nemico di ogni comunanza . Tutti queſti difetti prouennero in eſsi
dall'ignoranza del bene', e del malc ; ma hauendo io notizia della natura del
be ne, che è l'eſfer'oneſto ; e del male, che porta al no oneſto ; ed eſſendomi
inſiememente nota la natura di chi nel male pecca , poſciachè egliè a me ,
cõgiunto no tanto per la ſimi. gliáza del ſangue, e della ge nerazione, quanto
per la mé te , la quale è comeporzione, della diuinità , ne ho da trar re
conſeguenza ,che non pof lo rimaner leſo da alcuno de detti
difettuoſi;concioffiecofa che niuno mi auuilupperà cô le ſue ſconueneuolezze; e
non ho da ſdegnarmi con chi è a me congiunto neodiarlo , im perocchè ſiamo
fatti a fin di cooperare, come li piedi , le mani, le palpebre, e de i den
til'ordine di ſopra con quel di ſotto . Il contrariarſi dun que l’yno all'altro
è contro all'iſteſſa natura , e l'adirarſi , e lodiarſi è vn contrapporſi. Tutto
quell'eſſer mio ſi ri ſolue ad vn pezzo di carnuc cia , ad vno ſpiritello , ed
al la parte ſuperiore , ch'è la mente. Laſcia da parte i libri, ne coſa alcuna
ti diſtragga . Ciò non t'è permeſſo: ma co me sul'orlo della morte ſprez za
quella carnuccia, che con ſiſte in ſanguuccio, oſſetti, ed in vna teflitura
tramata di nerui, venette , ed arterie . Conſidera ancora che ſia lo ſpirito ?
aura che mai non ri mane ľifteffa ; ma ognora B fuori ſi ſpira , e reſpirando
di nuouo li attrae.La detta terza parte dunque di noi è quella, che ci gouerna
, circa della quale così hai da diſcorrere , Se' vecchio non hai da com portare
che queſta più viua in servaggio. E che ſia più per violenza ſtraſcinata dall'
im peto , ch'è alieno dall'huma na comunicazione ; e che non fi prenda più
faſtidio di quello, che cagioni il fato al preſente, o in auuenire . L ' opere
degl'Iddij tutte fon ri piene di prouidenza; e quelle della fortuna non ſono
ſenza concorfo della natura , o del la coordinazione , ed intrec ciamento delle
coſe guidate dalla prouidenza. Quindi tut to ſcaturiſce. Aggiugni anco ra, che
così èneceffario , conferendo all' vniuerfo Mondo, del quale tu se porzione e
ad ogni parte della natura è buo no quello che porta la comu ne natura ; e ciò
che s'affà al la di lei conferuazione - Però con feruano il Mondo così le
mutazioni degli elementi,co . me quelle de compoſti. Que Ite coſe a te ſieno
ſufficienti , e perpetui decreti . Caccia ľ auidità de'libri per non mori re
fufurrando , ma con vera placidezza , ringraziando di tutto cuoregl'Idddij . Ammcntati
da quan to tempo in quà se? andato differendo queſte co ſe; e quante volte de
termini, a te aſſegnati da gl'Iddij , non ti ſe’valuto.Biſogna vnavolta che tu
riconoſca di qualMon do ſij parte ; e da qual Rettor del Mondo deriui : E come
ti è ſtato circonſcritto yn termi ne di tempo , il quale, ſe tu ben non te ne
varrai per tran quillarti , trapaſſerà, e tu con esso, leſſo;ne ritornerà più .
2 Sta totalmente, e in ogni tempo intento, come conuie ne ad yn Romano d'animo
forte , e maſchio , ad ele guire quello , che hai tra ma no , con attenta , e
non affet tata grauità , con humanità con libertà, con giuſtizia, con dar poſa
a te ſteſſo, rimo uendo ogni altra immagina zione ; E allora la rimouerai ,
quando facendo qualche a zione riputerai eſer l'vltima della tua vita , lontana
però da ogni temerità , e da ogni appaſſionata auuerſione alla retta ragione ,
dalla diſſimu lazione e dall'amor di te ſteſ ſo , e da qualſiuoglia diſpia
cenza alle coſe a te per fatali tà congiunte . Tu vedi quan te poche ſiento
quelle coſe , le quali poffedendo , potrà vno viuere felice , e diuina vita ;
poſciachè gl'Iddij niente di più domanderanno a colui , che queſte tali coſe
oſſerua 3. Rimprouera, o anima,rim , prouera a te ſteſſa , come t'è ſcorſo il
tempo per propria mente honorarti, eſſendo che la vita comunemente ſe'n fugge
;ela tua è già quaſi su I'vltimo, riponendo la tua fe licità nell'opinione
degli ani mialtrui . 4 Perchè fe diſtratto dagli ac . cidenti
ch'eſtrinſecamente di foprauuengono? Proccura del l'ozio a te ſteſſo , per
appren dere qualche bene ; e ceſſa da aggirar la mente. Inoltre hai da
guardarti da vn'altro ſua . ria mento : Imperocchè alcu , ni quaſi delirano con
le loro aziani : cioè quelli , che tra uagliano aſſai nella vita , ne hanno
fine certo , doue indi rizzino ogni inclinazione , e tutta quanta la loro imma
ginazione . $ Non fi vedrà facilmente alcuno eſſer infelice , perchè non
comprende quel, che ſe gua negli animi altrui: ma è Forza cheinfelici fieno
quelli che non offeruano i moui menti del proprio animo. Egli èmeſtiere che ti
ri cordi fempre delle coſe ſe guenti: Qual fia la natura de principij
vniuerfali, e quale la propria ; ecome ſi riferiſca quefta a quella , equal
parte ellaſia, e di qual vniuerfo : E cheniitno impediſce , che tu del continuo
non facci, e non dichile cofe congruealla na B · til tura , della quale tu
ſe'parte. Filosoficamente diſcor re Theofraſto intorno al far comparazione
de'peccati , fe condo che più comunemente fi vſa tal paragonc , afferendo efſer
più graui quelli ,che per la concupiſcibile fi commer tono , di quelli, che per
l'ira fcibile . Imperocchè l'adirato con qualche dolore, e occulto
raggricchiamento dell'animo pare che ſi diſcoſti dalla ra gione; doue quegli,
che pec ca per la concupiſcenza , vin to dal piacere , dimoſtra che in certo
modo più da intem perante ,e più da effeminato fdruccioli nel peccato. Retta
mente dunque, e da filoſofo proferì, maggior colpa incora rere chi pecca con
piacere , che qucgli, che pecca con dia ſpiacere : E in ſoinma l’ynos" assomiglia
più a colui che per innanzi habbia ricevuto qual che ingiuria , e che, forzato
dal dolore, entra in collera;l altro ſpontaneamente fi muor ue all'operare
ingiuſtamente , portato a ciò fare dalla con cupiſcibile. 8 In tal modo hai da
con durre P opere , ei penſieri , come tu foſſi in punto per vſcir di vita . Ne
il dipartirti dagli huomini ti ha dapeſa re; poſciachè, eſſendoci gl'I &
dij , quefti non poſſono mai indurre al male; fe poi gl'Iddij non ci foſſero ,
o nonhaueffen ro alcun penſiero delle coſe humane , che mi giouerà di viuere in
yn Mondo manche : uole degl'Iddij , e doue mans chi la prouidenza ?Ma e gl'Id
BS dij cifono , ea cura loro ſono le coſe humane; e acciocchè lº huomo non
cadetle in quello che veramente è male , il tut to ripoſero nel ſuo volere .
Nell'altre coſe , ſe vi fofle del male , haurebbero pure in torno a queſto
prouueduto , a cagione che niuno mai vi pericolaffe. E in vero quello che non
può render la perfo na peggiore , come potrà far peggiorela vita ſua ?La natura
dell' vniuerfo ne ignorante mente , ne ſcientemente , ma per non poterle
preferuare,ne taddirizzare le haurà trafcura te Ella certamente non com miſe sì
enormepeccato , oper mancanza del potere , odel fapere, che i beni, eimali ac
cadano vgualmente , e indif ferentemente agli huomini buoni, e a imaluagi
;giacche la morte e fæ vita la gloria e'l disonore , il trauaglio e I pia cere
la ricchezza e la pouertà ; e così fatte coſe auuengono vgualmente agli huomini
si buoni , si cattiui, non hauen do elleno in ſe nedell'oneſto ne del
difoneſto; dunque non portano feca ne bene , ne male O come il tutto ben pre
fto ſuamiſce!NelMondo i pro prij corpi , e dopo anche col tempo le memorie di
effi fi dileguano . Di tal condizio ne fonotutte le coſe ſenſibilis e
ſingolarmente quelle, che adefcano col piacere', o che atterriſcono col
tranaglio , o per lo faſto ſono applætrdite , quanto fonovili,diſpregevo Li,
fordide , e facili acorrom B 6 perſi,e già boccheggianti ? 10 Tocca alla
facultà intel lettuale l'auuertire , che coſa fieno quelli, nelle opinioni, e
voci de'quali fi conftituiſce la gloria : Che coſa ſia il morire; il quale, fe
alcuno il contem pla per ſe ſteſio ſolamente ; e conla diſgiunzione della con :
fiderazione ne ſepari tutte l? immaginazioni, che con effo vengono
rappreſentate, com prenderà non eſſer altro , che yn opera di natura : Onde da
fanciulletto è l'atterrirſi ad vi opera della natura ; e pure il morire non
ſolo è opera + zione della natura , ma molto a quella conferente: Come s?
vniſce l'huomo a Dio ; e con qual parte di ſe , e con qua ! maniera ancora tal
particella dell'huomo all' ora è affetta e diſpoſta. II Niuno è più miſerabile di colui che
s'aggira per tut to a rintracciare ogni coſa, e Va razzolando comecolui dice
fin nelle viſcere della terra ; e an cora va cercando per con ghietture quello
, ch'è negli animi altrui, non accorgen doſi che gli ſarebbe a baſtan za di paſſarfela
bene col ſuo genio , e riuerentemente ſe condarlo , eſſendo dentro di lui .
Queſta offeruanza però conſiſte nel preferuarlo puro dalle paſſioni,
dall'eſſerarro gante, dalli diſguſti,che ſi pi gliano per quello che venga da
gl'Iddij, o dagli huominis concioſliecoſa checiò, che vi: ene dagľ Iddij per la
virtù s ? ha da venerare;quello cheda: gli huomini, s’ha da amare per la
congiunzione della natura: anzi alle volte in yn certo mar do fono degni di
compaſſione , per non conofcere il bene , e il male; ne queſta ignoranza è
minore dell? offüfcazione di poter diſcernere il bianco dal nero. Eziandio che
tre mila anni ti rimaneffero a viuere e di più altrettante decine di migliaia'
, nondimeno ricor dati che niuno perde altra vita, che quella , cħeviue', ne
altraviue;che quella cheper . de .. Al medeſimo dunque fi riduce così la vita
funghiffima, comela breuiffima . Perchè quello , ch'è preſente , a tutti &
vguafe,benchè quello , ch'è perduto, a tuttinon è va guale ; ecosì quello, che
& perde , pare chefiavn attimo folo. Imperocchène il paffatoy, neil futuro
da niuno ſi perde; concioſliecofa che quelloche non ſi ha , come può eſſere
tolto da veruno? Però dique ſte due coſe è da ricordarſi : l'vna, che
dall'eternită tutte le cofe fono ſtate ſimili , vol. tandoſi in giro , e non
v'è niu na differenza, ſe per cento , o per dugento anni, o pure per tempo
indeterminato vedrai le medefime coſe : La ſecon da è, che colui, che lunghiſſi
mamente ville, come quegli , che preſtiſfimo muore, refta no pareggiati nella
perdita , mentre non vengono a rima ner priui, chedelpreſente , il quale ſolo
hanno, eciò, che non fiha, non ſi perde. Ogni coſa ſta nell'opia nione, il che
appariſce mani feſto dalli diſcorſi con Monimo Cinico . E chiaro farà l've tile
di queſti diſcorſi, ſe da quelli ſe ne coglierà il midol lo della verità. Oltraggia
ſe ſteſſa l'ani ma dell'huomo:Primieramen te allora che, quanto è per 0 pera
fua , diuenta yn’apofte ma , o ghianduccia delmon do;mentre che chiunque mal
volentieri prende quello , che il tempo porta , è vn ' diſtacs camento della
natura, in par te della quale le nature di cia . fchedun degli altri ficonten
gono:Secondariamente ,quan. do ſi ha auuerſione a qualche huomo , o ſe gli
opponeper danneggiarlo , come fanno que', che ſi adirano : Nel ter żo luogo
tratta male fe me deſimaallora , che ſi arrende al piacere , o al dolore : Nel
quarto, oue diſſimulando fina tamente,e ſenza verità, qual che coſa fa , o
dice: Nel quin to , quando non indirizza l' azioni fue , eiſuoi moti à niun
ſegno; ma opera a cafo , e ſenza congruenza ; effendo neceſſario che ancora le
coſe minutiſſime habbiano rela zione al lor fine. Ora il fine degli animali
ragioneuoli è di ſeguire la ragione, e la leg ge della Città , e dell'anti
chiſſimo gouerno. Il tempo dell' humana vita è vn punto : la ſoſtanza
fluſſibile : il ſenſo caliginoſo: e la coagulazione di tutto il corpo facile a
putrefarſi:lani moyn continuo rigiro: la for tuna difficile a conghietturarm
fi: la fama vna incertezza E per recare
le inolte parole in vna : tutte le coſe corporali vna corrente, quelle dell'ani
ma vn ſogno , e vn fuina d'ac qua: la vita yna guerra , e vor pellegrinaggio di
vn viandan . te : e la famapoftuma farà di menticanza . Checofà è dun que , che
pofſa fare durare 1 huomo Una sola la
Filosofia ; e queſta conſiſte nel con feruare l'interno genio inno cente e
ſenza taccia ,ſuperio re a ' piaceri , e a ' dolori; che niente operi
temerariamente , ne con bugiane con finzione: e che non habbia biſogno , che
altri faccia , o non faccia . In oltre , che ben ricetia ciò , che auuieneso
impoſto gli ſias come di là tutto auuenga , donde egli medeſimo è ve nuto; e
ſopra tutto cheaſpetti la morte con animno ſërena , non : nonla confiderando ,
che co mevn diſcioglimento degli clementi, de'quali qualſiuo glia animale fi
compone. E ſe agl'iſteſſi elementinon è ma. lala mutazione continua ,che ſi fa
di ciaſcuno di eſli in vn altro , per qual ragione hafli a temere la mutazione,
e il di fcioglimento di tutti inſie me , giacchè è conforme al la natura e niente
è male , eſſendo conforme ad effa ? Fin qui a Carnuto. Ccoveredt gde jeunesse
eos POS. Non è ſolamente da confiderare che la vitaſi va di giorno in giorno
conſumando ; e che di eſſa ne rimanc il meno ; ma quel lo ancora fi vuole andar
ri penſando , che quantunque yno viueffe eziandio d'au uantaggio , pur reſta
quegli incerto ſe ſia per durargli la mente habile alla buona in telligenza
degli affari , e di quella ſpeculazione , che ri chiede nel trattare le coſe
humane , e diuine: Imperoc „chè fe comincierà perauuen . zura l'huomo a
delirare , non perciò gli mancheran forze , ne il reſpiro , ne la facultà del
nudrirſi, ne l'immaginatiua , ne gli appetiti ,ne ſimili altre potenzc; ma
s’eſtinguerà ben ſi affatto in lui quella del po terſi di ſe ſteſſo valere , e
di perfettamente adempiere le parti del ſuo miniſtero, e di chiaramente
ſpiegare i con cetti dell'animo , e di confi derare altrui , fe tal volta debba
a ſe medeſimo dare la morte ; e tutti finalmente quci ſimiglianti affari, i
quali per ben riſoluere richiedel vn perfetto , e raffinato di ſcorſo.E'dunque
da non iſtar fone a bada , non ſolo perchè la morte ſempre più s'appref ſa , ma
perchè in oltre il ra ziocinio , e l ' intelletto noi fpeffe volte abbandonano
innanzi alla morte. E'ancora da oſſeruare,che tuttociò, che alle coſe già dal
la natura prodotte ſoprattuie ne , aggiugne loro yn certo che di bellezza , edi
grazia ; comeper eſemplo, quando il pane ſi cuioce , infrangonfi, e in varie
guiſe apronfi four? eſſo alcune particelle di cro ſta , che fuor della creden,
za , ed arte del fornaio co sì ſcrepolate con particolar compiacimento muouono
P appetito. Così a i fichi, quan dogià ben maturi rompeſi la camicia ; e
allylive ſtagiona te , mentre principiano a pu trefarſi , fi viene ad accreſcere
in tal particolare alletta mento: le ſpighe , che per lo pelo s' inchinano , il
ſopraci glio del Lione, la baua, chc1 Cignale ſchiumando getta dal grifo , e
altre coſe , delle quali , ſe ciaſcuna riguardaſi da per fe , appariſce lontana
da ogni bellczza ,per lo effe re all'opere della natura con giunte, recano a
queſte orna mento , e agli animi deri guardanti diletto ; Ondechi ha l'affetto
e la conſiderazio ne intenta intorno a ciò, che vien prodotto nell' vniuerſo ,
quafi niente troverà anco nel le cofe, che a quelle addiuen gono, come
neceſſarie pendi ci , che con qualche buona grazia non le veda congiu gnerfi. E
così i veri digrignan ti grifi de viui animali non con ininor piacere rimirerà
, che quelli, che con iſcherzo dalla pittura, e dal rilieuo ſo no
rappreſentati; e vn certo vigorc , e vna certa maturità d'vna vecchia , o d'vn
vec chio , non che la venuſtà de? fanciulletti , potrà con ben purgata viſta
rimirare; e mol te ſimili cofe , che non ad ogn’vno ſaranno accette ; ma ſolo a
colui , che finceramen te ne'ſegreti,e nell'opere del la natura ſi ſarà
internato . 3 Hippocrate , che haueua fanati molti infermi', amma latoſi egli
ſe nemorì : I Cal-, dei a molti prediſſero le mor ti , ed eſſi poſcia furono
dall : ora fatale portati via : Aler ſandro , Pompeo, e Caio Ce fare , hauendo
intiere Città del tutto , e tante volte di ſtrutte , e tagliate a pezzi in
battaglia molte decine di migliaia d'huomini tra fanti , e caualieri, eſſi
ancora alla fi ne vſcirono di vita : Heracli to , dopo hauer con diſcorſo
naturale trattato dell'incen dio del Mondo , gonfio le vi ſcere d'acqua ,
rauuolto in iſterco bouino, finì i ſuoi gior ni : Democrito da i pidoc chi ,
Socrate da altri vermi reſtarono eſtinti. A che quc ſti racconti ? Entraſti in
bar ca, nauigafti,approdaſti: Eſci fuora , e ſcendi; ſe pervn'al tra vita , iui
ancora faranno gl'Iddij , eſſendo quclli per tutto " ; ſe reſterai
ſenz'alcun ſenſo , ceſſerai d'eſſere.ratte nuto tra i trauagli, ed i piace ri ,
e di feruire ad vn vaſel letto tanto inferiore, quanto la porzione è ſuperiore
a quello , a cui ella ferue . Poi chè queſta è la mente , e il genio , doue
quello terra , e putredine . 4 Non conſumare queila parte di vita, che ti
riinane nel darti inipaccio,o penſiero de? fatti altrui, quando quelli non
riguardino all vtile comune; altrimente tu reſterai impac ciato in coſa da te
aliena, ro fiſticando , che faccia il tale , cd a qual fine e che dica , o
penſi, o macchini, e altre co ſe ſimili, le quali ci fanno de uiare dall'
offeruanza della parte , ch'è la propria di cia fcuno reggitrice . Concioffie
coſa che biſogni nel diuilare ľ immaginazione , sfuggire ogni penſiero
intempeſtiuo , e vano , e molto più quello , che habbia del vizioſo e del
maluagio : Alucfare ancora vuolſi ſe ſteſſo a penſare ſolo a quelli
particolari,de' quali, chi all'improuiſo t’interro gaſſe , che penſi tu adeſſo
? tu polla con franchezza riſpon dere , ſenza interporre tempo di mezzo ,
queſto , e queſto ; dalle quali riſpoſte ſubito manifeſtamente appariſca che i
penſieri tutti ſono in te ſchietti , manſueti , come conuiene a i viuenti per
l'hu mana comunicazione ; e che, tu non ſei applicato ' a i piace ri , ne a
qualſifia voluttuoſa immaginazione , non alle conteſc , non all'inuidia , o a i
ſoſpetti, o ad altro , per lo che tu ti hauefli da arroſſire , diſcoprendo
quello , che tu couaui per auuentura nell' C 2 animo . Giacchè vna perſona,
così coſtituita , è quaſi vno degli ottimi , qual facerdo te , e miniſtro
degl'Iddij,ſer uendoſi di quello, che den tro di lui riſiede Questo rende l'uomo
illibato e libero da i piaceri , illeſo da ogni trauaglio , intatto da ogni
ingiuria e ſenza vn mini mo ſentore di malizia , cam pione del maggior combat
timento , da non eſſer ab battuto da paſſione alcu na , intinto nella giuſtizia
in fino all'intimo , che con tut to l'animo ben riceue quanto auuiene , e
quanto per defti no gli venga compartito. Non iſpeſſo ne, fuori che in grandi
neceſſità , e che ſpet tano all' vtile comune , ri flettente a quello , che
altri ſi dica , o faccia , o penſi, ſolo da vn canto intento a ' proprij affari
, e dall'altro continu a mente attento a ciò, che per le contingenze dell'
vniuefo a lui tocchi; acciocchè s'in duſtrij di rendere quelli di bella oneſtà
compiuti , queſto reputi colmo d'ogni vtile e d'ogni bene. Concior ſiecoſa che ,
quanto a ciaſcu no viene dal fato deſtinato , fia portabile , e del bene ſeco
portante . Ed egli tenga a mente , che a lui effcr dee fa migliare tutto quello
che ha del ragioneuole, e che la natura dell'huomo richiede, e che dee
applicare alla cura di qualunque ſi ſia degli aleri uomini. Però non ha a vo ler dipendere dall' opinione
così d'ognuno , ma ſolo di C 3 coloro, che viuono conforme alla natura ; e dee
offcruare quali ſieno quelli , che diuer famente viuono ilmodo, che tengono in
caſa , e fuori , il giorno, e la notte, e quali , e con quali conuerſando ſi me
ſcolino; Eper ciò non ſi ha ď hauer in alcun grado la lode di coſtoro , che ne
meno fe fteſli contentano. Non opererai come con tro tua voglia , ne come ſcor
dato del bene comune , ne ſenz' hauer prima ventilato efattamente l'affare, ne
ritro fo ; ne attenderai con bellet ti di vago dire a vanamente liſciare i tuoi
concetti , non effendo ciarlone, ne troppo faccendiero . Iddio , ch'è in te ,
preſieda al tuo viuere da perſona virile , e nell'età auanzata , e di vita
politica , e da nato Romano, e chema neggia gouerno . Sta in mo do tale
apparecchiato e diſ poſto che alla prima chiama ta tu ſij pronto di ſtaccarti
da i viui fi intero , che ti fia data credenza senza tuoi giuramenti o
teſtimonianze altrui. Queſt'vno non manchi , ch'è tal ſerenità nell'animo , che
non occorrono conforti efterni, ne di effere tranquil lato per opera d'altri:
s'ha dunque ad cſſer per ſe ſteſſo retto , e non raddirizzato . 6 Se nella vita
humana tu trouerai alcuna coſa migliore della giuſtizia , della verità , della
temperanza , della for tezza , e in fomma fe altro meglio , che l'eſſer l'opera
zione della tua mente sufficiente a ſe ſteſſa , acciò ca gioni , che tu operi
ſecondo la retta ragione, e in ciò, che non può dipendere dal pro prio tuo
conſiglio , al fato tu ti accomodi : ſe meglio dico di ciò tu truoui , od
iſcopri ,a quello volgiti con tutto l'a nimo, e godi dell'ottimo , che haurai
ritrouato . Ma fe nulla t'appariſce , che ſia inigliore dell'iſteſſo genio , che
in te riſiede , il quale habbia sottomessi a se stesso i proprij mori
de'tuoiappetiti, ed eſamini le coſe. immaginate , e che dalle perſuaſioni, o
alletta mcnti de' ſenſi, come Socrate dicea , ſia diſtratto , e con 1 affetto
attento agli huomini , fi fia fubordinato agl'Iddij : Se di queſto trouerai
eſſere ogni altra coſa inferiore , e più vile , non dar luogo nclla mente tua
ad altra cofa veru na , alla quale vna volta che tu o propendendo , o decli
nando aderifli , ſareſti ferma mente impedito a poter libe ramente preferire ad
ogn'al tro il ſingolare , e proprio tuo bene ; non eſſendo giuſto che al bene
ragioneuole e operatiuo ſi contrapponga qualſiuoglia altro , che ſia in diuerſo
genere , come fareb be l'applauſo della moltitudi ne, o la dignità , o le ric
chezze , o il godimento de piaceri;tutte coſe le quali ha. uendo apparcnza ,
ancorchè in minimo , di adattarſi a noi, repentemente preuarranno , e ci
rapiranno . Ondeio ti di co , attienti fchiettamente , e francamente al meglio
; e С aderiſci a quellos e il meglio è quello , che a'te è di profit to ; però
ſe ſi confà , come a perſona ragioneuole , queſto riſerbati ; ma ſe ſolo ,
come. ad animal viuente , riggetta lo , e ſenza gonfiartene,cuſto diſci il
fologiudicio , per po ter formare vn eſame certo , e ſicuro . Non iſtimare giam
mai , che ſia coſa conferente a te ſteſſo quella, che tal vol ta forzeratti a
traſgredire la fede , mancarc all honore , odiare alcuno , ſoſpettare maledire
, fintulare , ed ambi re qualche coſa, laquale hab bia biſogno di naſcondimen
to di muri , e di velami . Im perocchè chi ſtima fopra tut to la propria ſua
mente , e il genio , e l'operazioni della ſua virtù , quegli non fa azione da
tragedia , non pia gne , non hannà biſogno di Itar folitario , ne della com
pagnia di molti . Esquel che più importa , viuerà ſenza de fiderare , e ſenza
sfuggire co fa alcuna ; ne farà molto ca fo , ſe dell'anima circondata dal
corpo ſe ne ſeruirà per più lungo , o per più breue tempo : acciocchè qual ora
s'haueſſe a dipartire , così franco ſe ne vada , come ha ueffe a disbrigarfi di
qualche affare , che gli conueniffe efe guire con decoro , e con ogni modeſtia
: ofſeruando queſto folo puntualmente per tutta la vita , che i fuoi penſieri
s. aggirino attorno qualche co fa , che ſia propria de viuen ti razionali , e
ciuili . 7 Nella mente di perſona C 6 ben aggiuſtata , e purgata non trouerai
niente di guaſto , niente di marciume , o che v'habbia fatto ſaccaia . Simil.
inente . non troncherà il fato la vita di coſtui imperfetta , come ſi direbbe
dell'Iſtrione , fe ,auanti di finire , e compire il Drạmma,gli vditori all'im
prouiſo piantaſſe . Di più non trouerai nulla di feruilc , ne di affettato , ne
di appicci cante , ne di diſciolto che habbia biſogno d' eſſer corretto ,
ncd'eſſer ricoper ne to. Habbi in venerazione la facultà , che forma l'appren
ſione , dependendo da queſta il tutto ;acciocchè niuna opi nione s' inſeriſca
nella tua mente , che non confcnta colla natura , e colla coſtituzione di
viuente razionale : E queſta profeſſi di non cor rerc alla cieca, e che l'huomo
fi confaccia con gli huomini , e verſo gl’Iddij ſia offequiolo. Rigettate
dunque tutt'altre coſe , imprimiti ſolo queſte poche , e ſpesſo rammenta ti che
da ciaſcuno ſi viue il ſolo momento preſente, il re fto l'ha gia viuuto , o gliè
af fatto ignoto . Piccola adun que è l'età di ciaſcuno : Pic colo è il
cantoncino della terra, dove ſi viue , e piccola , benchè lungi s'eſtenda , è a
' poſtuni la fama , proceden do queſta dalla ſucceſſione di homicciuoli , che
preſto ſe ne vanno a morire , i quali non conoſcono le ſteſſi , non che colui ,
il qual di già lungo tcmpo morì. A'già eſpoſti auvertimenti s'aggiunga ancora
di far ſem pre vna diffinizione , o de : ſcrizione di quello , che vie ne
dall’iinmaginatiua rappre fentato acciocchè qual'è nudamente nella propria ſo
ſtanza , e il tutto per tutte le parti diſtintamente , tu rico noſchi,e ſia a
te ſteſſo eſpreſ ſo. e paleſato qual ſia il ſuo proprio nome , e i nomi di
quelle parti , delle quali è compoſto , e nelle quali ſi ri foluerà . Perchè
non è cofa , che a ſolleuare la generoſità dell'animo ſia più poſſente ; quanto
l'eſaminare con me todo , e verità ciaſcuna coſa che può accadere nella vita ':
c riguardarla del continuo in tal modo , che tu comprenda inſieme a qual Mondo
, qual vſo porgano , che poſto tena gano in riguardo dell’yniuer fo , e quale
in riguardo dell' huomozil quale è cittadino di quclla ſopraniſlıma Cittade di
cui le altre ſono come.abi. tazioni di famiglie : Che co fa ſia , o di quali
principij ſia compoſto , e quanto tempo fia per durare quello , che al preſente
m’imprime tale im inaginazione ; e qual virtù in torno quello s'habbia da vla
re : come a dire della manſue tudine , delle fortezza , della verità , della
fede, della ſchiet tezza della contentezza, del la propria ſorte , e d'altre fi
mili. Per lo che biſogna dire di ciaſcheduna coſa : Queſto viene da Dio, ma
questo per fatale ordinazione, e conneſ fione delle cose del mondo o per una
tale congiuntura , e fortuna: E queſto altro pro cede da vn tuo proſſimo , e congiunto
, e teco conuer fante , ignaro di quello , che a lui pernatura ſi conuiene . Ma
io che lo ſo m’auuaglio d' effo , fecondo le leggi naturali della comunicazione
, con af fetto benigno , e giuſtizia ; e inſieme nelle coſe indifferen ti , o
mezzane mi ſtudio d' andar conghietturando , qual ftima a quelle habbiaſi a da
re . Se tu , della retta ragione feguace , opererai quello che haurai dauanti
ſtudiofa mente, validamente , placi damente , e non mirando ad altro che
all'intrapreſo nego zio , anzi conferuerai il tuo genio puro , e conſtante , co
me ſe già ti abbiſognaſſo di renderlo. Se dunque queſto offeru.crai , a niente
altro at tendendo , niente fuggendo ; ma nell'operazione , che hai tra le mani
, conformandoti alla natura , e contentandoti d'eſprimere con verità eroica
tutto ciò , che a dire intra prendi , tu viucrai felice . In vero non v'ha chi
ti potra quefto impedire . u Comei Maeſtri del cu rare hanno ſempre alla mano
gli ſtrumenti , e i ferri per ogni inopinata cura così habbi tu pronti i decreti
a ri conoſcere per mezzo d'effi le coſe diuine e l'humane , in tutto ciò, che,
quantunque mi nimushaurai da operare ; ben ricordcuole come queſte fia no
amendue tra di loro con giunte , non potendo far nulla , che appartenga agli
huo mini, che per mera corriſpon denza al Cielojne per lo con trario . 12 Non
andar più vagan do, mentre non haurai più da leggere i tuoi libretti di me
morie , ne i fatti degli an tichi Romani , e Greci , ne le raccolte , che hai
eſtratte da varij ſcrittori , le quali riſer bate t'haueui per la vecchia ia .
Affrettati adunque ver ſo la fine , e abbandonando , mentre che t'è lecito , le
va ne ſperanze , porgi ogni aiu to a te ſtello , ſe tu fe'a cuore a te medeſimo
. 13 Gli huomini volgari non fanno quanti ſignificati hab biano le voci rubate,
femina re , comperare , ripoſare ; ne fanno diſcernere quello , che s'ha da
operare : il chenon ſi fa con la viſta degli occhi, macon altra perſpicacia. Habbiamo
il corpo, l'a nima , c la mente : Al corpo appartengono i ſenſi, allani ma gli
apperiti, alla merite i decreti . Si formano le imma ginazioni ancora dagli ani
inali bruti ; ma il laſciarli trarre dagl'imperi degli ap petiti a guiſa di
pupazzi tira ti con cordicelle, è cofa da beſtie , e da effeminaci , e d ' yn
Falaride , ed'vn Nerone . L'applicarela reggitrice men : te all' apparenti
conuenienze è ancora di coloro , i quali non tengono , che ci ſiano gl’Iddij ,
e che alle occaſioni abbandonano cziandio la pa tria , e che quando han chiu te
le porte , fanno di tutto. Se dunque l'altre coſe ſono comuni alli già detti ,
reſta proprio dell'huomo dabbene l'amare, e abbracciare ciò che a lui auuenga ,
e che dal fato gli fia compartito , come il non rimeſcolare , e confon dere il
genio , che nel mezzo del petto riſiede , ne pertur barlo colla moltitudine
dell' immaginazioni : ma conſer varlo placido , e come a vn Dio , decenteinente
portar gli riuerenza , ed oſſequio. Non proferendo mai parola, che tutta yera
non ſia ;ne fuo ri del giuſto facendo cofa al cuna . Se poi tutti gli huomi ni
non crederanno , ch'egli fchicttamente , e oneſtamen te , e tranquillamente ſe
ne viua , non però fi crucсerà con chi che ſia di loro ; ne vſcirà mai dal
dritto ſentiero , che lo conduce al fine della vita , al quale fa di meſtiere
giugnerepuro,quieto, c pron to a diſcioglierſi, e acco- - modarſi di buona vo
glia al proprio de ſtino. Nell interno che domina in noi quando ſi confor ma
alla natura , reſta sì indif ferente a tutti gli auueni menti , che ſenza
ripugnanza ſempre prontamente ſi tra fporta a ciò; ch'è poſſibile , e conceduto
; Imperocchè non s'obbliga a materia deterininata ; ma è facile verſo ciò , che
gli venga propoſto , ben che con qualche eccezione ; e quello , che in luogo
dell eſcluſo è introdotto, s'appro pria come ſua materia , in guiſa del fuoco ,
quando nel le coſe , che incontra predo mina ; dalle quali vna picco la
lucernctta verrebbe e ſtinta,la doue vna gran fiam ma trasforma in ſe preſta
mente tutto quello , che in nanzile è poſto , e lo conſu ma , e di
quell'iſteſſo diuiene maggiore 2 Niun'opera ſi faccia a ca ſo , ne altrimente
ſi eſegui ſca , ſe non conforme agli ammaeſtramenti di perfezio ne dell'arte .
3 Proccurano le perſone di ritirarſi nelle campagne,alla -50 he 9 or it 71 za 2
. e 01 marina , e ne' monti , e an co tu queſti ſe' stato particolarmente
ſolito d'amaro e queſta è coſa ordinarijfſima agl'idioti; eſſendo a te lecito
in qualſifia tempo, che ti pia cerà , ritirarti in te ſteſſo . Ne c'è luogo per
l'huomo di più quiete , e più lontano dalle faccende , per ritirarſi di quello
del proprio animo ; particolarmente ſe haurà in ſe formato tali concetti, che
in quelli internandoti pron tamente rimanga in vna to tale tranquillità . Ne
altro dico eſſere queſta calma che l'animo ben compoſto : Ritirati dunque ad
oraad o ra , e rinnuoua te ſteſſo . Si eno però breui , è ordinati que' ricordi
, i quali ad vn tratto fouuenendoti, ſaran no ſufficienti a liberarti dio gni
moleftia , e di rimetterti nelle tue operazioni ; alle quali ſenz' annoiarti
farai ri torno . Poſciachè di qual co ſa pigti tu noia ? forſe della maluagità
degli huomini ? Rammentati di quel decreto, che i viuenti ragioneuoli ſo no
prodotti a pro \ vno dell'altro ; e che il medeſimo ſofferire è part e della
giuſti zia dell'huomo: e che quelli, che delinquono , no'l fanno di buona
voglia ; e quanti dopo hauere eſercitato l'oſti lità , i ſoſpetti, e gli odij,
e trafittiſi ľ .yn l'altro , ſono morti e diſteſi ridotti in cene, re ?
quietati dunque vna vol ta . Ma tu non t'appaghi di quello , che dall' vniuerſo
ti è ſtato diſtribuito . Richiama : D però nella memoria la pro porzione
diſgiugnéte , che ci è , o la prouidenza, o gli atomi, o anco altre coſe ,
donde ben fi conchiude che il Mondo è in guiſa di ordinata Città. Se poi
t'aggrauono le coſe cor poree , tu quì confidera che la mente , dopo che vna
vol ta ſi ſarà in ſe ſteſſa raccolta , e haurà riconoſciuta la pro pria dignità
, non ſi meſco ſerà con iſpirito , che venga ad eller morbidamente, o ru
uidamente agitato . Aggiu gnidi più tutto quello , che del dolore , e del piacere
tu hai vdito , e l'hai approuato. Mala gloricota ti diſtrarrà ? Da vno ſguardo
, come pre fto va il tutto in dimenti canza , e nel chaos dell'euo da amendue
le parti immen fo , e nella vanità d ' yn rim bombo : e quanto mutabili , e
ſenza giudicio fono quelli, che di noi poſſono formar concetto , e in quanto
poco luogo tutto ciò li circonſcri ue ; mentre tutta la terra è yn punto , e di
queſta non è che yn cantoncello la noſtra abitabile ; e quanti, e quali fono
quelli , che ſieno per lo darti . Ricordati dunque di ritirarti in quella
particella di te ſteſſo ; e ſopra tutto di non ti diftrarre , e di non far
refiftenza ; ma fij. franco, e ri guarda l'opere da PERSONA VIRILE, D’UOMO, da
cittadino , da viuente mortalc. Ma tra i ricordi più pronti e ſpe diti , i
quali hai da conſide rare , fieno queſti due. L'yno, che le coſe iftcffe non
s'at D 2 taccano all'anima , ma ſtan no al di fuori immobili ; e che le
turbazioni deriuano ſolo dall'opinione interna : l' altro è , che quanto vedi ,
queſto non iftarà guari a mu tarſi, e più non ci ſarà; e con fidera a quante
mutazioni già tu ti ſe trouato, e di con tinuo tieni a mente , che il Mondo ſta
nell'alterazione , la vita nell'opinione . 4 Se l'intelletto è comune, comune
ancora è la ragione , mediante la quale noi ſiamo ragionevoli. E ſe è vero que
ſto , eziandio la ragione, che comanda quello , che ſi deb ba , e che non ſi
debba ope rare , ſarà coinune . E ſe è cosi , ſarà comune la legge ; il che
ammettendoſi , verre mo noi ad eſſer Cittadini ; donde è, che hauremo da par
ticipare di qualche Cittadi nanza ; e conſeguentemente reſta il Mondo eſſere
come vna Città . Concio ffiecofa che dirà alcuno : qual'altra Cittadinanza
fitruoua fi co mune , della quale tutto il genere humano partecipi ? E da
queſta comune Città deriua l'iſteſſo effer noſtro in: tellertilo, e ragineuole,
e le gale. O se quindi non ès-don de è perciocchèſi come quel lo , che è di
terreſtre in me , da qualche terra a me ſi com , parte , el eſſere vmido da vn
altro elemento , e l'eſſere fpiritale da qualche ſcaturi gine di ciò , e'l
caldo , e l'i gneo da qualche altra pro pria ſorgente ; imperocchè nulla
prouiene dal nulla, co D3 me ne meno ritorna in quel che non è così anche
l'intel lettiuo da qualche luogo fi comparte . 5 Tale è la morte , quale è la
generazione , e ſono degli arcani della natura ; queſta è miſtura degli
elementi, e quel. la è diſcioglimento ne'mede fimi : In ſomma non ſe n'hà
d'hauer vergogna , poichè non è contra la conuenienza del viuente intellettuale
, ne repugna alla ragione della di lui conſtituzione , 6 La natura porta che
queſte cofe da tali ca gioni nafcano neceſſaria mente ; il che , ſe ad alcuno
non piacerà , vorrà che'l frutto del fico non habbia lattificio . Quello in
tutto , e per tutto rimanga nella mente, che tra breuiſſimo tempo tu , e quel
tale vi morrete , e tra poco non ci ſarà , ne pu re il voſtro nome . Leua via
l'opinione , che ſarà tolta la querela , che dice , IO SO NO STATO OFFESO ,
leua queſto dire : IO SONO STA TO OFFESO , e verrà tolta l'offeſa . Quello ,
che non fa peggiore in ſe l'iſteſſo huo mo , non renderà peggiore la di lui
propria vita; e ne in ternamente , ne efternamen te l'offenderà . 7 La natura
ad operare in tal modo per lo comune vti le fu neceſſitata . E ciò , che
auuiene , giuſtamente auuie ne : il che ſe attentamente of feruerai , trouerai
eſſer vero ; ne per ſola conſeguenza di co , che è queſto, ma perchè D4 così
vuole il giuſto ; venen do da colui , il quale ſecon do il proprio merito ,
diſtri buiſce a ciaſcuno il ſuo .Of ſerua dunque tu queſto , co me hai dato
principio ; e nel fare qualunque coſa ado pera con qucfta oſſeruazio ne, e con
lefſere huomo dab bene; ina di quella maniera , come s'intende propriamen te
l'hucmo dabbene . Tutto ciò oſſerua in ogni tua ope razione . 8 Non farai
concetto del le cofe fecondo il giudicio di chi t'oltraggia ; ne come e quali
eſſo vuole che tu le giudichi ; ma conſiderale , quali eſſe veracemente ſono .
9 Debbonfi ſempre hauer in pronto queſti due punti: primieramente di non operare
in modo diuerſo da quello che la ragione, Rcina, e leg gislatrice per l'vtile
degli huomini fuggeriſce ; ſecon dariamente d'effer facile a mutarti di parere
, ſe qual cuno fi corregga , e rimuoua da qualche opinione ; però queſto
rimouimento s'ha ſempre d'appoggiare alla perſuaſione , che porti del giuſto ,o
del ben comune, O di coſe ſu queſto andare,non per compiacimento , ouero per
apparenza di gloria . Hai tu la ragione ? la tengo : Per chè dunque non te ne
ſeruia Che vuoi cu altro , che que ſta , mentre ella fa quello , che è proprio
di lei ? 10 Come parte di queſto vniuerſo già ſe'ſtato conftitu ito , così
tornando a chi t'ha DS fat 82 LIBRO QVARTO fatto , diſparirai, o più toſtoy con
qualche mutazione, fa rai ripoſto nella ragione fe minále di quello . Di molte
granella d'incenso su Piſteffo altare vna cade prima dellº: altre , purchè ſi
conſumi mula la importa . Tra dieci giorni tu parerai vn Dio a quelli alli
quali ora ſembri vna be ftia ; e yna ſcimia , fe ritorni a ri pigliare i
decreti, e la vene mazione della ragione. Non fare i conti come fe hauefli
ancora a viuere più migliaia d'anni. Il debito fatalc fou raſta , mentre
viui,mentre ti è permeſſo diuenta buono .. II Quanto di quiere d'ani mo
guadagna chi non bada a quello , che'l vicino diſſe, o fece , o pensò , ma ben
fi ſolo a quello , ch' egli ſteſſo fa, acciocchè l'opera ſua ſia giuſta , e pia
? , nericercando va ſe altri ſia di buoni , o rei coſtumi , ma corre a dirittu
ra per la linea , ſenza punto da efla ſcoſtarſi ? I2 Chi dietro alla fama
apoſtuma ſe ne va,come ſtor dito , non conſidera come cia fcuno di quelli , che
di lui li rammenteranno , anch ' egli preſto ſe ne baſirà , e così di nuouo
quegli ancora , chea queſto ſuccedera, finchè ogni memoria , per mezzo di huo
mini, parte ſtupiditi, parte già morti continuata ſi ſpen ga .Mapreſupponi tu ,
che quelli che terranno di te me moria fieno immortali , e la memoria rimanga
immorta le ? ciò che gioua a te 2 ne ora parlo di quando tu fa D 6 rai nh ada
Te ef 1 rai estinto, ma del preſente mentre tu viui. Che è la lo de ſe non
certamente yn tal condeſcendimento d'huomi ni . Tralaſcia dunque , come
inopportuni i doni della na tura , mentre che dipendo no dal giudicio d'altri .
Del reſto tutto quello , che in qualſiuoglia maniera è buo no per ſe ſteſſo è
buono , e in ſe ſteſſo fi riſtrigne; ne tra le fue parti annouera la lode ;
onde non diuiene ne miglio re , ne peggiore. il lodato . Queſto dico ancora di
ciò , che volgarmente ſi chiama buono : quali ſono le coſe , che o per la
materia , o per l' operazione dell'arte tali fi ftimano . Ed in vero quello ,
che è realmente buono , di che ha biſogno di nulla più certamente che la legge
, di nulla più che la verità , di nulla più , che la buona mente , che la
modeſtia Quale di queſte per lo eſſer lodata diuiene buona, o bia-, fimata ſi
corrompe ? forſe di uenta peggiore lo ſineralduc . cio, ſe non è lodato? non di
rafli il medeſimo dell'oro, dell'auorio, della porpora, del pugnalett , del fiorellino,
dell'arbuscello? Se l'anime ſempre du rano , come fin dall' eternità le può
contenere in ſe l'aria ? e come la terra i corpi rac chiudere de' ſepolti di
tanti ſecoli: Poichenell'iſteſſo mo. do, che la mutazione, e la re ſoluzione di
queſti danno luogo ad altri cadaueri,dopo eſſer per qualche tépo quag. giuſo
ſtati, così l'anime poi chè ſono ſtate traggettate nell'aria , e trattenuteuifi
al quanto , fi tramutano , e ſi ſtruggono, e s'abbruciano, ri tornando nella
ragione ſemio nale del tuttoje in tal modo fanno luogo ad altre , che appreſſo
vengono a ricongiu gnerſi. A queſto ſi riſponde, che ſuppoſto che l'anime du
rino , biſogna non ſolo con cepire la moltitudine de'cor pi così ſepolti, ma
quella an cora degli animali , che cia fcun giorno da noize da altri animali ſi
mangiano ; poichè quanto numero le ne confu ma, ecosì in yn certo modo ſi
ſeppelliſce nelle viſcere di quelli , che ſe ne cibano de tuttauia capono in
questo luogo per la traſmutazione in in sangue , in aria , e in fuoco. Qualeè
intorno a que ſto la notizia della verità il . diuiderſi in materiale , e cau-,
ſale. Non fi vuole andar con aggiramenti vagando, ma in ogni appetizione
dell'animo deefi aſſegnare il giuſto ; ed in ogniimmaginazione con feruare quello
, che ſi è compreso. Tutto quello, che a cé , o Mondo , è conueniente , a me
ancora ſta bene . Nulla è a me acerbo , o tardivo, che a te ſia ſtagionato;
ogni coſa , che portano le tue ſtagioni, è a me frutto . O natura , da te
deriua il tutto , in te è il tutto , e a te il tutto ritorna . Diffe colui ;
Amata Città di Ci tropese tu non dirai,Amata Cit tà di Gione? Intrigati di poco
, diſſe , se tu vuoi ſtare coll' animo quiero Non è miglior cola , che far ſolo
ciò , che è neceſſario , e quello , che la ragione all ' huomo,nato per la vita
ciui le , detta , e nel modo , che lo detta. Imperocchè queſto non folamente
reca la tran quillità , che dal ben fare procede; ma quella ancora , che dal
poco operare.ti au uiene. Concioſliecoſa che; fe la maggior parte di quello che
ſi dice, o lifa , non eſſen do di neceſſitade , alcuno ri ciderà , egli ſe ne
ſtarà int maggior ozio,c meno ſturba to. Perciò biſogna in ciaſcu na coſa in
particolare ricor darſi che forſe ella ſi è vna di quelle , che non lon neceſſa
rie . Biſogna in oltre non ſo lo toglier vią l'azioni , che non ſon tanto
neceſſarie, ma ancora l'iſteffe immagina zioni, perchè così non ſegui ranno
azioni ſuperfluc. Fa prova, come ti rie fca la vita d'vn huomo dab bene, cioè,
cheſi contenta di ciò , che dall' Vniuerſo gli vien aſſegnato, che ſi ſoddis fa
del proprio operare giu ſtamente , e della ſua man fuera diſpoſizione.Hai confi
derato queſto.2 rimira queſt altro ; non ti turbare , habbi l'animo tuo aperto.
Chi pec ca, contro di fe pecca. Ti au uenne qualche bene ? Dal principio
dell'uniuerso ti fu ciò deſtinatose intrecciato in ſieme ognaltro auuenimena
to.In ſomma la vita è breue. Vuolſi guadagnare il preſen te gote con feguire la
retta ragio ne, e la giuſtizia. Sta attento di non rilaſſarti. 18 O il Mondo è
vna bel la ordinanza,o'vn meſcuglio confuſo , tuttauia & Mondo. Ora ſe in
te ſteſſo qualche Mondo,cioè,comeper efem plo,vna venuſtà può conſiſte . re ,
haurà poi da eſſer yn'im monda ſconuenenza neli'yni. uerfo , mentre in effo
tutte le cofe fi vedono così diſtinte , c dilatate , con effer inſieme
reciprocamente affette ? 19 Ci ſono coſtumi negri , coſtumi effeminati ,
ferrigni, ferini, e diquelli, che ſono fimili a'brutali , e a ' fanciul leſchi,
inſenſati , affettati , buffoneſchi, tauernieri , e ti rannici. Se fireputa
pellegri no nel Mondochi non faciò : che in eſſo ſi truoua , molto o più
pellegrino è colui , che ignora ciò , che in eſſo ſi fac cia. Fuggitiuo farà
chi fugge 0 dalla ragione ciuile , è cieco chi ha chiuſo l'occhio dell'
intelletto , mendico chi ha neceffità d'altri, e non ha ap " preſſo di ſe
tutto quanto gli è neceſſario per vſo della vi ta. Eyna apoſtema del mondo, chi
ſi diparte, e fi difrom pe dalla ragione della comu ne natura , non accomodan
dofi agli auuenimenti ; men tre gli produce quella mede fima , che ha te ancora
pro dotto.E vna ſtracciatura del la Città , chi diſtacca la pro i pria anima
dalla mente r & ei gioneuole, che è vna . 20. Ci è chi filoſofa ſenza
tonica , e chi ſenza libro , vn' altro mezz'ignudo. Non ho del pane, diffe, e
nonmipar to dalla ragione. Io non ho il cibo degl'inſegnamenti , e pur in eſſi
perſcuero : Affe zionati all'articella , che im paraſti , e in quella acqueta
ti.Mena il reſto della vita tua con riporre negl'Iddij la cura d'ogni tuo
affare , e ciò con tutto l'animo : e dhuomo, che viua,non ti fare ,ne tiran i
no , ne fchiauo . 21 Conſidera, verbi gratia, i tempi di Veſpaſiano , tu vi
vedrai tutte queſte medefi me coſe , cioè huomini, e far .nozze, ed educar
figliuoli, ed ammalati, e morienti, e com battenti, e feſteggiantise mer. catanti,
e agricoltori , e adu latori, e arrogantemente par Janti, e ſoſpettoſi, e
infidiatori , e deſideranti la morte , e delle coſe , che ſuccedeuano ha
lamentantiſi, e innamorati, e at intenti ad ammaſſar teſori, e e ambizioſi di
Conſolati , e di 1 Regni; tutti fparirono, e della loro vita già non vi rcſta 1
nulla . Appreffo traſportati all'età di Traiano ; di nuouo I rimirerai tutte le
medeſime cofc , e pur la vita di quelli non ci è più.Similmente con ſidera
altri ſegnalati inter ualli de' tempi e delle intere nazioni; e offerua,come
tanti, e tanti allora gonfiati l' vno * contro l'altro ,dilì a poco ca e
dettero , c fi dileguarono ne gli elementi . Specialmente B t'hai da rammentare
di quel li, che tu ſteſſo hai conoſcill ti , che vanamente affannati hanno
tralaſciato d' operare conforme alla
propria diſpo fizione , e d'aderire tenace mente a quella , e di quclla
foddisfarli . E neceſſario an cora di rammentarti,che l'ap plicazione in
ciaſcuna azio ne ha la ſua propria conue nienza , e proporzione; per chè così
tu non ti dorrai; ſe tu non più di quello chepor ta il pregio in queſte coſe
minori, ſarai occupato. 22 Le voci già correnti , ora fono diſufate , e richie
dono chioſe ; così i nomi di quelli già tanto celebri fono in yn certo modo al
preſente fimilia derte voci: tale è Ca millo, Cefone, Volefo ,Leon .nato; e
poco appreffo Scipio ne ; e Catone ; dopo anco Auguſto , c indi Adriano , e
Antonino ; perchè ogni coſa ſua Ct colla 211 ap 10 16 ber Ol ſuaniſce , e tofto
paſſa in fa uoleggiamenti, cben preſto dentro d' yna totale obbli uione reſta
ingoiata.E queſto dico di quelli , che a maraui glia yna volta riſplenderono;
poichè gli altri nell'iſteſſo lo ro fpirare reſtarono ignoti, e niuno più ne
domanda . Che coſa è dunque queſta eterna memoria ? Tutto vanità. In torno a
che dunque s'ha da porreil noſtro ſtudio in que ſto ſolo ; che la mente ſia giu
ſta , l'azione diretta al co mun bene,tale la ragione che mai non reſti
ingannatå, el animo così diſpoſto, che ciò, che gliaccada, abbracci, co me
foſſe a lui neceſſario , e co me famigliare , e come dall' ifteflo comun
principio , e fonte deriuato . Di buon ani til zie id 700 DITI OP ON DC1 او و mo
gettati nelle braccia del fato ; permettendogli che e inuolga in quelle coſe ,
che a lui parrà. Il tutto va a giorni, e chi rammenta, e'l rammen tato . Mcdita
del continuo , come tutto ciò, che ſi fa a per mezzo delle mutazioni fi fa; e
auuezzati a conſiderare , che nulla ama così la natura del l' vniuerſo , come
di mutare gli entie far delle coſe nuo ue a quelle aſſomiglianti. Perchè in vn
certo modo o gni coſa, che è, ſemenza è di quella , che da eſſa s'ha da
produrre; e tu t'immagini ef ſer ſoli ſemi quelli, che ſi traſ mettono nella
terra , o nell' vtero. Coteſti fono penſieri da perſona molto idiota. Già ſei
all' orlo detta morte e ancora non se' diue hel nen ZIO pe TI che can de nuto
ſchierto , e libero dalle rei perturbazioni, da’ſoſpettid' eſſere dagli eſterni
leſo , ne bi placido inuerfo tutti;ne ſtimi la prudenza eſſere il ſolo giu
ftamente operare. 24 Rimira la mente conducitrice degli altri e ciò, che
veramente fuggano e fe de guano i prudenti. Il tuo male non consiste nella
mente d'altri o ne' rivolgimenti o variazione dell'ambiente Doue dunque la doue
tu hai l'opinionede'tuoimali . Per di ciò non opinare queſto , che il tutto
andrà bene; ancor chè il corpicciuolo , che a f quello è propinquo ,fi ſeghi,fi
abbruci , marciſca , ſi putre faccia ; purchè rimanga quie ta la particella ,
la quale for ma l'immaginazione di que dit + C. ef E Ite ſte coſe , cioè che
non giudi chi eſſer ne bene , ne male ciò , che può accadere , tanto all'huomo
dabbene , quanto al cartiuo , Concioſliecoſa che quello , che ſimilmente
auuiene a chi viue , secondo la natura , e a chi viue diuer ſamente , non è ne
secondo la natura ne contro di essa. Conſidera del continuo il mondo come un'
animale, composto d’una sostanza e di un'anima, e come all ynico ſenſo di
quello tutte le coſe ſi riportino, e come con vn'im peto il tutto operi, e come
tutte le coſe tra fe di tutto quello che ſi produce , ſon co . muni cagioni;e
quale ſia l'in trecciamento, ola teflitura. Sei un'animuccia , che porta un
cadauero ; diceua Epitteto. A quelli , che ora ſono ali nella mutazione ,
niente è di male, come niente è di bene a quelli , che nella mutazio ne
ſuffiſtono . 28 L'euo è come un fiume, e come yna corrente violen ta delle coſe
, che ſi fanno, perchè, ſubito che ciaſcuna di quelle compariſce, è rapi ta , e
altra ne compariſce , e queſta ancora ſi traſporterà. Ogni accidente è così ſolito
, e famigliare, come nella pri mauera la roſa , c nella ſtate i frutti .
perciocchè tale è la malattia, la morte la maledi cenza , l'inſidie , e ciò che
rallegra i pazzi, o gli contri fta . Quello , che proſegue, ſempre ſi connette
accon ciamente agli anteceden ti . poichè non è vna nume 1 orazione di coſe tra
loro dif crete, e ſuſſiſtenti per necef ſità ſolamente di calculo; ma èyna
congiunzione, ſecondo la ragione; e come ſono coor dinate, e ben congiunte tut
. te le coſe che eſiſtono , così quelle, che ſifanno non han no vna ſemplice
ſucceſſione, ma dimoſtrano vna certa ma rauiglioſa famigliarità, che è tra di
loro. 29 Habbiaſi ſempre a mente quel detto d’ERACLITO. La morte della terra
eſſere quando diuenta acqua ; e la morte dell' ac qua, quando diventa aria ; come
del l'aria, quando fuoco , e così per l'oppoſito . E ancora da ri cordarſi di
colui, al quale era ignoto,doue la ſtrada condu ceſſe; e di quelli, che ſpecial
mente , e del continuo con uerſano con la ragione , la quale ogni coſa
amminiſtra, e nondimeno da quella dif ſentono , e che quelle coſe , nelle quali
ogni dis’abbat tono , a loro paiono ſtranie re. e che non biſogna fare , e
fauellare in guiſa quafi di dormienti,perchèallora anoi ſembra difare , e di
dire ; ne fi hanno da imitare i fanciul li , i quali dicono con ſempli cità :
Così habbiamo appreſo dai noftri maggiori . « 30 Se alcuno degl' Iddij ti
diceffe , che hai da morire la domane,o al più lungo por domane , non molto ti
im portarebbe, che foſſe più to ito domane, che poſdomar nc, ſe non le
d'animoin eſtre mo tralignante. Imperocchè E 3 quanto ſi è l'interuallo d'vn
giorno cosìno iſtimare gran coſa le fia più toſto dopo moltiſſimi anni che
domane. Ripenſa contimamente teco medeſimo; quanti medici ſon morti, che ſpeſſo
hanno le ci glia inarcate ſopra de i ma lati ? quanti matematici, che come yn
gran caſo le morti d'altri prediffero 2 quanti Fi loſofi dopo mille , e mille
contefe della morte , e dell' inmortalità ? quanti prodi in armi , che molti
vcciſero ? quanti tiranni,checon gran de preſunzione della loro potestà sopra
l'anime ſi feruiro no , quaſi chenon foffero e glino ancora mortali ? quan te
Città ſono , per così dire, affatto morte ? Elice , Pom pei , Erculano , e altre
innu nie merabili . Traſcorri ancora quanti hai tu conoſcuti l'yno appreſſo l '
altro morti . Que gli dopo hauer fatto i fune rali dell'altro , ha ſteſo egli
morendo le gambe , e dopo lui yn'altro . Tutto ciò in bre de tempo . In ſomma
ſempre fono da conſiderare tutte le coſe humane,come d'vn gior no , e di prézzo
viliffimo: ieri vn pochin di mocci,domanc falſume, o ceneri . E perciò queſto
momento di tempo paffalo viuendo , ſecondo la natura , e muori tranquillo ,
come l'vliua , che fatta ben matura cade laudando la ſua producitrice, e
rendendo gra zie all'albero , dal quale fpuntò. 31 Sij ſimile a vn promon torio
, nel quale inceffante E 4 mente l'onde s'infrangono; e nulladimeno egli ſta
ſaldo, e intorno a lui fi abbonacciano gli orgogli dell’acque . Infe . lice me
, perche ciò mi è au uenuto l’anzi al contrario, me ſelice , che essendo miciò
accaduto , me ne ſto ſenz'al cun dolore , nedal prefente offeso, ne temendo
l'auueni re . imperciocchè queſto po teua ad ogni altro accadere , manon ognuno
l'haurebbe ſopportato ſenza dolerſi.Per chè adunque più toſto quello infelicità
che queſto felicità farà da noi giudicato ? echia mi tu a pieno infelicità
dell' huomo corefto , che non è difauentura alla natura hu mana ? E
diſauucntura della natura humana pare a te, che ſia quello , che non è contra
ilvo il volere di lei ? Quello che ella voglia , l'hai tu appreſo ? Non é
impediſce dunque queſto accidente, che tu non ſij giuſto , magnànimo, tem
perato , prudente , conſidera to ,,verace , modesto , libero, con le altre
qualità , le quali efſendo preſenti , la natura humana gode ogni ſuo pro prio .
Quanto al rimanente ricordati , ogni volta che al. cuna coſa t' induce ad attri
ſtarti, di valerti di queſta ſen tenza . Che queſto , che t'è accaduto non ti è
d'infelici tà , ma di felicità , foppor tandolo generoſamente . 32 Per certo è
volgare aiu to , ma tuttauia efficace, per diſprezzar la morte , il ri
membrarſi di quelli , i quali, attaccati al viuere , lungo Es : tempo durarono.
Che hebbe, ro più queſti di quelli, che in eri acerba morirono ?Giacor ciono
ſenza dubbio in qual che luogo Cadiciano, Fabio , Giuliano , Lepido , e altri
fi mili, i quali , dopo hauer fat ti i funerali a molti, eglino ancora furono
poſcia ſepolti. Finalinente ci è poco d'inter ftizio , il quale con quante
moleſtie , e con quali ſten ti , e in qual corpicciuolo vien ſofferto ? Dunque
non ne far gran conto į rimira però indietro all'immenſità dell'euo , e a te
dauuanti yn altro infinito . In queſto, che differenza è tra vno morto a capo
di tre giorni,e d'vn Ne ſtore di tre ſecoli? Per la ſcortatoia corri ſempre , e
quella via , che ſi conforma alla natura , è la fcortatoia saluteuole. Però dì
, e fa ogni coſa nella ma niera più ſalateuole . Impe r occhè queſto
propofito libe ra dalle fatiche , da i com battimenti , da ogni ſimula zione ,
e da ogni oſtentazione . Vando dal ſonno neghittofamente la mattina ti fue gli
, habbi in pronto . lo mi fueglio all'opera dell'huomo; ancora dunque
ripugnanza fento , ſe io vo a fare quello pere , alle quali ſon nato , e per le
qualiſono ſtato intro dotto nel Mondo forſe ſono ſtato ordinato, acciò tra piu
macciuoli giacendo io mi riſcaldi? Maciò è di maggior guſto. Dunque a pigliarti
gu ito, e in ſomma non al fare ne all'operazioni ſei nato ? non vedile
pianterelle, i paſ ferotti, le formiche, i ragnis l'api comecooperano all' or
namento delMondo, e tu non vorrai fare quello , che ſpet ta all'huomo e non
accorri a ciò , ch'è conforme alla nå tura tua ? Ma biſogna pure ripoſarti.
Biſogna.Ed in que ſto la natura aſſegnò lemiſu re ; e diedele ancora , ed al
mangiare , ed al bere; e non dimeno tu pafli oltre alla mi fura , e oltre alla
ſufficienza . Non però così nell'opere; ma affai meno di quello ſi puote;
concioffiecoſa che tu non a mi te ſtello , che quando ciò foffe , amereſti la
natura , e'l di leivolere . Altri, che amano le loro arti, ſi conſumano
ne’lauorij di quelle ſenza go der de bagni, e ſtando digiu ni . Tu fai men
conto della tua natura , che il tornitore non fa dell'arte del tornire, o il
ſaltatore dell'arte del fal tare , o l'auaro dell'argento , o il vanagloriofo
della glo rietta ; e quando queſti s'af fezzionano a cotalicofe, alle qnali
ſono inclinati, abban donano più preſto ilmangia re , e il dormite , che il
laſciar d'accreſcerle . E a te l'azioni fpettanti alla comunicazione humana
appariſcono di più baſſo pregio , e men degne ď accuratezza. Quanto è facile lo
ſcace ciare,elo fcancellare ogni turbolenta immaginazione , onon conueniente ,
e ſubito metterli in iſtato d'ogni tran quillità ? Reputa te ſteſſo de gno
d'ogni diſcorſo , e d'ogni azione, che lia conforme alla natura , ne ti
ritragga il ri chiamo d'alcuni, o il biaſimo, che ne ſegue ; masſe farà coſa
oneſta da operare, o da dire, non te ne ſtimerai indegno . Imperocchè hanno
quel li la propria loromente , e v fano della propria inclina zione , alle
quali tú non hai da riguardare , ma dei cam minare per la diritta , ſegui tando
così la propria comela comunenatura , delle quali amendue èvna via. Io cammi.
nando me ne vo per le coſe, che ſono ſecondo la natura , finchè cadendo io mi
ripoſe rò, e ſpirando in quello ,don de ciaſcun giorno reſpiro , e si cadendo
in quello , donde il ſemuccio da mio padre, e il fanguuccio da mia madre , e il
lattuccio dalla inia nutri ce furonoraccolti; e del qua le per tanti anni ogni
di mi paſco , e m’abbeuero, che mi foftiene mentre lo calco , e dello ſteſſo in
tanti modi in '. abuſo. 3 Non hanno in chemara uigliarſi della tua acutezza fia
così . Ci fono molte altre coſe ,delle quali non puoi ne gare , che in te non
ſia l'abi lità Mettidunque in opera quelle , che ſono tutte a tua.
diſpoſizione, l'eſſere ſincero , grauie,tollerante della fatica , non amico del
piacere , non, quereloſo della tua forte , biſognofa di poco , placidos
libero,moderato, serio, e magnifico. Non t'accorgi quan te coſe tu hai poter di
fare, per le quali tu non hai prete ſto , che la tua natura non fia atta , o
abile ; nondimeno di propria elezione te ne reſti, comedappoco al diſotto ?
forſe inetto per natural diſpo ſizione ſe neceſſitato a inor morare, ad eſſere
tenace , ad adulare , ad incolpare il cor picciuolo , o a luſingarlo , ad
effere vano, ed a cotanto nel l'animo agitarti d'eſſer natu ralmente inetto, e
dappoco ? Non per gl' Iddij . Ma però già vn pezzo fa di tutte que Ite coſe tu
eri da te ſteſſo pof ſente a libcrarti.E ſolamente , ſe però è così,poteui
ellerac cuſato come più tardo , e du ro ad apprendere. Ed in que ſto ancora ti
doueui eſercitare , non trasuolando altroue con la mente , ne godendo della
pigrizia . 4. Euni chi, quando ha vſa to qualche amoreuolezza in riguardo
d'alcuno, glie lo di chiara incontanente per gra zia : eď emui ancora chi, ſe
non vſa ſeco tal prontezza in ri conoſcerla , nondimeno ap preſſo di ſe penſa ,
quanto quegli li ſia debitore, e cono ſce molto bene quello , che egli
haoperato . Fuui ancora chi in vncerto modo non co noſce quello cheha operato ;
ma è fimile alla vite,laquale , prodotto il grappolo,null’al tro di più
richiede , dopo ha uer yna volta dato il ſuo frut to . Il cauallo , cheha corſo
il cane,che ha cacciato; l'ape , che ha lauorato il mele ; 1 * huoc huomo , che
ha ben opcrato , non cerca acclamazioni, ma procede ad yn altr'opera, co me la
vite torna a produrre dinuouo alla ſtagione vn al tro grappolo. Fra queſti dun
que biſogna in un certo mo do eſſere, come chi ſenza ba dare opera ? fi per
certo. Nul ladimeno a queſto iſteſſo s'ha da badare. Perciocchè , dirà alcuno , è proprio del comu
nicatiuo che s'auuegga d'o perare , conformealla comu nicazione; ma perciò ſi
vuole, per gl'Iddi, che anco quegli a chi fi comunica , fe n'accor ga .
E'veriffimo coteſto , che tu dì, ma ſe tu non compren di quello , che'ora ſi
dice , farai per tanto vnodi qnelli, de'quali ſopra s'è fatta men zione: concio
ffiecoſa che ancora quelli da certo probabi le diſcorſo'fi diftraggono, ma ſe
tu vorrai comprendere quale vna volta fia quello , che s'è detto, non temere;
ne perciò laſcia d'operare per beneficio comune. Erano le preghiere degli
Atenieſi: Pioni,pioui, ocaro Gion u éjsopra i campise gli orti degli A tenieſi
. Però o non bisogna pregare , o farlo con iſchiet tezza, e con libertà. A
quello, che comune mente ſi dice : ESCULAPIO ba oi dinqto a queſti il canalcare
, o il lauarli con acqua fredda, d'andar a piedi ſcalzi;è fimile anco queſto
che la natura dell? vniuerſo ha ordinato a quegli la malattia , o la ſtor
piatura , o qualche perdita , o altro ſu queſto andare: poi chè nella parola ,
Ha ordinato, vi è vn tal ſenſo , che coſti tuiſce queſto in ordine a que ſto ,
come per riferirſi alla fa nità , e così qui quello , che accade a ciaſcheduno,
è con ſtituito per relazione al deſti no . E però diciamo queſte coſe
conuenirſi nel modo , che gli artefici dicono le pietre quadrate per le mura ,
e per le piramidi conuenirſi tra di loro in tale commetti tura combaciandoſi .
Perchè in fatti l'armonia è viia , e ' fi come da tutti i corpi ſi viene a compirc
vn tal corpo, che è il mondo, così di tutte le cagioni vien ad esser il fato
vna tai cagione compita. Comprendono ciò , che dico anco le genti affatto
idiote. imperocchè così fauellano. Queſto huyenne a colui, dun que queſto a colui
douea ar rivare ; e ciò era dal fato or dito a queſto . Prendiamo dunque ſi
queſte coſe , co inc quelle , ſecondo che Eſculapio ordinò - Perchè molte coſe
in vero in fc ſter ſe ſono aſpre , e nientediine . no noi l'abbracciamo per la
ſperanza della ſanità. Penſa alle coſe , che per la comune natura auuengono ,
la perfe zione , e il compimento effe re , come a te la ſanità. E così tuto
quello , che vien dato ,benchè ti paia vn po co più aſpro ", abbraccialo ,
perchè conferiſce alla sanità del mondo , c agli proſperi auuenimenti , e
beneficenza di Gioue. Concioſliecoſa che queſti non produſſe mai coſa alcuna ,
fe non per giouare all'vniuerſo ; giacchè qualſifia natura non produce niente ,
che non ſia congruo al go uernato da lei.Però biſogna che per due ragioni tu
amio gni qualunque coſa ti auuie ne . Quanto all'vna, perchè per te ſi fece, e
a te s'ordinò , e a te in certo modo attiene, deſtinato da ſourane , e anti
chiſime cagioni. Quanto all' altra , perchè al reggimento dell' voiuerfo ancora
quel particolare,che a ciaſcuno au uiene, è cagione del progreſ ſo , e della
perfezione, come anche in verità dell'iſtella per inanenza . Perciocchè ſi ſtor
pia l'integrità del tutto , fe qualſifia particella tu tronche rai della
conneſſione e conti nuanza ,così delle parti come delle cagioni ; e , per
quanto è in te , lo tronchi , quando non ben lo riceui , ed in vn certo modo lo
toglivia. Non s'ha da maledire , non da ſmarrirſi,nc ſtomacar fi , ſe volendo
tu operare , ſe condo la rettitudine de'pre cetti , in ciaſcuno di quelli non
ti rieſce ; ma ancorchè ſij abbattuto , torna di bel nuouo ad eſſi , e ad
abbrac ciarli nelle coſe , che hanno maggiormente dell'humani tà ; e
affezionatia quell'azio -ne , alla quale tu riedi. Nc ſi ha da tornare alla
filoſofia , nel modo, che ſi fa al pedan te , ma come glinfermi d'oc chi
ricorrono alle ſpugnette e all'youo, o come altri all' impiaſtro, e altri al
lauamen to. Imperocchècosi non ostenterai d' eller lignoreg giato dalla
ragione, ma di ri poſare totalmente in eſſa. Ri cordati , che la Filoſofia ſolo
vuole quello ,che la tua natu ra vuole:ma che tu hai voglia d'altro diucrſo dal
voler della natura . Qual coſa ha più di queſte deldiletteuolc? poichè il
piacere non ingan na egli noi per mezzo di quelle ? ma tu conſidera , ſe più
diletto dia la magnani-, mità, la franchezza , la ſchiet tezza, l'equità, la
ſantimonia . E qual coſa vi è , che ſia più diletteuole della prudenza ,
quandoben conſidererai,che ſia il non fallire , e l'eſſer ben docile in tutto
quello , che tocca alla facoltà dell'inten dere, e del ſapere ? 8 Sono le coſe
in yo certo F modo così ricoperte , che a non pochi Filoſofi, e queſti non
ignobili . parue che del tutto fieno incomprenſibili. Anzi agl'iſteſſi Stoici
ſembra rono difficili a comprenderſi. Ed eſſendo ogni noſtro aſſen ſo ſoggetto
a cadere , e mu tarſi, in che luogo dunque fa rà l' immutabile ? Riuolgiti però
col penſiero a queſte co ſe preſenti;e cöſidera quanto ſieno momentanee , e di
po ca ſtima : ch' elle poſſono ef ſere poſſedute da vn zanze ro , da vna
meretrice , da vn aſſaſſino . Dopo queſto tra paſſa a i coſtumi di quelli che
teco viuono , tra quali anco il più da te gradito, malage uolmente da te vien
compor tato , per non dir che l'huo mo appena comporta ſe ſtesso. In queſta
perciò caligine e immondizia, e in tal Auſli bilità della ſoſtanza del tem po,
del moto, e di tutto quel, che ſi muoue, non potrà im maginarſi qual ſia quello
che poſſa eſſer degno affatto di ſtima, e d'affetto . Dall'altro canto però
biſogna confor tarſi ad aſpettare il natural diſcioglimento , e non dolerſi del
rattenimento , ma ac quietarſi in queſte due ſole coſe: L'yna ſi è, che nulla
mi auuerrà , che non ſia confor me alla natura dell' vniuerſo; e l'altra , che
ſta in mio pote re di non operare contro il mio Dio , e genio :'concioſ fiecoſa
che niuno ci forzi a traſgredir queſto. A che finalmente mi va glio ora dell'anima
mia? Ad ogni momento ho da in terrogaré me ſteſſo , e ricer care che ſi fa
adeſſo da quel la porzione , che reggitri ce viene chiamata ? Di chi dunque preſentemente
porto l'anima? per auuentura d'vn : bambolino, o d'vn fanciullo forſe dyna
donnicciuola , d'vn tiranno, o d'vn giumen to, o d'una fiera? Quali ficno i
beni , che alla moltitudine paiono tali; lo potrai quindi comprende
re;poſciachè ſe vno concepi fce nell'animo efferui alcuni veramente beni, come
a dire la prudenza , la temperanza la giuſtizia , la fortezzá , chii haurà con
la conſiderazione concepito queſte tali cöfe, non potrà più dar luogo ad
alcun'altra , che a queſto bene non ſi conformi . Ma ſe nella mente ſi faran
concepi te quelle , che con faccia di bene agli più piacciono , da rà luogo , e
facilmente rice uerà il detto del comico.Co sì fin il volgo immagina ſimil
differenza ;perchè altrimen te quel detto non offende rebbe , e non ſarebbe con
if degno mal preſo. Per lo con trario l' ammettiamo come propriamente detto,
quando cade ſopra delle ricchezz e, e de cominodi per lo luffo , e per la
pompa. Passa più ol e interroga , ſe queſte coſe hai da pregiare , e ſtima
re,quando di eſſe li truoua ef ſer detto con gaiezza , e gra zia , che al
poſſeditor di det te coſe per la gran copia manca doue egli yoti il triſto
facco. Sono ſtato compoſto di cauſa , e di materia, e ne l'vna, ne l'altra fi
dilegucrà nel nul. la; giacchè di nulla non fu prodotta . Dunque ognimia parte
mutandoli rientrerà in qualche parte del Mondo ; e di nuouo queſta in vn'altra
parte del Mondo ſi traſmute rà , e così in infinito . Per mezzo di queſta
mutazione ed io ſon venuto , ed i miei genitori; e così retrogradan do in vn
altro infinito . Ne ci e chi proibiſca di così parlare , ancorchè per peri odi
terminati la macchina mondiale ſi regga. La ragione, e l'iſteſs'ar te
ragioneuole ſono facultà a ſe medefime , e alle opere loro proprie ſufficienti.
Muo uonli dunque dal loro proprio principio ; e camminano dirittamente al
propoſto fine. Per lo che ſi dicono rettifica zioni così nomate queſte azioni a
ſignificar la rettitu dine del ſopraddetto cam mino . Neſſuna di queſte co ſe è
da dir, che ſia dell'huomo la quale non conuenga all' huomo , come huomo , ne
ſi richiedono dall'huomo , ne quelle profeſſa la natura del l'huomo , ne ſono
perfezioni della natura humana . Non è dunque ne meno il fine dellº huomo
ripoſto in quelle , ne meno il bene , che è il compimento di quel fine . Se
pure qualche cofa di queſte foſſe conferente all'huomo , non gli apparterrebbe
ne il diſpregiarla, ne il contrariar la : ne farebbe da lodarſi chi si moſtraſſe
non hauer biſo gno di elle , anzi chi ſtudiaf fe priuarſi d'alcune di quelle,
non ſarebbe buono , mentre quelle foffero buone . Ora però quanto più l'huomo
ſi leua queſte coſe dattorno , 0 altre ſimili ; o permette , che ſe gli leuino
, tanto più buo no è. Tale farà la tua mente quali ſaranno le coſe , che ſpeſſe
volte ti ſono paſſate per la fantaſia :reſtando l'ani ma colorata dall'immagina
zione . Immergila dunque in fi fatte continuate immagi nazioni ; delle quali
yna ſi è quella che doue ſi puòviuere, iui ſi può anco viuer bene: ma nella
Corte ſi può viucre , a dunque nella Corte puoſſi feuza dubbio ben viuere . E
dinuouo queſt' altrà , che cia ſcheduna, coſa a qualche co ſa è diſpoſta , e
dou' è di ſpoſta ſi porta , e doue fi porta conſiſte il ſuo fine , e doue è il
fine , iuiè l'vtile , e il bene di ciaſcuno . Sicchè il bene del viucnte ragion
euo le è la comunanza ; e men tre teftè s'è dimoſtrato che perla comunanza
ſiamo nati, non è euidente, che l'inferior bene per lo meglio è fat to , come
vn meglio per l'al tro meglio?ma migliori deg! inanimati ſono gli animati, e degli
animati li ragioneuoli. E da furioſo il profe guir le coſe impoſſibili : ma
impoſſibile è che i cattiui non facciano alcune tali co fe . Niente auuiene a
niuno , che non gli ſia ſtato dato a portare dalla natura ; ma le medeſime coſe
ſuccedono a gli altri, i quali o non com prendono l'accaduto loro , o per
oſtentar la magnanimi tà , non ſi muouono dal lor fefto , e lieti ſe ne ſtanno
Onde ſtrano parrà che l'in gnoranza , e la propria com piacenza fieno più
poſſenti della prudenza . Le coſe per fe fteffe in niun modo tocca -no l'anima
; anzi non hanno in quella l'introito , ne poſſo no piegarla, o muouerla . El
la ſola riuolge , e muoue ſe ſteſſa : e le coſe , che le fo prauuengono fono
tali, qua ſi ella ſe ne forma i giudicij . 15 Per vn altra ragione la natura
degli huomini è a noi famigliariſſima , in quanto che noi dobbiamo far loro del
bene , e tollerarli ; in quanto poi alcuni relifto no all'operazioni , che a
noi conuengono , l'huomo a me diuiene come vna coſa del le indifferenti non
meno del fole , del vento , delle beſtie. Da queſti ſi può impee dire qualche
operazione; ma non ſi può dare impedimen to , ne all'appetizione, ne al la
diſpoſizione , a cagion della eccezione , e del ri. uolgimento.Conciosfiecoſa
che la mente riuolge , e tra muta in coſa a ſe proporzio . nata tutto quello ,
che all? operare le da impedimento , e quello , che ratterrebbe l'o pera ,
l'iſteſſo diuiene opera , e quello che innanzi era oſta colo al cammino , ſe le
fa . cammino. Di tutto quello , ch'è nel Mondo tu venera l' otti mo; e que to è
quello , che , feruendoſi del tutto , il tut to gouerna . E così parimen te di
quello, ch'è in te, onora l'ottimo,hauendo queſto fin golar relazione a quello
.. Concioſliecoſa che , eſſendo in te , fi vale delle coſe tue, eſotto il di
lui gouerno è condotta la tua vita. Quello , che non è di danno alla Città ,
non nuo ce al Cittadino.Applica que fta regola in ogni occorrenza in cui tu
reputi d'eſſer offeſo. Se da queſto la Città non ri ceue nocumento , ne io lo
ri ceuo ; e fe la Citrà riceueffe nocumento , non biſogna , che tu t'adiri
contra chi l'ha daneggiatta . Ma moſtra in che egli ha traueduto. Conſidera ben
fouente la preſtezza,con la quale li por tino via , e ſi fottragghino tutte le
coſe , che ſono , e ſi van facendo; poſciachè la ſo ſtanza a guiſa d'yn fiume è
in continuo fluſſo , eľ opera zioni in non intermeſſe mu tazioni, e le cagioni
ſogget te ad infinite riuolte . Nec è quaſi coſa alcuna, che falda ftia , e che
non ſia vicina ad yn'immenſità infinita , sì del paſſato ,come del futuro,ncl
la quale il tutto ſpariſce.Co me dunque non è pazzo chi di queſte coſe ſi
gonfia,o fe ne trauaglia,o ſi querela dicoſa, che per iſpazio di tempoan , che
pochiſſimolo conturba 2 Ricordati della ſoſtanza vni uerſale, della quale tu
partecipi per vna minima parte , e del vniuerfal tempo,del qua le vn breue
ſpazio , o momen to te n'è aſſegnato ; e nella ſerie fatale che parte fai ?
Alcuno pecca : che impor ta queſto a me ? Egli ſe lo ve drà. Egli ha la propria
diſpo ſizione , la propria operazio ne. Io al prefente ho quello , chela natura
comune vuole , ch'io adcfſo m’habbia , e fo quello , che la mia propria natura
vuole , che io adeſſo faccia. 18 La reggitrice , e domi, nante porzione della
tua ani maſia immutabile, e inarren . deuole a i moti della carne, o morbidi, o
aſpri che ſi fieno; ne vi ſi rimeſcoli,ma conten ga ſe ſteſſa , e confini
quegli affetti dentro i ſuoi meinbri. Quando poi per vn'altra ſim patia ſi
rinnalzaſſero alla mente , per effer ella vnita al corpo , ſtante l'eſſer il
ſen ſo connaturale , non haſli a contraſtare con violenza, pe rò la mente
reggitrice da ſe ſteſſa non v'aggiunga l'opi nione inrorno al bene, o al male. S'ha
da viuere con gli Iddij . Viue con gl'Iddij chi loro fuela continuamente la fua
anima effer contenta del diſtribuitole , ed operando tutto quello, che vuole il
ge nio , dato a ciaſcuno da Gio ue per preſidente, e rettore , come parte a ſe
medeſimo preſa, e queſto è la mente , e la ragione di ciaſcuno. 20 Non ti adiri
tu con co Jui,al quale puton l'aſcelle? E con quegli altresì,che man da fuor
dalla bocca fetente fiatore ? che ti farà coſtui ? Egli ha vna bocca ſi fatta ,
e l'aſcelle di tal condizione : Forza è , che ſimili eſalazioni eſcano da
ſimili parti ; Mal huomo , mi dirà alcuno, ha la ragione , e può s' egli au
uerte conſiderare in che egli difetti . Buon prò ti faccia . Dunque per hauer
tu ancora la ragione rifueglia la ſua ra gioneuole diſpoſizione con la tua ,
inſegnali aminoniſci lo. Perchè fe quello t'aſcol-. terà , lo riſanerai, e ſarà
fu perflua ogni collera . 21 Non fare ne da rappre fentante tragico;ne da mere
trice : Nella maniera che tu diſegni vſcir di vita , così ti lece ora di
vivere? <a quando non te lo permetteſſero , allora eſci di vita , ma però ,
come da niuno infortunio abbattuto ,ma quaſi tu dichi : Qui c'è del fumo, e io
me ne vado . Ti par queſto gran coſa ? mentre nient'altro mi fa vſci re rimango
con la libertà , e niuno mi vieterà di far quel lo , che io vorrò . Vorrò però
quello , ch'è conueniente al la natura dell'huomo ragio neuole, e nato per la
vita cos mune . 22 La inente dell'yniuerſo è comunicatiua ; e perciò hafat te
le coſe peggiori in ordine alle migliori , e le più princi pali tra di loro
ſcambieuol mente compoſe • Vedi come le ſubordinò , come inſieme le ordinò , e
come quello che cra conueniente detre a cia ſcuna e le più principali con
reciproca concordia con giunſe? 23 Come ti ſei portato fin ora con gl'Iddij,
con i geni ( tori , co fratelli , con la mo glie , con i figliuoli , co * pre
cettori,co'nutricatori, amici, domeſtici , e ferui ? hai tu fin ora oltraggiato
alcuno di - loro , o in fatti , o in parole ? -Ricordati di più per qualico fe
ſe paſſato , e quali ſe ſtato fufficiente a tollerare,e come di già per te è
adempita la • ſtoria della vita, ed è finito il miniſterio.E quante coſe bel le
hai vedute ? e quanti pia -ceri , e dolori hai diſprezza ti? quante coſe d'
apparente gloria hai neglette ? a quanti fconoſcenti ti dimoſtraſti benigno? Per
qual cagione l’ani me ſenz'arte, e fenza ſcienza conturbano il perito nell'ar
te , e l'erudito ? quale dun que farà l'anima perita nell' arte , ed erudita
nelle ſcicn • ze ? quella , che ha notizia del principio , e del fine ; e di
quella ragione , che pene trando ogni ſoſtanza dell' vniuerſo , per tutta l'età
, fe condo i periodi ordinaci,reg . ge il tutto . 25 Or or tu farai cenere , é
carcame, ' o ſolamente no 1 me,ma ne pur nome , ridu cendoſi il nome in vn poco
di ſtrepito , e di riſonanza; e certamente quelle coſe , che in queſta vita s '
hanno in i grandeſtima , ſono vane,pu tride , ſcarſe , e in guiſa dica gnolini,
che ſi mordono, e di 2 putti , che contendono , e ri dono, e ad vn tratto
paſſano al pianto. Ma la fede, la mo deſtia, la giuſtizia, e la verità Da
ilarghi ſpazi della terra alCielo s? innalzarono . Che coſa adunque qui ti
rattienca ſe le coſe ſenſibili, ſono faci liffime a mutarſi , e non ſon
conſiſtenti , e gli organi del fenſo oſcuri , e facili a ri ceuere falſe
impreſſioni, e l' iſteſſa animuccia del ſangue yna eſalazione , l'acquiſtar
gloria appreſſo queſti tali è vanità. Che dunque aſpetti? Aſpetta placido o la
eſtin zione , o la traportazione . E finchè il teinpo arriui di que ſto , che
coſa a te farà ſuffi ciente che altro ſe non il ri uerire gl’Iddij, e lodarli,
e be neficare gli huomini, sopportarli e aftenerſi da quelli ? E quanto coſe
ſono fuori del confine della carnuccia dello ſpiritello ricordati, che non ſono
tre , ne ſotto il tlio comando. Potrai profpcrarti per. fempre, e ben
incamminarti, e con buon ordine apprende dre, e operare. Queſte due co ſe ſono
comuni così all'ani ma di Dio , come a quella de gli huomini', e d'ogni ra
gioneuole viuente , cioè di non poter eſſere impedito da che che altro fi fia ,
e di porre nella giuſta affezione, e azio ne il ſuo bene; e in queſto ri ftrignere
ogni ſuo deliderio. Se ne queſto è malizia naia , ne meno l'operazione procede
dalla mia malizia , ne il comune viene offero, perchè di ciò mi trauaglio ? e
qual è il danno del comune? Non ti laſciar così totalmen te rapire dalle
immaginazio ni, ma aiutati quanto puoi , e conforme alla conuenienza; e
ancorchè nelle coſe mezza ne ſieno diffettoſi, non iftima re perciò, che queſto
ſia dan no;perchè auuiene da mala conſuetudine . Ma come yn vecchio andandoſene
richie deua la trottola del ſuo allies uo , ricordandoſi che al fine era vna
trottola , così tu quì, o huomo, quando hai fatto ne’roſt ri qualche coſa di
bel lo , non ti ricordi , che coſa queſto fia ? me ne ricordo . Ma quello è
pregiato da co loro ; perciò dunque hai an che tu da impazzare? Impaz zauo già
vna volta ſoprap preſo , douunque io foſſi , ed ero fortunato; e l'oſſer fortu
nato , conſiſte nel dare a ſe hafteſſo vna buona forte : le buone ſorti ſono i
buoni mo uimenti dell'animo , le buo ne inclinazioni , le buone azioni. La
sostanzia dell'universo è ben ubbidiente e maneggieuole. E pur la ragione , che
la reg ge , non ha in ſe cagione al cuna di mal fare; perchè non ha malizia ,
ne opera malamente , ne da eſſa coſa alcuna riceue leſione ; ma il tutto
conforme a quella fi fa e s'affina. Sia
a te indiffcrente d'operare quello , che ſi conuiene ; ſe tu ti ſenti freddo o
caldo o pur ſonnacchioſo o fazio di dormire o fc di te bene, o male ſi parli o
tu ftij ſulmorire o in qualche altra azione, mentre pure quello è vno degli
atti vitali per i quali noi finiamo. Baſta . dunque, e in queſto ben disponi il
negozio preſente. Guarda al di dentro, ac ciocchè ne la propria qualità , ne il
merito di coſa alcuna fenz ' auuedertene ti scappi . Tutto ciò, che hai dinanzi
affai presto si cambierà , o di leguandofi, se la sostanzia consiste per via
d'vnione, o dissipandoſi La mente reggitrice conosce bene con che disposizione
e che cosa e in qual materia opera . s Belliſſimo modo di ven dicarſi con chi
t'offcfe , è il non aſſomigliarſi a lui . In vna ſola cofa hai da godere , e
d’acquetarti , cioè di paf ſare da vn atto conueniente alla comunità humana ad
vn altra azione , pur conuenien te alla medeſima , con ricor darti , che ci è
Dio . 6 La facultà reggitrice è quella , che ſe ſteſſa eccita , e volge , e
forma ſe ſteſſa in quella guiſa , che ella voglia, e tutto ciò,cheauuiene ſi
rap preſenta , quale più le piace. Ciascuna cosa si conduce a fine conforme la
natura dell'universo e non secondo altra natura, che si fia, o esteriormente
ambiente o al di dentro riſerrata ouero al di fuori ſeparata . Il mondo o è vn
imbro glio , e auuiluppamento , e diſſipazione , ouero vnione , eordine , c
prouidenza : Se i primi , per qual cagione deſidero io di conuerfare con questa
massa confusa , e cotal nieſcolanza? a che m applico io ad altro , che ad
eſſere per qualche modo ter ra ? che ſto a perturbarmi? Concioſliecoſa che
qualun que coſa io mi faccia la dif ſipazione al ſicuro m'arriue rà: ma ſe è
l'altro detto in fe . condo luogo, io riueriſco co lui , che il tutto diſpone,
e in lui m’acqueto e confido. Quando gli anuenimen ti eſtranei ti violentano
per qualche verſo a perturbarti , prontamente ritorna in te ſteſſo ; e non
vſcire dal tenore , e concerto più diquello, che la neceſſità ti ſpigne. Im
perocchè cóſeruerai più con fonanza, ſe toſto in eſſa ti ri metterai . Se
inſieme tu ha uelli la matrigna, e la madre, tu quella feruireſti , e niente
dimeno del continuio alla madre fareſti ritorno . Non altro a te è ora la Corte
, e la Filoſofia : a queſta ſpeſſo ri torna, e in eſſa acquetati, per mezzo
della quale le cofe , che in quella occorrono , ti parranno più tollerabili , e
tu nell' iſteſſe coſe farai da tollerare. 10 O comeè bene formar ſi
nell'immaginatiua intorno alle viuande , e altre cole ſi mili comeſtibili : che
queſto ſia cadauero d'yn peſce,quel l'altro cadauero d'vn' vccello d'un
porcello . Simil mente , che il falerno ſia pic cola gocciola d’yn grappo lino
d'vua , e lo ſcarlatto pe luzzi di pecorella intinta col fanguuccio di vna
conchi glia . Così ancora nelle coſe intorno al congiugnimento carnale , che
fia vn diletico dell'inteſtino , e conqualche conuulfione yna egeſtione di yn
moccino.Ora come queſti fimili conceputi penſieripe netrano je toccano il fon
dodelle coſe in modo , che ſi vedano talis quali elle fono in queſta maniera
biſogna ſeruirſi di queſti in tutta la vita , e doue le coſe paiono più degne
di fede , dinudarz le , e riguardar la loro viltà e ſuilupparie dalla pompa ,
con la quale foſſero poſte in G 3 alterigia.Poichè l'apparenza è vnagrande
ingannatrice e maſſime quando tu penſi di trattare le coſe ferie , allora più
che mai t'affaſcini . Mira dunque a quel , che diſſe Cratete di Senocrate . Il
più delle coſe , che la inolti tudine degli huomini ammi ra , ſi riduce
generalmente a quelle , che hanno dalla na tura le forme, o dall'arte fon loro
aggiunte ; per cfemplo , le pietre , le legne , i fichi, le viti , e gli oliui
, e quelle , che vengono ſtimate da huo mini alquanto più moderati, fi riducono
alle coſe animate, ome a dire, gregge , ar menti : ma quelle , che ſono
pregiate da perſone di più garbo, ſono le dotate d'a nima ragioneuole , non già
di quell'anima , che è dell' vniuerfale , ma di quella , che fi val dell'arte ,
o altri mente come con ingegno penetra , o per dirlo ſempli cemente tutto tiene
ſogget to , in guiſa d'una quantità diſchiaui. Però chi dell'ani ma
ragioneuole, vniuerfale , e ciuile fa conto , non bada a nient'altro , ma ſopra
il tutto conferua la propria anima di ſpoſta , e ſemouente ragione uolmcnte , e
alla comunica zione humana , é con l'vni uerfale , ch'è del medeſimo genere,
coopera . II Alcune coſe s'auanza no al lor facimento , e altre s'auanzano al
lordisfaci mento ; e di quello , cheſi va facendo, vna parte già è ſpas rita .
I corſi delle coſe , e l'al G 4 te terazioni continuamentc ri nouellano
l'infinita eternità , cd il Mondo ; nella maniera , che il corſo non mai man
cante del tempo lo rende ſempre recente . E chi è que gli , che in queſta
corrente poſſa affezionarſi ad alcuna di quelle coſe , che via traf ſcorrono ,
mentre in quella non può arreſtarſi a queſti fa + rebbe in guiſa d'vno, che ſi
metteſſe ad amare vn paſie rotto di quelli , che col volo trapaſſano, dopo che
già dal. la viſta foffe fcappato . La vi ta di ciaſcheduno è come lo ſuaporamento
del ſangue , e'l reſpirardell'aria . Poichè. qual'è l'attrarre dell'aria , e il
renderla, che del continuo ciaſcuno fa, tale è ogni fa cultà reſpiratiua , che
ieri , o ieri 1 ieri l'altro nafcendo fi rice uè , e l’ha da irimandare là ,
donde primafu colta . 12 Stimabil coſa non è , ne l'efferc fuentolati , come le
piante , ne il reſpirare ,come le beſtie , e le fieregne il riceue re
l'impreſſioni nell'immagi nazione , ne l'effer tirato dal l'impėto delle
paſſioni, ne lº adunarfi inſieme,ne l'alimen tarſi ; poichè queſto è il me
deſimo , che lo ſcaricar il fo prauanzo dell'alimento . Di che s'haurà da far
conto de lo sbattimento delle mani ? Non già . Dunque ne meno dell'applaufo
delle lingue ; poichè gli applaufi , ele ladi della moltitudine altro non fono
, che ſtrepito di lingue . Mentre tu dunquc leui via queſta glorietta che ci
riina G 5 ne da pregiare ? Io per me re puto ,che ſia il muouerſi, e com
tenerſi fecondo la propria conſtituzione là;doue gli ftu dij,e l'arti
conducono.Poichè ogni arte ha queſto per mira, che quello, che appreſta , lia
abile all'opera , per la quale è diſegnato . Queſto pure ri cerca il lauoratore
della vi gna , ed il cozzone de' pule dri, e’lcanattiere . E ledu cazione de'
fanciulli, e glin. ſegnamenti a che altro s'in dirizzano ? Qui dunque con ſiſte
il pregio , e , ſe ciò ti ſta rà bene , di niente altro ti curerai. Cheſe non
ti quie ti , e ſtimeraipiù altre coſe , allora non goderai della li bertà , ne
ſarai ſufficiente a te ſteſſo , ne immune dalle paſſioni ; conciofficcola che
ti D ti ſarà di meſtiere d'eſercitar Pinuidia , e l'emulazione , e'l ſoſpetto
verſo quelli , che habbiano potere di priuarti delle dette cofe ; e anco di
macchinar contro quelli » che le da te ftimate poſſiedo no . Onninamente è
neceſſa rio che ſi conturbi chi ďal cuna di dette coſe è biſogno fo , e che in
oltre ſpeſſo faccia doglienza degl' Iddij . Ma chi la ſua propria mente ris
ueriſce , e pregia , compiace rà a ſe ſteſſo , e a quelli , che fecocomunicano
s'adatterà , e fi conformerà con gl'Iddij, cioè loderà quanto eſli defti nano ,
e diſtribuiſcono. Le moſſe degli elemen ti ſono in giù, in fu , e in giro: però
il monimento dellavirtù non confifte in niuna di que G 6 ſtę ; + R ng ſte ;ma come coſa più diuina , per via
malageuole a cõpren dere felicemente s'auanza. Che è quello, che fan no
glihuomini ? ricuſano di lodare coloro , che nel me deſimo tempo , e inſieme
con effi viuono, e poi queſti iſteſ fi fanno gran conto d'eſſer lodati da’
poſteri , i quali ne mai conobbero , ne mai vec dranno ; ed è quaſi lo ſteſſo ,
che fe tu ti doleſli , che da gli antepaſſati in lode tua non foſſe ſtato mai
parlato. Non perchèate ſteſſo quello fia difficile a confe guire, hai
d'apprendere ,che Via impoſſibile all'haomo; ma ſe queſto all'huomo è pofſi
bile , e conuencuole , Itima che anco tu lo poſſi arriuare. 16 Negli eſercizij
corpo rali 1 DIMARCO rali , ſe vno con l'vnghie graffia , o vrtando il capo ha
urà fatto piaga , non perciò glie la ſegnamo , ne ce n'of fendiamo , ne ombra
ne prendiamo come d'inſidia tore ; ancorchè ci guardiamo da lui , non , come da
nimi co , ne con ſoſpetto , ma piaceuolmente ſcanſandoci. Queſto medeſimo s'vſi
da noi ancora nell'altre parti , che reſtano della vita noſtra, do ue ci
affatichiamo aſſai , co me contro quelli , che con noi s'eſercitano; perchè vn
può , come ho detto , fcan fargli ſenza ſoſpetto , e odio . 17 Se alcuno potrà
cor reggermi , o moſtrarmi, che io dalretto m’abbaglio con l'opinione , e con
l'opere , di buona voglia mimuterò , essendo in me brama della vee rità , la quale
non nocque mai ad alcuno: ma egli vien leſo dal proprio errore , e dalla ſua
ignoranza , nella quale egli perſiſte.Io fo quel lo , ch'appartiene al mio of
ficio ; l'altre coſe non mi di ſtraggono , perchè ſono ina nimate , o
irragioneuoli , o che errano e non riconoscono la strada. De viuenti
irragioneuoli , e vniuerfal mente di tutte le coſe , e dem ſoggetti tu come
ragioneuo le ſeruitene con grandezza d'animo, e franchezza , giac chè ragione
non hanno; ma degli huomini , perchè eſ hanno la ragione, ſeruitene nel modo ,
checonuiene alla focietà humana. E ſopra tutto inuoca gl'Iddij, e non ti pi 1 gliar
penadi quanto tempo tu haida porre in queſta o pera , perchè tre fole ore fo no
baſteuoli. Alessandro Macedone , e 'l ſuo mulattiere , ora che ſon morti , ſono
in tutto ri dotti al medeſimo . Auue gnachè o ſono aſſunti nell' iſteſſe
ſeminali ragioni del Mondo 20 parimente ſono difperfi ne gli atomi. Conſidera
quante coſes. dell'animo , o del corpo in yn momento di tempo in qualſiuoglia
di noi tutte in ſieme fi facciano ; ed in tal guifa non ti marauiglierai , fe
molte più coſe , anzi tutto quello , che ſi fà , in queſt vno , c yniuerfo ,
che noi chiamamo Mondo , parinen te ſufliſtano.in 2Se alcuno t'interro ga ,
come fi ſcriua il nome & ANTONINO , proferirai tu appuntatamente ciaſcu-. na
delle lettere ? Che dun que s'egli entrerà in colles ra ,entrerai ancor tu in
collera? Anzi più toſto profe guendo non conterai tu ad vna ad vna con
piaceuolezza le lettere ? Però queſto ti ri durrai nella memoria , che ciò ,
che è conueniente , da alcuni numeri riceue il ſuo compimento.Queſti biſogna
offeruare , e ſenza turbarſi, ne ſdegnarſi contro quelli , che prendeſſero
Idegno , ter minar la faccenda per lo pro prio cammino. E' come yna crudeltà il
non permettere agli huomi ni che ſi diano a far quello , che pare a loro
s'adatti , e conuenga . Il che in vn certo modo tu vieti loro di fare , quando,
peccando eſſi, tu ti diſguſti, e ti ſdegni; auuegna chè allora ſon portati a
quel lo come a coſa, a loro conuc niente, e profitteuole. Ma la cofa , mi dirai
, non va così . Dunque tu inſtruiſcili , e ciò dimoſtra loro ſenza alterarti.
22 La morte fa cellare l' impreſſioni, che da i ſenſi si cagionano . , le
commozioni violente per l'affezioni, co me ancora gli aggiramenti mentali , e
ogni ſeruitù ver ſo della carne . Diſdiceuole coſa è , che in quella ſorte di
vita, nella quale il corpo non s'infiacchiſce , l'anima prima del corpo
s'infieuoliſca. Guarda di non inccfa rirti , per non intriderti , che così
fuole auucnire . Però conferua in te ſteſſo la ſchiettezza, la probità, l'inte
grità ,la conueneuelezza, l'in genuità , l'amore del giuſto , la pietà , la
piaceuol ezza , l'humanità, la fermezza nell operare cofe comuenienti .
Sforzati di mantenerti tale , quale fu l'intento della Filo ſofia di formarci .
Venera gľ Iddij , protegi gli huomini. Breue è la vita , e l' vnico frutto del
viuer in terra è vna ſanta compoſtura d'ani mo, ed il far opere indirizza te al
comun bene degli altri . In ſomma fa ogni coſa da vero allieuo di ANTONINO, Rio
cordati , come egli sempre sta in un retto tuono d'operare ſecondo la ragione dell’uguaglianza
ſua in tutte le cose della santità, della serenità della faccia della soauità,
del diſprezzo della vanagloria e dell'attenzione nell'apprender gli affari . E
come egli non haurebbe trapaſſato coſa alcuna , ſe prima non l'haueſſe ben co
noſciuta , e perfettamente confiderata ; e come egli comportaua quelli', che di
eſſo a torto ſi lamentauano , ſenza ridolerſi diloro ; e co ine in coſa alcuna
non s'af frettaua , c non ammetteua calunnie ; ne de' coſtumi, o dell'azioni
era curiofo fpia tore , ne rinfacciatore , non timido non ſoſpettoſo , non
ſofifta ; ecome conten tauaſi del poco sì nell'abi tare , sì net dormire , sì
pel 0 e veſtire, sì nel mangiare , si nella ſeruitù ; come, pronto trauagliaua
volontieri nel le fatiche, e con longanimi tà ; e in qual modo fe la paf ſaua
fin alla ſera con leggier riſtoro ; non hauendo biſo gno fuor delle ore conſue
te delle folite egeſtioni. In oltre conſidera la fermezza di lui fenza niuna
variazio ne nell'amicizie ; e la tol leranza' di chi liberamente contradicena
a’fuoi pareri, e't godimento , fe venina da al tri moſtrata cofa migliore ; e
come era , religioſo ſenza fuperſtizione : acciocchè nel l'vltinio punto della
tua vita ti truoui con fi buon co noſcimento di te fteffo , me'anuenne a lui. Riſuegliati
e richiama te fter D fteſlo , e di nuouo fuori del fon no conſidera che i ſogni
ti perturbauano, Torna riſuc gliato a rimirare queſte coſe humane, come miraui
quelli. 25 Son compoſto di cor picciuolo , e d'anima . Al corpicciuolo dunque
ogni coſa è vna , poichè egli non può farui differenza ; maall? intendimento
tutto quello è indifferente , che non è del le ſue proprie operazioni Ora le
ſue operazioni tutte ſono nel di lui potere; e fra queſte, quelle che al preſen
te folo maneggia : mentre quelle dell'auuenire , o quel le del paſſato anche
eſſe già a lui ſono indifferenti. Non è fuor di natura la fatica alla mano , e
al piede, finchè il piede fa quello, che ha da fare il piede, e la ma no quello
, che la mano. Co sì ancora all'huomo , come huomo , non è fuor di natu ra la
fatica quando opera quello , che ſi ſpetta all’huo mo ; c ſe ciò a lui non è
fuor di natura , non gli ſta male . Quanti piaceri ſi goderono i maſnadieri, i
zanzeri , i par ricidi, i tiranni ? Non confi deri come i mecanici artiſti
infino agl'idioti in vn certo modo s' accomodano nientedimeno ſoſtengono la
regola della loro arte , ne comportano , che da quella ſi manchi , Non farà
coſa ſconueneuole , che l'archi tetto , o il medico riſpettino più la ragione
della propria arte, che l'huomo la ſua , la quale gli è comune con gli Iddij?
L'Asia , l'Europa ſono angoli del Mondo : tutto ľ Oceano vna gocciola del Mondo
: il monte Atho una zollerella del Mondo : ogni tempo , che corre yn punto
dell'eternità . Tutte ſon coſe piccolc , facili a mutarſi , che preſto
fuaniſcono là , donde procedono , deriuando tutte dal comun direttore . Sicchè
il grifo del Leone , e'l vele no , e ogni maleficio ,come le ſpine, ela mota ,
ſono giun te forucnute da quelle coſe degne , e buonc . Dunque queſte coſe non
reputar alie , ne da quello , che tu riueriſci, ma riuolgi nella tua mente il
fonte di tutte le coſe . 28 Chi vede le coſe pre fenti , l'ha vedute tutte ,
fieno quelle , che furono per tutti i ſe 70 12 lle of chi in ori ſecoli , o
quelle , che per gli infiniti ſaranno;eſſendo tutte dell'iſteſſo genere , e
confor mità. Conſidera bene ſpeſſo la congiunzione di tutte le coſe mondane,e
l'abitudine; o il riſpetto , che vna ha con l'altra ; giacchè in certo mo do
tra ſe tutte le coſe ſono intrecciate, e così tra di loro , ſecondo queſto , ſi
affeziona no , poichè vna ſeguita l'al tra, o ſiaſi per lo moto loca le , o per
la coſpirazione, o per l'vnione della ſoſtanzia. Adatta te ſteſſo a que'
negozij; che ci ſono toccati in forte , ea quelli huomini, co’quali ſei
deſtinato d'eſſere, poni affetto, ma di vero cuo re. Gl'iſtrumenti, gli arneſi,
e ognivaſo, ſe a quello , ache è stato ordinato s'accomoda, è buono ; ancorchè
quegli', che lo fabbricò no vi ſia più. Ma di quelle coſe , che ſotto la natura
ſi contengono den tro vi è ; eperſeuera la facult tà che le diſpoſe . Perciò
tanto più deeſi quella vene rare; e ſtimare , perchè ſe tu opererai , e ti
gouernerai conforme al voler di quella , il tutto ti riuſcirà , ſecondo la tua
intenzione ; così an cora ad ognuno le cofe - rie ſcono , fecondo la mente di
lui . 30 Quando fuor di quello , che cade ſotto la tua elezio ne hai a te
ſteſſo preſuppoſto o bene , o male', è neceffa . rio , ſecondo l'auuenimento di
detto male' , o miſauueni mento di detto bene , lan H mentarti degl'Iddij , e
anco ra odiar ' gli huomini , che ſieno ſtati cagione , o che a te ſieno
ſoſpetti, come che poteſſero eſſer cagione di detti miſauuenimenti , o au
uenimenti . E per queſta dif. ferenza verremo pure a peca car molto. Ma ſe folo
giudi chiamo le coſe buone o cattiue , che ſono in noftro potere, non ci rimane
niuna cagione, ne di dolerci di Dio , ne di contro gli huo mini con oſtil
ſedizione op porci - 31 Tutti cooperiamo a compiere l'iſteſſo ouraggio , alcuni
ſapendo , e compren dendolo alcuni ſenza ſaper lo . E quindi, al mio parere ,
Heraclito chiama operarij, e cooperarij nel facimento di tutto quello , che nel
Mondo ſi fajanco da'dormienti.Altri in altro modo coopera , e molto largamente
ancora quegli , che ſi querela, e que gli , che ſi sforza d'opporſi , e di
diſtrugger le coſe ,che ſi fanno : concioffiecoſa che , di ciò hebbe meſtiere
ilMon do . Reſta dunque , che tu intenda tra quali di queſti tutti annoueri ;
poichè l’ ordinator del tutto in ogni maniera ſi ſeruirà bene di te , e ti
riceuerà in qualche parte di quelli , che cooperano , 0 poſſono operare ; ma tu
fa di non hauer tal parte , quale nel dramavn vile , e ridico lo verſo
mentouato da Cri ſippo . Forſe che'l sol ambiſce far da pioggia ? ed Eſculapio
da terra fruttifera ? Non vedi com 3 li H 2 me ciaſcuna ſtella, quantun que
dall'altre diuerfa , nien tediineno al facimento di vna , e iſteſſa coſa concor
re 32 Se dunquegl'Iddij han no deliberato dime, e delle coſe , che a me ſono
per au uenire , la deliberazione non farà , ſe non buona : hauena do in fe
repugnanza il penſar yn Dio ſenzaconſiglio . Qual cagione lo mouerebbe a far mi
del male ? Poſciachè a los ro , e all'vniuerſo , del quale hanno ſpezial
promuidenza, da ciò che ne riſulterebbe ? ma ſe intorno a me non de liberarono
, certamente in torno dell' vniuerfo hanno deliberato , per cui conſe guenza
eſſendo queſti auue nimenti ordinati , debbo ab bracciarli, ed eſſer contento .
Se poi di nulla ſi pigliano cura , il che è empio a crede Te , non
facrifichiamo noi ? non porghiamo preghiere ? non giuriamo ? e non faccia mo
altre coſe , le quali tutte agl' Iddij , come ſe foſſero prefenti , e
conuerſaſſero con noi ; indirizziąmo ? E ſean cora niente in riguardo no ftro
deliberano , farà lecito ch'io pigli deliberazione di me ftcflojie la mia
riſoluzio nenon farà altro , che intor no a quello , che mi torna 'bene
;maquello torna bene a ciaſcheduno', che è fecon do la ſua conſtituzione , e
nåtura . Ora la mia natura è ragioneuole , c cittadineſca . La Città , e la
patria è a me Roma, in quanto ſon ma in quanto ſon huo . mo è il Mondo . Dunque
quelle coſe , che a queſte Cittadi sono d'vtile, quelle fole ſono a mebuone.
Quello che a ciaſcuno auuiene, conferiſce al' tutto . Queſto doueua effer
fufficientes ma ancora di più quello in ogni maniera con perfpicacia of
feruerai , che ciò , che acca de conferente all'huomo , anche agli altri
huomini conferiſce . Ma al preſente s'intenda queſta parola Eup Os pov nelle
coſe mezzane in ſenſo comune al bene , e al male. Come quanto ti ſi rap
preſenta nella faccia del Theatro , o di ſimili luoghi , fe in vn modoſempre ſi
ve de , e non mai cambi l'aſpetto, diuiene ſazieuole alla vi fta , l'iſtella
apprenſione ſi fa negli auuenimenti per tutta la vita . Poichè ſottoſopra tutte
le coſe ſono le medeſi me , e dalle medeſine ca gioni . Sin doue dunque ?
Conſidera del continuo tuto te le ſorti d' huomini , e ď ogni ſorte di
profeſſione , e di tutte le nazioni, quei che fono morti, con arriuare fi no a
Filiſtione , Febo , e Ori ganione . Paffa adeſſo ad al tre nazioni . Colà
hauemo da tragettare , doue traget tarono tanti graui oratori, tanti venerandi
Filoſofi . He. raclito , Pitagora , Socrate , tanti Eroi primieramente, e poi
tanti condottieri , e ti ranni: e appreſſo a loro Eu doſſo, Hipparco,
Archimede, e altri di perſpicace ingegno, magnanimi , amatori della fatica ,
Scaltriti , arroganti : e quelli ancora , che di que fta vita humana caduca, e
giornaliera ſi ferono beffe come Menippo, e ſimili. Tut ti queſti conſidera che
già yn pezzo fa giacciono . Ora che male è a loro queſto , e che male a quelli
ancora , che in tutto ſono ſenza niuna no minata ? Vna coſa iui è dc gna di
ſtima , il viucr tran quillamente con li bugiardi , e gl'ingiuſti , vſando la
veri , tà ,e la giuſtizia . 34. Quando tu vogli ralle grarti, riuolgil'animo
all’ec cellenze di quei : , ché teco viuono : come a dire all'atti uità di
quegli , alla modeſtia di queſti , alla liberalità d ? vno e così ad altra
virtù di qualche altro . Non ci effen , do cofa , che tanto rallegri , quanto
le ſomiglianze delle virtudi alviuo rilucenti nelli coftumi de contemporaneiig
le quali tutte in vn tratto in fieme a noi rappreſentano. Per lo cheper quanto
è pof fibile , le hai d ' hauer ſempre alle mano. Forſi tu ti duoli , che fei
ſolamente di tante libbre, e non di trecento di Nell' iſtefla maniera , che
fino a tanti anni prolungherai la vita , e non più . Perchè co me della
ſoſtanzia corporea in quanto the determinata e acquieti, così fa ancora del
tempo . 36. Sforciamoci di render gli huomini capaci: però o pereremo ancora
qualche cofà contra guſto loro, quan do la ragione del giuſto così richieda.E
ſe qualcuno vſan doti violenzati si oppone , trapaſſa alla placidezza fen za
dolerti; e dell'impedimen to feruitene per vn'altra, vir tù ; e ricordati che
tu deſideri le coſe con dell'eccettuazio ne , non appetendocofe im . poflibili.
Che coſa dunque appetiſco ? quel certo defi derio regolato ; e queſto tu
ottieniquando , arriua quel lo , che primo, e principal mente viene deſiderato.
L'amator della gloria dall'opere d'altri ſi perſuade il proprio bene; quegli ,
che ama la voluttà , dalle ſue pafſioni : ma chi ha ceruello , dalla propria
operazione! E' in tuo potere ſopra ciò non formarne opinione , e non
perturbarti nell'animo. concioſliecoſa che niuna co fa ha vna natural poffanza
ſopra i noſtri giudicii. Auuezzate ſteſſo ad apo plicare attentamente a quel le
coſe , che da vn'altro fo no dette ; e più che puoi in ternâtinell'animo di chi
fta parlandoti . 40 Quello, che non è gio . neuoleallo fciame , ne' meno gioua
alla pecchia. Se i marinari parlaffe Fo
male del loro piloto , 0 gli ammalari del loro media co , forſe per ciò ad
altro ar tenderebbono, che all'opera re , quegli per la ſaluezza de' nauiganti,
e queſti per la fanità di quei , che fi ciira no? Quanti fon già morti
diquelli, che meco ſon en trati nel Mondo ? -43. Aglitterici pare ilme-, le
amaro : e a ' morſi da ani mal rabbioſo l'acqua è di terrore : e alli putti è
coſa bella il palloncino . A che dunque io m'adiro ? forſi.pa re a te , che
habbia minor forza quello , che falſamen te s'apprende , di quello cheha la
bile nell'itterico , o'l veleno nell'arrabbiato a Non t'impedirà perſona , che
tu non viua ſecondo la condizione della tua natu rà: e niente t'amierrà fuori
della ragione della natura dell’vniuerfo .. 44 Quali ſono quelli , alli quali
ſi deſidcra d'andar a verſo, e per qualiauuenimen , ti , e con quali opere ? 0
quanto preſto i ſecoli ogni coſa copriranno , e quante han di già ricoperte!
Che coſa è la mal nagità? è quello , che ſpeſſo hai veduto ; e ad ognicoſa ,
che ti ſoprauuenga , prontamente rappreſon tati, eſſer lo ſteſſo , che ſpef fo
hai veduto . Vniucrſala mente nelle coſe ſuperiori , ed inferiori , trouerai le
me deſime, delle quali ſono pie nele Storie antiche , e quelle di mezzo tempo,
e lemoder ne , e ora ne ſono piene le cittadi , e le caſe . Non ci è niente di
nuouo, tutto è vſa to , e di corta durata. I dogmi , in qual' altra maniera ſi
potranno in te cancellare ſe l'immagina zioni., che a quelli ſono con formi non
ſi eſtinguono , le quali, a te ſta di continua menté rauuiuare? Reſta in mio
poter di fare intorno a ciò quel concetto , che ſi conuiene: e ſe ſta nel poter
mio , a chemi turbo ? Quel lo , ch'è fuori della mia men te , non ha che fare
in modo alcuno con la medeſima mente . Queſtoſia il tuo ſen timento , e cositu
ſei retto . 3 Pofciache in tua balia è il ritornare in vita, riconoſci le coſe
nel modo , che le hai già vedute ; perchè in ciò conſiſte il ritornare in vita
: Tali ſono la vana curioſità delle pompe , le rappreſen tazioni nelle fecne ,
i bran chi d'animali , le mandre, i giuochi d'arme ; vn ofſetto gettato a
cagnolini; i minuz žoli di pane buttati nel viua io de' pefci , i trauagli , e
il vettureggiare delle formi che, le corfe in quà se'n là de toperti ſpauentati
, i bam bocei, a quali ſi fanno far de moti con cordićelle . Bi fogna dunque
tra queſte coſe fermarſi con animo tranquil lo , e ſenza ſtrepito : e confe
guentemente apprendere , che tanto ciaſcun vale,quan to vagliono le coſe ,
intorno alle quali s'affanna . 4 E' neceſſario attendere nel parlare parola per
parola a quello , che ſi dice : e nell' operare ad ogni moto : e nel l'vno
riguardare ſubito a qual fine ſi rapporti ; e nell? altro oſſeruare quello ,
che venga ſignificato 5 E' ſufficiente il mio intel letto per queſto , o non è
? s' egli è ſufficiente io me ne vaglio come d'inſtrumento datomi dalla natura
dell'yni uerſo nell'opcrare ; se non è ſufficiente , o io cedo l'ope ra a chi
poffa meglio di me condurla a fine, ſe non foſſe a me ſteſſo ſpettante , o vero
la fo come poffo , feruendomi dell'aiuto di quegli, che può cooperando col mio
intellet to effettuare quelloche ſia di preſente opportuno , e vtile alla
comunione humana:per ciocchè ciò che fo, o da per 3 2 3 ine me ſolo , o con
altri, dee ſolo indirizzarſi a quello ch'è pro ficuo , e più proporzionato al
comune . Quanti , che ſom mamente furono celebrati , di già ſono paſſati
nell'obbli uione ? E quanti, che li cele brarono già tempo fa , ſono ſpariti a
Non ti vergognar d effere aiutato; poichè ti con uiene operare quello, che ti
appartiene , come ad vn ſol dato nell'affalto d'vna mura glia . Che dunque
fareſti , ſe azzopppato non poteffi ſolo aſcendere fu i merli, e con yn altro
poteſſi farlo ? 6 Quello, che ha da auueni re non ti ſgomenti, perchè giugnerai
a quello , fe ſarà di vopo , fornito dell'iſteſſa ra ; gione , della quale tu
ora ti ferui in ciò , che t'è preſente. olo bro gal ]l DO ď ti -7 Tutte le coſe
ſono tra di loro auuinte , ed il nodo è fa cro , e quaſi' niuna è all'altra
ſtraniera . Concioffie cofa che tra fc sono ordinatamente disposte, e adornano
l'istesso mondo , poichè di tutte le coſe queſto è vno , e Dio è vno per tutto
, vna la natura , e yna la legge , vna la ragio ne comune a tutti i viuenti
intellettuali , e la verità yna, doue pure vna è la perfezio ne di quelli, che
ſono dell' iſteſſo genere, e di quei, che della medeſima ragione par ticipano.
Ogni coſa materia le preſtamente va a ſuanire nella ſoſtanzia dell'vniuerfo : e
ogni cagione'efficiente pre ſtamente è aſſorbita dalla ragione vniuerſale . I
ſecoli ancora dentro di fe ſeppelli ſcono lo ni. che id at to s ſcono
preſtamente la mc moria di ciaſcheduno, s,is :: 8 L'animal ragioneuole ha la
medeſima opcrazionéry fe condo la natura se ſecondo la ragione , o retto o
raddirizzato. Con qual? abitudine fi riguardano i membrivnitid vn corpo con
tale fi confans no gli enti ragioneuoli, ben chè diſuniti, PER HAVER
DISPOSIZIONE A CONCORRERE IN UNA COOPERAZIONE. E maggior mente ti s'imprimerà
l'intelligenza di queſto , ſe ſpeffe fiate diraia te ſteffo « Io ſono membro di
queſto , aduna mento di razionali . Ma ſe col mutamento d'yna lettera dip'sno ,
cioè membro, farai fe'egos, che fuona parte, non di cuore porterai amore agli
huo INC die a re ſteſſo . id -11 huomini , ene anche tu non ti compiacerai fenz
hauere altro fine della beneficienza f operando per 'mera conue polo nienza , e
non come per far beneficio . 10 Accada ciò che ſi vuole i d'eſteriori
arucnimenti ſopra a coloro , che poſſono patir queſti accidenti, e quelli pa
tendo ſi querelino pure à lor e voglia : che quanto a me , se io non reputo che
ſia male l'auuenuto accidente ,non ne reſto lefo : ora da me dipen de il non
reputarlo. II Qualunque coſa altri ſi faccia, o ſi dica, tocca a med eſſer
huomo dabbene:non al trimente, che ſe l'oroj ouero lo ſmeraldo , o la porporaco
si delcontinuo diceſse ; Che che altri ſi faccia , o dica ; a na or el file
7110 Nad fe -em are di col me 1POC fuc da са ) ſim bil vie La 011 me tocca d '
eſſere ſmeraldo, e di ritenere il mio proprio colore. La porzione , che è in
noi reggitrice,non è a ſe ſteſ ſa moleſta , cioè à dire , ella non s'atterriſce
ne s'affige con la cupidigia , e ſe altri è poſſente d'atterrirla, ò di
contriftarla, lo faccia . Certo è cheda per ſe ſteſſa con l'ap prenſione non fi
riuolgerà a tali commouimenti . Alcor , picciuolo ſi laſci il penſiero , che
non patiſca coſa alcuna , ſe potrà; e ſe patiſce lo dica. Però l'animuccia, che
teme, e s'attriſta , e riceuc total mente l'apprenſione , niente patirà ;
concioffiecofa che non procederà mai al giudizio di cose simili. Quanto a ſe
ſteſſa la por qu Id nd CC n A 0 porzione
in noi réggitrice è fuori d'ognibiſogno, ſepure da ſe ſteſſa ella non ſi fabbri
ca la neceſsità , e nella mede fima maniera è imperturba bile, ed incapace
d'impedi mento , fe da ſe ſteſſa non vien perturbata, o impedita. La felicità è
il buon genio, o l'iſteſſo bene. Che dunque quì fai o fantaſia ? deh pergľ
Iddij, vattene comevenifti , nonho vopo di te.Seivenuta conforme all'antica
vfanza: non m'adiro teco ; ma vatte ne vna volta . 14 Alcuno ha paura della
tramutazione ; e qual coſa può eſſere ſenza tramutazio ne , e quale è più di
lei ami ca , o domeſtica alla natura dell'yniuerfo ? Ti potreſti tu lauare, ſe
le legne non ſi tra 2 1 21 -2 al che d 1 mil 1mutaſsero ? ti potreſti nutri re,
ſe i camangiari non ſi tra mutaſſero ? che altro fi com pierebbe di neceſſario
ſenza la mutazione?Non vedi dun que come ancora il tuo tra mutarti è
confacerole, e pa rimenre neceſſario alla natu ra dell'yniuerſo ?. Per l'effen
za di queſto trapaſſano quaſi per yn torrente tutti i cor pi connaturali; e
cooperanti con l'yniuerfo , almodo che le parti noſtre tra di loro cooperano.
QuantiChriſippi, quanti Socrati , quantiEpit teti il tempo s'è inghiottito?
l'iſteſſo in fatti ti ſouuenga di qualunque huomo, e di qua lunque coſa . Vna
coſa fola cruciandomi mi ſcontorce, cioè, che io non forſe faccia quello, che
la conſtituzione dell'huomo non vuole , o nel la maniera , che non vuole , o
come al preſente non vuole . Tra poco tu ti ſcorderai di tutti, e tra poco
tutti ſi ſcor deranno di te. 15 Proprio è dell'huomo amare anco quelli, che
erra no;e queſto ſi fa, ſe nel mede ſimo tempo ti ſouuerrà , che quelli , che
peccano , ſono a te congiunti ; e che o per ignoranza , o non volendo, peccano;
e come tra breuil ſimo tempo , e tu , e quellive n'andrete: e ſopra tutto per
chè non ti ha leſo , mentre la porzione tua principale non l'ha deteriorata più
che per linnanzi ella ſi foſſe. 16 La natura dell' vniuerfo dall'eſſenza
vniuerfale, come ha ora formato vn ca : 3 . da cera , 194 LIBRO SETTIMO
caualluccio , e poi, quello di ftruggendo, ſe n'è valuta per materia d ' yn
albero di poi d'vn homicciuolo , e appref lo per qualch' altra coſa ; e
ciaſcuna di queſte ha durato per cortiffimo ſpazio . Non reca al caffettino
molcftia if diſcomporlo , ficome non gliela recò ne meno il fabbricarlo. La
ſdegnoſa torbidez za del volto è oltre modo fuordel naturale; perchè fa fpeſſe
fiate ſuanire la gratia di quello , ouero alla fine in guifa l'eſtingue ,
ch'ella non poſla giammai più ràuuiuarſi: Dunque, per queſto iſteſſo sforzati
di apprendere che quello è fuori della ragione ; poſciachè, ſe il riſentimento contra
il peccare fi perde, a che gioua il viuere ? 18 Le coſe , che tu vedi , tutto
tra poco le muterà la natura , che gouerna il tutto ; e dall'eſſere di queſte
pro durrà altre cofe , come di nuouo altre dall' effenza di quelle , acciocchè
il Mondo di continuo ſi conferui in giouentù . 19 Quando vn commerta errore
contro di re , toſto conſidera , che coſa egli pec Cando s'immaginò di bene , o
dimale : perchè,conoſcen do queſto , lo compatirai , ſenza marauigliarti, o adi
Tarti . Pofciache o formerai l'isteſſo concetto del bene ch' eſſo formò , o
altro ſimi le a quello concepirai , on de fia neceſſario perdonar gli . Ma
quando anco tu non 1 3 2 I 2 facefli lifteffo concetto del bene, o delmale , ti
renderai più facilmente benigno ver fo colui , che ha traueduto . 20 Non
s'hanno da conſi derare le coſe aſſenti nel ino do di quelle , che ora ſono :
ma fi dee ſcegliere delle preſenti le più abili , e ricor darſi con quanto
ſtudio quc fte fi cercherebbono , fe non foſſero preſenti. Però è inſic me da
guardare cheper trop. po gradirle non ti auuezzi a ſtimarle vantaggioſamente .,
a ſegno tale , che, ſe ti inan caffero , te ne turbaſſi . 1.21 Raccogliti in te
mede mo. La parte ragioncuole , e principale , è di tal natura , ch'è
ſufficiente a ſe ſteffa , quando giuſtamente opera ; e in ciò truoua la sua
quiere. Scancella l'immaginazione, arreſta la violenza delle par fioni ,
circonfcriui il prefente del tempo , riconoſci quello, che auuiene così a te ,
come ad altri : diftingui , e partiſci quello , che ti ſta fra mano nelle fue
cagionimateriali, e caufali: figurati l'vltima ora : laſcia l'errore comineffo
a quello , e dove fu l'errore. L'animo dee star applicato a quanto si dice e la
mente dee internarsi nelle cose operate, e negli operanti : Abbelliſci te
ſteffo colla ſemplicità, è vergogna , e coll indifferenza , ch'è in mezzo tra
la virtù, e'l vizio . Ama il genere humano, con formati con Dio . Quegli diſſe,
ogni coſa eſſer ordina ta con legge certa , ma gl’elementi soli muoverſi con
mouimento incerto , e for tuito . Baſta hauer nella me moria tutte le coſe
eſſere rc golate con legge fiſſa , c po chiffime andare a caſo .. 23 Intorno
alla morte : 0 è diſipazione , o atomi, o euacuazione , o eſtinzione, o trapaſſo
. Intorno al dolore : fe non è ſoffribile porta via ſe fi allunga nõ è
inſoffribile; e l'animo nel formare i con cetti conferua la ſua pro pria
tranquillità , e la parte ſuperiore non peggiora: le parti affitre dal dolore ,
ſe poſſono,palefino il loro ſen timento . Intorno alla glo ria : riguarda gli
animi di co loro , quali ſieno, e qualico fe abborriſchino, e qualiap
petiſchino : e come l'arene de i lidi , che vna ſopra l'al tra venendo a
ſoprapporſi naſcondono le prime, fimil mente nel noſtro viuere le coſe
antecedenti ſono dalle foprauuenute ben preſto ca cellate . 24 Da Platone.
Penſi tu dunque , che quegli, che ha penfieri da magnanimo colla fpeculazione
d'ogni tempo , e d'ogni ſoſtanzia faccia gran concetto del viuere dell'huo po ?
Non può eſſer che ſia , riſpoſe . Dunque ne queſti potrà reputare che ſia male
la morte . Non per certo . Detto di Antiftene. E' coſa da Re operar bene, e
riceuer ne biaſimo . E ' ſconuenelio le , che'l noſtro volto obbe diſca , e ſi
regoli, e s'abbel liſca , come la noſtra mente I 4 or 200 LIBRO SETTIMO ordina
, e che queſta per fe medeſima non ſi regoli, ne ſi abbelliſca . Se con le cofe
diſdegnar ti vuoi Che non curan diſdegno, il tutto è vano . A i mumi da cui
morte va lontano Diaſi allegreza ,e diaſi pur'a noi. Che ſi tronchi la vita ,
come ſuole Matura Spiga , e un viua, e un ' altro mora Che di me cura , e de'
miei figli 'ancora Non ſi prendan gl'Iddij, ragion il vuole . 26 Da Platone .
Io riſpon derei con giuſta riſpoſta . Che tu , o huomo , non ben diſcorri, ſe penſi
douere fti mar coſa di gran momento il viuere , o il morire dell huomo, per
poco ch'effo va glia , e non più toſto queſto solo confiderare , cioè , ſe
quando opera , operi coſe giuſte , o non giufte e da huo mo buono , o cattiuo .
Così il vero ſta , o citta dini d ' Athene : fe alcuno reputando il poſto cfler
otti mo vi ſi collocherà Principe vi farà collocato , " conuiene , come a
me pare , ch'iui ſi fermi , anco che vi foſſc pericolo , non facendo conto ne
della morte d'altro , fuori che della brut tezza . Ma poni cura , o galant
huomo , ſe altra coſa è l'effer buono , e generoſo , che'l faluare altri , e
faluare ſe Ateffo · Concioffiecoſa che non è da deſiderarſi dall ' huomo
veramente prodc la vita lunga ,ne dee ftare appiccicato al yiuere , ma rimet terſi
intorno a tutto ciò in Dio , credendo alle donne , che neſſuno può ſcanſare il
fato ; e in conſeguenza qui ha da premere in qual ma niera poſſa impiegare ,
per ottimamente viuere , il tem po , che gli reſta da viuere. Offerua il corſo
delle ſtelle , comeſe tu giraffi in compagnia loro e confide ra del continuo le
vicende uoli tramutazioni degli ele menti ; perchè coll' appren fioni di queſte
coſe fi purifi cano l'immondizie della vi ta terrena . Bene ne i diſcorſi
dell'huomo fu da Platone af ſerito che ſi debbono con templar le coſe terrene,
co me da alto in baſſo , le con greghe , gli eſerciti , i lano ri et is 20 90
7.1 her III le in ri de'campi, i congiugnimen ti de' parentadi , i diſciogli
menti, le nafcite , le morti , gli ſtrepiti de' tribunali , i paefi diſertati,
le varietà del te genti barbare , le feſte , i pianti , imercati,il rimeſco
famento del tutto, e l'abbel limento del Mondo per le coſe tra di loro
contrarie. Riuedi conſideratamen te le coſe dianzi ſuccedute : le tante
mutazioni degl'Im perij. E lecito ancora preue dere le coſe future: perchè a
tutti i modi hauranno l' iſteffa ſomiglianza , c non trauſeranno mai dall'
ordine di quelle, che al preſente ſi fanno . Quindi auuione che il miſurar la
vita humana con anni quaranta non ſia diffe rent e dal miſurarla con an 1 fir 1
0 I 6 ni 204ni diecimila. Perchè qual coſa vedrai tu di più ? Vanno indietro le
coſe, e ciò che diede La terra in terra , e nel celefte templo Ciò che venne
dall'etera ſen riede Ouero queſta è , yna riſolu zione degl'intrecciamenti de
gli atomised vna diſſipazione degli elementi, che non ſog giacciono à paſſione.
Con beuande,con cibi,e con magia Della morte cerchiam ſuolger la via . Conuien
Soffrir con ftenti , e ad occhi afciutti Il vento,ch'a noiSpira dagl'Iddi 29 Rieſce
vno più di te de ftro nella lotta per atterrare gli altri : ma non ſia più co
municatiuo , non più riſpet toſo , non più compofto ne gli accidenti , non più
benigno verso gli abbagliamenti de ' profſimi. 30.: Douc , secondo l'intendimento
comune agl’Iddij , e agli huomini,ſi può condurre vn'opera à fine , iui non è
del male : auuegnachè doue è le cito di trouar l'vtile per l'o perazione , che
proſpera mente s’auanza , e non trali gna dalla ſua diſpoſizione , iuinon s'ha
da ſoſpettar di danno . In ogni luogo , e in ogni tempo ſta in re il pren der a
grado , con la douuta pietà , quello , che preſente mente accade , e di
portarti con glihuomini , li quali con te conuiuono , giuſtamente , ed
eſaminare efattamente quello , che fi rappreſenta all'immaginazione ; accioc
chè non vi fubentri qualche coſa , che non ſia per prima bene compreſa . 31 Non
inueftigare ciò che ad altri paſſa per la men te , ma riguarda diritta mente à
quello , a che la natura ti conduce, o ſia quel la dell'vniuerfo , per le coſe
che ti accadono , ouero la tua , per l'azioni , che da te dependono . Ora
quellos? haurà a fare da ciaſcuno, che conſeguentemente corriſpo de alla ſua
diſpoſizione . Per rò tutte l'altre coſe ſono diſm poſte per quelli , che ſono
ragioneuoli , come in ogni altra l'inferiori in riguardo delle migliori, e le
ragioner. uoli l'vna per l'altra.Dunque il primo e principale nella:
diſpoſizione dell'huomo ſi è l’essere COMMUNICATIVO. Secondariamente non
arrenderſi alle corporali inclinazioni . Concioſliecoſa che proprio del
mouimiento ragioneuo le , e . intellettuale è dicir confcriuer fc fteffo , e
non laſciarſi ſottomettere da mo. ti ſenſuali, o impetuolis poi chè tanto gli
yni , quanto gli altri hanno del beſtiale . Ma la intellettiua vuol la
preininenza, e non eſſere do minata da quelli : e a ragio ne ; perchè è fatta
per feruir ſi di tutti quelli. Il terzo nel la ragioneuole conſtruzione , è di
non trauedere , nc d'ef ſer ſoppiantato. A queſte co ſe dunque applicata la men
te proceda a dirittura , e co si conſeguirà quello , ch'è fuo proprio . 32 Come
tu non hauefli havuto a uiuere , che fin ora , e già foffi morto , queſto fo
pra più che c'è dato diuiuere , dourai viuerlo fecondo la natura , folamente
contento di quello , che ti auuenga , e che ti è deſtinato dal fato, imperocchè
qual coſa ti può efferpiù couveniente ? 33 In ogni accidente vo glionfi hauere
auanti agli oc chiquellija' quali occorſero cafi fimili , e che poi fi dole
uano, e ſembrado loro ftrano fi lamentauano . Doue dun que ſono eglino ora ? in
niun fuogo. Vorrai tu dunque fare altrettanto ? Perchè non la fci gli altrui
rigui alli rigi ranti, e rigirati ?: e non te ne ftai tutto intento come ti
habbi da ſeruire di tali acci denti ? Te ne feruirai dunque bene , e quelli ti
ſerui ranno per materia. In ogni coſa , che farai; non hai da applicare ad
altro , ne altro proccurare , che d'effer a te Iteffo buono . Nell' yno , e
-nell'altro ( fia di ciò , che hai da ſcanſare , o ſia di ciò , che hai da fare
ricordati che'l foggetto dell'operazione è indifferente. Con perspicacia rimira
dentro te stesso, che la fonte del benc è dentro di te , la quale non ceſſerà
mai di ſca turire , ſe tu di continuo la terrai ſcanata . 35 Il corpo ha da
ſtar fiffo , e non ſi ſtorcere , o fia nel moto , o fia nella poſtura . Perchè
nel modo , che l'ani mo imprime vn certo che nella faccia , ferbandola ſe 7 1
Il ria , e ben composta , al trettanto ſi dee ricercare che ſegua intieramente
nel corpo ; e tutte queſte coſe s'hanno da offeruare fcirza affettazione . Il
noſtro modo di viuere è più da affomi gliarſi alla Paleſtra , o lotta , che
all'Orcheſtra , o al ballo; douendo alle coſeche ſopra uuengono , e non ſono
pre ucdute trouarſi appareccħia to , e fermo pernon cadere. Giammai non
laſcerai d'eſaminare quali ſieno quel li , dalli quali tu brami le te
ſtimonianze , e quali l'inten zionidella loro mentc: per chè ne accuſerai
quelli , i quali peccano inuolontaria mente , ne ricercherai la lo ro
teftimonianza , fc rimire rai da qual fonte ſcaturiſco no 10 a ,al ercare ate
ni € fcuzi mode allomis Torta ballo lopera t no le loro opinioni, e i loro
appetiti. Niun'anima , diſſe que gli , di ſua fpontanea elezio ne ſi priua
della verità. L'i ſteſſo s'ha da dire intorno al la giuſtizia , alla
temperanza, alla benignità, e a tutte le ſi mili.Però è fommamente ne ceffario
di non mai ſcordar d'ognuno ſarai più benigno. In ogni coſa penoſa, che ti
ſucceda , ti fouuenga prontamente che quella non ha bruttezza , ne può
peggiorare la mente in noi reggitrice ; poichè non le nuoce , nene in quanto è
ragio neuole , ne in quanto è co municatiua ; e nella maggior parte de dolori
ti venga in mente quello d'Epicuro ; Che to pre cchia dere ulcera quel let
inter : per Uli, / taria a lo mit rico no 2 I 2Che non è intollerabile , o non
è eterno ; ricordandoti però di laſciarlo ne' ſuoi termini fen za aggiugnerui
altro con la tua opinione . Ancora quel lo hai da hauer a mente , che molte
coſe , che partecipa 110 propriamente del dolore, copertaméte ci trauagliano :
come è l'hauer ſonnolenza , lo fmaniar di caldo , il patir faſtio di ſtomaco '
. Quando dunquc alcuna diqueſte coſe maltolenticri ſopporti, con feffa a te
fteffo d' ellerti arre ſo al dolore. Auuerti di non hauere tal volta quell'
auuerſione agl'inhumani, che gl'inhu manihanno agli huomini . 40 Donde argomentiamo,
che Socrate foffe illuſtre , e di diſpoſizione d'animo migliore? Mentre non
baſta , che haueffe vna morte delle più glorioſe, c più acutamen te co '
Sofiſti diſputaſſe più ſofferentemente ſopra'l ghiaccio pernottaſſe , e co
mandato a condurre quel Salaminio , più d'ogni altro generoſamente fi moſtraſſe
renitente , e che per le ſtrade andaſſe con graue contegno . Intorno a che era
aſſai da in ueftigare le così era vera mente . Maquello è neceffa rio
conſiderare , qual ' animo s'haueſſe Socrate , e ſe egli po teſſe appagarſi
d'effer giuſto inuerſo gl’huomini , e fanto inuerſo gļIddij,nő iſdegnan doſi
temerariamente contro la malizia , ne punto feruen do all'ignoranza d'alcuno ,
ne accettando come ſtranie Fit Ho fe je . Te ne ng€ ra uc PC PE ra alcuna cofa
datagli dall' vniuerſo , o ſopportandola come intollerabilc: në hauef ſe mai
acconſentito , c piega to l'animo alle paſſioni della carnuccia. La natura non
in fi corporò talmente il compó fto , quaſi che l'huomo non poſſariſtrignere ,
e regolar ſe lo medeſimo e far le ſue proprie VE coſe foggiaceré a ſe feflo .
41 Può eſſere facilmente , in che vn diuenga huomo diri no , e non fia
conoſciuto da alcuno . Ricordati ſempre di queſto : e in oltre di quello , 1
che ?l viucre felicemente conſiſte in pochiſſime coſe . E non perchè habbi tu
per duto la ſperanza d' eſſere Dialettico , o Fiſico, ti ſtime rai rigettato
dal poter eſſer libero , pudico , comunicati uO. E I uo , e oſsequente a Dio .
42 Senza alcuna violenza potrai trapaſſare la vita in vna piena giocondità , an
corchè tutti ſtrepitino ,come fi voglino, ancorchè le belue ſtrappino i
membricciuoli di queſta mafsa , che t'è cres ſciuta addoſſo , perchè , che
vieta in tutte queſte coſe ala l'animo di conferuar ſe ſteſso in tranquillità ,
e nel giudi cio vero delli circonſtanti accidenti , e collyſo pronto i delle
coſe preſenzialmente ayuemute : in modo che poſsa il giudicio ſentenziare ſopra
è quello , che vien accadendo: queſto fe' in ſoſtanza , ben chè lecondo
l'opinione , al tro appariſci; e l'vſo poſsa di re all'accidente : tu fe' quel
lo , ch'io cercaua . Perchè fem - 01 te elle est sempre quello , ch'è preſen te
, ferue per materia della virtù ragioneuole , e ciuile; e inſomma è materia
dell'ar te dell'huomo,ouero di Dio. Laonde tutto quello , che auuiene ſi fà
famigliare a Dio o all'huomo; e non è coſa nuoua , ne intrattabile , ma
conoſciuta , e maneggieuo le . 43 La perfezione de'coſtu mi porta feco queſto ;
ch? ogni giorno ſi trapaſſi come fe foffe l'vltimo , non ſi com mouendo a coſa
alcuna , ne con iftordimento , ne con fi mulazione 44 GI'Iddij eſsendo immor
tålicnon hanno a male , che in tanti ſecoli ſia a tutti lo to neceſsario
comportare ta li , e tanti fcelerati , anzi han Q b f Uella bile ar Dio. che
Dio cola m2 Cuo hanno in oltre di quelli vna total cura ; e tu che ſtai già per
mancare ti ſtracchi, non oſtante che tu ſij vno degli ſcelerati ? è da
riderſenc ; tu non fuggi la tua propria mal uagità , il che è poſſibile , ę
fuggi quella deglialtri, il che t'è impoffibile . 45 Quello , che la facultà
ragioneuole , e ciuile truoua , non fecondo l'intelletto , ne ſecondo la
ſocietà , con buon dettame lo giudica più viledi fe ftefla . 46 Quando tu hai
benéfica to, e vi altro ha riceuuto il beneficio , oltre di queſto che terza
cofa pretendi,comefan no i pazzi , di parer d'hauer fatto bene , e d'hauer a
rice uere il contracambio ? niuno s'affatica, mentre riceue vtili K tå , oſtur
ch 9 come COM 2, ne ont 7mor s che tti lo are ta anzi 9 Tantà , e mentre
l'vtile è azione ſecondo la natura ; non ti af, fannar dunque riceuendo yti
lità in quello che tu ſe'di gio uamento agli altri . La natura dell’yniuerlo
per proprio inſtinto venne alla fabbrica del mondo , donde è che ora tutto ciò
, che ſi va facendo, procede in ſeguime to di quello ; ouero le coſe principaliffime
, alle quali la mente reggitrice del Mondo ha:vna particolar inclinazio ne,
ſono ſenza ragion prodot te . Se tu ciò a memoria ha urai, ti renderà più
tranquillo in molte cse. E è azione non tia4 ndowe 'digia erloper e alla Ponde
fi va imé coff lila 1 do 1 10 ota 1 Vello ancora è gio ueuole contro la
vanagloria , con fiderare , che non iſta più in tuo potere l'eſſer viuuto tutta
la vita , o almeno la paſſata dopo la giouentù , filoſofica mente: ma a molti
altri , e a te medeſimo hai dato a co nofcere , che tu ſeben lonta no dalla
DALLA FILOSOFIA. Dunque ti truoui imbrogliato : perchè K 2 1 1 # oramai non ti
è più facile.d ' acquiſtare ſtima di Filoſofo , ſenza che ti è contraria ancor
ra la tua profeſſione. Se adun que tu penetraſti veramente fin doue conſiſte
ľaffare , non ti curar quale tú habbi da ef ſer riputato , ma baſtiti ſe tu il
reſto menerai della vita,fe cõdo il dertame della tua na : tura . Conſidera
dunque quel lo ,ch'eſſa ſivoglia, ne altroiti diſtragga : perciocchè hai già
prouato per quantecoſe ſe'i to vagando , ne mai in niuna hai trouato il ben
viuere , ne nel fillogizzare , ne nella ric chezza, ne nella gloria,nenei
piaceri, ne in che ſi fia . Don ue dunque farà ? nell'operare ciò , che
richiede l'iſteffa na tura humana. Come dunque queſto li eſeguirà ? quand'v no faciled
Elofoto ta anch eader zmente y101 dach fetu 2,fe na no haurà nell'animo fermati
queidogmi, dalli quali han no origine gliappetiti , elo pere. E quali ſono
queſti do gmi? quelli, che appartengo no ai beni , e a i mali, come nulla eſſer
bene all'huomo , che non lo renda giuſto, tem peratoforte, liberale, enulla
male, ſe non quello, che ope ra il contrario delle coſe ſud dette , 2 In ogni
operazione in terroga così te ſteſſo : in qual maniera queſtaa me fi confà ?
forfe appreffo non ine ne pen . cirò a Di qui ' a poco io farò porto , e ogni
coſa fuanirà. Che coſa di più ricerco, ſe no che l'azione preſente cõuen ga ad
animale ragioneuole , e comunicatiuo , e che nella legge ſi conformi con Dio?
Alessandro, Caiose Pompeio , che coſa ſono appetto a DIOGENE, ERACLITO, E
SOCRATE? Queſti penetrarono le coſe, e le cagioni,e le materie , e tali erano
le menti loro : ma quelli a quanti haueuano da prouedere ? a quanti haueua no
da ſeruire ? 4 Ancorchè tu crepaffi tutttauolta gli huomini fará no l'iſteſſe
coſe . Al bel primo non ti ſtare a turbare ; poichè tutte le cole, fuccedono fe
condo la natura dell'vniuerſo ; e tra poco tempo tu farai nič te ; ed in niun
luogo , come non é Adriano, ne Auguſto . Appreſſo fiſſandoti nell'opera ſteſſa,
conſiderala , ed inſieme riducendoti a memoria che ti biſogna eſſere huomo dab
bene, e ciò che la natura del l'huomo richiede , fa ciò , che tu ti proponeſti
con inuaria bile fermezza , e parla come giuſtiflimo ti parrà ; però con
placidezza e con rispetto e senza ſimulazione. Questa é della natura
dell'uniuerso l'opera e'l ministero. Le cose che ſono qui traſportar colà ,
tramutarle leuarle di quà, ed iui riporle. Ogni cosa è mutazione , non però sì
, che s'habbia da te mcre di nouità , andando il tutto ſecondo il conſueto ;
anzi le diſtribuzioni delle co fe fono eguali . Ogni natura ſi ſoddisfàdi ſe
ſteſſa , s'ella cà. mina per la propria via . E la natura ragioneuole cammina
bene, quando nelle immagi nazioni non conſente al falfo, o all'incerto ; e
negli appetiti, quando alle ſole opere co munali gli dirizza ; e nellide
fiderij, e nelle auuerſioni, qua do le reſtrigne a quelle coſe fole , che
ſtanno in noſtro ar bitrio ; e abbraccia volentie ri tutto quello , che dalla
na tura comune le vien datos poichè è parte di quella , co me la natura della
foglia è parte della natura della pian ta , ſe non che iui la natura della
foglia è parte di natura , che è ſenza ſenſo , e ſenza ra gione, e che ſi può
impedire : doue la natura dell'huomo è parte della natura ad impedi mento non
ſoggiacente , in tellettuale , e giufta ; mentre eſſa , ſecondo l'egualità , ei
meriti, diſtribuiſce a ciaſcuno i compartimenti de' tempi , delle ſoſtanzie
della cagione, dell'operazione, e delle
con tingenze. " Anuertiperò ,che non trouerai in niuna coſa ,
conſideratele ad vna ad vna , queſta vguaglianza pari ad vn tutto ;maſi bene
accumulata mente , conferendo il tutto dell'vne col tutto dell'altre . 6 Non te
conceduto di poter leggere,maè in tuio po tere il non far delle ingiurie , -il
vincere i piaceri , e idolori, l'effer ſuperiore alla glorietta: di più ,il non
alterarti contro de i difenfati , e degļingrati : anzi tè conceduto l'hauere
etiandio cura di loro. Niuno ti oda querelarti del viuer nella Corte, neme no
di quello, che tocca a te. 8 Il pentimento è vna tal riprenſione di te ſteſſo
per yn ytile traſcurato . Ora il bene de' efſere qualche vtile , e de eſſere
procurato.dall'huomo dabbene, e di buoni coſtumi. Ma neſſuno huomo dabbene, e
bene accoſtumato haurà pen. timento di hauer traſcurato qualche piacere. Non è
dun que coſa vtile , ne buona il piacere . 9 Che cofa è queſto ſecon do te
ſteſſo nellapropria con ftituzione ? Quale è il ſuo ſo ſtanziale , e materiale
? Quale è il ſuo caufale ? A che serve nel mondo? E quanto tempo fulliſterà? Quando
ti ſuegli con di fguſto dal ſonno ricordati ciò etſer conforme alla tua
conſtituzione , e fecondo la condizione naturale dell'huo . mo di produrre
operazione a prò dell humana focietà : dove il dormire è comune an cora agli
animali irragiuneuo. li. Quello perù , ch'è naturale ad ognvno , quello è più
pro prio , e più comodo , ed è più giocondo . II Continuamente , ed in ogni
immaginazione , giuſta tua poffa , eſamina la ſua na tura, ricerca le fue
paſſioni, e dialetticamete intorno a quel. la diſcorri . In chiunque t'ab batti
, prontamente diſcorri dentro di te ; Queſti che maf fime può hauere intorno al
bene, e intorno almale ?. Im perocchè , fe ha tali , e tali maſſime intorno al
piacere, e al dolore, e le cagioni dell’y -no , e dell'altro , intorno alla
gloria , all'ignominia , alla morte, e alla vita, non mi ma rauiglierò , ne mi
parrà coſa K 6 ſtrana , s'egli opera tali coſe; e mi rammenterò , che quegli è
violentato ad operare in fi mile maniera . Rammentati , che come è coſa difdiceuole
lo ſtimare ſtrano , che'l fico produca fichi così che'l Mon do produca quelle
coſe, delle quali è fecondo . E ſimilmen te ancora farebbe vergogna al medico ,
ed al piloto il pa rer loro ſtrauaganza , ſe viene ad yno la febbre , e fe il
ven to ſoffia in contrario . 12 Ricordati , che tanto il mutarſi quanto il
conformar fi a chi ti corregge, non ti to glie l'eſſer libero ; perciocchè
l'azione è tua , e ſecondo il tuo appetito , e giudicio , co me anco conforme
al tuo in, tendimento, ſi riduce a fine . 13 Se depende da te, pers ché in chè
lo fai ? ſe depende da al tri , di che ti lamenti ? degli atomi, o degl'Iddij ?
mentre così l'vna , come l'altra è paz zia . Non dei querelarti d'al cuno :
perchè ſe è in tuo po tere queſto , correggi l'iſteſſa azione ; ma ſe quello
non tuo potere , a che gioua il do lerti, giacché non conuiene far coſa alcuna
inuano ? 14 Ciò che morì non caſca fuori del Mondo :ſe reſta dun que qui , e
qui fi muta , anco qui ſi riſolue nelle coſe pro prie , le quali ſono elementi
del Mondo, e tuoi; e queſti pure ſoggiacciono a mutazio ni, nc fi qucrelano. Ciò
che è, per qualche coſa è fatto , come a dire il ca uallo, la vite.Di che ti
maraui. gli ? Il Sole pure dirà , per qual'effetto ſon fatto , e così gli
altr’Iddij . Tu dunque per qual coſa per pigliarti piace re ? conſidera ſe
l'intclletto lo comporta. La natura s'ha preſo pen fiero diciaſcuno , non meno
del fine , che del principio , e della durata dellavita. 17 Quando alcuno tira
in alto vna palla, che di bene ne riporta fa palla quando va balzata in alto ,
o che di male quando fcende, e quando ca de in terra ? E che di bene n'auuiene
alla bolla dell'ac qua , ſe dura in eſſere , e che di male, ſe fi dilegua. In
que ſta guiſa puoi ancora diſcor rere della lucerna . Riuolta il corpo, e vedi
quale è , e in uecchiandoſi , quale diuiene , o pure cadendo in infermità , o
dap o dappoi che s'ha preſo i ſuoi guſti
carnali . 18 E ' di breuc durata echi loda , e chi vien lodato: il men touato ,
e chi lo mentoua.Ag giugniui , che ciò ſuccede in yn cantone di queſta regione,
ne in quello ancora tutti ſono del medeſino ſentimento ; ne pur yno è ſempre
del medeſi mo con ſe ſtcffo.E tutta la ter ra è finalmente yn punto . 19.
Applica l'animo a quel lo che ti ſi appreſenta, o al de. creto, o all'operazione
, oal fignificato . Giuſtamente que ſto patiſci, perchè vuoi diffe rire a
domane a diuenirc huo . mo dabbene , più roſto ch'er ſerlo oggi? 20 S'io fo
coſa alcuna, la fo riferendola a bencficio d'huo. mini . Se m'auuiene qualche ?
l 1 P cofil 232coſa la riceuo , riferendola al.. tresì agl Iddij , e al forte
d'or gni coſà , dal quale tutto ciò che auuiene inſiemederiua. Che ti pare che
ſia il la uarſi ? olio , fudore , fucidu , me, acqua', ſtrofinacci , coſe tutte
difpiaceuoli: I ale èogni parte della vita, e tutto quel lo,che a noi fotto ſta
. 22 Lucilla ſeppelli Vero , appreſſo morì Lucilla. Secon da fepellìMaflimo,
appreſſo morì Seconda . Epitinchanó Diotimo, appreſſo Epitinchano. Antonino
ſeppellà Fauſti na', appreſſo morìAntonino . In tal modo cammina ogni cofa .
Celere ſeppellì Adria no , appreſſo morì Celere . Quelli anco d'acuto ſpirito,
o indouini; o fuperbi, doue ho ra ſono ? come Charace, Demetrio il Platonico ,
Eudemone , e altri ſimili d'acuto spirito tutte le coſe ſono tran. ſitorie in
yn giorno , e di già morte , e mancate : alcuni ne meno per poco rcſtarono nel
la memoria : altri trapaſſaro no in fauole ; altri già dall'i ſteſſe fauole
ſcancellati, Quel lo dunque non è da ſcordarſi, che biſogna o diſſiparli queſta
tua compoſizioncella, o eſtin guerſi lo ſpiritello , o traſpor tarſi, e altroue
riporſi. - 23 La conſolazione dell' huomo conſiſte nell' operare ciò , che
appartiene all’huo mo ; e appartienſi all'huomo il voler bene a quello , che
gli è ſimile per natura : ſprez zare i moti delfenſo , diſcer ner le probabili
apparenze , contemplar la natura dell'y Olli" ello 300 ha 710 on te ho DP
niwer niuerſo , e tutto ciò , che in quella ſi produce . Tre fono le abitudini
, l'vna alla ca gione,che circoncigne, l'altra alla cauſa diuina , dalla qua le
il tutto a tutti deriua , la terza a quelli, che con noi vi uono. Il dolore o è
male del corpo , el corpo ſia quello , che lo paleſi , o è dell'animo : ma
l'animo ha in ſua balia il conſeruar la propria tranquil lità, e ſerenità, e di
non rcpu tar , che quello fia male . Per chè ogni giudicio , e inclinac zione,
e appetizione , e de clinamento ſta nel didentro e da indi non afcende male
neſſuno . 25 Scancella l'immagina zioni del continuo dicendo a te fteffo : Ora
è in mio potere, che in 10 tra 12 10 vi del 09 70: che in queſt'anima non hab
bia luogo alcuna maluagità , ne la cupidigia , ne qualſiuo glia turbolenza : ma
cono fcendo ciaſcuna coſa , fecon do il ſuo eſſere , mi ſerua di ciaſcuna per
quanto vale. Ri cordati di queſta facultà a te conceduta dalla natura . 26
Parla nel Scnato , e con ciaſcun'altro in particolare co decoro , e non con
troppa li fciatura , ma vſa vn modo fa no di parlare. La corte d'AUGUSTO, la
moglie, la figlia , i nepoti, i defcendenti; la ſorella, Agri pa si parenti, I famigliari,
gli a mici, Ario ,Mecenate , i medici, i sacerdoti, tutta quel la corte è
svanita con la morte. Mettiti poi a conſiderare altre famiglie,nelle quali non trouerai
la morte d'vn huo mo ſolo , ma di tutte , come dei Pompeij . Mancò quella, e
ne' fepolcri iſteffi leggiamo chi fu Byltimo di quella gen te : come anco.
quello , che viene ſcolpito ne'monumen ti , vltimo della ſua gente . Conſidera
poi quanto fi tra uagliarono i loro antenati , di laſciar yni fucceſſore , e
pure fu di neceſſità , che alcuno for ſe l'vltimo , e qui parimente conſidera
la fine di tutta quel. la gente . 28. S'ha collazioni ad vna ad yna a compor la
vita ; e ſe ciaſcuna vi ha la ſua parte , Thuomote nºha đa content - re; e che
quella non habbia il ſuo pienoaſufficienza , niuno lo potrà impedire.Se poi
s'op- ' poneſſe qualche cofa eftra nea ?1€ lagi 110 11 Pr di 24 nea ? niente al
certo s'oppor rà al giuſto, modefto , e confi derato . Ma forſe qualche al tra
operazione l'impedirà?Pc rò ſe tu prendi a grado l'iſteſ fo impedimento , e
trapaſſe rai coll'animo ben aggiuſtato a quello, che ti vien dato ti ſi
furrogherà vn'altra operazioa ne, che quadri a quella com poſizione d'animo di
cui ora ſi parla, che veramente firice na ſenza fato , e fi laſci pure con
facilità 29 Se mai vedeſti vga ma no, o vn piede troncati, avna tefta dal reſto
del corpo reci fa in qualche luogo giacere ; a queſti ſimile per quanto a il
Luiſta ſi rendechiunque ricu fa le coſe ch’auuengono , e ſe ftetſo quafi tronca
, o fa quel ſa lo, chenon ſi confaccia al be ne of Tele nd f noto iF ne degli
altri , col diucller i in certo modo dall' vnione della natura; mentre tu effen
do nato parte di cffa , da te ſteſſo te ne fe'reciſo , ma qui cade in acconcio
il dire , che in tuo potere ſta di ritornarti a riunire : il che Dio a niuna
altra parte ha conceduto, che ſegregata ,e reciſa , di nuouo fi tornaffe a
congiugnere. Però confidera la fouranz bontà , che tanto onore conceffe all'
huomo . Poichè nel principio poſe inſuo potere il non di uel'crſi dal corpo intero
, e dopo diuelto, il ritornare, ed il ricongiugnerſised il ricupe rare il poſto
di parte. 30 Come ciafcuno de'ragio . neuoli ottenne dalla natura tutte l'altre
facultà quaſi qua to è capace la condizione del. boz fa € 1li ragioneuoli, così ancora da lei
riceuemmo queſta facultà , la quale è, che in quel modo , che quella tutto ciò
, che le reſiſte , e le oſta, lo conuerte , e rimette nel fato, e lo fa ſua
parte , così l'animal ragione uole può d'ogni impedimen to farſi propria
materia, e ben vſar di quello , a che ella per iſtinto e portata . 31 Non ti
confonda l'imma ginazione di tutta la vita Non iſtare a ghiribizzare pen ſando
quanti, e quali trauagli poſſano ſoprauuenirti; ma in qualunque delle coſe ,
che ti ſi preſentino,interroga te ſtefa ſo : in queſto fatto ,che ci è
d'incomportabile , che ci è d ' intolerabile ? Concioſliecofaa che t'arroſſirai
di confeſſarlo . Appreſſo ricorda a te ſteſſo , che 7 ge 10 14 fel 2 t C a C
che ne il futuro,ne quello che è paſſato t'aggraua , ma ſem pre quello che è
preſente ; é queſto ſiſminuiſce,ſe diſtinta mente lo ſeparerai, e la men te tua
riprenderai, ch'ella non fia baſtante a reſiſtere a que ſto ſolo . 32 Forſe
aſſiſte per ancora al ſepolcro del ſuo Signore Panthea , o Pergamo ? o pure a
quello di Adriano Cabria , o Diotimo ? E ' da riderſene , E ſe aſſiſteſſero ,
ne haureb. bono ſentimento ? E ſe ne ha uefíero ſentimento , haureb bono
godimento di queſto E ſe haueſſero godimento, fa rebbono diuenuti per queſto
immortali ? Non portò il f to , che ancora queſti prima diueniſſero vecchi, e
vecchie, ed appreſſo moriſſero ? Che dun il 762 en 101 JUICE Con 701 dunque
erano perfare quelli, dopo che queſti foffero mor ti 2 Il tuttoè puzza , e mar
cia in yn ſacco . 33 Se tu haiacuta viſta , adoprala , difle quegli ſauia mente
, nel giudicare . 34 Non vedo , che nella conſtruzione dell'animal ra gioneuole
ſia virtù alcuna re pugnante allagiuſtizia : ma fi bene vedo cffer repugnante
al piacere la virtù della con tinenza . 35 Sea quello chepare ap porti a te
meſtizia , detrarrai la tua apprenſione, tu ſteſſo ti ſe’poſto in ſicuro . Chi
è quel tu ſteffo ? la ragione. Ma io non ſono la ragione. Così fia: dunque la
ragione non tra uagli ſe ſteſſa . Maſe qualche altra coſa in te patiſce del L
male 16 han Foi [ um 10 The male, ella
medefima ne formi il fuo concetto. L'impedimento del fen ſo è male della natura
vitale , e ſimilmente è male della na tura vitale l'impedimento del l'appetito
: ed ecci eziandio vn altro parimente impedi mento , e male della conftitu .
zione vegetatiuas. Così duna que l'impedimento dellamé te è male della natura
intel lettiua ; applica : tutte queſte coſe a te ſteſſo. Il dolore, e ? I
piacereti co muotono ? il ſenſo fę n'auuer . drà . Nell'apperire ti ſi poſe
oſtacólo ſe tu ti folli moffo fenza ſottraimento , e rifertias allora farebbe
male delura : gioneuole ;mia fe tu lo riceuí, come coſa comune tu non
fe'dannificato , ne impedito , po es el Bio di tu né ele poſciache nigni altra
cola ſuo le impedire le coſe proprie della mente : perchè in quieta la ne fuoco
, ne ferro , ne ti ranno , ne maledicenza , ne altra coſa del Mondo può pe
netrare :che cheſi faccia della palla, eſſa ſempre rimane tony da.:' 37 E' coſa
indegna il mole ſtar me ſteſſo , mentre a niun ? altro mai di proprio volere ho
dato moleftia Altre coſe cagionano allegrezza in altri; io m'allegro , ſe la
mia facul tà guidatrice ſtarà fana , la quale non habbia auuerſione ad alcuno
huomo, ne adal cuna coſa di quelle , che fuc cedono agli huomini , mail tutto
rimiri con occhi placi di; e riceua ciaſcuno , e dieſſo fi ferua,fecondo il ſuo
pregio. L 2 38 Ve có LIF CA Mo It This 700 TO : Vedi di ſpendere a tuo prò
queſto tempo preſente . Coloro, che più affettano la fama apoftuma , non
conſidc rano , che quelli , da’quali la ſperano ', faranno tali , quali al
preſente ſono coloro , che a lor non piacciono, poichè eſſi ancora ſono
mortali. In ſom ma che t'importa , ſe quelli con tali, o tali voci ftrepitino,
o habbiano di te queſta , o quella opinione ? 39 Prendimise gettami do ue vuoi
: poichè iui ancora trouerò il mio genio buono , e propizio , cioè a dire a me
ſufficiente , purchè habbia e operi quello , che è confor me alla propria fua
condizione. E' forſe coſa che meriti, cheper eſſa s'incommodi l'animo mio , e
peggiori ſe ſteſ ſo con auuilirſi , appctire , confonderſi , e ſgomentarſi ? E
che trouerai, che tanto ine riti ? Non può auuenire coſa a vn huomo, che non
ſia acci dente , che non habbia dell? humano ; ne al bue che non ſia accidente
, che egli non habbia del bue ; ne alla vite , che non ſia della vite ; ne alla
pietra , che non ſia proprio della pietra . Se accade dun que a ciaſcuno quello
, che è folito , e connaturale, perchè t'attriſti ? mentre non è intol lerabile
quello, che la natura comune a te contribuiſce . E ſe ti pigli moleſtia per
qual che coſa eſtranea , non certo efla ti moleſta ,mail tuo giudi cio intorno
a quella . E pure il cancellar quello depende da L 3 te. E ſe ti trauaglia
qualche cofa nella diſpoſizione del tuo animo , chi è quegli , che ti vieta di
rettificare il tuo concetto Con tutto ciò ſe tu ti affanni , perchè non operi
tu ciò , che a te pare ben fat to ? Perchè più toſto non ope ri , che
contriſtarti ? Mavna coſa più valeuole mi oſta Dunque non ti affannare; poi chè
non proccde da te la ca gione del non operare . Ma non par che conuenga di più
viuere, fe ciò non fi fa . Dùn que placidamente finifti la vita : mentre ancora
quegli fa qualche coſa , che muore benigno eziandio verſo colo ro ; che gli
fanno oſtacolo. Osserva che la princi pal parte dell'huomo resta inespugnabil ,
quando in ſe Iter ko fel he UNO steſſa ritirandoſi di ſe ſi con tenta non
facendo quello che effa non vuole, ancorché ſi metta in battaglia ſenza la.
iuto della ragione . Che dun queſarà , quando coll'aiuto della ragione
prudentemen te giudicherà qualche coſa ? Per queſto la mente libera delle
paſſioni è come vn'alta rocca , giacchè l'huomo non ha coſa più forte , nella
quale ritiraro rimanga poi ſempre incípugnabile. Chì dunque queſto no comprende
è igno rante : chi l'ha comprefo , non ſe ne vale,difgraziato. 42 Niente di più
ſuggeri fci a te ſteffo di quello , che portarlo Ic mere priine ap prenſioni.
T'è ſtato riferto , che il tale dice malc di te ; queſto è vn rapporto . Ma L 4
che tu ſij ſtato, offeſo , non ſi contiene nel rapporto . Veg gio , che il
figliolino è am malato , queſto ilvedo , ma che ſia in pericolo nol vedo già.
Dunque reſta ſempre ne gli primi apprendimenti della immaginazione , e non
v'ag. giugnere dentro da te ſteſſo niente d'autantaggio : e così niente ti
ſopragiugne ; anzi aggiugni , che non ti viene nuoua qualunque coſa , che nel
Mondo accade . Il cóco mero è amaro , laſcialo ; le fpine ſono nella ſtrada ,
ſchi fale , baſta ; non iſtar a fog giugnere: e perchè queſte co fe ſono ſtate
fatte nelMondo concioffiecoſa che ſi burle rebbe di te ogn'huomo, che fia
inueſtigatore della natura: come appunto ſareſti derifo da of 12 do De le SI da
vn fabbro , o da yn coiaio , ſe tu li condennafſi , per ve dere nella ſua
bottega fca muzzoli , e ritagli delle coſe , che effi lauorano. E pure que gli
hanno doue gittar queſte coſé ; il che non può fare fuori di ſe la natura
dell'vni. uerſo : maciò che recamara uiglia di queſta ſua arte è, che
circonſcritta in ſe ſteſſa , quan to dentro di fe fi corrompe , e s'inuecchia ,
e appariſce non eſſer più ad alcun yſo , tutto in ſe ſteſſa tramuta , e di nuo
uo di quelli forma cole recen tizin tal guiſa , ch'ella non ri cerca ſoſtanzia
eftrinfeca , ne ha biſogno di luogo per git tarui le coſe più corrotte . Così
le ſono baſteuoli la ſua regione , la ſua materia , e la propria arte . Dzi De
TC O le Dj D D? 7 0 L 5 43 Non andar vacillando nelle azioni; e nelli congreſi
non far confufione . Nelle immaginazioni non andar ya. gandojne in modo alcuno
con Panimo o angoſcioſo, o trop po impetuoſo, non accupare ja vita in fouerchie
faccende. Se ammazzano , fe mandano a fil difpada , fe con efecra zioni
infeftano , che nuocono quefte coſe al conſeruarti Ja mente pura , prudente,
contes nente , e giuſta ? fiati per e fcmplo : le vno auuicinatofi ad vna fonte
di dolce; c limpi da acqua,a quella diceſſe del le ingiurie,non perciò ceffereb
be di porger l'acqua da bere, e fe ancora vi gettafle del fan go , ' e dello
ſterco , immanti nente ella lo ſegregherebbe , e diffiperebbe , e in neſſun
modo Llande agreb Nelli dara 1000 Otrop CINK cord ndan Mocht OCOMO artil СОЛь
modo fe n'imbratterebbe .. Come farai dınque per hauer vna fontana ſempre viua
; e non vn pozzo d'acqua fta gnante ? Merci te ſteſſo ad ognora in libertà ,
ſtando con l'aniino trãquillo, ſchiet to , e modeſto . 44 Chì non sa , che coſa
ſia il Mondo , non fa doue egli fia.E chi non ſa a che fine egli medelino fia
ſtato fatto , non få ne qual'egli fi lia ,ne che co. fa ſia il Mondo . A chi
manca vna di queſte coſe , non può dire a che fine egli fia fatto Chi dunque
pare a te , che ftia più contento , quegli, che fugge le lodi degliadulatoris o
quelli, che nonfanno doue, o quali eſli fi fiano Ti com piaci d'effer lodaro da
vnos che tre volte l'ora maledice Del & zarob limpi edel flerech berty bhe
cfiun do L 6 se ſteſſo ? Vuoi piacere ad huomo, che ne pure ſoddisfà a ſe
ſteffodroddisfà a ſe mede ſimo quegli, che in tutte quafi le azioni, alle quali
pon ma no, ſi pente? Avverti per l'avvenire non ſolo di reſpirare nell'am
biente dell'aria , ma ancora di conformare i tuoi penſieri con l'intelletto ,
che tutte le coſe contiene . Concioffieco fache non meno queſta facul tà
intellettuale fi diffonde, ed entra in quello che la puòat trarre , che quella
dell'aria in quello , che può reſpirare . 46. Generalmente la mali zia non
danneggia il mondo ; e quella che riſguarda il par ticolare , non fa danno ad
vn altro , ma a quel folo e noci ua , al quale ancora è conce duto read Idishi
med quafi ma enie l'am ncora ofieri tele eco cu duto di libcrarſene , qualun
que volta egli ſia pronto a volerlo. Al mio arbitrio è indift ferente
egualmente l'arbitrio del proſſimo , ficome anco il fuo fpiritello , e la
carnuccia : Imperciocchè fe bene ſiamo fatti principalmente l'vno per l'altro ,
niétcdimcno ciaſcuna delle menti noftre ha il fuo dominio particolare ; altri
mente ſeguirebbe, che la ma lizia del profſimo foſſe il mio male , coſa che non
è piaciu ta a Dio , acciò non dependa da altri il far il mio ſtato in felice.
Il Sole par, che fià dif fuſo , c veramente per tutto fi fpande , ma non però con
queſto Ipandimento fi fparge, e perde; perchè queſta ſua ef fuſio Ged at iain
ali doi par yn ci ce fuſione è vn diſtendimento': che però gli ſplendori ſuoi ,
o raggi ſi chiamano in Greco con parola , che viene dallo diftenderk . Ma quale
sia la natura di queſto raggio , tu la potrai conoſcere,fe riguardila luce del
sole penetrata per qualche feſſura in vna ofcura ftanza imperocchéciò ſi fa di
rettamente , e quaſi vien diui fose ſquarciato da ogni corpo folidojin cui
s'incontri no am * mettente più oltre l'aria : e qui ſi ferma,nc inciampa, ne
cade. Tal effuſione , e diffuſione del eſſere della mente , non ell çuamento,
ma diſtendimento ; ficche agl'impedimenti chein. contro le ſi parano non
violen. temcntene temerariamente re fifta , mà refti ſtabile , e illumi. ni ciò
che la riceue. Imperoc chè llo be 1 ih
pier lill chè priua fe ſteſſo di luce, quegli , che non l' ammets te . 49 Chi
teme la morte, o te me la perdita de'fenſi, o qual che altra forte di ſenſo ,
ſe non haurà niun fenſo , non fentirà male alcuno . Se poſſederà vn'altra ſorte
di ſenſo , farà yn altro animante , e non reſterà di viuere . 50 Gli huomini
ſono fatti P'yno per l'altro ; Dunque in ſegna, o ſoffriſci. Altrimente la
faetta , al trimente ſcorre l'intelletto . Ma l'intelletto e quando cau tamente
procede , e quando alla conſiderazione ſi volge , non meno ſi porta per diritto
, ed al berſaglio . S'ha da penetrare den tro alla mente di ciaſcuno e per DO 1]
Te te } 0 re e permetter altresì ad ognu no di penetrare dentro la pro pria tua
mente. Chi fa ingiuſtizia fa vn atto d'empietà . Im perocchè , hauendo la
natura dell' vniuerfo fabbricato gli animali ragionevoli , vno a prò dell'altro
, acciocchè , ſe condo il douere , vno gioui all'altro , e in niuna guiſa gli
muoca , chi traſgrediſce tal decreto di queſta , commette manifeſta empietà
contro il nume' antichiſſiino tra gľ Id dij. Concioffiecofache la natura dell'
vniuerſo è natura di enti , e gli enti hanno vna coral fratellanza con tutte
l'altre coſe eſiſtenti. Di più queſt' iſteſſa fi noma verità , ed è prima
cagione di tutte le cofe vere . Onde chi ſponta neamente mentiſce è empio in
quanto con l'inganno fa in . giuſtizia, come ancora chi in uolontariamente
mentiſce, in quanto difcorda dalla natura dell'vniuerfo, e in quanto ca gion
deformità , ripugnando alla natura del Monda . Im; perocchè ripugna quegli, che
per ſe ſteſſo è portato alla contrarietà delle coſe vere : giacchè haueua
innanzirice uuto dalla natura alcuni in ſtinti, i quali poi eſſo traſcu rando ,
non può ora diſcerne re le coſe falſe dalle vore . E pure chi ſegue i piaceri,
come coſa buona , e fugge il traua glio , comemale, commette empietà. Perchè è
neceſſario, che coftui fi quereli ſpeſſe vol te della comune natura , qua fi
ch'ella faccia diſtribuzioni di beni a traſcurati , ed a fol leciti contra il
lor merito ; effendo che fouente i traſcu rati fieno di piaceri abbon danti, e
di quelle coſe ond'ef fi deriuano ; ed i ſolleciti al l'incontro fieno da
dolori op preſli , e cadano in quelle co fe , che dolore cagionano • In oltre
chi teme i dolori , ha urà ancora in orrore qualchu na di quelle coſe , che
hanno da ſucceder nel Mondo ; e ciò fimilmente ha dell'empietà . chi va dietro
a’piaceri, non s'afterrà dal far'ingiuſtizia , e qucſto Lira Ck Ho che all te:
Ice FCH E re queſto è chiaramente empie tà . Biſogna, che a quelle co ſe , alle
quali la natura comu ne egualmente ſi porta ( per chènon haurebbefatta l'vna, e
l'altra , fe all'vna, e all'altra di queſte coſe indifferenti non foffe ftata
vgualmente pro penfa ) quelli , che vogliono eſſere ſeguaci della natura ,
hauendo i medeſimi ſenti menti , con eſſa ſiano vgual mente affetti. Dunquc chi
a' dolori , ed a'piaceri , o alla morte, e alla vita , o alla glo ria , e al
diſonore , delle quali egualmente fi vale la natura dell'vniuerſo , non è per
fe ſteſſo parimente affetto, chia ra cofa è , che fia empio . Io però dico
valerſi di queſti v gualmente la natura comune, in luogo di dire , che auuengono
vgualmente per certa conſeguenza alle coſe , che ſi fanno, o che vanno ſucceden
do conforme allancico im pulſo della prouidenza , col quale ſi moſſe ſin dal
princi pio ad ordinare queſta bella macchina mondiale, hauendo concepute alcune
ragioni del. le coſe future , e determinate le facultà feconde dell'eſi ſtenze
, delle traſmutazioni, e di fimili fuccedimenti . 2 Migliore , e più deſidera
bil coſa certamenteper l'huo mo ſarebbe ch'egli da quefta vita partiſſe digiuno
affatto ; così dire ,del mentire, del ſimulare , del luſſo , e della fu perbia
: defiderabile dopo ciò ( quaſi come vna ſeconda men profpera nauigazione)
ſareb be , che almeno vno già fazio 1:22 il alla to ali UTA per f j 10 j” 19 21
di queſte coſe ,voleſſe più to fto morendo fpirare , che nel la prauità
continuare viuen do" . E non t'inſegna ancora l'eſperienza a fuggire dalla
peſte ? e la corruttela dell'a niina è aſſai peggior peſte a riſpetto di
quella, che dall intemperie , e mutazione del l'aria , che d'intorno fi fpande,
e fpira : poichè queſta peſte è degli animali in quanto fo no animati : e
quella è degli huomini in quanto fono huo mini . 3 Non diſprezzar la morte , ma
fija quella ben affctto , ef ſendo ancor eſſa yria delle co ſe ; che la natura
richiede ; poichè quale è la giouentù ; la vecchiaia , il creſcere , l'in
uigorire , il naſcere de’denti , la barba , i canuti , il genera re100 nel ICP
1000 dali ell Mei de ant re figliuoli, portargli nel ven tre , e partorirgli, e
altre ope re naturali., le quali prodịco, no le ſtagioni della tuavita , tale è
ancora il diffoluerfi . Dunque queſto è da huomo, che ben ſi ſerue della
ragione ne ſuperficialmente, ne impet tuoſamente, ne ſuperbamente fiporta verſo
la morte ;, ina l'attende come yn'opera del la natura . Nel inodo che tu ora ,
aſpetti o cheſca il fe to del ventre ditua moglic , .com hai da caſpetar l'ora
, nella quale la tua animuccia diqueſto ricettacolo eſca ca dendo . E fe vuoi
ancora vn conforto cordiale , benchè volgareztirenderàſoprammo do prontoalla
morte l'appli cazione alle coſe preſenta nec , dalle quali douraieſſere ſe A
oto des Tak ler jed Simi Jä Teni Nem If feparato , e a'coſtumi di colo ro , con
i quali non t'haurai più da meſcolare : tuttavia con quelli non s'ha da rompe
re , ma ſtudiare di curarli , e placidamente ſoffrirli . Onde hai da
rammentarti, che que ſta ſegregazione s'ha da fare da huomini, i quali non han
no teco glifteſli ſentimeriti : mentre queſto folo potrebbe ſeruirci di
contrappeſo,e rite nerci in vita , ſe ne foſſe con ceduto il conuiuere con quel
li; che haueſſero gl'iſteſifen timenti . Ma tu- ora vedi quanto malageuole ſia
il con uiuere in tanta diffonanza de' conuiuenti . Sicché ſi può di re :
Sollecita o morte a veni re , accioché io non arriui a fcordarmi vna volta di
me ſteffo . 4 Chi rola aurai mpe afait
har caini ebbe 4 Chi péccas contro le ſtefi ſo pecca • Chi opera ingiu
ftamentega ſe medeſimo nuô ce , rendendo maluagio ſe ſteſſo ; è ingiuſto ſpeſſe
volte , non ſolo chi opera alcuna co fa , ma ancora quegli , che nonfa qualche
cosa. Basta la presente opinione apprensiua e la preſente operazione
comunicativa e la presence disposizione, che fi compiace d'ogni cosa , che da
principiocauſante prouen . ga; per iſcancellar l'immagi nazione arreſtar
l'impeto de gli affetti, temprare gli appe titieper mantenere nella ſua facultà
la parte principale . 6 Fra i bruti viuenti è diui:. ſå vnà fòl'anima: c tra i
viuen . ti ragioneuoli è compartita vn’animà intellettuale : fico. M me COlle
auch Tere vad COll ade bel oni qili? mi me a tutte le coſe terreftri è vna ſola
terra , e tutti quanti habbiamo facultà di vedere e facultà diviuere, con vna lu
cc vediamo , c d'un aria respiriamo. Tutti quelli , che partecipano d' vna coſa
co mune a quella, che è del me deſimo genere, anſiofaniente fi portano . Ogni
coſa terrc ſtre inchina alla terra . Tutto l'ymido va inſieme ſcorren
do,ogniaereo ſimilmente : ſic chè biſogna diuidergli a for za . Il fuoco s'erge
a cagione del fuoco elementare . Tutto il fuoco , ch'è quà giù, è così pronto
ad ardere con l'elc mentare, come ogni materia le alquanto più ſecco è facile
ad accenderſi pereſſere meno abbondante di quello , che impediſce l'accenderſi.
Dun que letes re CO me In 170 za que
tutto quello che è parte cipe della comune natura in tellettuale, corre
ſimilmente verſo il ſuo connaturale, anzi più ;: perchè quanto è meglio degli
altri, tanto è più diſpo fto à miſchiarſi inſieme col ſuo famigliare -
Anticameji te dunque furono tra i bruti inuentati gli fciami, le greg ge > i
pollai , e quaſi ynioni d'affetti; imperciocchè ancor? efli hanno animais ecosi
la virtù congregatiua tra i min gliori ſpicca maggiormente, il che non è
nell'erbe , non è ne faffi , non è ne’tegni. Ma tra gli animali ragioneuoli fi
truouano leRepubbliche;lean micizie , le famiglie leraunan ze , e in tempo di
guerra le paci, e le tregue . Anzi nelle coſe piùveccellenti, benchè M 2 ell
fit 01 DINE TTO OSİ [ 7110 Fle 70 7e tra ſe lontane, in qualchemo do vi è vnione
, come a dire, tra le ſtelle, così il deſiderio d'auanzarſi al meglio ha po
tuto operare la ſimpatia ezian. dio tra le coſe diſtanti. Vedi dunque quello
che ora ſi fa . Perchè foli gl'intellettuali ſi ſono ſcordati del conſenti
mento, e dell'affetto tra loro ; e queſto concorrimento in effi ſolamente non
ſi vede; e nien tedimeno, ancorchè fuggano, reſtano accerchiati , e preſi,
poichè la natura in ciò pre uale . E vedrai queſto, che di co , offeruando, che
più preſto trouerai qualche coſa terre ftre non congiunta ad altra terreſtre ,
che vn'huomo dall' altr'huomo totalmente diſ giunto . 7 Producon fruttto e
l'huomo dire deria apo 2126 Vedi fifa. alii enti. oro; mo, e Dio e il Mondo; e
ſi pro duce ciaſcun frutto nelle ſue proprie ſtagioni ; e ſe la con ſuetudine
principalmente ſi ferue di queſto modo di dire nelle vitije altre ſimili
piante, cið poco importa : però la ra gione produce il frutto si proprio , come
il comune; e da quella fi propagano altre tali cofe , della condizione delle
quali è ancora l'iſteffa ragione . 8 Se tu puoi , inſegna ſem pre il meglio a
quelli, che er rano ; e ſe non puoi, ricordati che per ciò fare t'è ſtata data
l'amoreuolezza , e che gl'Id dij ſon amoreuoli verſo que? tali , e tanto ſon
benigni in alcune coſe ,ch'e'dan loro aiu to per la ſanità ,per le ricchez ze,
e per la gloria . E queſto a neft viera 2110 vrela pre edi ceſto erre Ultra
dall ' dile 10 M 3 te lice , o ſeno , dichiara , chi te lo vieta ? 9 Trauaglia
, non come vn tapino, ne meno a fine di pro cacciarti compaſſione, o mara.
uiglia : ma vn folo fia il tuo fine di muouerti , e di fermar ti , fecondo che
la ragione ci uile richiede . 10 Oggi vſcij d'ogni mole ftia , anzi ſcacciai
fuori tutte le moleſtie; poichè quelle non erano eſterne , ma couauano dentro
nelle opinioni . 11 Tutte queſte coſe fami gliari per l'yſo di vn fol dì quanto
al tempo , fordide per la materia , ſono ora tutte le medeſime, quali furono a
tem po diquelli , che habbiamo ſepolti. 12 Le coſe ſtanno in ſe ſteſ ſe fuori ,
per così dire , delle por ch meni dipro mara il 2016 Amal onec 1270 tutte porte
, е da per ſe medeſime , niente fanno del ſuo eſſere , e niente a noi fanno
apparire . Che dunque è quello , che le diſcuopre? la ragione . Non nella
perſuaſione , ma nella operazione conſiſte il bene ,e'l male dell'animal
ragionclio le ciuile: ſicome ancora la vir tù , e’lvizio di queſto non è nella
perſuafione , ma nell'o perazione.Alla pietra fcaglia ta non ſuccede male ſe
caſca , ne bene , tirandoſi in alto . 13 Entra più addentro nelle menti degli
huamini, cſcor gerai quali giudici tu tcma , e quali ſieno elli giudici intorno
a fe ſtelli . 14 Tutte le coſe ſtanno in continua mutazione, e tu ſtef fo in
vna continua alterazio nc , c in vn certo modo cor jenon Lidlo fami Cold de pe
urtel atem bilam ' efter dell corruzione, e così ancora tut to il Mondo . 15
L'errore d’yn altro biſo gna laſciarlo doue è . 16 Il finire della operazio ne
, il ceffare dell'appetito , e dell'apprenſione , e quaſi la loro inorte , e
nulla nuoce : Fa ora paſſaggio all'età,qual'è la pucrile , alladolcfcenza,al la
giouentù , alla vecchiaia . Ogni ſcambiamento di cia ſcuna di queſte è morte .
E per ciò ne auuiene danno ? Paſ. fa adeſſo ricercando il tempo, che ſe’viuuto
fotto l'auolo ; appreſſo, quello , cheſotto la madre, dopo ſotto il padre , e
trouando altre molte diuerſi tà, mutazioni , e termini , di manda a te
medefimo, ſe ve alcun' nocumento . Dunque fimilmente pe manco nel finire , nel
ceſſare , e nel mutarfi del total tuo viuere . 17 Rifletti alla propria tua
mente, e a quella dellyniuer fo , e a quella d'altri; alla tua per farla giuſta
, a quella del I'vniuerſo per rainmentarti di chi ſei parte, a quella d'altri
per conoſcere , le viene da ignoranza , o da animo deli berato ; e nell'iſteſſo
tempo fa tua ragione , che colui e a te congiunto.Sicome tu ſe'ſtato fatto per
dar compimento al la conſtituzione d’yn corpo ciuile , così ogni tua azione
compia la vita ciuile , Dun que qualſiuoglia tua amone , che non iſtà in tal
modo che o proſſimamente, o remo tamente non ſi riferiſca a quc. ſto comun fine
, quella fcon certa la vita , ne le permette , che continui l'iſteſſa ; ed è di
M 5 più fedizioſa , quale è colui nel popolo , il quale diſtrae il fuo partito
da fimile concor dia . 18 Riffc , e giuochi di figlio letti , e ſpiritelli
foftenenti cadaueri ; acciocchè con più efficacia fi rapprefenti il Dra ma del
martorio. Applica alla qualità del la cagione ; c conſiderala aftratta dalla
matcria , dopo preferiui il tempo , in cuitale , è tal coſa in particolare ſia
per più lungamente durare . : 20 Haiſofferto mille coſe per eſſerti nö
ſoddisfatto del la tua mente operante quello , in ordine a cui ella fu fatta :
ma queſto baſti . 21 Quando alcuno ti biafi ma , o t'odia , o con ſomiglian
ticoncctri di te ſparla, rifletti all'animucce di cotoro pene tra 1 nione ? 3
tra dentro , e ſcorgi quali quel. le filiano. Vedrai, che non bi ſogna
trauagliarti per l'opi ch'elli hanno dite , ma è neceffario voler loro be ne,
ftante che, ſecondo la na tura, foto amici, e gl’ladij in ogni manicra li
foccorrono con fogni, e vaticinij, ancora in quelle coſe , nelle qualief fi
difſentono . 22 Queſti fono i rivolgi menti fotto e fopra del Mon do , da vn
ſecolo all'altro. . E la mente dell' vniuerſo oli applica alli particolari , e
fe ciò è , riceir volentieri ciò che quella ti porta : ouero, ſe vna volta
dette la molla , e l'al tre coſe camminano per con ſeguenza , e come vna è
nell' altra; perchè queſti in qual che maniera o ſono atomi, a M 6 corpi 276
LIBRO NONO corpi indiuiſibili : e in fom ma, ſe ci è alcun Dio , ogni coſa ſta
bene : ſe il tutto è a caſo , e tu non le'a caſo? Fra poco la terra naſcon derà
tutti noi ; appreſſo anco ra eſſa fi muterà , e quelle co fc, in cui eſſa s'è
mutata, in in finito fi muteranno , e quelle di bel nuouo fi cambieranno in
infinito . Perciò chi conſi dera queſti maroſi delle mu tazioni, e alterazioni,
e la ve locità di quelle , diſprezzerà ogni coſa caduca. La caufa vniuerfale è
vn torrente , che rapiſce il tut to . Quanto vilc e ancora queſta politicheria
, e queſte faccende humane , ſe filoſo ficamente vno le conſidera , quanto ſono
piene di mocci ? O huomo fa yna volta quello che ora la natura richie de . Se
ti da facultà accorriui, e non riguardare fe alcuno ſe n'accorge : ne hauere
fperan-. za di vedere la Repubblica di Platone : ma contentati ſe la cofa,
ancorchè mcnomiffima , ti rieſce profitteuole , e l'eſito di quella conſidera
non come coſa piccola. Imperocchè chì mutcrà i loro deliberamenti ? e ſenza la
mutazione delli de. liberamenti , che altro farà che yna feruitù di lamentoſi ,
e di fimulanti di obbedire in Ora paffa auanti. Raccontami d'Aleſſandro , di
Filippo, e di Demetrio il Falereo:vedran no eſſi ſe conobbero quel lo , che voleua
la natura vni uerfale , e ſe inſtruirono bene ſe ſteſſi , o fe pure fecero da
recitanti di Tragedia , Niu j -1 no m'ha condannato ad imi tarli: l'opere da
Filoſofo fona fincerità , e modeftia ; non mi traſportare alla faftoſa graui tà
. 25 Conſidera per lo paſſato gregge d'Armenti fenza nu mero, innumerabili
ſacrificij e nauigazioni d'ogni forte, e nelle procelle , e nelle bonac ce ; e
diuerſità di coſe , che fi fanno , che inſiemefi fanno , e che ſi disfanno .
Conſidera ancora la vita già viuuta ſot to d'altri , e quella, che dopo te
s'haurà da viuere, e quella, che oggidi fra barbare genti ſi viue . E quanti
vifono, che non ſanno ne manco il tuo nome ? Quanti pure prefto fe lo
ſcorderanno? E quanti , che ora ti lodano, di qui a po . co t’incolperanno . E
coine non è da fare ftima , ne della gloria , nc d'altro tal, qual a fia . Sij
tu imperturbabile in torno a quello, che da cagio ne eſtrinfeca ti auuiene ,
ela giuſtizia fia nelle operazioni, delle quali tu ſela cagione, cioè a dire ,
che habbiano i moti dell'animo , ele aziciri da terminare nell'operare conforme
al ben comune, co me quello, che a te appartie ne , fecondo la natura.1 526
Molte coſe fuperflue , che ti trauagliano , puoirife gare , le quali ſono
ripoſte to talmente nella tua opinione : e così yn molto ampio cam po a te
ftcffo dilaterai. 27 Concepifci nella tua mē te l ' vniuerfo Mondo , e va
conſiderando il ſecolo , nel quale ſci ; e medita la preſta mutazione di
ciaſcuna cofa ; e particolarmente come è bre. ue il tempo dalla naſcita al diſcioglimento;
quanto è im menſo quello , che è ſtato a uanti al naſcere ; e come pa rimente
infinito è quello, che ha da ſeguire dopo il diſcio glimento . Tutte le coſe,
che tu vedi periranno preſtiſſima mente , e quelli, che al pre fente le
rimirano perire , pre ftiffimamente anch'eglino pe. riranno . E quegli , che
nella decrepità fi muore , paſſerà a Atato pari con quegli , che muore
immaturamente . 28 Quali ſono le menti di coloro , e a quali coſe atteſe rose
per quali cagioni le ama no , ele onorano ? Reputa 11!. de l'animucce di queſti
tali ; perchè hanno apparenza di C nuocere , mentre biaſimano , e di giouare
,mentre lodano. O quanto è vana queſta im maginazione ! 29 Il perire non è
altro che mutazione : e di queſta gode la natura vniuerfale , in con formità
della quale tutte le coſe bene ſi fanno . Ab eter no tutte le coſe ſono ſtate
dell'iſtetfa forma, e così in in finito altre coſe ſaranno. Per chè dunque tu
dì , che tutte le coſc fatte , e tutte quelle , che ſi faranno ſempre faranno
mali? E tra tanti Iddij non mai s'è trouato niuno di tanto va lore , che
poteſſe vna volta correggere queſte coſe ? ma è ſtato condennato il Mondo ad
eſſere coſtretto da mali che mai non ceffano ? 30 La putredine della materia,
che è ſoggetta a ciaſcu na coſa, è acqua, poluere, of ficelli,immondezza , o
pur cal li della terra , come i marmi ; o feccia,comeè l'oro , e l'ar gento; o
peli, come la veſte ; o ſangue, come la porpora , e tutte le altre cofe fimili
. Elo fpiritello ,benchè altro , è tale, e di queſto in altre cofe ſi tra
finuta . 31 Sc'viuato affai in queſta vita trauaglioſa, di mormora rione, e
alla ſciiniatica. A che ti perturbiè che ci è di nuouoa che ti fa attonito .
Lacaufiri, guardala. O forſe la nateriale riguarda quella , fuori di que fte
non è cofa veruna: mna vna volta inuerfo gPIddij diuieni e migliore , e più
piaceuole . 32 Il medefimo è , che tu habbi conoſciutoqueſte coſe per CH sof cz. mi te ; o 2,6 Elo tra per cent'anni
, o per tre . 33 Se quegli peccò, egli ha ilmale , ma forſe non peccò. Certamente,
come in yn corpo , da vna fonte intellet tuale tutte le coſe deriuanose non
biſogna , che la parte fi quereli delle coſe fatte a pro del tutto ; ouero
fonoatomi, e nient'altro : ouero yn me ſcuglio , e diſſipazione , che ti
conturbi dunque? Alla men . te tu dì ſe'morta, fe’perdutå , ſe'rigettata , ti
congreghi , e a modo di armenti ti pafci? O gl’Iddij non poſſono far niente , o
lo poſſono. Se non poſſono a che li preghi? ma ſe poſſono , perchè più preſto
loro non dimandi , che ti concedino di non temere coſa alcuna, che ſi ſia di
queſte, ne di bramare quella , ne di do clie 012 che 2012 VII CITI leer le dolerti
di qualſiuoglia di effe più toſto , perchè eſſe non ſi habbiano , che acciò fi
hab biano.Imperocchè,ſe nel tut to poſſono foccorrere agli huomini , poſſono
ancora in torno a queſte coſe giouare . Ma forſe dirai. Poſero gl'Id dij queſte
coſe in mio potere. Non è dunque meglio valerſi con libertà di quello, che de
pende da te , che laſciarti di ſtrarre con feruitù , e baſſezza intorno a
quello , che da te non depende ? Machi ti diſſe , che gli Iddij non aiutano in
quelle coſe , che ſono in no ſtro potere ? Comincia dun que a pregargli intorno
di effe e vedrai. Prega il tale diccn. do: come potrò io godere co . lei ? tu
anzi dì; come potrò io non deſiderar di goderla ? vn altre dichi 11001 Thebe
elcut e agli Ora in Quare 8 !!!! Orere valení hede altro: come mi libererò io
da colui ? tu dì: come non haurò biſogno di priuarmene? vn al. tro : come non
perderò il fi gliolino ? tu dì : come non temerò di perderlo ? In ſom ma in
queſta maniera indirizza le tue preghiere, c conſidera che ne ſuccede. 36 Dice
Epicuro : Nella malattia i ſuoi diſcorſi non ef ſere ſtati intorno alli pati
menti del corpicciuolo i ne meno con quelli , chelo viſi tauano hauer di coſe
ſimili fa . uellato : ma hauer ragionato filoſofando ſopra la naturą delle coſe
premeditate; tutto intento a queſto , cioè, come. partecipando la mente di co
tali mozioni , ch'erano nella carnuccia, ſteſſe imperturbabi. le conſeruando il
proprio be ortida lezza dar idilli 110 i in no dur dielli dicas reca troi tre
ne. Ne hauer dato occa fiorea' medici, che ſi vantaſſero d'ha uer operato
qualche coſa, ma che contuttociò ſe n'andaua tirando'auanti la vita tran
quillamente,e bene.Il medeſi. mosch'egli fece in quella ma lattia, tu hai da
fare, ſe ti ſen . tiffi male, o ſe ti trouaſſi in al. tro trauaglio . Poichè il
non partirſi dallaFiloſofia in qual fiuoglia cofa , che vada acca dendo ; e il
non applicare alle bagattelle degl'idioti' , e fofi fti è comune diqualſiuoglia
fetta , è di ſtar fiffo ſolo nella coſa, che al preſente l'huomo fase nello
ſtrumento permez zo del quale ſi opera :" ) 37 Se vienioffeſo dalla sfac.
tiạtezza di alcuno, ſubito in : terroga te fteſfo : Può forſe il Mondo essere senza
sfacciati non 0 ca fara ' cobs vanda ta tra ētiles trinal non può . Non
ricercare dunque l'impoſſibile : poſcia chè queſti è yno di quelli sfacciati, i
quali è neceſſario, che ſieno nel Mondo. L'ifter ſo ſia del macchinante, e del
l'infedele , e di qualſiuoglia vizioſo. Habbi qucſto ſempre in pronto ; Quando
ancora ti ricorderai eſſere impollibile , che tal forte di gente non ſia, tu
ſarai più placido iuuerfo ciaſcuno di eſſi . Sarà pari mente gioueuole il
conſidera. re ſubito qual virtù habbia dato la natura all ' huomo contra di
queſto vizio : men tre ha dato , come antidoto contra l'ingratitudine, lc mã ,
ſuetudine , come contra d'vn altro qualche altra virtù . E ſopra tutto t'è
lecito di diſin gannare chi errò . Ora ogni aqual 1107 ve all chat uoghi JOMO
m.cz sfac it feil nii 10 ,no,che erra , Si deuia da quel, che gli fu propoſto ,
e va va gando . E poi in che ſe'ſtato danneggiato ? poſčiachè tro uerai ,, che
niuno di coloro , contro de'quali tu ſei eſacer bato , habbia operató tal fat
to,dal quale la tua inenté po teiſe cffere peggiorata ; men tre in queſto è
ogni ſuſſiſten zadel tuo dannose malé.Che đi male , o di ſtrano è ſtato fatto ,
ſe vn'ignorante opera da ignorantc ?Guarda,che tu non habbi più toſto a ripren
dere te ſteſſo del non hauer hauuto riguardo , ch'egli for: fe per commettere
tal man camento ; done tu haueui i motiui della ragione à conſi derare, ch'era
veriſimile; che quegli in tal modopeccaſſe : E nientedimeno ſcordato ti maAtato
170 1001 opo per ter marauigli, ch'egli fia caduto? quel principalmente quãdo
tu l'ac. the cuſi, come d'infedele , o d'in . grato, rifetti in te ſteſſo :con
cioſliecoſache più che manis oros feſtamente l'errore é tuo , ſe credeſti , che
yno sin tal mort fue do diſpoſto , e haueſſe ad of feruare, la fede ; e ſe
facen dogli delle grazie , non le haidate coinpitamente, ne in che modo da
riceuere dall'iſteſſa tua azione tutto il frutto ſu bito . Perchè qual coſa più
deſideri , che di hauerbenefi cato vn'huomo? e ciò non ti baſta, che tu hai
operato coſa conforme alla tua natura ? e di quefto ricerchi lamercede ? come
ſe l'occhio domandafle la ricompenfa , perchè vede , ei piedi perchè camminano
. E fi come queſti membri ſo N no 7210 Toy tell for 2014 alf che Te ! 2 ho
farti a queſto effetto , e ſe condo la loro conſtituzione operando si ne
ritraggono quello che è loro proprio : così l'huomo dalla natura pro dotto
benefico , quando be nefica , o nelle coſe mezzane coopera, ha operato, ſecondo
la fua condizione , e ottiene quello , che a lui ſpetta . Fine del Libro Nono .
LI 10 291 180 ,CH tituziar TAGION propri cura on do be 70272 cond l’Anima ſarai
tu mai Ovna volta buona, e ſemplice , e vna , e quda, più ſplendida del corpo ,
che ti circonda guſterai tu giammai della diſpoſizioneamicabile e caritatiua
quando farai pienamente fornita,e von bi. fognofa, e di niente altro de
fideroſa , e di niente o ani mato , o inanimato anida, per N 2 prender piaceri
? ne di temo Po , nel quale più lungamen te habbi da fruire : ne di luo go , o
paeſe, o buona tempe. rie d'aria : ne d'huomini au uenenti ; ma ti compiacerai
del preſente ſtato , e goderai di tutte le coſe a te preſenti , e inſieme
perſuaderai a te Itefla , che tutto ciò , che ti fia dauanti , tutto bene ti
ſtia , e che dagl'Iddij a te venga , e ti parrà bene tutto quello , che a loro piacerà',
e quello , che da loro ſi concederà s'in riguardo della ſalute , e con
ſeruazione d'vn animal per ferto, buono, e giuſto , ebel los é quello ,
chetutte le co fe genera; contiene, circon da , e abbraccia , le quali fi
diſſoluono , generando altre cofe fimili . Sarai dunque finalmente talc , che
tu ſij atta à viuere in cittadinanza con gl’Iddij, e con gli huoinini in modo
che tu non c'habbi da dolere di quelli in coſa alcu na, ne quelli t'habbiano a
condannare . 2 Oſſerua quello, che la na tura tua richiede in quanto dalla mera
natura vien diret to : poſcia fa quello , cab ) braccialo , fe la natura tua ,
7 come diviuente , per queſto non ſia da peggiorare • Ha urai daoferitare
appreffo ,che 1 coſa richieda la natura tua , come di viuénte, e tutto ciò f
hai da riceuere , ſe da queſto la natura tua come quella d'un animal
ragioneuole , , nó fia perdiucnirne peggiore, e'l ragioneuole, nell'iſteſſo
tempo ancora ciuile . Ditali 01 N 3 regole ſeruendoti non andar cercando altro
curioſamente . 3 Tutto ciò , che e ' auuie ne, o in modo ti fuccede che ſij per
natura abile a com portarlo , o pure a non com portarlo . Se dunque t'accade
nella maniera , che puoi fof. ferirlo , non l'haucre a male ma
ſopportalo,fecondo chefe naturalmente idoneo'; fe poi non fe'idoneo per
fofferirlo , aðn ti diſguſtare: perciocchè, confumando té , confumerà fe
parimente . Niente dimet no ricordati , che tu ' se fatto per fofferirc
ognicoſa ; ' eche ſia in potere della tua opinio ne di farla tollerabile ,
cfof. feribile, fecondo il concerto che farai, che quello ti conferiſca , o che
ti conuenga ſofferirlo. Se qualchuna erra man fueramente s'ha da inſtruire , e
moſtrargli quello , ch'hab , bia traucduto . Però ſe ciò non ti rieſce , la
colpa è di te ſteffo , anzi ne meno di te ſteſſo . 5 Qualunque coſa c'auuie ne
, queſta ab eterno ti ſi prc. paraua , e l'intralciamento delle cauſe fin
dall'eternità fi aggomitolaua inſieme con Peffer tuo , e con quelli au
venimenti. 6 O fieno gli atomi , o ſia la natura , ftabiliſcafi primie ramente
che io ſon parte dell'yniuerfo , che la natura gouerna ; appreffo, che io ho
vna famigliarità in vn certo modo con le parti della me deſima forte; pofciachè
ricor dandomi di queſte coſe , in quan 40 TO ON ng N quanto io ſon parte,non
pren derò a male coſa alcuna , che venga compartita dall'vni uerlo :
concioffiecofache ni ente , che conferiſca all'vni. uerfale può nuocere alla
par te :imperocche non vi è coſa , che all'vniucrfo non conferi ſca.E ciò hanno
comune tutte le nature ; e quella del Mondo ha queſto di più , che da niu na
cagione eſtrinſeca può ef ſere forzata a produrre cofa alcuna a ſe nociua ; e
ſecondo quella ricordanza , che io fon parte di talvniuerfo, mi com piacerò
ditutto ciò , che au uiene ; e ſecondo che io ho fi fatta famigliarità colle parti
, della medeſima forte , non o pererò coſa , che non ſia co municatiua con
queſte , ma più toſto porrò mira alle parti della medeſima forte , e condurrò
ogni mia inclina zione all'vtile del comune , e dal contrario me ne ritrarrò
Queſte cofe così da te con dotte , ne ſegue neceffaria mente, che ci traſcorra
la vi ta felice,quale ſtimereſti quel. la d'vn citttadino , che gui daſſe il
ſuo viuere in azioni vtili a i cittadini , c.abbrac ciaſſe tutto quello , che
dalla città a lui determinato viene. 7 A tutte le parti dell'vni uerſo , quelle
dico , che il Mondo contiene , è di necel ſità il corromperſi ,cioè a di re,
l'alterarſi, ma ſe aggiungo, ciò , che loro è necellario , el fere dannoſo, non
ſi gouerne rebbe bene l'yniucrfo , eſſen do le parti di lui nell'altere zione
diſpoſte a corromperſi in diuerſe maniere Diremo N dunque, o che la natura
ftef- . ſa intraprendeſſe a fabbricare il male alle ſue parti , e le fa ceffe
fuggette al male , e che di neceſſità caſcaſſero a far il male , o'che
inconſiderata mente non s'accorgeſſe , che le faceffe tali : ma ne I'vno' , ne
l'altro certamente è da credere . E ſe qualcheduno laſciando da yn canto la nas
voleſſe dir , ch'effe ſom no così nate , quanto ſarebbe ridicolo nell'iſteſſo
tempo il dire , che la naſcita loro le porta , come parti dellyni uerſo ,alle
mutazioni, e in ſieme marauigliarſi, e hauer ciò a male , come ſe auuenifs ſe
fuori della natura dell'yni. uerfo ? Tanto più , che la dif ſoluzione vien
fatta in quel le coſe , delle quali ciaſcuna è compoſta , e conſiſte . Im
perocchè , o è diſgregazione degli elementi , dequali le coſe eran permiſchiate
, o conuerſione del folido nel terreſtre ; o dello ſpirituale nell'acreo , in
modo , che queſte coſe fi ritornino nella ragione dell'vniuerfo : o è che dopo
più periodi di temu ро ſe ne vada in fuoco , o po re con perpetue viciffitudini
fi rinnuoui. E queſto folido , e queſto ſpiritale , non t'im maginar , che fia
dalla prima naſcita , perchè tutto queſto l'altro giorno , o al più tre di fa
dall'alimento ; e dall'aria attratta riceuè l'accreſcimen to . Dunque queſto ,
che ri ceuè fi muta, non quello che la madre partori; e,fupponi, che - quello
ti riduce affai N 6 vicino alle qualità del ſug getto particolare , che a ri ſpettodi
quello , che ora fi dice, ſecondo la mia opinio , ncé nicnte . 8 Quelli titoli
, che ti se poſto dibuono , di modeſto , di verace , d'accorto , dipru dente ,
di magnanimo , au uerti che giammai non ti ſi cambino, e,ſe li perdi , ſolle
citamente torna a ripigliarli . Ricordati, che col nome d'ac corto ti ſi
ſignifica l'attenzio ne, che tu deiporre per com prendere diſtintamente ciaf
cuna coſa ſenza abbarbagliar. ti la mente : con quel di pru dente , la
ſpontanea approua zione delle coſe , che dalla natura comune vengono di
Itribuite: con quel di magna. nimo , l'alcanzamento della particella del fenno
ſopra i moti della carne , ſieno aſpri, o morbidi , intorno alla glo rietta ,
intorno al morire , o a coſe si farte . Se dunque tra queſti nomiriſtrigni te
ſteſſo , e di riceuer queſti titolida al tri non ambirai , farai yn al tro , e
darai principio a dif ferente vita. Concioſliecofa che il proſeguire d'eſſer
come finora ſe'ſtato , e ſtraſcinarti in tal vita , e imbrattarti , è da troppo
inſenſato , e da in namorato del viuere , e da fi mile a quelli che, combatten
do colle beſtie, reſtano ſmoz zicati , i quali,pieni di ferite , e di marciumi,
ſi raccoman dano ad eſſere riſerbati fin ål giorno ſeguente,per rigettar fi di
nuouo , così come ſono alle medefime'vnghie , e zan ne. Interna dunque te
fteffo nella confiderazione di queſti pochinomi, e ſe puoi man tenerti in quelli,fermati,
qua fi traſportato a ſtanziar' inal cuna dell'Iſole Fortunate.Ma fe t'accorgi
chetu ſcappi fuo. ra , e non reſti ſuperiorez riti. rati con ardimento in qual
che cantone , doue fignoreg gerai, quero in tutto eper tut to eſci di vita ,
non iſdegnan doti, ma con ſemplicità , li bertà , e modeftia ; mentre non hai
pretefo altro in queſta vita che di cosi vſcirne. A conſeruarti peròla memo ria
di queſti titoli grande mente t'aiuterà il rammentar. ti degl'Iddij ; e come
quelli non vogliono eſſere adulati , ma chei ragioneuoli tutti so afſomiglino a
loro. E come ! 1 il fico fa quello , che appar tiene al fico , e'l cane opera
da cane , e l'ape da ape , così Phuomo da huomo . 9 Il giullare, la guerra, lo
, sbigottimento, il terrore , la feruicù ſcancelleranno coti dianamente da te
que' ſacri decreti,che tu eſaminator del la natura ti fe'nella mente tra ſmeffo
coll'immaginazione . Però abbiſogna conſiderare il tutto , e operare in modo
che inſieme s'habbia da adempie re quello, che la congiuntura porta, e che
nell'iſteſſo tempo ciò che s'è fpeculato ſi metta in opera ; e la franchezza ,
che s'acquiſta dalla ſcienza in torno a ciaſcuna coſa , fi con ferui occulta sì
, ma non - for terrata . Dunque quando go derai della ſemplicità ? quai do
della grauità d e quando della notizia di ciaſcuna coſa in particolare, quale
ſecondo la ſua ſoſtanzia ella fi fia , e qual luogo habbia nel Mon do , e per
quanto debba du rare , e di quali coſe ſia com poſta , e chifia' per hauerla ,
e chi fienoquelli che poſſono darla , e ritoglierla a · 10 Il ragnetto
grandemen te s'infuperbiſce per hauer predato vna moſca : ma vna perſona pervn
leprotto, altri per vn'alice prefa nella rete , e altri per i porcaftri , .
vn'al tro per g’orſie altri per i Sar . mati. Non faranno queſti la droni fe
eſaminerai i conce pimenti della mente loro ? 11 Seruiti del metodo fpe
culatiuo , oſſeruando , come tutte le coſe in fe RECIPROCAMENTE fi trafinutano
, e di con . tinuo ſta applicato,e intorno a queſta parte eſercitati ; im
perocchè niuna coſa ti cagio nerà altrettanto la magnani mità . Del corpo ſi
Spogliò . E conſiderando , come ben pre ſto partendo dagli huomini, gli
biſognerà laſciar'il tutto , ſottopoſe intieramente ſe ſteſ ſo alla rettitudine
' , nell'ope rar quello , che da luidepen de , e alla natura dell'vniuer ſo
negli altri accidenti . Ma che dica alcun di lui , ouero creda , o faccia
contro di lui , ne pur colla mente vi bada : contento di queſte due coſe ,
dell'operare giuſtamente ciò che al preſente opera ; e di compiacerſi di quello
, che a lui preſentemente vien diſtri buito , e libero da ogn'altra occupazione
, e ſtudio , non altro vuole che paſſarſela dirittamente in vigor della legge e
ſeguir Dio ,che a dia rittura cammina . Perchè hai da vſare il ſoſpetto ,
quando ti è lecito di conſiderare quel che ſi dee operare e fe lo conoſci ,
proſeguirai in quel lo dibonariamente , e fenza mai voltarti indietro : ma fe
tu non lo conoſci , trattieni il giudicio , e feraiti di confi glieri ottimi.
Se poi ii ſucce dono in contrario di queſto altre coſe , cammina pruden temente
fecondo l'occaſioni , che ti s'offerifcono,adcrendo al giuſto, che fecondo
l'appa renza ti fi porge innanzi: per chè è boniffima coſa arriuare a quello,
nel quale il non ac certare ſia caduta . Quegli , che in tutto ſegue la ragione
è inſiememente agile, e poſa to , e vnitamente viuace, e co Itante . 12 Subito
che dal forno ſe fuegliato interroga te fteffo , ſe hauratti a importare , che
quello che è giuſto é, retto , da qualch'altro fi efeguiſca? Non t'haurà a
importäre . Ti fe'forſe ſcordato, che queſti , i quali ſi vanagloriano nelle
lodi, e ne biafimialtrui , tali ſono nel letto , e tali nella menfa : e quali
coſc fanno , quali fuggono , quali ambi fcono , quali naſcondono quali
rapiſcono', non con le mani, o'con i piedi , ma con la digniffima parte di loro
, colla quale ,volendo jacqui ftar potevano la fede, la mo deſtia , la verità ,
la legge, e'l buon genio . 13 Il ben diſciplinato , e modefto,dice alla
natura,che da il tutto , e riceue: Da ciò che vroi,ritogli ciò chevuoi:ne
queſto dirà con tracotanza , ma con pura obbedienza pienezza di gratitudine
verſo quella . 14 Poco è quello che ti re ſta ;paſſalo come tu ſteſſi in vn
monte : imperocchè niente importa che qui , o lì fi ftia , quando doinunque fi
fia , s'ha da viuere nel Mondo , come in vna Città . Veggano , eri conoſcano
gli huomini yn huomo vero , che viua con forme alla natura . Se non lo
ſopportano , l’ýccidino: per chèqueſto èmeglio che viuer nella maniera di
quelli. !! 15 Tu non timpiegherai più tutto in difcorrere qual fia, l'huomo
dabbene , ma proccurerai d'eſſer tale . 16 Conſidera del continuo tutto l'euo e
la ſoſtanzia vni uerſa ; e comeognicoſa par ticolare riſpetto alla ſuſtan zia è
come vn granello di mi glio ; e riſpettoal tempo vn roteare di trapano : e
appli. candoti a ciaſcuna delle coſe prelenti, conſiderala già nel disfacimento
, e nellamuta zione , e comenella putrefa zione,o diſlipazioncs o ſecon do che
ciaſcuna coſa è ſtata fatta in ordine al finire. Con. ſidera quali fono quelli
, che, mangiano,che dormono, che attendono alla generazione , che mandano fuori
gli cſere menti , t. altre coſe fimili : appreſſo quelli cheſignoreg : giano
gli huomini , e s'inſu perbiſcono , o li ſdegnano , e come fuperiori inſultano
, e pure poco innanzi a quanti feruiuano , e per quali occa fioni, e di quì a
poco in che fi ridurranno 17 Ad ognuno conferiſce quello , che apporta a ciaſcu
no la natura dell'vniuerfos, e allora conferiſce quando ella l'apporta . La
terra ama-cer. tamente la pioggia, amaque ftaianco l'almo etera , amai
Mondod’eſeguire quelloche ha da effere lo dico dun que al Mondo : '10 ti Tono
compagno nell' amore . Non fi fa ancora queſto se fi dice ; che s'ama di far
quefto ; 0 quello 18 O quà tu viui , e a queſta vita fei di già accoftumato , o
elci di effa, e ciò era quello , che tu voleui , e hai finito l'officio tuo ;
fuori di queſto non c'è altro . Dunque ita di buon animo . 19 Habbi ſempre per
cui dente , che ogni luogo è fi mile ad vna campagna, e che tutte le coſe
rieſcono le me. deſime a chi ſtia fopra ad vn alto monte , o sul lido del mare
, o douunque ti piaccia . Perchè chiaramente incon trerai da pertutto quello
che diſie Platone : la greggia Ata torniata di fiepi? ful monte 501 Che coſa è
in me la mérite mia 2 e quale ora io la fac cio ? Ache di quella di pré fente
mi ſerito a forfe, che è qualche coſa vacua d'ogni in telligenza ? forſe è
qualche cofa diſciolta, e diſtratta dalp accomunamento di forfu qualche coſa
liquefatta,e me ſchiata nella carnuccia ,ſicchè habbia da commutarſi con quella
? 20 Chi fugge dal padrone chiamafi feruo fuggitiuo: la legge è la padrona,
echi ope ra contro la legge , é fuggiti. uo . E inſieme , chi ſi da alla
malinconia , o alla collera , o al timore , per qualche coſa delle ordinate ,
che già ſon fatte , o fi fanno , o ſono per farſi da quello, che governa il
tutto , che è legge, così det ta dal diſtribuire a ciaſchedu no quello , che
gli vienę. Chi dunque fi daal timore; o alla malinconia , oall'ira è feruo
fuggitiuo 21 Depofto che alcuno ha lo ſperma nell'utero , fi dipar tegte
appreſſo , qualch'altra cagione raccogliendolo , lo perfeziona , e compie il
feto : di qual materia ? è quale è ? ſimilmente tramiſe l'alimento per la gola
, e poi qualche altra cagione raccogliendolo, produce il ſentimento, l'ap
petito , la vita , e la robuſtez za , e altre coſe ( c quante , c quali ? )
Biſogna dunque, che tu contempli quelle co fe , che ſotto tal copertura ſi
fanno, e in queſta manicra ri conoſcere la facultà come noi vediamo, c quella
cheaggra ua , e quella cheſolleua, non con gli occhi, ma non meno euidentemente.
22 Del continuo conſidera, come tutte le coſe ſono tali , quali ora ſi fanno, e
già ſono ſtate; e conſidera quelle , che ſono per eſſere , erappreſen O tatele
auanti agli occhi come intiere fauole , e ſcene , cun forme alle coſe le quali
o per tua eſperienza , o per antichi racconti ti fono note . Verbi gratia tutta
la Corte di Adria no, tutta la Corte di Antoni no, tutta la Corte di Filippo, di
Alessandro, di Creso, poi chè tutte quelle erano l'iſteſ fe, che queſte , variando
ſolo ne'perſonaggi. Immaginati , che que gli, il quale per qualſivoglia coſa ſi
rammarica , e s'afflige, è fimile ad vn porcello , che fi macella calcitrante ,
e gru gnente; ne è diuerfo chì pian. ge solo ſopra il letto con si lenzio la
noſtra dappocaggi ne ; e immaginati , che al fo lo animal ragioneuole è con
ccduto d'accomodarſi volon ta hi volontariamente
agli accidenti , e l' accomodarli ſemplicemen te è a tutti neceffario. 24 In
ciaſcuna delle coſe , bi che tu operi applicando a parte a parte la mente, in
tcrroga te ſteſſo , le la morte 01 pare terribile a cagione , che habbiamo a
reſtare priui di e quella tal cofa . 25 Subito, che tu ti offendi per l'altrui
peccare ,, rientran do in te ſteſo , fa tua ragione, 111 ſe in caſo fimilcru erri
: come a dire giudicando, che ſia co fa buona la moneta , il piace re , e la
glorietta , e altre co ſe sì fatte. Perciocchè con fi qneſta conſiderazione
preſta mente ſmorzerai la collera , venendoti inſieme in mente , che colui
opera forzatamen te . Che ha egli dunque da fare? ſe è in tuo potere , libe
ralo dalla violenza. Vedendo Satirione, vno de Socratici , immaginati o
Eutichete , o Himene : e ve dendo Eufrate , immaginati di vedere Eutichione , o
Sil uano : e vedendo Alcifrone , di vedere Tropeoforo ; e ve dendo Senofonte ,
immagi nati Critone , o Seuero : e ri mirando te ſteſſo , immagina ti
qualcheduno de ' Ceſari , e in ciaſcun altro qualche coſa {imile a proporzione
. Ap preſſo ti ſouuenga , doue ſo -no dunque quelli? o in nilt no , o in
qualſiuoglia luogo . Così di continuo vedrai le coſe humaneeffer fummo, vn
nulla ; maſſime fe eandrai rammentando , che il mu tato vna volta per tutta
l'infinità de'ſecoli non tornerà ad accadere . E tu quanto tem po ſtarai a
mutarti ? perchè dunque queſto breue tempo non ti baſta per degnamente paſſarlo
? qual materia, e qual foggetto abborriſci ? che al tro ſono tutte queſte coſe
, che eſercizij della ragione, la quale accuratamente ha con fiderato , e
diſcorſo ſopra la natura di quello , che è nella vita? Perſiſti dunque finchè
tu ti renda famigliare queſti , in guiſa d'vn gagliardo ſtoma co che ognicofa
abbraccia , e come il chiaro fuoco di qua lunque coſa , che tu gli butti dentro
ne forma fiamına , e fplendore. Non poſſa alcun veritie ro dire di te , che tu
non se {chietto , o huomo dabbene. Il Do le ai 0 3 .ma mentiſca chiunque di te
ha fimile opinione . E rutto queſto è in tuo potere . Per chè chi t'impediſce ,
che non fij huomo dabbene , c ſchiet to ? A te folo ſta lo ftatuire di non
voler viuer più , ſe tik pon farai tale : imperocche non comporta la ragione ,
che tu non ſij tale. Che coſa è , che ſi pora fa intorno a queſta materia
rettiſſimamente operare , je dire ? qualunque coſa queſta fia è lecito di farla
, e dirla , e non metter préteſto d'effe re impedito . Non prima cef ſerai di
lamentárti , che tu ſij ridotto a queſto , che quale è agli huomini voluttuoſi
il luſſo , queſto è a te l'operare nella ſoggetta , e ſommini Itrata materia ,
conneniente alla conſtituzione humana Imperocchè s'ha da concepi re perdelicia
tutto quello , che farà lecito d'operare con forme alla propria natura , e
queſto è lecito in ogni luogo. Perchè al cilindro non è con ceduto di portarſi
per qualſi uoglia luogo col proprio mo. to , come ne meno all'acqnas ne al
fuoco , ne ad altre coſe , le quali ſono rette dalla na tura, o dall'anima
irragione uole ; eſſendo molti li rat tenimenti , e gli oſtacoli:ma la mente ,
e la ragione può . penetrare pertutti gl'impedi menti, ſecondo la ſua natura ,
e a ſuo beneplacito . Queſta facultà , poſta che tu te Phai innanzi gli occhi ,
fecondo la quale la ragione potrà portar fi per tutto , come il fuoco in 04 alto
, come la pietra al baſſo , come il cilindro per dio , nicnt'altro ricerca. Per
chè gli altri impedimenti che. procedono o dal corpo , ch'è yn cadauero , o
ſenza l'opi nione , e inchinamento dell' iſteffa ragione , non fanno . leſione,
ne apportano danno alcuno , altrimente a yn trat toil patiente di quello diuer
rebbe cattiuo : perciocche in tutti gli altri apparatid'opera, quel danno , che
ad alcuno auuiene rende peggiore quel lo , che lo patiſce . Ma quì , le è
lecito il dirlo , ſi fa l'huo. mo migliore , e più degno di lode , ſeruendoſi
rettamente di queſti incontri . In ſomma ricordati, che a colui, il quale è per
natura cittadino , nien te nuoce , che alla Città non 1 nuoca: e a queſta non
fa dan no chi alla legge non fa dan no . E niuna di queſte , che chiamano
difgrazie offende la legge . Quello dunque che non offende la legge , non
offende ne la Città , ne il cittadino , - 29 A quello che gia è toc co da veri
dogmi , è fuficien te ogni piccoliffimo, e ordi nario incontro per ricordarli
di sbandire ogni dolore , e ti more . Quale è queſto ? Delle foglie altre il
vento a terra abbatte, Altre produce il verdegiante bosco ; Quando la primauera
fa ritorno. Cosi ſuccede alla natura lumana', Che mentre Spriiita l’vil ,
l'altro ; dien em . Fogliucce fono i tuoi figlio lini : fogliucce ancora que
fti , alle acclamazioni de qua 70 ol 70. di ite yle 00 05 322 quali ſi da tanto
credito , e che parlano bene del fatto tuo ; o pure per lo contrario quelli ,
che maledicono , o tacitamente biafimano , o di leggiano:fogliucce ſimilmen te
ſono quelli, i quali aderi ranno alla tua fama dopo la tua morte . Perchè tutte
que fte coſe naſcono al tempo della primavera, dopo il ven to le butta a terra
, e appref fola felua in luogo loro altre produce. La breuità del tem po'è a
tutti comune. Ma tu ogni coſa fuggi, e appetiſci tutte le cose , quafi
chefoffero per eſſer perpetue. Tra poco tu ferrerai gli occhi , e vn al tro
piangerà quello , che ben preſto ti porterà alla ſepoltu . 30 L'occhio fano è
dime ra . Itie ftiere , che veda tutte le coſe viſibili ; e non dire : Amo ve
dere il verde , che queſto è perchi patiſce di viſta ; e l'v dito fano , o
l'odorato biſo gna , che ſieno pronti a tutte le coſe da vdirſi, e da odorar fi
; e lo ſtomaco ſano a tutte le cofe , che nudriſcono : pa rimente , come yna
macina dee eſfer ammannita per tuta te le coſe da macinare , nell' ifteſſo modo
la mente ſana dee effer difpoſta a tutti gli auuenimenti ; maquella , che dice
: Sieno faluii figliolini , e tut ti lodino quello, che io farò ; fono occhio ,
che cerca il verde , o denti , che cercano il tenero. Niuno è talmente feli .
ce , che qualcuno di quelli , che ſi truouano alla ſua morte O 6 non ſia per
godere di qucl . cattivo accidente . Era egli di valore , era fauio ? non fa rà
alla fine chi del medeſimo fra feſteffo dica ? reſpireremo pur una volta da
queſto pedante , Non era faſtidioſo con alcuni di noi, ma io m'accorſi , che
tacitamente ci riprendeua . E queſto d'vn huo mo di valore;main noi quan te
altre coſe ci ſono , per le quali molti bramano liberarſi da noi ? queſto
dunque confi dererai nel punto del morire ; e meno trauaglioſo ti riuſcirà
diſcorrendo come ſegue. Da quella vita io parto , dalla quale quelli , che meco
co municano , e per li quali ho trauagliato intante cofe , ho pregato , m'ho
preſo tanti penſieri, quegl'iſteſſi deſide rano ich DO 100 Ilo son O le rano ,
che io me ne vada, fpe randone facilmente da que ſto qualche ſollieuo . Chi
dunque non saccomoderà a non far più lunga dimora in queſte parti? Non partirai
per ciò da quelli men verſo foro benigno; majconſeruando il proprio tenore ,
amoreuole , beneuolo , e propizio : e non come ſe foſli per forza ſtrap pato ,
ma come a quegli, che felicemente trapaſſa , facil mente l'animuccia ſi
diſtacca dalcorpo , così biſogna , che fi faccia queſta ſeparazione. dalle coſe
preſenti ; giacchè la natura con quelle ci vnì , e congiunte . Doue ora ti diſ
giugne ? mi diſgiungo perciò, come da famigliari, non già con renitenza ,ma
fpontanea mente ; poichè queſto anco rfi [ rà 12 y 0 0 ti ra è vna delle coſe
conformi alla natura . 32 In tutti gli atti , che da ciaſcuno ſi fanno , cerca
d'af fuefarti, per quanto c'è poſsi bile, di ricercar dentro di te: Il tale fa
quefto , per qual ca gione ? comincia però da te medeſimo , e printieramente
eſamina te fteſso . Ricordati , che , comequelle cordicine , che tirano i
bambocci , non appaiono , così quello , che t'addolora , è dentro nafco fto .
Quello è la perfuafiga , quello è la vita , quello , ſe conuiene cosi dirlo , è
l'huo mo .Non fantaſticar dunque di quello , chea guiſa di vafo ti circonda, e
di queſti inſtru mengucci , che attorno a te fono formati; poichè queſti ſono
ſimili all'aſcia , folo in 1 1 ciò diffcrenti , che ſono con naturali . Mentre
ſenza la ca gione , che gli muoue , e rat ticne , non è maggior l'vtile , che
da queſti membri s'ha , di quello, che ne ha la teſli trice dalla fpola, gli
ſcrittori dalla penna , e dalla fruſta i ! cocchicro. E proprietà dell'anima
ragioneuole ſono , il ri mirare ſe ſteſſa, ſe ſteſſa minu tamente ricercare,
fare fe fter ſa quale più a lei piace:il frut to,ch'ella produce lo produce a
ſe ſteſſa ( giacchèi frutti del. le piante , e ſimilmente quelli degli animali
, altri godono ) in qualunque luogo le ſoprau uenga il termine della vita ,
arriua ella al fuo proprio fine: non come ne i balli , e nelle
rappreſentazioni, e in fimili coſe , nelle quali, ſe qualche impedimento
s'intrapone,tut ta l'azione rimane imperfetta : ma ella in qualſiuoglia parte,
e douunque s'interrompa ,ren de tutto quello che ſe le pro pone innanzi
perfetto , e non biſognoſo di coſa alcuna; ſic chè può dire ; lo poſſiedo il
mio . In oltre , traſcorre per tutto il Mondo , e per lo va cuo, ch'è intorno
ad eſſo , e al la di lui figura : ella s'eſtende nell'infinità de'ſecoli ,
eleri generazioni di tutte le coſe , che a certi giri de' tempi ſi fanno ,
comprende, intende , e diuiſa , che niente più di nuouo ſono per vedere i po
ſteri , e niente di più videro i . noftri aſtepaſſati: ma in certo modo chi
haurà quaranta an ni, s'ha fior d'ingegno, haurà veduto tutte le coſe paffare ,
future , per la ſomiglianza tra effe. Di più è proprio del l'anima ragionevole
amare il proſſimo, effer verace , mo deſta , e non iftimare niuna co . ſa più
di ſe ſteſſa . Il che è proa prio ancor della legge . In queſta maniera tra
laretta ra giòne , e tra la ragione del la giuſtizia non è differen za . 2
Sprezzerai il canto Infin gheuole , il faltare , e'l pan crazio , cioè
l'eſercizio degli atleri : ſe tu ſpartirai la voce armoniofain ciaſcuno de'tuor
ni, e in qualſiuoglia di quelli interroga te fteffo : Se da quel lo tu refti
vinto ; perchè in ve ro te ne vergognerai . Nell' eſercizio del ſaltare farai
l'i ſteſſo a proporzione, a cia ſcun moto, egefto; il medefi mointorno al
pancrazio . In ſomma, in tutto quello , che e fuori della virtù , o da quel la
non deriua , ricordati di traſcorrerlo a parte a parte; e con la diuiſione di
quelle ver rai a vilipenderlo . E queſto l'hai da traſportare allvſodi tutta la
vita 3 Quale è l'anima , che ſta pronta, fe già bifognaffe , a fcioglierſi dal
corpo , o eſtin guerſi , o diſliparfi , o a rima nerui ? pronta , dico , ma che
tal prontezza prouenga da vn particolare diſcernimento di mente ,non da vna
nudacapar. bietà , comeè quella de'Chri ſtiani , mi conprudente diſ corſo , e
maturità da poter ciò perfuadere ad altri ſenza tragica impreſione, 4 Operai
qualche cofa ap partenente al comune ? Dun que n'ho ritratto dell'vtile .
Queſto ſia fempre alla mano in ogni occorrenza,fenza mai traſcurarlo. Qual'è il
tuome ſtiere ? l'eſſer buono ; ma que fto non ſi fa bene, ſe non per mezzo
delle fpeculazioni, e maſſime, o intorno la natura . dell'vniucrfo , oltero
intorno la propria conſtituzione della huomo. 5. Al principio furono in
trodotte le Tragedie , per rammemotar agli huomini gli accidenti ; e che queſti
così naturalmente, loro fogliono auuenire . E acciocchè quelle coſe , che ſu le
ſcene vi ricre aſſero l'animo , non vi contri- , ftal ila NO jai 76 il Her e
ftaffero nella ſcena maggio re , Perchè vedete eſſer così neceſſario che queſte
coſe in cotal modo ſi terminino ; e così le comportano quelli, che eſclamano:Oh
CitheroneE fi dicono alcune coſe vtil mente da quelli , che com pongono ii
Drami , quale è particolarmente quella . Che di me cura , ne de’mieifigli uoli
. Non ſi prendan gl'Iddi ragion il vuole E parimente Che con le coſe diſdegnar
non lice . E Cheſi mieta la vita,come ſuole Matura spiga . 119 e altre coſe ſimili.
Pure dopo la Tragedia fu introdotta l'antica Commedia hauente vna libertà di
maeſtreuol 10 2 Blo cer li si 0 mente correggere , rammen tando non inutilmente
col fuo retto parlare la modera zione del faſto ; al quale me defimo fine in
qualche modo Diogene ſe ne valeua . Dopo queſta conſidera quale è la Commcdia
mezzana ; e ap preſſo la nuoua , a che fine fu poſta in vſo , o come a poco a
poco per l'arte , e applica zione dell'imitare ſubcntrò ; mentre ſi ſa, che
anco da que TE fte fi dicono alcunecoſe gio fe ueuoli; ma l'vniuerſale inten to
di tal forte di poeſia , o rappreſentazione mimica a qual ſegno hebbe la mira ?
C 6 Come truouafi euidente non ci eſſer altro modo di vi PE vere tanto a
propoſito per fi po loſofare di queſto, nel quale VE tu se'di preſente ? to ta
7 II zenu co TIE • H 0 - Mode 7 Il ramo non ſi può ſchian tare dal vicino ramo
, ſe non fi diſtacca inſieme da tutta la pianta ; cosìyn huomo non ſi può
difceuerare da vn altro huomo, ſe non ſi ſepara dalla comunione . Il ramo
dunque Jo diuide vn altro , ma l'huo mo li ſegrega da per ſe ſteſſo dal
proſſimo, con odiarlo , e renderſigli auuerſo. Però non ſi auuede , come dalla
gene rale cittadinanza ha ſeparato ſe ſteſſo E nulladimeno quella è yn dono
particolare di Gioue il quale ha conſtitui to queſta comunicazione .
Concioffiecolache è lecito di nuouo ricongiugnerſi col proſſimo , e dinuouo
incor porarſi colla perfezione dell' vniuerſo ; ma ſe ſimile ſepa razione fi
fpeſſeggia , fi rende ľu più niC di le ds .81 tra tutduqunat più dificile il
riunirſi , e'l tor nar a rallignarſi . In ſomma il ramo , che da principio ger
minò con l'altro , e como conſpirando conſiſte , non é fimile a quello , che
dopo il taglio vn altra volta è ſtato inneſtato . Il che pur dicono
gliagricoltori . Biſogna effe re dell'iſteſſo germoglio , ma non dell'iſteſſa
lembianza . 8 Quelli , che ad impedirti ti ſi frappongono , quando tu cammini
conformealla retta ragione , ſi come non ti po - tranno trauolgere dalla fana
operazione , così non t'han no da ritirare dalla buona vo lontà verſo di loro :
ma cuſto diſci te ſteſſo egualmentenel I'vno , e nell'altro ; ne folo
colcoſtante giudicio , ecol l'azione , ma col portarti per9 all anttö ting
allaOr? allo tejla -1 man zumail coloro , che ſtudiano d'impe manſuetamente
ancora verſo 1 tor ger COM 1100 opo il Stato , ma d . dirti dirri , o in altro
modo ti mo leſtano Imperocchè così è da animo iinpotente lo sde gnarſi contro
di quelli comeil tralaſciar di operare, e abbat cono i tuto arrenderſi. Perchè
amen. effe due abbandonano il poſto , queſti intimorito , quegli alie nato dal
congiunto , camico per natura , 9 Niuna natura è inferiore retta all'arte ;
concio liecofache le arti imitano le nature . Sc pe Cana rò queſto è , la
natura perfet tiffima tra tutte l'altre, e che il tutto abbraccia , non cederà
Ao alla più atificioſa induſtria . Ora da tutte le arti in ordine alle coſe
migliori ſi fanno le inferiori.Dunque anco dal la natura comune ; donde é , P
che Jo tu ipo han vo nel ! olo 04 arti ſo & 11 re M che da quella deriua la giu
ſtizia , e da queſta poi tutte le virtù hanno la ſua ſufiften za . Perchè non
ſi conferucrà il giuſto, fe o alle coſe di mez zo troppo attribuirem'o , o fa
remo facili a prender errore , ead cſſer temcrarij , e muta bili . 10 Se non
vengono a te le coſe , delle quali il proſegui mento , o la fuga ri perturba
110 , ma tu in certo inodo a quelle ti conduci , dunque il giudicio intorno ad
eſſe s'ac quieri , e quelle rimanghino immote, e tu non ſarai vedu to ,
neappetirle , ne fuggirle. La sfera dell'anima è luminosa , quando ella non ſi
eſtende fuori a qualche co fa , ne dentro ſi ritira , o fr conſtipa , ma
riſplende con P d d . a 0 fc PE 9 mi ch ch quel a Giv tutti Tilter TUOTI Legii
proccurerò di eſſer manſueto , quel lume, col quale ſcorge la verità di tutte
le coſe , e quella , che è in lei medesima .Mi fprezzerà talvno ? ſe
n'accorgerà cgli . Io mi guarderò bene , che niſſuno mi truoui o opcrare, o
parla re coſa degna di diſprezzo Miodierà ? guardiſi egli. Io mez ot TOTE , MUT
tele urb.2 do 1 quei rhino reche e di eſſer di buon volere verſo di ognuno , e
con queſto me deſimo ancora pronto a farlo accorgere detfuo trauedere , non per
modo di rinfacciare , o di far moſtra della mia fof. ferenza ; ma con ingenuità
, e probità , nell'iſteſſo modo di quel Focione, ſe pure non fi mulaua. Perchè
così biſogna, che ſieno le coſe interiori , e che l'huomo ſia veduto dag! P 2
Iddij irle 1.2 € 1101 CO 0 h C011 I iddij , così diſpoſto a non ri ceucre coſa
alcuna con iſde . gno , con querele . Poſcia. chè di che danno è a te , ſe tu
fteſſo fai al presére quello, che e proprio della tua natura ? non accetterai
tu ciò , che ora è opportuno alla natura dell' vniucrlo , o huomo ordinato per
far qucllo , che conferiſce al comune 13 Quelli , che l'vn l'altro fi
difprezzano , l'un l'altro fi luſingano : e quelli , che cer cano diſoprauanzar
l’yn l'al tro , l'vn all'altro ſi ſottomci tono. Quanto rancido , e non ſincero
èil dire: Miſono propoſto di portarmi teco ſchiettamente. Che fai , o huomo ?
non è di me ftiere far queſto prologo : apparirà da per ſe . Nella fronte
iſtekla dce eſſere ſcrit ta la voce . Quello , che hai dentro , ſubito viene
eſpref fo negli occhi , come nel lo ſguardo degli amanti il tutto fubitamente
conoſce Pamato . Tale inſomma biſo gna , che ſia il fincero, e buo no , che
ſappia vn poco di ca prino; acciocchè chi ſe gli ac coſta , nell'iſteſſo primo
in contro voglia , o non voglia , al fiuto lo riconoſca . L'affet tazione della
femplicità è vn ferro traditore . Niuna coſa è più brutta, che l'amicizia lu pina
. Fuggila più di ogni al tra . Gli occhi del buono del ſemplice, del manfueto
han no queſto chenicite in quel li ſi naſconde . 15 La facultà di vinere ot
timamente è poſta nell’anima. Se pur le coſe indifferen ti le piglia
indifferentemente : e le prenderà indifferente merte , ſe ciafcuna di quelle
contemplerà ſeparatamente , e con riguardo al tutto ricor dandoſi , che niuna
di quelle può formae in noi l'opinione di ſe ſteſſa , ne a noi venire : ma
quelle ſtanno ferme,e noi fiamo quelli , che formiamo i giudici di quelle ,
come in noi dipignendole ; mentre è lecito laſciar di dipigaerle , è lecito
ancora,ſe furtivamente s'infinuaffcr, o di ſubito ſcan cellarle. Che queſta
attenzio ne ſarà per corto tempo , e appreffo terminerà la vita . E che
difficultà ci è in ben pi gliar queſte coſe concioſie cofache ſe ſono ſecondo
la naturai , habbile care , e ti 8 a I rega antes cate uck Ente; ca uelle vant
1 enoi moi ne if färanno facili; ſe ſono contro la natura , cerca quello , che
ſia ſecondo la tua natura , e intorno a queſto ſtudiati , an corchè ſia ſenza
gloria , eſſen đo da vſare indulgenza con chi cerca il proprio bene . 16.
Conſidera donde ciaſcu na coſa è venuta , e di quali fubbietti ciaſcuna
conſiſta , e in quali ſi muti , e mutandoſi quale ſarà , c come non ſog opere
di giacerà a dannoniuno. E pri ma qualabitudine ſia in me verſo di quelli ,
eſſendo che ſiamo nati vno a prò dell'al tro ; e ſecondo vn altra 'ragio ne ſon
fatto per preſedere a quelli , come ariete al greg : ge , o toro all'armento .
Poida queſto paſſa a raziocinar più alto ', che ſe non è vn concor fo diatomi,
è la natura , che: legi ente car Slicet ndo ed P4 il tutto regge; e ſe ciò è,
l'infe. riori coſe ſono fatte per le mi gliori , e queſte l'vna per l'altra.
Secondo offerua , quali ſie no nella menfa , quali nel letticciuolo , e in
altri luo ghi, ma ſpezialmente quali neceſſità apportino loro i dog mi , che
effi fi ſono profiſſi, e con quanta preſunzione met tino in opera quegl'
ifteffi lo ro decreti. Per terzo . Se quelli retta mente queſte coſe operano ,
non è da diſpiacerci; ma fe non rettamente , chiara co fa è , che operano per
for za , o per ignoranza ; perchè ogni anima dimala ſua voglia reſta priua come
del vero ,co sì di comportarſi con ciaſcu no fecondo la ſua conucneuo lezza ; e
perciò prendono a ma , afe ml 12 fit re
110 cal 105 et FO male l'eſſer chiamati ingiuſti, ingrati,auari,e al tutto
procli ui al peccarecótra de proſſimi. In quarto luogo . Che tu ancora fai di
molti errori , e come yn aftro di loro pecchi; ſe da alcuni errori ti aſtieni ,
tuttauia hai l'abito di com mettergli , quantuinquc per cagione di tinore , o
di glo ria , o d'altro ſimile vizio tu ti rattenghi da si fatti crrori . Per
Quinto . Che manco hai ben penetrato , ſe errano: auuenendo molte volte , che
lo fanno diſpenſatiuamente; c in ſomma è neceffario d'ap prendere molte coſe
auanti di pronunciare aſſeuerante mente delle azionialtrui. Per feſto.Che
quando fuor di miſura tir ti degni,o da im pazienzia fei prcfo ,fouuenga DI H ľ
¿ 2 P 5 tia 346 [ f fi ti , che la vita humana è mo montanea; e che tra poco
tut ti ſtaremo diſteſi . Settimo. Che non ſono l'o perazioni loro ', che ci
pertur bano ; imperocchè eſſe ſono nelle menti di quelli , ma ben sì i noſtri
apprendimenti. Deponili dunque, e conten tati di laſciarne il giudicio , come
di coſa a te graue ; e la collera farà ſùanita . Or bene in qual maniera li
deporrò ? diſcorrendo ;che non té inter. venuto niente di diſdicevo le ; poichè
ſe non foſſe fe nori quel ſolo ', ch'è diſdice uole ,male', néceſſario fareb
be, che tu in molti modi pec cafſi , diuenendo ladro , e af fatro ſcelerato .
Qttauo. Quanto fono coſe più graui quelle , che apport tano C t t C te al more
f per le 30 tano per cagionc loro i cor rucci, e languſtie dell'animo, che non
ſono le coſe i, quali ci contriftiamo, c adi riamocon quelli. Che la
manſuetudine.è inuincibile, quando ſia fincera , e non affettata fimulata. Che
ti farà vno per fouerchieuoliſſimo , che cgli fi fia: , ſe tu perfeueri
d'eſſere con lui piaceuolc ? E , ſe così t'auueniffe, placidamente l'aer
uertirai ' , e meglio l'inſegne rai' , attendendo a ciò quieta mente in
quell'iſteſſo tempo ni che colui fi ftudia di fare a re il male , dicendogli tu
:: Non figliuolo , noi ſiamoprodottiat altre coſe . Io non rimarrà l'offeſo ,
ma tu bon fi ,figliuolo ; e con de ſtrezza e fommariamente gli moſtrerai , che
la cofa paf P 6 ſa cosi . E che ne le api ciò fanno , ne niuno di quegli
animali , che per lor natu ra inſieme ſi congregano E però di biſogno , che ciò
ſi faccia lontano dall'irriſione , o dall'improperio ; ma ami cheuolmente , e
ſenza mor dergli l'animo , e non come nelle ſcuole , ne acciocchè altri,
chepreſente ſia , faccia delle marauiglie , ma a ſolo a ſolo , quantunque
alcuni altri vi ficno intorno . Queſti noue capitoli tiengli a mente , come
doni a te fatti dalle Muſe: e yna volta, men. tre se'in vita , da principio ad
eſſer huomo . Però biſogna guardarſi egualmente , come di non adirarti contro
quelli, così di non adularli ; perchè l'vno , e l'altro ſono contro l'hu D.
l'humana comunione , e tira no al danno . Ti ſia in pronto, mentre ti traſporta
la collera, che non è da prode huomo l'adirarſi; ma la placidezza , e la
manſuetudine , quanto più fono da huomo , tanto più hanno del maſchio ; poichè.
queſti partecipa più della for tezza , e della neruoſità, e det vigore , ma non
già chi è ſdegnofo , e diſamoreuole. Perché quanto più queſtoè proprio della
tranquillità dell' animo , altrettanto è ancora del vigore. E come la triſtez
za è de deboli , così è la col lera . Poſciachègli vni , e gli altri ſono
feriti, e ſi arrendo no . E ſe ti piace, dal principe delle muse riccuiancora
que ſto Decimo dono: Che è da furioſo il non volere j , che i cit 350 1 cattiui
pecchino , concioffie colache in ciò fi pretenda l'impoſſibile .Ora il concede
re, che verſo gli altri ſieno tali , e il volere , che contro di te non
pecchino", è cofa da : huomo- ftolido , c.da tiranno. S'ha del continuo da
of ſeruare', eſfer principalmente quattro i moti dell'anima . E quando tu li
ſcoprirai , gli hai da ſcancellare; dicendo fra te ſteſſo ſopra ciaſcuno.
Queſta immaginazione non è necef-. ſaria: Queſto diſcioglie la co -- munanza :
Queſto non lo di rai di capo tuo ;perché il non dirlo da fenno, reputalo tra le
coſe ſtrauagantiſſime : II quarto è , che tu a te ſteſſo rimprouererai queſto
eſſere yn dare per vinta la portione più diuina , che in te è, e fot to و in te
è , bench cometterla alla parte più i gnobile,e mortale del corpo, e alle
ſuematcriali voluttà. Il tuo spiritello e tutto quello d'igncos che è in te
miſchiato ,diſua natura tende 1 in alto' , nondimeno per ob bedire
all'ordinanza dell'vni uerſo dentro del miſto ficon tiene . Ancora' , tutto
quanto di terreſtre , e d'humido , che tuttauia refta ſollevato', e ſta non
ſecondo il natural ſuo ſito. Così gli elementi ancora obbediſcono alle cofe vni
verfali , quando , douunque fieno traſportati, reſtano per forza,finchè dinuouo
lorven. ga fignificata la facultà di di fciorli . Dunque non è egli mal fatto
che la ſola tua par ce intellettuale ſia dura all'obbedire, e che ſdegni la ſua
re gione ? e pure non ſe le ordi na niente di violento , ma ſo lo quello , che
é ſecondo la natura fua ; tuttauia non vi s'accomoda, ma corre al con trario .
Concioffiecofache on gni commozione verſo l'in giuſtizie, le lafciuie , i ran
cori, c i terrori non è altro che vna riuolta contro la natura . E quando la
mente piglia mal volentieri qualche coſa di quelle , cheauuengono ,allo ra
abbandona il ſuo poſto ; giacchè quella è fata diſpoſta all'equanimità , e
pietà verſo gl’Iddij , non meno , che alla giuſtizia ; perchè queſte ſono d'yna
tal forte , che tendono alla buona comunanza , e fo no più antiche delle
iſtelle opere giuſte. A cui non è ſempre vno, e'l medeſimo fine della vira ,
non può eſſer vno, e'l medeſi mo per tutto il tempo della fua vita .Ma non
baſta quefto, che s'è detto , ſe non aggiu gni à quello , quale dee effere
queſto fine. Imperocchè co me non è ſimile l'apprendi mento di tutte le coſe,
che in qualſiuoglia modoalli più pa iono buone, ma di quelle di vna tal forte ,
cioè di quelle, che ſon volte al comune, così anco il fine dee eſſere diretto
alla vita comune , e ciuile . Perchè chi a queſto indirizza - tutti i proprij
appetiti, rende rà vniformi tutte le azioni, ed egli in tal modo farà ſempre il
medeſimo. Conſidera il topo nion tagnolo , el domeſtico , e la 4 Vand S vana
paura , e fuga di queſto . Così l'opinioni del volgo chia. maua Socrate lamie ,
e spaventacchi de'putti. I Lacedemonij negli ſpettacoli poneuano i fora ſtieri
ne ſedili all'ombra; effi ſedeuano doue a forte loro toccaua .. 22. Socrate
riſpondendo a Perdicca , perchè non andaua da lui, diſfc ; Acciò io. non
periſca di così infame morte ; mentre non po teſſi corriſpondere alla grazia , che
riceueſji. Tra gli ſcrittide gli E feij taua vn auuertimento y che ſpeſſe volte
ſi ricordaſſero di qualcheduno degli anti chi, i quali haueſſero eſſerci-. tato
la virtù. I pitagorici ordinavano, che di mattino si riguardatſe: ili 8 po fe
BE il Cielo ; acciocchè ſempre ci ricordaſſimo di quelli , che ſempre
ſimilmente , e nell'i ſteifa maniera compiono l'o pere loro e dell'ordine, e
del la purità , e difuelamento; im perocchè niun velo hanno le feller 25 Ti
fouuenga quale cra Socrate cinto d'vna pelle , quando Santippe coperta del la
di lui veſte vſcila fuori di caſa ; e' rammentati quello , che diffé Socrate
alli compa. gni, che fi vergognauano , e ſi ritirauano , quando lo vidde ro in
tal'abito : 26 Non far il maeſtro di fcriuere, e leggere ad altri, in nanzi che
ſij ammacſtrato ciò è da oſſeruare molto più nella vita . Seruo tu Lei
peròparlar non dei. Allora io di buon cuo re me ne riſto Rampognan la virtù con
aſpri det ti . 27 E' da pazzo domandar i fichi l'imerno . Tale è chì quando non
è più tempo d'ha: uerne , deſidera yn figlioli no . Epitteto ammoniua quc gli,
che baciaua il figliolino , che diceſſe tra di fe: domanefor fi morrà . Sono
parole di mal augurio coteſte ? Non è , di ceua cglig parlar di male au gurio
vſar parole ſignificanti qualch' opera conforme alla natura : altrimente il
mietere le ſpighe, ſarebbe yn cattivo augurio , L'vua è prima agre ſto , poi
matura , e poi paſla. Ogni coſa foggiace a mu tarſi , non nel non eſſere , ma
in quello , che di preſente non è. Detto è d'Epitetto , che Ninno è ladro della
volonti . Vn arte , diſſe egli,s'ha da ritro uare d'aggiuſtar gli affenfi , e
in materia degli appetiti biſo gna conſeruare l'attenzione , acciocchè ſieno
con eccezio ne , e che s'indirizzino al be. ne comune, e ſecondo la con
ueneuolezza e totalmente aſtenerſi dall' auide voglie e non iſchifare coſa
alcuna , che non ſia in noſtro arbitrio. Non è dunque , diſſe egli , la conteſa
intorno ad vna coſa ordinaria ; ma intorno all'ef fer pazzo , o ſauio . Diceua
Socrate , che anime volete ha uere, de'ragioncuoli, o degl'ir. ragioncuoli
de'ragioneuoli. Di quali ragioneuoli, de’lani, o de’deprauati ? de'fani . Per
chè dunque non le cercate ? perché le habbiamo :dunque a'che contraſtate , e
diſcor date ? Fine del Libro Vndecimo , CO b pa te fa fa PI all ace Vie LI 359
INO cercarei curse dike op. G là fta in tuo potere di poſſeder tutte quelle
coſe , alle quali anſioſamente bramafti con aggiramenti di peruenire , ſe tu
non inuidij a te ſteſſo : cioè a dire, ſe tu non farai più caſo di tutto il paf
fato , e 1 futuro laſcerai alla pronuidenza,e'l preſente ſolo bu indirizzerai
alla ſantità , e alla giuſtizia . Alla ſantità , acciò tu ami quello , che ti
vien deſtinato ; concioffieco C1 facció 0 li fache la natura ha portato quello
a te , comc te a quel to . Ma alla giuſtizia liberamente fuori d'auuilup
pamenti tu dica parlando la verità, c operi ſecondo la leg fi ge , e la
conueneuolezza . E non ti ſia d'impedimento ne l'altrui maluagità , ne l'opi
nione , ne le ciarle , ne meno ti il ſenſo della carnuccia teco connutrita .
Però , chi pati- re. ſce , cipenſi . Se tu dunque tú quando in qualſiuoglia tem
po t'approſſimi all’yſcita, ab bandonando tutte l'altre co ſe , solo stimerai
la tua mente, e quello che di divino è in te; e non temerai il cessar vna volta
dal vivere, ma il non haper cominciato giammai a vivere secondo la natura , ſa
rai huomo degno del Mondo, che le TOLE to mi che wani DI110 ne Oi 70 c0 ti chet
ha generato , e nonſarai più foreſtiere nella patria , e non ti
marauiglierai,come di coſe inopinate, di quelle, che alla giornata auuengono
,'e finiraidi rimaner ſoſpeſo per queſta, o per quell'altra co fa . 2 Iddio
ſcorge tuttelemen. ti diſpogliate de’yaſi materia li , delle corteccie e lordu
re. Poichè con la ſua ſola vir tù intellettuale attigne quel le coſe , che da
eſſo ſcaturi rono , e deriuarono in queſte eofe materiali . Il che,ſe tu ti
auuezzerai di fare , ti liberc rai da molti ſpafimi. Percioc chè chiriguardo
non haalle carnucce chelo circondano,fi tratterrà forfi a badare al ve ſtito alla
caſa , alla gloria, é a fimili abbigliamentie arredi? Tre ſono le coſe , delle
qualitu fe conpofto, 'il cor picciololo fpiritello, vela mente . Di queſte le
prime duefono cue , finche ta dilo To habbi cora. La terza fo la è propria
rerire, tua . Setu fequeſtrerai da te , cioè dalla tua confiderazione in tutte
quelle coſe che alla faccia no , o dicano , e quelle ,'che Tu hai-detto e fatro
, e que te ,'che ,comefe falfero per auucnire, ti- boiterbhojne quelle ancora
cheper lo cort picciuolo , che ti circondala per Minneſtæto " piritello
tohi tro tua vogliati fuccedchos de quelle, che intenten einer hohen mente con
vina contratttváre tiğine ſi rivolgonoi, fieche; rendendo la potenza santé
fertuale efente delle cofejohe fono inſieme fatali, pura , eili ibera viuerà in
fe fteſfa', ope rando : le cofe " giufte , te rice uendo volentieri gli
auueni menti, e proferendo la veri tà : Se tu ſeparerai, dicdi, da quefta
potenzaquefte. cofend elfæaderentiper graditimpa zia, edaltempo, quelleche
hanno da auuenire appreffo.. pilepaffate, etiformerairale, qualeè la palla
sfericadiem pedocle ; Chestutta titanda guide della-poluere, ch'attornojpelte
rigiza, attenderai ſolo alviuere , the gu viui, cioè al preſente, e po tmisfio
alla morte viuendo trapalaretuttoquello che ti reſta imperturbato gencroſa
mente si emanſuetamente, fet condo il tuo genio. Speffo miſonimarauiglia TO :,
come ciaſcuno più di tut Q :2 ti ti ami ſe ſteſſo; e come non dimeno
tenga in minor conto l'opinione propria intorno a ſe medeſimo , di quella degli
altri. Se dunque Dio ſoprau uenendo , o vn macſtro pru dente , comandi ad
alcuno , che nulla dentro dife penfi, o diſcorra , che ſubito l'ha conceputo,
non lo palefi, non lo razterrebbe ne pure per vn giorno. Cosìpiù temiamo di
quello , che i proſſimi giudi cano di noi, che di quello, che noi medeſimi
giudichia mo. : 5 Come farà mai , cheha uendo ordinato il tutto gl'Id dij bene,
e con carità verſo l'huomo , queſto folo habbia no traſcurato ,che alcuni degli
huomini, e molto buonije che colla diuinità hāno tenuto co me 01 700 011
22 TU 101 olis ha On di me ſpeſſi commercij, e che ſouentemente per l'opere fan
te , e ſacrificij ſi ſono reſi à quella famigliari, queſti, vna volta morti ,
non ſi facciano ritornare , ma rimangano del tutto eſtinti ? Queſto , ſe pu re
così ſta , tu hai da ſapere , che fc altrimente biſognaſſe , che foffe ;
l'haurebbero fat to . Concioffiecoſa che ſe era giuſto , era poſſibile, e ſe
era ſecondo la natura , l'haureb be prodotto la natura . Dal non eſſer così ,
ſe così non è , tu ti hai da perſuadere non eſſere ſtato neceſſario , che al
trimente fi faceſſe . Imperoc chè tu ſteſſo t'auuedi , che ciò ricercando , tu
entri a con tendere in giudicio con Dio . Ma noi non diſcorreremmoco sì con
gl’Iddij , ſe ottimi , e Q 3 giufillimi non foſſero . E ſe così è , nicnte
ingiuſtamente hanno traſcurato , e irragio nevolmente negletto nellab
Tellimento dell'vniuerſo .. 6 Afſucfatti ancora a quel le coſe , delle quali
non bene ſperi.Imperocchè la mano fi miltia inabile per non eſſere aylata
all'altre coſe , reggeil freno più fortemente , che la deſtra , e queſto perchè
vi s'e ZUL Czzata. Penſa quale biſogna , che tú ti truoui,e del corpo,e del
Panima, ſopraggiunto che fą rai dalla morte : la breuità della vita , la
vaſtità de'ſecoli ayanti , e dopo , la debolez za d'ogoi materia . Content pla
ſpogliate d'ognicorteccia le caufalità , le relazioni dold' opere ; che fią la
fatica , che'l piacere , che la morte , chela gloria : chi ſia a ſe ſteſſo
cagio ne deltrauaglio , e coine niu nofią impeditodaaltrise che ognicoſa lia
opinione. & Nell'vſo delle tue maffime è neceffario , che tų fij, limi le
non all'accoltellatore , ma al combattente maneſcamen . te con le pugną.
Concioſſie cofache quegli, ſe pone giù la 1pada, della quale ſi ſerue, re fta
vcciſo , ma queſti ſempre ha la mano , nę gli biſogna nient'altro , che
ſerrarla . 9. Di queſta fatta s'hanno a riguardar le coſe , diuidendo ke in
materia , forma , e rela zione Quanto potere hą l'huomo a non faraltro , faluo
quello, che Dio ſia per gradi re , e riceuere tutto quello , che Dio gli
diſtribuiſca , con Q 4 forme all'ordine della natu ra . To Non s'ha da
querelarſi degl'Idij, mentre non ſono , nevolendo, ne non volendo, ſoggetti ad
errori ; ne meno ſono da áccufare gli huomi ni ; perchè non peccano , fe non
contra voglia , Diniuno dunque s'hanno da far querele. Quanto è ridicolo, e
ftra niero chi s'ammira di qualſi uoglia coſa , che nella vita occorre! Oviè la
neceſſità fatale e ordinazione inuiolabile , o prouuidenza piegheuole , o
confuſione temeraria ſenza gouerno . Se è neceflità iné witabile , a che ti
contraponi? ſe è prouvidenza che ammet tc eſſer piegata , fa degno te ſteffo
del fuſſidio diuino : ſe è confuſione ſenza reggimen to , rallegrati , chein
queſta tempefta tu medeſimo hai in te ſteſſo per gouernatrice qualche mente : e
ſe la tem peſta t'aggira , fia traportata la carnuccia , lo ſpiritello , e
l'altre coſe , ma la mente non farà traportata . Il lume della lucerna , finché
fi ſpenga , 'ri luce sì , e non perde lo ſplen. dore : ma la verità , che è in
te , e la giuſtizia, e la tempe ranza , anticipatamente s'e ſtingueranno? Dove
l'immaginazione concepiſca , che vno ha peca cato , rifletterò donde ho,che
queſto fia peccato , e ſe que gli peccò, ſe fi fia egli reſo reo per quell'atto
? perchè ciò ſa rebbe quali vn lacerarſi il proprio volto. Poſcia rifletti, che
chì non vuole , che'l cattivo, pecchi; è da raſſomigliarſi ad VCO , che voglia
, che l'arbo re de i fichi non produca il lattificio , e i bambini non
piangano, ei cauallinon ani triſching, e altre coſe taliche feguono di
neceſſità . Pero , che coſa ha da fare , hauen do contratto " va cotal mal
abito ? Dunque , ſe ti ſenti da ciò , riſanalo. Se non conuiene , non do fare .
Se non è vero , non lo dire, ma l'appetito dia fox , to dite per conſiderare il
gut to che è quello , che fa im preſſione nella tua immaginas zione , e
diſcutilo , diuidenz dolo nel formale , nel mate , riale nella relazione neltem
po , dentro al quale quello ha da Vis petto ? forſe cupidigia a forfe da
finiie. Riconoſci una vol ta , che in ce è vna coſa più eccellente , e più
diuina di quelle , che te paffioni in te cagionano. E in ſomma,quan te cofefono
,che in qràge in la in guiſa d'un bamboccio con de cordicelle ti abburattano .
Che’çoſà è ora il mio penfie rodforfe timore ? forfe for . cofa alia fimile :
15 Primieramente penfais che niente è a caso e niente, senza relazione .
Secondaria mente chea niun altro fine , che a quello della focictà fi riduc.
Che non molto dopo niūno in niun loco farai, ne pur cofa alcuna fari di tutte
quelle , che orá vedi , ne al cuno di quello che ora : vi -91 I Qo NOuono ;
conciofficcofache tut te le coſe ſono nate per mu tarſi , trasformarſi , e
perire , acciò altre per ſucceſſione ſe guano. Ogni cosa è opinione,e queſta
depende da te . Togli dunque, quando tu vuoi, l’opinione; e , come chi volge al
ridoſſo d'vn promontorio trouerai ferenità ferma di tutte le coſe , e vn ſeno
tran quillo . : -18 Vna , e qualſiuoglia fi fia operazione che a ſuo tem po
finiſce , nonpariſce danno niuno , perchè finì ; ne l'ope rator di quella , per
hauer finito, patiſce mal alcuno . In ſimil modo dunque il ſiſte ma, o fabbrica
ditutte l'ope razioni, che è la vita , ſe in qualche tempo finiſce , non rice
etut or me erine Quel one, Togh oila ageal torio ma Stra / di riceue alcun
danno , percioca chè fini; ne quegli , che in tal tempo terminò queſta ſerie , fu
malamente trattato . Il tempo , e'l termine fono dále la natura conſtituiti ,
talvolta dalla propria ,come nella vec chiaia; ma generalmente dal I'vniuerſale
, le cui parti con tinuamente mutandoſi , reſta tutto il Mondo ſempre nouel .
lo , e vigoroſo . Tutto ciò del continuo è buono , e oppor tuno , che
all'yniuerfo.confe riſce . Dunque il finir del vi uere a chiunque tocchi , non
è coſa cattiua , perchè non è vergognofa , come non de pende dal noſtro volere
, ne contraria al comun bene del l'yniuerſo . Anzi è buono quando è opportuno ,
e con ferente all' vniucrſo , e con quel elial tem dan l'ope verf olfille 12
l'ope ſe i non . lo 1 quello è inheme portato Concioffiecofache è portato da
Dio quegli , che fi perta vnitamente con Dio , e a quel le ifteffe cofe
collintendimen to fi conduce. ! 19. Queſte tre coſe hanno da cflere fempre in
pronto.. Primieramente in ciò , che tu fai, non fia niente inuano , ne
altrimente fi facciay.che felis fefla giuſtizia haveſſe,opera to : ma nelle
cofe , che anlı uengono di fuori , mentre quelle o fono procedurea ca fo , o
fecondo la prouuidenza non s ' ha da querelarſidel ca fe , ne accufare la
prouuiden za Secondariamente qual cofa faccia ciafcuro dal non effene , fino
all'animazione , e dall'animazione , fino al ren dimento dell'anima, e da qua.
li coſe da fatto l'adunamento, e in quali il diſcioglimentos Terzo come ſe
ſoprad'yu’ers minenza follcuato tu rimiral G le coſe humane', e dopo ha. ụer
compreſa, la lor gran va rietà inſiemeconoſcelli quan to ci ſia dell'abitato, e
nel l'acre , e nell'etera , e çoine quante volte cu foffi cosi fol leuato ,
vedreſti le medeſime, l'iſteſſa ſpecie, la breue dura ta . Ed in queſte éla
noſtra ſu perbia , 29. Gitta fuori l' opinio ne, ſarai ſaluo. Chi dunque
e’impediſce il gittarla. Quando perqualche co ſa ti prendi diſguſto,ti ſe (cor
dat , che ogni coſa li fa', le condo la natura yniuerſale , che quel peccato è
d'altri. E oltre queſto , che tutto ciò , che pure , che ſi fa,cosìſempre's'è
fatto, e li farà, e di preſente ſi fa per tutto: ancora , quanta è la co
gnazione dell'huomo con l'o niuerſo human genere ; per chè non è la comunione
del fanguccio, ò della poca ſe menza ; ma della mente . Ti fcordaſti che la
mente di ciaſcheduno è Dio , e che da lui ſcaturì, non eſſendoui coſa alcuna propria
di niuno , anzi il figliolino, e'l corpic ciuolo , e l'iſteſſo ſpiritello in di
vennero . E ancora ti ſcor daſti, che ogni coſa è opinio ne, e parimente, che
ciaſche duno il preſente ſolo viue, e che queſto ſolo ſi-perde. Del continuo
riuolgi nell'animo quelli , che per qualche coſa li corrucciarono, e quelli,
che in grandiſſime glorie , o calamità , o inimicia zie , o in alcuni altri
auueni menti li ſegnalarono . Dopo medita , doue fono al preſente tut te queſte
coſe?in fummosin cenc re, c fauole, e ne meno favole . Tiſouuenga di tutto
queſto', cioè, come furono Fabio Catullino in Villa, e Lucio Lupo, e Stertinio
a Baia, e Tiberio a Caprise à Velia Rutfo ; e in ſomma di chi ha fatto con
l'apprenſione gran caſo di qualunque ſia cofa : ecome ſia di vil prezzo turto ,
che in tentamente appreſe , e finala mente quanto più foffe da Fi loſofo nella
materia toccata gli, portarſi da giuſto , e da fa uio e da ossequioso schietta
mente agl'iddii. Imperocchè la superbia, che sotto velo di umiltà si nasconde è
la più l’intolerabile daograbra. Agudligiche dimanda nosperchè vonsrigť Iddij
acat me turgli habbi vechutia e dom de tu habbi appreso, che vi freno Primieramente
risponde, che sono visibili agl’occhi, e poi a benchè io, non abbia veduta la
mia anima, tuttavia l'onoro. Così dunque è degl'iddii, la potenza de’ quali
mentre ogni giorno io pruqyosda questo comprendo, che ci sono, e gli venero. La
salvezza della vita consiste, che ciascuno riguar di che cosa sia il tutto, il
materiale, il formal, che con tutto l'animo FACCIA IL GIUSTO, DICA IL
VERO. Che resta altro, che goder della
vita , aggiugnendo un ben fatto all'altro, sicche ne pur si perda un brevissimo
spazio di tempo? Il lume del Sole, è uno a benchè venga interrotto dal: o e
pareti, dai monti , e da altre mille cose. Una è la sostanzia comune, ancorchè
ſia di partita tra migliaia di corpi, qualificati dalle loro proprietà. Una è
l'anima con tutto che si distribuisca a mille e mille nature con ſsngolari
circonscrizioni. Una è l'anima all'intelligente, se bene apparisce, che si
divida. L'altre parti dunque delle cose dette: s, com! me gli spiriti, ei
subbietti; so no senza senso, ne famigliarmente si uniscono insieme. Questi
nondimeno contiene LA MENTE UNIVERSALE e poi la propensione, che al congiugnere
gli spinse. Ma l'intelletto propriamente propende all'istesso suo genere, è
s’unisce, ne fi può fradicare l'affetto al ben comune. Che cerchi? Di campare?
o'pur di sentire, d’appetire, di crescere, e poscia diterminare? Di valersi
della voce di DISCORRERE con la mente? Qual cosa di queste ti pare degna
d'essere desiderata Male que ste una ad una non sono da frezzare, portati alla
conclusione d'ossequiare la ragione e gl’iddei. Ma li fa contro alla stima di
queste cotrammaricar si di rimaner perla morte privo d'alcune di queste. Quanta
parte dell'immensa e infinita durata a cia. founo é compartita? Poichè ben
prestissimo si dilegua nell' eternità. Quanta parte di tutta la sostanzia?
Quanta parte di tutta l'anima? In quanta zolletta di tutta la terra ferpendo tu
vai? A tutte coteste cose applicando l'animo, non t'immaginare niente di grande
o questo solo se tu operi come la tua natura ti conduce, e soffri come la
natura universale portage comeliva. le di se stessa la parte tua reggitrice;
polciachè in cio il tutto consiste. Tutte le altre cose, o sieno nel tuo
arbitrib. no fuori di quello. Sono cadaveri, e fummo: om.svisli! Efficacissimo
è il rifletterre, per eccitarci al disprezzo della morte, che quelli ancora,
che stimano essere il bene nella voluttà, e'l male nel dolore, nondimeno quella
disprezzarono. A chi quel so. Lo che è opportuno è bene je a chì tanto è l'aver
molte azioni fatte. Secondo la ragione retta, quanto poche. Ie a chì non iinporta
contemplare il mondo in maggiore, o minor spazio di tempo, nemanco la morte è
terribile. O huomo sosti cittadino in que sta gran città che ti fa te per
cinque anni mentre quello. Che è conforme alle leggi ad ognuno è dellistesso
peso. Perchè dunque ti ègraine, se dalla città ti manda via non il tiranno, o un
ingiusto giudice, ma da natura, che vi t'introdulfezlic come dalla see, na
licenzialse vas comico il capo della truppai che l'han keva, condotto. Però tu
dii, non vappresentaii i cinque atti, ma solo tre. Tu dibeneze a proposito mentre
che nella vita anche tre atti compiono tutto il drama. Conciossieco fache quegli
impone il termine, dove abbia da finire, che allora ordina l'adunamento, cora
fa lo scioglimento, nel li quali tu non ci hai avuto parte. Vattene dunque
placido. Poichè quegli che ti licenzia, è placido. Dal mio avolo, Vero, la
gentilezza del costume, e il non adirarmi. Dalla fama e dalla memoria del
mio genitore, l’esser verecondo e maschio. Dalla madre, l’esser pio, il
donar volentieri, l’astenermi non solo dal fare il male ma anche dal
venirne in pensiero. [Ancora, l’esser Sottintendi, come nei paragrafi
seguenti, il verbo ‘imparai’, ovvero ‘riconosco’, nel senso di iono
riconoscente ili aver ricevuto chessia, cosa, o esempio di qualsivoglia
cosa o virtù), o altra espressione che riempia acconciamente le
ellissi. ‘Maschio’: intendi forte costante, non molle ed effeminate], frugale
nel vitto e alienissimo dall’usanze dei ricchi. Dal mio bisavolo il non
essere andato alle pubbliche scuole, l’avere avuto di buoni maestri
per casa e il conoscere che in siffatte cose non si vuol guardare
alla spesa. Dal mio aio: il non essere stato nè di parte prasina nè di
parte veneta, nè parmulario, nè scuta- [Il bisavolo paterno
di Antonino e Aunio Vero. Il bisavolo materno e Catilio Severo. Non è
chiaro di quale dei due si parli nel testo. Intendi: la scola elementare.
Poiché ognun sa che Antonino frequenta assiduamente come ‘scolaro’ le varie
‘scuole’ dei fìlosofi a Roma. Non si conosce il nome dell’aio] [elio morendo
lascia grande desiderio di sè in Antonino. Sono i colori che distingueno i
due grandi partiti degli aunghi del circo, che non sono piccola
parte nella storia delle follie dell’impero. Nunc favent panno, pannum
amant,’ disse energicamente Plinio il giovane, IX, 6. Lucio Vero, collega
d’Antonino, la pensava altrimenti, secondo le parole di Capitolino. Rio].
Il reggere alla fatica, l’aver bisogno di poco, il saper fare da me, il non
intromettermi nelle faccende altrui e il non porger facilmente orecchio
ai delatori. Da Diogneto imparai il non occuparmi d’inezie, il non
dar fede a ciò che i magi e i fattucchieri dicono intorno alle
malie, allo scongiurare gli spiriti e altre cose di tal fatta, il non avere
atteso a nutrir quaglie nè essermi dilettato di simili cose, il patire
ehe altri mi parli francamente. [Parmularius e il gladiatore
armato di un piccolo scudo di cuoio detto ‘parma’ o parmula, e ‘scutarius’
quegli che porta lo ‘scutum’, grande e lungo. Questo Diogneto era non
solamente filosofo, ma anche pittore, secondo Capitolino, ed avea dato
intorno a quest' arte alcune lezioni ad Antonino. Si allude ad un giuoco
dei romani aveano prego dai greci,. Si faceano combattere fra loro questi
uccelli, o dai casi del combattimento si traevano presage]. L’ESSERMI DATO
ALLA FILOSOFIA. L’avere udito primieramente Bacchio, poi Tandaride e Marciano.
L’avere scritto dialoghi da ragazzo. L’ avere voluto il lettuccio con la
pelle sopravi e le altre cose che vanno appresso nella educazione
greca. Da Rustico: l’esser venuto in pensiero che i miei costumi avean bisogno
di correzione e di coltura. Il non essermi sviato dietro ad un’ambizione di
sofista, o scrivendo su materie speculative, o declamando orazioncelle
esortatorie, o facendo, per dar nell’occhio altrui, 1’uomo austero e
benefico e l’avere abbandonato la rettorica e la poetica e il bel
favellare, e il non passeggiare togato per casa e altre tali cose e lo
scriver le lettere semplicemente [Era uno stoico come quell’altro romano
fatto uccidere da Domiziano per aver lodato Trasea Peto] e naturalmente,
come quella ch’egli scrisse da la citta di Sinuessa a mia madre, e il
non serbar rancore verso le persone che si son, meco adirate e m’ hanno
offeso e rappacificarmi volentieri con loro tosto eh’ elle si voglion
ricredere, e e il leggere con attenzione e non contentarmi di capire così
air ingrosso, nè assentire troppo di leggieri a quel che i
circostanti dicono, e lo avere avuto contezza dei ‘Ricordi’
d’Epitteto che Rustico mi dona di suo proprio moto. Da Apollonio: la
libertà dell’animo e la fermezza nel proposito senza dar mai nulla al
caso, il non guardare ad altro mai, nè anche per poco, che alla
ragione, l’esser sempre uguale, nei sommi dolori, nella perdita del figlio,
nelle lunghe malattie, l’aver veduto ad evidenza nel vivo esempio di lui siccome
può la stessa persona essere gagliardissima ad un’ ora e rimessa e il non impazientarsi
nello spiegare e l’aver conosciuto un uomo che manifestamente tene pel minimo
de’ suoi pregi la pratica e la facilità ch’egli ha del comunicare
altrui la scienza, e l’avere imparato come convenga liceverc fivelli che il
volgo chiama benefizi dagli amici, senza diventai, e loro divoto per
ciò nè per altra parte, lasciando correre la ('osa senza saperne
grado. Da Sesto: l’amorevolezza e l’esempio del governare da
buon padre una casa e il concetto di vivere “secondo natura” e la
gravità non affettata, e l’indagare con sollecitudine quello di die gli
amici hanno uopo, e il sopportare gl’ignoranti e il sapersi adattare
a Nello spiegare. [Intendi: nel dare altrui tutte le spiegazioni di
die possa aver d’nopo per ben capire le cose]. [Intendi: senza diventar
loro obbligato in modo che nìccia alla Ina libertà] tutti per modo ch’il CONVERSARE con esso
lui era più dolce cosa che l’adulare di chicchessia ed e egli nondimeno in
quello stesso punto ed appo quelle stesse persone in venerazione
grandissima, e la chiarezza di mente e la sagacità con cui trovava ed ordinava
le verità filosofiche necessarie alla vita, e il non aver dato mai
indizio di collera nè d’altra passione, ma essere stato ad un’ ora il più
impassibile uomo ed il più tenero, e il dir volentieri liene d’altrui,
senza menar remore per ciò, e la molta dottrina senza che
paresse. Da Alessandro: il non isgridare e il non riprendere ingiuriosamente
chi faccia un barbarismo o un solecismo o un cattivo accozzamento di
suoni, parlando; ma profferire destramente ciò che quegl’avrebbe dovuto
dire, per modo di risposta, o di conferma, o come volendo esaminar
con esso la cosa, non già la parola, o per qualsivoglia *altro modo
di suggerimento indiretto* [IMPLICATURA], garbatamente. Da Frontone:
quanta invidia, quanta malizia, quanta simulazione, sia nella tirannide. E
siccome questi da noi chiamati ‘patrizi’ son cattivi padri anzi che no. Da
Alessandro, il platonico: il non dir sovente nè senza necessità a nessuno, nè
scriver per lettera, ch’io sono occupato, nè contrarre r abito di disimpegnarmi
in tal modo dei doveri verso le persone con le quali io vivo,
allegando per iscusa le faccende. Da Catulo: il non tener poco conto
delle doglianze di un amico, quand’ anche si dolga fuor di ragione. [Secondo
Filostrato e un segretario di Antonino]. [Cinna Catulo, filosofo stoico,
menzionato da Capitolino] ma anzi sforzarmi di ricondurlo alle maniere di
prima, e il parlar bene e volonterosamente dei maestri, come si narra di
Domizio e di Atenodoto, e l’amar i figli con vero affetto. Dal mio
fratello, Severo, l’affezione ai dimestici, l’amor del vero e del giusto,
l’avere, per mezzo di lui, avuto contezza di Trasea, d’Elvidio, di Catone
Uticense, di Dione, di Marco Bruto, ed essere venuto in pensiero di un
reggimento civile dove la legge sia una per tutti e pari i [Neppure
l’eruditissimo e diligentissimo Qataker potè chiarire chi fosse questo Severo
che Antonino chiama fratello. A tutto quello che ci è dimestico] [Una delle più
illustri vittime della crudeltà di Nerone] [Genero di Trasea, esiliato da
Nerone]. [L'illustre stoico Catone Uticense] [L' amico di Platone, l’avversario
di Dionigi tiranno di Siracusa, la cui vita fu scritta da Plutarco] [Marco
Bruto, la cui vita fu pure scritta da Plutarco] diritti di ciascheduno, e
di un governo regio che sovra ad ogni altra cosa tenga conto della libertà
dei governati. Ancora quel suo tenor costante ed uniforme nel culto
della filosofia e la beneficenza e il far parte altrui volentieri e
senza rispar- mio delle proprie sostanze; e lo sperar bene; e l’aver fede
nell’amicizia degli amici e quel suo non infìngersi con le persone quando disapprova
alcuna cosa in loro; e il non aver mai avuto bisogno gl’amici di lui
di andare indovinando che cosa egli volesse o non volesse, sendo l’animo
di lui sempre aperto. Da Claudio Màssimo: il contener sè medesimo, e non
lasciarsi andare in nulla malgrado suo, l’esser di buon animo nelle
malattie e negli altri casi avversi e quella temperatezza di
costume, soave ad un tempo e [Clandio Massimo filosofo stoico] dignitoso
e l’eseguir prontamente senza querimonia qualunque cosa gli accadesse
di dover fare e la credenza che tutti avevano di lui, ch’egli pensas
tutto che dicee fa a lìn di bene tutto che fa; e il non istupir di
nulla, non isgomentarsi di nulla, non esser mai nè frettoloso nò tardo, nè
imbarazzato, nè sfiduciato, nè infingardo, nè ripentito del consiglio
preso, nè sospettoso e il beneficare e il perdonar volentieri, e l’esser
veritiero e il parer piuttosto uomo per natura incontaminato che non per
arte emendato e siccome nessuno fu mai che o si credesse dispregiato da
lui, o ardisse riputar sè migliore di lui; e quel suo piacevoleggiare
a proposito. Da mio padre adottivo: l’imperatore Antonino Pio]: l’esser
bonario, e irremovibilmente fermo nondimeno nei partiti pi'esi dopo accurata
disamina, il non trar vanità da quelli che il volgo chiama onori, l’amore
al lavoro e l’assiduita; il dare ascolto a chiunque avesse da proporre
qualche cosa di utile al comune; il non lasciare che nessuna considerazione
lo distornasse dal retribuire a ciascuno secondo il merito, il conoscere dove
bisognasse esser rigido e dove indulgente, L’AVER POSTO FINE AGL’AMORI DE’
RAGAZZI e il sentire modestamente di sè e volere stare ad uno stesso
ragguaglio con gl’altri, il permettere agli amici di non cenar punto con
lui, e di non accompagnarlo nei viaggi, e lo accoglier con gli stessi modi
di prima chi per qualche sua bisogna non lo avea potuto seguire; e la
diligenza e la persistenza con che esamina le cose nei consigli, non come
quell’altro di cui è stato detto che tòsto lascia la deliberazione
contentandosi dei primi pensieri che gli furon venuti, e il conservar gli
amici, non recandosi a fastidio nessuno, nè incapricciandosi di nessuno; e il
sopperire a sè stesso, sempre; e la serenità del volto; e l’antivederei
da lontano e pral ovvedere senza scliifiltà anche alle rnenome cose e
l’aver dato bando alle acclamazioni e alle adulazioni d’ogni genere e
il tenere allestito sempre quanto era necessario per le occorrenze
dello stato, moderando le spese e sopportando di buon animo la
taccia che alcuni gli davano per ciò, e l’essere alieno e dalla
superstizione verso gli dei e dalla piagenteria verso gli uomini, non curandosi
di acquistar grazia appo il popolo o con le larghezze, o con le1 Luogo
intricato. Nota due modi condannevoli e vani: di acquistar grazia appo
gli Dei, con pratiche superstiziose; appo gli nomini, con l’andar loro
a genio e secondarli anche a costo del dovere lusinglie, o con lo imitare
i modi di quello] ma sobrio in ogni cosa e saldo, e non mai altro
che dilicato e gentile e osservatore della convenienza e del costume
stabilito, 0 il servirsi seifza boria e senza scrupolo di tutte quelle cose che
conferiscono agli agi della vita, delle quali la fortuna è larga a’ suoi
pari, per modo che delle presenti ei si giova senza farne casa e le
assenti non desidera; e siccome nessuno avria mai detto di lui
ch’egli fosse un sofista o un dileggino o un pedante, ma sibbene un uom
maturo, perfetto, nemico dell’adulazione, capace a governar sè medesimo
ed altri. Eri inoltre quel suo onorare i filosofi veri e non fare
scherno de’ falsi, non lasciandosi nulla dimeno facilmente ingannare da
loro e il conversare sciolto, e quella
sua grazia Come tanti imperatori die It) avevano preceduto. che non
ristuccava; e il tener cura del proprio corpo, non tanta da parer tenero
deliavita, o damerino, nè tanto poca da parere trascurato, ma quanta
basta per non avere quasi punto bisogno di medicine o simili cose. E sovratutto
quel suo cedere senza invidia a chi avesse acquistato abilità in qualche
cosa, come nell’eloquenza o nella conoscenza delle leggi e
dei costumi de’ popoli, e altro di cotal fatta e lo adoprarsi insieme
con essi perchè ottenessero fama, ciascuno nell’arte in che
primeggia e quel suo fare ogni cosa secondo gl’institnti d’ maggiori,
senza dare a divedere che avesse nessuno intento particolare, nè anche quello
di volere conservare essi institnti. Ancora il non esser nè randagio
nè avventato, ma continuar volentieri a star nel medesimo luogo e ad
occuparsi delle medesime cose; e dopo passati gli accessi del dolor
di capo, ritornar iU^teu Aurelio. fresco e vigoroso ai lavori
solidi; e il non aver di molti segreti, ma anzi pochissimi, e di
rado, e solamente nelle cose di stato; e la prudenza e la misuratezza
nel dare spettacoli, nell’ intraprendere opere pubbliche, nel far
distribuzioni ai soldati, e simili cose; siccome uomo che riguardava a
quello che conveniva fare, e non alla fama che gli sarebbe venuta dalle cose
fatte. Non al bagno fuor d’ora, non la smania del fabbricare, non
ricercatezza nel cibo o nella tessitura de’ panni o tintura, o
nell’appariscenza de’ servi. La toga dalla villa inferiore e da quelle di
Lanuvio il più sovente; i modi che tenne col pubblicano in Tusculo,
che supplica; e altre sue simili maniere. Nulla di men che umano,
nulla d’ immisericorde, nulla di violento, nè, come direbbe taluno,
siìw al su- dove; tutte le cose di lui, pensate, distintamente
avvertite, con pacatezza, con ordine, con vigore, e d’accordo le une con le
altre, come se le avesse premeditate per ozio. Ed a lui si potrebbe
applicare ciò che VIEN DETTO DI SOCRATE, che egli poteva e astenersi e
godere colà dove a gran parte degli uomini manca la forza per 1’uno e
la temperanza per l’altro. E il saper reggere con fortezza e con sobrietà
ad ambedue non appartiene se non a colui che ha l’animo sano ed invitto,
quale egli il dimostrò nella malattia di Massimo. Dagli dei: l’avere avuto
buoni avoli, buoni genitori, buona sorella, buoni maestri,
domestici, congiunti, amici, tutti, a un dipresso, buoni. E il non
avere offeso mai nessun di loro, benché talmente disposto di 1 Claudio
Massimo menzionato] natura, che io l’avrei fatto forse, ove fosse venuto
il caso: ma per bontà degli dei non incontra mai tal concorso di
cose che mi ponesse a repentaglio. Il non essere statò più lungamente
allevato appresso la concubina del mio avolo; l’avere serbato nel fior
degli anni la purezza del costume e non aver dato saggio di età virile
prima del tempo, anzi avere soprastato anche più in là, l’essere stato
sottoposto ad un principe e padre il quale doveva sgombrar da me ogni
sorta di boria e farmica pace come egli si può vivere in corte e non aver
bisogno nè di guardie nè di vesti screziate nè di fiaccole nè di statue,
come s’usa, nè d’altre simili pompe; ma anzi, che egli v’ha un modo
di ristrignersi quasi alla ondizione di private e non perder nulla
però nè della dignità nè del nerbo necessario al trattar le cose dello
stato, l’essermi tocco in sorte il fratello ch’io ho il quale se è
d’incitamento a me co’ suoi costumi, ad invigilare sui miei, mi
consola nondimeno e mi rallegra con la riverenza e con l’amore ch’egli
mi porta, l’avere avuto figli nè ottusi d’ ingegno nè contraffatti
di corpo, il non aver fatto maggiori progressi nella rettorica nè nella
poetica nè nelle altre arti, dove sarei forse rimasto allacciato s’ io mi
fossi accorto ch’io vi riusciva, l’eessermi sbrigato di costituire in dignità i
miei educatori, come parve a me ch’essi
bramassero e non avere indugiato con la speranza del potere far
cotesto di poi, sendo essi ancor giovani, l’avere conosciuto Apollonio,
Rustico, Massimo. Lo aver concepito chiaramente e più volte qual sia la
vita [Lucio Vero fratello per adozione, uomo in vero viziosissimo,
più assai, probabilmente, che non fosse noto ad Antonino; ma devotissimo e
affezionatissimo a Ini] secondo natura: s'i che per gli dei non manca, nè
per aiuti e suggerimenti ed ispirazioni loro, ch’io non vivessi a quel
modo; manca bensì por me, il quale non osservai gli avvisi e, sto
per dire, gli insegnamenti che essi mi dano, l’aver potuto reggere della
persona durante cotanto tempo in cotal vita. Il non aver avuto a
fare ne con Benedetta nè con TEODOTO e che di poi, CADUTO novamente nella
PASSION D’AMORE passion d’amore, io abbia potuto guarirne. Che, essendomi
adirato più volte con Rustico, io non abbia fatto nulla di che
avessi poi a pentirmi; che, dovendo mia madre morir giovane, abbia
nondimeno vissuto con me gli ultimi suoi anni; e che, ogni volta eh
io volli soccorrere alcuno, o povero o altrimenti bisognoso, non mi
fu mai detto ch’io non avessi danari per farlo e il non essermi
trovato mai io medesimo in simigliante occorrenza, da dovere aver ricorso
ad altri, l’avere la moglie ch’io ho, così docile, così amorevole, così
alla buona; il non essermi mancato acconci educatori pe’ miei figli, l’essermi
stati dati rimedi in sogno, e, fra gli altri, contro lo sputo di sangue e
contro le vertigini, e il non essere caduto nelle mani di un qualche sofista,
quando io venni in desiderio della filosofia, nè essermi posto a far lo
scrittore, o a risolver sillogismi, o a speculare sui fenomeni del cielo.
Le quali cose tutte richiedono l’aiuta degli dei e della fortuna.
Fra i Quadi, ulle sponde del Or amia. A FauRtiiia non dovè esser
diffìcile il celare coir astuzia o colla fìnta tenerezza! [Suoi
pessimi portamenti ad un nomo di sì poco sospettosa natura qual era
Antonino, massime verso dii mostravagli affeziono]. Al mattino, fa’ che tu
dica a te stesso. Avrò da fare con un curioso, con un ingrato, con un
soperchiatore, con un furbo, con un invidioso, con un insociale. Tutti
questi difetti han per causa la ignoranza dei beni e dei mali. Ma
io, il quale conosco la natura del bene, e so ch’egli è l’onesto; e
quella del male, e so cb’egli è l’inonesto; e quella di lui
medesimo che pecca, e so ch’egli è mio congiunto; non perch’egli
sia d’ uno stesso sangue o d’uno stesso seme con me, ma perchè
partecipa «r una stessa mente e d’ una stessa origine divina. Io
non posso ricever danno da nessun di loro. Giacché nessuno mi farà
incappar mai nell’inonesto malgrado mio; nè adirarmi posso col mio congiunto,
nè diventargli inimico; perchè NOI SIAM NATI PER COOPERARE L’UN COLL’ALTRO, siccome
i piedi, siccome le mani, siccome le palpebre, siccome i denti di sopra e
i denti di sotto. E però l’andare a ritroso l’ un dell’altro è cosa contro
natura, ed è uno andare a ritroso lo adirarsi l’un coll’altro
e l’aversi in dispetto. Questo checchessia, che io mi sono, è un
composto di carni, di fiato, e della parte sovrana. Lascia stare i
libri; non travagliartene più; non ne hai più il tempo. Ma, come quegli
che sei presso a morire, metti le carni in non cale; elle non sono
altro che sangue, ossicini, e una rezza, per così dire, di nervi, di vene
[La parte sovrana, cioè la ragione o la mente e d’arterie. Vedi anche il
fiato che cos’è: imvento; e non sempre il medesimo, ma di continuo
rigettato e rinnovellato. Rimane la parte sovrana. A questa hai da
badare. Tu sei vecchio. Non lasciare che ella serva più oltre. Non
lasciare che ella sia tirata più oltre, quasi fantoccino, da
appetizioni insociali; non lasciare che ella contraddica più oltre al destino,
0 crucciandosi delle cose presenti o respignendo da sè le cose
avvenire. Le opere degli dei sono ripiene di provvidenza. Le opere
della fortuna non sono infuori della natura, cioè di quella
coordinazione e connessione di cause cui la provvidenza governa. Tutto
scaturisce di là. Aggiugni che quanto è, di necessità è, ed è utile all’ universo
di che tu sei parte. Ora, ad ogni parte della natura è buono ciò che porta
la natura comune e che è sostentativo di quella. E sostentano il mondo,
siccome le mutazioni degli elementi, cosi ancora le mutazioni dei
composti di essi elementi. Queste cose ti bastino, queste sieno sempre
mai le tue ferme credenze. E caccia via quella tua sete di libri,
affinchè tu non muoia morando, ma sereno e ringraziando gli dei
sinceramente e di cuore. Ricordati da quanto tempo tu vai differendo
queste cose, e quante volte, avendo ricevuto opportunità dagli dei,
non te ne sei valuto. E convien pure che tu riconosca una volta di
qual mondo fai parte e da quale reggitor del mondo sei emanato; e siccome
un tempo ti è prefìsso, del quale se tu non fai uso per acquistare la
tranquillità dell’ animo, egli passerà, e tu passerai, e non sarà
più. per ritornare. Sii sempre INTENTO AD OPERAR GAGLIARDAMENTE DA ROMANO
E DA MASCHIO QUAL SEI, quel che hai por le mani, con serietà diligente e
non punto affettata, con amorevolezza, con libertà, con integrità; e
sgom-bra l’animo tuo da ogni altra cui*a. Lo sgombrerai, se farai ciascuna
tua azione come se fosse l’ultima della tua vita, scevra affatto di
leggerezza, e di avversione appassionata ai consigli della ragione, e di
doppiezza, e di amor proprio, e di scontentezza per le cose
condestinate ab eterno con te. Vedi quanto poco ci vuole perchè altri
possa vivere una vita avventurosa e accetta agli dei! Chè di fatti
gli dei non richiederanno nulla più da chi osserva cotesto. Disonorati
su, disonorati, o anima; d’onorarti poi, non ti rimarrà più tempo. Perchè
tanto di bene ha ciascheduno, quanto la sua vita glie ne arreca; e
tu hai pressoché consumato la tua, non già rispettando. Con/’ala/ia, disse
CICERONE usando anch’egli una voce ignota sinallora ai latini. 2t)
te medesima, ma riponendo nelle anime altrui la tua felicità. Se’
tu svagato dalle impressioni del di fuori? Concedi agio a te stesso
di imparare alcun che di buono, o cessa dall’errare qua e là. Ornai
anche hai da guardarti da un secondo svagamento. Perchè vaneggiano anche
con le azioni gli uomini stanchi della vita e non aventi uno scopo a
cui dirigano ogni loro sforzo ed ogni lor pensiero qualunque. Per non
avere avvertito ciò che succede nell’anima d’un altro, di rado
l’uomo fu mai veduto infelice, ma chi non avverte i moti dell’ anima
propria, è infelice di necessità. Queste ione conviene avere a mente
sempre. Quale è la natura dell’universo e quale la mia. Qual relazione ha
questa con quella. Qual parte è del tutto e di qual tutto. E come
nessuno può impedirti dal far sempre E DIRE ciò che è consentaneo alla
natura di che sei parte. Filosoficamente Teofrasto, nel paragone
ch’ei fa dei peccati, secondo che volgarmente si suole, afferrna esser
più gravi le colpe che si commettono PER CONCUPISCENZA che non quelle che si commettono PER
IRA. Imperocché non senza un certo dolore e raggricchiamento segreto
deir animo mostra l’uomo adirato ch’egli si torca dalla ragione; laddove
CHI PECCA PER CONCUSPISCENZA, VINTO DAL PIACERE, sembra, in un certo modo, più
intemperante e più EFFEMINTATO nel fallo. Rettamente adunque e con molta
filosofia dice egl’essere maggiore la colpa di chi PECCA CON PIACERE che non di
chi pecca con dolore. Ed infine,’ uno rassomiglia piuttosto a
persona ingiustamente [volgarmeutu: detto por opposiziono al dettato
stoico, essere i peccati uguali. olTesa, che il dolore abbia sforzato a
sdegnarsi. Ma l’altro si muove spontaneo e da per sè all’ingiustizia, recandosi
PER CONCUPISCENZA a far
checchessia. Convien pensare ed operare ogni cosa come se tu dovessi
uscir di vita in quell’ ora. Uscir di vita, se ci sono gli Dei, non è
punto cosa tremenda. Da che non è possibile ch’essi ti vogliano fare
incappar nel male e se non ci sono, o se non curano le cose umane, a
che vivere in un mondo orbo di provvidenza e d’Iddei? Ma e ci sono
gl’iddei, e si piglian cura dell’uomo; e perch’egli non inciampasse
nei mali veri, posero in arbitrio di lui la cosa; dei rimanenti se alcun
fosse male, a quello ancora avrian provveduto, sì che potesse
ognuno guardarsene. Ma quello che non fa peggiore l’uomo, come farebbe
peggiore la vita dell’uomo? Oltre che la natura dell’ universo non saria stata
mai trascurata A TAL SEGNO non, perdi ella non sapesse; non, perchè
sapendo non potesse); non saria mai, dico, nè per impotenza nè per
disavvedutezza incorsa in tanto errore da lasciare che i beni e i mali
toccassero del pari e senza differenza nessuna ai buoni ed ai
tristi. E pur noi veggiamo che la morte e la vita, la gloria e l’infamia,
il dolore e il piacere, le ricchezze o la povertà, cose tutte che non sono
nè oneste nè inoneste, toccano senza differenza ai tristi ed ai buoni.
Adunque, nè benf olle sono nè mali. Come tosto svanisce e va a
per- dersi ogni cosa, nel vortice del mon- do i corpi, e nello
avvicendarsi del tempo la memoria di quelli! quali sono tutte le
cose sensibili, e mas- simamente quelle clic adescano col piacere o
atterriscono col dolore o sono dalla vanità degli uomini celebrate!
quanto son vili, dispregevoli, sucide, corrottibili, morte! questo
è . da considerare per una facoltà intel- lettiva: che cosa son
coloro le opi- nioni dei quali e le voci distribui- scono la fama ;
che cosa è il morire ; e siccome, chi lo considera solo da per sè,
separandolo con la mente da tutto ciò che la fantasia v’ ha aggiunto, non
se ne fa più concetto se non come di operazione della natura : ora
il temere un’ operazione della na- tura è cosa da fanciullo. E
questa non solo è operazione della natura, ma operazione utile a
quella. In che maniera 1’ uomo comunica con Dio, e per qual parte
di sè; e come disposta debb’ essere allora questa parte dell’
uomo. Non v’ ha misero al pari di colui che va esplorando in giro
ogni cosa, come disse quell’ altro, anche le cose di sotterra, e
vuol penetrare, per via di congetture, ciò che sta nell’ animo del
vicino, senza accor- gersi che gli basterebbe pure tenersi accanto
al genio che è in- lui, e servir quello di cuore. Servire il genio che è
in noi,' vuol dire mantenerlo netto di passione, di operar teme-
rario, e di scontentezza per cosa che venga dagli Dei o dagli uomini.
Per- chè quel che viene dagli Dei è ve- nerabile, per la virtù eh’
è in loro : quel che vien dagli uomini è ami- chevole, per la
parentela che abbiam con loro; e talvolta anche compas- 1 sionevole
per l’ ignoranza in che ' sono de’ beni e dei mali ; cecità non
minore di quella che impedisce di scernere il bianco dal nero. Quand’
anche tu avessi a vivere tre migliaia d’ anni ed altrettante
diecine di migliaia, sovvengati non- dimeno che r uomo non perde
altra vita che quella eh’ egli vive, nè vive ' Inteudi la
ragione. altra vita che quella ch’egli perde. Ad uno stesso
fine adunque riescono e la più lunga vita e la più breve. Perchè il
presente è uguale per tutti, se bene non è uguale lo spazio di vita
insino allora trascorso; e così appare che il tempo che l’ uom
perde è un momento indivisibile. Nè il pas- sato di fatti nè il
futuro non può perdere egli mai; come perdere ciò che non ha ? Di
questi due punti adunque ti hai da ricordare; l’uno, che il mondo
va eternalmente sem- pre ad un modo, ravvolgendosi come in un
cerchio, e che non v’ ha dif- ferenza dal vedere le stesse cose per
cento anni al vederle per dugehto o per la infinità dei secoli; l’ altro,
che ugual vita perde e chi muor decrepito e chi muore'per
tempissimo ; perchè il presente è la sola vita che venga lor tolta,
essendo la sola che ciascun d’ essi abbia, e nessuno non potendo
perdere quel che non ha. Siccome tutto è opinione. È noto il detto di
Monimo il cinico. E nota anche V utilità di quello, chi ne colga il
midollo per insino ai confini del vero. L’anima umana fa onta a sè
stessa, primieramente quando ella ; diventa, per quanto sta in lei,
come chi dicesse un apostema o tumore del mondo, ritraendosi da
quello co- me fan gli umori guasti dal corpo. Perchè il crucciarsi di un
accidente qualunque è un ritrarsi dalla natura univei-sale, dentro
alla quale son contenute, siccome parti di quella, tutte le nature
degli altri. In secondo luogo, quando ha avversione a un [Diceva
che] [Ogni nostra opinione è fumo e boria. “Apostema” in greco vuol dire ad un
tempo ed apostema e ritiramento. È solenne agli stoici il torre
esempi, nelle cose morali, dalla natura fisica, siccome quella in cui
è contenuta, secondo loro, ancho la natura morale. qualche uomo, od
anche se gli volge contro per nuocergli, come le anime degli
adirati. In terzo luogo ella fa onta a sè stessa quando si lascia
vin- cere dal piacere o dal dolore. Quarto, quando ella s’ infinge
ed opera o parla con simulazione e contro la verità. Quinto, quando
ella non in- dirizza a nessuno scopo una qualche sua azione o una
qualche sua deter- minazione di volontà, ma opera a caso e senza
sapere che cosa si fac- cia; laddove nè anche le minime cose non
(iovrian farsi mai se non con rela- zione al fine. E il fine degli
animali ra- gionevoli è il conformai'si alla ragione e legge della
più antica fra le città e le repubbliche e della più veneranda. Della
vita umana, la durata è un punto; la materia, fluente; il senso,
tenebre ; la compagine di tutto il corpo , corruzione ; l’anima,*
un La città e repubblica del mondo. Per anima qui non s' intendo
certamente ap^gintrsi perpetuo; la fortuna, cosa mala a prevedere;
la fama, cosa senza giudizio. E a dirla in breve, ciò che riguarda
il corpo, è un torrente; ciò che riguarda l’ anima, so- gno e fumo ; la
vita tutta intera, guerra e pellegrinaggio; e la rino- manza che le
vien dopo, oblio. Che i adunque v’ ha a cui tu ti possa atte- nere?
Sola ed unica una cosa; la filosofia. E questa consiste nel custo-
dire per tal modo il genio interno, eh’ egli non riceva nè onta nè
danno, sia superiore al piacere e alla pena, non operi nulla a
caso, nè infìnta- mente 0 con animo d’ ingannare, nè abbia bisogno
mai che altri faccia o non faccia checchessia; inoltre ac- cetti
ogni avvenimento a lui desti- r anima ragionevole, nè la mente, o
la parte sovrana, o il genio interno menzionato nelle , linee
segnenti; ma solamente il principio della vita animale [Una distinzione è fatta
distinzione fra corpo, anima e mente. nato siccome cosa che gli viene
di colà d’ onde è venuto egli stesso ; sovra tutto poi, aspetti la
morte con mente serena, siccome nulla più che dissoluzione degli
elementi onde ogni animale è composto; ai. quali se non è grave lo
essere trasmutati di conti- nuo r uno nell’ altro, per qual ca-
gione si avrà ella a temere la tras- mutazione e la dissoluzione d’
essi tutti in una volta? Ella è cosa se- condo natura; e nulla che
sia se- condo natura non è mai un male. Tn Carnvnto, Non
solamonte è da considerare che la vita si va consumando ogni dì, e che
sempre ce ne riman meno, ma eziandio che egli è incerto, ove ancor l’uomo
viva lungamente, s’egli avrà sempre vigor 'di mente che basti per la
intelligenza degli affari e la contemplazione che ha per iseopo la
conoscenza delle cose divine ed umane. Perchè, quan- do egli
incominci a vaneggiare, non cesserà però, egli è vero, nè di tra-
spirare, nè di nudrirsi, nè di avere immaginazioni, nè appetiti, nè altre cose
di tal fatta; ma valersi di sè stesso, ma avvertire distintamente
tutti i numeri * del dovere, ma chia- rire i propri concetti, ma, quel
che importerebbe allora, deliberare se sia già tempo per lui di
andatene,® e quante altre cose richieggono una raziocinativa molto
bene esercitata, cotesto non potrà egli più, chè la facoltà sarà
spenta anzi tempo. Con- viene adunque affrettJirsi, non sola- mente
perchè ci facciamo ognora più vicini alla morte , ma ancora perchè
cessano in noi anzi il finir della vita la intelligenza e la com-
prensione delle cose. È degno pure d’ osservazione che anche quelle
cose le quali sono un mero accompagnamento necessario [‘Onesto’
chiamano gli stoici il perfetto bene per lo avere esso tutti i numeri che
la natura richiede.] [Secondo gli stoici non dovea rimanere in vita
r nomo che non potea più adempire gli uffici d’uomo] d’ ima operazione
della natura hanno un non so che di grazioso e di dilettevole. Per
esempio, cocen- dosi il pane, si screpola in certi luo- ghi. Or
bene, anche quelle così fatte screpolature che stan là, per così
dire, fuori dell’ intenzione del for- naio, hanno un certo garbo o
muo- vono r appetito in un certo modo lor proprio. Ancora i fichi,
quando sono ben maturi, si aprono. E nelle ulive lasciate lunga
pezza in su V al- bero, quello stesso essere già vicine a
corrompersi, aggiugne al frutto una certa bellezza particolare. E
le spighe che s’ inchinano, e la guar- datura del leone, e la
schiuma che esce fuori di bocca al cinghiale, e molte altre cose le
quali, considerate da per sè, sono lontane da ogni bellezza, nondimeno,
perch’ elle accom- pagnano necessariamente un’ opera della natura,
aggiungono a quella ornamento e dilettano altrui. Di maniera che, chi
avesse altezza d’ in- gegno e considerasse ad una ad una le cose
che accadono nell’ universo mondo, nessuna ne troverebbe per
avventura, anche di quelle che sono mera conseguenza- necessaria
delle altre, la quale non gli paresse farsi con una certa grazia.
Costui vedreb- be la gola spalancata d’ una fièra viva con non meno
piacere che quando gli scultori o i pittori glie la fan vedere
imitata; e nelle vecchiarelle e nei vecchi scorgerebbe un certo che
di finito e di maturo non meno piacevole ai casti occhi di lui che
là venustà dei fanciulli ; e molte altre cose gl’ incontrerebbe di
vedere, che non fan senso in tutti, ma solamente in chi s’ è
veramente addimesticato con la natura e con le opere di
quella. Ippocrate cura di molti ammalati. Poi s’ammala egli stesso,
e muore. I caldei predicono a molti la morte, e poi venne anche per
loro la morte. Alessandro e Pompeo e Giulio Caio Cesare, i quali
distrussero dalle fondamenta le tante città, e tagliarono a pezzi in
giornata campale le tante migliaia di cavalli e di fanti, usceno poi
anch’essi di vita, alla fine. Eraclito, dopo avere con tanta sapienza e
ragioni naturali discorso intorno alla conflagrazione del mondo, gonfiatosegli
d’acqua il corpo, coperto di letame se ne muore. DEMOCRITO e spento da’
pidocchi, SOCRATE da pidocchi d’ un’ altra sorta. Che è ciò? Ti se’
imbarcato, hai navigato, sei giunto; esci di nave. Se per andare ad un’altra
vita, nessun luogo è vuoto di iddii, e nè anche [Diogene Laerzio
narra che Democrito mori di vecchiaia. LUCREZIO, che nscì spontaneamente
di vita, perchè sente il suo spirito indebolirsi per effetto degli
anni. Non trovasi nota alcuna tradizione che concordi con ciò che
qui dice Antonino] quello dove vai; se per rimanere senza
sentimento, avrai finito di soffrire i dolori E I PIACERI e di dovere andare a
versi ad un vaso che è di tanto inferiore a quel che gli serve. Perchè
l’ uno è mente e genio, e l’altro è terra e sangue. Non consumare
quella porzione che ti rimane di vita nel pensare ai fatti altrui,
ogni volta che tu noi faccia con un fine di comune utilità. Cioè nello
andar fantasticando che cosa opera il tale e per qual cagione, e che
dice, e che pensa, e che macchina, e somiglianti cose, le quali tutte ti
fan deviare dalla custodia della tua parte sovrana. Conviene adunque
guardarsi, nella succession dei pensieri, dall’ozioso e dal vano, ma
molto ancora^più dal curioso e dal maligno; ed avvezzar sè stesso a
pensar solo tali cose che, quando altri, all’improvviso ti
domandasse, che pensi ora? Tu possa risponder tosto e senza tema.
Questo, o quest’altro. Onde appaia subito manifestamente non avervi nulla in
te che non sia schietto e benevolo, nulla che non convenga ad
animai socievole; il quale non si compiace nelle immaginazioni di
piacere o di godimento qual eh’ ei sia, o di gaiti o d’invidia o di
sospetto, o di qua- lunque altra cosa ti facesse arrossire quando
tu avessi a confessare che l'avevi in mente. Un uomo di tal fatta,
il quale non indugia d’ oggi in domani a por sè nel novero degli
ottimi, è come un sacerdote e un ministro degli Dei, devoto, non
meno che agli altri, a quello che ha il suo tempio in lui medesimo;
per virtù del quale l’ uomo diventa inconta- minabile ad ogni
jiiacere, invulne- rabile ad ogni dolore, inviolabile ad ogni
ingiuria, insensibile ad ogni malizia, sostenitore in campo della
massima fra le imprese, quella del non essere abbattuto da nessuna
passione, imbevuto di giustizia in- sino al fondo, disposto ad
accogliere con tutta r anima quanto accàSe e gli vien destinato, e
non occupan- tesi se non di rado nè mai senza una grande e pubblica
necessità, di CIÒ che altri fa o dice o pensa ; perch’ egli non ha altre
azioni in sua balìa che le proprie, e pensa conti- nuamente alle
cose che il fato del- r universo gli arreca; per far si che le
prime sieno oneste, siccome ha fede che le seconde sien buone ;
quando la sorte attribuita all’ uomo procede dalla stessa causa che l’
uo- mo e concorre insieme con 1’ uomo ad un medesimo fine. Sa
inoltre che tutti gli esseri ragionevoli han pa- rentela fra loro;
che è quindi con- forme alla natura dell’ uomo il tener cura di
tutti ; benché non sia da far conto deir opinione di tutti, ma solo
di coloro che vivono secondo natura. Quanto a quelli che vivono
altra- mente, egli tien sempre a memoria che sorta cT uomini sono,
e quali, e in casa e fuor di casa, e di notte e di giorno, si
dimostrano, e con quali praticano; non ha quindi in pregio nessuno
la lode che gli può venire da tallente, la quale nè anche a sè
stessa non piace. 5. Non operar mai nè contro al tuo volere,
nè senza relazione al bene della società, nè senza avere esaminato
la cosa, nò con renitenza ; non adornare con isquisitezza di frasi
il tuo pensiero: non esser uomo nè di molte parole, nè di molte
faccen- de.' Ancora, fa’ che il Dio tuo in- terno abbia a governare
in te un animale maschio, attempato, citta- dino, romano, imperatore,
apparec- chiato di tutto punto, siccome quegli che non aspetta
ornai se non il suono Di molte faccende in cattivo senso, come chi
dicesse faccendone, o faccendiere. della tromba* per uscir della vita, e
non occorre sforzarlovi nè col giu- ramento, nè con la
testimonianza (f altr’uomo ; nel lieto aspetto del quale ben si
scorge non avere egli bisogno nè dell’ aiuto che vien dal di fuori,
nè della tranquillità che gli altri procurano. Conviene adunque
esser ritto in piedi già, e non riz- zarui solamente. Se tu trovi
qualche cosa di meglio nella vita dell’ uomo che la giustizia, che la verità,
che la temperanza. che la fortezza, e, in una pa- rola, che quella
disposizione della mente per cui ella si appaga di sè medesima
nelle cose die ti fa ope- rare secondo la retta ragione,, e del
fato, nelle cose che senza parteci- pazione della tua volontà ti vengono
distribuite; se, dico, tu trovi alcun che di meglio che questo, a
quello 1 Similitudine tolta dagli ordini della milizia appo i
Romani. voiti con tutta l’ anima e godine siccome di cosa che hai
ritrovato esser l’ottima. Ma se nulla ti si presenta di meglio che il
genio stesso tuo interno, quando si è fatto signore de’ propri
moti, e rivoca ad esame le proprie immaginazioni, e si è sot-
tratto^ come dice SOCRATE, dalle passioni del senso, e vive
sottomesso . agli Dei e pigliandosi cura degli uomini. Se, a paragone di
questa, tutte . le rimanenti cose ti paion picciole e vili, non dar
più luogo appresso te a nessuna altra, alla quale una volta che tu
ti sentissi propendere, più non potresti senza repugnanza preferire
a tutti quel bene che è proprio di te ed è il tuo; perchè al bene
j’azionale ed efficiente non vien contrapposto impunemente mai
nulla che sia di natura diversa, come le lodi della moltitudine, o il comandare,
o i piaceri del senso ; tutte queste cose, per poco che le si
paiano Ò1 adattare,' ti sopralfamio in un attimo
e ti strascinano. Or tu, dico io, sce- gli schiettamente e liberamente
il meglio, e a quello ti attieni. — Ma il meglio è l’utile. Se
l’utile all’uomo in quanto è ragionevole, bene sta, quello procura: se l’
utile all’ uo mo in quanto animale, dillo su aper- tamente e vivi di poi
senza boria nò fasto, secondo quella determinazio- ne. Ma bada,
ve’, che non ti inganni nell’ esame. Non riguardare giammai come i
[Par ch’Antonino alluda qui alla teoria dell’adattare le nozioni generali
alle cose particolari, o, del concetto alla rappresentazione, che è ciò
in che consisto il giudizio]. Dillo spiattellatamente, se ardisci,
senza avvolgerti in parole coperte: e ammetti poi tutte le
conseguenze di quel tuo detto: cioè, vivi poi da animale mero e puro,
senza in- gerirti a parlare nè di moralità nè di virtù nè di
giustizia, nè d* altro simile, che in quel caso sarebbero un vano fasto
di parole. E provocazione al senso intimo dell'uomo. Utile a te nulla che sia
per isforzarti un dì a violar la fede, abbandonare il pudore,
odiare alcuno sospettare, maledire, simulare, desiderar cosa j che
abbia bisogno di pareti e di ve- lame . Chi ha posto innanzi ad
ogni altra cosa la sua mente e genio, e il culto della virtù eh’ è
propria di quello, non fa tragedie, non geme, non ha bisogno di
solitudine, non di frequenza d’ uomini; quel che più impoita, vive
senza ricercar nulla nè fuggire; abbia ad esser lungo o , abbia ad
esser corto Tintèrv^allo di tempo durante il quale sarà conte- nuta
nel corpo l’ anima con che egli lia a fare,' non se ne piglia nè
an- clic il minimo pensiero; e quando Con che egli ha a fare. Non
veggo che cosa abbia voluto dire l’ornato. [Il senso letterale del
testo è: sia lungo o sia breve il tempo, eh' egli avrà a far uso dell'
ani- ma contenuta nel corpo. Il che, parrai, equi- vale a dire: sia
lungo, o sia breve il tempo ch'egli ha a vivere. L’è giunta l’ora dello
sgombrare, cosi spiccio se ne va, come se imprendesse un’ altra qualunque
di quelle azioni che si possono con verecondia e con dignità
operare; da questo solo guardandosi per tutta la vita, , che veruno
dei moti della sua men- te non sia mai men che convene- vole ad
animale intelligente o sociabile. Nella mente dell’ uom castigato e
puro non troverai nulla di marcio, nè tampoco nulla di contaminato
o che paia sano al di fuori e noi sia. La vita di lui, a
qualsivoglia ora lo sorprenda la morte, non è mai imperfetta, come tu
diresti quella tragedia d’onde un attore si fosso riti- rato prima d’
aver condotto a fine la sua parte. Ancora non è in lui nulla di
villano, nè nulla di artata- mente gentile; nulla che il leghi alle
cose esteriori nè nulla che lo separi da quelle; nulla onde egli
sia palesemente ripreso,' nè nulla che covi addentro nascosto.
Abbi in rispetto la facoltà giudicativa.^ Per lei sta che non si ge- neri
nella tua parte sovrana nessuna opinione che non sia consona alla
natura o al fine per che 1’ uomo è ordinato. Ed essa promette la infallibilità,
e l’amicizia con gli uomini e l’ubbidienza agli Dei. Messe adunque
da banda tutte le altre cose, queste poche sole abbi in mente; ed
ancora ricordati che i r uomo non vive altro tempo che questo
presente, cioè un attimo; il rimanente o lo ha vissuto o non sa se
il vivrà. Picciola cosa pertanto è [Intendi: nulla che appaia manifestamente
vizioso. Ossia la virtù del non cadere in errore ; che vien definita da Zenone la
scienza del quando conviene assentire ad i un' apparenza, e quando no.
Questa accompagna sempre il giudizio comprensivo, che è il criterio della
verità appo gli stoici. 0 Digitizedh, Cnoi^li: il tempo che
l’ uom vive, picciola cosa rangoletto della terra dov’egli vive. Picciola
cosa la fama anche la più lunga eh’ egli lascerà dietro sè, e questa
tramandantesi per successione d’ omiciattoli in omiciattoli, morti quasi
appena nati, ed ignari anche di sè medesimi, non che di colui il
quale moriva è già gran pezza. li. Agli avvertimenti dati sin
qui s’ aggiunga ancora quest’ uno, di de- finir sempre o descrivere
l’oggetto che cade sotto al tuo senso, si che tu lo scorga a parte
a parte distin- tamente e tutt’ insieme quale egli è nella sua
essenza nudo, e dir teco stesso il nome proprio di quello e il nome
delle cose di che è compo- sto e in che s’ ha da risolvere. Perchè non v’
ha nulla che sublimi cotanto l’animo quanto il potere arguire per la
diritta via e con verità ciascuna delle cose che incontrano nella
vita, e saperle vedere per ino» do da conoscere nello stesso tempo
di qual uso sendo questa tal cosa al mondo, e a qual mondo, qual
valore ha rispetto al tutto e quale rispetto air uomo, che è
cittadino della suprema fra le città, della quale le altre città
sono' come al- trettante famiglie. Che cosa è, e di che cosa è
composto, e quanto tempo è por duiare ij cesto che fa impres- sione
ora sul mio senso; di che virtù s’ ha da far uso con esso, per
esem- pio, della mansuetudine, della for- tezza, della veracità,
della fede, della semplicità, della frugalità, o simili. Però,
intorno a ciascuna cosa, con- vien dire : questa mi viene da Dio. Questa
dalla sorte, dalla complica- zione delle cause condestinate, e so-
miglianti cose; quest’ altra dal mio consorto, dal mio congiunto,
dal partecipe d’ una stessa società con me, il quale ignora
nondimenò ciò che è secondo natura per lui. Ma 10 non lo
ignoro ; e però mi governo con lui secondo la legge naturale della
società, con benevolenza e giu- stizia; e ad uno stesso tempo ho
riguardo, nelle cose mezzane,' al valore di ciascheduna. Se tu operi
secondo la retta ragione quel che hai fra mano, stu- diosamente, c
vigorosamente, placi- damente, e non t’ occupi d’ altra cosa tra
via, ma conservi puro ed intatto 11 genio tuo, come se tu dovessi
già rassegnarlo ; se a lui ti tieni stret- Si chiamai! còse
mezzane appo gli stoici quelle che non sono nè ben nè male, cioè nè
virtù nè vizio. Le quali, comecché da per sè non meritino d' esser
cercato nè fug- gite, si accettano nondimeno o si rigettano per r
aiuto o disainto che elle possono ar- recare alla vita secondo natura.
Quelle che arrecan più aiuto, han più valore: quelle che più
disainto, più disvalore. Di questò ha da tener conto il savio, ed
accettare, quando gli è data la scelga, quelle che han più valore,
o che han meno disvalore. 0. Sottintendi « a chi tol diede. » to, nulla
aspettando, da nulla rifug- gendo, contentandoti dell’ azion tua
presente secondo natura e della eroi- ca verità d’ ogni cosa che tu
dica: felicemente vivrai. Ora non v’ ha nessuno' che ti possa
questo impedire. Come i medici han pronti sem- pre i loro ferri e
strumenti per le cure inopinate, così abbi tu alla mano i principi!
* per la cognizione delle cose divine ed umane; e non far nulla
mai, per poco che sia, senza ricordarti del legame che unisce
queste con quelle. Perchè nulla di umano farai tu bene se non lo
ri- ferirai al divino, e viceversa. Non andar più vagando;
per- chè non sei per rileggere oramai nè i tuoi ricordi, hè le
azioni degli an- tichi romani e greci, nè gli estratti Punti
fondamentali di credenza, cre- denze prime, dommi : decreta . appo
CICERONE. d’ autori che riserbavi per la vec- chiaia. Studiati dunque d’
arrivare al fine, e poste da banda le spe- ranze vane, soccorri a
te stesso, se pur ti cale di te, mentre che il puoi. 15. Non
sanno * quanti significati abbiano le parole rubare, seminare,
comperare, riposare, veder quel che sia da fare, il che non si reca
ad effetto con gli occhi, ma con un’al- tra sorta di vista. Corpo,
anima, mente ; del corpo son le sensazioni, deh’ anima le ap-
petizioni, della mente le credenze.^ Ricevere impressioni nella
fantasia è cosa anche da giumento; esser mosso da appetiti è cosa
anche da fiera, anche da androgino, anche da Falaride, anche da
Nerone; avere per iscorta la mente a quello che ci pare nostro
ufficio, è cosa anche I Sottintendi c gli nomini del volgo. Dommi,
decréta. Intendi, a quello che ci par eg$ere noda chi non crede che v’
abbiano Dei, da chi abbandona la patria, da chi fa, quando ha
chiuso le porte, ogni opera nefanda. Se adunque tutte queste cose
abbiam comuni cogli anzidetti, resta che sia proprio dell’ uomo
dabbene lo amare ed ab- bracciare gli accidenti ad esso con-
destinati e guardarsi dal macchiare e turbare con immaginazioni
sconce il genio che risiede nel petto di lui, ma conservarlo
propizio, seguendolo modestamente* come un Iddio, non dicendo mai
nulla che sia contro al vero, nè dicendo mai nulla che sia contro
al giusto. Che se nissuno ttro interene. Questo è il significato
generale della parola ufficio appo gli stoici. Solo allor quando le si
aggingne l'epiteto di perfetto denota essa il dovere^ che è come V
intereae iublime dell' uomo. Noto questo perchè alcuni degli interpreti,
e per ultimo anche il Corai, hanno maravigliosamente scompaginato -
e interpolato questo passo; frantendendolo. V. Diog. Laerz.; Stobeo ;
Cic. de Officiùt otc. degli uomini non gli vuol credere eh’ egli
viva con semplicità, con ve- recondia, e di buon animo ; nè s’adira
egli contro costoro, nè si svia dalla strada che conduce al fine della
yita. al quale si vuol giunger puro, tranquillo, spedito, e conformato di
vo- lontà col proprio destino. La parte che dentro di noi regna, quando
è nel suo stato natu- rale, ha tal disposizione verso gli accidenti,
che senza difficoltà si rivolge sempre al possibile e al dato. Perch’ella
non ama nessuna mate- ria determinata ; ma si porta con eccezione* a
quello che si ha pro- posto, e quando alcun che se le viene ad
attraversare per via, ella si fa di quello stesso materia ; come il
fuoco, quando s’ impadronisce delle [La parte sovrana o dominante. [Eccezione
: vocabolo stoico. Indica limitazione del proponimento al possibile]. Farò
la tal cosa, se non sarò impedito] cose die incontra, dalle quali una picciola
lampana sarebbe spenta. Ma lo splendido fuoco assimila a sè tosto ogni
cosa che se gli butti dentro, e la consuma, e per quella stessa s’in-
nalza più in su. 2. Nessuna azione sia fatta a caso mai, nè
altrimente che secondo una delle regole costitutive dell’arte. Van
cercando ritiri, alla campa- gna, alla marina, sui monti; e tu
stesso suoli desiderare siffatti luoghi. Ma cotesto è da uomo
ignorantissi- mo, potendo tu, a quell’ ora che tu vuoi, ritirairti
in te stesso. Perchè [Ad ogni caso della vita corrispondo una virtù
da esercitare (vedi sopra, III, 11, e più abbasso, IX, 11, 42): ed ogni
virtù è appo gli stoici nna scienza nello stesso tempo ed un’ arte:
parlo delle virtù pro- priamente dette. Come scienza quindi e come
arte consta di certo proposizioni o re- gole, ciascuna delle quali è
parte integrante di quella, e tutto insieme" la costituiscono. Ogni
ufficio consta di corti numeri. inroRDi.
«4 in nessuno altro luogo si ritira l’ uomo con più tranquillità e
con meno brighe che nell’ anima sua ; massi- mamente chi ci ha
dentro tanto alti oggetti di contemplazione che il solo affacciarsi
a loro procaccia tosto ogni sorta di agevolezza. Quan- do dico
agevolezza, non voglio dir altro che buon ordine. Concedi adun- que
sovente a te questo ritiro e rin- novella quivi te stesso. Breve
sia r espressione ed elementare la forma di quelle verità
contemplative che avran forza di rasserenare al primo incontro V
anima tua c. rimandarti senza corruccio alle cose alle quali
ritorni. Perchè, di che cosa ti coi'- rucci? Della malizia degli
uomini? Rammentati di quella sentenza, che gli esseri ragionevoli
son fatti gli uni per gli altri; che il sofferire è parte della
giustizia; che malgrado loro peccano ; che tanti si son già inimi-
cati, sospettati, odiati, perseguitatisi
a morte, i quali ora sono spenti, son fatti cenere; e te ne darai pace.
0 ti crucci tu di quella parte che a te Vien compartita dell’
universale de- stino? Rinnovella il dilemma. 0 è la provvidenza o
son gli atomi,' op- pure gli argomenti con che s’ è di- mostrato
che il mondo è come una città. Ma forse tu ti contristi delle affezioni
del corpo? Pensa che non han più nulla che fare con la mente i moti
o sieno soavi o sieno aspri del senso, ogni volta che questa s’ è raccolta
in sè medesima ed ha cono- sciuto la sua propria potenza; al che
potrai aggiugnere quelle altre cose che intorno al piacere e al
dolore hai apparato ed accettato per vere. 0 sarà forse T
amor di gloria quello che ti turba? Considera come è ratto Si
allude al sistema atomistico di- Epicuro, il quale ne- gava la
previdenza, e attribuiva il mondo e tutti i fenomeni del mondo ad una
causa non intelligente. l’oblio d'ogni cosa, interminato dal - runa
parte e dall’ altra* il caos della età, vana cosa il rumore,
mutabile, e inconsiderato chi in apparenza ti‘ esalta, angusto il
luogo dove è cir- coscritto il suo dire. Perchè tutta la t.erra' è
un punto: e qual parte di essa è l’angoletto che tu abiti? e quivi
ancora quanti avrai lodatori, e quali? D’or innanzi adunque sov-
vengati di ritirarti in questa tua vil- letta di te medesimo; e sopra tutto,
non. t' affannare, non t’agitare, ma sii libero e vedi le cose da uomo,
da ‘ maschio, da cittadino, da mortale. Ed abbi in pronto, fra le
verità alle quali dovrai far ricprso, queste due principalmente: 1’
una, che le cose non arrivano sino all’ anima, anzi stanno al di
fuori immobili;* e i turbamenti nascono dalla sola opinione [A parte ante
e a parte pott come dice la scuola. [nione, che è dentro. L’ altra,
che quanto tu vedi già già si muta e più non è quel desso ; e
rivolgi in mente ciascuna delle mutazioni alle quali tu stesso sei
inten'enuto. Il mondo^ alterazione. La vita, opinione. Se la
intelligenza ci è comune a tutti, anche la ragione per cui siam
ragionevoli ci è comune; se cotesto è, anche la ragione imperativa di ciò
che si dee fare o non fare ci è comune; adunque anche la legge ò
comune; aifunque siam concittadi- ni ; adunque partecipiamo tutti
ad una specie di reggimento civile ; adunque il mondo è come una
città. Perchè qual altro direm noi che sia quel reggimento civile
di cui tutto il genere umano partecipa? Di colà, da quella città
comune, viene a noi r intelligenza, la ragione, la legge, o d’ onde
verrebbon esse? perchè, siccome quanto v’ ha in me di terreo viene
da una certa terra di cui fa parte; e quanto v’ ha in me d’umido,
da un altro elemento; e quanto v’ha di caldo e d’ igneo, da una
certa sorgente propria (nulla venendo mai dal nulla nè ritornando
nel nulla); così anche la intelligenza dee venire da qualche
cosa. La morte è come la nascita, un mistero della natura. Composizione
e risoluzione di certi elementi in quegli elementi medesimi. Ad
ogni modo non è cosa di che1’
uomo debba arrossire ; perchè non è cosa che repugni alla natura
dell’ animale intellettivo o disconsegua al principio della formazione di
quello. Tali cose debbono di necessità farsi in tal modo da questi
tali; chi le vuole altrimente, vuole che il fico non abbia
lattificcio. Del tutto, sov- vengati che in brevissimo tempo e
* Intendi ripugni, non aia conforme. !'• tu e costui sarete
morti: e che, poco dopo, non rimarrà più di voi nè an- che il
nome. Togli via r opinione, ed è tolto via il « sono stato offeso :
» togli via il « sono stato offeso, » ed è tolta via r
offesa. Quello che non fa peggiore l’uomo non fa nè anche peggiore la
vita di lui, nè le nuoce, nè esternamente nè internamente. È
necessitata dall’ utile ‘ la na- tura a far cotesto. Siccome ogni cosa
che accade, giustamente accade; il che, se tu osserverai con
attenzione, troverai 1 Comune. Più letteralmente : « È necessitata
la na- tura deir utile a far cotesto.» La natura deir utile, cioè
il principio sostanziale dell’utile (chè vuol esser presa sostanzialmente
in questo luogo la voce natura), il quale evolvendosi, come ragion seminale,
successivamente nel tempo, fa che ogni cosa sia bene. Perchè non conviene
dimenticar mai che, appo gli stoici, l'utile non è altro che il
bene. sempre vero: non solamente, dico, secondo l’ordine di conseguenza,
ma ancora secondo l’ordine di giustizia; come se le cose
procedessero da tale che distribuisse a ciascuno secondo il merito.
Osserva adunque, come hai cominciato ; ed ogni cosa che tu fai,
falla con questa condizione, che tu sia uom dabbene, nel vero signifi-
cato della parola dabbene. Questo carattere conserva in ogni tua
azione. Non concepir le cose quali le giudica colui che fa ingiuria,
o quali egli vuole che tu le giudichi; ma vedile quali sono in
realtà. Conviene esser sempre pronto a queste due cose ; fai'
solamente quello che la ragion dell’ arte regia e legislativa ti
suggerisce per 1’ uti- lità degli uomini ; e cangiar partito,
quando altri viene a raddrizzarti e rimuoverti da una qualche falsa
opi- nione. Ma questo cangiamento dee farsi sempre per un qualche
motivo plausibile, come di giustizia, o d’ utilità comune, o somigliante
; e non mai perchè la cosa ti piaccia o sia per arrecarti
gloria. Hai la ragione? Si. Che dunque non 1’ adoperi? Perchè,
se essa fa quanto le spetta, che ti resta a desiderare? Sei venuto
al mondo qual parte ; disparirai dentro al tuo generatore. 0, piuttosto, ti
raccoglierai nella ragion seminale di lui, per via di mutazione. Molti
grani d’ incenso su uno stesso altare: l’uno è caduto prima e l’altro
dopo. È lo stesso. Tra dieci giorni parrai un Dio a coloro, ai
quali pari ora una bestia e una scimmia, se fai ritorno ai prin-
cipii e al culto della ragione. Non come se tu avessi a vi- vere
molte migliaia d’ anni. La morte ti sovrasta: mentre vivi, mentre ti
è dato, fa’ che tu sia uom dabbene. Di quante brighe si libera
chi non bada a quello che ha detto il vi- cino, o ha fatto, o ha
pensato, ma solo a quello eh’ egli stesso fa, affinchè r opera sua
sia giusta, e santa, e qual si richiede dall’ uomo dabbene !
Non andar guatando attorno i neri costumi, ma corrér diritto in
sulla linea senza volgersi a destra nè a manca. Chi vive abbagliato
dal pensiero di lasciar fama dopo morte, non considera come ciascun
di quelli che si ricordano di lui morrà tosto aneli’ egli, e poi
ancora chi sarà a costui succeduto, sinattantochè, pas- sando da
abbagliato in abbagliato e da morente in morente, venga a spe-
gnersi affatto ogni memoria. Ma sup- poni anche immortale chi s’ ha a
ri- cordare di te, ed immortale la fama ; che fa ssi abbia, e
nessuno non potendo perdere quel che non ha. Siccome tutto è
opinione. È « noto il detto di Monimo il cinico.
E nota anche V utilità di quello, chi ne colga il midollo per insino
ai confini del vero. L’anima umana fa onta a sè stessa,
primieramente quando ella ; diventa, per quanto sta in lei, come
chi dicesse un apostema o tumore del mondo, ritraendosi da quello
co- me fan gli umori guasti dal corpo. Perchè il crucciarsi di un
accidente qualunque è un ritrarsi dalla natura univei-sale, dentro
alla quale son contenute, siccome parti di quella, tutte le nature
degli altri. In secondo luogo, quando ha avversione a un *
Diceva che «Ogni nostra opinione è fumo e boria. Apostema in greco
vuol dire ad un tempo ed apostema e ritiramento. È solenne agli
stoici il torre esempi, nelle cose morali, dalla natura fisica, siccome
quella in cui è contenuta, secondo loro, ancho la natura morale. qualche
uomo, od anche se gli volge contro per nuocergli, come le anime
degli adirati. In terzo luogo ella fa onta a sè stessa quando si lascia
vin- cere dal piacere o dal dolore. Quarto, quando ella s’ infinge
ed opera o parla con simulazione e contro la verità. Quinto, quando
ella non in- dirizza a nessuno scopo una qualche sua azione o una
qualche sua determinazione di volontà, ma opera a caso e senza sapere che
cosa si fac- cia; laddove nè anche le minime cose non (iovrian
farsi mai se non con rela- zione al fine. E il fine degli animali ragionevoli
è il conformai'si alla ragione e legge della più antica fra le città
e le repubbliche e della più veneranda. Della vita umana, la durata
è un punto; la materia, fluente; il senso, tenebre ; la compagine
di tutto il corpo , corruzione ; l’anima,* un [La città e
repubblica del mondo. Per anima qui non s' intendo certamente
ap^gintrsi perpetuo; la fortuna, cosa mala a prevedere; la fama,
cosa senza giudizio. E a dirla in breve, ciò che riguarda il corpo,
è un tor- rente ; ciò che riguarda l’ anima, so- gno e fumo ; la
vita tutta intera, guerra e pellegrinaggio; e la rino- manza che le
vien dopo, oblio. Che i adunque v’ ha a cui tu ti possa atte- nere?
Sola ed unica una cosa; la filosofia. E questa consiste nel custo-
dire per tal modo il genio interno, eh’ egli non riceva nè onta nè
danno, sia superiore al piacere e alla pena, non operi nulla a
caso, nè infìnta- mente 0 con animo d’ ingannare, nè abbia bisogno
mai che altri faccia o non faccia checchessia; inoltre ac- cetti ogni
avvenimento a lui desti- r anima ragionevole, nè la mente, o la
parte sovrana, o il genio interno menzionato nelle , linee
segnenti; ma solamente il principio ’ della vita animale. Vedi il § 16
del lib. Ili | dei Bicordi, ove è fatta distinzione fra corpo,
anima c mente. P. I nato siccome cosa che gli viene di colà
d’ onde è venuto egli stesso ; sovra tutto poi, aspetti la morte
con mente serena, siccome nulla più che dissoluzione degli elementi
onde ogni animale è composto; ai. quali se non è grave lo essere
trasmutati di conti- nuo r uno nell’ altro, per qual ca- gione si
avrà ella a temere la tras- mutazione e la dissoluzione d’ essi
tutti in una volta? Ella è cosa secondo natura; e nulla che sia se- condo
natura non è mai un male. Tn Carnvnto, Non solamonte è da
considerare che la vita si va consumando ogni dì, e che sempre ce ne
riman meno, ma eziandio che egli è in- certo, ove ancor 1’ uomo
viva lunga- mente, s’egli avrà sempre vigor 'di mente che basti per
la intelligenza degli affari e la contemplazione che ha per iseopo
la conoscenza delle cose divine ed umane. Perchè, quan- do egli
incominci a vaneggiare,* non cesserà però, egli è vero, nè di tra-
spirare, nè di nudrirsi, nè di avere immaginazioni, nè appetiti, nè altre cose
di tal fatta; ma valersi di sè stesso, ma avvertire distintamente
tutti i numeri * del dovere, ma chia- rire i propri concetti, ma, quel
che importerebbe allora, deliberare se sia già tempo per lui di
andatene e quante altre cose richieggono una raziocinativa molto bene
esercitata, cotesto non potrà egli più, chè la facoltà sarà spenta
anzi tempo. Con- viene adunque affrettJirsi, non sola- mente perchè
ci facciamo ognora più vicini alla morte , ma ancora perchè cessano
in noi anzi il finir della vita la intelligenza e la com- prensione
delle cose. È degno pure d’ osservazione che anche quelle cose le
quali sono un mero accompagnamento neces- [“Onesto” chiamano
(gli stoici) il perfetto bene per lo avere esso tutti i numeri che
la natura richiede. Secondo gli stoici non dovea rimanere in vita r
nomo che non potea più adempire gli uffici d’uomo, 0. ] sario d’ ima
operazione della natura hanno un non so che di grazioso e di
dilettevole. Per esempio, cocen- dosi il pane, si screpola in certi
luo- ghi. Or bene, anche quelle così fatte screpolature che stan
là, per così dire, fuori dell’ intenzione del for- naio, hanno un
certo garbo o muo- vono r appetito in un certo modo lor proprio.
Ancora i fichi, quando sono ben maturi, si aprono. E nelle ulive lasciate
lunga pezza in su V al- bero, quello stesso essere già vicine a
corrompersi, aggiugne al frutto una certa bellezza particolare. E
le spighe che s’ inchinano, e la guar- datura del leone, e la
schiuma che esce fuori di bocca al cinghiale, e molte altre cose le
quali, considerate da per sè, sono lontane da ogni bel- lezza,
nondimeno, perch’ elle accom- pagnano necessariamente un’ opera
della natura, aggiungono a quella ornamento e dilettano altrui. Di maniera
che, chi avesse altezza d’ in- gegno e considerasse ad una ad una
le cose che accadono nell’ universo mondo, nessuna ne troverebbe
per avventura, anche di quelle che sono mera conseguenza-
necessaria delle altre, la quale non gli paresse farsi con una
certa grazia. Costui vedreb- be la gola spalancata d’ una fièra
viva con non meno piacere che quando gli scultori o i pittori glie
la fan vedere imitata; e nelle vecchiarelle e nei vecchi
scorgerebbe un certo che di finito e di maturo non meno piacevole
ai casti occhi di lui che là venustà dei fanciulli ; e molte altre
cose gl’ incontrerebbe di vedere, che non fan senso in tutti, ma
solamente in chi s’ è veramente addimesticato con la natura e con
le opere di quella. Ippocrate curò di molti ammalati, e poi s’
ammalò egli stesso e muore. I caldei predissero a molti la morte, e
poi venne anche per loro la morte. Alessandro e Pompeo e Caio
Cesare, i quali distrussero dalle fondamenta le tante città, e
taglia- rono a pezzi in giornata campale le tante migliaia di
cavalli e di fanti, uscirono poi anch’ essi di vita, alla fine.
Eraclito, dopo avere con tanta sapienza e ragioni naturali discorso
intorno alla conflagrazione del mondo, gonfiatosegli d’acqua il corpo,
coperto di letame se ne morì. DEMOCRITO e spento da’ pidocchi, SOCRATE da
pidocchi d’ un’ altra sorta. Che è ciò? Ti se’ imbarcato, hai na-
vigato, sei giunto; esci di nave. Se per andare ad un’ altra vita,
nessun luogo è vuoto di Iddii, e nè anche [Diogene Laerzio
narra che Democrito mori di vecchiaia; Lncrezio, che nscì spontaneamente
di vita, perchè sentiva il suo spirito indebolirsi per effetto degli
anni. Non trovasi nell' antichità a noi nota alcuna tradizione che
concordi con ciò che qni dice Antonino. P. quello dove vai ;
se per rimanere senza sentimento, avrai Unito di sof- frire i
dolori e i piaceri, e di dovere andare a versi ad un vaso che è di
tanto inferiore a quel che gli serve. Perchè l’ uno è mente e genio,
e r altro è terra e sangue. Non consumare quella porzione che
ti rimane di vita nel pensare ai fatti altrui, ogni volta che * tu
noi faccia con un fine di comune utilità; cioè nello andar
fantasticando che cosa opera il tale e per qual cagione, e che
dice, e che pensa, e che mac- china, e somiglianti cose, le quali
tutte ti fan deviare dalla custodia della tua parte sovrana.
Conviene adunque guardarsi, nella succession dei pensieri, dall’
ozioso e dal vano, ma molto ancora^più dal curioso e dal maligno;
ed avvezzar sè stesso a pensar solo tali cose che, quando altri,
all’ improvviso ti domandasse, che pensi ora? tu possa
risponder tosto e senza tema: questo, o que- st’ altro ; onde appaia
subito mani- festamente non avervi nulla in te che non sia schietto
e benevolo, nulla che non convenga ad animai socievole; il quale
non si compiace nelle immaginazioni di piacere^ o di godimento qual
eh’ ei sia, o di gaiti o d’invidia o di sospetto, o di qua- lunque
altra cosa ti facesse arrossire quando tu avessi a confessare che l'avevi
in mente. Un uomo di tal fatta, il quale non indugia d’ oggi in
domani a por sè nel novero degli ottimi, è come un sacerdote e un
ministro degli Dei, devoto, non meno che agli altri, a quello che ha il
suo tempio in lui medesimo; per virtù del quale l’ uomo diventa
inconta- minabile ad ogni jiiacere, invulne- rabile ad ogni dolore,
inviolabile ad ogni ingiuria, insensibile ad ogni malizia,
sostenitore in campo della massima fra le imprese, quella del non
essere abbattuto da nessuna passione, imbevuto di giustizia in- sino
al fondo, disposto ad accogliere con tutta r anima quanto accàSe e
gli vien destinato, e non occupan- tesi se non di rado nè mai senza
una grande e pubblica necessità, di CIÒ che altri fa o dice o pensa ;
per- ch’ egli non ha altre azioni in sua balìa che le proprie, e
pensa conti- nuamente alle cose che il fato del- r universo gli
arreca; per far si che le prime sieno oneste, siccome ha fede che
le seconde sien buone ; quando la sorte attribuita all’ uomo
procede dalla stessa causa che l’ uo- mo e concorre insieme con 1’
uomo ad un medesimo fine. Sa inoltre che tutti gli esseri
ragionevoli han pa- rentela fra loro; che è quindi con- forme alla
natura dell’ uomo il tener cura di tutti ; benché non sia da far
conto deir opinione di tutti, ma solo di coloro che vivono secondo
natura. Quanto a quelli che vivono altra- mente, egli tien
sempre a memoria che sorta cT uomini sono, e quali, e in casa e
fuor di casa, e di notte e di giorno, si dimostrano, e con quali
praticano; non ha quindi in pregio nessuno la lode che gli può
venire da tallente, la quale nè anche a sè stessa non piace. Non
operar mai nè contro al tuo volere, nè senza relazione al bene
della società, nè senza avere esaminato la cosa, nò con renitenza ;
non adornare con isquisitezza di frasi il tuo pensiero: non esser uomo
nè di molte parole, nè di molte faccende.' Ancora, fa’ che il Dio tuo
in- terno abbia a governare in te un animale maschio, attempato,
citta- dino, romano, imperatore, apparec- chiato di tutto punto,
siccome quegli che non aspetta ornai se non il suono [Di
molte faccende in cattivo senso, come chi dicesse faccendone, o
faccendiere. della tromba* per uscir della vita, e non occorre
sforzarlovi nè col giu- ramento, nè con la testimonianza (f altr’
uomo ; nel lieto aspetto del quale ben si scorge non avere egli
bisogno nè dell’ aiuto che vien dal di fuori, nè della tranquillità che
gli altri procurano. Conviene adunque esser ritto in piedi già, e
non riz- zarui solamente. 6. Se tu trovi qualche cosa di me-
• glio nella vita dell’ uomo che la giu- stizia, che la verità, che
la tempe- ranza. che la fortezza, e, in una parola, che quella
disposizione della mente per cui ella si appaga di sè medesima
nelle cose die ti fa ope- rare secondo la retta ragione,, e del
fato, nelle cose che senza parteci- pazione della tua volontà ti
vengono distribuite; se, dico, tu trovi alcun che di meglio che
questo, a quello [Similitudine tolta dagli ordini della milizia appo
I ROMANI. 0Virco \urcIio. rivolgiti con tutta l’ anima e godine siccome
di cosa che hai ritrovato esser V ottima. Ma se nulla ti si pre-
senta di meglio che il genio stesso tuo interno, quando si è fatto
signore de’ propri moti, e rivoca ad esame le proprie immaginazioni,
e si è sot- tratto^ come diceva Socrate, dalle passioni del senso,
e vive sottomesso . agli Dei e pigliandosi cura degli uo- mini ;
se, a paragone di questa, tutte . le rimanenti cose ti paion
picciole e vili, non dar più luogo appresso te a nessuna altra,
alla quale una volta che tu ti sentissi propendere, più non
potresti senza repugnanza preferire a tutti quel bene che è pro-
prio di te ed è il tuo; perchè al bene j’azionale ed efficiente (3)
non vien contrapposto impunemente mai nulla che sia di natura
diversa, come le lodi della moltitudine, o il co- mandare, o i
piaceri del senso ; tutte queste cose, per poco che le si
paiano adattare,' ti sopralfamio in un attimo e ti strascinano. Or
tu, dico io, scegli schiettamente e liberamente il meglio, e a quello ti
attieni. — Ma il meglio è l’utile. Se l’utile al- r uomo in quanto
è ragionevole, bene sta, quello procura: se l’ utile all’ uo- mo in
quanto animale, dillo su aper- tamente® e vivi di poi senza boria
nò fasto, secondo quella determinazio- ne. Ma bada, ve’, che non ti
inganni nell’ esame. Non riguardare giammai come i [Par
che Antonino alluda qui alla teoria dello adattare le nozioni generali
alle cose particolari, o, come diremmo noi, del con- cetto alla rappresentazione,
che è ciò in che consisto il giudizio. Dillo spiattellatamente, se
ardisci, senza avvolgerti in parole coperte: e ammetti poi tutte le
conseguenze di quel tuo detto: cioè, vivi poi da animale mero e puro,
senza in- gerirti a parlare nè di moralità nè di virtù nè di
giustizia, nè d* altro simile, che in quel caso sarebbero un vano fasto
di pa- role. E provocazione al senso intimo dell'uo-mo. Utile a te nulla
che sia per isforzarti un dì a violar la fede, abbandonare il
pudore, odiare alcuno^ sospettare, maledire, simulare, desiderar cosa
j che abbia bisogno di pareti e di ve- lame . Chi ha posto innanzi
ad ogni altra cosa la sua mente e genio, e il culto della virtù eh’
è propria di quello, non fa tragedie, non geme, non ha bisogno di
solitudine, non di frequenza d’ uomini; quel che più impoita, vive
senza ricercar nulla nè fuggire; abbia ad esser lungo o , abbia ad
esser corto Tintèrv^allo di tempo durante il quale sarà conte- nuta
nel corpo l’ anima con che egli lia a fare,' non se ne piglia nè
an- clic il minimo pensiero; e quando [Con che egli ha a
fare. Non veggo che cosa abbia voluto dire Ornato. Il senso letterale
del testo è: sia lungo o sia breve il tempo, eh' egli avrà a far uso
dell' ani- ma contenuta nel corpo. Il che, parrai, equi- vale a
dire: sia lungo, o sia breve il tempo ch'egli ha a vivere. è giunta V ora
dello sgombrare, cosi spiccio se ne va, come se impren- desse un’
altra qualunque di quelle azioni che si possono con verecondia e
con dignità operare; da questo solo guardandosi per tutta la vita,
, che veruno dei moti della sua men- te non sia mai men che
convene- vole ad animale intelligente o so- ciabile. Nella
mente dell’ uom castigato e puro non troverai nulla di marcio, nè
tampoco nulla di contaminato o che paia sano al di fuori e noi sia.
La vita di lui, a qualsivoglia ora lo sorprenda la morte, non è mai
im- perfetta, come tu diresti quella tra- gedia d’onde un attore si
fosso riti- rato prima d’ aver condotto a fine la sua parte. Ancora
non è in lui nulla di villano, nè nulla di artata- mente gentile;
nulla che il leghi alle cose esteriori nè nulla che lo separi da
quelle; nulla onde egli sia palesemente ripreso,' nè nulla che covi
addentro nascosto. Abbi in rispetto la facoltà giu- dicativa.^ Per
lei sta che non si ge- neri nella tua parte sovrana nessuna
opinione che non sia consona alla natura o al fine per che 1’ uomo
è ordinato. Ed essa promette la infal- libilità,* e l’amicizia con
gli uomini e r ubbidienza agli Dei.Messe adunque da banda tutte le
altre cose, queste poche sole abbi in mente; ed ancora ricordati che
i r uomo non vive altro tempo che questo presente, cioè un attimo;
il rimanente o lo ha vissuto o non sa se il vivrà. Picciola cosa pertanto
è 1 Intendi: nulla che appaia manifesta- mente vizioso. Ossia
la virtù del non cadere in er- rore ; che vien definita da Zenono «
la scienza del quando conviene assentire ad i un' apparenza, e
quando no. > Questa ac- compagna sempre il giudizio comprensivo,
che è il criterio della verità appo g-li stoici. 0. Digitizedh, Cnoi^li:
il tempo che l’ uom vive, picciola cosa rangoletto della terra
dov’egli vive ; picciola cosa la fama anche la più lunga eh’ egli
lascerà dietro sè, e questa tramandantesi per succes- sione d’
omiciattoli in omiciattoli, morti quasi appena nati, ed ignari
anche di sè medesimi, non che di colui il quale moriva è già gran
pezza. li. Agli avvertimenti dati sin qui s’ aggiunga ancora
quest’ uno, di de- finir sempre o descrivere l’oggetto che cade
sotto al tuo senso, si che tu lo scorga a parte a parte distin-
tamente e tutt’ insieme quale egli è nella sua essenza nudo, e dir
teco stesso il nome proprio di quello e il nome delle cose di che è
compo- sto e in che s’ ha da risolvere. Per- chè non v’ ha nulla
che sublimi cotanto l’animo quanto il potere ar- guire per la
diritta via e con verità ciascuna delle cose che incontrano nella
vita, e saperle vedere per ino» do da conoscere nello stesso tempo di
qual uso sendo questa tal cosa al mondo, e a qual mondo, qual
valore ha rispetto al tutto e quale rispetto air uomo, che è
cittadino della suprema fra le città, della quale le altre città
sono' come al- trettante famiglie. Che cosa è, e di che cosa è
composto, e quanto tempo è por duiare ij cesto che fa impres- sione
ora sul mio senso; di che virtù s’ ha da far uso con esso, per
esem- pio, della mansuetudine, della for- tezza, della veracità,
della fede, della semplicità, della frugalità, o simili. Però,
intorno a ciascuna cosa, con- vien dire : questa mi viene da Dio ;
questa dalla sorte, dalla complica- zione delle cause condestinate, e
so- miglianti cose; quest’ altra dal mio consorto, dal mio congiunto,
dal partecipe d’ una stessa società con me, il quale ignora
nondimenò ciò che è secondo natura per lui. Ma 10 non lo
ignoro ; e però mi governo con lui secondo la legge naturale della
società, con benevolenza e giu- stizia; e ad uno stesso tempo ho
riguardo, nelle cose mezzane,' al valore di ciascheduna. Se tu operi
secondo la retta ragione quel che hai fra mano, stu- diosamente, c
vigorosamente, placi- damente, e non t’ occupi d’ altra cosa tra
via, ma conservi puro ed intatto 11 genio tuo, come se tu dovessi
già rassegnarlo ; * se a lui ti tieni stret- Si chiamai! còse
mezzane appo gli stoici quelle che non sono nè ben nè male, cioè nè
virtù nè vizio. Le quali, comecché da per sè non meritino d' esser
cercato nè fug- gite, si accettano nondimeno o si rigettano per r
aiuto o disainto che elle possono ar- recare alla vita secondo natura.
Quelle che arrecan più aiuto, han più valore: quelle che più
disainto, più disvalore. Di questò ha da tener conto il savio, ed
accettare, quando gli è data la scelga, quelle che han più valore,
o che han meno disvalore. 0. ^ Sottintendi « a chi tol diede. » to,
nulla aspettando, da nulla rifug- gendo, contentandoti dell’ azion
tua presente secondo natura e della eroi- ca verità d’ ogni cosa
che tu dica: felicemente vivrai. Ora non v’ ha nessuno' che ti possa
questo impedire. Come i medici han pronti sem- pre i loro ferri e
strumenti per le cure inopinate, così abbi tu alla mano i principi!
* per la cognizione delle cose divine ed umane; e non far nulla
mai, per poco che sia, senza ricordarti del legame che unisce
queste con quelle. Perchè nulla di umano farai tu bene se non lo
ri- ferirai al divino, e viceversa. Non andar più vagando;
per- chè non sei per rileggere oramai nè i tuoi ricordi, hè le
azioni degli an- tichi romani e greci, nè gli estratti *
Punti fondamentali di credenza, cre- denze prime, dommi : decreta .appo
Cicerone. d’ autori che riserbavi per la vec- chiaia. Studiati dunque d’
arrivare al fine, e poste da banda le spe- ranze vane, soccorri a
te stesso, se pur ti cale di te, mentre che il puoi. 15. Non
sanno * quanti significati abbiano le parole rubare, seminare,
comperare, riposare, veder quel che sia da fare, il che non si reca
ad effetto con gli occhi, ma con un’al- tra sorta di vista. Corpo,
anima, mente ; del corpo son le sensazioni, deh’ anima le ap-
petizioni, della mente le credenze.^ Ricevere impressioni nella
fantasia è cosa anche da giumento; esser mosso da appetiti è cosa
anche da fiera, anche da androgino, anche da Falaride, anche da
Nerone; avere per iscorta la mente a quello che ci pare nostro
ufficio,* è cosa anche Sottintendi c gli nomini del volgo. Dommi, decréta. Intendi, a quello che ci par
eg$ere noda chi non crede che v’ abbiano Dei, da chi abbandona la patria,
da chi fa, quando ha chiuso le porte, ogni opera nefanda. Se
adunque tutte queste cose abbiam comuni cogli anzidetti, resta che
sia proprio dell’ uomo dabbene lo amare ed ab- bracciare gli
accidenti ad esso con- destinati e guardarsi dal macchiare e
turbare con immaginazioni sconce il genio che risiede nel petto di
lui, ma conservarlo propizio, seguendolo modestamente* come un
Iddio, non dicendo mai nulla che sia contro al vero, nè dicendo *mai
nulla che sia contro al giusto. Che se nissuno ttro
interene. Questo è il significato gene- rale della parola ufficio appo
gli stoici. Solo allor quando le si aggingne l'epiteto di perfetto
denota essa il dovere^ che è come V intereae iublime dell' uomo. Noto
questo perchè alcuni degli interpreti, e per ultimo anche il Corai,
hanno maravigliosamente scompaginato - e interpolato questo passo;
frantendendolo. Diog. Laerz.; Stobeo ; Cic. de Officiùt otc. 0.
degli uomini non gli vuol credere eh’ egli viva con semplicità, con
ve- recondia, e di buon animo ; nè s’adira egli contro costoro, nè
si svia dalla strada che conduce al fine della yita. al quale si
vuol giunger puro, tran- quillo, spedito, e conformato di vo- lontà
col proprio destino. La parte che dentro di noi re- gna,* quando è
nel suo stato natu- rale, ha tal disposizione verso gli accidenti,
che senza difficoltà si ri- volge sempre al possibile e al dato.
Perch’ella non ama nessuna mate- ria determinata ; ma si porta con
eccezione* a quello che si ha pro- posto, e quando alcun che se le
viene ad attraversare per via, ella si fa di quello stesso materia ;
come il fuoco, quando s’ impadronisce delle [La parte sovrana
o dominante. [Eccezione : vocabolo stoico. Indica limi-
tazione del proponimento al possibile. Farò la tal cosa, se non sarò
impedito. cose die incontra, dalle quali una picciola lampana sarebbe
spenta ; ma lo splendido fuoco assimila a sè tosto ogni cosa che se
gli butti dentro, e la consuma, e per quella stessa s’innalza più in
su. [Nessuna azione sia fatta a caso mai, nè altrimente che
secondo una delle regole costitutive dell’arte.* 3. Van
cercando ritiri, alla campa- gna, alla marina, sui monti; e tu
stesso suoli desiderare siffatti luoghi. Ma cotesto è da uomo ignorantissi-
mo, potendo tu, a quell’ ora che tu vuoi, ritirairti in te stesso.
Perchè * Ad ogni caso della vita corrispondo una virtù da
esercitare (vedi sopra, III, 11, e più abbasso, IX, 11, 42): ed ogni
virtù è appo gli stoici nna scienza nello stesso tempo ed un’ arte:
parlo delle virtù pro- priamente dette. Come scienza quindi e come
arte consta di certo proposizioni o re- gole, ciascuna delle quali è
parte integrante di quella, e tutto insieme" la costituiscono. Ogni
ufficio consta di corti nu meri. 0.
inroRDi. «4 in nessuno altro luogo
si ritira l’uomo con più tranquillità e con meno brighe che nell’ anima
sua ; massi- mamente chi ci ha dentro tanto alti oggetti di
contemplazione che il solo affacciarsi a loro procaccia tosto ogni
sorta di agevolezza. Quan- do dico agevolezza, non voglio dir altro
che buon ordine. Concedi adun- que sovente a te questo ritiro e
rin- novella quivi te stesso. Breve sia r espressione ed elementare
la forma di quelle verità contemplative che avran forza di
rasserenare al primo incontro V anima tua c. rimandarti senza
corruccio alle cose alle quali ritorni. Perchè, di che cosa ti
coi'- rucci? Della malizia degli uomini? Rammentati di quella
sentenza, che gli esseri ragionevoli son fatti gli uni per gli
altri; che il sofferire è parte della giustizia; che malgrado loro
peccano ; che tanti si son già inimi- cati, sospettati, odiati,
^perseguitatisi a morte, i quali ora sono spenti, son fatti
cenere; e te ne darai pace. 0 ti crucci tu di quella parte che a te
Vien compartita dell’ universale de- stino? Rinnovella il dilemma. 0
è la provvidenza o son gli atomi,' op- pure gli argomenti con che
s’ è di- mostrato che il mondo è come una città. Ma forse tu ti
contristi delle affezioni del corpo? Pensa che non han più nulla
che fare con la mente i moti o sieno soavi o sieno aspri del senso,
ogni volta che questa s’ è . raccolta in sè medesima ed ha cono-
sciuto la sua propria potenza; al che potrai aggiugnere quelle altre
cose che intorno al piacere e al dolore hai apparato ed accettato
per vere. 0 sarà forse T amor di gloria quello che ti turba?
Considera come è ratto [Si allude al sistema atomistico
d’Epicuro, il quale nega la previdenza, e attribuisce il mondo e tutti i
fenomeni del mondo ad una causa non intelligente.. l’oblio d'ogni cosa,
interminato dal - runa parte e dall’ altra* il caos della età, vana
cosa il rumore, mutabile, e inconsiderato chi in apparenza ti‘
esalta, angusto il luogo dove è cir- coscritto il suo dire. Perchè tutta
la t.erra' è un punto: e qual parte di essa è l’angoletto che tu
abiti? e quivi ancora quanti avrai lodatori, e quali? D’or innanzi
adunque sovvengati di ritirarti in questa tua vil- letta di te medesimo;
e sopra tutto, non. t' affannare, non t’agitare, ma sii libero e
vedi le cose da uomo, da ‘ maschio, da cittadino, da mortale. Ed
abbi in pronto, fra le verità alle quali dovrai far ricprso, queste
due principalmente. L’una, che le cose non arrivano sino all’anima,
anzi stanno al di fuori immobili e
i turbamenti nascono dalla sola opinione [A parte ante e a parte
pott come dice la scuola], che è dentro. L’ altra, che quanto tu
vedi già già si muta e più non è quel desso ; e rivolgi in mente
ciascuna delle mutazioni alle quali tu stesso sei inten'enuto. Il mondo,
alterazione. La vita, opinione. Se la intelligenza ci è comune a
tutti, anche la ragione per cui siam ragionevoli ci è comune; se
cotesto è, anche la ragione impera- tiva di ciò che si dee fare o non
fare ci è comune; adunque anche la legge ò comune; aifunque siam
concittadini ; adunque partecipiamo tutti ad una specie di reggimento
civile ; adunque il mondo è come una città. Perchè qual altro direm
noi che sia quel reggimento civile di cui tutto il genere umano
partecipa? Di colà, da quella città comune, viene a noi r
intelligenza, la ragione, la legge, o d’ onde verrebbon esse? Perchè,
siccome quanto v’ha in me di terreo viene da una certa terra di cui
fa parte; e quanto v’ ha in me d’umido, da un altro elemento; e
quanto v’ha di caldo e d’ igneo, da una certa sorgente propria
(nulla venendo mai dal nulla nè ritornando nel nulla); così anche
la intelligenza dee venire da qualche cosa. La morte è come la
nascita, un mistero della natura; composizione e risoluzione di
certi elementi in quegli elementi medesimi. Ad ogni modo non è cosa
di che 1’ uomo debba arrossire ; perchè non è cosa che repugni alla
natura dell’ animale intellettivo o disconsegua* al prin- cipio
della formazione di quello. 6. Tali cose debbono di necessità
farsi in tal modo da questi tali; chi le vuole altrimente, vuole che il
fico non abbia lattificcio. Del tutto, sov- vengati che in
brevissimo tempo e [Intendi: ripugni, non aia conforme. !'•
tu e costui sarete morti: e che, poco dopo, non rimarrà più di voi
nè an- che il nome. Togli via r opinione, ed è tolto via il «
sono stato offeso : » togli via il « sono stato offeso, » ed è tolta
via r offesa. Quello che non fa peggiore l’ uo- mo non fa nè
anche peggiore la vita di lui, nè le nuoce, nè esternamente nè
internamente. È necessitata dall’ utile ‘ la natura a far cotesto. Siccome
ogni cosa che accade, giustamente accade; il che, se tu osserverai
con attenzione, troverai [Comune. Più letteralmente: « È
necessitata la na- tura deir utile a far cotesto.» La natura deir
utile, cioè il principio sostanziale dell’utile (chè vuol esser presa
sostanzialmente in questo luogo la voce natura), il quale
evolvendosi, come ragion seminale, succes- sivamente nel tempo, fa che
ogni cosa sia bene. Perchè non conviene dimenticar mai che, appo
gli stoici, l'utile non è altro che il bene. Digilized by sempre vero:
non solamente, dico, secondo l’ ordine di conseguenza, ma ancora
secondo 1’ ordine di giustizia; come se le cose procedessero da
tale che distribuisse a ciascuno secondo il merito. Osserva
adunque, come hai cominciato ; ed ogni cosa che tu fai, falla con
questa condizione, che tu sia uom dabbene, nel vero signifi- cato
della parola dabbene. Questo carattere conserva in ogni tua azione. Non
concepir le cose quali le giudica colui che fa ingiuria, o quali
egli vuole che tu le giudichi; ma vedile quali sono in realtà. Conviene
esser sempre pronto a queste due cose ; fai' solamente quello che
la ragion dell’ arte regia e legislativa ti suggerisce per 1’ uti-
lità degli uomini ; e cangiar partito, quando altri viene a raddrizzarti
e rimuoverti da una qualche falsa opi- nione. Ma questo cangiamento
dee farsi sempre per un qualche motivo plausibile, come di giustizia,
o d’ utilità comune, o somigliante ; e non mai perchè la cosa ti
piaccia o sia per arrecarti gloria. Hai la ragione? Si. Che
dunque non 1’ adoperi? Perchè, se essa fa quanto le spetta, che ti
resta a desiderare? Sei venuto al mondo qual parte ; disparirai dentro al
tuo generatore. 0, piuttosto, ti raccoglierai nella ragion seminale di
lui, per via di mutazione. Molti grani d’ incenso su uno stesso
altare: l’uno è caduto prima e l’altro dopo. È lo stesso. 16.
Tra dieci giorni parrai un Dio a coloro, ai quali pari ora una
bestia e una scimmia, se fai ritorno ai prin- cipii e al culto
della ragione. Non come se tu avessi a vi- vere molte migliaia d’
anni. La morte ti sovrasta: mentre vivi, mentre ti è dato, fa’ che
tu sia uom dabbene. Di quante brighe si libera chi non bada a quello
che ha detto il vi- cino, o ha fatto, o ha pensato, ma solo a
quello eh’ egli stesso fa, affinchè r opera sua sia giusta, e santa,
e qual si richiede dall’ uomo dabbene ! Non andar guatando
attorno i neri costumi, ma corrér diritto in sulla linea senza
volgersi a destra nè a manca. Chi vive abbagliato dal pensiero di
lasciar fama dopo morte, non considera come ciascun di quelli che
si ricordano di lui morrà tosto aneli’ egli, e poi ancora chi sarà
a costui succeduto, sinattantochè, pas- sando da abbagliato in
abbagliato e da morente in morente, venga a spegnersi affatto ogni
memoria. Ma sup- poni anche immortale chi s’ ha a ri- cordare di
te, ed immortale la fama ; che fa egli a te cotesto? E non
dico. a te quando sarai morto, ma a te mentre sei vivo: che è
la lode, se on forse talora un mezzo per una qualche dispensazione?
Lascia stare ora, che sarebbe inopportuna, la considerazione dello essere
secondo natura o no e cosa quindi che non ha pregio se non per rispetto
d’ una qualche altra. Tutto che è bello, qual che egli sia, è bello
da per sè, ha il termine della sua bellezza dentro di sè, nè annovera tra
le sue parti la lode, e lodato, non diventa nè peg- giore, nè
migliore. Dico, anche i belli volgari, le cose belle per materia o
per lavoro artificioso (perchè, in quanto al bello per essenza, ha
egli mai bisogno di lode alcuna? No, niente più che la legge, niente
più che la verità, niente più che la be- nevolenza o la
verecondia). Quale di esse è bella per venir lodata o perde per
venir biasimata? Lo smeraldo diventa egli peggiore, se non si loda?
E l’oro, l’avorio, la poi^pora, una cetra, una spada; un fiorellino, un
arboscello? Se le anime sussistono
dopo morte, come può, dalla eternità in qua, contenerle in sè
l’aria? E come contiene la terra i corpi che da tanti secoli vi
sono seppelliti? Perchè nell’ istesso modo che questi, dopo essersi
conservati alcun tratto di tempo, col mutarsi di poi e col dis-
solversi dan luogo ad altri cadaveri : cosi le anime che passano nell’
aria, soffermatevisi un certo tempo, si mu- tano si struggono e
accendono, e ve- nendo accolte nella ragion seminale dell’universo,
fan luogo alle altre che lor vengono appresso. Questo si può
rispondere nella ipotesi che le anime sussistono dopo morte. E
convien recarsi a mente il numero non solo dei corpi seppelliti a
questo modo, ma anche di quelli che ogni di e da noi e dagli altri
animali si mangiano. Perchè quanti se ne consuma egli e se ne
seppellisce, per così dire, nei corpi di coloro che se ne cibano! E
pur nondimeno li cape uno stesso luogo, pel convertirsi, eh’ essi
fanno, in sangue, pel trasmutarsi loro in aria od in fuoco. Come
giugnere, intorno a ciò, alla cognizione del vero? Col distinguere in
materia ed in causa. Non isviarti ; ma fa’ sì che ogni atto della tua
volontà rappresenti il giusto e che ogni tuo giudizio serbi il carattere
di comprensivo. Tutto a me conviene quel che a te conviene, o
mondo. Non è im- matura per me nè tardiva nessuna cosa che sia
opportuna per te. Tutto è frutto per me quel che portano le tue
stagioni, o natura. Da te viene. 0il tutto, in te è il tutto, a te
ritorna il tutto. — Queir altro dice: 0 amica città di Cecrope! ‘ e
tu non dirai : 0 amica città di Giove? Fa’ poche cose » dice colui,
se vuoi viver contento. Non era meglio il dire, fa’ le cose che son necessarie,
quelle che vuol la ragione d’un animai socievole, e a quel modo ch’ella
le vuole? Cosi acquisterai la contentezza non solo che nasce dal
far bene le cose, ma quella ancora dell’ averne a far poche. Perchè,
se dalle cose che diciamo e facciamo lu tronchi via le non
necessarie, che sono il maggior numero, assai più agio ti rimarrà
ed assai brighe avrai meno. Quindi, ad ogni cosa che sei per fare,
domanderai a te stesso: Non è questa una di quelle che non [Aristofane,
nella commedia de' contadini [DEMOCRITO, in un frammento conservatoci dallo Stobeo]
sono necessarie? E conviene troncar via, non solo le azioni che non son
necessarie, ma anche i pensieri ; perchè in questo modo non avrai
nè anche più* a temere che azioni so- verchie li seguano.
Fa’ un po’ il saggio dei come ti riesce la vita dell’ uomo
dab- bene, dell’ uomo che accetta con pia- cere ogni cosa che gli venga
com- partita dal tutto ed a cui basta che r azion sua propria sia
giusta e la disposizione dell’ animo suo bene- vola. Hai tu veduto
quelle cose? Vedi anco queste. Non turbar te medesimo. Fa’ che tu sia
semplice. Pecca egli, un tale? A sè medesimo pecca. T’ è accaduto
qualche cosa? Bene sta; ab eterno era stato destinato per te,
destinato insieme con te, tutto ciò che ti accade. Al postutto, breve
è la vita: conviene far guadagno del [seguendo la ragione ed
il giusto] Sii in te anche quando ti ricrei. il mondo o è
ordinato da una mente, o è un accozzamento fortuito di cose, venute
d’ ogni parte, sì, ma non di meno ordinate. 0 credi tu che possa
avervi un cotal ordine in te e che nell’ universo alberghi il
disordine? massimamente quando ci vedi, le cose cosi distinte le une
dal- r altre, così mescolate le une con r altre e cosi intimamente
collegate tutte insieme col vincolo di reciproca dipendenza?
28. Neri costumi, eiremminati co- stumi, costumi duri, brutali,
pecorini, puerili, infingardi, falsi, buffo- neschi, taverneschi,
tirannéschi. 29. Se è uno estraneo nel mondo chi non sa che
cosa c’ è nel mondo, non è meno un estraneo chi non sa che cosa vi
si fa; un fuoruscito chi esce fuori della ragion civile ; un cieco
chi chiude gli occhi della men- te ; un mendico chi abbisogna d’
al- trui e non ha in sè quanto gli fa d’uopo alla vita: un
apostema' del mondo chi si separa é allontana dalla ragione della natura
comune, avendo a male ciò che accade; perchè quella te lo arreca la
quale arrecò te* me- desimo ancora; una smozzicatura di città chi
distacca la propria anima dall’ anima comune degli esseri in-
telligenti, che è una. Chi filosofa senza tunica, e chi senza libro.
Quest’altro, mezzo ignudo. Non ho pane, die’ egli, e pure sto fermo nella
ragione. Ed io non ho il cibo della dottrina, e pur ci sto fermo
anch’io. Ama l’arte che hai apparato; in essa ti acqueta ; e vivi il
rimanente della tua vita come quegli che ha accomandato le cose sue
con tutta l’anima agli Dei, e che di nessun uomo non vuol essere ne
tiranno nè servo. Figurati, per esempio, i tempi di
Vespasiano; vedrai le stesse cose che adesso: uomini che
s'accasano, che educan figli, che s’ammalano, che muoiono, che fan
guerra, che fan festa, che mercatano, che coltivan la terra, che
adulano, che presumon di sè, che sospettano, che tendono insi- die,
che desideran la morte di alcuno, che mormorano del presente , che
fanno all’amore, che ammassan te- sori, che voglion diventar
consoli, diventar principi. Or tutta quell età è sparita. Passa ai
tempi di Traiano] le stesse cose di nuovo. Quella età è spenta anch’
essa. Considera nello stesso modo le altre generazioni d’ uo- mini
e le nazioni tutte intere, e vedi quanti si travagliarono e
straziarono per morir poi poco stante e risol- versi negli
elementi. Massimamente ricorderai coloro i quali hai veduto a’ tuoi
di aiTaticarsi per cose da nulla e trascurare quello per che eran
nati, dove era da attendere a questo uni- camente e non cercare
altra cosa. Qui è pur necessario il rammen- tarti che a
ciascuna azione corri- sponde un certo valore e un grado di
applicazione proporzionato.* Per- chè allora solamente eviterai il
rin- crescimento e la noia, quando non ti occuperai più di quel che
conven- ga, nelle cose da poco. 33. Le voci che altre volte
erano in uso, or sono antiquate; così an- [Termine stoico. Un
grado di applicazione (dovutale per parte deir uomo) proporzionato al
valore, cioè air importanza di essa. E vuol dire che dobbiamo
attendere e applicarci a ciascuna azione secondo il valore o l'
importanza di essa azione, cioè molto a quelle che hanuo un gran
valore, e meno a quelle che ne hanno un minore; e fra due di valore
ineguale, attendere piuttosto alla più importante, che alla meno
importante. che i nomi di coloro che una volta furon celebri, or sono,
per cosi dire, antiquati; Cammillo, Cesene, Voleso, Leonnato ; e
poco dopo, Scipione, Catone ; poscia Augusto, poscia Adriano c Antonino.
Incerti e favolosi presto diventano; presto ancora son sepolti
nell’ oblio universale. Parlo di co- loro che in un qualche modo
furon chiari e ammirati ; perchè, quanto agli altri, appena han reso
l’ ultimo soffio. «Nessun ne parla più, nessun ne chiede. Ma che è
ella poi, alla fin fine, la. eternità del nome? Vanità pura. Che è
dunque quello a cui dobbiamo seriamente badare? Questo solo : che
le_ nostre intenzioni sien giuste; le azioni, utili alla so- cietà;
le parole, non mai menzogne- re; e r animo, disposto ad accettare
tutto che accade, siccome cosa ne- cessaria, siccome cosa amica,
sicco- me cosa derivante dallo stesso prin- cipio e dallo stesso
fonte che noi. Volontario i’ abbandona nelle mani del Fato,
lasciando eh’ egli ti destini a quelle cose eh’ ei vuole. E il
ricordante e il ricordato, ambidue han la vita d’ un giorno. Osserva
di continuo coipe ogni cosa nasce per via di mutazione ; ed
avvezzati a pensare che nulla ama tanto la natura dell’universo,
quanto di mutar le cose che esistono e farne dell’ altre simili.
Perchè ogni cosa che esiste è seme, in un certo modo, di quella che
per essa esisterà. Ma tu ti immagini come semi quelli so- lamente
che si gittano nella terra 0 nell’utero. Cotesto è da uomo rozzo assai. Or
ora moirai, e non sei giunto per anche ad esser semplice, nè im-
perturbato, nè senza sospetto che le cose esterne ti possano nuocere,
nè sereno inverso tutti, nè a riporre la prudenza nel solo operar
con giu- stizia, Guarda alle menti di costoro, e
dei prudenti fra loro; quali cose fuggono, e quali cercano!
39. Nella mente d’ un altro non istà il tuo male; nè tampoco in un
i qualche cambiamento o alterazione di quello che ti circonda.
Dove sta egli adunque? In quella
parte di te, che giudica intorno ai mali. Quella parte adunque non
giudichi, e tutto andrà bene. Ancorché la cosa a lei più vicina, io
voglio dire il corpo, sia tagliata, sia abbruciata, marcisca,
infracidisca, stiasi nondimeno quieta la pjirte che giudica di siffatti
acci- denti; cioè giudichi non esser nè j male nè bene ciò che può
accadere ! ugualmente al tristo ed al buono. Perchè quello che
accade ugual- ^ mente e a chi vive contro natura e a chi vive
secondo quella, non è cosa nè secondo natura nè contro. Avvezzati a
considerare il mon- do come un animale unico, avente un corpo unico
ed un’ anima unica ; e come ad un senso unico, che è il senso di
lui, ogni cosa risponda; come con un impulso unico - ogni cosa
operi ; come ogni cosa concorra alla produzione d’ogni cosa; e qual
sia la connessione e il concatena- mento di tutte. Sei una
animuccia che porta un cadavero, come diceva Epitteto. Non è punto
un male il venire a mutazione, come non è punto un bene l’esser nato da
mutazione. L’età è come un fiume di cose che accadono, e una
corrente rovi- nosa; ' appena vedi 1’ una, ed è già passata ed un’
altra passa, ed un’al- tra passerà. Tutto quel che accade è
cosa tanto solita e tanto familiare quanto le rose nella primavera
e le frutta [Intendi rapidissima e non cagione di rovine , il che
sarebbe nn disordine nel mondo, che è 1' ordine per eccellenza. sa
nella state ; nè son da riguardare altramente la malattia, la’
morte, le calunnie, le insidie, e tutto quello che allegra o
attrista gli sciocchi. Nella successione dei casi, quelli che
seguitano han sempre re- lazione di parentela con quelli ché li han
preceduti. Perchè non è già quivi come un novero di cose indi-
pendenti r una dall' altra, cui la sola necessità * insieme costringa,
ma sibbene una connessione ragionevo- le ; e come negli enti si
ravvisa una coordinazione armonica degli uni con gli altri, cosi
negli accidenti si manifesta, non già semplicemente la successione,
ma un certo modo di parentela mai'aviglioso. 4C. Abbi a mente
ognora il detto di Eraclito ; che la morte della terra è il
diventar acqua, la morte del- r acqua è il diventare aria, la morte
I Intendi «necessità esterna.» dell’ aria il diventar fuoco e viceversa.*
Ricordati ancora di colui che non sa dove inette la via;* e sicco-
me la ragione con la quale gli uo- mini conversano il più
assiduamente, e che governa ogni cosa, è quella per r appunto con
che essi non van d’ accordo ; e le cose in che s’ imbat- tono ogni
dì, son quelle che ad essi paiono più strane. E siccome non
conviene fare nè dire a guisa di dormienti; perchè anche dormendo ci par
di fare e di dire; nè come fan- ciulli che van dietro ai lor padri,
cioè nudamente e semplicemente a quel modo che abbiamo appreso.
47. Come se un Dio ti avesse detto che domani sarai morto, o
posdomani [Pasfio famoso di ERACLITO, rammentato da Diog. Laorzio,
Plutarco, Massimo Tirio, Clem. Aless. Filone, ecc., allegati tutti dal
Gataker a questo luogo]. Anche questo, come i seguenti, pare un detto di ERACLITO.
Vi fa allusione, credo, al più, tu non ti cureresti gran
fatto dell’ avere a morire posdomani piut- tosto che domani, ove tu
non sia il più codardo degli uomini; perchè, quanto sarebbe il
divario? così non ti paia nè anche gran fatto l’avere a morire
piuttosto in capo a molte diecine d’anni che domani. 48.
Pensa di continuo quanti me- dici son morti, che sovente in su gli
ammalati le ciglia aggrottarono ; quanti astrologi, che la morte
altrui, come un gran caso, predissero; quan- ti filosofi, che
intorno alla morte o alla immortalità migliaia di discorsi fecero ;
quanti prodi, che molti am- mazzarono; quanti tiranni, che con
orribil ferocia, quasi non avessero essi mai a morire, la podestà in
sulle vite esercitarono; quante città tutte intere, per dir così,
son morte. Elice, Pompei, Ercolano, altre senza fine. Rammemora ancora
quanti hai conosciuto, l’ un dopo V altro : questi fece a colui la
sepoltura, e poi morì egli, e queir altro la fece a lui; tutto ciò
in breve. La somma è, che le cose umane son da riguardare come di
nessuna durata nè pregio; un po’ di moccio, ieri ; mummia o ceneri,
doma- ni. E quindi, questo attimo presente di tempo, si vuol
passarlo conforme la natura richiede, e finirsela in pace; come
oliva matura che cada, benedicendo la terra che la portò, e
ringraziando l’ albero da cui fu ge- nerata. 49. Sii simile
ad un promontorio, contro al quale incessantemente s’in- frangono fonde,
e quegli sta saldo, e s’abbonacciano intorno a lui i gorgogli dell’
acque. Sventurato me, che la tal cosa ra’ è accaduta. Anzi, avventurato,
che, la tal cosa essendomi accaduta, me ne sto nondimeno senza
cruccio, nè ango- sciato del presente nè pauroso del- f avvenire.
Ad ogni altro poteva accadere ; ma ogni altro non l’avria senza angoscia
sopportata. Perchè adunque sarà quello una sventura piuttosto che
questo una ventura.* E poi, chiami tu. sventura per l’ uo- mo
quello che non defrauda punto la natura dell’uomo? E ti par egli
che defraudi la natura dell’ uomo quello che non va contro al
volere di quella? E che? il volere della natura tu il sai; forse
che questo accidente ti impedirà dall’ esser giu- sto, magnanimo,
temperante, pru- dente, cauto, veritiero, verecondo, libero,
fornito, in somma, di tutte quelle doti che. unite insieme appagano e
soddisfano intieramente la natura dell’ uomo. Sovvengati adun- que,
ogni volta che una qualche cosa ti contristerà, di ricoiTere a
1 Cioè a dire: c perchè chiameresti dun- que sventura V esserti
accaduta la tal cosa, piuttosto che chiamare avventura felice r aver
tu saputo sopportarla con impertur- bata costanza? » questo pensiero: che
non solamen- te essa non è sventura, ma anzi il sopportarla da forte.
è una buona ventura. Volgare aiuto, sì, ma nondi- meno
efficace per disprezzar la morte è il rimembrar coloro che durarono
lentamente vivendo sino all’ età più decrepita. Che hanno essi ora di
più che gli spenti di morte immatura? Kcco, son buttati là in un
qualche canto essi pure e Cadiciano e Fabio e Giuliano e Lepido e
quanti altri ve n’ebbe di cotal fatta, i quali accompagnarono molti alla
tomba, e poi ci furono accompagnati essi alla fine. Breve, ad ogni
modo, è l’in- tervallo che l’uom vive, e questo breve, tra quali
cose, con quali uo- mini, in qual corpicciuolo conviene stentarlo!
Non farne adunque gran caso. Vedi, dietro a te, una eternità senza
fondo, e un’altra eternità in- nanzi a te : posto così in mezzo,
che divario fai tu ,da una vita di tre giorni ad una di tre secoli?
Fa’ che tu vada sempre per la più corta via. E la più corta via è
la via secondo natura. Seguirai quin- di, in ogni cosa che tu abbia da
fare o da dire, il più sano partito. Que- sto proponimento ti
libera dai tra- vagli, dai combattimenti interni, e da ogni sorta
di dispensazioni* e d’astuzie. Al mattino, quando con
difficoltà ti svegli, abbi in pronto questo pen- siero: Mi sveglio
all’ufficio d’uomo; come adunque m’ incresce, s’ io vo a far quello
per che son nato e in grazia di che sono stato messo al mondo? 0
sono io stato fbrmato forse per riscaldarmi giacendo in sul letto? Ma
quest© mi dà più gusto. Per pigliarti gusto adunque sei nato? e non
anzi per operare? per essere attivo? Non vedi le pian- te, le passere,
le formiche, i ragni, [Intendi: cO il fine a cui nacqui è
for- se di giacermi a godere questo tepore del letto?» le pecchie, far ciascheduna l’
ufficio suo, concorrer, ciascheduna all’ordi- namento di quel mondo
che le è proprio? E tu non vuoi-far l’ufficio d’uomo? Non intendi a
quello che è secondo natura per te? Ma è necessario poi anche il riposo. È
necessario, è vero; ma la natura vi ha posto un limite ; ve n’ ha
posto anche al mangiare ed al bere; e tu nondimeno varchi quei
limiti, vai al di là del bisogno; quando si tratta di fare, poi, la
è un’altra cosa, tu stai sempre al di qua del possibile. Gli è perchè tu
non ami te .stesso. Se tu amassi te stesso, ame- resti anche* la
natura tua, e la vo- lontà di lei.* Gli artisti, che amano l’arte
loro, si consumano in sui la- vori di quella, dimenticando il ba-
gno ed il cibo : ma tu, fai men caso della tua natura che il tornitore
del [Intendi agire, operare, essere attivo, e non infingardo] torniare,
che il ballerino del ballare, che r avaro della moneta, che il va-
nitoso della gloriuzza. Quando la passione ha preso. piede in
costoro, lascian piuttosto di mangiare e di bere che di attendere
ad avanzare la cosa a che son portati. E a te, le azioni sociali
paiono esse cosa di men pregio, cosa men degna di applicazione?
Come è facile il respingere e il cancellare ogni
immaginazione turbolenta o disconvenevole, e tro- varsi tosto in
piena calma! Reputa degna di te ogni parola ed azione che sia
secondo natura; e non ti persuada il biasimo od il garrire che ne
seguirà di taluni ; ma, se è onesto il farla o il dirla, credi eh’
ella è anche cosa da te. Perchè quei tali hanno una mente lor pro-
pria per guida, ed operano per una lor propria volontà; alle quali
tu non badare, ma va’ innanzi per la diritta, seguendo la natura
comune e la tua. La via dell* una e dell’ al- tra è una sola.
Vo per la carriera delle cose secondo natura, sino a tanto che
cadendo io trovi requie ; esalando lo spirito in quello di che ogni
giorno respiro; giacendo su quello di che mio padre raccolse il
seme, mia ma- dre il sangue, la balia il latte; di che da cotanti
anni mi pascolo e mi abbevero, che sopporta me il quale lo calpesto
e in tanti e sì vari modi lo adopro. Non s’ ammirerà la prontezza
del tuo ingegno. E sia. Molte altre [Intendi: «Vo per la via per cui
vanno tutte le cose che sono secondo natura, in- sino a che cadendo
io trovi requie; esa- lando lo spirito in quest' aria che ogni
giorno respiro, per essere sepolto in que- sta terra onde mio padre
raccolse il seme dell* esser mio, mia madre il sangue, la ba- lia
il latte; dalla quale da tanti anni io traggo di che nutrirmi e
abbeverarmi, che mi sostiene mentre ora la calco coi piedi 0 ne uso
ed abuso in tanti modi.» P. cose ei sono, delle quali non puoi
dire, la natura non mi ci ha dato disposizione. In quelle adunque
ti esercita, le quali dipendono intera- mente da te : la sincerità,
la gravità, r amore al lavoro, l’ indifferenza al piacere, la
rassegnazione, la fruga- lità, la mansuetudine, la libertà dello
spirito, r incuriosità, la serietà, la generosità. Non vedi quante
cose puoi acquistare, dove certo non ha luogo la scusa dello
esserci disadat- to, e tralasci per colpa tua? 0 è ella forse la
tua mala disposizione natu- rale quella che ti sforza a mormo-
rare, a star neghittoso, a piaggiare, ad accagionare il corpo, a
lusingare, a millantare, a passare per tanti e tanti turbamenti
dell’animo? No, per gli Dei ! Da lungo tempo tu potevi esser libero
da tutto cotesto ; ma solo avevi a cuore, se pur l’avevi, di non farti
scorgere per uno ottuso e di poca penetrativa! E questo [Antonino ancora
si vuol correggere col por mente alle cose, e non istar sopra
pensiero, nè compiacerti nella tua propria infingardaggine. V’ ha
chi, quando ha prestato un rpialclie servigio ad alcuno, è pronto
anche a domandargliene il contracambio. Un altro non domanda con-
traccambio veramente, ma riguarda colui come suo debitore nel suo
se- greto,, e sa quello che lia fatto. Un terzo poi, non sa, per
cosi dire, nè anclie quello che ha fatto, ma so- miglia ad una vite
che ha portato un grappolo, e non cerca nulla più in là, messo eh’
ella ha fuoià il frutto a lei proprio. Il cavallo die ha ga-
loppato, il cane che lia ormato, l’ape che ha fatto il miele, e cosi
Tuomo 1 Intonili: e questo t/t/'cf/o ancora si vuol nondimeno
correggere, quello cioè dell’ es- sere ottuso e di poca penetrativa. Il
testo in questo luogo, e nelle linee che precedo- no, è molto ellittico
e poco chiaro, e diversamente spiegato dagli interpreti. che ha prestato un
servigio, non Lschiamazza,' ma passa atl altro, co- me passa la
vite a portar di nuovo un grappolo d’ uva nella stagione. S’ha egli
adunque ad essere un di coloro che fanno il bene, per così dire,
senza saperlo? Sì Ma convien pure che 1’ uom sappia quello che fa :
sendo proprio dell’ animai sociabile il conoscere ch’egli opera so-
cialmente, e, per Giove, il votere che anche colui, con chi egli ha
a fare, lo conosca. Tu di’ il vero: ma non. pigli pel lor verso lo
mie parole; quindi sarai anche tu un di coloro di che ho fatto
menzione quassù. Perchè anche essi son tratti in errore da una
qualche apparenza di ragione. Ma se vorrai intendere che cosa è
quello eh’ io dico, vivi si- curo che non avrai a lasciare indie-
tro nessuna azione sociale per questo. Cioè non dee schiamazzare, ma
passuire ad altro ecc. Preghiera degli A.teniesi: «Pio- vi, piovi,
o amico Giove, sui campi degli Ateniesi e sui prati. )> 0 non
s’ha da pregare, o così alla buona s’ ha da pregare e con libertà di
parole. Come s’ usa di dire, Esculapio ordinò a colui il cavalcare, o il
ba- gnarsi nell’ acqua fredda, o l’andare a piè nudi, si dice del
pari, e con locuzione non diversa, la natura or- dinò a colui una
malattia, una stor- piatura, una perdita, o altro simile. In quella
prima frase, di fatti, la parola « ordinò » vuol dire assegnò la
tal cosa a colui siccome correla- tiva alla salute; e in questa, i
casi che avvengono all’ uomo gli sono as- segnati, in un certo
modo, come correlativi al destino. Così ancora si dice « i casi
(die avvengono a come son dette dagli artefici « avvenii*si » le
pietre quadre nelle mura o nelle piramidi quando elle s* adattano l’
una air altra secondo un disegno deter- minato. Perchè del tutto l’armonia
è una. E siccome di tutti i corpi presi insieme è composto il gran
corpo del mondo, cosi di tutte le c,ause prese insieme è composta
la gran causa del fato. Intendono ciò eh’ io voglio dire anche i
più rozzi, quando dicono : * ella è toccata a lui. Adunque ella
andava a lui, adunque era ordinata per lui. Riceviamo per- tanto
gli ordinamenti della natura come facciamo quei d’Esculapio. Anche in
questi v’ ha molto dell’ amaro, e pur gli accettiamo di buon grado
per la speranza della sanità. Or be- ne, r adempimento di ciò che
la natura ha voluto sia lo stesso per te che la tua sanità. Accetta
di buon grado, per dura che ti paia, ogni cosa che accade,-
pensando che ella conferisce alla sanità del mondo e [Vale a dire:
« itiostrauo di intendere] quando dicono ecc. al buon successo dei disegni di
Giove. Perchè ella non sarebbe venuta a qualcheduno, se non fosse
conve- nuta al tutto: sendo questo il pro- prio d’ogni natura, e
poni anche la più infima, che quanto ella arreca sia sempre acconcio
al governato da iei. Per due ragioni adunque dèi tu aver caro ciò
che accade: Tuna, che questo accade a te, è ordinato per te, ha
attinenza in un certo modo con te, essendo stato conde- stinato di
lassù con te dalla più an- tica delle cause e dalla più veneran-
da; l’altra, che quanto tocca in sorte a ciascuno, concorre, come causa
par- ticolare, alla prosperità, alla perfe- zione, e, sto per dire,
alla perma- nenza istessa del reggitore del tutto. Perchè diventa
mozzo l’intero quando tu tronchi via un minimo che, sia dalla
continuità delle parti, sia dalla concatenazione delle cause. E tu
lo tronchi,- per quanto sta in te, e lo distruggi, per così dire,
quando ti corrucci di quel di’ è accaduto. Non dèi indispettirti,
nè per- derti d’ animo, nè impazientirti teco stesso, se la non ti
riesce cosi per be- ne ogni volta il governarti secondo i retti
principii in quello che tu fai; ma, uscito di via, ritornarci;
quando la maggior parte delle tue azioni sono passabilmente degne
d’un uo- mo, contentartene; ed amare quello a che ritorni ; RITORNANDO
ALLA FILOSOFIA, non come ad un pedagogo, ma come un eh’ abbia mal d’occhi
alla spugna ed all’uovo, un altro al cataplasma o alla doccia. Così
non ti darà più fastidio il dovere ubbidire alla ragione, ma anzi
troverai in quella il riposo. E ricordati che la filosofia vuole
quello solamente -che la tua natura vuole; e che sei tu quegli il
quale volevi altro, che non era secondo natura. Ma pure, che v’ha egli di
piii liisingliiero? E il piacere, non t’ inganna egli appunto perchè è
lusinghiero? Ma vedi se non fossero cosa più lusinghiera la
magnanimità, la libertà, la sempli- cità, la bonarietà, la santità.
Quanto alla prudenza poi, v’ ha egli cosa più lusinghiera di
quella? se tu badi allo andar esente da ogni fallo e all' avere a
seconda ogni cosa, che è il proprio della virtù comprensiva e
intellettiva? Le cose stanno immerse, per cosi dire, dentro a un
buio tanto folto, che a filosofi non pochi, e non dei più volgari,
elle son parate del tutto incomprensibili. E gli stoici essi
medesimi tengono che elle sieno - comprensibili sì, ma
difficilmente: e che ogni nostro assentimento sia mal certo;*
perchè, dove è fuomo [Questa ed altri Inoghi dei Ricordi provano che
gli Stoici dopo Crisippo venivan.<»i facondo sempre più scettici, ed
aveano essi medesimi il sentimento della debolezza scientìfica della loro
scuola. che non si sia mai ricreduto? Prendi quindi a considerare gli og-
getti in sè stessi; come poco dura- no, come poco valgono, come
possono - cader nelle mani d’ un bagascione, d’ una cortigiana, d’
un malandri- no. “- Passa ai costumi degli uomini con chi tu
vivi; il più gentile dei quali appena si può tollerare, per non dire
che appena v’ ha fra loro chi possa tollerar sè medesimo. In tanta
caligine adunque, in tanto lez- zo, in un tal flusso continuo e
della materia e del tempo, e del moto e di quanto è in moto, qual
cosa v’ ab- bia mai che meriti la nostra stima, o anche pur solo la
nostra premura, io noi so immaginare nè vedere. Che anzi ci bisogna
confortar noi medesimi con l’aspettativa della dissoluzion naturale, e
non adirarci dell’indugio, ma acquietarci in que- ste sole due cose
: T una, che nulla mi può accadere che non sia secondo la natura
dell’ universo ; l’ altra, che è in mia potestà il non far nulla
contro il Dio e il Genio mio. Perchè nissuno y’ ha che mi possa
sforzare mai ad offenderlo. il. Che uso fo io ora della
mia anima? cpiesta interrogazione con- vien fare a sè medesimo in
ogni circostanza, ed esaminar sè stesso, che v’ ha egli ora in
quella parte di me la quale è detta sovrana? e che sorta d’ anima è
ella ora la mia? Non è un’ anima di fanciullo? o di gio- vinetto? o
di donnicciuola? di tiran- no? di giumento? di fiera. Quali sieno quelli
die al volgo })aion beni, tu il potrai conoscere anche da questo.
Chi ha preconce- pito nella mente, qual bene, alcuna di quelle cose
che sono un bene davvero, come, per esempio, la prudenza, la temperanza,
la giustizia. la fortezza, non può, sincliè un tal concetto gli
dura, pre^star più orec- chio a chi venga a dire in sulla scena,
«Tanta ho di ben dovizia .... eco. I perchè questo ripugnerà
al bene al (juale egli pensa. Ma chi ha precon- cepito alcun dei
beni volgari, ascol- terà ed accoglierà con piacere sic- come
arrecato a proposito, quello che il comico dice. Così persino il
volgo s’ accorge della differenza. Altrimenti non rigetterebbe nell' un
.de’ casi quel motto, che accoglie poi,’ siccome calzante e faceto,
nell’altro, quando lo vede applicato alle ricchezze o a quelle altre cose
che fo- mentano la effemminatezza o l’am- bizione. Fàtti innanzi
adunque e domanda se si hanno da stimare e [Verso di tm autor
comico, che dovea esser famigerato in sul teatro a quei tem- pi; il
senso del quale, benché Tautore noi citi intero, appare dall' ultime linee
di que- sto paragrafo] da riguardar come beni quelle cose
rispetto alle quali può molto accon- ciamente venir soggiunto, che
al possessor loro, per la soverchia ab- bondanza, non riman più luogo
ove fare i suoi agi. Sono un composto di causa e di materia.
Ora nè questa nè quella non è per ridursi a nulla mai; co- me
neppure non è venuta dal nulla. Adunque ciascuna parte di me di-
venterà per via di mutazione una qiìalche parte del mondo, e quella
poi ancora un’ altra parte del mon- do, e così all’ infinito. Da una
simi- gliante mutazione ho avuto io resi- stenza, e la ebbero i
miei genitori, e così risalendo, sino ad un^altro in- finito;
perchè nulla osta che si fa- velli a questo modo, quand’ anche
vogliamo stabilire che il mondo si regga a periodi determinati.'
1 Allusione alla c conflagrazione del mondo » domma Eraolitico, la
quale doveva accadere. La ragione e V arte ragionativa sono facoltà che
si contentano uni- camente di sè medesime e delle operazioni lor
proprie. Piglian le mosse dal principio peculiare a loro ; vanno
dirittamente al fine proposto; ondechè son nomate catortosi le
azioni di cotal sorta, significando col nome la rettitudine della
via. Non è da dire che sia dell’uo- mo nessuna di quelle cose che
non ispettano all' uomo in quanto uomo. Non sono punto requisiti
dell’uomo, nè le promette la natura dell’ uo- a certi tempi,
e distruggersi allora tutto r ordine esistente delle cose, per dar
luogo ad un nuovo. Fu accettato dagli stoici ante- riori,
modificato e cangiato dai posteriori : tra i quali non volle decider nulla
Antonino. por essere consumato ivi dal fuoco, se T universo va
soggetto a con- flagrazioni periodiche, o per servire con vicenda
perpetua al rinnovamento di lui s'egli dura eterno o incorrotto. Beota
effectio appo Cicerone, lib. Ili de Fin., cui vedi. Ciò che in questo § è
no- mato catortoei è l'aziono conforme al dovere, ed è voce solenne
alla scuola. lYio o attende complemento da quel- le. Adunque non
istà nè anche in loro 11 fine dell’uomo, nè iLbene. per conseguenza,
che è parte integrante del fine. Ancora, se alcuna di queste coso
spettasse all’ uomo, non ispetterebbe a lui il dispregiarle o r
opporsi ad esse ; nè sarebbe lo- devole chi mostrasse non averne
bisogno; nè sarebbe buono chi se ne disdice alcuna, se buone elle
fossero, f^ppure, quanto più Tuoino si priva di queste cotali cose, o
so- stiene d’ esserne privato, tanto più buono è tenuto.'
IG. Quali saranno i tuoi pensieri abituali, tale sarà la tua
mente: perché si tigne dai pensieri la men- te.^ Tignila adunque
con l’ abitudine ' Dunque queste cotali cose non sono veri
beni per l' uomo in quanto è uomo, cioè ragionevole. [Questa conclusione è
sott' intesa]. [Demostene più di una volta nelle sue Filipj iche disse
che quali sono le azioni in (li pensieri come questo, per esempio:
Dove si può vivere, quivi si può anche ben vivere. Nella corte si
può vivere; adunque anclie nella corti; si può ben vivere. K come
quest’ altro: Una cosa eh’ ò fatta a contem- plazione d' un’ altra, è
fatta per qucl- r altra; se è fatta per quell’ altra, a quella ò
portata; se a quella c por- tata, quivi è il suo fine; se quivi è
il suo fine, quivi è anche il suo utile e il suo bene. Adunque il bene
del- r animai ragionevole è la comunità; sendo dimostrato già da
lunga pezza che per la comunità siam nati> O non era evidente
forse, che gli es- seri men degni son fatti a contem- plazione dei
più degni, e i più de- gni, a contemplazione gli uni degli altri?
che gli esseri animati son più degni che gli inanimati, e i ragio-
nevoli più degni che gli animati? cui sogliono versare gli uomini,
tali soglio- no pur essere i sentimenti deU’animo loro, Andar dietro all’
impossibile è cosa da stolto. Ora è impossibile che i malvagi non
facciano cose di questa sorta. Nulla accade a nessuno, che egli non
sia nato per sopportare. Le stesse cose accadono a un altro, il
quale, o ignorando eh’ elle sieiio accadute, o volendo dar a
divedere grandezza d’ animo, sta inaltérabile e non se ne duole.
Tristo a noi, se la ignoranza o il rispetto umano avran più forza
che la prudenza. Le cose, per sè stesse, non toccano l’ anima punto;
nè hanno accesso all’ anima; nè posson volger r anima nè muoverla.
Si volge ella e si muove da per sè sola; e quali sono i giudizi di
che ella si reputa degna, tali ella fa che sieno per lei gli oggetti
che le stan presso. Cioè, quali io le vedo fare a costui, ora. Cioè a
dire: «quali sono i giudizi che Per un riguardo, l’ uomo è
di quelle cose che ci toccano il più strettamente, in quanto
convien far del bene agli uomini e sopportarli; ma in quanto si
oppongono alcuni alle azioni debite, diventa per me cosa
indifferente 1’ uomo, non meno che il sole, non meno che il vento,
non meno che le bestie. Dalle quali cose può benissimo venir impedita
una qualche azione; ma la volontà, ma la disposizione interna non
in- contrano impedimento mai, per l’ ec- cezione ‘ con che l’anima
accompagna i suoi conati e pel rimovere, eh’ ella fa, l’ostacolo.
Perchè l’anima ha facoltà di rivolgere al suo scopo ogni cosa che
s’ opponga alla attività di lei; e serve quindi ad un’ azione ciò
che impediva quella certa azione, e ella stima degno di sè il fare
delle cose esteriori, cotali ella fa che per lei sieno le dette
cose. diventa una via ciò che le sbarrava quella certa via. Di
quanto v’ lia al mondo, onora r eccellentissimo. L’ eccellentissimo
ò quello che si vale di tutto il resto e che tutto il resto governa. E
così ancora, di quanto v’ ha in te, onora l’eccellentissimo. L’eccellentissimo
in te è quello che v’ ha in te di congenere a quel primo. Di fatti
esso si vale in te di tutto il resto, e da esso è governata la tua
vita. Quello che non offende la città, non offende il cittadino. Ad
ogni pensiero di offesa che ti paia aver ricevuto applica questa
regola; se la città non è offesa da costui, non sono offeso nè
anche io. Che se la città è offesa, non conviene adirarsi, ma
insegnare ‘ a chi l’ha offesa dove sta il mancamento. Do il mio
pieno voto alla correzione dello Schultz, preceduto dal Gatakero,
ben- ché questi non sapesse così bono porro al suo luogo le pardo
scadute. Considera sovente la rapidità con die passa e si dilegua
tutto quello che esiste e che nasce. Per- chè la materia, a guisa
d’ un fiume, è in un flusso perpetuo; le azioni, in uno
avvicendarsi continuo ; le cause, in mille determinazioni di-
verse; nulla, per cosi dire, che stia; e questo infinito che presso
presso t’incalza, del passato e del futuro, è un abisso dentro al
quale si spro- fonda ogni cosa. Come adunque non è uno stolto chi,
fra questi termini, si gonfia, o si travaglia, o guaisce, per cosa
che minimamente il mo- lesti, come s’ ella avesse pure a du- rare
un buon tratto di tempo? Pensa a tutta quanta la materia, della quale per
una minima parte partecipi; e a tutta quanta la età, della quale un
breve e momen- taneo intervallo ti è assegnato; e all’ universale
destino, del quale che parte aliquota sei? /Ucuno pecca. A me che
fa? Tocca a lui il pensarci; sua è la volontà, sua 1’ azione. Io ho
adesso quel che la natura comune vuol che adesso io abbia, e fo
quello che la natura mia propria vuol che adesso io faccia. La
parte sovrana e dominante deir anima tua stia salda ai moti della
carne, o sien piacevoli o in- grati, e non vi partecipi, ma circo-
scriva sè stessa e tenga confinate nelle membra quelle passioni.
Che se elle penetrano ciò nondimeno sino alla mente, per la
simpatia in- volontaria che han fra loro le parti d’ uno stesso
tutto ; allora, al senso, che è cosa naturale, non -si vuol tentar
di resistere; ma si guardi la parte sovrana dallo aggiungervi del
suo r opinione che quello sia un bene od un male. Vivere con gli
Dei. E que- gli vive con gli Dei, il quale di con- tinuo appresenta
loro T anima sua disposta di tal maniera che élla si contenti di
quanto le vien distribui- to e faccia quanto vuole il Genio cui
Giove distaccò da sè stesso e diede a lei per reggitore e per guida. Questo
è la mente e la ragione di ciascheduno. T’adiri tu con quello che
sa di caprino? T’adiri tu con quello a cui pute la bocca? Che vuoi
tu che ci faccia? Egli ha la bocca a quel modo, egli ha le ascelle
a quel modo, di necessità debbono uscirne esala- zioni a quel modo.
Ma, odo chi dice, r uomo ha la ragione, e può scorgere, rillettendo,
in che pecca. Egregiamente. E anche tu, dunque, hai la ragione ; eccita,
con la disposi- zione razionale, in lui la disposizione razionale;
ammaestralo; ammonisci- lo. Perchè, s’egli ti ascolta, lo gua-
rirai, e non c’ è più uopo di collera. 28. ' Nè eroe di tragedia,
nè putta. Come fai conto di vivere uscito di qua,^ puoi vivere in quello
stesso modo anche qua. Che se non tei permettono, allora esci pur
anche <lalla vita: ma come quegli a cui non incontra nulla di
male. C’è del fumo qua, io me ne vado. Perchè stimi questo gran
cosa? Ma sin- [Queste parole nella vulgata stanno alla fine
del § precedente; ma, se non sono cor- rotte, debbono essere separate e
formare da por sè sole un paragrafo. 2 Cioè, non camminar sui
trampoli, e non istrascinartì per terra: non tanto alto da parer
gonfio o affettato, non tanto basso da muovere a schifo altrui. Cioè,
dalla corto. Allude, secondo che ci avverte il Gata- kero, al proverbio
:« tre esserle cose che ci caccian fuori dì casa; il fumo, il
pioverci dal tetto, e la moglie astiosa.» Vuol dun- que che r uomo
esca di vita con quella in- differenza con che uscirebbe dalla camera
dove vi avesse fumo. tantoché nulla di somigliante non mi sforza a
partire, me ne rimango libero, e nessuno m’ impedirà dal fare le
cose eh’ io vorrò ; e vorrò se- condo la natura d’un animai ragio-
nevole e sociabile. La mente dell’ universo ama la comunanza.
Perciò ha fatto gli esseri men degni in grazia dei più degni, e i
più degni ha conciliato gli uni con gli altri. Tu vedi come essa gli
ha subordinati, coordinati, dato a cia- scuno secondo il suo grado,
e ridotto a mutuo consenso i primi tra loro. Come ti sei portato sinora
con gli Dei, co’ genitori, coi fratelli, con la moglie, coi figli,
coi maestri, co- gli educatori, con gli amici, coi fa- migliari,
co’ servi; se, riguardo a tutti, puoi dire insino ad ora: «
Nè d’ opre mai nè di parole oltraggio A nullo io fea.* »
' Omero, Odiss. Kanimenta per quali traversie sei passato e quali
hai avuto la forza di tollerare : e siccome è piena ornai per te la
storia della vita e termi- nato r incarico. Che cosa s’ è potuto scorgere
in te di bello; quanti piaceri e quanti dolori hai dispre- giato ;
quante occasioni di gloria hai negletto ; a quanti sconoscenti ti sei
dimostrato amorevole. Forse tutto il paragrafo sarà più chiaro, e il
pensiero di Antonino meno ambigua- mente espresso se diremo : < Qual
fosti infino ad ora verso gli Iddii, i parenti, i fratelli, la
moglie, i figlinoli, i maestri, gli educatori, gli amici, i servi? Puoi
tu dire, rispetto a tutti: nè d'opra mai, ni di parole oltraggio a
nullo io /«a ? De' passati tuoi casi e delle passate fortune, quante
hai saputo tollerare da uomo? Conchiuso per te oramai è il dramma
della vita, finita la parte che ti era assegnata. Ebbene, quante sono
le buone azioni che di te puoi ric-ordare? Quanti piaceri, quanti
dolori hai saputo disprezzare? quante cose stimate gloriose, * non
curare? a quanti ingrati essere bene- fico e amorevole?» In questo
paragrafo il Pierron ed altri dei migliori interpreti pre- sero
alcuni grossi granchi ; 1' Ornato intese Per qual cagione certe
anime inesperte ed ignare confondono esse una esperimentata e
sapiente? Qual è dunque l’ anima esperimen- tata e sapiente? Quella che
sa il prin- cipio ed il fine, e conosce la ragione che penetra la
materia delle cose e governa, secondo cicli determinati, per tutta
la eternità 1’ universo. Oramai sei cenere, e schele- tro, e un
nome, o nè anco un no- me; e il nome è strepito e rimbombo mero. Le
cose di che si fa gran conto nella vita son vuote, fracide,
picciòle, cagnolini che si mordono, fanciullini astiosi che ridono e
poco stante guaiscono. E la fede, e la ve- recondia, é la
giustizia, e la verità, oc Air Olimpo, la terra abbandonando
Dalle vie spaziose.* » meglio di tutti ; ma troppo fedele alla
let- tera del testo, non fu chiaro abbastanza nello esprimerne il
senso. Esiodo, opere e giorni, v. 195. Sottin- Che dunque ti può
trattenere qui ancora? quando le cose sensibili sono senza costanza
nè sussistenza; gli organi del senso, ottusi- e pronti a
impressionarsi del falso; l’animuc- cfa * tua stessa, non altro che
una esalazione del sangue ; e 1’ aver fama appo cotali, cosa del
tutto vuota. Che dunque aspetti? Con pazienza il tuo qual eh’ ei
sia o spegnimento 0 traslocamento. Ed intanto che quel- lo viene,
che cosa ti basta? Che altro, se non venerar gli Dei e bene- dirli,
beneficar gli uomini e soppor- tarli e astenerti con loro,^
ricordan- doti che quanto è fuor dei limiti del tuo corpicciuolo e
della tua aniinuc- cia non è nè in tuo potere nè tuo? tendi
un verbo, recaronsi o altro che più ti piaccia. P. t Per
antniuccta, intende* spesso Antonino il principio animale mero, comune
anche ai bruti, vedi la nota (6) in fino del volume. Cioè nelle tue
relazioni con loro. Tu puoi prosperar sempre, giacché puoi andar per la
diritta sempre, giacché puoi giudicare di- rittamente sempre ed
operare. Due proprietà son queste, comuni al- l’anima e di Dio ' e
dell’ uomo e d’ogni animai ragionevole: il non potere essere
impedito da altrui, e lo avere il proprio bene interamen- te riposto
nella disposizione interna e nella azione conforme alla giustizia, senza
che il desiderio arrivi più oltre. Comuni all'anima e di Dio e
dell'uomo. Secondo il concetto stoico Iddio ora un corpo o un essere
vivente ed eterno, non simile all' uomo, ma composto tuttavia, come
rnomo. d’anima e di corpo. L’unità del corpo divino coll’anima divina ora
per essi il mondo, e quindi si accordavano a dire che Dio è il
mondo, cioè la materia, dotata di una certa qualità e forma, colla
forza attiva in essa immanente. L'anima di Dio sarebbe dunque questa
forza attiva immanente nel mondo, cioè nel corpo divino. Se cotesto non è
malizia mia, ' nè azione procedente da malizia mia, ' nè
riceve danno la società, perchè me ne do io fastidio? E qual dan-
no per la società v’ ha egli? Non lasciarti portar via dalla
immaginazione al primo incontro; porgi aiuto altrui, sì, a tuo
potere e secondo l’ importanza .del caso, qiiand’ anche lo scapito
non sia se non di cose mezzane ; * ma guardati • dall’ immaginare
che sia un danno. Perchè è una cattiva abitudine. Come quel vecchio che
nel partirsi domandava la trottola del suo allie- vo, sapendo bene
che ella era solo una trottola: così hai da fare anche tu *
sui rostri. L’uomo, hai tu dimenticato che cose son queste? No. Mma
costoro ne fanno gran caso. E per questo hai da diventare stolto anche tu
? ® Dovunque il colga la morte, uomo avventurato. E avventurato
vuol dire che ha dato buona ventura a sè stesso ; e buona ventura
sono i buoni moti dell’ ani- mo, le buone volontà, le buone
azioni. La materia delle cose è ar- rendevole e piglia volentieri
ogni forma. E la ragione che 1’ ammini- stra non ha in sè nessuna
causa di mal fare, non avendo malizia, e non fa (juindi male a
nulla, nè nulla è dannificato da lei. Ed ogni cosa av- viene ed ha
compimento per essa. Non ti curare che tu stia al freddo o che tu
stia al caldo, quando fai il tuo dovere; che tu caschi di sonno 0
che tu abbia a sufficienza dormito ; che te ne venga biasimo o che
te ne venga lode ; che tu muoia, o che tu attenda ad un’ altra
azione qualunque. Perchè ella è anche una delle azioni pertinenti
alla vita, quella per cui si muore; e basta anche quivi, per
conseguenza, ben disporre del presente. 3. Vedi addentro; nè
la qualità propria di nessuna cosa nè il valore ti sfugga. Tutti
gli oggetti in brevissimo tempo si mutano; ed o avvampe- ranno, se
la materia è unificata, o si disperderanno. La ragione governatrice
sa bene con qual intenzione e che cosa opera, e su qual
materia. Il miglior modo di vendicarsi d’ una ingiuria è il non
rassomigliare a chi r ha fatta. D’ una sola cosa prendi
piacere, è di quella ti soddisfa; del passare dall’ una azion sociale
all’ altra azion sociale, ricordandoti di Dio. [Intendi per aziono
sociale una aziono utile alla comunità dogli uomini, e qual si
conviene ad un animalo socievole qual è l’uomo. La parte sovrana è quella
che eccita e volge sè medesima; che fa sè quale ella vuole,* e fa
parere a sè quali ella vuole tutte le cose che aw^engono. Secondo
la natura dell’ universo ogni cosa si fa; non potendosi fare
secondo una qualche altra natura la (piale 0 conterrebbe in sè quella,
o sarebbe contenuta in quella, o sta- rebbe separata al di fuori di
quella. 0 confusion d’ ogni cosa, accozzamento d’atomi, e disperdimento; o
unità nel tutto, ordine, prov- videnza. Se- il primo supposto ha
luogo, come desidero io di rimanere [Cioè che ha il potere di modificare
sè stessa come ella vuole. Se contenesse in sè la prima, non sa-
rebbe più questa la natura universale, ma r altra; se fosse contenuta in
essa, quel che si farebbe secondo lei sarebbe fatto, a fortiori,
secondo l' altra: e se stesse sepa- rata al di fuori, ci sarebbe qualche
cosa fuori dell* universo, il che è assurdo. più .a lungo in un
guazzabuglio di quella fatta e lordume? Che altro mi debbe star a
cuore che il « diven- tare terra a qualunque modo? » E di che mi
turbo io? Verrà il disperdi- mento a me, checché io mi faccia. Ma se è
vero il secondo, adoro il reggitore dell’universo, e in lui sto
fermo e confido. Quando vieni sforzato punto punto dalle circostanti
cose a tur- barti, rientra subitamente in te stes- so, e non istar
fuori del ritmo ’ pili di quello che la necessità ti costringa. Perchè
ti farai più valente nella misura col ritornare ad essa di
continuo. Se tu avessi la matrigna e la madre nel tempo istesso,
alla prima faresti onore, ma torneresti pur non- dimeno sempre
accanto alla madre. Cotali son per te la corte e la filosofia [Paragona
la vita alla mimica. 0. Ifarco Aurelio]. Torna sovente alla seconda
e in essa ti riposa, la quale fa a te sopportabil la corte, e te sopportabile
in quella. Come ti fai concetto di tale o tal altra vivanda, dicendo
teco stesso: è un cadavero di pesce, è un cadavero d’ uccello o di
porco ; e del falerno, è succo di grappoletti d’uva; e della
porpora, son peluzzi di pecora intinti nel sangue d’ una
conchiglia; e del congiugnimento, è attrito di membrane ed escrezione
di moccio con un po’ di spasmo ; come tu giudichi allora,
penetrando col concetto sino alle cose esse mede- sime e
rappresentandole nella es- senza loro quali sono; così hai da fare
in tutte le occorrenze della vita; e quando le cose ti si fanno
innanzi con molta appariscenza, denudarle, e scorgerne la bassezza,
tolto che avrai d' intorno a loro la pompa onde si fan magnifiche.
Imperocché gran madre illusioni è la boria; e quando tu credi più
fermamente eh’ elle sieno serie le cose a cui attendi, allora sei
più affascinato. Vedi che cosa dice Cratete di Senocrate stesso.’ Le
cose che il volgo apprezza sono per la maggior parte di estremo
genere ed infimo, di quelle cioè che dall’ abito (0) o dalla natura son
go- vernate : pietre, legni, fichi, viti, ulivi, (rii uomini un
po’men rozzi tengono in pregio quelle che son governate dall’anima:
greggio, per esempio, e mandre. Gli uomini ancor più còlti, quelle
che son governate dall’anima ragionevole; non tuttavia in quanto è universale,
ma in quanto è arti- ficiosa o, come che sia, ingegnosa. 1
StìTi Socrate tu discepolo di Platone, e famoso per l’austerità del suo
carattere, (guanto al Cratete qui menzionato, ignorasi se fosse il
filosofo Cratete di Atene, oppure il cinico di Tebe; come ignorasi pariraentn
qual fosse il detto a cui si acceuna in questo luogo. 1 m2 ricordi.
V od anche senza relazione a nulla, ' come il possedere
semplicemente una moltitudine di schiavi.* Quegli poi che fa stima
dell’anima ragione- vole universale e sociale, non si cura delle
altre cose più punto; ma si studia di consolidare in istati ed in
moti conformi alla ragione e volti al bene della società 1’ anima
sua, ed aiuta il suo congenere a far lo stesso. Una cosa s’affretta
a nascere, iin’ altra a venir meno, e di quella stessa che nasce
ima qualche parte è già spenta; il flusso e l’alterazione
ringiovaniscono ad ogni ora il mondo, come lo scorrere non interrotto
del tempo fa sempre nuova 1’ eternità. Tn tal fiumana di cose che
vengono e passano, che v’ ha egli che altri 1 Intendi che
costoro ameranno possedere* nn gran numero di schiavi come i detti
pocanzi ameranno possedere nna mandra numerosa. debba aver caro, quando
,su nulla può' far fondamento? Gli è come se imprendesse ad amare
uno degli uc- celletti che volano, e quegli è già sparito
via. La vita di ciascheduno è non al- trimenti che una
esalazione del san- gue o una respirazione dell’aria. Pei> chè
non v’ lia differenza, che tu tragga • a te l’aria una volta e la renda,
il che tu fai tuttodì, o che tu renda tutta insieme colà d’ onde l’
hai tratta la facoltà respiratrice che ieri o ier l’altro nascendo
acquistavi. 16. Non il traspirare, come le piante, è degno di
stima, non il re- spirare, come i giumenti e le bere, non il.
ricevere impressioni nella fantasia, non Tesser mosso dagli ap-
petiti, non l’adunarsi in branco, non il nutricarsi ; cosa non dissimile
dal mandar fuori il soverchiò del nutri- mento. Che è degno di
stima adun- que? lo strepito? No. K per conseguenza nè anche lo strepito
delle lingue. Ora le acclamazioni del volgo non sono altro che
strepito delle lingue. Anche la gloriuzza hai posto adunque da
banda. Che rimane, che s«i degno di stima? Il muoversi, pare a me,
e il ristarsi * secondo il prin- cipio della propria costituzione,
al che conducono ancora le arti e le culture diverse. Perché ogni
arte ha questo per iscopo, che il formato da lei sia acconcio
alPopra per la quale è formato ; e il vignaiuolo che coltiva la
vite, e il cavallerizzo, e il canat- tiere, cercano pur questo. E le educazioni,
e le scuòle, a che tendono? Questo adunque è il degno di stima. E
se questo vien condotto a bene, non occorre procacciar più altro. —
Non finisci di stimare ancora molte altre cose?* Nè libero adunque
sarai 1 L'operare e il non operare. 0. ^ Cioè, non
cesserai dallo avere in pre- gio molte altre cose? tu mai, nè bastevole a te, nè im-
passibile ; perchè ti sarà mestieri invidiare, ingelosire, sospettare
chi ti può tórre le cose che stimi, mac- chinar contro a chi le ha;
in fine, conturbato convien che sia chi d’ alcuna di quelle è
privo, ed ol- tracciò, che mormori contro agli Dei bene' spesso;
laddove la riverenza della propria mente e la stima ti farà accetto
a te medesimo, accomo - devole agli uomini e consonante agli Dei,*
io voglio dire, contento di tutto che essi distribuiscono e di tutto
che hanno ordinato. Air insù, all’ ingiù, a cerchio intorno,
son le mosse degli elementi. La virtù non si muove in nessuna
^ cDi modo che ciascheduno che procac- cia di desiderare e fuggire
solamente quello che è da essere desiderato e fuggito, pro- caccia
al tempo medesimo di esser pio -- Epitteto, Manuale, traduz. di G.
Leopardi. Vedi tutto questo capitolo del Manuale. di queste guise, ma in
una certa sua più divina, e per via mal compren- . sibile procedendo
va di bene in meglio. Che cosa è mai quel che fanno ! Ai loro
contemporanei, che insieme con essi vivono, non voglion dar lode ;
ed essi medesimi poi agognano di aver lode dai posteri i quali non
videro mai, nè vedranno. Gli è come se tu ti dolessi del ' non aver
lode anche da’ tuoi antenati. Non ogni volta che una cosa è
malagevole a te, hai da credere però eh’ ella sia impossibile all’uomo
; anzi, ogni volta ch’ella è possibile all’ uomo e dimestica, credi
ch’ella è conseguibile anco da te. Nell’ esercizio della lotta alcuno
talora ci graffia, o venendoci addosso ci percote malamente col
[Merico Casaabono cita qui, siccome un bel comento a questo §, il
saggio di Giobbe, che vuol leggersi tutto intero. capo. Ma noi diamo a
divedere, e non ce ne tenghiamo olfesi, nè stiamo in apprensione di
lui quindi innanzi, come se ci insidiasse ; ce ne guardiamo, sì, ma non
come da nemico, nè con. animo sospettoso; lo scansiamo con
piacevolezza. Questo medesimo s’ha da fare in tutte le altre parti
della vita: molte cose lasciar correre, come tra persone che lottano. Perch’egli
si può, come ho detto, schi- vare altrui, e non averlo però a so-
spetto nè odiarlo.Se altri mi può convincere e far capace eh’ io penso ed
opero non rettamente, di buon grado son per ricredermi; perchè io
cerco la verità, la quale non noeque mai a nessuno. Nuoce bensì
altrui il li- manere nell’ inganno e nell’ ignoranza propria. Quanto a
me, io so l’ufficio mio; le altre cose non me ne distolgono ;
perchè o sono inanimate, o irragionevoli, o vanno errate e non conoscon
la via. Gli animali irragionevoli e le cose in generale a te
sottoposte, quando esse non han la ragione e tu r hai, usa senza
riguardi altera- mente; gli uomini, che han la ra- gione, usa come
vuol la legge di com- pagnia. In ogni cosa poi, invoca gli Dei. E
non curarti del più o men tempo che tu durerai a far cotesto :
perchè bastano anche tre sole ore cotali. Alessandro il Macedone e
il mulattiere di lui si ridussero, morendo, alla medesima stregua.
Perchè, o furon ricevuti ambidue nelle stesse ragioni seminali del
mondo,' o si dispersero del pari in atomi. Pensa quante cose, in un
medesimo istante, dentro a ciascuno * Nel caso che sia vero il
sìsteina ato- mistico di Epicuro. di noi han luogo, relative al
corpo nello stesso tempo ed all’ anima ; e non istupirai che molte
più, anzi tutte quelle che avvengono, coesi- stano simultanee in quel
tutto ed uno a cui diamo il nome di mondo. Se qualcheduno ti
domanda come si scriva il nome d’ Antonino, proferirai tu forse con
isforzo di voce ogni sillaba? E se quegli s’adira, t’adirerai alla
tua volta anche tu? Non annovererai tu piuttosto, pa- catamente
procedendo, l’una dopo l’altra le lettere? Cosi hai da fare anche
adesso. Ricordati che ogni ufficio* consta di certi numeri; col- r
osservare i quali, e non col tur- barti, e non coll’ adirarti con chi
s’adira, arriverai direttamente al fine , proposto. Come è crudele
il non per- mettere agli uomini che seguano quel che sembra a loro
convenevole ed utile? E tu noi permetti, in un certo modo, quando
ti corrucci del loro fallire. Perchè del tutto e’ non vi si
indifcono se non in quanto il credono convenevole ed utile a loro.
Ma non è così. Dunque ammae- strali e falli capaci, senza
corrucciarti. La morte è una pausa alla im- pressione dei sensi,
allo stimolo degli appetiti, al discorrer della mente èd alla
servitù verso la carne. È un vituperio che in quella vita dove non
ti s’è stancato ancora il còrpo, ti si sia stancata innanzi tempo r
anima. Bada a non incesarirti,* a non imbrattarti; chè cosi suole
avvenii-e. Conservati adunque semplice, buono, ^ Intendi : sebbene
tu sia stato adottato nella famiglia dei Cesari, bada a non t«cc-
sarirli, cioè cadere nei costumi viziosi di molti dei Cesari o imperatori
che. ti hanno, preceduto. intemerato, grave, ingenuo, amico del
giusto, pio, mansueto, amorevo- le, saldo nell’ adempire al tuo
ufficio. Combatti per mantenerti tale, quale ti ha voluto fare la
filosofìa. Venera gli Dei, fa’del bene agli uomini. Breve è la
vita; e l’unico frutto di questa esistenza terrena è la santa disposi-
zione deir animo e 1’ opere indiriz- zate al comun bene. Ogni cosa da
vero discepolo di Antonino quel suo vigor costante in ciò che
operava secondo ragione, e 1 umor sempre uguale, e la santità della
condotta, e la serenità del volto, e la soavità dei modi, e il
dispregio della vana gloria, e l’ ardore nel voler comprender le cose, e
come non avrebbe lasciato andar nulla mai, ch’egli non avesse ben
bene considerato in prima e chiarito; e come sopportava quelli che
si dolevano di lui ingiustamente, [Antonino Pio, suo padre di adozione. senza
ridolersi egli di loro; come non faceva mai nulla in furia ; come
non dava adito ai delatori; come era diligente esploratore dei costumi
e delle azioni, non maldicente nè te- mente i rumori, non
sospettoso, non sofistico; come si contentava di poco, in materia
d’abitazione, per esempio, di letto, di vestito, di cibo, di
servidori; come era operoso, lon- ganime, e di tal tempra da poter
durare in uno stesso luogo sino alla sera, senza aver uopo, per la
fruga- lità del vitto, nè anche di uscire ai bisogni del corpo fuor
dell’ ora con- sueta; e la costanza e il tenor sempre uguale nelle
amicizie ; e il sopportare che altri contraddicesse con libertà di
parole al suo parere, e rallegrai’si quando glien era mostro un migliore
; e come era religioso senza supersti- zione; affinchè, con una
buona coscienza pari alla, sua, tu incontri come egli incontrò l’ultima
ora. Esci dall’ ebrezza, ritorna in te; e cacciato via il sonno, e
veduto ch’eran sogni quelli che ti turba- vano, risvegliati una
seconda volta, e guarda le cose della vita come tu guardavi quelle
altre. Son composto di un corpicciuolo e d’un’ anima. Al corpicciuolo
tutte le cose sono indilferenti; non potendo egli nè manco far
differenza. Air anima sono indifferenti tutte Qui r Ornato volea
fare una nota, come è indicato nel manoscritto, ma non la fece.
Verosimilmente egli volea gìnstiiicare e il- Instrare la sna
interpretazione di questo luogo, alquanto diversa da quella degli altri
interpreti. La traduzione letterale di tutto il § è cEsci d'ebrezza,
richiama te stesso; e cacciato via il sonno, e veduto che eran
sogni quelli che ti turbavano, desto una seconda volta, guarda queste
cose, co- me tu guardasti quelle altre. Intendi anima razionale, la quale per
gli Stoici non era altro che ragione e vo- lontà, esclusa la sensibilità
appartenente solo airantmwccta, mero principio animale comune anche
ai bruti. quelle che non sono azioni di lei. E quelle che sono azioni di
lei, stantìo tutte in balia di lei. E di queste an- cora, quelle
sole che riguardano il presente. Perchè le azioni future e le
passate sono pure indififerenti per lei. Il lavoro non è cosa
contro natura nè per la mano nè pel piede, sintantoché il piede fa
le cose del piede, e la mano le cose della mano. . Quindi non è nè
anche cosa contro natura per V uomo, in quanto uomo, fìnch’egli fa
le cose dell’uomo. E se non è cosa contro natura per lui, non è nè
anche per lui un male. Quanti piaceri non godono i malandrini, i bagascioni,
i parricidi, i tiranni? Non vedi come gli artisti mec- * canici condiscendono
bene in .qual- Sottintendi ; € hanno importanza per lei. che cosa
agli imperiti, ma non seguitai! meno però la ragione del- l’arte, e
da quella non si vogliono distaccare? Non è ella una vergogna che
l’architetto e il medico abbiano più rispetto per la ragion dell’
arte loro propria, che l’ uomo per la sua, la quale egli ha in
comune con gli dei? L’Asia e
l’Europa son cantucci del mondo; tutto il mare, una goc- ciola del
mondo ; l’ Athos, una zolletta del mondo ; ciascuno degl’istanti
pre- senti del tempo, un punto dell’ eter- nità. Tutto è piccola
cosa, mutabile, peritura. Tutto vien di colà, da quella mente
comune, o voluto da lei, o per concomitanza.* E quindi la gola del
leone, e il veleno, ed ogni cosa ma- lefica, come le spine ed il loto,
sono un accompagnamento e quasi una produzion necessaria di quanto
v’ha d’eccelso e di bello. 'Non immaginai ti adunque che sien cose
aliene da quello che tu veneri; ma pensa alla sorgente del
tutto. Chi ha veduto le cose d’ adesso, ha veduto tutte le cose,
quante per gl’ infiniti secoli furono e per gli jiltri infiniti
saranno ; perch’ elle son tutte d' uno stesso genere e d’ uno
stesso coloi'e. Considera sovente la concate- nazione di tutte le
cose nel mondo e la relazione dell’ una all’altra. Per- di’ elle
son tutte intrecciate, dirò così, r una colf altra, e tutte, per
(piesto motivo, amiche l’ una del- l’altra. Di fatti all’ una vien sempre
dietro 1’ altra ; del che è cagione iJ moto tonico e consenso di tutte
e r unità della rnateiia prima. Alle cose che ti sono date in
sorte, ti devi adattare; e gli uomini, coi quali hai comune la sorte, li
devi amai'e, ma amar veramente. Uno strumento, un ordigno, un
arnese qualunque, se è atto, a tutto quello per che è stato
formato, va bene; ancorché non ci sia più chi r ha formato. Ma
negli esseri governati dalla natura è immanente dentro e continua
la virtù che li formò; per lo che conviene ancor più venerarla, e
stimare .che, ove secondo il voler di quella tu viva, sia per
riuscirti secondo il tuo in- tento ogni cosa. E questo ò quello che
succede all’ universo, che gli riesce secondo il suo intento ogni
cosa. il. Quale che sia la cosa dove tu riponi il tuo bene o
il tuo male, s’ ella è una di quelle che non di- pendono dalla tua
volontà, di neces- sità debbe accadere che, incorrendo tu in quel
male, o non conseguendo quel bene, tu accusi gli Dei, e che tu odii
inoltre gli uomini, i quali ti saran causa, o i quali tu sospetterai
avere ad esserti causa del non conseguir 1’ uno o dell’ incorrer
nel- l’altro; e molte iniquità, certo, com- mettiam noi, per non
essere indif- ferenti a siffatte cose. Ma se noi tenghiamo per beni
o per mali quelle cose soltanto che dipendono da noi, nessuna causa
rimane più nè di ac- cusare Iddio, nè di stare in ostilità verso
l’uomo. ANBEDUE COOPERIAMO AD UN MEDESIMO FINE. Gl’uniscienti e intelligenti,
gl’altri alla cieca; per modo che anche i dormienti, come disse Eraclito,
se non erro, lavorano e COOPERANO a ciò che si fa nel mondo. L’ uno ci
lavora in una guisa, l’altro in un’altra; e ancorché senza suo prò,
ci lavora e coopera anche colui che si va querelando e fa prova
' Vedi il § 16 di questo medesimo libro. Con questo § finisce il
volgarizzamento del- r Ornato, e col § seguente incomincia il volgarizzamento
rifatto da me. di resìstere e distruggere l’opera altrui: perchè anche di
questi ha bisogno il mondo. Rimane dunque che tu vegga nel novero
di quali tu ti vuoi porre : perchè chi governa il tutto, saprìi ben
valersi di te in ogni modo, ricevendoti in questa o in queir altra
banda de’ suoi lavora- tori e cooperatori. Se non che hai da badare
che tu non sia tal parte della brigata, qual è del dramma quel
povero e ridicolo verso di cui parla Crisippo. Il sole vuol egli fare le
veci della pioggia? o Esculapio quelle di Cerere? E gli astri non
hanno essi i loro uffici diversi, ciascuno il suo, 1
Plutarco {de comm. adv. Stoicot) cita le parole di Crisippo, alle quali
allude Anto- nino: «In quel modo che le commedie hanno talvolta dei
versi ridicoli e facezie che non hanno alcun valore in sè, ma giovano
non- dimeno all'effetto generale del poema; pa- rimente il vizio è
certamente riprovevole in sè, ma non è inutile a tutto il rimanente
delle cose.» ma COOPERANTI AMBI AD UN MEDESIMO FINE? Se gli Dei hanno
deliberato intorno a me ed alle cose che deb- bono incontrarmi,
hanno bene deli- berato e provveduto : perchè un Dio senza senno e
improvvido non pos- siamo neppure immaginare. E farmi del male, per
qual motivo l’ avreb- bero essi voluto? Qual pio ne sa- rebbe
venuto ad essi o al tutto di che prendono sì gran cura? Che se non
hanno deliberato intorno a me in particolare, essi hanno al certo
deliberato universalmente intorno a tutto il complesso delle cose.
Io debbo quindi accettare e aver caro tutto che mi accade, come
conse- guenza necessaria di quella loro ge- nerale determinazione.
Che se poi non pensano nè provvedono a nulla (è una empietà il
crederlo ; o vera- mente non facciam più sacrifici, nè preghiere,
nè alcuna di quelle cose che suppongono presenti gli Dei e viventi
con noi); ’ se, dico non pen- sano nè provvedono in. alcun modo a
niuna delle cose mie; posso io almeno pensare e provvedere a me
stesso: e mio primo pensiero debbe essere di conoscere in che
consiste Futile mio. Ora egli è utile ad un essere qualsivoglia ciò
chcs è con- forme alla costituzione e natura di lui. La mia
costituzione è ragionevole e socievole: la mia società e LA MIA PATRIA,
come Antonino, è ROMA; come uomo, è il mondo. Ciò solo adunque che giova a
queste due patrie, ò utile a me. Ciò che avviene a ciascheduno, è utile
al tutto. Questo solo basta. Ma tu osserverai ancora, so tu ci badi, che
per F ordinario ciò che succede ad un uomo, è utile an- cora agli
altri uomini. Intendo ora ^ Intendi: «che suppongono la presenza
J e la provvidenza divina.» r
utile nel senso volgare, cioè attri- buendo utilità alle cose medie. Quello
effetto che fanno in te gli spettacoli degli anfiteatri e di simili
luoghi, chè per essere sem- pre le medesime cose, ti rechi a noia
il vederle, quello effetto me- desimo facciano in te tutte le cose
della vita: perchè esse sono, dalla cima al fondo, sempre le stesse,
e nate sempre dalle stesse. K fino a quando adunque? Non
cessare di rappresentarti al pensiero uomini’ trapassati di ogni
fatta 0 di ogni sorta di condizioni, discendendo anche a Filistione,
a Febo e a Origanione;* passa di poi ad altri generi di viventi.
Colà dob- I[Vi fu un Filistione poeta comico, contemporaneo di
Socrate; vi fu ancora un Filistione di Locri, il quale era medico,
e da alcuni creduto autore dei libri sulla dieta che fanno parte
della collezione ip- pocratica. Quanto a Febo e Origanione ci sono
al tutto incogniti. biamo andare anche noi dove sono iti tanti valenti
oratori, tanti gravi filosofi, Eraclito, Pitagora, Socrate; tanti
eroi prima di loro, tanti capi- tani dopo, tanti tiranni; e insieme
con loro EUDSOSSO, IPPARCO, ARCHIMEDE altri acuti ingegni, uomini
magnanimi, laboriosi, scaltri, arro- ganti, beffardi, schernitori di
questa povera vita di un giorno, siccome fu MENIPPO ed altri simili a
lui. Pensa che tutti costoro sono spenti. II celebro matematico discepolo
di Platone, il cui sistema è esposto nel XII della Metafisica di
Aristotele ; e che insieme cou Speusippo assorbì tutto il Platonismo
nella teoria dei numeri. A lui si applica, non meno che a
Speusippo,!' osservazione di Ari- stotele: «la matematica è divenuta
tutta la filosofia del nostro tempo. [Matematico contemporaneo di
Tolomeo Filadelfo, nato in Nicea] [Filosofi» cinico nato a Gadara, dal
quale un certo genere di satiro che furono dette menippee: orasi
beffato dei filosofi e delio loro dispute scrivendo con uno spirito
e una vena inesauribile, che gli fu invidiata, come pare, anche da
Luciano. da gran tempo. Ora che male per essi? che male per coloro dei
quali non resta pure il nome? Solo una cosa è qui da avere in gran
pregio : r osservar sempre la veracità e la giustizia,
comportandoci benevol- mente anche verso i bugiardi e gli
ingiusti. 48. Quando vorrai rallegrare te stesso,
rappresentati al pensiero le migliori qualità degli uomini coi
quali tu vivi: per esempio, l’ope- rosità efficace di questo, la
vere- condia di quello, la liberalità di quel- r altro, e cosi via
via. Perciocché non è cosa che tanto rallegri, quan- to le
sembianze della virtù espres- se nei costumi delle persone colle
quali viviamo, e quanto più esser possa, accumulate e frequenti. Vuoisi
dunque averle pronte alla memoria. Ti quereli tu del pesare solo
cotante libbre e non tre cento? Così non ti querelare dello aver a
vivere solo tanti anni e non più. Come ti tieni per pago e lieto
della quantità di materia che ti fu assegnata, così accontentati
del tempo. Fa’ prova di persuaderli ; ma non lasciar di operare
anchh mal- grado loro, quando ragione di giu- stizia il richieda.
Che se altri ti impedisce colla forza, volgiti alla rassegnazione,
e serba la serenità dell’anima, facendo uso di quello impedimento
per l’ esercizio di un’altra virtù. E ricordati che tu vuoi condizionalmente,*
e che non si ri- chiede da te r impossibile. Ora che si richiede
adunque? Una cotale determinazione di volontà. E questa [ La volontà
giusta è solo scopo e termine di sè medesima, sia o non sia ella
efficace, cioè a dire, sia o non sia seguita dall' effetto esteriore, il
che dipende dalle circostanze esterne. tu l’hai: il fine a cui sei venuto
nel mondo è conseguito. L’ambizioso ripone il ben suo nell’ azione
altrui; il voluttuoso nelle proprie passioni ; ' il savio nella sua
propria azione. Io posso astenermi dal fare concetto alcuno intorno
a ciò, e non turbarme nell’anima. Non le cose, ma noi siamo gli
autori dei nostri giudizi. Fa’ di avvezzarti ad ascoltare
senza distrazioni ciò che altri dice, e ad entrare quanto più puoi nel-
l’animo di chi favella. Ciò che non giova allo sciame, non giova
neppure alla pecchia. Quando i naviganti mormorano contro al nocchiero,
o gli infermi. Meno stoicamente direbbesi nel soddisfacimento delle proprie
passioni, » cioè nel piacere procurato da questo soddisfaci- mento.
Perchè il piacere stesso è per gli Stoici una passione, un patire e non
un agire dell' anima. Di contro al medico,' qual motivo può
moverli a ciò se non se il modo con che il medico e il nocchiero
procacciano la sanità e la salvezza loro? Quanti di coloro, coi
quali io venni al mondo, se ne sono già andati! Agli itterici
sembra amaro il miele, l’acqua è spaventevole al- r idrofobo, pel
fanciullo è bellissimi una palla. A che dunque mi adiro? Stimi tu
men potente una falsa opi- nione che la bile nell’itterico, o il
veleno nell’idrofobo? Niuno può recarti impedimento al vivere
secondo la legge della tua natura; nulla accaderti contro la legge della
natura comune. Che è il vizio? è ciò che tu spesso hai veduto. E ad
ogni acci- dente che t’ intervenga abbi apparecchiato questo pensiero,
che è cosa da te spesso veduta. Su e giù, a dritta e a manca
troverai pur sem- pre le stesse cose, di che sono piene le antiche
storie, le mezzane e le moderne; di che ora son piene le città e le
case. Nulla di nuovo : tutto consueto e di poca durata. La fede nei
domini come può venir meno se non se collo spegnersi di quei
pensieri che sogliono ali- mentarla? i quali sta in te jl ride-
«^tar di continuo. Posso pensare di una cosa quel che ne debbo pensare
: se questo è in mia facoltà, a che mi turbo? Ciò che è fuori
ilella mia mente, non ha nulla che fare colla mia mente. Fa’ di
essere cosi dispo- sto e sei ritto. Il risorgere sta in poter tuo :
vedi di nuovo le cose a quel modo che tu le vedevi: sarà il tuo
risorgimento.' 3. Pompe, trionfi, vani apparati, drammi che
si recitano in sulla sce- na, greggi, armenti umani, scara- mucce,
ossicciuolo gittate al cagno- lino, tozzo di pane ai pesci nel vivaio,
affanni e lavorar di formiche,, discorrimenti qua e là di topi
spaventati, fantoccini mossi da un filo. È mestieri assistere a
codeste cose con viso benevolo e non burbero, ma non però dimenticare
che tanto vale cia- Pare che ad Antonino in un momento di sconforto
sombrasse aver perduta la fede nei domrai della filosofia. E si conforta
a ri- cuperarla. Bello e profondo paragrafo, stoicamente considerate] scuno
quanto vaglion le cose cui dà le sue cure. Conviene por mente parola
per parola a ciò che si dice, e atto per atto a ciò che si fa. E
veder tosto nell’ una cosa qual è lo scopo ; nel- l’altra, qual è
il significato. 5. Basta, o non basta il mio in- gegno a proccurare
questo effetto? Se basta, io ne fo uso come di uno stromento che la
natura dell’ universo mi diede. Se non basta, ove non osti il dover mio,
lascio fare r opera a chi può condurla a fine meglio di me; ovvero
io la fo co- me posso, giovandomi dell’aiuto di tale, che possa,
scorto dal mio pro- prio consiglio, recare ad effetto ciò che è
utile ed opportuno alla co- munità. Perchè questo deve esser sempre
il fine di ciò che io faccia, sia da per me solo, sia coll’aiuto altrui:
l’utile e il convenevole al comune. 6. Quanti lodatissimi
sono già stati dati all’oblio! e quanti che li loda- rono sono
scomparsi, già è gran tempo! 7. Non ti vergognare
dell’essere aiutato. Tu ci sei per fare quello che tocca a te, come
un soldato ad una battaglia murale. Ora se tu, offeso in una gamba,
non potessi solo salire in sui merli, e ti venisse fatto col- r
aiuto di un compagno? Non ti mettere affanno delle cose future. Tu
arriverai ad esso, se il dovrai, recando teco quella mede- sima
ragione di che fai uso nelle cose presenti. D, Tutte le cose
sono reciproca- mente collegate fra loro; sacro è il legame che le
unisce, e niuna cosa può dirsi estranea ad un’altra. Esse sono
tutte coordinate insieme e con- corrono ad ornare lo stesso mondo. Perchè
uno è il mondo che è formato di esse tutte, uno Iddio che penetra
tutto, una la materia prima, una la legge, una la ragione comune a
tutti t?li esseri intellettivi, una la verità: . essendo pur anche
una sola la perfezione di tutti gli esseri congeneri e partecipi della
stessa ragione. Presto svanisce ogni corpo, risolvendosi nella sostanza
universale ; presto svanisce ogni causa, rientran- do nella ragione
universale; e la memoria di ciascheduna cosa è presto inghiottita
nell’abisso del tempo. Per l’animale ragionevole, la stessa azione
che è secondo natura, è anche secondo ragione. Se non sei ritto,
dirizzati. Quella relazione che hanno fra loro le membra del
corpo nell’ ani- ' male individuo, hanno fra loro gli esseri
intelligenti nel corpo collet- tivo della società: tutti sono fatti
per cooperare insieme ad uno scopo comune. E per meglio
ricordartene avrai cura di ripetere . spesso a te medesimo: io sono
un membro del sistema degli esseri intelligenti. Ma se tu di’
solamente : io sono una parte, tu non ami ancora di cuore gli
uomini ; il beneficarli non è ancora per te cosa che per se me-
desima ti diletti e ti contenti : tu il fai tuttavia per pretto dovere,
non perchè tu senta di beneficare ad un tempo te stesso. Accada
che vuole al di fuori a quelle parti che possono ricevere nocumento
da cotali accidenti : se ne dorranno esse che patiscono,’ se il
vogliono. Quanto si è a me, ove io non faccia concetto di siffatti
ac- cidenti come di un male, non ne ricevo nocumento veruno. E sta
in mia facoltà il non fare cotali concetti. Che che altri faccia o
dica, a ine conviene essere uomo dabbene: per appunto come se V
oro, o la porpora, o lo smeraldo dicesse : che che altri faccia o
dica, a me conviene essere smeraldo, e avere il mio pro- prio
colore. 16. (7) La parte sovrana non dà mai noia a sè stessa,
vale a dire, non è mai cagione nè di tristezza, nè di timore, nè di
concupiscenze a sè stessa. Se altro v’ ha che possa moverla a ciò, vi si
adoperi. Quanto a lei, operando razionalmente, non sarà mai a sè
stessa cagione di cotai moti. Provveda il corpo, se può, al non
avere a soffrire; e se soffre, lo dica. Quanto si è all’animuccia, nella
(filale veramente cade la tristezza e il terrore, basterà solo che la
parte ove si formano i giudizi* del terribile [Animuccia ; intendi
il principio della &dìoi&1o e del tristo, non dia
luogo a quelli: essa animuccia non ha attitudine a formare giudizi
cotali. La parte sovrana, considerata in sè, non ha mai manco di nulla,
ove ella non venga meno a sè stessa: e similmente non è mai turbata
nè impedita, ove non turbi o impedisca ella sè medesima. Beatitudine
vuol dire buon genio, vuol dire mente buona. Che fai dunque tu qui,
o immaginazione? Va’ via, te ne prego per gli Dei, vat- tene come
sei venuta: non ho bisogno di te. Tu sei venuta secondo l’usanza
tua vecchia. Non mi adiro teco ; ma vattene. V’ha chi teme il
mutamento? Ma che può farsi mai senza muta- mento e trasformazione?
E che v’ha di più caro, di più proprio e consueto alla natura
dell’universo? E puoi tu stesso prendere un bagno se le legna non
si trasformano? puoi tu nutrirti, se non si trasformano i cibi? E
v’ha egli alcuna delle altre cose necessarie alla vita che possa
elfettuarsi senza trasformazione? Non vedi tu dunque che il dovere
tu ancora essere trasformato, va del pari con tutte le altre
trasformazioni,, ed è parimente necessario alla natura dell*
universo? 19. Per entro la sostanza dell' uni- verso, come
per entro a un torrente, passano tutti i corpi connaturati a
(jiiello, siccome sono connaturate a noi, e cooperano con noi le
nostre membra. Quanti Crisippi ha già inghiottiti il tempo, quanti
Socrati, quanti Epitteti! Lo stesso sovvengati (l;ogni altro uomo,
o cosa qualsi- voglia. Una sola cosa mi turba : la tema di
far cosa che la natura dell’ uomo non voglia, o come essa non
voglia, o quando essa non voglia. Presto avrai tutto obliato,
e presto ancora sarai obliato da tutti. È proprio dell’ uomo l’
amare anche colui che ci offende. Il che ti verrà fatto se tu
penserai che egli è pur tuo congiunto,^ che ha peccato per
ignoranza e suo malgrado, che fra poco sarete morti ambidue, e so-
pra tutto che egli non ti ha nociuto: perchè non fece peggiore che
olla prima si fosse la tua parte sovrana. La materia comune di tutte
le cose è nelle mani della natura universale, come la cera in quelle
dello scultore.^ Ora ella ne fa un cavallo, poi, rifusa la materia
del cavallo, ne fa uso alla produzione di un albero, poi a quella
di un omiciattolo, poi a quella di qualche altra cosa, e ciascuna
di queste cose dura un brevissimo spazio di tempo. Ma e'non è oggi
più tremendo pel forzierino r essere sconficcato e disfatto, che
non fu ieri 1’ esser fatto. Il quale si serve di essa cera per fare
i modelli delle sue statue. II livore in sul viso è cosa contro natura,
da che spesso vi al- tera anche il colore che naturalmente 10
abbellisce, e che alla fine vi si spegne in modo da non potervisi
più ravvivare. Questo ti provi che è cosa eziandio contro ragione:
perchè se anche la coscienza del peccare si perde, qual motivo di
più vivere? Tutte le cose che vedi, già già le viene mutando la natura
reggitrice del tutto, la quale ne farà altre della materia loro, e
poi altre della ma- teria di queste, affinchè il mondo sia sempre
giovane. Quando altri ti offende in che che sia, considera
tosto qual cosa egli abbia dovuto estimare come un bene o come un
male perchè fosse così mosso ad offenderti. La qual cosa scorto che
tu abbia, tu avrai compassione airuomo, e cesserai dal maravigliarti
e dallo adirarti. Perdiè o tu stesso stimerai tuttavia come un bene
o come un male quella medesima cosa od altra somigliante ; e allora
gli si vuol perdonare; o tu farai altra estimazione ch’egli non
fece, e più facilmente benigno sarai a chi travide malgrado suo. Non
pensare alle cose che tu ancora non hai come se tu gȈ le avessi.
^Ma facendo piuttosto il no- vero delle più comode tra quelle che
liai, sovvengati quale studio porresti in procacciarle se tu non le avessi.
Bada nondimeno che questo tuo averle in grado non ti venga avvez-
zando a stimarle in modo da turbar- tene poi quando elle ti
mancassero. Ravvolgiti in te stesso. La parte sovrana e ragionevole
dell’ uomo ha natura tale che basta a sè quando agisce rettamente e
sa trovare in ciò la sua quiete. 29. Cancella le immaginazioni,
raffrena gli appetiti, circoscrivi il pre- sente del tempo. Conosci ciò
che accade a te e ad altrui. Dividi e ri- solvi ne’ suoi elementi,
la parte causale c la parte materiale, ogni oggetto di appetizione
o di aver- sione. Pensa all’ ultima ora. Lascia stare il peccato
altrui colà dove ò nato. no. Segui col pensiero le
altrui parole. Penetra coll’ acume della mente nelle cose che si
fanno e nel- r animo di coloro che le fanno. 31. Adornati di
verecondia, di sem- plicità e di indifferenza verso tutte le cose
che non sono nè virtù nè vizio. Ama il genere umano. Obbedisci a Dio. Tutto
le cose, disse colui, si fanno secondo una legge immutabile. 0 gli
Dei, o gli atomi. Ma basta il ricordare che tutto si fa [Cioè a
dire : o v' ha una provvidenza divina, o non v' ha, secondo il sistema
ato- mistico di Epicuro. secondo una legge. Ma troppo è anche il
poco già detto. Quanto alla morte, o essa a un disperdimento, se la vita ò
un accozzamento fortuito di atomi o altra aggregazione qualsiasi.
Ovvero essa è uno spegnimento, ovvero un traslocamento. Quanto
al dolore, se è intollerabile, ti uccide. Se dura, è tollerabile. E la mente
conserva la sua tranquillità se si raccoglie in sè stessa: e la parte
dominante non si è fatta peggiore. Quanto alle parti che sono
offese dal dolore, ce lo dicano se il possono. Quanto alla gloria,
vedi le menti loro, quali cose fuggono e quali cose ricercano. E
ancora, che a quel modo stesso che gli strati di arena novel-
lamente gittati in sul lido ricoprono i precedenti; similmente nella
vita le cose nuove ricoprono, sovrappo- nendosi, per così dire, ad
esse, e fanno dimenticare quelle a cui succedono. Di Platone: Ad
uomo di eccelsa mente, al quale sia dato di abbracciar col pensiero
tutta la serie dei tempi e l’ università degli esseri, credi tu che
la vita sia per sembrare un gran che? Impossibile, disse quegli. E
la morte, per conseguenza. non sarà punto stimata da lui una tremenda
cosa. — No certo. » Di Antistene: Operar bene ed essere
lacerate è cosa da re. È vergogna che il
volto ubbidisca alla mente e si componga ed assesti come ella vuole; e
che la mente poi non sappia comporre e«l assestar sè medesima.
Contro le cose lo adirarsi è vano, Ch'esse non se ne curano. 1 Fiat. Rep.
lib. VI. [Lacerato, intendi, dai maldicenti. Plutarco negli Apoftegmi
attribuisce questo detto ad Alessandro]. [Tratto dal ‘Bellorofonte’,
tragedia perduta di Euripide. E gli immortali e noi di te fa lieti. Mieter la
vita Come spica matura, e morir l' uno, E viver l’altro. Sed ime
vède’nii eigl’ilddii non curano, Ciò pure ha sua ragione. Che il bene e il
dritto è dalla mia. Non pianger con altrui nè esultare. (Di Platone). A chi mi favellasse in colai
guisa, potrei con giu- stizia rispondere: Tu erri dal vero, o
amico, se tu credi che un nonio di qualche vaglia debba, quando im-
prende a far che che sia, computare le probabilità dello avere a
morire 0 a vivere ; e non piuttosto conside- rare unicamente se ciò
ch’egli im- t Nel testo è un verso esametro, ma igno- rasi
onde 1' abbia tratto Antonino. P. 2 Due versi dell' Isipile, tragedia
perduta di Euripide. II primo di questi due versi è citato anche al
§ 6 del lib. XI, come verso di un tragico ; ma il nome del poeta non è
noto. D’ ARISTOFANE negli Acarnesi. P. 5 I §§ 44 e 45 sono tratti
dall’Apologia di SOCRATE; il § 46 dal ‘GORGIA’] prende a fare sia giusto
od ingiusto, se azione da uomo dabbene, o da tristo. Perchè così è
veramente, o Ateniesi : quale che sia il posto che altri scelse
nell’ordinanza, giudicatolo il migliore, o in che sia stato
collocato dal capitano; egli vi dee perseverare, secondo che mi
pare, e sostenervi tutti i pericoli, non avendo in conto di nulla la
morte ne altro checchessia, in paragone della disonestà e vergo-
gna che sarebbe lo abbandonarlo. Ma bada bene, o valentuomo,
che altra cosa non sia la gentilezza, d’animo e la virtù, ed altra il
pro- cacciare salvezza asèe ad altrui; e che ufficio deir uomo,
dico chi voglia essere uomo veramente, non sia per avventura,
anziché lo ingegnarsi di campar lungo tempo avendo cara sopra ogni
altra cosa la vita, il ri- mettersene piuttosto a Dio; e pre-
stando fede a ciò che dicono le fem- mine. essere inevitabile il destino
di ciascheduno, studiare il modo di vi- vere, il più virtuosamente
ch’ei può. quel tempo che ha a vivere. Contemplai’e il giro degli
astri accompagnandoli, per cosi dire, nel loro corso; e ripensare
di continuo al perpetuo tramutarsi degli elemen- ti da una in altra
forma. Cotali pensieri purgano l’anima dalle lordure di questa vita
terrestre. 48. Bello è quel luogo di Platone: « Chi ragiona*
degli uomini, deve an- che osservare, come da un’ alta ve- detta,
tutte queste cose terrene : adunanze popolari, eserciti campeg-
gianti, agriculture, nozze, divorzi, nascimenti',’ morti, strepiti di
tribu- nali, contrade inabitate, varietà di nazioni, feste, lutti,
mercati, e que- sto miscuglio di tutti i contrari, e l’ordine di
questo miscuglio di che si compone il mondo. Questo brano di Platone non
si trova nelle opere che ci rimangono di lui. E’ giova il rimembrare le
cose che furono prima di noi: tanti mu- tamenti, tanti e sì grandi
rivolgi- menti di stati. Puoi anche conside- rare le cose che
seguiranno in futuro, perchè esse saranno pur sempre ti’ un taglio,
e non è possibile che escano mai del tenore usato infino ad ora.
Onde che tanto vale il ri- cercare gli eventi di che si compone il
vivere umano ^ in un periodo di t^uarant’ anni, quanto in uno di
dieci mila. Che potresti trovare di più? E questo. Ciò die fu terreo
torna alla terra ; Ciò die d’ etereo seme è germoglio.
Del deio etereo torna allo sfere. Che vuol dir ciò? Separazione
degli atomi terrei che erano insieme ag- gregati, e somigliante
separazione degli elementi attivi.^ ^ Intendi il vivere dell'
umanità, o non deir individuo umano. Gli elementi attivi erano, secondo
gli dE con cibi il torrente e con bevande £ con incanti di stornar
proccnra Perchè a morte noi tragga. Con quel vento Che Dio ne
manda navigar ci è d'uopo, £ non spargere inutile lamento.» Pili
valente nella lotta, ma non piò devoto al ben comune, non piò
verecondo, non piò indulgente e piò benevolo verso il prossimo che
ha peccato. Ogni volta che può condursi a fine una impresa secondo i
precetti della ragione comune agli Dei e agli uomini, non hai nulla
da temere: perchè dove sta in te lo avvantag- giarti coir esercizio
libero della tua operosità, procedendo secondo la costituzione
dell’ uomo, quivi non è luogo a timore di avere a soffrire alcun
danno. stoici, Paria e il fuoco, con che intende- vano il
freddo e il caldo; i passivi, la terra e l’acqua. In ogni luogo e in ogni
tempo è in tua facoltà lo acconciarti di buon grado e con pia
rassegnazione all’ evento che ti occorre ; e il por- tarti con
rettitudine verso gli uomini coi quali ti trovi; e il vegliare
dili- gentemente con quelli spedienti che tu sai sopra ogni tuo
pensiero pre- sente, affinchè non v’entri inavver- titamente nulla
che tu non abbia perfettamente compreso. Non andare investigando
in qual modo credano di doversi governare gli altri, ma guarda
dritto . Non andare investigando
gli altri. [Intendo: non curarti di ciò che le menti degli altri
approvano o disapprovano; bada dirittamente a ciò che approva la tua.
Noto questo perchè altri non creda essere il qui detto da Antonino
cosa contraria a ciò che disse in molti altri luoghi, e
segnatamente nell’ Vili, 61: entrare nella parte sovrana di ognuno.
Le sono due cose diverse. In quanto al tuo operare, non badare a ciò che
le menti degli altri prescrivono, bada a ciò che prescri- ve la
tua. In quanto ai giudizi che tu fai degli altri, entra il più che puoi
nelle menti loro, per vedere quai motivi li spingano. allo scopo verso il
quale ti scorge la natura universale per mezzo degli eventi che
essa ti manda ; e la tua propria natura per mezzo dei doveri che
essa ti impone. E dovere di cia- scheduno sono quelle azioni che
cor- rispondono al fine pel quale è stato formato. Ora gli esseri
non ragio- nevoli sono stati formati per gli es- seri ragionevoli
(come universal- mente tutte le cose che hanno minor valore, per
quelle che ne hanno un maggiore); e gli esseri ragionevoli, gli imi
per gli altri. Primo dovere adunque dell’ uomo, in conseguenza
della sua costituzione, è di cooperare al bene di tutti i suoi simili. Il
secondo è lo star saldo contro gl’appetiti e le AFFEZIONE DEL CORPO. Essendo
proprio della forza razionate e intellettiva il serbarsi pura e distinta,
circonvallando, come a dire, sè stessa, e noh essere vinta mai dalla t
Vale a dire che non deve ammettere in forza sia sensitiva sia appetitiva.
Perchè queste due forze sono animale- sche, e sopra di esse quella
vuole aver primato e signoria, e non la- sciarsi signoreggiare da
esse. E con ragione: quella essendo fatta per servirsi di queste.
Terzo dovere del- r uomo \i è il procedere cautamente ne’ suoi
giudizi, per non cadere in errore. A queste cose applicandosi la
parte tua sovrana, compia per la diritta via il suo corso; ed ha tutto
ciò che le spetta. Come se tu avessi dovuto mo- rire testé e fornito
già tutto il corso della tua vita; vivi secondo natuia (piei giorni
che ti rimangono, con- siderandoli come un soprappiù che tu non
avessi sperato.’ se alcuna mistura di elementi estranei alla
sua natura, . e apparir quindi distinta con taglio nettissimo da tutto
ciò che ha na- tura diversa dalla sua. [A quel modo che se ci
trovassimo al punto della Cari ti sieno quelli eventi soltanto che t’
incontrano, e sono quindi come a dire contesti insieme collo stame della
tua vita. Che potresti desiderare di più accomodato a te? Ad ogni
accidente che ti occorre abbiti davanti agli occhi coloro ai quali
incontrarono le stesse cose; ed essi se ne adirarono, parve loro
strano, se ne querelarono. Ora dove sono coloro? In niun luogo.
Perchè vuoi tu dunque rassomigliar loro? e non lasci piuttosto a
chi li vuole quei moti alieni da te, e non badi unicamente all’ uso
che devi fare deir accidente intervenuto? Perchè tu ne farai buon
uso, e ti sarà nuova materia a virtuosamente operare, solo che tu
intenda ad esser uomo morte senza speranza di riaverci e
consi- derassimo la nostra vita trascorsa; ci dor- remmo di averla
male impiegata, e vor- remmo caldamente impiegarla meglio per
l’avvenire, scampando; cosi dobbiamo vo- lere ora ec. dabbene agli occhi
tuoi propri, sia qual si voglia la cosa che tu faccia; e ti
sovvenga di queste due verità: im- portare assai quale sia l’ azione, e
non importare nulla in che cada razione. Guarda dentro di te. Ivi è
la fonte del bene, la quale non sarà esausta mai, solo che tu ci
vada scavando di continuo. 60. Anche il corpo, e nel
cammi- nare e nello stare, serbi un contegno egualmente alieno
dalla avventatezza e dalla mollezza. Imperocché siccome l’anima si rivela
nel volto, imprimendovi un certo che di assennato e di composto; così
ella dee rivelarsi anche nel rimanente del corpo. Ma ciò vuoisi
fare naturalmente, senza che vi appaia studio nè affettazione. La
volontà giusta è per gli Stoici solo scopo e termine di sè medesima, sia,
o non sia ella efficace, cioè a dire sia o non sia seguita dall'
effetto esteriore, il che dipende dalle circostanze esterne. La virtù
sola è huona.essa sola basta alla beatitudino. L’arte del vivei e
virtuosamente rassomiglia piuttosto all’arte della lotta che a
quella della danza, in quanto bisogna essere apparecchiati ad ogni
accidente non preveduto, e saldi per non cadere. Non cessare di
recarti a mente le qualità di coloro dai quali vorre- sti essere
lodato, e quelle delle menti loro. Così non ti avverrà di trascor-
rere all’ ira contro uomini che fallano malgrado loro, nè ti curerai
dell’es- sere da loro lodato o biasimato, ve- dendo qual sia la
fonte onde moiVono i giudizi loro e le loro azioni. Non per sua
elezione, dicea quegli, ma sempre malgrado suo, è l’anima umana
priva del vero.' E [La sentenza è di Platone, ed è citata anche da Epitteto
(Dissert.), il quale nomina T autore. Nel Sofista parti-
colarmente, Platone intende a provare che r ignoranza è sempre
involontaria, e che sempre malgrado suo è l’uomo privo della cognizione
del vero. parimente malgrado suo è priva della giustizia, della
temperanza, della mansuetudine e di tutte le altre cose cotali.
Sommamente importa che tu r abbi sempre a mente : sarai più mite c
be_nigno inverso di ognuno. Oi. In ogni caso di dolore abbi
apparecchiato questo pensiero, che non è cosa disonesta, non tale
da far peggiore la mente che ti gover- na: perocché non le nuoce nè
in quanto ella è ragionevole, nè in quan- to ella è socievole. Nel
maggior nu- mero dei casi troverai soccorso efficace anche in quel detto
di Epicuro: il dolore non esser mai nè intollerabile nè di lunga durata,
solo che tu non lo ingrandisca colla tua im- maginativa, nia lo
vegga ne' limiti suoi naturali. Avverti ancora che molte cose ci
muovono ad atti di impazienza senza quasi che vi ponghiaino mente, le
quali non sono pur altro che dolore: siccome lo aver sonno quando
vorremmo veglia- re, r essere travagliati dal caldo, o r avere
inappetenza. Ora quando tu sostieni malvolentieri alcuna di que-
ste cotali cose, di’ a te medesimo che tu hai ceduto al dolore.*
65. Bada a non comportarti mai verso i disumani, come i disumani
si comportano verso gli altri uomini. Come sappiamo noi che Telauge,
quanto alle disposizioni dell’animo, non soprastasse a SOCRATE? [Intendi
che non basta reggere ai dolori gravi, ma conviene saper vincere anche
i leggieri: coi quali sovente non ci pigliani briga di combattere,
perchè la loro piccio- Iczza fa che non ci badiamo; o ci troviamo
vinti senza accorgercene. In quei casi, dico r autore, di’ a te stesso: «
ho ceduto al do- lore: » qnasi volendo, col rammentare quel nome,
che è il vero, faro a sò stesso parere più gravo il caso,o destare cosi
la sua attenzione. [Filosofo del quale Eschine Socratico diede il nome ad
uno de' suoi dialoghi]. Imperocché non
basta che la morte di SOCRATE Socrate sia stata più famosa, nè eh’
egli abbia fatto prova di mag- giore sagacità nel disputar coi sofisti,
di maggiore fortezza col pas- sare la notte in sul ghiaccio, di più
nobile coraggio col disobbedire al comando di andare a prendere
quel- r uomo di Salamina,' nè eh’ egli camminasse per le vie con
altero contegno : la qual cosa sarebbe mas- simamente da
considerare quando fosse vera. Ma vorrebbesi vedere quale
intimamente fosse l’animo di Socrate. Se egli potea contentarsi
dell’ esser giusto verso gli uomini e [Quest’ nomo chiamavasi Leone e
posse- dea grandi ricchezze. Delle quali i trenta tiranni sperando
poter fare lor preda, avea- no comandato a Socrate che andasèe, ac-
compagnato da altri quattro, ad arrestarlo. Socrate, con pericolo della
sua vita, disub- bidì al comando. Questo fatto è ricorda- to nell’
Apologia di Platone, da Eschine il Socratico, da Diogene Laerzio e da Epitteto.
santo verso gli Dei se non gli accadesse mai di adirarsi ciecamente
contro il vizio, nè di servire all’altrui ignoranza, nè di accogliere
come strana o incomoda o intollerabile veruna delle cose che gli
venivano compartite dal tutto,* nè di lasciare che la mente sua
partecipasse delle affezioni della carne. Cioè [8’ egli riponeva in ciò
solo, nella santità e nella giustizia, la sua felicità, Renza nulla
desiderare di più. Da queste parole di Antonino non bassi ad inferire che
egli particolarmente dubi- tasse della grandezza mórale di Socrate;
ma esse vogliono piuttosto esser prese in un senso generale, servendosi
Antonino del nome illustre di SOCRATE, come di un esempio, por avvertire
quanto sia malagevole il giudicare del valore morale degli uomini da alcune
loro azioni esteriori, sieno buone o sieno cattive; e come l’eccellenza
morale non consista solamente nel compiere este- riormente qualche
grande atto di virtù, ma richiegga inoltre tutte quelle
disposizioni intime e abituali di cui fa la rassegna. Detto di Fociono. La
mente non fu dalla natura mescolata per modo e confusa in- sieme
col corpo che essa non possa distinguersi da esso e come a dire circonvallare
sò medesima, ed eser- citare libera signoria sopra ciò che è ‘suo;
sendo che possa darsi benissimo che un uomo sia sommamente buono, e che nissùno
il vegga. Questo abbiti a mente, e ancora, che in pochissime cose
consiste il vivere Ecco come intendo io questo luogo: Noi conosciamo
altrui dalle azioni e dalle parole, quindi sempre per qualche organo corporeo,
quindi dal corpo. Ora può benissimo immaginarsi il caso che un uomo moralmente
eccellente sia posto in tali condizioni, o per malattia, o per estrema
povertà, 0 altra forza esteriore, da non poter usare in verun modo
del corpo per compiere alcuno di quelli atti che sono la manifestazione
esteriore delle disposizioni virtuose deir animo. In questo caso esse non
potranno essere conosciute. E però quando Antonino dice: «esercitare
libera signoria sopra ciò che è suo, non vuol dire sopra il corpo,
ma sulle facoltà stesse della mente. felice. E per ciò che tu abbia
dispe- rato di dover essere mai eccellente nella dialettica o nella
fìsica, non disperare medesimamente di dover esser libero, e
verecondo, e socievole, e obbediente a Dio. Vivere non vinto da
alcuna forza esteriore e colla più grande contentezza d’animo,
ancora che tutti gli uomini schiamazzino a posta loro contro di te,
e le fiere mettano in brani le membra di codesta conge- riedi carne
e d’ ossa che ti è venuta crescendo intorno; sì' tu lo puoi. E che
v’ ha in fatti in tutti questi co [tali casi, che possa impedire la mente
tua dal serbarsi mai sempre imperturbata, dal fare sempre giusta estimazione
delle cose circostanti e uso ragionevole degli accidenti che intervengono?
Per tal modo che la tua facoltà giudicativa dica all’ oggetto
presente: « secondo T opinione tu sei altra cosa; ma Tessere tuo vero,
è cotale. E la tua facoltà operativa dica immantinente all’
accidente in- tervenuto: « te appunto io cercava: perchè io non ho
altro intento che di operare razionalmente e socievole mente, e
tutto che accada me ne porge occasione, tutto può essere materia ad
esercitare questa virtù, quest’ arte umana e divina. Perchè
qualsiasi cosa che intervenga, ha qualche relazione di convenienza o con
Dio 0 con l’uomo, e può questi acconciarvisi, e non è mai nuova nè dif-
ficile, ma sempre nota e consueta, e facile 1’ uso che hassene a
fare. Perfettamente costumato è co- lui il quale vive ciascun giorno
come se quello fosse l’ ultimo. Non mai affannosamente operoso, non
neghittoso, non infinto mai. Gli Dei che sono immortali, non indispettiscono
d’ avere del continuo a tollerare, e per tanta durata di tempo, tanti e cotali
dappochi: ed oltre a ciò prendono ogni cura di loro. E tu che oramai
sei per finire, tu rinneghi la pazienza, e quando sei tu medesimo
uno di quel novero? È cosa da ridere che l’uomo non voglia fuggire la
propria malizia, il che è possibile e voglia poi fuggire la malizia, il
che è impossibile. Tutto ciò che la ragione speculativa e civile non
vede essere ragionevole e socievole, è da lei giudicato inferiore a sè
stessa. Quando tu fai del bene ed io ricevo quel bene, che vai tu
cercando, come gli stolti, una terza cosa di più, cioè, che si sa che
tu fai del bene, o che te ne sia reso il contraccambio? Nissuno si
stanca del ricevere giovamento ed è a giovamento nostro [Cioè del novero
di quei dappochi, anche per la ragione appunto che tu non sai tollerarli,
come sarebbe tuo dovere di fare] e d’altrui ogni azione conforme alla
natura. Non istancarti dunque di giovare a te medesimo col giovare ad
altrui. La natura universale produsse il mondo. Ora o tutte le cose
che succedono nel mondo sono conformi alla intenzione di quella natura;
ovvero sarebbero *sragionevoli*, cioè dilformi dalla detta intenzione,
anche talune delle cose principali che si fanno pel ministero
particolare della mente che governa il mondo. In molti casi sarai più
tranquillo se avrai questo a mente. A ritrarti dal vano amore della gloria
giove anche il considerare come non è più in poter tuo il fare che tu
sia vissuto da FILOSOFO tutta la tua vita, cioè insino dalla giovanezza:
cioè anzi molti si ricordano di un tempo, e te ne ricordi benissimo tu
stesso, nel quale tu eri LONTANO DALLA FILOSOFIA. Sicché tu
sei contaminato. Non è dunque più facil cosa per te l’acquistar
rinomanza di FILOSOFO al che si oppone anche la condizione del tuo
stato. E però, se tu hai veramente scorto dove batta il punto,
lascerai da banda il pensiero dell’opinione che altri sia per avere di te,
e ti contenterai di vivere conforme alla tua natura quel rimanente di vita
che ti è conceduto. Pensa adunque che cosa vuole la tua natura, e niuna
altra cura ti distragga da ciò. Perchè tu sai bene di quante altre
cose hai voluto fare esperimento e in nissuna di esse hai TROVATO LA
BEATITUDINE. Non nei sillogismi, non nelle ricchezze, non nella gloria,
non NEL GODIMENTO DEI PIACERI, in niun luogo, insomma. Dove sta essa
adunque? Nel fare ciò che richiede la natura dell’uomo. E come fai tu cotesto?
Lo fai, se hai la credenza che e produttrice di quella azione. Quale
credenza? Quella intorno al buono ed al malo. Non essere il buono per l’uomo
ver una cosa che non lo faccia essere giusto, temperante, forte e libero.
Non essere il malo veruna cosa che non lo faccia essere il contrario. Cioè
non lo contamini del vizio opposto alla VIRTÙ. Ad ogni tuo atto
interrogate medesimo. Che relazione ha esso con me? Non avrò io da
pentirmene? Ancora un poco e son morto e tutto è finito. Se ciò che so
ora è conforme alla natura di un essere intelligente, socievole e
avente le stesse leggi che gli’idei, che cerco io di più? Alessandro, o Caio,
o Pompeo, che e rispetto a Diogene, Eraclito, o Socrate? Diogene, o
Eraclito, o Socrate conosce la cosa e la causa e la materia de la cosa;
e la parte sovrana e in Diogene, o Eraclito, o Socrate, veramente sovrana. Ma
quelli, che cosa Giulio Cesare. seppero prevedere? E di quante
non sono schiavi? Credi pure che non cesseranno di fare la
medesima cosa quando pure tu avessi a scoppiare predicando il
contrario. In primo luogo non turbarti. Ogni cosa succede secondo
la natura dell'universo. E tra breve tu non ci sarai più in nissun
luogo, siccome non ci *sono* più. Nè Adriano nè Augusto. Di poi
affisando lo sguardo nella cosa, vedi che è. E rammentando che ti bisogna
essere uomo dabbene e quello che richiede la natura dell’uomo, fallo
senza guardarti indietro, e favella ciò che a te *sembra* esser
giusto, ponendo mente soltanto che questo tu faccia e dica sempre con
amorevolezza, con verecondia e senza simulazione. Intendi la cosa che ti
turba. Questa faccenda ha la natura dell’universo. Trasportare colà le
cose che sono qui, cangiarle, tramutarle da uno in altro luogo. Tutto
è mutazione. Non però in modo che s’abbia a temere nulla di nuovo. Tutto
è cosa solita ed anche tutto è distribuito egualmente. Ogni natura
qualsiasi è contenta di sè, quando procede libera nella propria via. E la
natura ragionevole procede libera nella sua via, quando non assente ad
alcuna rappresentazione falsa od oscura, quando indirizza i suoi
sforzi verso la sola cosa che e utile al comune, quando non ischifa nè appetisce
se non la cosa che e in nostro potere, quando si accomoda. Il tutto non è
che un giro; onde che non v' ha nulla di nuovo da temere. Di buon grado ad
ogni cosa che le venga compartita dalla natura comune. Perchè essa è parte
di questa, a quel modo stesso che la natura della foglia è parte
della natura della pianta. Se non che la natura della foglia è parte
di una natura senza senso e senza ragione, e che può essere
impedita. Dove che la natura dell’*uomo* è parte di una natura che non
è sottoposta a ricevere impedimento ed è intelligente e giusta. Poiché
distribuisce egualmente, e secondo i meriti di ciascheduno, il tempo,
la sostanza, la causa, razione, l’accidente. La quale egualità di
distribuzione potrai osservai e se tu paragm. r^rai non già separatamente l’una
cosa di questo con l’una cosa di quello, ma *complessivamente* ogni cosa
di questo con ogni cosa di quell’altro. Non puoi leggere. Ma reprimere ì
moti insolentì dell’animo, tu il puoi. Ma non lasciarti SIGNOREGGIARE DAL
PIACERE o dal dolore, tu il puoi. Ma essere disprezzatore della gloriuzza. Tu
il puoi. Ma non adirarti contro gli stolti e gl’ingrati ed anche pigliar
cura di loro, questo ancora tu il puoi. Fa che ninno t’oda più
quind’ innanzi querelarti della vita in corte nè della tua. Il
pentirsi è un rampognare se stesso dell’aver trascurato qualche cosa di
utile. Ora il bene conviene di necessità che sia qualche cosa di
utile, e però l’uomo onesto deve averne gran cura. Ma l’uomo onesto non si
pentirà mai dell’aver trascurato un piacere. Adunque IL PIACERE non è
il buono o cosa utile. Che è questa cosa considerate. Sottintendi: e questa
è la ragione per cui l’uomo onesto si pente di aver trascurato di far del
bene. In se stessa e nell’essere suo proprio? che v’ha in essa di
sostanziale e di materiale? che v’ha di causale? Che fa essa nel
mondo ? Quanto tempo è per durare? Quando peni a riscuoterti
dal sonno, sovvengati essere particolar mente conforme all’esser tuo e
alla natura dell’uomo il fare opere socievoli. Dove che il DORMIRE ti è comune
cogli animali irragionevoli. Ora ciò che è più particolarmente conforme
alla nostra natura, è anche più particolarmente accomodato a noi,
più facile e ancora più giocondo a fare. Non ommetter in verun caso li
esaminare, per quanto è possibile, ogni cosa, facendo uso degl’ammaestramenti della
FISICA, di quelli dell’ETICA e di quelli della LOGICA. Divisioni principali
della filosofia appo gli stoici. In chiunque tu ti avvenga, di’tosto a te
medesimo. Che opinioni ha costui intorno al buono? Perchè se egli ha
intorno al PIACERE piacere o alla cosa che e produttrice del PIACERE, e intorno
alla gloria e all’ infamia, alla morte e alla vita, certe cotali
opinioni, non mi pare rnaraviglioso nè strano che faccia certe cotali cose.
E mi ricordo sempre lui essere sforzato ad operare in tal guisa. Ricordati
che siccome è da vuol dire. Esamiua ogni oggetto, riferendolo alla natura
generale, e vedendo, secondo il precetto della fisica, elio relazione ha
col tutto. Riferendolo a te stesso, in quanto sei capace di felicità, la quale
non può mai andare disgiunta dalla VIRTÙ ed è sostanzialmente
identica con essa, e vedendo a che cosa ti giova, secondo il
precetto dell'etica; paragonando il giudìzio che tu ne fai con altri giudizi
anteriori, e vedendo se non ìstà in contraddizione con quelli; esaminando
inoltre le conseguenze che si possono dedurre da questo giudizio:
tutto ciò secondo il precetto della LOGICA. stolto il maravigliarsi che la
ficaia produca il fico, così è il maravigliarsi che il mondo
produca quelle cose che è destinato a produrre. Non altrimenti che stolti
sarebbero quel medico e quel pilota i quali si maravigliassero che altri
avesse la febbre e che il vento fosse contrario. Non dimenticare essere
da uomo libero anche il mutar parere e seguire il consiglio di chi
propone un avviso migliore del tuo. Perchè egli è pur sempre tua l’azione
che tu fai coir esercizio della tua volontà, della tua facoltà
giudicativa, e secondo il tuo intendimento. Se la cosa sta in poter
tuo, perchè la fai? Se sta in potere altrui, di chi ti lagni? Degli atomi
o degli dei? E di questi e di quelli il [Se sta in te il fare o
non fare yna cosa, o l’impedire che si faccia da altri, perchè la fai, o
lasci che ai faccia per dolertene poi? lagnarsi è pazzia. Non occorre lagnarsi
di nissuno. Perchè se il puoi, hai a correggere l’uomo. Se non
puoi l’uomo, hai a correggere la cosa. E se anche questa non puoi, il
lagnarti a che giova? Non vuoisi far nulla a caso e senza
scopo. Fuori del mondo non può cadere chi muore. E se riman quivi, quivi anche
e non altrove si trasforma e si risolve ne’ suoi principi, che sono
gl’elementi del mondo e tuoi. E questi ancora si trasmutano d’una in
altra forma, e non mormorano. Non è cosa che non sia nata ad un certo
fine: il cavallo, la vite ecc. Qual meraviglia? Anche il Sole Febo
Apollo dice. Io nacqui ad un certo fine e similmente gl’altri iddii. E tu
a che sei nato? A darti bel tempo? Vedi se ciò concorda col
concetto che tu fai dell’uomo. Non meno che il cominciare. Cioè nel mondo
e crescere delle cose la natura ha in mira il loro decrescere e
finire, non altrimenti che il giocatore che gitta la palla. Ora
c^ual bene per questa il salire o il discendere, od anche il cadere a
terra? e qual bene per la bolla d’aria il formarsi e qual male il
dileguarsi? Il medesimo puoi dire della lucerna. Arrovescialo codesto
corpo e vedi qual è: e qual diventa invecchiando, e ammalandosi e
depravandosi.Di corta vita sono e il laudante e il laudato, il ricordante
e il ricordato; ed anche ciò accade in un [Il qual giocatore non lancia la
palla perchè abbia solo ad andare in alto, ma ancora perchè abbia a
discendere. La quale si accende, arde e si spegne, o tutto è naturale
egualmente. S Àrroveciato codc lo corpo. Mettendo coir immaginazione al
di fuori ciò che sta al di dentro. Depravandosi coll’ABUSO DEI PIACERI
SENSUALI. angolo di questa contrada, nè quivi pure sono tutti d’accordo,
e v’ha tale che non è neppure d’accordo con sè medesimo: e tutta la
terra non è poi altro che un punto. Applicati all’oggetto, o
al domma, o all’azione, o al significato. È tua colpa se questo ti
accade. Tu vuoi piuttosto diventare domani che essere oggi uomo
dabbene. So io una cosa? La so riferendola al bene degli uomini. Mi accade
una cosa? La ricevo riferendola agli dei e alla fonte di tutte le cose,
dalla quale procedono in- Cioè fa' che la tua attenzione sia sempre
rivolta ad una di queste quattro cose. O all'oggetto su che tu operi,
esaminando che è in realtà: o al domma o credenza per virtù della
quale tu operi, esaminando se ella è vera; o all’azione tua stessa, esaminando
se tu la fai come vuoi farla; o al SIGNIFICATO della parole, cioè
riferendo il particolare al generale, per capire l’ESSENZA della COSA
SIGNIFICATA. sieme conserte le une colle altre tutte le. cose che
accadono. Che ti pare che sia il lavarsi? Olio, sudore, sudiciume, acqua
fecciosa, cose tutte stomachevoli. Tali sono tutte le singole parti della
vita, tutti li oggetti esteriori. Lucilla fe il corrotto a Vero, poi
altri a Lucilla; Seconda a Massimo, poi altri a Seconda; Epitincano a Diotiino,
poi altri a Epitincano. Antonino a Faustina, poi altri ad Antonino; Celere
ad Adriano. Poi altri a Celere. Sempre e in tutto il medesimo tenore. E
quei belli spiriti, quelli antiveditori dell’avvenire, quei burbanzosi
dove sono egli- no? Come per esempio, fra i belli spiriti, Carace,
Demetrio il Platonico, Eudemone e simili? Tutti sono vissuti un giorno,
tutti son morti da lunga pezza; di alcuni non si è fatta più menzione
nè anche per un poco. Altri sono passati nelle favole, e alcuni di essi
scomparvero già anche dalle favole! Sovvengati dunque come bisognerà
pure che o si dissolva codesto tuo composto, o si spenga codesto tuo spirito
vitale, o sia tramutato altrove e vengagli assegnato un altro posto. È
letizia dell’uomo il fare ciò che è proprio dell’ uomo. E proprio
dell’ uomo è il voler bene a’ suoi congeneri, disprezzare i moti del senso,
distinguere fra le rappresentazioni quelle che sono degne di fede, contemplare
la natura dell’universo e le cose che conformemente a quella si
producono. Tre relazioni. L’una colla causa circostante. L’altra
colla causa divina, dalla quale procede tutto che accade ad ognuno. La
terza cogli uomini che vivono con noi. O il dolore è un male pel corpo,
e se questo è, il corpo ce lo dica. O è un male per l’anima. Ma
questa ha in poter suo il conservar sempre la sua calma e serenità,
e il non fare concetto del dolore come di un male. Imperocché ogni
giudizio, ogni volizione, ogni appetizione o avversione qualsivoglia è un atto
del tuo principio interno, e niun male può salire insino ad esso. Rimovi
da te le false rappresentazioni dicendo continuamente a te stesso. Ora
sta in poter mio il fare che in questa mia anima non sia veruna
malizia, veruna concupiscenza , veruna perturbazione, in somma; e vedendo
le cose nel vero esser loro, fare uso di ciascheduna secondo il
valore di essa. Nel senato e con chicchessia parla compostamente,
fuggendo il soverchio delle parole, e il tuo ragionare sia senza
orpello. Corte di Augusto. Moglie, figlia, nipoti, progenitori,
sorelle. Agrippa, congiunti, famigliari, amici. Ario, mecenate,
medici, sacrificatori. Tutta una corte che è morta. Procedi innanzi e
considera il venir meno non delle persone ad una ad una, ma, per esempio,
della famiglia Pompeia. E quella scritta che si legge sui sepolcri. L’ultimo
della sua schiatta ; w e pensa quanto s’ebbero a travagliare gli antenati
di colui perchè non mancasse loro un successore. Nondimeno è pur forza che
qualcheduno sia l’ultimo, ed ecco allora la morte di una intera
prosapia. Colla bontà delle singole azioni vuoisi procacciare di ben
comporre la vita. E se ciascuna di esse, per quanto è possibile, fa
quelli effetti che dee fare, ti basti. Nè ciò può essere impedito mai da
checchessia. Sorgerà qualche impedimento esteriore. Ninno impedimento che
possa toglierti di operar giustamente, temperantemente, razionalmente. Tale o tale
altra opera potrà essere impedita. Ma se tu accetti di buon animo quello
impedimento, e passi alacremente a far buon uso della nuova occasione
che ti vien data, ecco posta nella serie degli atti di che si
compone la vita, in luogo di quella che ti avevi pro- posta, un’
altra azione la quale non è meno acconcia a quella buona composizione
della vita di che si favella. 33. Ricevi senza boria, lascia an- dare
senza ripugnanza. Vedesti mai una mano tronca. t Cioè i beni
della fortuna. Gli è come se dicesse: Non tenerti per da più,
quando la fortuna ti viene a trovare; non tenerti per da meno,
quando ella se ne va. o un piede, o una testa giacenti lungi dal corpo
onde furono recisi? Cotale si rende, per quanto sta in lui, chi
ripugna ad accomodarsi r ciò che accade, e si separa a questo modo
dalla società comune, o fa qualche atto contrario al bene di
quella. Tu te ne stai là gittate in un canto, fuori dell’ unione
naturale degli esseri. Perchè tu eri nato parte di quella, e te ne
sei spiccato. Se non che tu puoi sempre rappiccar- viti di nuovo,
usando della facoltà a te concessa da Dio, e non concessa a veruna
altra parte di checchessia, che spiccata una volta dall’ intero
potesse rappiccarvisi.Evedi di quanta eccellenza volle Iddio adornare
la costituzione dell'uomo: chè, primie- ramente, egli pose in
potestà di lui il non separarsi punto dal tutto ; e poi il
rapprendersi e compigliarsi di nuovo con quello, quando se ne fosse
spiccato, e riprendere il suo posto e le condizioni sue come parte aderente
qual era da prima. 35. Dalla natura degli intelligenti ha
ricevuto ciascuno di noi,’ come tutte le altre facoltà (e sono
tante quasi e tali, quante e quali quella medesima ne avea
ricevute*), e così anche quest’ una: che a somiglianza di lei, la
quale volge e dispone nella serie del fato, facendone cosa sua e
quasi parte di sè medesima, tutto che a lei si venga ad attraversare
e a resisterle; così può T animai ra- gionevole far cosa sua di
ogni im- pedimento, pigliandone materia al suo operare e all’
esercizio della propria virtù ; sia pur qualsivoglia la cosa nella
quale venisse impe- dito (14). 36. Non ti turbi il pensiero,
quale [Intendi: in qnanto siani ragionevoli]. [Sottintendi: da chi è maggioro
di lei. sia per essere tutta la tua vita, e non darti pena e sconforto
coll’an- dare fantafticando quanti e quali travagli avrai forse
ancora a soste- nere : ma ad ogni caso presente in- terroga te
stesso col dire: che v’ha in ciò d’impossibile a sopportare? Perchè
avrai vergogna di rispondere affermando che v’ abbia alcun che di
tale. E poi ricorda a te medesi- mo, non essere mai nè il futuro nè
il passato quello che ti grava, ma pur sempre solo il presente. E
que- sto presente s’ impicciolisce assai quando tu il consideri ne’
suoi pro- pri confini, chiedendo poi alla tua mente, se anche così
impicciolito ella non sia buona da sopportarlo. Pantea o Pergamo
stansi forse tuttavia seduti presso alla tomba di Vero? o Cauria e
Diotiino presso a quella di Adriano? è follia il chie- derlo. Ma
quando pure stessero tut- tavia colà seduti, forse che ai loro signori
ne giungerebbe notizia? e quando ciò fosse, forse che ne avreb-
bero diletto? e quando ne avessero, sarebbero Pantea e Pergamo e Caiirio
e Diotimo immortali? non era egli destino che anche questi invec-
chiassero e poi morissero? e morti che fossero, che rimarrebbe a
fare ai loro signori ? fetore è tutto cotesto, e marciume in un
sacco. Se hai la vista acuta, dice egli, ' adoprala, giudicando
saviamente delle cose. Una virtù che si opponga alla giustizia non veggo
nella costituzio- ne deir animai ragionevole ; ma una che si
opponga al piacere veggo io bene: la temperanza. Togli via il tuo concetto
in- 1 Epitteto. P. Intendi: se hai P ingegno sottile,
fa' che la tna condotta il dimostri, cioè non contentarti di dire
le belle cose, falle. Dai giudizi dipendono, secondo gli stoici,
ne- cessariamente le azioni. torno alle cose che sembrano darti
noia, e tu ti troverai al sicuro. Ma chi è questo tu a cui favelli? La
ragione. Ma io non sono ragione. Sta bene. La ragione non dia dunque noia
a se stessa. E se poi v’ ha altro in te che si dolga, faccia egli
concetto di quel suo dolore. Un male per la natura anima- le è r
impedimento del senso. Ancora un male per lei è ciò che può impedire la
soddisfazione dell’appetito. Medesimamente v’ hanno im- pedimenti alla
natura vegetale, e sono quindi un male per essa. Adun- (jue ciò'che
può recare impedimento alla mente è un male per la natura
intellettiva. Fa’ l’ applicazione di que- sto ragionamento a te stesso.
Il do- lore ti tocca o il piacere? lascia che ci badi il senso.
Qualche ostacolo è sorto ad impedire un effetto da te voluto? se tu
volesti senza la debita riserva, questo invero fu un male per te, in
quanto sei animale ragio- nevole. Ma se fu una appetizione nel significato
comune, tu non hai ricevuto nocumento nè impedimento alcuno.
Perocché tutto che è pro- prio della mente non può essere impedito
che da lei stessa; non è dato nè a fuoco, nè a ferro, nè a tiranno,
nè a maldicenza il giun- gere insino ad essa: quando si è fatta
sferica, permane liscia e rotonda. Allusione ad alcuni versi d’Empedocle, il
quale considerava la sfera come la più perfetta delle figure ; onde
che appo Orazio la rotondità potè anche essere immagine a significare l’eccellenza
morale, Sat. II, 7; «Quisnara igitur liber? Sapiens, sibique imperiosus:
Quera neque pauperies, neque mors, neque vincula ter- reni:
Responsare cupidinibus, contemnere bonores Fortis, et in seipso totus
teres, atque rotundus: etc. » Ai quali versi di Orazio alludeva pur
forse Antonino in que- sto luogo. Anche a Dante piacque una figura
geometrica come immagine di una virtù morale quando disse: < Ben
tetragono ai colpi di ventura. Non debbo, io, che non ho mai voluto
contristare altrui, voler con- tristare me stesso. Chi piglia
piacere ad una cosa, chi ad un’ altra. A me fa piacere se ho una
mente sana, che non abbia avversione a verun uomo, nè a ve- runa
delle cose che sogliono acca- dere all’ uomo, ma guardi ed accetti
ogni cosa con sereno occhio, facendo uso di ciascheduna secondo il
valore di essa. 44. Pigliati questo tempo presente: chi
vuol piuttosto darsi pensiero della fama che lascerà dopo sè, non
considera che i posteri saranno tali tuttavia quali sono i
contemporanei eh’ egli ha in fastidio, e mortali essi pure. A te
che rileva al postutto che dalle bocche loro s’ oda echeggiare tale
piuttosto o tal altro suono, e che essi abbiano di te tale piuttosto
o tale altra opinione? Toglimi di qua e gittami dove vuoi. Colà ancora*
avrò meco il mio genio propizio, vale a dire pago di sè medesimo,
quando le disposizioni . sue sieno conformi alla sua propria
natura. Ciò * vale il pregio che la mia ani- ma se ne turbi e
voglia farsi peg- giore di sè, essere travagliata da desiderii e
timori, sconfortata, im- miserita? E qual cosa troverai tu ' che lo
valga? 4G. Air uomo non può nulla ac- cadere che non sia un
accidente umano, nè al bue che non sia acci- dente’ proprio del
bue, nè alla vite che non sia accidente proprio della vite, nè alla
pietra che non sia ac- cidente proprio della pietra. Ora se a
ciascheduno accade quello che è solito accadergli e gli è
connatura- * Intendi: colà ancora dove mi avrai git- tato, e
dove-che sia, avrò meco ec. Intendi : ciò che ora mi accade, o chec- ché
altro di somigliante. le, a che ti crucceresti? la natura comune non può
arrecarti nulla che tu non sia fatto per tollerare. Se ti attristi
per alcuna cosa esteriore, non è la cosa esteriore quella che ti
turba, ma si il giudizio che tu ne fai. E lo annullare quel
giudizio sta in te. Se ti attristi per alcun che del tuo stato
interiore, chi ti impedisce che tu non raddrizzi l’opinione onde deriva
quel tuo stato? Che se ti attristi perchè non fai tale o tal altra
cosa che ti par buona, chè non ti volgi al farla anzi che
attristarti? — Ma sorse osta- colo più potente di me. Non attristarti
adunque se tua non è la colpa del non fare. Ma non porta il pre-
gio di vivere, se questo non posso fare. Esci dunque pacatamente di
vita (dacché muore anche colui cui vien fatta la cosa che imprende),
o con animo benevolo verso chi ti ha contrariato. Sovvengati
come divenga ines- pugnabile la parte sovrana dell’ uomo quando
rinchiusa in sè stessa non abbia altro proponimento'che di non
lasciarsi indurre a far cosa che essa non voglia, anche nei òasi in'
che quel suo ostinarsi a non volere fosse fuor di ragione. Ora che
non sarà quando la sua risoluzione proceda da sano e ben ponderato
consiglio? La mente scevra da passioni è dun- que una eccelsa
rócca, nè 1’ uomo ha luogo più validamente munito ove raccogliersi
per non esser vinto mai. Chi non conosce questo- rifu- gio, è un
ignorante ; chi lo conosce e non vi ricovera, è uno sciagurato.
49. Non dire tu a te stesso più che non siati annunciato dalla
per- cezione immediata. Ti si annuncia che il tale sparla di te.
Questo ti si annuncia ; ma che tu ne riceva no- cumento, non ti è
annunciato. Vedo che il figliuolo è ammalato. Questo veggo io ; ma
ch’egli sia in pericolo non vedo. Fa’ dunque di attenerti sempre a
ciò che ti dice la perce- zione immediata, non aggiungendovi nulla
del tuo, e così non ti accadrà nulla mai.' Anzi aggiiignivi pur
qual- che cosa, e siano le riflessioni di un uomo che conosce le
relazioni e le con»lizioni vere di tutte lé cose che accadono nel
mondo. Il cocomero è amaro? non man- giarlo. V’hanno sterpi nella via?
fa di non inciamparvi. Tanto ti basti. Non farti a dire: che
bisogno ci avea anche di cotali cose nel mondo? perchè ne avresti
le beffe dell’ uomo versato nella scienza della natura, come avresti
quelle del legnaiuolo Nulla di male, intendi, perchè tutto quello
che sarà oggetto immediato della percezione, senza alcuna aggiunta del
tuo, non sarà mai gran male. Cioè che tutto che accade è nell'
ordine della natura, e vuol essere accettato di buon grado. e del
calzolaio se ti facessi a biasi- marli del trovarsi trucioli e
ritagli nelle loro botteghe.' E nondimeno per costoro v’ha luogo
ove gittarli fuori delle loro officineT mentre la natura dell’
universo non ha fuori dell’ universo alcun luogo. Ma questo è appunto il
mirabile dell’ arte di costei, che essendo essa circo- scritta da
quei limiti che ella pose a sè stessa, tutto ciò che nella sua
officina sembra guasto, vieto, non più utile a nulla, ella riprende
in sè stessa e ne fa materia alla pro- duzione di cose nuove.
Perchè ella non vuole aver bisogno mai nè di estranea materia, nè
di luogo este- riore ove gittare il vietume, e a lei basta il suo
proprio luogo, la sua propria materia e l’arte sua propria. Fa’ di
non essere molle o negligente nell’ operare, non confuso nel favellare,
non vagante qua e là senza scopo nel pensare; fuggi, in quanto si è
agli affetti, lo scoramento e la subitanea gioia, e nel tenore
della vita lo impigliarti in troppe faccende. Ammazzano, tagliano a
pezzi, fanno imprecazioni. Che vale tutto questo ad impedire che la
tua mente non si conservi pura, assen- nata, temperante e giusta?
Se alcu- no fattosi vicino ad una fontana lim- pida e dolce si
ponesse a maledirla, forse che da quella cesserebbe di scaturire
acqua potabile? Vi gittasse ancor dentro fango e sterco, essa lo
avrebbe sciolto ed espulso in poco d’ ora, e non ne rimarrebbe
conta- minata. Come avrai tu dunque in te una fontana limpida e
perenne, e non un pozzo? Col non cessare di rivendicarti in
libertà, serbandoti sempre mansueto, schietto e verecondo. Chi non
sa che cosa è il mondo, non sa dove sia egli stesso. E chi non sa a
che il mondo e stato fatto, non sa nò qual sia egli stesso, nè
" che cosa sia il mondo.* E chi ignoia r una di queste due
cose, non può neppur dire a che fine egli stesso sia nato. Ora che
ti pare di colui che ambisce esser lodato da tali che non sanno nè
dove essi sono, nè quali essi sono?^ 53. Vuoi tu essere
lodato dall’uo- mo che tre volte all’ora maledice se stesso? Vuoi
tu piacere all uomo il quale non piace egli stesso a sè medesimo?
Piace egli a se medesimo chi si ripente quasi di ogni cosa die va
facendo? Oramai non ti basti' più sola- E chi non so o che il
mondo ..... nè che cosa sto il mondo. StiU" interpretazione di
questo luogo diversamente inteso dagli interpreti, si può vedere la nota
nell' edi-zione di Torino. [Intendi quali ^ieno le loro condizioni. mente il
respirare* con l’aria* che ti circonda, ma fa’ eziandio di pen-
sare e di volere con l’ intelligenza universale* che in sè contiene
ogni cosa. Perchè la potenza intellettiva si diffonde e penetra per
ogni dove, chi voglia attingere da essa, non [Respirare: intendi
vivere la vita sensitiva per mezzo della respirazione. Il verbo “respirare”
e il corrispondente nel testo hanno nelle dne lingue rispettive oltre al
senso proprio, quello di vivere. [Con “l’aria”: intendi coll’ aiuto e
cooperazione dell’aria, conformemente - alla na- tura di essa aria, e
insieme con essa; chè essa pure vive è spira, o respira. La preposizione
con e la corrispondente in greco esprìmono nelle due lingue rispettive,
oltre alla relazione di compagnia, quella ancora di conformità,
aiuto reciproco o COOPERAZIONE', esprimono ancora il rapporto di causa sia
istrumentale, sia materiale. Tutte queste rela- zioni di compagnia,
conformità, aiuto e causa materiale, vogliono intendersi come
simul- taneamente espresse, confuse insieme in una idea complessa,
nelle dette preposizioni, così in questa come nella frase seguente. Coll’intelligenza universale : intendi
coir aiuto di ossa, conformemente ad essa e insieme con essa. meno che l’aria
rispetto a chi la aspira. Il vizio, universalmente, non nuoce al
mondo; e singolarmente, non nuoce ad altrui. Nuoce solo a colui al
quale è dato di potersene liberare al primo momento che il voglia. Alla
mia volontà la volontà del vicino ò cosa tanto indifferente quanto
la anim uccia di lui e il cor- picciuolo di lui. Perchè, sebbene
siam nati tutti gli uni per gli altri, la parte sovrana di ciascuno di
noi ha nondimeno il suo proprio domi- nio separato; altrimenti la
malvagità del vicino potrebbe essere un male per me. Il che non fu
voluto da Dio, affinchè non fosse in potestà altrui il far me
infelice. Il sole sembra versarsi per ogni dove, e effettivamente si
diffonde ' Cioè alPuomo vizioso, che può cessare di esser
tale tosto che il voglia. da tutti i lati, ma non però si effon- de.*
Quel suo diftbndersi è uno esten- dersi: e però gli splendori di lui
si chiamano actines (raggi) da ecteine- sthai (estendersi).* Tu
puoi vedere che cosa è un raggio guardando la luce del sole che
penetra per un piccol buco in una camera oscura: ella si allunga in
diritta linea e va come ad applicarsi sul corpo opaco qual siasi,
che le si fa incontro e intercetta 1’ aria al di là.* Quivi si
ferma senza sdrucciolare giù nè ca- dere. Cosi dee pure diffondersi
la mente, non effondersi, ma esten- dersi ; e quando s’ appresenta
un ostacolo, applicarvisi senza violenza nè urto, nè tampoco cader
giù, ma Non si versa fuori in modo eh' egli ab- bandoni il luogo
onde parte la sua luce. [Falsa etimologia, simile a tante altre che puoi
incontrare presso' gli antichi. Vale a dire intercetta come corpo opaco
il passaggio della luce agli strati d' aria che sono al di là. star ferma
e- illuminare 1’ obb ietto che la riceve. Che se questo non vorrà
trasmettere la luce, tal sia di lui se rimarrà privo di essa.Chi teme la
morte, teme o di non dover più aver sentimento, o di dover avere un
sentimento diverso dal presente. Ma se tu non avrai più sentimento, non
sentirai verun male; e se tu avrai un sentimento diverso, sarai un
animale diverso, e non avrai cessato di vivere. Gli uomini sono nati
gli uni per gli altri. Ammaestrali dunque, o sopportali. Altro
è il moto della freccia, altro quello della mente. Perchè la mente
anche quando procede cautamente e s’ aggira* nel deliberare, va 1
Intendi: non vorrà lasciarsi penetrare da essa luce, dandole passaggio nelle
parti più interne. Cioè illuminato solo esteriormente, ma al buio
nell' interno. nondimeno per la diritta via verso Io scopo.
61. Entrare nella parte sovrana di ciascheduno, e far sì che
ognuno possa penetrare nella parte sovrana di noi medesimi. Chi fa
ingiuria ad altrui, è reo d’ empietà. Perchè la natura univer- sale
avendo fatto gli animali ragio- nevoli gli uni per gli altri,
affinchè r uno giovi air altro, secondo il merito, e non gli noccia; il
trasgre- dire le intenzioni di lei, è manife- stamente un peccare
contro la più veneranda fra le Dee. Chi mente, è pur reo di quel
medesimo peccato. Perchè la natura universale è natura degli enti,
e gli enti hanno relazione di parentela con tutti gli esistenti. [Secondo
il merito; frase stoica. Di tutti gl'interpreti anteriori all’ornato il Kmtz è
il solo che intendesse bene Oltre che ella è nomata la
verità, ed è la causa prima di tutti i very. E però *chi MENTE CON
INTENZIONE*, è reo verso di lei, in quanto fa torto ad altrui
ingannando; e chi mente senza intenzione,' in quanto che ad ogni
modo discorda dalla natura universale, e turba V ordine andan- do a
ritroso della natura del mon- do ; * perchè va a ritroso di essa
non senza sua colpa anche colui che insciente va a ritroso del vero;
sendo che non per altro che per non aver profittato di quelli
indirizzi e sussidi di cui gli fu prov- vida la natura, non è egli più
in grado di distinguere il vero dal falso. Ancora è reo di empietà
chi segue il piacere come un bene e schifa il dolore come un male.
Perchè non questo luogo, ancora che un po' troppo pla-
tonicamente. Vedi la nota dell' Ornato nel- l'edizione di Torino. Cioè
per ignoranza, o a caso. P. * Che è l'ordine per eccellenza. può
essere che costui non mormori spesso contro la natura comune, quasi ’
ella non abbia riguardo al merito nelle dispensazioni che va
facendo ai buoni ed ai tristi, veg- gendosi spesso i tristi vivere
nei piaceri e nella abbondanza di tutte le cose che li procurano,
quando i buoni cadono nel dolore e van sog- getti a tutti gli
accidenti che ne sono cagione. Oltre che chi teme il dolore, temerà
pure talvolta alcune delle cose che sono per accadere nel mondo: il
che è già da per sè cosa empia;* e chi va in cerca del piacere non
si asterrà dal far torto agli altri. Del resto, chi viiol seguire
la natura, dee consentire colla natura [Epitteto, Manuale XXXII, 4. «
Di modo che ciascuno che procacci di desiderare e fuggire solamente
quello che è da essere desiderato e fuggito, procaccia al tempo
medesimo di esser pio » (traduz. di G. Leopardi). Cfr. Manuale. ed essere
indifferente rispetto a tutte quelle cose rispetto alle quali ella
si dimostra indifferente col far che suc- cedano egualmente nel
mondo. K • però chi non fa eguale stima del dolore e del piacere,
della morte e della vita, dell’ infamia e della gloria, delle quali cose
fa uso egual- mente la natura universale, è mani- festamente reo di
empietà : dico che la natura ne fa uso egualmente, vo- lendo
significare che sono accidenti a cui sono deipari sottoposti
secondo la legge di anteriorità e posteriorità,' tutti gli esseri
che nascono e si suc- cedono gli uni agli altri per conseguenza
necessaria di .quello impulso primordiale con cui la previdenza
concependo in sè certe ragioni del futuro,* e determinando virtù
gene- ratrici di esistenze, di cangiamenti 1 Abbiamo seguito
l' emenda^siono del Ce- rai. Ragioni seminali. e di successioni conformi
a quelle,' diè principio a questo ordinamento di cose.
2. Certo meglio era per te serbarti puro di menzogna e di ogni
sorta di finzione e di boria sino al punto della tua dipartenza
dagli nomini. Ora il partire nauseato di queste cose è, dopo
quello, il miglior par- tito che ti rimanga. 0 hai tu forse
deliberato di marcir sempre nel vizio, e r esperienza stessa non ti
persua- de ancora a fuggire dalla peste? Perchè è peste la corruzione
della mente ancor più che lo infettarsi c corrompersi di quest’
aria che ne circonda. L’ una è peste degli ani- mali in quanto sono
animali ; l’altro è peste degli uomini in quanto sono uomini.
3. Non disprezzare la morte, ma accettala di buon grado,
siccome Conformi a quelle ragioni seminali. quella che è una delle cose
che la natura vuole. Perchè quale è il giun- gere alla adolescenza,
alla vecchiaia, il crescere, il giungere alla virilità, il mettere
i denti e la barba, il ge- nerare figliuoli, portarli, partorirli,
e tutti gli altri effetti che arrecano le stagioni della vita, tale è
ancorji il dissolversi. Appartiensi dunque ad uomo assennato il non
procedere alla cieca colla morte, nè all’ avventata nè con
superbia, ma aspettarla come uno dei tanti effetti naturali: come
aspetti l’ora che dall’utero della mo- glie esca il feto, a quello stesso
modo aspetta l' ora in che l’ anima tua uscirà di codesto suo
invoglio. Che se ti è bisogno anche di uno em- piastro da idiota il
quale s’ applichi al cuore,' ti gioverà il considerare Che se ti è
bisogno anche appli- chi al cuore. Le parole del testo, chi
ben le intenda, non sono, a parer mìo, senza una certa ironia.
Perchè a far riguardare quali sieno le cose onde t’ hai a dipartire,
e gli umori degli uomini tra i quali l’anima tua non sarà più
impigliata. Non che tu abbia a re- carteli a noia, chè anzi hai da
averne cura e sopportarli con amore ; ma potrai ricordare che non
sei per di- partirti da uomini che la pensino come te. Perchè, se
ci avesse cosa con indifferenza la morte, la ragione specu-
lativa data già innanzi dovrebbe, secondo l’autore, bastare al filosofo, al
quale non dovrebbero abbisognare argomenti che ai indirizzino alla
sensibilità, e che Antonino chiama “empiastri da idiota che s’ applicano
al cuore”. Ornato traduce questo luogo come segue: Che se vuoi
inoltre uno espediente da nomo materiale che ti muova sensibilmente:»
notando al margine: c anzi tutto conveniva far capire il senso, e
qui era maggior fedeltà il la- sciare la lettera. Il primo mezzo, dice
An- tonino, era da filosofo: questo secondo da illetterato: e però
quello era speculativo, questo pratico. Ma vedi se puoi dir meglio,
chè sono scontento assai. » Per dir meglio io ho stimato che fosse da
conservare il linguaggio figurato e l'ironia del testo, non tanto
difficile poi a capire anche nella traduzione. che dovesse affezionarci alla
vita, questa sarebbe fuor di dubbio; lo averla a passare con chi sente
e giudica come noi. Chi pecca, pecca a suo danno : chi
commette ingiustizia, fa ingiuria a sè medesimo, facendo sè malva-
gio. 5. È ingiusto soventi volte non solo chi fa, ma ancora
chi non fa. Se il giudizio che tu fai nel momento presente è vero ;
se l’azione che tu fai nel momento presente si riferisce al ben
comune ; se la disposizione in che sei nel momento pre- sente è di
accettare di buon grado quanto avviene per virtù della causa
esteriore ; non ti abbisogna più altro. Togli via le false
immagina- zioni ; contieni i moti dell’ animo ; spegni i desiderii
troppo accesi ; fa’ che la mente sia padrona di sè. Una è l’anima
distribuita fra tutti gli animali irragionevoli; una la ragione
compartita a tutti i ra- gionevoli come una è la terra di tutte le
cose terree, una la luce per cui veggiamo, ed una 1 aiia che respiriamo
tutti quanti abbiamo vista! e respiro. Tutte le cose che hanno
alcun che di comune fra loro, tendono l’una verso dell’altra. Il
terreo tende verso la terra, V umido s ac- costa all’umido, l’aereo
all’aereo. Il fuoco va in su per cagione del fuoco elementare
; e quaggiù è così pronto ad unirsi con altro fuoco, che ogni
materia un po’ secca s accende di leggieri per lo esservi mescolata
dentro minor quantità di ciò che impedisce l’unione, h sunilmente
ciò che partecipa della natura intellettiva tende verso il suo congene-
re, e con più forza eziandio : perchè quanto ha più eccellenza delle
altre cose, tanto ha maggiore inclinazione ad unirsi con chi ha
somigliante natum, e a confondersi con esso. E però tu trovi appo
gli animali privi di ragione sciami, mandre, nidiate, e come chi dicesse
amori: sono già anime in essi, e la virtù unitiva, più intensa nel
più perfet- to, vi si manifesta quale non è an- cora nelle piante,
nelle pietre o nei legni. Ed appo i ragionevoli tu vedi città,
amicizie, famiglie, radunanze pubbliche; e anco nelle guerre patti
e tregue. E appo gli esseri ancora più eccellenti l’unione ha luogo
in certo modo anche fra i disgiunti e lontani, come puoi vedere
negli astri.' Cosi un più alto grado di eccellenza può generare
scambievole corrispon-. Molti degli Dei popolari riferivano gli stoici ai
gran corpi celesti, al sole, alla luna, alle stelle. Gli Dei medesimi
non sono pure, agli occhi degli stoici, ciascnno per sò medesimo; ma
tutti sono per tutti, per la loro comunità, pel Dio supremo, pel mondo ecdexiza
negli esseri anche a mal grado della distanza che è tra mezzo. Ma
vedi ora a che siamo : soli i ragio- nevoli sembrano talora aver
posto in oblio la loro qualità che li chiama ad unirsi
reciprocamente gli uni cogli altri, e quivi solo pare che non si
trovi sempre concorso reciproco. Nondimeno con tutto che essi fug-
gano a poter loro, e’ sono da ogni parte arrestati ; chè la natura è.
più potente di loro. Tu vedrai manifesto (j nello che io dico, se
tu saprai osservare. Perchè ti verrà più agevolmente fatto di trovar terra
scompa- gnata dalla terra, che non uomo scompagnato dall’
uomo. Porta il suo frutto anche l’ uomo, ed anche Dio, ed anche il
mon- do: e ogni cosa nella sua stagione porta il suo frutto. Che se
l’uso ap- plica questo modo di dire propria- mente alla vite e alle
altre cose di simil fatta, non monta nulla. La ragione poi porta un
frutto c per gli altri e per sè stessa,* e nascono da lei cose che
hanno natura e qualità simili alle sue proprie. Se tu il puoi, fa’
che si ricre- da ; se non puoi, sovvengati che la benignità ti è
stata data per questo.* Anche gli Dei sono benigni a questi tali ;
e in certe cose eziandio li aiu- tano, come a conservare e ricuperare la
sanità, ad acquistare fama e ricchezza: cotanto sono essi amorevoli. Il
medesimo puoi fare .tu an- cora ; o veramente di’ chi ti impedisce che tu
noi faccia. Lavora non già come un ta- pino nè come chi voglia farsi
com- miscrare o ammirare ; ma intendi a ciò solamente: operare e
astenerti. Cioè per tollerare amorevolmente an- che chi erra e non vuole o
non può ricredersi. Intendi « agire o non agire, » frase solenne appo gli
stoici, non traducibile. secondo che la ragion civile * richiede. Oggi
sono uscito d’ ogni mia noia, 0 per dir più vero, ho cacciato fuori
ogni mia noia, perchè non era fuori di me, ma dentro, nelle mie opinioni. Sion
tutte cose, in quanto al numero delle volte che si sono ripetute,
consuete ; in quanto alla durata, transitorie ; in quanto alla
materia, sordide. Tutte sono ora quali erano al tempo di coloro che
abbiam sep- pelliti. Le cose stan fuori dell’ uscio, ^
dapersè, nulla sapendo disè, nè giu- dicando. Chi è dunque che
giudica intorno a loro? la parte sovrana. Intendi il bene della società. Intendi
fuori di noi, e non hanno adito a noi nè potenza di turbarci, se noi
non apriamo loro l’uscio, facendo stima di loro disuguale al vero.
Ho creduto di dover con- servare l'espressione figurata del testo
greco. Cioè la ragione. Non nella passione, ma nella razione sta il bene e il male dell’animai
ragionevole e socievole; come non istà nella passione ma nell’
azione la virtù di lui e il vizio. Alla pietra scagliata in
aria non è punto un male lo andare in giù, nè un bene lo andare in
su. Penetra nell’interno delle menti loro, e vedrai che gente è
quella di cui tu temi il giudizio, e che sorta di giudici sono
anche verso di sè medesimi. L’esistenza delle cose è un passare
incessante da una in altra forma. E tu stesso non perduri un
istante nel medesimo stato, ma ti vai di continuo alterando e come
a dire dissolvendoti. E
l’universo parimente. Cioè iniqui anche verso sè stessi, non
che verso gli altri; dannando essi la lo(o parte sovrana a servire alla
inferiore. Il fallo altrui coiivien lasciarlo dov’è. Il finire di una
azione, il cessare di una volontà o di un pensiero e, per così dire, il
morir loro, non è punto un male. Considera ora le diverse età: l’infanzia,
L’ADOLESCENZA, la giovinezza, la vecchiaia. Il cessare di quella che precede
per dar luogo a quella che segue, è ancora, come a dire, una morte. È
egli un male? Passa a considerare la vita che vivesti sotto 1’
avolo, poi quella sotto la madre, e rammenta ancora molte altre
diversità di stati, e mutamenti dall’ uno in un altro, e ces- sazioni ; e
interroga te stesso; è egli cotesto un male? Adunque nò anco
il cessare e concludersi della vita, nè il totale mutamento di essa
non è punto un male. Cioè in chi n’è autore, il quale non
nuoce che a sè medesimo. Bada alla tua parte sovrana, a quella dell’
universo, a quella di costui. Alla tua, per ridurla giusta ed
imparziale ; a quella dell’ uni- verso, per non dimenticare di che
sei parte; a quella di costui, per chiarire s’ egli operò per ignoranza
ovvero con intenzione, e ricor- dati ad un tempo che egli ti è
congiunto. Come tu medesimo sei parte del corpo sociale, così anche
ciascuna delle tue azioni è parte inte- grante della vita di quello.
Adunque se una qualsivoglia di esse non ha per iscopo, o immediato
o mediato, il bene della società, ella turba la vita comune
rompendone l’ unità, ed è sediziosa come è sedizioso chi parteggia
in una città e guasta, per quanto è in lui, la comune concordia. Sdegni
fanciulleschi, bambo- late, animucce che portano cadaveri, cose che
rappresentano al vivo ciò che narra Omero delle anime degli spenti.
Considera la qualità della causa, e separando quella dalla materia,
fa’ di contemplarla distintamente in sè stessa; di poi vedi anche e
circoscrivi distintamente entro i suoi confini il tempo che, al
sommo, possa cotal cosa per la natura sua durare. Hai sofferto mille
travagli per non aver voluto appagarti unicamente del far quello a
che sei stato ordinato: ma basti. Quando altri ti lacera o ti odia,
o che schiamazzano contro di te, come fanno ora, pensa alle
animucce Farla di tutte le cose di questo mondo. L’Odissea, lib. XI,
discesa di Ulisse all’Inferno. Intendi: per non aver riposto unica- mente
il tuo bene nel far quello ohe ec.Come schiamazzano ora ; relativo a
qualche caso particolare. di questi tali, penetra loro addentro e osserva che
uomini sono. Ve- drai che non ti conviene il dar;(:i briga perchè
essi abbiano di te piut- tosto tale che tale altra opinione. Hai
nondimeno a voler loro bene : chè sono per natura amici tuoi. IC
anche gli Dei non lasciano di giovar loro in ogni modo, per mezzo
di sogni, di oracoli, sebbene in quelle cose soltanto che da
costoro si pregiano. Cotale è il perpetuo giro delle cose mondiali ;
all’ insù all’ ingiù, d’ età in età. 0 la mente dell’ uni- verso
determina con atti particolari di volontà ciascuna cosa ; e se que-
sto è, tu hai da ricevere con amore il voluto da lei : o ella ha voluto
e determinato una volta per sempre, o tutto pende e procede da
quella determinazione ; e allora a che il ri- calcitrare? Egli è, in
certo modo, come se non ci avesse altro che atomi e indivisibili. Al
postutto, o egli v’ ha un Dio intelligente e provvido, e tutto sta bene ;
o le cose si governano dal caso ; e tu almeno non governare a caso
te stesso. Oramai la terra ci ricoprirà tutti quanti siamo ; e poi anche
la terra si trasformerà; e poi si trasformerà quello ancora in che si
sarà trasformata la terra ; e quest’ altro ancora di nuovo, air
infinito. Davvero chi ripensa a un cotale incalzarsi di mutamenti e
di moti e alla rapidità con che si suc- cedono, non può essere che al
tutto non disprezzi ogni cosa mortale. La causa universale è un
tor- rente che trae seco ogni cosa. E que- sti omicciuoli che al
parer loro ma- neggiano secondo filosofia gli affari «li Stato,
come son piccioli! Veri bimbi in culla.* 0 uomo, attendi a Letteralmento
: « pieni ,di moccio, moc- ciosi, » cioè « bimbi col moccio al
naso. far quello, che che sia, che la natura richiede da te nel
momento presente, e non andar guardando attorno se altri il saprà. Non
isperare la repubblica di Platone, e sii contento ad ogni po’ di
progresso che tu vegga ; pensando che anche il ridurre questo ad- effetto
non è pic- cola cosa. Perchè le opinioni degli uomini chi può
mutarle? E senza correggere le opinioni, che puoi tu avere se non
ischiavi che gemono e s’infingono di obbedire ? Or va’, non istar
più ad allegarmi Alessandro, Filippo, Demetrio Falereo. Buon per loro,
se conobbero che cosa vuol la natura comune, e seppero raffrenare e
governar sè medesimi. Che se operarono solo per parere,' nissuno ha
moT'oeuXy direbbero i Francesi. Dal novero di questi bimbi non pare
che Antonino intendesse escludere sè medesimo. Fare il bene per amor del bene
piutto- sto che della lode, voler essere piuttosto che parere
ottimo, è il tratto più essenziale condannato me ad imitarli.
Semplice e modesta è l’opera della filosofia. Non indurmi ad ostentazione
di gravità. Contempla, come da un’ alta vetta, mandre infinite d’uomini,
usi di religione innumerevoli, e un na- vigar da ogni banda, in
tempesta, in bonaccia, e diversità di nascenti, di conviventi, di
morenti ; pensa an- cora alla vita che si vivea per lo addietro, e
a quella che si vivrà dopo te, e a quella che tra le nazioni
barbare si vive ora, e quanti v’ ha che di te ignorano anche il
nome, dì un gran carattere morale, dipinto da Eschilo con tre
versi sublimi nei Sette a Tebe parlando di Amfiarao, in parte fran-
tesi dal Belletti; e la cui traduzione let- terale, per quanto è
possibile, sarebbe : « non sembrare, ma essere ottimo ei vuole, fa-
cendo fruttificare il fertile terreno della sua mente, ove germinano gli
assennati pensieri. [ Bellissimo e nobilissimo paragrafo ! quanti insegnamenti,
e per quanti, si compendiano in esso! P e quanti che sono per dimenticarlo
in breve, e quanti che ti lodano forse ora, e ti biasimeranno
tantosto: e come non è da fare stima nè della ricordanza, nè della
gloria, nè di ve- runa cosa quaggiù. Imperturbabilità rispetto
alle cose che procedono dalle cause este- riori; rettitudine nelle
cose di che tu stesso sei causa : vale a dire, determinazioni ed azioni
non aventi altro fine che sè medesime, cioè d’o- perare
socievolmente, siccome cosa che è secondo la tua natura. Fra le
cose che ti molestano, molte le quali hanno sede nella tua
opinione, tu puoi sgombrare da te, o darai cosi campo ed agio a te
stesso. Fa’ di abbracciar colla mente l’uni- verso mondo, e
concepir nel pensie- ro r eternità dei secoli, e considera la
rapida trasformazione di ciascuna cosa particolare, e quanto è
breve l’intervallo dalla nascita alla dissoluzione, e infinito il tempo
che precedet- te la nascita, e infinito del pari quello che terrà dietro
alla dissoluzione. Tutte le cose che tu vedi si tlissolverannò tra
breve, e coloro che le vedranno dissolversi, si dissolveranno tra breve
anch’essi. E chi morrà d'estrema vecchiezza, si tro- verà ad un
medesimo ragguaglio con chi mori anzi tempo. Che menti son quelle di
costoro ! e per che motivi amano e onorano altrui! abbi in uso diveder
nude le loro animucce. Quando si credono nuocere biasimando, o giovare
lodando, che vanità! Una perdita di che che sia non è altro che una
trasformazione. Edi ' questo si compiace la natura dell’universo,
conforme alla quale tutto [Intendi: qual vanissimo errore!] Perchè
la lode e il biasimo di chi che sia noii aggiunge e non toglie nulla al
valor vero degli uomini o dello cose. si fa bene. Per secoli
innumerevoli le cose si sono fatte a questo modo, e continueranno a
farsi' a questo modo per altri secoli innumerevoli. Che dirai
dunque? Che sempre sensi fatte male, e che continueranno a farsi
male per l’avvenire? Or nis- suno dunque s’ è mai trovato fra co-
tanti Iddìi, il quale avesse potestà <li correggere tutto questo? E il
mon- do è egli condannato a mali che non avranno mai fine? Vedi il
marcio della materia che sottosta alle cose: acqua, polvere, ossicini,
sudiciume. Il marmo, callosità della terra; l’oro e r argento,
capomorto di quella ; la veste, peli ; la porpora, sangue : cosi di
tutto il rimanente. E la materia organica vivente, altrettale: di La
conclusione è che le perdite, i mu- tamenti, e tante coso allo quali il^
volgo dà il nome di mali, non sono mali veri. quei medesimi ingredienti
si com- pone, e in quelli si risolve. Abbastanza hai tapinato, abbastanza
hai mormorato, abbastanza hai fatto la scimmia. Che ti turba? Che
t’interviene di nuovo? Che è ciò che ti trae dal senno? La causa?
vedila. La materia? vedi la materia. Da queste cose in fuori non v’
ha nulla. Ma anche fa’ di essere più pio verso gli Dei e più
semplice. Lo stare a veder queste cose tre o cento anni è
tutt’uno. Se egli ha peccato, in lui sta il male. Ma forse non ha
peccato. 0 da una sola fonte intelligen- te, come in corpo organato procedono
tutte le cose ; e se ciò è, non appartiensi alla parte il
querelarsi di ciò che fassi ad utilità comune del tutto ; o sono
gli atomi. E tutto che esiste, accozzamento del caso, vien dissipato
dal caso. A che dunque ti turbi? Di’ alla parte sovrana : sei tu
morta? sei tu fradicia ? sei tu altra cosa che te? sei tu imbestiata? sei
tu giumento ? sei tu pecora? gli
Dei non possono far nul- la, o possono. Se non possono ; a che li
preghi? Ma se possono, che non li preghi piuttosto perchè ti concedano
di non temere nè desidarare alcuna di queste cose, nè di rattristarti per
esse, anzi che pre- garli che tu possa ottenerle o evitarle? perchè ad
ogni modo, se e’ pos- sono aiutare gli uomini, debbono poterli
aiutare anche in questo. Dirai forse : cotesto gli Dei hanno posto in mia
facoltà. 0, non è dunque meglio valerti con altezza d’ animo
indipendente di ciò che sta in poter tuo, anzi c he affannarti abbiettamente
e servilmente per ciò che non dipende da te? E poi chi ti ha detto
che gli Dei non ci aiutino anche nelle cose che stanno in poter no-
stro? provati di pregarli, e vedrai. Altri prega : fa’ che io possa
giacere con colei. E tu prega: fa’ che io non desideri di giacere
con colei. Altri : fa’ che io mi possa liberare dal tale. E tu: fa’
che io non abbia bisogno li liberarmi dal tale. Altri ancora : fa’
che io non perda il figliuolo. E tu: fa’ che io non tema di
perderlo. In somma raddrizza cosi le tue pre- ghiere, e sta’ a
vedere che ne segue. 4L Dice Epicuro : « Ammalato, io non
facea mai parola delle affezioni del mio corpicciuolo nè d’altre
co- tali cose, quali sogliono essere quelle di che amano gli
infermi inti’atte- nersi con coloro che li vengono a visitare. Ma
attendeva tuttavia a ragionare intorno ai punti principali della
filosofia naturale, soprasUmdo ad investigare e dimostrare ciò
ap- punto : come possa V anima, ancora che partecipe dei moti del
corpo, serbarsi nondimeno imperturbata, e conservare in sè quel
bene che è proprio di lei: nè dava, aggiunge egli, materia ai
medici d’insupei- bire, come se facessero gran che : chè la mia
vita, anche in quello stato, non era senza calma e giocon- dità. »
Ora fa’ tu altrettanto, sia, ponghiamo caso, che tu ammali, o t’
intervenga qualsivoglia altra mo- lestia: perchè"' il dover serbar
fede alla filosofia in ogni congiuntura qualsiasi, e non delirare
con lo stolto e con l’ignaro, è precetto comune a tutte le
sètte. Bada unicamente a ciò che tu fai nel momento presente, e all’
istro- rnento con che il fai. Quando ti senti offeso dall’impudenza di
alcuno, interroga tosto te n'iedesimo : ò egli possibile che non ci
abbia impudenti nel mondo? Non è. Non voler dunque l’impos- sibile
: questo è uno di quelli impu- denti che di necessità hanno ad essorci.
Lo stesso hai da dirti e del furbo e del disleale, e di qualunque
altro vizioso che pecchi in qualsi- voglia modo. Perchè
ricordandoti essere impossibile che tal sorta di gente non sia, tu
ti farai più mite verso ciascuno. Giova ancora il pen- sare subito.
Qual virtù ha dato all’uomo la natura contro questo peccato'? Ha dato, per modo
di eseni- [Intendi: tosto che ci sentiamo offesi por tale 0
tal altro fatto biasimevole di chicchessia. Intendi : contro al sentirsi offeso
da questo peccato del vicino. Perchè colle stesse parole in altro
luogo potrebbesi anche si- gnificare: qual virtù diede all'uomo la
na- tura .per combattere in sè medesimo questo peccato e serbarne
puro sè stesso. pio, contro all’ ingrato la mansuotudino, 0 contro a ciascuno
altro vizio, altre virtù. Ad ogni modo tu puoi far prova di
ravviare quel traviato; perchè chi fallisce, fallisce Io scopo a
cui mirava, ed è quindi traviato.' E ancora tu hai a pensare qual danno
te ne viene : eli è troverai nissuno di costoro, contro ai quali ti
adiri, aver fatto cosa per cui la mente tua sia. per divenir
peggiore. Ed ogni tuo male, ogni tuo danno, ben sai, non poter
essere altrove che in quella. E poi che male ci ha, o che v’ ha
egli di strano se l’indotto fa cose da indotto?- Vedi piuttosto che
tu non abbia a rampognar te medesimo, il quale non hai aspettato da
colui tal sorta di fallo. Perchè a te la ragione porgeva argomenti a
pre- vedere che costui fallirebbe probabilmente in quella guisa; ’ e tu
non badasti, ed ora ti vai maravigliando eh’ egli abbia fallito.
Massimamente (juando parratti aver rimproveri a fare a un disleale,
a un ingrato, fa’ che tu rivolga contro te medesimo r accusa :
sendo manifestamente tuo r errore se hai creduto che un uomo in
cotale disposizione d’animo fosse ' per mantenere la fede; o,se
facendo tu del bene ad altrui, non l’hai fatto senza un rispetto al
mondo ad altra cosa che al bene che volevi fare, nè con r intento
di avere a raccogliere immediatamente e unicamente dal fatto stesso
dello aver compiuta una buona azione, tutto ed intero il frutto di
essa. Nel vero quando tu hai beneficato un uomo, che vuoi tu an-
cora di più?^ Non ti basta aver fatto II saggio, diceano gli stoici, avrà
amici, ma li amerà per utile loro, e non di sè stesso. un’azione che è
conforme alla tua natura, e vuoi inoltre ima mercede, come se gli
occhi avessero ad esser pagati perchè vedono, e i piedi perchè camminano?
Perchè siccome queste membra furono così confor- mate affinchè
avessero a fare cotali uffici, e quando hanno fatto i servigi a che
furono ordinate, hanno ricevuto tutto ciò che è dovuto loro; cosi
l’uomo, per 'natura benefico, quando ha operato alcun che di bene, o
semplicemente aiutato altrui nelle cose medie, ha fatto quello a che
è stato ordinato ed ha ricevuto tutto quello che gli è dovuto. E
quando mai, o anima, sarai tu buona, o schietta, ed una, e ignuda, e più
appariscente ' del corpo che ti (àrconda? Quando gusterai tu di
quello stato che è tutto dilezione ed amore? Quando sarai tu
fornita di tutto punto, non mancante di nulla, non agognando nè
desiderando nissuna cosa, sia animata o sia ina- nimata, per
pigliarne diletto ? nè tempo perchè il diletto più duri? nè ' luogo
od opportunità di paese o di clima, nè conformità d’uomini che ti
vadano a genio? ma sarai paga [Intendi visibile, chè questo senso
ha pure il vocabolo appariscente] del tuo stato presente, facendo
piacer tuo di tutte le cose presenti, e persuadendo a te stessa che tu
hai tutto e che tutto va bene, e che tutto li viene dagli Dei e
tutto andrà bene, checché piaccia ad essi d’ inviarti per la salute
di quello animale per- fetto e buono e giusto e bello, il quale
genera tutte le cose, e tutte le contiene ed abbraccia e riceve al-
lorché si dissolvono per la riprodu- zione di altre simiglianti?
Quando mai sarai tale che, vivendo in una società con gli' Dei e
con gli uomi- ni, non ti accada mai né di dolerti di loro, né di essere
condannato da loro? Vedi quello che richiede la tua natura in
quanto sei governato dalla sola natura,’ e fàllo o accettalo ogni
volta che non sia per patirne danno la tua natura d’animale; Di poi os- Cioè a dire in quanto soi organismo viventi. serva
quel che richiede la tua na- tura d’ animale , e questo ancora ri-
duci ad atto ogni volta che non sia per patirne danno la tua natura
razionale. Ma il razionale importa, qual conseguenza immediata, il
so- cievole. Metti in pratica queste re- gole, e non darti pensiero
più d’altro. Checché ti accada, è o non è comportabile alla tua
natura. Se è, non hai motivo di crucciartene, ma Adunque Antonino,
come già gli stoici antichi, come i fllosofl moderni (vedi particolarmente
Burdach, Antropologia), tre diverse nature, o per dire più propriamente,
tre diversi gradi simultanei di vita distin- gueva nell' uomo : la vita
plastica o vegeta- tiva, la vita animale, e la vita razionale.
Quanto al principio unico, o moltiplico di queste tre vite, le idee degli
stoici erano confuse. E Antonino errava lungi dal vero quando
diceva, parlando della vita plastica o vegetativa, questa essere «
governata dalla sola natura, » se con ciò intendea che a produrne,
o a spiegarne tutti i fenomeni bastassero quelle leg^ che i moderni
chia- mano « leggi generali della natura. attendi a portartelo in pace,
essendo tu nato a ciò. Se non è, ancora non crucciartene ; perchè
verrà meno come prima ti avrà consunto. Ma sovvengati che sei tale
per natura da poter tollerare tutto ciò che sta in potere della tua
mente di rendere tollerabile col persuaderti che ti giovi 0 sia
dover tuo il tollerarlo. Se falla, correggilo amorevol- mente, e
mostragli in che ha falla- to. Se noi puoi, incolpane te stesso, o
veramente nè anche te stesso. Qualunque accidente ti occorra, egli ti era
da secoli innumerevoli predestinato, e la serie fatale delle cause * avea
connesso insieme quello accidente colla tua esistenza. 6.
Atomi, o nature, quale che fosse dei due, io pongo per fermo in
primo luogo che io sono parte di ^ Concatenazione delle cause, o
serie delle cause è appo gli stoici la definizione stessa del fato.
un tutto governato da una natura; e- in secondo luogo che io ho
rela- zione di affinità con tutte le parti a ine congeneri. Avendo
ferme nel- r animo queste due cose, in quanto io sono parte, non
avrò a grave nulla di ciò che mi viene compartito dal tutto, non
essendo nocevole alla parte quello che al tutto è giovevo- le ; nè
potendo il tutto aver nulla in sè che non conferisca al bene di lui
; primieramente perchè questa è proprietà generale di tutte le na-
ture, e poi perchè la natura del- r universo ha questo ancora di
più, che non è càusa alcuna esteriore da cui possa essere
necessitata a pro- durre mai cosa la quale sia per nuo- cerle.
Ricordandomi adunque che io sono parte di un tutto cotale, avrò
caro ogni cosa che avvenga. E in quanto ho relazione di affinità
colle parti a me congeneri, attenderò a non far nulla mai che non
si riferisca a quelle ; ma anzi mirando sem- pre a» miei simili,
rivolgerò tutte le mie forze a procacciare il ben co- mune, e mi
asterrò da tutto che possa ridondare in altrui danno. E così
governandomi' non può essere che la vita non abbia un corso fe-
lice ; come felice stimeresti il corso della vita del cittadino il quale
pro- cedesse d’ una in altra opera giove- vole ai suoi compagni di
patria, e avesse caro tutto quello che fosse voluto dal
comune. Alle parti del tutto, quante per natura contengonsi nell’
universo, è necessità il corrompersi: questo sia •detto per
significare lo alterarsi di esse. Il quale alterarsi se fosse per
natura un male, come è una neces- sità, poco felici sarebbero le
condi- zioni del tutto, le parti di lui es- sendo, come a dire,
avute in odio da chi governa, e da lui fatte tali da doversi chi in
uno, chi in altro modo corrompere. Dove converrebbe dire o che la
natura avesse' voluto nuocere ella stessa alle proprie sue parti
(20), sottoponendole al male, e facendole tali che dovessero neces-
sariamente incappare ' nel male, o che ciò sia avvenuto senza che
sia stato voluto nè avvertito da lei. Delle quali cose nè V una nè
1’ altra ò da credere. Che se taluno, messa da canto la natura,
presumesse espli- care il nodo affermando le cose essere nate a
ciò, non sarà punto meno strano il dire essere le parti del tutto
nate ai mutamenti, e ad un tempo il maravigliarsi e dolersi quan-
do questi mutamenti si compiono: massimamente quando noi veggiamo
che esse risolvonsi sempre in quei medesimi elementi di che è
compo- sta ciascuna. Avvegnaché la corru- zione o dissoluzione
delle cose altro non possa essere e non sia in ef- fetto che una
disgregazione e dispersione di quegli elementi, del cui ag- gregato esse
si compongono, o vogliam dire un ritorno al terreo di I ciò che v’ ha in
esse di solido, e al- r aereo di ciò che v’ha in esse di vitale,'
di modo che la ragione se- minale dell’universo riprenda di nuo- vo
in sè questi elementi, perchè al- r ultimo sieho consunti dal fuoco,
se r universo è sottoposto a conflagrazioni periodiche, o servano con
per- petua vicenda al continuo rinnovel- lamento di lui, se egli
dura eterno ed incorrotto.* E questo solido e que- sto vitale non
darti già a credere I che sia quello che tu avesti dalla madre
nascendo : perchè ieri, e ier r altro è venuto ad aggregarsi in te [Ricorda
siccome appo gli stoici la vita consiste nella respirazione, e quindi T
es- senza di quella è 1' aria. Opinione degli stoici più antichi:
Ze- none, Cleante, Crisippo. Opinione di molti stoici posteriori: Zenone
da Tarso, Boeto, Posidouiu, Panezio. e tiai cibi, e (-l’aria die hai respi
rata. Questo adunque che ti si è assrefiato ora si trasforma, e non
oo o più. quello che partoriva la madre. Fa’ che tu vi
sottoponga col pensiero quel che ti lega sì strettamente a ([ueste
tali e tali altre cose, le quali sono un nulla, cred’ io, jrispetto
a quello di che io ragiono Avendo tu imposto a te mede- simo questi
nomi di buono, di mc- ciosto, di veritiero, di assennato, di,
consenziente, di magnanimo, fa’ che non abbiansi a mutare nei loro
con- trari ; e ove mai ti accadesse di per- dere quelli, fa’ che tu
non tardi a ri- cuperarli. E ricordati che con la pa- rola assennata,
tu volevi significare r attenzione discernitiva a ciascuna cosa
presente, e il non pensare ad altro in quel mentre. Con la parola
consenziente, l’accettazione volontaria di quanto ti viene compartito dalla
natura comune; e con la parola ma( filammo, la elevazione dello spirito al
di sopra di ogni moto soave o insoave della carne, e al di sopra I
della gloriuzza, della morte c di si- mili cose. Se adunque tu ti
assicu- rerai il possesso di quei nomi senza bramare che ti vengano
dati da al- trui, sarai un alti ò uomo ed entrerai in ima vita
nuova. Percìiè il continuare ad essere per lo innanzi quale sei stato
infino ad ora, e il continuare a voltolarti fra le brutture e I Je
angosce di una vita cotale, troppo è da uomo stupido e codardo,
simile a quei bestiari ' mezzo rosi dalle fiere, i quali pieni di
ferite e con- taminati di sangue e di loto, pre- gano pure di
essere conservati infine al domani, ancora che .consapevoli di
dover essere di nuovo esposti, conci in quel modo, alle medesi- Cosi
chiamavano i Romani quelli accoltollatori che negli spettacoli combatte-
vano contro le fiere. me unghie e ai medesimi denti. Gittati adunque con
animo delibe- rato in su quei pochi nomi, e se puoi tenertivi saldo
ed eretto, tien- tivi, non altrimenti che se tu fossi venuto ad
abitare in qualche isola fortunata ; se ti accorgi che tu vi
tentenni, e non possa vincere la prova, vattene animoso in qualche
cantuccio ove tu sia certo di vincer- la ; od anche esci al tutto di
vita, senza adirarti, ma semplicemente, liberamente, modestamente
contento di aver fatto pure una cosa nella vita: Tesserne uscito in
cotal modo.* E al farti ricordare di quei nomi gio- verà non poco
il ricordarti degli Dei, i quali non vogliono essere adulati ; * ma
bensì che tutti gli esseri ragio- nevoli facciano di assomigliarsi
a Epitteto, Manuale. La pietà verso gli Dei consiste
massimanientG in avere sane e rette opinioni intorno a quelli (traduz.
del Leopardi). loro, e che il fico
faccia le cose che s’appartengono al fico, il cane quelle che si
appartengono al cane, e Tuomo quelle che s’appartengono all’ uomo. Il
teatro, la guerra, lo sbigot- timento, la torpidezza, la servilità
andranno in te cancellando di giorno in giorno quelle sante massime,
le quali tu apprendi bensì colla imma- ginativa e confidi alla
memoria, ma senza dar loro fondamento nè fer- marle colla
considerazione del tuttto 022) . Egli ti bisogna vedere le cose e fare in
modo che e il particolare che è intorno a te, sia bene osser- vato,
e la relazione di quello al tutto sia contemplata, e quella compia-
cenza di sè medesimo che nasce dalla scienza di ciascuna cosa si
con- servi nell’ interno tuo, segreta, ma non celata. Altrimenti
quando godrai i frutti della semplicità? quando quelli della
gravità e sodezza ? quan- do quelli della conoscenza di ciascuna cosa, quale
ella è per essenza, che posto occupa nel mondo, quanto tempo è per
sussistere, di che è composta, in quali obbietti si può trovare, e
chi sono coloro che possono darla o toglierla. Il ragno superbisce se ha
preso una mosca ; altri, se un lepratto ; altri, se un’ acciuga;
altri, se un cinghiale o un orso; altri, se fece prigioni alcuni
Sarmati. Non sono dunque assassini costoro se tu consideri i principii
che li movono? Fa’ che tu impari il modo ac- concio di contemplare
come tutte le cose si mutano le ime nelle altre, e attendi senza
ristare a questa parte della filosofìa, e vienti esercitando in
essa. Perchè nuli’ altro è che tanto innalzi 1’ animo. Chi è
assiduo in questa contemplazione si spoglia, sto quasi per dire,
del corpo, e considerando siccome in poco d’ ora gli converrà lasciare
tutte le cose di qua e partirsi dagli uomini, non at- tende più ad
altro che a conformarsi alla. giustizia e alla natura dell’ uni-
verso in tutto che egli fa o patisce. Che dirà un tale, che opinione
avrà di lui 0 che farà contro di lui uìi tal altro, egli non se ne
dà un pen- siero al mondo, pago e contento di queste sole due cose
; se egli fa con giustizia ciò che egli fa nel mo- mento presente,
e s’ egli ha caro qualsiasi cosa presentemente gli ac- cada. Tutte
le altre cure e negozi lascia andare, e d’ altro non gli calo che
di camminare perla diritUivia, tenendo dietro a chi sempre cam-
mina per la diritta via, a Dio. A che il sospetto quando tu puoi
ricercare che cosa è da fare nella congiuntura presente? Che se tu
il vedi, mettiti a ciò, e va’ in- nanzi alacremente per quella via,
senza guardarti dietro ; se noi vedi, sospendi il giud^io, e aiutati
del consiglio degli ottimi. Se insorgono ostacoli al compiere quello
che hai deliberato, governati razionalmente secondo la nuova
occasione che si presenta,* attenendoti sempre a quel- lo che ti
par giusto. Perchè questa è r ottima cosa da conseguire, sendo che
lo scostarsi dalla giustizia è un decadere dalla natura umana. Egli
è un certo che di lento e posato e insieme di mobile ed alacre, di
ilare e sereno e insieme di serio e grave, colui che segue la
ragione in ogni cosa. Appena riscosso dal sonno chiedi a te
medesimo se ti impor- terà che da altri anzi che da te si faccia
quello che sta bene ed è giusto. Non te ne importerà : o avre- sti
tu dimenticato quali sono costoro che superbiscono nel farsi
dispensa- M t Cioè volgi l'ostacolo a profitto, servendoti
di Ini come di nuova materia ad azione. tori della lode e del biasimo,
quali nel letto, quali a mensa; e quali cose facciano e quali
fuggano, a quali intendano, e quali rubino e quali rapiscano ' non
colle mani o coi pie- di: ma colla parte più nobile di loro, la
quale può diventare, solo ch’ella il voglia, fede, verecondia,
verità, legge, buon genio. Alla natura che dà e ritoglie tutte le
cose, 1’ uomo bene instituito e modesto dice : « Da’ quello che
vuoi, togli quello che vuoi, o natura. E questo dice non già con baldanza
orgogliosa, ma con intimo senso di alfettuosa obbedienza verso di
lei. Appo gli stoici imà virtù è la parte so- vrana deir anima
talmente modificata. [‘Natura’ per gli stoici è lo stesso che ‘Dio’. Queste
parole di Marcaurelio corri- spondono perfettamente a quelle di
Giobbe: Dominui dedita Dominus abstulit, osserva qui bouissimo il
Pierron. Poco^ è questo che ti rimane a vivere. Vivi dunque come in
sulla montagna. Perchè a qui, o colà, nulla monta, se, dove che tu
sii, tu vivi sempre nel mondo come in una città. E veggano e
conoscano pure* gli uomini un uomo davvero, il quale vive secondo
natura. Se noi possono tollerare, uccidanlo. Meglio questo che
vivere com’ essi fanno.* 1(». Non è più tempo di far parola
intorno a ciò che deve essere Tiiomo dabbene, ma di incominciare ad
esserlo. Il pensiero del tempo universo e della materia universa ti
sia del continuo presente, e che tutte le cose particolari sono,
rispetto a que- sta, un granello di miglio, e rispetto a quello, un
batter d’ occhiò. Considerando ciascuno degli obbietti che offronsi alla
tua osser- Letteralmente: un volger di trapano. vazione, fa’ di
rappresentartelo come già in atto di dissolversi e trasfor- marsi;
d’ infradiciare, per esempio, o dileguarsi in fumo, o altro,
secondo il genere di morte a cui nacque. Vedili quando mangiano,
quan- do dormono, quando usano con fem- mina, quando sono al cesso,
o fanno altre cose tali. Vedili poi (piando stanno in sussiego o fan
cipiglio, quando van tronfi e pettoruti, o s'adi- rano, rabbuffano
altrui con alterigia. E poco innanzi servivano pure come schiavi a
tante cose, e per quali motivi ! E poco dopo ritorneranno a quelle
medesime cose. Giova a ciascuno ciò che ar- reca a ciascuno la
natura comune. Ed allora giova, quando essa lo arreca. La
terra ama la pioggia; e l’ama ancora 1’etere venerando. E il mondo ama far
quello che è per accadere. Dico adunque al mondo: Io amo con te. E non
dicesi egli parimenti che una tal cosa ama accadere? 0 tu vivi qua, e ci sei già avvezzo ; 0 vai
fuori, e questo tu desi- deravi ; 0 muori, ed hai finito il tuo
compito. Fuori di questi tre casi non v’ ha altro. Adunque stattene di
buona voglia. Abbiti sempre per certo che quel tuo vivere in
villa non è punto diverso da questo, e che tutte son qui le cose
come in sulla cima del monte, o sulla spiaggia del mare, o dove che
tu voglia. Perchè ti si pa- rerà davanti a bella prima il detto di
Platone : « Egli sta nella reggia come in una capanna sul monte, mugnendo
l’armento. Che è in questo istante la mia parte sovrana ? e quale la fo
io ? A che Tadop ro io? Non è ella per av- 8Ìde«nd^‘°R
sognando o deventura vuota di ragione? Non è ella separata, divelta dalla
comunità? Non è ella cosi congiunta, conglu- tinata col corpo, da
doverne seguire tutti i moti?* 25. Chi fugge dal suo signore,
è servo fuggitivo. Ma la legge è signora: chi trasgredisce la legge,
è dunque un servo fuggitivo. E similmente chi s’ attrista, o teme, o
non vorrebbe che fosse accaduta o acca- desse 0 fosse per accadere
alcuna qualsivoglia di quelle cose che ha ordinato il reggitore di
ogni cosa, cioè la legge distributrice di quello che tocca a ciascheduno.
Adunque Bene rammenta qnì ìi Gataker ciò che Platone avea già
.detto nel Fedone: «Cia- scun piacere e ciascun dolore, non altri-
menti che un chiodo confìgge l'anima al corpo e con esso la unifica per
modo che ella, accetta per vero tutto che è affermato dal corpo. La
legge di cui qui parla Antonino è la legge universale, quella della
natura, di Dio. chi teme, o s’ attrista, o s’ adira, è nn servo
fuggitivo. 2(ì. Chi introdusse il seme nella matrice, se ne
va ; un’ altra causa sottentra immantinente, e lavora e conduce a
termine il feto. Qual cosa e da quale? Ancora, egli manda giù il
cibo per la gola : e tosto un’ altra causa sottentrando produce
senso, moto, vita, vigore, eccetera. Quante e quali cose? Queste
maraviglie, che si compiono sotto un velo si impe- netrabile,
sianti spesso subbietto di contemplazione, e sappi fare concetto
della potenza operatrice di ({uelle, come facciamo della causa che
fa gravitare i corpi o li spinge in al- to, la quale non vediamo cogli
occhi, ma non però meno certamente. Non dimenticare che tutte
queste cose, che ora si fanno, si sono fatte prima d’ ora: e pensa*
che si faranno per l’avvenire. Pònti da- vanti agli occhi quanti
drammi o scene vedesti tu stesso, o leggesti nelle antiche storie :
come, verbi- grazia, tutta intera la Corte di Adrian no, tutta
intera quella di Antonino, tutta intera quella di Filippo, di
Alessandro, di Creso: perchè erano tutte la stessa cosa che adesso, solamente
erano diversi gli attori. Fa’ ragione che colui il quale si
attrista d’ alcuna cosa, o l’ ha a male, non è punto dissomigliante
dal porcellino percosso dal ferro del sagrifìcatore, il quale ricalcitra
e grida. Non altro concetto hai da farti di chi lamenta solitario
sul suo lettuccio le catene che ne stringono. E pensa come al solo
animale ragionevole è dato seguire volontario gli eventi : che in quanto
al se- guirli ad ogni modo, è forza di ne- cessità per tutti.
1 Lettuccio è qui come chi dicesse il canapè su cui l’uomo lavora e
studia. Cosi, bene il Casaubono. Considera segregatamente in sè
stessa ciascuna delle cose che vai facendo, e interroga te medesimo
se la morte è un male perchè ti priverà del potere di farla. Quando
per l’ altrui fallo ti senti montare la collera, rivolgiti tosto
sopra te stesso ed esamina in qual cosa simile a quella tu pecchi :
stimando, per esempio, che le ricchezze siano un bene, o il piacere, o la
gloria; secondo il genere del- l’altrui peccato che ti sprona all’ira.
Perchè se tu badi a ciò, presto cesserà la tua collera. E ancora
con- sidererai che colui è forzato.* E in vero che farebbe egli?
Ovvero, se tu il puoi, rimovi da lui ciò che lo sforza. Cioè a
dire, rimovi dalla sua mente l’errore, il falso giudizio; perchè gli
stoici deriTavano interamente il bene morale dal giudizio
razionale, e riferivano quindi uni- camente alla luce della ragione le
risoln- [Veggendo Satirione, immagina di vedere Socratico o
Imene : veggendo Eufrate, immagina Eutichione 0 Silvano : quando vedi Alcifrone,
immagina Tropeoforo. Qquando vedi Senofonte, immagina Oritene o Severo; e
in te stesso figurati di ve- dere qualcheduno dei Cesari ; e così
via via. Poi ti occorra alla mente : ora dove sono costoro? In
nissun luogo, 0 chi sa dove. Di questa maniera tu verrai avvezzandoti a
consi- derare le cose umane come un fumo ed un nulla : massimamente
se ti rammenterai come ciò che fu mu- tato una volta, non
riprenderà mai più quella forma in tutto il tempo infinito. E tu in
qual tempo? Che non ti basta adunque il passare co- zioni
virtuose della volontà: secondo essi il giudizio determina la volontà
necessariamente. Intendi: se gli altri non ci ritornano mai più, ti credi
tu di averci a ritornare tu solo? 0, stumatamente questo poco che ti
è dato ? Da qual materia d’ azione, da quale impresa rifuggi? Tutte
queste cose che ti accadono, sono esse altro che occasioni di
esercizio alla ra- gione, la quale abbia diligentemen- te, e come
si addice allo studioso della natura, considerate le cose che
avvengono nella vita? Rimanti adun- que finché tu abbia assimilato a
te medesimo ancor questo,' come il valente stomaco assimila a sè
tutti i cibi, come lo splendido fuoco fa fiamma e luce di tutto che
tu getti in esso. Nissuno sia veritiero il quale dica di te che non
sei sempli- ce e schietto, che non sei uomo dabbene: ma menta
chiunque fac- cia di te un tal giudizio. E tutto ciò sta in poter
tuo. Perchè chi è [Intendi: ciò che ora ti è dato per ma- teria di
azione f frase solenne ad Antonino. quegli che ti possa impedire che tu non
sii schietto e dabbene? Solo che tu abbia fermo nell’ animo di non voler
più vivere quando tu non sii tale. Nè la ragione il vorrebbe. Che è
ciò che in questa occa- sione che mi è data si può fare o dire per
lo meglio? Checché egli sia, è in mia facoltà il farlo, o il dirlo.
Non iscusarti col dire che ne sei im- pedito. Non prima cesserai dai lamenti
che non sii fatto tale, che r operare conforme air istituzione tua
in (jualsivoglia caso non sia per te la stessa cosa che è pel sen-
suale la voluttà. Perocché ciò ap- punto vuoisi dall’ uomo avere in
conto di vero godimento. L’operare. In questa occasione - in qualsivoglia
caso.» Chi preferisse la frase stoica dica: « in questa materia — in
qualunque materia a te sottoposta » come disse Ornato. A me parve troppo
alieno dall’ uso, ed anche poco chiaro in italiano. conformemente alla propria
natura. E questo può egli in ogni caso. Al cilindro in tutti i casi
non è dato potersi muovere in quella forma di moto che gli è
propria, nè all’acqua, nè al fuoco, nè a nissuna delle cose che sono
governate o da natura inanimata, 0 da anima irrazionale : molti sono gli
impedimenti che loro si frappongono, molte le resistenze. Ma la
mente, la ragione può seguire, solo che il voglia, la sua propria
via vincendo tutti gli ostacoli. Questo potere e agevolezza che ha
la ragione di seguire la sua via in tutte le direzioni, all’alto, al
basso, per 10 declive, come il fuoco, la pietra, il cilindro,
pònti davanti agli occhi, e non cercare più oltre. Tutti gli
ostacoli che tu puoi incontrare non hanno relazione se non se al
corpo che è cosa morta ; o veramente, se non sottentra l’ opinione,
e se la mente non cede, non possono nuocere nè far male veruno.
Altrimenti chi ne patisse, dovrebbe eziandio pa- tire
deterioramento, come veggiamo di tutte le altre produzioni sia
della natura sia dell’ arte ; le quali tutte trovansi deteriorate
ove incolga loro alcun male ; ma, qui al contrario, r uomo, se ho a
dirlo, si fa migliore e più degno d’ encomio, quando fa retto uso
degli accidenti, quali essi sieno, che gli incontrano. In som- ma
ricordati che non offende il ve- ro cittadino ciò che non offende
la città; che non offende la città ciò che non offende la legge; e
che nissuna di tutte queste così dette avversità offende la legge.
E se non offende la legge, non of- fende adunque nè la città nè il
citadino. A colui che fu ben penetrato dalle vere credenze, basta
il più breve detto, anche di quelli che sono a tutti i più noti, a
sgombrargli dall’animo la tristezza o il timore. Per esempio. Quali sono
le foglie, e tali sono Le schiatte degli umani. Quelle il vento A
terra sparge, ed altre ne produce La germogliante selva a
primavera. Cosi le schiatte degli umani : questa Or nasce, or
quella muore. Foglie sono i tuoi figliuoli, foglie tutti costoro che ti
acclamano, e schiamazzano sì forte da far credere che dicano il vero ;
foglie questi altri che altamente ti maledicono, o ti vilipen- dono
e lacerano in segreto. Foglie sono ancora quelli che ricorderanno
il tuo nome dopo la tua morte. Tutte queste cose spuntano fuori alla verde
stagione, poi fi vento le sparge a terra, e(i altre in loro vece ne
ri- produce' la germofjliante selva. Il durar poco è comune a
tutte. Ma tu le fuggi 0 le cerchi come se aves- sero a durar
sempre. Ancora un poco e chiuderai gli occhi; e a quello che ti
comporrà sul rogo, altri farà il corrotto. 35. L’ occhio sano
deve essere dis- posto a vedere tutto ciò che è vi- sibile, e non
dire: io voglio vedere solamente il verde ; perchè ciò è da occhio
ammalato. L’ orecchio sano e r odorato debbono essere disposti a
udire tutti i suoni e a sentire tutti gli odori. E lo stomaco sano
deve essere preparato a digerire tutti i cibi, non altrimenti che
la macina è pronta a macinare tutto quello che ella fu fatta per
macinare. E così pure la mente sana deve essere pronta ad accettare
tutto quello che accade. Colui il quale dice : « sieno salvi i
figliuoli » e « tutti lodino le mie azioni » è come 1’ occhio che
vuol vedere solamente il verde, o come i denti che vogliono
masticare sol cose tenere. 36. Nissuno è tanto
avventurato che al suo morire non sia per avere intorno a sè chi si
rallegrerà del male che gli incontra. Savio e dab- ben uomo sia
stato ; non mancherà all’ ultimo chi in sè stesso dirà. Respireremo una
volta da questo pedagogo. A nissuno di noi diede noia con rampogne,
è vero; ma ci siam pure avveduti che in cuor suo ci condannava. »
Questo si dirà del- r uom savio. E di noi, quante altre cose
possono fare a molti desiderare che ce ne andiamo! A questo pen-
serai quando sarai per morire, e la tua partenza ti verrà fatta più
facile. Ragionerai teco stesso: me ne vo da questa vita, dalla
quale questi miei concittadini, pei quali ho in essa tanti travagli
sostenuto, tante preghiere fatto, tante cure avuto, vogliono ora
essi medesimi. eh’ io me ne vada, sperando forse che debba seguirne
loro qualche profitto. Chi dunqu e potrebbe desiderare d’avere
a starci più lungamente? Non per questo partirai tu men benevolo
verso di quelli, ma, serbando inai- terato il costume e 1’ indole
tua, amico loro tuttavia qual fosti, pro- pizio e amorevole a
tutti, e non però mesto nè ripugnante. Ma co- me veggiamo in chi
muore di fa- cile morte V anima soavemente scio- gliersi dal corpo,
cosi conviene che si faccia la tua separazione da co- loro. Perchè
la natura ti avea pure congiunto e complicato con essi. Ora me ne
disgiunge? Ed io mi lascio disgiungere come da amici e carissimi
congiunti, non però turbato nè ripugnante, ma tranquillo e di mio buon
grado. Perchè anche questa è una delle cose volute dalla
natura. A ciascuna cosa che tu vegga fare a chicchessia, vienti
avvezzando, per quanto è possibile, a ricercare, ragionando teco
medesimo : costui a che riferisce quello che sta facendo? E incomincia da
te, esami- nando te stesso il primo. 38. Ricordati che chi dà
V impulso e muove, per cosi dire, le fila del fantoccino, è il
celato nel di dentro. Quello è il dicitore che persuade, t|uello è
la vita, quello è, se vogliam dire il vero, V uomo propriamente.
Guardati dal figurartelo come una sola cosa con esso il vaso le cui
pa- reti lo circondano, o con questi in- gegni che songli cresciuti
intorno.* Questi somigliano alla scure ; se non che gli sono per natura
aderenti. Si capisce facilmente che per ingegni bassi qui ad
in- tendere ordigni, cioè gli organi e le mem- bra del corpo. Gli
Inglesi e i Francesi presero dai classici Italiani questa parola
ingegno con questo senso, e dicono quelli engine e questi engin ; come ne
presero tante altre bellissime o utilissime dello quali si servono
quotidianamente ; e di tali ancora che noi abbiamo interamente
dimen- ticato: e per significar poi quelle cose di cui abbiamo
dimenticato i nomi italiani, an- diamo ad accattar vocaboli dai
forestieri, E in effetto, allontanata la causa che li muove, non è uso
alcuno di essi pili che non sia della spola, senza la mano, al
tesserandolo, nè della penna allo scrittore, nè della frusta al
cocchiere. È proprio deir anima razionale' il veder sè medesima; il
conoscere partitamente sè medesima ; il far sè meilesima quale ella
vuole: il cogliere essa medesima il frutto che ella produce, laddove i
frutti delle piante e i portati degli animali sono colti da altrui;
il giugnere sempre allo scopo che è proprio di lei, in qualsivoglia
punto arrivi il termine della vita : perchè 1’ azione di lei, in
qualsiasi momento ne sia arrestato il corso, non rimane imperfetta,
co- [Razionale per distinguerla da quella dei bruti, che
dagli stoici è chiamata anima semplicemente. me nelle rappresentazioni
sceniche o nel hallo, o in simili cose; ma anzi in qualsivoglia
istante, in qual- sivoglia luogo le sopravvenga la mor- te, ella
compie nondimeno intera- mente, e in modo soddisfacente a sè stessa,
quanto si avea proposto (28), e può dir sempre: io ho tutto il mio.
Ancora ella va spaziando colla speculazione per tutto il mondo e il vuoto
che lo circonda, e contempla la forma di quello, e si estende nella
infinità dei secoli, e abbraccia col pensiero i rinascimenti periodici
della università delle cose; e contemplan- doli si fa capace che
non rimane da vedere nulla di nuovo ai nostri po- steri, siccome
nulla di più videro i nostri antichi ; chè anzi 1’ uomo giunto
all’età di quaranf anni, per poco che abbia di buon discorso, ha
1 Tutto il mondo : intendi ciò che noi di- remmo tntto il creato.
Ma l'idea di crea- zione era aliena dagli stoici. in certo modo veduto e
conosciuto tutto ciò che fu e tutto ciò che sarà per la somiglianza
che hanno le cose fra loro. Ancora è proprio del- r anima razionale
l’ amore del pros- simo, la veracità e la verecondia, e il non
anteporre nulla a sè mede- sima: * il che è proprio eziandio della
legge. Onde segue che la retta ra- gione e la ragione di giustizia sono
una sola cosa. I canti aggradevoli e le danze e gli esercizi
ginnastici ti cadranno Bene avverte qui il Gataker come an-che la legge
cristiana ci prescrive di non avere a nulla maggior rispetto che alla propria
anima (confer. s. Matt. Evang. XVI, 26; s. Marco Vili, 36). E san
Gregorio Nazianzeno: c nulla, disse, è più prezioso a ciascuno che la
propria anima» riproducendo quasi nella sua prosa il verso 301 dell’Alceste
di Euripide. [Esercizi ginnastici, letteralmente il pancrazio.
Ognuno sa che i romani per mezzo della ginnastica voleano esercitata la
forza del corpo con signiftcazione di leggiadria. E quindi i giuochi
ginnastici erano pur uno degli spettacoli più graditi ad un popolo,
in disprezzo, se tu dividi, per esempio, la cantilena melodiosa in ciascuno
dei suoni di che ella si compone, e ad uno ad uno considerandoli, domandi a te
stesso, è egli questo quel che mi vince? » perchè ne avrai
vergogna. E similmente in- torno alla danza, considerando sepa-
ratamente ciascuno dei moti, cia- scuno degli atteggiamenti; e così
per gli esercizi ginnastici. E gene- ralmente in tutto ciò che non
è virtù, o che non procede da virtù, i sovvengati di ricorrere alla
divisione delle cose nelle parti loro (29), si che divise a quel
modo elle ti cadano in dispregio. Fa’ l’applicazione di ciò anche
alla vita intera. Quale debba essere 1’ anima in tutto r ordine
della cui vita regnava sovranamente l'idea della bellezza. Cioè, dividi
la vita umana in tante pic- cole porzioni, per disprezzarla tutta
insieme. Sottintendi ronsi'lera, o ricordati. apparecchiata a sciogliersi, ove
oc- corra, immantinente dal corpo, a spegnersi o a dissiparsi, o ad
entrare in una nuova condizione di esistenza. E questa disposizione
proceda da giudizio particolare della mente, non da sola pervicacia
di volontà, come nei Cristiani; sia scevra da ogni tragica
ostentazione, non però senza dignità, da poter anche persuadere gli
altri. Ho io fatto qualche cosa che giovi alla società? Adunque ho
gio- 0 ad entrare eiUtenta ; letteralmente: 0 a perdurare. Ornato
traduce: o a rimanere ancora dopo morte Non mi piacque, ma la mia
versione, che svolge il pensiero dell’ autore, ha un coloro troppo
moderno. I Cristiani erano ancora
comunemente mal conosciuti, e creduti settari fanatici, nemici
dell’ impero. Cioè a dire; sia tale, non solo intimamente. ma anche pe’ suoi
caratteri esteriori, da poter persuadere altrui che essa procede da
ben ponderato giudizio,* nòn da codardia 0 vanità o da intemperata
esaltazione o concitazione di mente.
vate a me stesso.' Questo pensiero ti occorra sempre pronto alla
mente, e ti conforti a perseverare. Qual è r arte tua? L’esser
buono. E quest’ arte come altrimenti s’acquista, se non per le buone
dottrine, le une intorno alla natura dell’uni- verso, le altre
intorno alla costituzione propria dell’ uomo? Da prima fu istituita la
tragedia a ricordare i casi che sogliono av- venire e come essi
sieno così fatti per natura, e ad avvertirci nel medesimo tempo essere
una contrad- dizione il pigliarne diletto quando li vediamo sulla
scena del teatro e dolercene poi quando accadono sopra una scena
maggiore. Voi vedete di [Sono le parole di' Salomone, Prov.
XI, 17: « Benefacit sibi ipsi vir beneficus.» Epitteto svolgo il
medesimo concetto, dis- sert. I, 19; Seneca, epist. 48, disse: «Non
potest beate degere qui se tantum intuetur, qui omnia ad utilitates suas
couvertit: al- teri viVas oportet, si vis tibi vivere.» fatti essere pur forza che 1’ azione si
compia a quel modo (30), e che deb- bono ad ogni modo soffrirlo
anche coloro che esclamano : « 0 Citerone, ahi lasso.* w E invero
alcune cose diconsi utilmente dagli autori di tra- gedie siccome
questa: Che se gli Iddìi Di me nè de’ miei tigli non
han cura, Ragion pur anco a ciò li move. E quest’ altra. Contro
alle cose lo adirarsi è vano. » E ancora quest’ altra:
€ Mieter la vita Come spiga matura -» E le altre
di cotal fatta. Dopo la tragedia fu introdotta hi t
Parole di Edipo. Vedi Sofocle, Edipo re, vers. 1391. Ecco, secondo la
traduzione del Belletti, i tre versi che formano il periodo intero
di cui quelle parole sono il comin- ciamonto: Oh Citeron!
perchè raccormi? o tosto Perchè morte non darmi, ond' io giammai
L'origin mia non rivelassi al mondo! vecchia commedia, la quale, con
quella sua libertà, facesse come da aio al popolo, e con quel suo
chia- mare le cose coi nomi loro, ne ri- cordasse agli uomini la
vanità: i quali modi assunse poi Diogene ezian- dio ad un fine
somigliante. Dopo la vecchia, quale sia stata la mezzana commedia,
ed ultimamente poi la nuova, e quale scopo abbia questa, che a
poco^a poco si è ridotta ad, essere puro artificio di imitazione, lascio
a te il considerare. Che anche da costoro si dicano alcune cose
utili, non è da negare : ma l’ inten- zione generale di un tal genere
di poesia e di composizioni drammati- che, qual è ella mai? Come
vedi tu chiaro nissun’ al- tra setta' essere così acconcia al
1 Setta, intendo della setta illosodca in che Marco vivea, e non
dello stato o- condizione sociale. Ho qualche dubbio, e parrai che il
3iou filosofare, come quella in che sei ora? Un ramo
spiccato da un altro ramo non può non essere separato dalla pianta
intera. Parimente un uomo diviso da un altro uomo è sca- duto dalla
società intera degli uo- mini. Il ramo vien divelto per mano
d’altri. L’uomo si separa egli stesso dal suo vicino, quando egli l’
odia, quando lo ha in dispetto; e non s’ avvede eh’ egli si
distacca ad un , tempo dalla intera comunità. Se non che, per dono
di Giove autore dplla comunità, può ciascuno di noi che siasi
distaccato dal prossimo, riap- ÙTTóOeo'.y potrebbe anche voler dire
qualche cosa che non fosse nè la condizione sociale-y nè la setta
filosofica^ ma bensi il modo e r ordine ili vita adottato da Antonino
nella condizione sociale in cui vivea: e cosi l’in- tesero anche il
Gatakero e lo Schultz, i quali_ tradussero vitee genus. Ma siccome
rOrriato pare che fosse ben fermo in quella sua opinione, ho conservato
la sua parola fetta. P, piccarvisi e farsi di nuovo parte in-
tegrante del tutto. Vero è che quando ciò accade più volte, più diffìcile
diviene la riunione o il ristabili- mento a suo luogo della parte
stac- cata. E ad ogni modo egli è diverso il ramo che crebbe da
principio in- sieme cogli altri e sempre rimase unito con essi, dal
ramo che vi fu innestato dopo esserne stato divelto: checche ne
dicano i giardinieri, fa un albero solo cogli altri rami, ma non un
solo disegno. La vegetazione è una, ma la forma non è una. Questo
potrebbe dirsi di un ramo di pe- sco, p. es,, che fosse innestato in
quello di un noce ; ma quando un ramo del uoco che ne fosse stato
spiccato fosse innestato in un altro ramo del noce medesimo,
sarebbe una la vegetazione cd una ancora la forma. Mi è anco
sospetto quello ófJioJoyjjiaTetv parlandosi di piante. Io propendo a
credere, coi migliori critici, questo luogo corrotto o manchevole
nel testo. Alcuni di quest' ulti- ma frase fanno un paragrafo separato:
e remato stesso non era ben risoluto. Chiunque voglia avversarti in
cosa che tu faccia secondo la retta ragione, siccome non avrà forza
dà distoglierti dall’ azione incominciata, cosi ancora non ti
riinova dal sen- timento di benevolenza che devi avere per lui : ma
fa’ che tu ti serbi co- stante nel giudicare e nell’ operar
rettamente, e ad un tempo amore- vole verso chi cerca di impedirti
o in qualsivoglia modo ripugni a ciò che tu fai. Perchè non sarebbe
mi- nore fiacchezza lo adirarti contro questi tali, che il ritrarti
dall’ im- presa e dar luogo per paura; essendo egualmente disertore
chi teine e fugge dall’ ordinanza, e chi s’ allon- tana dal congiunto
e dall’ amico suo naturale. IO. Non è natura alcuna la
quale sia da meno dell’ arte che ne è imi- tatrice ; nè la più
perfetta fra le na- ture, quella che comprende in sè tutte le
nature, può essere da meno di un’ arte qualsivoglia. Ora le arti
tutte fanno le parti inen nobili di ciascuna delle opere loro per
amore delle più nobili;' adunque anche la natura comune. Quindi ha
origine la giustizia, e da questa procedono tutte le altre virtù. Perchè
mal potrà conservarsi giusto colui, il quale o non sarà
indiflerente verso le cose medie, o si lascierà facilmente in-
gannare dalle apparenze, o sarà pre- Come, per esempio, un pittore farà
ciò che pone nel fondo di un suo quadro per dare maggior risalto a
ciò che ne è il sog- getto principale. E (la questa procedono tutte le
altre virtù. Intendo che dallo aver la natura voluto che si
osservasse la giustizia, procedette che essa natura istituisse le altre
virtù; quelle cioè di cui parla poco dopò ; le quali sono necessarie
alla pratica della giustizia e fu- rono dalla natura istituite per amore
di essa giustizia, còme un artefice fa le parti men nobili di una
sua opera per amore delle più nobili. Ricordi il lettore che appo
gli stoici posteriori parte sovrana della filosofia • era la morale
: la logica, anche per gli stoici antichi, era subordinata alla
morale. cipitoso nel giudicare, o mal fermo
nel giudizio fatto. Non le cose, il cui desiderio o timore ti turba,
vengono alla volta tua; ma tu in certo modo vai alla volta loro.'
Ora fa’ che il tuo giudi- zio intorno a quelle stia cheto, e quelle
rimarransi quete del pari, e tu non sarai veduto desiderar nulla nè
temere. La sfera dell’anima ha la forma che è propria di lei, quando
ella nè si estende al di fuori verso checchessia, nè si ritrae al di
dentro, nè si dissipa, nè si accascia,* ma splende di una luce per
la quale ella vede la verità che è nell’ universo e quella che è in
lei. Un tale mi disprezza? Tal
sia di lui. A me basta parlare e operare Inteudi che l' anima è
nello stato con- forme a natura, quando ella non ha nè de- siderio,
nè timore, nè piacere, nè dolore. in modo che nissun mio detto o fatto
meriti disprezzo. Mi odierà? Tal sia di lui. Quanto si è a me, io mi
ser- berò mansueto e benevolo verso ognu- no, pronto a chiarire
dell’ error suo anche colui che mi odia, non con parole di
rimprovero nè ostentando pazienza, ma cortesemente e con sin- cera
amorevólezza, come Focione so- lea fare (31), supposto che non
s’infin- gesse. Perchè la mansuetudine vuol essere interna, sì che
gli Dei veggano in te un uomo disposto a non ricevere nulla con isdegno
nè a ma- lincuore. Qual malej in fatti, per te, se tu fai ora quel
che s’ addice alla tua natura e ricevi ciòcche ora è giu- dicato
opportuno dalla natura uni- versale, tu uomo ordinato a questo fine
che sempre si faccia il comun bene, sia qualsivoglia lo strumento
per cui si faccia? Si disprezzano l’un l’altro, e si vanno
piaggiando l’un 1’altro. L'uno vuol essere da pii» che l’altro, e s’
inchinano 1’uno all’ altro scawi- bievolmente. Che fradiciume e che
doppiez- za non è il dir di taluno : a Io ho deliberato di trattar
teco schietta- mente. » 0 uomo che fai? Non è bisogno' di questo
preambolo. Alla prova si vedrà. Sulla fronte conviene ti si legga
immantinente ciò che tu di’, perchè è cosa di tal natura che tosto
si manifesta negli occhi, come nello sguardo dell’ amante ogni cosa
conosce immantinente l’ amato. L’uo- mo schietto e buono dev’ essere
come chi sa di caprino, sì che al solo ac- costarsegli altri il
senta, voglia o non voglia. La schiettezza simulata è un’ arme da
traditore. Non è cosa più turpe che l’amicizia del lupo. L’ amicizia del
lupo espressione proverbiale presso i romani, ed era allusione a quella
favola di Esopo, nella quale i lupi persuadono le pecore a dar loro i
cani come ostaggi, e ad accettare alcuni giovani lupi A tutto
potere fuggi cotesto. Alfuom dabbene, all’ uomo schietto, all’ uom
benevolo sono appariscenti negli oc- chi tjuelle qìialità loro, e non è
bisogno di parole a manifestarle. Vivere beatamente è cosa che sta
in potere dell’anima, solo ch’ella voglia essere indifferente verso
le cose indifferenti. E questo le succederà se ella considererà ciascheduna
di esse nelle sue parti e nelle sue relazioni col tutto, non dimen-
ticando che nissuna di esse viene alla volta nostra nè ci sforza a
fare di lei tale o tal altro concetto ; ma • anzi elle si stanno
tutte immobili dove sono, e noi siamo quelli che facciamo i. giudizi
intorno ad esse, e li scriviamo, per così dire, dentro di noi,
potendo non farlo; e ancora. come gaardiatii in luogo di quelli; e
divo- rano poi le infelici che lascìaronsi gabbare dalle belle parole
e dalle belle promesse. Cioè le cose fuori di noi. quando ciò ne venga fatto
inavver- titamente e senza avvedercene, po- tendoli cancellare
immediatamente e rammentando inoltre che pocd^ha a durare questa fatica
di considerare le cose in tal modo, e saremo poi fuori della vita
per sempre. E che v’ha poi di tanto arduo in esse? Se sono secondo
natura, pigliane piacere, e ti diverranno facili ; se sono contro natura,
vedi tu che cosa è secondo la tua natura, e a quello attendi,
ancora che sia senza gloria. È sempre degno di scusa chi va in traccia
del proprio bene. Donde sia venuta ciascuna cosa, di che elementi
sia composta, ed in che si trasformi, e qual divenga trasformata, e
siccome non è per soffrire alcun male per la trasformazione. E in
primo luogo,* quale rela- [Sottintendi: Considera] [Sottintendido
considerare, o altra zione io abbiaceli essi e come siam nati gli
uni per gli altri, ed io, per altri rispetti sono nato per essere
loro guida, come l’ariete della greggia e il toro deir armento. Risali
più in alto: se gli atomi non sono, la natura è quella che governa
l’uni- verso ; e se questo è, gli esseri meno perfetti sono nati
pei più perfetti, e questi gli uni per gli altri. Quali essi sono a
mensa, a letto, negli altri momenti della vita. E massimamente a che
sorta di azioni siano necessitati per le credenze che essi hanno, e con
quanta presun- zione di sapere fanno essi ciò che fanno. Che
se essi fanno ciò a buon diritto, e’ non ti bisogna avertelo a male
; se a torto, essi il fanno indubitatamente malgrado loro, non sa- pendo
quel che si fanno. Perciocché frase cotale ; e cosi al principio di
ciascuno degli otto capi seguenti. siccome è involontaria negli
uomini la privazione del vero, così involon- tario è ancora il non
portarsi verso altrui secondo le norme del giusto: il che provano
collo adirarsi quando sono chiamati ingiusti, ingrati, cu- pidi
dello altrui, o rei di qualsivoglia colpa verso il vicino. Che tu ancora
pecchi non di rado, e sei pur uno del numero loro; e se da certi
peccati ti astieni, hai nondimeno la disposizione a com- metterli,
benché, sia per difetto di audacia, sia per vanità o per altro cotal
vizio, tu noi faccia. Ancora, che tu non sai di certa scienza che
essi pecchino: perchè molte azioni, che paiono malvage si fanno talora
a fin di bene o per meno male: e ad ogni modo è me- stieri sapere
di molte cose a poter sentenziare convenientemente sulle azioni
altrui. 6® Quando senti che sìa per occuparti r ira od anche solo
l’ impazienza ; che la vita umana dura un mo- mento, e poi saremo tutti
sotterra. Che non sono le azioni loro quelle che ti turbano,
standosi quelle nei loro autori, ma bensì le nostre opinioni.
Adunque togli via, sappi rimovere da te il concetto che tu fai di
quelle, e l’ ira se ne andrà parimente. E come rimovere quel
concetto ? Col considerare che le azioni altrui non hanno nulla di
dis- onesto per te. Che se il male tutto non consistesse nella sola
disonestà dell’agente, di necessità peccheresti tu ancora, e
saresti tu pure assas- sino, e macchiato di ribalderie d’ogni
forma. Siccome le ire, i rammarichi intorno a siffatte cose
arrecano seco troppo più gravi danni che non siano quelli di che ci
adiriamo e ramma- richiamo. Che r amorevolezza è
sempre vittoriosa, quando sia schietta, e non sia una affettazione o
una parte che tu reciti. E in vero che ti può egli fare 1’ uomo il
più iracondo e inso- lente, se tu ti mostri a lui tuttavia
amorevole e se, venendo il caso, tu lo ammonisci cortesemente e cerchi
di farlo ricredere in quel tempo me- desimo che egli intende ad
offen- derti? No, figliuol mio; noi siamo nati ad altro. A me tu
non nuoci; a te bensì, figliuol mio. E gli dimostri e fai toccar con
mano che la cosa sta COSI universalmente; e come nè le pecchie si
comportano in quella guisa, nè alcun altro ani- male che sia nato a
vivere in co- munanza. Le quali cose vogliono es- ser dette senza
ombra alcuna di ironia nè di rimprovero, ma bensì con amorevolezza,
e senza amaritu- dine alcuna nell’animo; nè ancora come si
direbbero da un maestro in iscuola, nè per farsi ammirare dai
circostanti; ma da solo a solo, e se v’ha altri presente, *
Di questi nove capi fa’ che tu ti ricordi come se tu li avessi
ricevuti in dono dalle muse; e incomincia pure una volta ad esser
uomo men- tre hai vita.* E’ ti conviene ad un tempo guardarti dallo
adulare gli uomini non mejio che dallo adirarti contro di essi:
perchè le sono cose egualmente antisociali e nocive. Quando ti
sentirai provocato all’ira, ti occorra alla mente questo pen-
siero: non esser punto cosa virile lo adirarsi ; ma anzi la pacatezza,
la mansuetudine, siccome sono cose più umane, così sono anche più
vi- rili ; e che la costanza, il vigore, la fortezza sono nel
mansueto, non in [Ornato collo Schultz, anzi più riso- Intamento
che lo Schultz, stimò che qui il testo fosse manchevole. Seneca, De ira, 111,43, disse. Humanitatem
colamns, dnm inter homines snmus. »
chi si adira o s’impazientisce. Per- chè più quegli si avvicina
alla im- passibilità, tanto più partecipa della forza; laddove l’
ira, siccome il do- lore, è propria del debole : lo adirato e lo
addolorato furono egualmente piagati e ambidue cedettero egual-
mente. E un decimo ricordo ancora ricevi, se vuoi, dal Musagete: *
essere da pazzo il volere che i malvagi non pecchino, perch’ egli è
un voler l’im- possibile. Il voler poi che essi por- tinsi da pari
loro verso tutti gli altri e noi facciano con te, è da stolto e da
tiranno. Contro quattro specie di de- terminazioni* della parte tua
prin- cipale ti bisogna sopra tutto stare in guardia, e tosto che
una ti venga [Conduttor delle muse, o Apollo, o se vuoi.
Ercole. Piuttosto quello che questo. Vedi il Gatakero] nsieri, moti,
determinazioni, volon- avvertita, cancellarla, ragionando teco
medesimo intorno a ciascuna di esse in questa guisa : Intorno a
quelle della prima specie : questo pensiero non è necessario.
Intorno a quelle -della seconda : questo pen- siero tende a
sciogliere la società. Intorno a quelle della terza: tu stai ora
per dire cose che intimamente non credi: e il dir cose che inti-
mamente non credonsi è da essere annoverato fra le massime assurdi-
tà. Intorno a quelle finalmente del- la quarta specie, rampognerai te
medesimo dicendo: tu lasciasti che fosse vinta la parte più divina
di te, e sottoposta a quella che è men nobile e mortale, cioè a
di- re al corpo e ai grossi piaceri di quello. Quattro cose da prevenire
od allontanare. Pensieri inutili oziosi. Volontà od azioni ingiuste, dove
sono anche compresi i moti di irascibilità; Quanto è in te di aereo
e di igneo, benché abbia naturale ten- denza ad innalzarsi,
acconciandosi nondimeno all’ordinamento del tutto si rimane quaggiù
nel tuo corpo. E similmente le parti terree é le acquo- | se, benché
tendano naturalmente allo ' ingiù, tengonsi non pertanto solle-
vate ed erette in una forma che non é loro naturale : tanto anche gli
ele- menti sono obbedienti alla legge dell’ universo, e facendo
forza a sé medesimi serbano costantemente il posto in che furono
collocati, finché da quella medesima legge sia dato il segno dello
scioglimento. Ora non é egli singolarmente strano che sola la parte
intelligente dell’ esser tuo non voglia obbedire e si rammarichi
del posto che le fu assegnato? e pure nulla di violento le è
comandato [Disaccordo della mente e delle parole; cioè falsità
voluta, o non avvertita. Moti di concupiscenza], ma cose soltanto che sono secondo
la natura di lei. Con tutto ciò non vi si vuole acconciare, e vuole
andare a ritroso. Perchè le ingiu- stizie, le dissolutezze, l’ira, la tristezza,
il timore, sonò tutti moti a ritroso della natura. E ancora allor-
quando r anima non s’ acconcia di buon grado agli avvenimenti, ella
abbandona il suo posto, essendo ella stata instituita alla santità,
alla pietà, non meno che alla giustizia, poiché quelle non meno di
questa fanno parte della sociabilità : chè anzi gli atti di
giustizia succedono piuttosto (-he non precedano a quelli della
pietà e della santità. Intendi la pietà religiosa, o la pietà verso Dio o
la natura, che è tutt’uno presso gli stoici, e non dimenticare che il
rasse- gnarsi volentieri a tutti i casi esteriori, è atto religioso
appo gli stoici. Cioè Tnomo ha relazioni con Dio prima che con gli
nomini, e le sue relazioni con questi hanno per fondamento le sue relazioni
con quello. Chi non ha sempre il medesimo proposito, il medesimo istituto
di vita, non può essere in tutta la vita il medesimo uomo. Ma ciò
non basta se non aggiungi ancora quale esser debba questo proposito
o isti- tuto di vita. Perchè siccome non di tutti quelli che al
volgo paiono beni è invariabile negli uomini il giudizio, ma di
quelli soltanto che sono univer- sali e comuni; ' così lo scopo
comune e civile dell’ umana famiglia, è quello che l’uomo dee
proporre a sè stesso. Colui adunque il quale indirizzerà a questo
scopo comune l’esercizio di tutte le sue facoltà, quegli farà che
tutte le sue azioni sieno fra loro somiglianti, e per tal guisa sarà
egli costantemente il medesimo uomo. Intendi che T idea del bene
privato varia nella stessa persona, secondo che varia la
sensibilità; laddove l'idea del bene pubblico è costante e invariabile,
siccome quella che dipende solo dalla ragione, la quale non varia. Rammenta
il topo di monta- gna e il topo di casa, e lo spavento - di questo
e il correre precipitoso.' Socrate chiamava befane le
credenze del volgo, spauracchi di fanciulli. I Lacedemoni nella loro
solen- nità ponevano pei forestieri i sedili all’ ombra, ed essi
sedevano dovunque. A Perdicca, che gii chiedea perchè non
andasse a lui, Socrate rispondea, Per non morire di pes- sima morte
» cioè a dire, « per non ridurmi alla condizione di non poter
ricambiare beneficii eh’ io avessi ricevuti.
Nelle lettere degli Epicurei era una esortazione all’ aver sempre
pre- sente al pensiero alcuno di quelli antichi che praticarono la
virtù. I Pitagorici prescriveano che [Gli interpreti allegano
Orazio, sat. VI, lib. II. Ma riscontra in Esopo, fav. 301. Ogni giorno di buon mattino si do-
vesse volgere gli sguardi al Cielo, affinchè per la contemplazione
di quelli esseri che sempre percorrono le medesime vie e sempre
compiono a un modo il loro ufficio, l’ uomo avesse ad ìfver sempre
vivo in sè il pensiero dell’ordine, della purità e della nudità.'
Perchè le stelle non hanno velo che le ricovera. Qual fu a vedere Socrate
cinto di una pelliccia, allorché uscì fuori Santippe colla veste di
lui ; e le cose che egli disse agli amici i quali arrossivano e si
ritraevano indietro, vedendolo assettato in quel modo. Nell’arte dello
scrivere nè in quella del leggere non puoi essere maestro se prima
non fosti discepo- [Il diligentissimo ed ernditissimo
Gatalcer non seppe egli pnre trovare qual fosse il caso particolare
della vita di Socrate, e il detto di Ini, ai quali fa qui allusione
Antonino. Meno amcora lo potrai nell’arte (Iella vita. Sei
servo, a te concesso favellar non è. Ed il mio cor ne rise. E la virtute
Àccuseran con rigido parole. Pazzo chi vuole aver fìchf di
verno; pazzo ancora chi desidera aver iigliolanza quando non è più
tempo da ciò. Quando tu baci un tuo figliuolo, esortava Epitteto, fa' che
tu dica teco medesimo : domani sarà forse morto. Cattivi augurii,
cotesti. Nulla è cattivo augurio di ciò che accenna ad un effetto
naturale. Agresto, uva, zibibbo, tutte [Nei testo è un verso
iambico di autore incognito a noi. È la fine del verso 413, lib. I dell'Odissea.
Nel testo è un verso esametro che ha qualche somiglianza con un
verso di Esiodo mutazioni ; non dall’ essere al non essere, ma dall’
essere ciò che è all’ essere ciò che ora non è. Assassini della
volontà non ci sono ; sentenza di Epitteto. Diceva ancora (Epitteto) dovensi
procacciare V arte dello assen- tire ; stare all’ erta coi moti
della volontà, affinchè tutti sieno condi- zionali, sempre
indirizzati ad un fine, al bene universale, sempre propor- zionati in
intensità al valore intrinseco delle cose; astenerci in tutto dalla
appetizione, e non dare luogo mai all’ avversione per cose che non sieno
in nostra potestà. Piccolo adunque, diceva egli, non è il frutto
della vittoria o il danno della sconfìtta ; ma l’ esser savio, o r
esser pazzo. 39. Socrate dicea: che volete voi! Vuol dire
Antonino che il libero eser- cizio della volontà non può esserci tolto
da nìssuna forza esteriore. avere anime di animali ragionevoli,
0 di irragionevoli? Di ragionevoli. Di quali ragionevoli? di sani o
di corrotti? Di sani. Perchè dunque non le cercate? Perchè già le
abbiamo. Perchè dunque batta- gliate fra voi e siete discordi? Anche il
Gataker non potè trovare da quale opera socratica abbia tratto
Antonino questa argomentazione: ma moltissimi scritti della scuola socratica
non abbiamo più noi, i quali esistevano ai tempi di Marco nostro. Tutte quelle cose, alle quali tu . studi
di pervenire per mille andiri- vieni, tu puoi avere immediatamente,
se tu non vuoi male a te stesso. E ciò sarà, se tu metti da banda il
pas- sato e lasci alla Provvidenza la cura del futuro, e attendi
solo ad usare il presente, secondo le norme della santità e della
giustizia: della san- tità, coir accettare volonterosamente i casi
tutti che ti intervengono, es- sendo essi dalla natura prodotti per
te, e tu per essi; della giustìzia, col dire liberamente e senza ambagi
la verità e far ciò che è con- forme alla legge e alla dignità
delle l'ose,’ non lasciandoti frastornare mai nè da malizia
altrui, nè da opinione, nè da discorso di chi che sia, nè da
affezione veruna di quel corpicciuolo che ti è venuto crescendo all’
intor- no : sta a lui che è il paziente a pen- sarci. Or dunque,
prossimo o lontano sia per essere il termine della tua vita, se tu,
deposto ogni altro pen- siero, non attenderai che ad onorare la
parte principale e divina dell’ os- sei’ tuo, e tuo solo timore sarà,
non già di dover cessare quando che sia di vivere, ma di non aver
per anco incominciato a vivere secondo natu- ra; tu sarai uomo
degno del mondo che ti ha generato, non sarai più [Le prescrizioni
della l^igge sono gene- rali ; la dignità delle cose esteriori
serve di guida nell' applicazione della legge. Ta altro modo si
potea dire : « ciò che è confor- me alla legge nelle circostanze
particolari in che ti’ trovi.» Ma quello è più stoica- mente detto.
Per dignità delle cose intendi il loro va- lore ret»tivo.
straniero nella tua patria, non ti maraviglierai più di ciò che
accade tutto dì come di cosa insolita; non sarai più dipendente da
chi nè da che che sia. Iddio vede tutte le menti de- nudate di
questi vasi materiali e involucri e sudiciumi. Quelle solo egli attinge
colla pura sua intelligenza, le quali da lui scaturite sono deri-^
vate in essi. Se ti avvezzi a far tu pure il medesimo, tu avrai meno
di molte distrazioni e perturbazioni. Perchè chi non guarda all’
involucro della carne, si lascierà egli turbare o distrarre alla
vista dell’abito, o delle case, o della riputazione, o di altri
cosi fatti involucri e addobbi? Di tre cose sei composto: il
corpicciuolo, il soffio vitale e la mente. Delle quali le due prime
non sono tue se non in quanto tu hai a prenderne cura; la terza,
questa sola è tua veramente. Laonde se tu rimovi da te, o per dir
più proprio dal tuo pensiero, tutte le cose che altri fa e dice in
presente, e le pas- sate che tu facesti e dicesti, e le future
delle quali 1’ aspqttamento ti turba, e quelle che riferendosi al
corpo onde sei circondato e al soffio vitale congenito con esso, sono
in te involontarie, e quelle che il vor- tice di fuori va agitando
intorno a te, si che pura e sciolta da ogni esterna fatalità la
potenza intellet- tiva se ne viva libera da sè, ope- rando il
giusto, avendo caro ogni evento qualsiasi, e dicendo il vero; se,
dico, tu rimovi da codesta parte dell’ esser tuo tutto ciò che
presen- temente le sta come a dire appiccato per mezzo dello
appetito sensitivo, e tutto r avvenire e tutto il passa- to, e ti
fai siccome quella di Empedocle da GIRGENTU ri tonda Sfera che
posa e in suo posar s’ appaga, e attendi solo a vivere quel tempo che
vivi, cioè il presente; ti verrà fatto di passare tranquillamente, nobilmente
e in pace col genio tuo, quello che ti rimane ancora insino al
morire. Soventi volte mi sono maravi- gliato che ciascuno arai sè
stesso più che non arai qualunque altro uomo, e faccia poi minor
conto dei propri giudizi intorno a sè medesimo, che di quelli degli
altri.' Per- chè se a taluno fosse da un Dio che gli apparisse, o
da qualche savio maestro comandato che non pen- sasse e non
volgesse nulla in mente che tosto, appena ne fosse conscio '
Anche i Pitagorici, benché non ne fa- cessero nn precetto assoluto,
raccomanda- vano che ciascuno avesse massimamente rispetto a sè medesimo,
cioè ai propri giudizi intorno a sè stesso. Tra i versi dorati at-
tribuiti a Pitagora, ecco la traduzione di quello che compendiosamente
esprime la detta raccomandazione. Più che di chiunque altro abbi vergogna
di te ste.««so. » a sè stesso, noi
manifestasse; noi sosterrebbe pure un solo giorno. Tanto abbiamo
noi maggiore rispetto a ciò che di noi potrà pensare il vicino, che a ciò
che ne pensiamo noi stessi. Come mai avendo gli Dei propizi all’uomo
ottimamente ordinato ogni cosa, questo solo lasciarono passare
inavvertito, che anco i migliori fra gli uomini, quelli i quali
entrarono, sto per dire, in più stretta alleanza colla divinità, e per la
pietà e santità loro vissero in più intimo commercio con essa,
quando una volta sian morti, non abbiano più mai a rivivere, ma
sieno spenti per sempre? Se tale è veramente la condizione di tutti
gli uomini indi- stintamente, abbi per indubitato, che ove avesse
dovuto essere altrimenti, avrebbero gli Dei altrimenti ordinato : perchè
se un ordine diverso fosse stato giusto, sarebbe anche Stato
possibile ; e se fosse stato secondo natura, la natura lo avrebbe recato
ad effetto. Ora dal non essere le cose in questi termini, supposto
che veramente non sieno, tu hai a trarre argomento che non dovea essere
altrimenti da quello che è. Per- chè tu vedi pure che mentre tu vai
facendo queste investigazioni, tu . disputi del diritto con Dio; la
qual cosa non faremmo con gli Dei, se essi non fossero ottimi e
giustissimi ; e tali essendo, non possono aver mai tollerato nè
lasciato correre inavvertitamente nell’ ordinamento del tutto,
nulla che fosse ingiusto 0 irragionevole. Vienti esercitando anche
in ciò a che tu credi aver poca attitudine. La mano sinistra, la
quale per difetto di esercizio è disadatta ad altri uffici, tiene il
freno più saldamente che noi faccia la destra, perchè a ciò fu
esercitata. In che stato debba essere l’uo- mo, e rispetto al corpo
e rispetto all’ anima, al sopraggiungere della morte ; ' la brevità
della vita, l’abisso del tempo passato e del tempo avvenire, la debolezza
di tutta la materia. Osservare le cause denudate della loro
corteccia; il fine delle azioni; che sia il dolore, che il pia-
cere, che la morte, che la gloria; chi sia quegli che è cagione di
tra- vagli a sè stesso; siccome nissuno è mai impedito da altrui; che
tutto è opinione. Nel far uso dei precetti della filosofia, fa’ di
rassomigliare piutto- sto al pugillatore che al gladiatore; perchè
questi, lasciata cadere la spada, vien morto ; ma quegli ha la
destra sempre, e non gli è mestieri d’altro che di chiudere e
scagliare il pugno. Sottintendi: contidera. Vedere quali sono le
cose in sè stesse, risolvendole nei loro elementi, la materia, la
causa, il fine. Che potere ha l’uomo ! di non fare se non ciò
solamente che Iddio sia per approvare, e di accettare tutto che
Iddio sia per inviargli. Ciò che è conforme alla natura. Non ti dolere
degli Dei, perchè gli Dei non peccano nè volon- tariamente nè
involontariamente; nè degli uomini, perchè gli uomini non peccano
mai se non malgrado loro. Di nessuno dunque ti devi doere. Quanto è
mai ridicoloso e nuovo colui che si maraviglia di al- cuna delle -cose
che accadono nella vita! In tutte le edizioni che io conosco
si incomincia con questa frase il paragrafo se- guente; ma non si
fa alt^o che guastarvi il senso. O necessità fatale e ordine di
cose impreteribile, o‘ provvidenza esorabile, o confusione a caso e
senza governo. Se necessità inflessibile *, a che resisti? Se
provvidenza esora- bile ; fa’ che tu sia degno dell’ aiuto divino.
Se confusione senza governo; pur beato che in tanta tempesta tu hai
dentro di te una mente governatrice. Che se la bufera ti rapisce seco, rapisca
a sua posta il corpicciuolo e la parte animale di te e cotali altre cose;
non potrà rapir seco la mente. Che ? il lume della lampada,
fmch’ ella non si estingue, risplende e non perde della sua luce; e in
te, prima che la vita si spegneranno la verità, la giustizia, la
temperanza? Quando altri ti dà materia a supporre che egli abbia
permeato, di’ teco stesso : come so io che ciò sia un peccato? E se
è peccato, ch’egli non siasi già condannato da per sè? il che h come
nn graffìarsi il pro- prio volto. ' Pensa ancora che il non volere
che il dappoco erri, è un non volere che il fico acerbo abbia lattifìcìo,
che i bambini vagiscano, che il cavallo annitrisca, ed altri simili
effetti naturali e necessari. E che può egli fare in cotale disposizione?
Se tu sei da tanto, incomincia a curar quella. Se non è giusto, noi fare;
se non è vero, noi dire : perchè la tua volontà è libera. Esaminare
in ogni incontro che è la cosa che fa impressione in te, ed
esplicarla distinguendovi la causa, la materia, il tempo entro il
quale avrà a cessare. Seneca, De ira. Nulla maior pccna neqnìtiie est-,
quiim quod sibi displicet. Con questo paragrafo finisco Pinterpro'
taziono lasciata dalPOrnato, la quale, tran- ne i luoghi indicati, io ho
fodcljnonto .seguita noi mio volgarizzamento dal § 42 del lib. VI,
Accorgiti finalmente che tu hai in te stesso alcun che di più
potente, di più divino che non sia ciò da cui si generano gli
affetti e che al tutto ti trac qua e là come per ima fu- nicella.
Che è ora la mia mente? Non è ella timore? Sospetto? Cupidità, 0 altra
cosa cotale? Primieramente nulla si faccia a caso, nè senza uno
scopo. Poi, nulla sia riferito ad altro fine che a quello universale
e civile di tutta l’umanità. Che in breve tu non sarai più, nè
alcuna delle cose che vedi, nè alcuno di quelli che ora vivono.
Per- chè ogni cosa nacque per alterarsi, mutarsi o morire, affinchè
altre possano nascere secondo l’ordine di successione. fin
qni. Quanto all' interpretazione dei pa- ragrafi che seguono, l'Ornato
lasciò sola- mente due otre note delle quali sarà parlato al loro
luogo. Che tutto è opinione, e questa è in poter tuo. Adunque togli
via, quando ti piaccia, l’opinione, e come navigante che appena
superato il passo di un promontorio, trovasi in acque tranquille;
così tu ti troverai in perfetta calma e, come a dire, entrato in un
seno non agitati) da .alcun flutto. 23. Una azione
qualsivoglia, quando cessa a suo tempo, non patisce al- cun male
per la cessazione. Ancora r autore dell’ azione, per la medesi- ma
cessazione, non patisce alcun male. Medesimamente il complesso, 0
vogliasi dire la serie di tutte le azioni, che è quanto dire la
vita, quando cessa a suo tempo, non pa- tisce alcun male per la
cessazione, , nè ancora chi cessa da questa serie di azioni,
soffre per ciò alcun male. Il tempo proprio poi è determinato dalla
natura: talvolta dalla natura .particolare, quando avviene
nella vecchiezza, ma ad ogni modo dalla natura dell’ universo: le
cui parti trasformandosi e rinnovandosi del continuo, ne segue che
sempre nuovo e sempre giovane si conserva nella sua totalità il
mondo. E bello sem- pre e tempestivo è ciò che profitta al tutto.
Adunque la cessazione della vita non è un male all’ uomo individuo,
poiché non è cosa disonesta, come quella che non dipende dal- r
arbitrio di lui, nè ripugna al fine universale e sociale della
umanità; ed è in sé stessa un bene, perchè è tempestiva e
profittevole al tutto e armonizzante con esso. E similmente è
divino r uomo che è mosso nella medesima direzione e verso i mede-
simi fini che Iddio, ed ha caro di essere mosso verso questi fini e
in questa medesima direzione. Tutto questo periodo è nel testo gre-
co oscurissimo e diversamente inteso dai comontatori. Chi è grecista vegga
nella Queste tre cose non dimenticare. In primo luogo, per rispetto
a ciò che tu fai, che nulla sia fatto a caso nè altrimenti che si
farebbe dalla giustizia in persona; e per rispetto agli avvenimenti
esteriori, sieno essi effetti del caso o della Provvidenza, che non
vuoisi mai nè incolpare il caso, nè mormorare con- tro la
Provvidenza. In secondo luo- go, qual sia ciascun vivente dal mo-
mento della fecondazione sino a quello della animazione, e da quello
della animazione fino a quello in cui cessa la vita,' e di che elementi
sia nota a questo paragrafo nell' edizione di To- rino le
ragioni della nostra interpretazione diversa da tntte le precedenti. Bene
ricorda qui Gatakero com'egli era opinione degli stoici il feto non
essere animato fino al momento in cui ^sce dal seno materno. Fino a
quel momento essi consideravanlo come parte del corpo della
iinadre, come un ramo vegetante sul tronco dell'albero a cui appartiene.
Abbiamo ve- duto (vedi la nota (26) in fine del volnme) composto e
in quali sia per risol- versi. In terzo luogo, che se tu levato in
altissima parte vedessi di là tutte le cose umane e la grande
varietà loro, e vedessi ad un’ ora quanta sia la moltitudine degli
es- seri aerei ed eterei che popolano gli spazi all’ intorno; per
quante volte che tu venissi cosi levato in alto, vedresti pur
sempre le medesime cose, la somiglianza ^ che sempre hanno fra loro e la
breve durata di tutte. Di cotali cose insu- perbisci?
25. Espelli da te T opinione, e sei salvo. Chi dunque ti impedisce
que- sta espulsione ? 26. Quando stai di mala voglia
per cagione di qualsisia cosa o persona, tu dimentichi che tutto
succede se- come gli stoici fossero ignoranti di anato- mia:
lo erano ancora più di fisiologia. Intendi le succedenti rispetto allo
antecedenti. condo la natura dell’ imiverso ; che l’altrui colpa è male
altrui; e inol- tre che le cose che avvengono sono sempre. avvenute
e sempre avver- ranno, e avvengono ora in ogni luogo al modo stesso; e
ancora tu di- mentichi quanto intima sia la pa- rentela che ha
ciascun uomo con tutta la famiglia umana : perocché non di sangue o
di seme, ma è co-^ munanza di mente. Tu dimentichi ancora che la
mente di ciascun uomo è divina e da Dio scaturita; che nulla è
proprio di nissuno, ma e il figlio- lino, e il corpicciuolo e
Tanimuccia stessa, tutto venne da quello. Tu di- mentichi
finalmente che tutto è opi- nione ; che ciascuno vive solo il mo-
mento presente, e perde solo il momento presente. Recati spesso al
pensiero co- loro i quali di alcun che fieramente adiraronsi,
coloro che per grandis- simi onori, o sventure, o inimicizie, o
altre fortune quali si fossero, di- vennero illustri ; poi- chiedi a
te stesso; ora dove sono? Fumo, ce- nere, languido romore di” fama,
o neppur questo. Poi ti occorrano alla mente tutti questi cotali ;
Fabio Ca- tullinOjin villa, Lucio Lupo negli .orti, Stertinio a
Baia, Tiberio nel- r isola di Capri, Rufo a Velia, e, per dire in somma,
tutte queste diverse inclinazioni verso checchessia gene- rate
dall’ opinione; e quanto sieno di poco pregio in sè medesime tutte
queste cose che con tanto studio si ricercano; e quanto sia più da
filo- sofo il saper far buon uso delle cir- costanze qualunque esse
sieno, o per dir più proprio, della materia quale ci è data, serbandoci
sempre giusti, temperanti e con semplicità obbedienti a Dio. Perchè
1’orgoglio dell’umiltà è di tutti il più abbomi- nevple. A colóro
che ti chiedono dove tu iibbia veduto gli Dei e donde avuto certa otizia
dell’ esser loro, perchè tu abbia a venerarli - rispondi
primieramente. Anche alla vista sono percettibili. E poi. Nè ancora la
mia mente veggo io, e nondimeno io l’ho in onore: e così da quelli
effetti che mi rivelano la loro potenza argomentando che essi sono,
venero io gli Dei. Salvezza di tutta la vita è il vedere ciascuna cosa
quale sia in sè stessa, quale la materia di essa, quale la ' causa
; e attendere con tutta r anima a operare il giusto e a dire il
vero. Poi, che ti rimane a faie, se non se godere della vita,
facendo senza ristare che un bene succeda Opportunamente avverto qui
il Gatakero come Antonino potesse, stoicamente, dire benissimo, gli
Dei essere visibili anche al- r occhio, poiché il mondo
primieramente era per essi il Dio supremo; e poi fra gli Dei
generati essi veneravano il sole, gli astri, gli elementi eo.
immediatamente ad un altro, non lasciando fra due neppure un menomo
intervallo? Una è la luco del sole, ancora che divisa all’ infinito da
pareti, da •monti, da altri obbietti innumerevoli. Una è la materia
comune, ancora che divisa in una moltitudine innu- merevole di
corpi, ciascuno dei quali ha le proprie qualità. Una è la vita,
ancora che distribuita in una molti- tudine innumerevole di nature particolari.
Una è r anima intelligente, ' ancora che sembri divisa in tante
unità. Ora tutte le altre cose sopra- scritte, esseri organici viventi ed
es- seri privi di vita; non hanno comunanza. [Intendi: Quando tu sia ben
risolato di non attendere ad altro chò ad operare il giusto e a
dire il vero, non avrai più briga alcuna, e non avrai che a godere della
vita; il qual godimento consiste appunto nel dire il vero e
praticare la giustizia; e il godi- mento .sarà continuo, se tu non cessi
un momento dalle azioni virtuose che sono il vero bene. nanzà fra
loro nè corrispondenza alcuna di sensibilità, sebbene anche ad esse
il respirare e il gravitare verso un centro sia a tutte comune.’ Ma
alla mente è proprio il tendere verso ciò che le è congenere, e con
• esso ella si unisce, nè può essere esclusa da lei questa
corrispondenza di affetti e di sensi. Che brami? Campare? Non
questo. Che dunque? Aver sensazioni, moto, incremento, appetiti? Far uso
della facoltà della parola, di quella del raziocinio? E che di tutto
ciò ti sembra degno da desiderare ? Se ciascuna di queste cose ti sembra
dunque in sè poco prege- vole, volgiti à quella che sola rima- ne,
al seguire la ragione e Dio. Ma a questo culto ripugna eh’ e’ ti
gravi [Il testo in questo luogo è certamente corrotto. Chi '
vuol vedere come sia stato emendato e quindi interpretato dair
Ornato in una lunga sua nota, ricorra all' Adizione di Torino] il
dover essere per la morte escluso dalle cose dette dianzi. Qual
particella del tempo infinito fu assegnata a ciascuno? Tosto perderassi
nell’eternità. Qual particella di tutfii la materia? Qual particella di tutta
l’anima? Sopra qual particella di tutta la .terra ti vai strascicando?
Questi pensieri ti ricordino che non hai a fare gran caso di nulla, fuori
l’operare se- condo che la natura ti guida, e tol- lerare tuttociò
che la natura comune ti arreca. Che uso fa di sè stessa la
mente? Questo è il tutto per te. Tutto il rimanente, sia o non sia
sottoposto alla tua volontà, è per te cadavere e fumo. 34. A
farti disprezzare la morte gioverà il pensare come anche coloro che
ebbero il piacere per un bene e il dolore per un male, non di meno
la disprezzarono. A colui al quale ciò solo che è tempestivo è un
bene, poco importandogli il maggiore o minor numero di azioni virtuose
che saràgli concesso di compiere, a colui, dico, la morte non ha nulla di
pauroso. L’ uomo, facesti le tue parti di cittadino in questa grande
città. Che rileva a te se per cinque o solo tre anni ? Ciò che è
secondo la legge, è giusto ed equo per tutti. Come puoi dunque
rammaricarti se sei rimandato, non da un tiranno, non da un giudice
iniquo, ma dalla natura che ti avea introdotto, non altrimenti che un
attore è rimandato dalla scena dal direttore della commedia che ve
lo avea chiamato? Ma io non ho recitato i cinque atti. Bene dicesti. Ma
nella vita anche tre atti bastano a compiere il dramma. Perciocché chi ne
determina il fine, è quel medesimo che allora fu autore della
plasmazione, cd ora ò della dissoluzione. Tu non fosti autore
nè dell’ una nè dell’altra. Vattene dunque in pace e contento, chè
quegli ancóra che ti accommiata è contento e propizio. Aurelio.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, "Grice,
Marc'Aurelio e Frontino,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
aosta– Grice:
“I like Aosta; my favuorite piece of his philosophising is strangely nott he
one on paronymy – or the worn-off paralogism on God’s existence; rather, the
more obscure “De casu primi angeli,’ on the fall of the most beautiful angels
of all! And more seriously – the previous ‘de casu diaboli’ – his rambles on
‘Dialectica’ – or dialettica, as the Italians prefer; you see axioma was Elio
Gelliio thinks in “Notti attiche’ – and Varrone – the ‘proloquium,’ from
‘proloquor’ of course – the ‘pro’ suggests something like a ‘prae-miss’ – This
is all very stoic, but we are not sure if Aosta knew this!” Grice: “Aosta would of course be familiar
with Augustin’s De Dialectica, where ‘proloquium’ means ‘pro-positio,’
something Quine abhorred!” -- Anselmo d'Aosta, noto anche come Anselmo di
Canterbury o Anselmo di Le Bec (Aosta, 1033 o 1034 – Canterbury, 21 aprile
1109), è stato un teologo, filosofo e arcivescovo cattolico franco, considerato
tra i massimi esponenti del pensiero medievale di area cristiana. Anselmo è
noto soprattutto per i suoi argomenti a dimostrazione dell'esistenza di Dio;
specialmente il cosiddetto argomento ontologico ebbe una significativa
influenza su gran parte della filosofia successiva. Nato da una nobile
famiglia di Aosta, se ne allontanò poco più che ventenne per seguire la
vocazione religiosa; divenne monaco nell'abbazia di Notre-Dame du Bec e, grazie
alle sue qualità di uomo di fede e fine intellettuale ne divenne presto priore,
e quindi abate. Si rivelò un abile amministratore e, avendo intrattenuto alcune
relazioni con il regno d'Inghilterra, all'età di 60 anni ricevette l'importante
carica di arcivescovo di Canterbury. Negli anni successivi, dapprima sotto il
regno di Guglielmo II, quindi di Enrico I, ricoprì un ruolo rilevante nella lotta
per le investiture che vedeva contrapposti i sovrani d'Inghilterra e il papato.
Grazie al suo lavoro politico e diplomatico, svolto in accordo con il programma
riformista gregoriano e finalizzato a garantire alla Chiesa l'autonomia dal
potere politico, la questione si risolse infine con un compromesso piuttosto
vantaggioso per i religiosi. La riflessione filosofica e teologica di
Anselmo, caratterizzata dal primario ruolo riconosciuto alla ragione
nell'approfondimento e nella comprensione dei dati di fede, si articolò su
diversi problemi: dimostrazioni a priori e a posteriori dell'esistenza di Dio,
indagini sui suoi attributi, analisi di questioni di dialettica e di logica
sulla verità e sulla conoscibilità di Dio, studio di problemi dottrinali come quello
circa la Trinità o quelli legati al libero arbitrio, al peccato originale, alla
grazia e in generale al male. Anselmo venne canonizzato nel 1163[2] e
proclamato dottore della Chiesa nel 1720 da papa Clemente XI
(1649–1721). Sant'Anselmo d'Aosta AnselmstatuecanterburycathedraloutsideUna
statua di Anselmo d'Aosta collocata all'esterno della cattedrale di
Canterbury. Arcivescovo di Canterbury, santo e dottore della
Chiesa NascitaAosta, 1033 o 1034 MorteCanterbury, 21 aprile 1109
Venerato daChiesa cattolica e Chiesa anglicana CanonizzazioneAutorizzazione
all'elevazione del corpo concessa da Papa Alessandro III nel 1163[1]
Ricorrenza21 aprile[1] Attributibastone pastorale[1] e nave. Anselmo
d'Aosta, noto anche come Anselmo di Canterbury o Anselmo di Le Bec (Aosta, 1033
o 1034 – Canterbury, 21 aprile 1109), è stato un teologo, filosofo e
arcivescovo cattolico franco, considerato tra i massimi esponenti del pensiero
medievale di area cristiana. Anselmo è noto soprattutto per i suoi argomenti a
dimostrazione dell'esistenza di Dio; specialmente il cosiddetto argomento
ontologico ebbe una significativa influenza su gran parte della filosofia
successiva. Nato da una nobile famiglia di Aosta, se ne allontanò poco
più che ventenne per seguire la vocazione religiosa; divenne monaco
nell'abbazia di Notre-Dame du Bec e, grazie alle sue qualità di uomo di fede e
fine intellettuale ne divenne presto priore, e quindi abate. Si rivelò un abile
amministratore e, avendo intrattenuto alcune relazioni con il regno d'Inghilterra,
all'età di 60 anni ricevette l'importante carica di arcivescovo di Canterbury.
Negli anni successivi, dapprima sotto il regno di Guglielmo II, quindi di
Enrico I, ricoprì un ruolo rilevante nella lotta per le investiture che vedeva
contrapposti i sovrani d'Inghilterra e il papato. Grazie al suo lavoro politico
e diplomatico, svolto in accordo con il programma riformista gregoriano e
finalizzato a garantire alla Chiesa l'autonomia dal potere politico, la
questione si risolse infine con un compromesso piuttosto vantaggioso per i
religiosi. La riflessione filosofica e teologica di Anselmo,
caratterizzata dal primario ruolo riconosciuto alla ragione
nell'approfondimento e nella comprensione dei dati di fede, si articolò su
diversi problemi: dimostrazioni a priori e a posteriori dell'esistenza di Dio,
indagini sui suoi attributi, analisi di questioni di dialettica e di logica
sulla verità e sulla conoscibilità di Dio, studio di problemi dottrinali come
quello circa la Trinità o quelli legati al libero arbitrio, al peccato
originale, alla grazia e in generale al male. Anselmo venne canonizzato
nel 1163[2] e proclamato dottore della Chiesa nel 1720 da papa Clemente XI
(1649–1721). Una targa a memoria di Anselmo è collocata sulla sua presunta
casa natale ad Aosta, via Sant'Anselmo.Anselmo nacque nel 1033[3][4] (o
all'inizio del 1034)[5] a[6] (o nei pressi di)[7] Aosta, allora parte del regno
di Arles[6] al confine con la Lombardia.[8] La sua era una famiglia
nobile, anche se in declino,[9] imparentata con la casa Savoia[10] e con ampi
possedimenti terrieri. Suo padre, Gundulfo (o Gandolfo),[11] era un longobardo,
apparentemente molto dedito agli affari e non particolarmente affettuoso verso
il figlio; sua madre, Ermemberga (o Eremberga),[11] apparteneva a un'antica
famiglia nobile burgunda ed era legata da rapporti di parentela a Oddone di
Savoia; risulta che fosse una madre di famiglia pia e virtuosa.[1][12]
Fin da bambino Anselmo espresse un forte sentimento religioso e un'altrettanta
forte sete di conoscenza; il suo biografo Eadmero di Canterbury riferisce che,
vivendo in una zona montuosa, il giovinetto si formò l'ingenua convinzione che
il paradiso, in cui Dio stesso doveva risiedere, si trovasse in cima alle
montagne.[12] Anselmo venne affidato a un istitutore, suo parente, che
però si rivelò tanto severo da produrre in lui uno stato di infermità, dal
quale guarì lentamente grazie alle cure materne. La sua educazione successiva
venne affidata ai benedettini di Aosta.[1] All'età di quindici anni Anselmo espresse
il desiderio di diventare monaco; il padre tuttavia, fermamente intenzionato a
fare del ragazzo il proprio erede, si oppose a questa decisione e i monaci del
convento locale, non volendo contrariare Gandolfo, respinsero la domanda di
Anselmo.[1][12] La delusione e la frustrazione per il rifiuto causarono
una forte reazione nel giovane, che, sempre secondo il biografo, pregò Dio di
ammalarsi in modo tale da impietosire i monaci e convincerli così ad
accoglierlo; una crisi psicosomatica effettivamente si verificò, ma questo non
bastò a far sì che Anselmo venisse accettato nel monastero.[12] In seguito
l'ardore religioso del giovane si raffreddò e, benché egli rimanesse
intenzionato a ottenere il suo scopo in un futuro più o meno lontano, poco alla
volta le passioni mondane lo coinvolsero e, soprattutto dopo la morte della
madre (che avvenne nel 1050),[5] si dedicò sempre più spesso a interessi di
carattere materiale.[12] Nel frattempo i suoi rapporti con il padre si facevano
sempre più tesi, e infine, all'età di ventitré anni,[8] Anselmo partì,
accompagnato da un servo, con l'intenzione di oltrepassare il colle del
Moncenisio alla volta della Francia.[1][12] Superate le Alpi, Anselmo e
il suo compagno girovagarono per tre anni tra la Burgundia e la Francia prima
di giungere ad Avranches, in Normandia, nel 1059;[8] qui Anselmo venne a sapere
dell'abbazia benedettina che era stata fondata a Bec nel 1034, dove insegnava
il famoso dialettico Lanfranco di Pavia; attirato dalla fama di Lanfranco vi si
recò, riuscendo nel 1060 ad esservi ammesso come novizio.[8][12] Il
ventisettenne Anselmo si sottometteva così alla regola benedettina, che nel
corso del decennio successivo ne avrebbe influenzato significativamente il
pensiero.[13] L'abbazia di Notre-Dame du Bec. Da Bec a Canterbury I
progressi di Anselmo negli studi furono rapidi e brillanti e il giovane entrò
presto nelle grazie del maestro, tanto che, quando nel 1063 Lanfranco venne
nominato abate dell'abbazia di Saint-Étienne di Caen, Anselmo (pur avendo intrapreso
la vita monastica da appena tre anni) venne eletto a succedergli quale priore
dell'abbazia di Bec.[12][14] Alcuni dei monaci più anziani, ritenendosi
maggiormente in diritto di ricoprire la carica di priore, si considerarono
offesi dalla sua promozione; tuttavia ben presto le sue doti di cortesia, il
suo senso della misura nel gestire la carica e le sue competenze di insegnante
gli valsero l'affetto di tutta la comunità monastica.[12] Nei quindici
anni in cui fu priore a Bec, diviso tra i doveri derivanti dalla sua carica e
l'aspirazione all'isolamento e alla contemplazione, Anselmo era solito rimanere
desto durante la notte, impegnato nella preghiera o nella scrittura. Risale
infatti a quegli anni (a partire dal 1070) l'inizio della sua attività di scrittore,
che aveva principalmente il fine di munire i suoi allievi all'interno del
monastero (ma anche alcune nobildonne laiche al di fuori di esso) di testi su
cui meditare e pregare.[15] La composizione di due delle sue opere teologiche
più rilevanti, il Monologion (Soliloquio) del 1076 e il Proslogion (Colloquio)
del 1078, avvenne proprio in quel periodo.[1][12] Nel 1078, alla morte
del fondatore dell'abbazia di Bec, Erluino, Anselmo gli succedette come abate
venendo consacrato il 22 febbraio 1079 dal vescovo di Évreux.[16] Fu con
riluttanza che Anselmo accettò la carica, che avrebbe comportato ulteriori
responsabilità e doveri sottraendogli tempo alla riflessione e alla
preghiera;[12] la resistenza di Anselmo fu vinta dalle insistenze unanimi dei
confratelli.[1] Anselmo fu molto apprezzato come abate per via del suo
acume, della virtuosità con cui conduceva la sua vita e della sua capacità di
rapportarsi con gentilezza con tutti dentro e fuori il monastero;[1] la nuova
carica lo portò a stringere rapporti con l'Inghilterra, dove l'abbazia normanna
aveva alcuni possedimenti; viaggiò fino a Canterbury, di cui Lanfranco era
diventato arcivescovo nel 1070, ed ebbe modo di farsi conoscere e apprezzare
dalla nobiltà e dalla corte inglesi,[1][12] oltre che dallo stesso re Guglielmo
il Conquistatore;[11] divenne così il candidato naturale a succedere a
Lanfranco come arcivescovo di Canterbury.[17] Anselmo fu anche costretto a
battersi per conservare l'indipendenza dell'abbazia di Bec dalle autorità
civili ed ecclesiastiche.[18] Nonostante la rilevanza dei suoi impegni di
amministratore e di guida, e la puntualità con cui li assolveva, Anselmo rimase
per tutta la vita innanzitutto un intellettuale:[3] nel periodo in cui fu abate
di Bec portò avanti una significativa attività pedagogica e didattica e, tra il
1080 e il 1085, compose il De grammatico (Sul significato della parola
"grammatico") e i tre dialoghi sulla libertà, il De veritate (Sulla
verità), il De libertate arbitrii (Sulla libertà della volontà) e il De casu
diaboli (La caduta del diavolo).[19] Sotto Anselmo, Bec divenne uno dei centri
di studio e insegnamento più importanti d'Europa, attirando studenti da tutta
la Francia, dall'Italia e da altri Paesi.[20] La cattedrale di
Canterbury, sede dell'arcivescovato di Canterbury, in un'incisione del 1821.
Quando, nel 1089, morì Lanfranco di Pavia, Guglielmo II d'Inghilterra confiscò
i possedimenti e le rendite della sede arcivescovile di Canterbury e si astenne
dal nominare un successore di Lanfranco.[12] Anselmo, che pure desiderava
tenersi lontano dall'Inghilterra per non far pensare che aspirasse al ruolo
vacante di arcivescovo di Canterbury, accettò l'invito di Ugo d'Avranches a
recarsi oltremanica nel 1092.[12] Fu costretto a trattenervisi per quasi quattro
mesi, e in un'occasione, giungendo in Canterbury alla vigilia della Natività
della Beata Vergine Maria, venne salutato entusiasticamente dalla folla come
prossimo arcivescovo; quando ebbe esaurito i suoi impegni, il re gli negò il
permesso di rientrare in Francia.[12] Nel 1093, però, Guglielmo cadde
gravemente malato ad Alveston e, desideroso di fare ammenda per la condotta
peccaminosa alla quale attribuiva la causa del suo male,[21] ordinò che Anselmo
venisse nominato arcivescovo di Canterbury all'inizio di marzo.[11][22]
Nei mesi successivi, tuttavia, Anselmo tentò di rifiutare la carica sostenendo
di non essere adatto, in quanto monaco, a occuparsi di affari secolari[17] e
adducendo come scuse anche l'età e alcuni problemi di salute.[6] Il 24 agosto Anselmo
sottopose a Guglielmo le condizioni alle quali avrebbe accettato
l'arcivescovato (condizioni peraltro in linea con il programma della riforma
gregoriana): che Guglielmo restituisse le terre confiscate; che accettasse la
preminenza di Anselmo sul piano spirituale; che riconoscesse Urbano II come
Papa, in opposizione all'antipapa Clemente III.[23] Guglielmo era estremamente
riluttante ad accettare tali richieste e, benché la situazione favorisse
Anselmo, il re era disposto ad accondiscendere solo alla prima.[24] Arrivò al
punto di sospendere i preparativi per l'investitura di Anselmo, ma infine,
sotto la pressione della volontà pubblica, fu costretto a portare a termine
l'assegnazione della carica. Riuscì tuttavia ad accordarsi con Anselmo
raggiungendo un compromesso vantaggioso per la monarchia: la restituzione delle
terre rimase l'unica concessione fatta dal re all'arcivescovato.[25] Anselmo
ottenne dunque il consenso dei suoi ex confratelli ad essere dispensato dai
doveri che lo legavano all'abbazia di Bec, rese l'omaggio feudale a Guglielmo,
e il 25 settembre 1093 si insediò a Canterbury,[11] ricevendo le terre
precedentemente confiscate all'arcivescovato;[24] il 4 dicembre dello stesso
anno venne consacrato arcivescovo di Canterbury.[24] È stato messo in
dubbio che la riluttanza di Anselmo ad accettare la carica fosse sincera:
mentre studiosi come R. W. Southern sostengono che avrebbe davvero preferito
rimanere a Bec, altri, come Sally Vaughn, sottolineano che una certa
recalcitranza nell'accettare importanti posizioni di potere ecclesiastiche era
d'uso nel Medioevo, dal momento che se per esempio Anselmo avesse espresso il
desiderio di succedere a Lanfranco come arcivescovo sarebbe stato considerato
un ambizioso carrierista; inoltre, sostiene sempre Vaughn, Anselmo comprendeva
gli obiettivi di Guglielmo e agì in modo da ottenere i massimi vantaggi per il
suo eventuale arcivescovato oltre che per il movimento riformista
gregoriano.[26] Arcivescovo di Canterbury sotto Guglielmo II
Scena raffigurante Anselmo costretto quasi a forza ad accettare il bastone
pastorale, simbolo della carica di vescovo, da Guglielmo II d'Inghilterra
gravemente malato. Prima ancora della fine di quello stesso anno 1093 ebbe
luogo uno dei primi conflitti tra Anselmo e Guglielmo: il re era in procinto di
avviare una spedizione militare contro suo fratello maggiore, Roberto II di
Normandia, e avendo bisogno di fondi aspettava una donazione dall'arcivescovo
di Canterbury;[27] Anselmo mise a disposizione 500 sterline, che il re rifiutò
chiedendo una somma due volte maggiore.[12] Più tardi, un gruppo di vescovi
convinse Guglielmo ad accettare la cifra originale, ma Anselmo fece loro sapere
di aver già donato il denaro ai poveri.[11] Quando si recò ad Hastings
per benedire la spedizione che si accingeva a salpare per la Normandia, Anselmo
rinnovò le pressioni volte a tutelare gli interessi di Canterbury e della
Chiesa inglese, oltre che, più in generale, a riformare il rapporto tra Stato e
Chiesa[11] secondo la visione della «teocrazia pontificia» espressa da papa
Gregorio VII:[28] Anselmo concepiva la Chiesa come un'entità universale, con la
sua autonomia e autorità, dalla quale lo Stato doveva dipendere per la sua
missione e per la sua investitura;[29] questo andava in direzione opposta
rispetto alla visione di Guglielmo la quale, in continuità con quanto già
sostenuto dal suo predecessore, attribuiva al re il controllo sia sullo Stato
che sulla Chiesa.[11][30] La figura di Anselmo, in effetti, è vista dagli
storici tanto come quella di un monaco assorto nella contemplazione quanto come
quella di un politico intelligente e capace, determinato a conservare i
privilegi della sede episcopale di Canterbury.[31] Nuovi attriti sorsero
subito dopo, quando, come era tradizione, Anselmo avrebbe dovuto ottenere il
pallio dalle mani del Papa per rendere definitiva la consacrazione: in quel
periodo, infatti, la legittimità di papa Urbano II era messa in discussione
dall'antipapa Clemente III. Quest'ultimo, nel 1074, aveva rifiutato esplicitamente
l'autorità di papa Gregorio VII e, con il supporto di Enrico IV di Franconia,
si era fatto eleggere Papa nel 1080, venendo qualificato da coloro che rimasero
fedeli a Gregorio e ai suoi successori come "Antipapa".[32] Guglielmo
vietò ad Anselmo di partire per Roma, dove si trovava la sede di Urbano II,
riconosciuto dal regno di Francia così come da Anselmo stesso; non sembra che
il re d'Inghilterra fosse incline a riconoscere l'autorità di Clemente III, ma
insisteva affinché la decisione dell'arcivescovo di Canterbury di partire per
Roma fosse subordinata al suo riconoscimento ufficiale di Urbano II,
riconoscimento che si faceva attendere. Per dirimere la questione venne
convocato a Rockingham, nel marzo 1095, un consiglio del regno in cui Anselmo,
tenendo un discorso che rimane una testimonianza memorabile della dottrina
della supremazia papale, ribadì la sua fedeltà a Urbano II come unico vero
successore di Pietro.[12] Il concilio nazionale di Rockingham, che fu un
momento di grande tensione tra i vescovi, i nobili e la monarchia
dell'Inghilterra, fu per Anselmo una vittoria morale, ma per il momento la
questione dell'investitura rimase insoluta.[11] Anselmo, allora, inviò in
segreto a Roma alcuni messaggeri.[33] Urbano II, in risposta, mandò a Canterbury
un suo legato, Gualterio di Albano, per consegnare il pallio ad Anselmo in sua
vece.[34] Guglielmo e Gualterio negoziarono in privato la questione, e infine
il re acconsentì a riconoscere Urbano II come Papa in cambio del diritto di
autorizzare o negare agli ecclesiastici la possibilità di ricevere lettere del
papato; ottenne inoltre che Urbano non gli inviasse più alcun legato se non su
esplicita richiesta. Guglielmo avrebbe anche voluto che Anselmo venisse
deposto, ma finì per riconoscere l'autorità di papa Urbano II senza che ci
fosse alcun avvicendamento per la carica di arcivescovo di Canterbury. Il re
tentò allora di avere del denaro da Anselmo in cambio del pallio, ma senza
esito; cercò anche di ottenere di poter consegnare personalmente il pallio all'arcivescovo,
ma anche questo gli venne negato: si raggiunse un compromesso facendo in modo
che Gualtiero, in rappresentanza del Papa, deponesse l'oggetto sacro
sull'altare della cattedrale anziché consegnarlo ad Anselmo con le sue mani;
Anselmo indossò quindi da solo il pallio nel corso di una cerimonia solenne che
si tenne nella cattedrale di Canterbury nel giugno 1095.[35] Nei due anni
successivi non ci furono aperte dispute tra Anselmo e il re, anche se questi
fece del suo meglio per impedire che Anselmo portasse avanti una riforma della
Chiesa in senso gregoriano. Nel frattempo, nel 1094, Anselmo aveva ultimato la
composizione dell'Epistola de incarnatione Verbi (Lettera sull'incarnazione del
Verbo), il cui dedicatario era proprio Urbano II.[11] Nel 1097, dopo
l'insuccesso di una campagna militare diretta a sedare una rivolta in Galles,
Guglielmo accusò Anselmo di avergli fornito una quantità insufficiente di
truppe e gli ordinò di comparire presso il tribunale reale;[12] Anselmo rifiutò
e chiese al re di potersi recare a Roma per chiedere consiglio al Papa, ma ciò
gli venne negato.[36] Nel corso di un negoziato che si tenne a Winchester,
Anselmo venne messo di fronte a due possibilità: partire, ma in questo caso non
avrebbe più potuto fare ritorno al suo incarico di arcivescovo, o rimanere, ma
avrebbe dovuto pagare un risarcimento a Guglielmo e rinunciare a ogni ulteriore
appello a Roma.[36] Anselmo, deciso a difendere la visione di una Chiesa non
sottomessa ad alcuna autorità terrena,[30] scelse l'esilio, e nell'ottobre 1097
lasciò l'Inghilterra diretto a Roma.[12] Guglielmo si impossessò immediatamente
delle rendite della sede arcivescovile di Canterbury, anche se formalmente
Anselmo conservò la carica di arcivescovo.[37] Primo esilio Ritratto
di Anselmo nel Salone ducale del municipio di Aosta. Anselmo giunse a Cluny in
dicembre, e passò il resto dell'inverno a Lione, presso il suo amico Ugo di
Romans; nella primavera del 1098 riprese il viaggio, e attraversò il Moncenisio
in compagnia di due confratelli. All'arrivo a Roma, Anselmo fu salutato dal
Papa con grandi manifestazioni di stima e simpatia. Urbano II, che non voleva
essere coinvolto più del necessario nelle vicende che contrapponevano Anselmo a
Guglielmo II, non poté fare altro che indirizzare al sovrano inglese una
lettera di rimostranze e l'invito a reintegrare l'arcivescovo nella carica.[12]
Anselmo passò l'estate a Sclavia, presso il suo amico (già monaco a Bec e ora
abate del monastero di Telese) Giovanni di Telese; qui terminò la sua opera Cur
Deus homo (Perché Dio [si è fatto] uomo), che aveva iniziato in
Inghilterra.[11] Incisione della prima metà del XVI secolo
raffigurante Anselmo d'Aosta. Anselmo trascorse quindi un periodo presso Capua,
dove fu raggiunto da papa Urbano II. Questi, nell'ottobre 1098, indisse a Bari
un concilio destinato a risolvere una questione dottrinale posta dalla Chiesa
greca a proposito della processione dello Spirito Santo; più in generale, tra
gli obiettivi del sinodo era quello di ricondurre a una comune posizione
teologica i due grandi ceppi ecclesiastici venutisi a formare con lo scisma del
1054.[1] Ad Anselmo, che già si era espresso sull'argomento nell'Epistola de
incarnatione Verbi,[11] fu chiesto di partecipare alla discussione e il Papa
gli assegnò un ruolo importante nella disputa: espose infatti la posizione
della Chiesa latina, secondo la quale lo Spirito Santo procede tanto dal Padre
quanto dal Figlio, in modo così convincente da risolvere la disputa e
persuadere i rappresentanti della Chiesa greca[1] (i suoi argomenti in seguito
sarebbero stati raccolti nel testo De processione Spiritus Sancti, Sulla
processione dello Spirito Santo). Anche il caso individuale di Anselmo venne
sottoposto all'attenzione dell'assemblea, la quale avrebbe scomunicato Guglielmo
se non fosse stato per l'intercessione di Anselmo stesso.[12] Anselmo e i
suoi compagni, a questo punto, sarebbero volentieri rientrati a Lione, ma venne
loro ordinato di trattenersi in Italia per partecipare a un altro concilio, che
doveva tenersi a Roma verso il periodo di Pasqua del 1099. Durante questo
sinodo venne nuovamente ed energicamente sottolineata la posizione della Chiesa
contro l'investitura del potere spirituale da parte dei laici,[30] contro la
simonia e contro il concubinato dei religiosi.[1] A Roma si verificarono
ulteriori attriti tra Urbano II e Guglielmo di Warelwast, rappresentante di
Guglielmo II d'Inghilterra, con nuove minacce di scomunica al re se Anselmo non
avesse riottenuto la sua carica; tuttavia, ancora una volta, la questione venne
rimandata e, a causa della morte di Urbano in luglio, rimase di fatto
insoluta.[11] Infine, nel corso dello stesso anno 1099, Anselmo poté
tornare a Lione; durante il soggiorno in questa città portò a compimento il
trattato De conceptu virginali et originali peccato (Sull'Immacolata Concezione
e sul peccato originale) e la Meditatio de humana redemptione (Meditazione
sulla redenzione dell'uomo).[11] Ritorno in Inghilterra sotto Enrico I
Guglielmo II rimase ucciso durante una partita di caccia il 2 agosto dell'anno
1100. Gli succedette il fratello minore, Enrico I, il quale invitò Anselmo a
tornare in Inghilterra e si impegnò a farne un suo consigliere.[38] Enrico
cercava di ottenere l'appoggio di Anselmo nella propria rivendicazione del trono,
a discapito, tra gli altri, del fratello maggiore Roberto. Di ritorno, in
settembre, Anselmo fu accolto con calore, ma il problema delle investiture si
pose subito e in modo grave: il re, che pure inizialmente era stato del tutto
conciliante, esigeva che Anselmo gli rendesse l'omaggio feudale[39] e che si
assoggettasse a ricevere da lui l'investitura ad arcivescovo di Canterbury.[40]
Anselmo non poteva tuttavia sottomettersi a queste richieste, dal momento che
il papato (proprio con il recente concilio di Roma) aveva vietato agli
ecclesiastici di rendere l'omaggio ai laici e di ricevere da questi
l'investitura a cariche religiose.[12] Enrico e Anselmo inviarono
messaggeri a Roma a richiedere un'esenzione che consentisse al re di investire
personalmente l'arcivescovo e di ottenerne l'omaggio.[12] Nel frattempo i due
riuscirono a collaborare: Anselmo contribuì a rimuovere gli ostacoli al
matrimonio di Enrico con Matilde di Scozia, l'erede dei sovrani di Sassonia,
ostacoli dati dal fatto che Matilde era entrata in convento per qualche tempo
pur senza prendere i voti; diede poi la sua personale benedizione a tale
matrimonio[12] e rimase sempre in contatto epistolare con la nuova regina.[11]
Inoltre, mentre l'Inghilterra era minacciata d'invasione da parte delle truppe
di Roberto II di Normandia, Anselmo si schierò pubblicamente a favore di Enrico
e, minacciando Roberto e i suoi sostenitori di scomunica, contribuì a volgere
la situazione in favore del sovrano inglese, causando la ritirata del
rivale.[12][41] Papa Pasquale II, succeduto a Urbano II, non era
intenzionato a derogare ai divieti del suo predecessore riguardo
all'investitura da parte del potere laico e l'omaggio feudale.[41] Un nuovo
gruppo di legati (due uomini di Anselmo e tre di Enrico) lasciò l'Inghilterra
diretto verso la sede pontificia, nonostante alcuni ritardi dovuti all'impegno
del re nel sedare la rivolta di Roberto II di Bellême; al loro ritorno i legati
di Enrico, pur recando una lettera che continuava a sostenere le posizioni
iniziali del pontefice, affermarono che Pasquale aveva acconsentito a
un'eccezione nel caso di Enrico e Anselmo e che non aveva messo per iscritto
questa decisione onde evitare di offendere gli altri sovrani europei. Tutto ciò
fu però negato dai legati di Anselmo, il quale continuò a rifiutarsi di
consacrare i vescovi investiti dal re.[11] Enrico chiese allora ad Anselmo di
recarsi a Roma personalmente e questi, pur conscio di essere prossimo a un
nuovo esilio, decise di partire per discutere la questione con il Papa.[12]
Accompagnato dal funzionario del re Guglielmo di Warelwast, Anselmo lasciò
l'Inghilterra il 27 aprile 1103.[11][42] Secondo esilio Anselmo si
trattenne a Bec sino quasi alla fine dell'estate per evitare di trovarsi a Roma
nel periodo più caldo dell'anno; quando giunse nella sede pontificia e discusse
con Pasquale II la questione dei rapporti tra potere temporale e spirituale,
ottenne dal Papa ancora una volta una netta opposizione all'investitura degli
ecclesiastici da parte dei laici e all'omaggio; l'ambasciatore del re
d'Inghilterra, Guglielmo di Warelwast, non ebbe miglior successo. Sulla via del
ritorno, a Lione, tra la fine del 1103 e l'inizio del 1104, Anselmo ricevette
un messaggio di Guglielmo che interpretò come un invito a non tornare in Inghilterra
se non con l'intenzione di (e l'autorizzazione a) ripristinare le pratiche
dell'investitura degli ecclesiastici da parte dei laici e dell'omaggio. Anselmo
dunque rimase a Lione, dove stese il De processione spiritus sancti.[11]
Anselmo si trattenne a Lione fino al marzo 1105, quando il Papa scomunicò
Roberto di Beaumont, consigliere di Enrico I, che aveva insistito affinché il
re continuasse a praticare l'investitura da parte di laici,[43] insieme ad
altri prelati investiti da Enrico o da altri rappresentanti del potere
temporale,[44] mentre si limitò, per il sovrano, a minacciare la scomunica.[11]
Anselmo, che non sperava più in un aiuto concreto del Papa, si recò in
Normandia per incontrare Enrico e minacciarlo personalmente di
scomunica,[11][45] con lo scopo di costringerlo una volta per tutte a
raggiungere un accordo sulla questione delle investiture.[46] Anche
grazie alla mediazione della sorella di Enrico, Adele d'Inghilterra, che
Anselmo aveva assistito durante una malattia, l'arcivescovo e il re riuscirono
a incontrarsi a l'Aigle nel luglio 1105 e raggiunsero un compromesso: la
scomunica di Roberto di Beaumont e degli altri funzionari di Enrico I venne
revocata (cosa che Anselmo fece grazie alla sua sola autorità, e di cui dovette
poi rendere conto a papa Pasquale II)[43][47] a patto che essi tenessero sempre
conto della volontà della Chiesa nel consigliare il re; inoltre Enrico avrebbe
rinunciato al diritto di investire gli ecclesiastici se Anselmo avesse ottenuto
dal Papa che agli ecclesiastici venisse consentito l'omaggio ai nobili laici;
le entrate della sede arcivescovile di Canterbury furono restituite alla Chiesa
e venne confermato il divieto per i sacerdoti di prendere moglie. Prima di
tornare in Inghilterra, comunque, Anselmo volle che l'accordo fosse approvato
dal Papa; questi, con una lettera del 23 marzo 1106, ratificò il compromesso:
nonostante la rinuncia da parte del re al diritto di investitura costituisse
un'importante vittoria per la Chiesa,[47] sia Anselmo che Pasquale consideravano
il compromesso di l'Aigle come un accordo temporaneo, in vista di ulteriori
azioni che, perseguendo gli obiettivi della riforma gregoriana, avrebbero
dovuto abolire anche la pratica dell'omaggio degli ecclesiastici ai laici.[48]
La lettera del Papa autorizzava Anselmo anche a revocare la scomunica di coloro
che erano stati investiti da laici o che a laici avevano reso l'omaggio
feudale, e lo invitava ad assolvere il re e la regina d'Inghilterra da tutti i
loro peccati.[11] Il ritorno di Anselmo a Canterbury comunque fu
rimandato, anche a causa di alcuni problemi di salute dell'anziano arcivescovo;
il 15 agosto Anselmo incontrò Enrico a Bec; il re aggiunse alle concessioni
fatte anche la restituzione delle chiese confiscate a suo tempo da Guglielmo II
e promise di risarcire il clero inglese dei danni economici patiti a causa
della lotta per le investiture. Così, i due si riappacificarono.[11]
Ritorno in Inghilterra e ultimi anni Anselmo fece trionfale ritorno in
Inghilterra nel 1107. Da un'assemblea dei vescovi e dei principi inglesi tenuta
il 1º agosto risultò il "concordato di Londra", che formalizzava e
annunciava pubblicamente il compromesso tra Enrico e Anselmo:[49] nessun
vescovo avrebbe dovuto ricevere l'investitura da un laico, ma il fatto di aver
reso l'omaggio a un laico non avrebbe impedito a nessuno di ricoprire la carica
di vescovo. Le sedi vescovili e abbaziali vacanti (alcune delle quali erano
vacanti ancora dai tempi di Guglielmo II) vennero assegnate, e Anselmo, riprese
le funzioni di arcivescovo di Canterbury, consacrò tutti i nuovi
vescovi.[11] Anche nella fase finale della sua vita Anselmo continuò ad
occuparsi dei doveri di arcivescovo e, contemporaneamente, a meditare e a
scrivere testi di teologia, come il De concordia praescientiae et
praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio (Sulla compatibilità della
prescienza, della predestinazione e della grazia di Dio con il libero
arbitrio). Anselmo lavorò per innalzare il livello spirituale del regno e, in
particolare, delle regioni dell'Irlanda e della Scozia; fu inoltre coinvolto in
una disputa circa il primato dell'arcidiocesi di Canterbury su quella di York,
disputa che non sarebbe stata superata (con la riaffermazione della supremazia
di Canterbury) se non dopo la sua morte.[11] Anselmo morì il 21 aprile
1109, mercoledì santo, e venne sepolto nella cattedrale di Canterbury. Le sue
spoglie vennero però esumate durante i disordini a sfondo religioso che ebbero
luogo durante il regno di Enrico VIII d'Inghilterra e se ne persero le
tracce.[11] La tomba di Anselmo all'interno della cattedrale di
Canterbury. Il processo di canonizzazione di Anselmo fu avviato da Tommaso
Becket (uno di coloro che ne continuarono l'opera volta a garantire
l'indipendenza della Chiesa inglese dal potere politico) e venne portato a
termine da papa Alessandro III nel 1163. Anselmo fu dichiarato dottore della
Chiesa da papa Clemente XI il 3 febbraio 1720[50]. Pensiero Oltre ad aver
svolto un importante ruolo politico nella disputa sulle investiture in Inghilterra,
Anselmo d'Aosta fu anche un pensatore di grande spessore nell'ambito della
filosofia cristiana medievale, considerato uno dei principali esponenti della
riflessione di area europea[3], il principale filosofo dell'XI secolo[8][51] e
il primo grande pensatore del Medioevo dopo Giovanni Scoto Eriugena[4].
Influenze Il lavoro di Anselmo è caratterizzato da una grande originalità e
sono rari, nella sua opera, i riferimenti a pensatori del passato: ciò rende
difficile identificare le influenze che hanno contribuito a dar forma al suo
pensiero[15]. Posto che la fonte principale della riflessione di Anselmo è
l'autorità della Bibbia, è tuttavia ugualmente possibile riconoscere nel
neoplatonismo cristiano di Agostino d'Ippona un importante punto di riferimento;
l'importanza dell'influenza di pensatori come Giovanni Scoto Eriugena e lo
Pseudo-Dionigi l'Areopagita, un tempo considerata significativa, è oggi
giudicata tutto sommato trascurabile, mentre si tende a evidenziare
l'importanza rivestita da Aristotele e dal suo traduttore e commentatore
Severino Boezio nel determinare certi aspetti dialettici della filosofia di
Anselmo, oltre che, tra le altre cose, la sua concezione del male come privo di
positività ontologica e la teoria dei futuri contingenti che garantiscono la
compatibilità della prescienza di Dio con la libertà umana[52]. L'influenza del
maestro Lanfranco probabilmente non fu, se non forse per l'interesse alla
dialettica, determinante[15]. Rapporto tra ragione e fede Nella
riflessione di Anselmo, che pure ha un carattere prevalentemente teologico, la
ragione svolge un ruolo di fondamentale importanza: nella concezione anselmiana
del rapporto che, per un buon filosofo cristiano, dovrebbe sussistere tra la
ragione e la fede (cioè, sostanzialmente, tra la filosofia e la teologia) la
dimensione della ricerca razionale ha infatti un posto molto
rilevante[3]. Anselmo riteneva che il presupposto di ogni sapere dovesse
essere necessariamente la fede nella rivelazione delle sacre scritture, e che,
quindi, si dovesse credere per comprendere piuttosto che comprendere per
credere ("credo ut intelligam")[53]; in altre parole sosteneva,
ispirandosi alle parole di Isaia (7, 9) «se non hai fede, non capirai»
("nisi credideritis, non intelligetis")[54], che il fondamento di
ogni conoscenza dovesse provenire dalla fede, e che solo su di essa potesse
innestarsi il lavoro della ragione, volto all'approfondimento e alla
comprensione dei dogmi[53]. Anselmo tuttavia riponeva grande fiducia
nella capacità della ragione di portare avanti con successo questo suo ruolo di
chiarificazione e comprensione dei dati di fede: come disse il medievista
francese Étienne Gilson, egli giudicava «presunzione non mettere per prima cosa
la fede, [...] negligenza non fare successivamente appello alla ragione»[53].
Dunque, benché fosse per lui impensabile sottomettere o subordinare i misteri
della fede alla dialettica, cioè alla logica, Anselmo riteneva che fondandosi
saldamente sulla rivelazione fosse possibile usare la ragione per approfondire
la comprensione di tali misteri o, anche, per dimostrare inconfutabilmente la
necessità di accettarli come tali[55]. In effetti per lui esistevano dogmi non
suscettibili di esatta comprensione razionale, come ad esempio quello della
Trinità, ma riteneva che fosse ugualmente possibile raggiungere, tramite
ragionamenti per analogia, una parziale comprensione di tali dogmi e che,
inoltre, fosse possibile provare razionalmente la necessità di
abbracciarli[56]. Una significativa espressione anselmiana, che può essere
considerata il suo motto filosofico, è «la fede in cerca della
comprensione»[8]. Con ciò Anselmo intendeva riaffermare la priorità della fede
e, parallelamente, l'opportunità di tentare di rischiarare i contenuti della
rivelazione per mezzo della riflessione razionale, senza che la ragione
prendesse il posto della fede e senza che la fede soffocasse la
ragione[8]. Nella concezione anselmiana della fede aveva molta importanza
la dimensione affettiva (cioè legata all'ambito della volontà): l'amore di Dio
che alimenta la fede è in gran parte assimilabile a un amore per la conoscenza
di Dio stesso, e dunque viene attribuita una notevole importanza alla ragione,
in quanto veicolo di questa ricerca di conoscenza[8]. Alcuni commentatori
evidenziano come nella riflessione di Anselmo gli elementi esistenziali e
legati all'ambito morale siano strettamente interconnessi con quelli teoretici
e legati all'ambito della ricerca razionale[57]. Esistenza di Dio e
attributi divini dimostrati a posteriori: il Monologion Magnifying glass icon
mgx2.svgMonologion. Benché concepisse la fede come fondamento di ogni
conoscenza, Anselmo riteneva che un argomento razionale potesse convincere
anche un non credente.[8] Nel suo primo scritto filosofico importante, il Monologion,
Anselmo si pone dalla prospettiva di chi ignori la rivelazione cristiana o non
vi creda e, adottando tale prospettiva, intende dimostrare l'esistenza di Dio e
dedurre alcuni dei suoi attributi per mezzo di procedimenti razionali a
posteriori (cioè basati su evidenze tratte dal mondo sensibile e sviluppate con
procedimenti razionali).[3][53] La dimostrazione dell'esistenza di Dio
proposta da Anselmo nel Monologion è di ascendenza platonica,[58] ed è ispirata
almeno in parte al neoplatonismo di Agostino d'Ippona.[59] Il fondamentale
presupposto di tale prova infatti, a parte la constatazione che le cose del
mondo sono caratterizzate da gradi diversi di perfezione, è la convinzione che
se le cose sono più o meno perfette (o comunque presentano una certa caratteristica
positiva con grado maggiore o minore di intensità), ciò dipende dal fatto che
tali cose partecipano in maniera più o meno diretta di un ente assolutamente
perfetto (o che comunque possiede quella certa caratteristica positiva al
massimo grado).[59] Iniziale miniata da un manoscritto del
Monologion risalente al XII secolo. Tale idea viene sviluppata, per esempio, a
proposito del bene: dal momento che possiamo constatare che esistono nella
realtà molti beni, diversi tra loro e buoni in grado maggiore o minore,
dobbiamo secondo Anselmo dedurne con certezza che essi sono buoni in virtù di
un solo principio del bene assoluto, cioè a causa della loro partecipazione in
diverso modo e in diverso grado di un unico sommo bene; tale bene è buono in sé
e per sé, mentre ogni altra cosa è buona riferendola a quel bene che si colloca
a un livello gerarchicamente superiore a ogni altro bene.[58] Dopodiché,
avendo dimostrato che deve esistere un ente che corrisponde al sommo bene,
Anselmo applica il medesimo procedimento ad attributi come la perfezione e la
stessa esistenza, così da provare che deve esistere qualcosa caratterizzato da
assoluta perfezione e assoluta pienezza d'essere (e dal quale tutte le creature
finite ricavano la loro misura di perfezione e di esistenza).[58] Secondo
Anselmo, tanto l'ente sommamente buono, quanto quello caratterizzato dal sommo
grado di esistenza, quanto quello sommamente perfetto, coincidono con il Dio
della rivelazione cristiana, la cui esistenza è quindi provata a partire da
dati di esperienza come la gradazione del bene e della perfezione, e come il
processo di causazione degli enti da un essere primo.[60] La seconda
parte, quantitativamente preponderante, del Monologion è dedicata all'analisi
degli attributi, cioè delle caratteristiche, di Dio.[61] Alcuni di questi
attributi divini (come la bontà, la perfezione e il ruolo di causa incausata di
tutti gli esseri finiti) sono conseguenze immediate dell'argomento appena
esposto. Tuttavia Anselmo intende spingersi oltre nella definizione degli
attributi di Dio, e sostiene che la perfezione divina implica, per esempio,
anche le caratteristiche di eternità e intelligenza.[58] Alla luce del
carattere creativo di Dio, dal quale dipende tutto l'esistente, Anselmo propone
poi una rielaborazione della dottrina del Logos (Verbo),[15] tradizionalmente
inteso come corrispondente alla seconda persona della Trinità (il Figlio) e
come intermediario tra Dio e il Mondo, così come nella filosofia neoplatonica
era intermediario tra l'Uno e il Mondo.[62] Anselmo giunge alla conclusione che
ogni ente creato dal nulla esisteva, prima di essere creato, nella mente di
Dio.[15] Pertanto Anselmo sostiene che nella mente di Dio esistono i modelli
ideali su cui sono costruiti tutti gli enti finiti che risultano dalla
creazione, e che la creazione consiste nell'atto con cui Dio pronuncia fra sé e
sé il Verbo che è fondamento di tutte le creature.[58] Anselmo,
discutendo dell'analogia che sussiste tra il Verbo divino e il pensiero (o
Logos) umano, sostiene che gli uomini conoscono le cose per mezzo di immagini
delle cose stesse, e che tali immagini sono tanto più veritiere quanto più
aderiscono alla cosa; simmetricamente, in Dio esiste il Verbo, che costituisce
l'essenza delle cose, e le cose sono modellate su di esso.[15] La terza persona
della Trinità, lo Spirito Santo, viene identificata con la facoltà umana
dell'amore. In Dio, afferma Anselmo, sussistono tre distinte persone che
formano una sola essenza e una sola divinità;[15] questo può essere reso più
comprensibile alla ragione per mezzo di un'analogia di origine agostiniana:
come l'anima umana, pur essendo assolutamente unitaria, si compone di tre
facoltà (memoria, intelligenza e volontà), così Dio, pur essendo assolutamente
unitario, si compone di tre persone (Padre, Figlio e Spirito Santo).[63]
L'autore analizza poi altri modi per descrivere la sostanza divina, e propone
di considerarla come ciò che c'è di più grande, di sommo, cioè maggiore di
tutte le creature; o, ancora, come ciò che presenta tutte e sole le
caratteristiche che è meglio avere piuttosto che non avere.[15] Con ciò, Dio
comunque possiede tali caratteristiche in virtù di sé stesso, e non di altri
principi; inoltre la molteplicità di tali caratteristiche non significa che Dio
sia composito, dal momento che nell'essenza divina ogni attributo coincide con
tutti gli altri e con la stessa essenza divina in una suprema unità e
semplicità.[15] Esistenza di Dio e attributi divini dimostrati a priori:
il Proslogion Magnifying glass icon mgx2.svgProslogion e Argomento
ontologico. Statua di Anselmo ad Aosta, in via Xavier de Maistre. Sullo
sfondo, i campanili della cattedrale di Aosta; a destra si intravede il
seminario maggiore. (la) «Domine, non solum es quo maius cogitari nequit, sed es
quiddam maius quam cogitari possit. Quoniam namque valet cogitari esse aliquid
huiusmodi: si tu non es hoc ipsum, potest cogitari aliquid maius te; quod fieri
nequit.» «O Signore, tu non solo sei ciò di cui non si può pensare nulla
di più grande, ma sei più grande di tutto quanto si possa pensare; poiché
infatti è lecito pensare che esista qualcosa di simile. Se tu non fossi tale,
si potrebbe pensare qualcosa più grande di te, ma questo è impossibile.»
(Anselmo, Proslogion seu alloquium de Dei existentia, 15, 235C) Anselmo rimase
parzialmente insoddisfatto della dimostrazione dell'esistenza di Dio e
dell'indagine sulle sue caratteristiche per come esse erano state condotte nel
Monologion: egli aspirava infatti a costruire un argomento più semplice e
interamente autosufficiente in grado di portare alle stesse conclusioni. Un
simile argomento, ricercato affannosamente e infine trovato[64], venne esposto
nel Proslogion (il cui titolo, originariamente, era stato Fides quaerens
intellectum, cioè «la fede in cerca della comprensione»)[65][66].
L'argomento del Proslogion (noto anche, secondo una denominazione attribuitagli
da Immanuel Kant, come argomento ontologico)[8] è del tipo a priori: è cioè
basato su una definizione di Dio ricavata dalla fede e sviluppata secondo un
procedimento razionale che aspira ad essere valido in sé, anteriormente a ogni
dato di esperienza[66]. Schema logico dell'argomento ontologico Chi nega
l'esistenza di Dio (come lo stolto del Salmo: «che disse in cuor suo: Dio non
esiste».) deve avere il concetto di Dio non si può infatti negare la realtà di
qualcosa che non si pensa neppure, per negarla devo pensarla avere il concetto
di Dio significa: pensare un essere di cui non si può pensare nulla di maggiore
("aliquid quo nihil maius cogitari possit") ma poiché «si potrebbe
pensare un ente che, oltre agli attributi riconosciuti proprî di Dio,
possedesse anche quello dell'esistenza, e quindi fosse maggiore di lui.»[67]
questa, allora, sarebbe un'idea maggiore di quella di Dio quindi, ciò di cui
non possiamo pensare nulla di maggiore, essendo il maggiore di tutti gli enti,
non può non avere la caratteristica dell'esistenza: esistere senza dubbio
sia nell'intelletto sia nella realtà ("existit ergo procul dubio aliquid
quo maius cogitari non valet, et in intellectu et in re")[68]
L'argomentazione di Anselmo prende dunque le mosse dalla definizione di Dio
come «ciò di cui non può essere pensato niente di maggiore». Egli sostiene che
chiunque, incluso lo «stolto» che, secondo i Salmi (14, 1 e 53, 1) «disse in
cuor suo: Dio non esiste»[65], comprende tale definizione, anche se non
comprende che l'oggetto di tale definizione esiste; comunque, nel comprenderla,
si forma mentalmente il concetto di un ente sommamente grande, del quale sia
impossibile pensare qualcosa di maggiore. Ora, sostiene Anselmo, il
concetto di «ciò di cui non può essere pensato niente di maggiore» esiste nella
mente dello «stolto» (o di chiunque altro) come nella mente del pittore esiste
l'immagine di qualcosa che egli è in procinto di disegnare, ma che ancora non
esiste al di fuori del suo pensiero. Tuttavia, qualcosa che esiste
solamente nella mente di qualcuno non è tanto grande quanto qualcosa che esiste
anche nella realtà esterna, nel mondo effettivo delle cose: pertanto ciò di cui
non può essere pensato nulla di maggiore non sarebbe tale se non fosse dotato
di un'esistenza effettiva anche fuori dalla mente di chi si forma quel
concetto. Il che conduce alla conclusione per cui esiste necessariamente
qualcosa di cui non può essere pensato niente di maggiore[65][66], e che non
può essere pensato se non come esistente[15]. Si tratta in fondo di una
dimostrazione per assurdo[69], basata in gran parte sull'approccio apofatico
della teologia negativa[70], in base al quale è doveroso per la mente umana
riconoscere l'esistenza di Dio come suo limite[71]. (LA) «Sic ergo vere
es, Domine, Deus meus, ut nec cogitari possis non esse; et merito. Si enim
aliqua mens posset cogitare aliquid melius te, ascenderet creatura super
Creatorem.» «Dunque esisti in modo così vero, o Signore, mio Dio, che non
si può neppure pensare che non esisti. E giustamente. Se infatti una mente
potesse pensare qualcosa migliore di te, la creatura si eleverebbe sopra il
Creatore.» (Anselmo, Proslogion seu alloquium de Dei existentia, 3,
228B-228C) Come il Monologion, il Proslogion contiene numerosi capitoli nei
quali l'autore indaga gli attributi di Dio: partendo dalla definizione della
divinità come ciò di cui non può essere pensato il maggiore, Anselmo conclude
che Dio deve essere necessariamente l'essere supremo, e quindi supremamente
buono, giusto e felice[72]. Sempre in relazione al Monologion, risulta ora
tanto più giustificata l'idea che Dio debba essere caratterizzato da tutte le
peculiarità che è preferibile avere piuttosto che non avere.[72] In
effetti risulta che un Dio come questo, che (in accordo anche con gli
insegnamenti della Bibbia) è necessariamente onnipotente, deve essere
impossibilitato a fare il male perché è anche assolutamente benevolo; questo non
è però contraddittorio dal momento che, per Anselmo, la capacità di fare il
male non è in realtà una vera potenza, quanto piuttosto un'impotenza (il che è
coerente con la sua interpretazione del male come privazione, cioè come pura
negazione dell'essere e del bene, non dotata di un'autonoma positività
ontologica). Non deve quindi stupire, secondo lui, che Dio non possa fare il
male o contraddirsi[72]. Nei capitoli conclusivi del testo, Anselmo
ribadisce e approfondisce l'analisi degli attributi divini iniziata nel
Monologion, aggiungendo inoltre un accenno all'identità di esistenza ed essenza
in Dio il quale prefigurava, anche se da lontano, i risultati che avrebbe
raggiunto più tardi Tommaso d'Aquino[73]. Le critiche di Gaunilone
all'argomento ontologico e la risposta di Anselmo (LA) «Gratias ago benignitati
tuae et in reprehensione et in laude mei opusculi. Cum enim ea, quae tibi digna
susceptione videntur, tanta laude extulisti, satis apparet, quia, quae tibi
infirma visa sunt, benevolentia, non malevolentia
reprehendisti.» «Ringrazio della tua benevolenza, sia per le critiche sia
per le lodi del mio opuscolo.[74] Poiché infatti hai tanto lodato quelle parti
che ti sembravano degne d'essere accettate, risulta chiaro che hai censurato
per benevolenza, non per malevolenza, quelle che ti sono apparse deboli.»
(Anselmo, Sancti Anselmi liber apologeticus contra Gaunilonem respondentem pro
insipiente, 10, 260B) Schema logico delle obiezioni di Gaunilone e la risposta
di Anselmo nel suo Libro a difesa dello sciocco il monaco Gaunilone
obietta: in realtà l'ateo ha in mente solo la parola Dio non l'idea di
Dio di cui è impossibile per la sua infinitudine avere una conoscenza
sostanziale: ma anche ammesso di avere un'idea perfetta questo non significa
che poi vi debba necessariamente corrisponderne l'esistenza: se così fosse
basterebbe pensare alle mitiche perfette Isole Fortunate perché poi queste
esistessero nella realtà. S.Anselmo controbatte che il suo argomento vale solo
per quella realtà perfettissima che è Dio, in grado cioè non solo di riempire,
ma di trascendere il pensiero stesso che lo ospita. Dio infatti non è soltanto
«ciò di cui non si può pensare nulla di più grande» (id quo maius cogitari
nequit), ma è anche «più grande di quel che si possa pensare» (quod maior sit
quam cogitari):[75] l'ammissione dei propri limiti costringe l'intelletto umano
a riconoscere una realtà ontologica che lo sovrasta.[76] Per spiegare come sia
possibile che lo «stolto» neghi l'esistenza di Dio, nel Proslogion Anselmo
afferma che chiunque dica «Dio non esiste» in realtà proferisce suoni
completamente vuoti, parole di cui non comprende il senso, fermandosi ai segni
senza cogliere i significati[77]. Gaunilone, un monaco benedettino
contemporaneo di Anselmo, usò un argomento simile a questo per attaccare la
prova a priori del Proslogion[78] in un testo intitolato Liber pro insipiente
(Libro a difesa dello stolto); a Gaunilone Anselmo rispose nel Liber
apologeticus adversus respondentem pro insipientem (Libro apologetico contro la
risposta in difesa dello stolto) e da allora, per volontà dello stesso Anselmo,
il Proslogion venne sempre riprodotto con il corredo di questa doppia
appendice[79]. L'argomentazione del Liber pro insipiente, articolata su
diversi punti e accompagnata da alcuni esempi, si può sintetizzare
nell'osservazione di Gaunilone secondo cui il fatto di avere nell'intelletto un
concetto come quello di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», e di
pensarlo come esistente, è profondamente diverso dal fatto che ciò di cui non
può essere pensato il maggiore effettivamente esista: egli cioè sostiene che
non si può passare direttamente dal piano del pensiero al piano
dell'esistenza[80]. Aggiunge inoltre che quello di «ciò di cui non può essere
pensato il maggiore» è un concetto inaccessibile a un intelletto umano,
sostanzialmente superiore alle sue forze: chi ascolta e comprende tale
concetto, afferma Gaunilone, non lo comprende in realtà più di quanto secondo
Anselmo lo «stolto» comprende l'espressione «Dio non esiste»[78]; quindi
pensare Dio come ciò di cui non può essere pensato il maggiore è possibile
solamente a posteriori, e cioè questa concezione di Dio (di per sé giudicata
legittima) deve essere sviluppata a partire da argomenti simili, per esempio, a
quelli platonizzanti del Monologion[80]. Nella sua risposta alle
obiezioni di Gaunilone (il quale peraltro loda il Monologion e tutte le parti
del Proslogion diverse dall'argomento ontologico) Anselmo si stupisce di
ricevere critiche da qualcuno che è uno stolto ma un cattolico. Rispondendo
quindi «al cattolico», Anselmo ravvisa nelle parole di Gaunilone una certa
confusione tra «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», limite
innegabile del pensiero, e «la cosa più grande di tutte», che essendo un
concetto impreciso può ancora essere negato senza cadere in contraddizione.
Nella parte principale della sua replica alla replica Anselmo aggiunge che «ciò
di cui non può essere pensato il maggiore» non è un concetto incomprensibile
per l'intelletto umano,[81] a meno di fingere di non capire il concetto stesso
che si vuole negare, «perché se anche ci fosse qualcuno abbastanza sciocco da
dire che ciò di cui non si può pensare il maggiore non è niente, non sarà così
impudente da dire di non riuscire a capire o pensare quel che sta dicendo. O se
invece si trovasse qualcuno di questo genere, non solo il discorso è da
respingere (respuendus), ma lui stesso da coprire di sputi (conspuendus)»[82].
L'esperienza delle cose del mondo, del resto, rende evidente che gli enti posseggono
le diverse perfezioni in diversi gradi e che, dunque, è possibile stabilire una
gerarchia di grandezza in cui di ogni cosa è possibile pensare qualcosa di
maggiore finché si giunge a qualcosa di cui, appunto, non si può pensare niente
di maggiore[83]. È stato fatto notare che con questa operazione, però, Anselmo
dà parzialmente ragione a Gaunilone e riconduce la prova a priori del
Proslogion alla prova a posteriori del Monologion, ammettendo che il concetto
di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore» si origina
dall'esperienza[84][85]. In tal modo l'autosufficienza della prova del
Proslogion può risultare compromessa, ma viene stabilita tra esso e il
Monologion una continuità che fa delle due opere altrettanti momenti di un
unico argomento per l'esistenza di Dio, in cui tale esistenza viene dimostrata
inizialmente a partire da osservazioni empiriche, assicurando nel contempo la
legittimità della definizione di Dio come «ciò di cui non può essere pensato il
maggiore», e quindi viene dimostrato che a partire da tale definizione risulta
che Dio non è concepibile se non come dotato dell'esistenza[72][84].
Anselmo dialettico: il De grammatico e gli altri scritti logici L'aspetto del
pensiero di Anselmo legato alla logica (la quale nel Medioevo era indicata
indifferentemente come dialettica o anche come grammatica, in una prospettiva
paragonabile a quella della moderna filosofia del linguaggio) ha un'importanza
non trascurabile, anche se tale importanza è stata rivalutata solo dalla
critica della seconda metà del XX secolo[84]. Anselmo ritratto in
una vetrata inglese. Anselmo considerava la logica uno strumento utile per il
teologo: già nel Monologion il suo approccio si era caratterizzato per
l'attenta disamina delle possibili ambiguità legate a espressioni come
«[esistenza] per sé» e «[creazione dal] nulla», e anche nel Proslogion Anselmo
aveva compiuto operazioni simili; ora, nel De grammatico, egli analizza nello
specifico il problema della paronimia, ossia dello scambio di due parole dal
suono simile ma prive di attinenza nel significato: si trattava di capire se la
parola "grammatico" (così come tutti gli altri «denominativi», cioè
quelle parole che derivano da una radice da cui differiscono solo per la
desinenza, in questo caso "grammatica"), corrispondano a sostanze o
qualità[86]. In effetti, sostiene Anselmo, pare ugualmente possibile
sostenere che "grammatico" sia sostanza (essenza) o che sia qualità
(accidente):[87] nel primo caso perché "grammatico" indica un uomo, e
a ogni uomo corrisponde una sostanza; nel secondo perché "grammatico"
indica una particolare caratteristica dell'uomo in questione. Anselmo afferma
però che non ci troviamo di fronte a una contraddizione, dal momento che i due
modi di intendere la parola si riferiscono a due punti di vista ben diversi: è
infatti necessario, prosegue, distinguere la significatio di un termine, cioè
il piano del suo significato, dalla sua appellatio, cioè il piano del suo
riferimento. Pertanto "grammatico" è una significazione della grammatica,
ma il suo riferimento è all'uomo[88]. Inoltre, aggiunge Anselmo, per se (cioè
in modo diretto, cioè sul piano della significazione) la parola
"grammatico" significa una qualità, ma può anche fare riferimento per
aliud (cioè in modo indiretto, cioè sul piano del riferimento) a una
sostanza[15][88]. Alcuni commentatori hanno rilevato che, con questo, Anselmo
prefigurava la teoria della suppositio che sarebbe stata approfondita dai
dialettici del XIII secolo e successivi[88]. In altre opere di carattere
logico, abbozzate da Anselmo ma mai stese in forma compiuta, egli analizzava
altre possibili ambiguità linguistiche legate all'uso di certe parole in
filosofia e teologia: considerò con particolare attenzione i concetti e i
termini necessitas ("necessità"), potestas ("potenza",
"capacità"), voluntas ("volontà"), facere
("fare", ma anche "far fare", "patire") e aliquid
("qualcosa")[89]. Il problema del male, dell'onnipotenza divina
e del libero arbitrio nella trilogia sulla libertà Nella cosiddetta «trilogia
della libertà», composta dai dialoghi De veritate, De libertate arbitrii e De
casu diaboli, Anselmo analizza le questioni etiche legate alla rettitudine[19]
da un punto di vista teologico-dogmatico (analogo a quello che avrebbe adottato
anche nelle opere successive) piuttosto che strettamente filosofico (come era
stato invece quello adottato nei testi precedenti)[90]. La scelta della
forma dialogica, debitrice in qualche misura della tradizione platonica ma non
priva di una sua originalità d'interpretazione, era dovuta all'esigenza di
rendere più vivace la discussione dei problemi teologici e al vantaggio di
poter risolvere dialetticamente le difficoltà che via via si presentavano; essa
inoltre corrispondeva al modo in cui Anselmo teneva le sue lezioni, le quali consistevano
sostanzialmente in conversazioni tra gruppi ristretti di discenti legati da
rapporti reciproci di confidenza che facilitavano il confronto di
idee[91]. Il De veritate Magnifying glass icon mgx2.svgDe veritate
(Anselmo d'Aosta). Il De veritate (primo in ordine logico, anche se non è
chiaro in che ordine cronologico furono composte le tre opere) analizza in
particolare il rapporto sussistente tra la virtù morale, la verità e la
giustizia.[19] Anselmo propone una teoria della verità in cui sono compresenti
una matrice platonica (per cui la verità delle cose e delle affermazioni
particolari risiede nella loro partecipazione alla verità in sé) e la tesi
della verità come corrispondenza tra discorso e realtà (per cui la verità sta
nell'aderenza delle asserzioni allo stato delle cose); la nozione di verità per
come la intende Anselmo, quindi, è particolarmente ampia proprio perché per
l'appunto essa è ricondotta sia alla corrispondenza di linguaggio e realtà sia
all'aderenza di un'azione al suo fine teleologicamente proprio (che nel caso
del linguaggio è esattamente quello di significare la realtà);[8] traducendosi
in un più ampio concetto di rettitudine, la verità può quindi essere propria
anche della volontà (la volontà vera è volontà retta) e delle azioni (le azioni
vere sono azioni buone), oltre che dei sensi, delle essenze stesse delle cose
eccetera.[8][15] Tuttavia, aggiunge Anselmo, dal momento che tutte le
cose veridiche devono trarre la loro verità da una verità suprema che,
evidentemente, viene identificata con Dio, e dal momento che Dio è ugualmente
fonte di tutta la verità e di tutto l'essere, tutto ciò che esiste deve
esistere veridicamente e, quindi, rettamente; è qui che, data l'esperienza
comune a tutti dell'esistenza del male, la questione acquisisce la sua
importanza sul piano etico, dal momento che sorge per l'appunto il problema del
male.[15] La questione di come sia possibile che qualcosa di male accada
a causa di (o nonostante) un Dio buono è risolta nel De Veritate osservando che,
se i due termini opposti vengono considerati sotto rispetti diversi,
l'apparente contraddizione tra l'esistenza del male e la bontà di Dio non è
realmente problematica: Dio può permettere che il male esista senza causare il
male, e d'altro canto quello che risulta malvagio in una prospettiva umana non
è necessariamente malvagio in senso proprio. Anselmo sostiene che, come è
possibile che un uomo riceva a buon diritto delle percosse benché per un certo
altro uomo sia illegittimo somministrargliele, così è in generale possibile che
essere l'oggetto passivo di un'azione sia male mentre esserne il soggetto
attivo sia bene o viceversa; e, quindi, il problema di conciliare l'esperienza
del male con un Dio onnipotente e buono si risolve se si considera che Dio e il
male vengono considerati da due differenti punti di vista.[15] In
conclusione, Anselmo chiama verità quel particolare tipo di rettitudine che è
percettibile solo alla mente; benché infatti in generale i concetti di verità,
giustizia e rettitudine siano interscambiabili la verità ha un carattere
proprio di retta intellezione, mentre la giustizia è legata più strettamente
alla rettitudine della volontà.[15] La rettitudine della volontà è poi
direttamente collegata con l'aderenza del volere dell'uomo a quello di Dio, e
la verità stessa ha la sua unità garantita dalla sua relazione con la verità
suprema e assoluta di Dio: l'apparenza di molte verità particolari separate e
indipendenti non toglie che ciascuna di esse sia vera unitamente a tutte le
altre nella partecipazione a Dio.[15] Il De libertate arbitrii Magnifying
glass icon mgx2.svgDe libertate arbitrii. Il De libertate arbitrii è il testo
della trilogia dedicato specificamente alla libertà della volontà dell'uomo in
relazione alla sua facoltà di compiere il bene o di peccare e, in generale, al
problema della grazia e del male.[92] Fin dalle prime pagine dell'opera
Anselmo rifiuta la definizione della libertà come la possibilità di scegliere
senza condizionamenti se peccare o non peccare:[93] se, infatti, la facoltà di
peccare rientrasse in tale definizione, la libertà vedrebbe irrimediabilmente
compromesso il suo valore positivo (se, cioè, fosse la libertà a rendere
possibile il peccato, essa non sarebbe più un carattere buono); e ne
risulterebbe inoltre la conclusione assurda che Dio, non potendo fare il male
(cioè non potendo peccare), non sarebbe libero.[72][92] Anselmo sostiene
al contrario che il peccato è dovuto non tanto alla libertà in sé quanto a una
degenerazione della libertà; e aggiunge, alla luce di queste considerazioni,
che la più opportuna definizione di libertà sarebbe quella per cui essa è
«potere di conservare la rettitudine della volontà per amore della rettitudine
stessa».[94] La libertà è dunque sostanzialmente la facoltà che ci consente non
di perseguire ciò che vogliamo senza condizionamenti, ma di adeguare la nostra
volontà a ciò che è giusto che noi vogliamo (a ciò che, in altre parole,
sarebbe nostro dovere volere).[94] La libertà dunque è tanto più libera (tanto
più corrispondente all'ideale di libertà) quanto più è retta.[96] Questo
comunque non toglie che la volontà possa cedere a una tentazione: in questo
caso essa si rivolgerà al peccato anziché alla grazia e lo farà non per
costrizione da parte dei condizionamenti esterni, ma in modo autonomo;[96]
tuttavia, stante la definizione che si è data sopra, questo non sarà un esempio
di libertà ma un esempio di corruzione della libertà. Infine Anselmo
spiega che, in ogni caso, il modo in cui la libertà della volontà ci consente
di volere ciò che è giusto che noi vogliamo (e di volerlo unicamente in virtù
del fatto che è giusto che lo vogliamo) è legato strettamente all'intervento
divino: in seguito alla caduta, infatti, all'uomo è preclusa la possibilità di
agire bene in modo disinteressato con le sue sole forze (e, più in generale, un
peccatore è incapace di risollevarsi senza aiuto)[97] ed è dunque solo con
l'intercessione della grazia di Dio che la libertà si può esplicare al massimo
delle sue potenzialità e può realmente condurre l'uomo verso Dio.[95] In
conclusione l'autore propone una distinzione tra la libertà increata e
interamente autonoma che è propria di Dio e la libertà creata che gli angeli e
gli uomini ricevono da Dio; e ribadisce che la libertà pur imperfetta
dell'uomo, aiutata dalla grazia, può e dovrebbe elevarsi a Dio.[98] Il De
casu diaboli Magnifying glass icon mgx2.svgDe casu diaboli. Il De casu diaboli
tratta dei problemi legati alla rettitudine e alla libertà con particolare
riferimento, come da titolo, alla caduta del diavolo[19] – cioè al momento
della narrazione biblica in cui l'angelo Lucifero, avendo ricevuto da Dio una
certa misura di esistenza (e dunque di bontà) e una volontà libera (cioè quella
facoltà che gli avrebbe consentito di raggiungere la sua piena realizzazione
adeguando la sua volontà a quella di Dio) scelse di non perseverare nel
conservare la sua volontà aderente a quella divina, lasciò che la sua libertà
si corrompesse e abbandonò quindi la rettitudine per tentare di assomigliare a
Dio più di quanto fosse suo diritto. Anselmo dunque prende tale esempio come
questione paradigmatica per un'analisi dell'origine e della natura del
male.[100][101] La sua ricerca prende le mosse ancora una volta da un'attenta
analisi logico-linguistica, volta in questo caso a chiarire il significato del
termine nihil ("nulla"): afferma Anselmo che tale termine non indica,
per il semplice fatto di esistere, una realtà positiva, e che anzi esso
significa per negazione (sottraendo una proprietà e non aggiungendola). Il nulla
dunque è un ente puramente razionale, perché "nulla" indica non tanto
una realtà quanto la negazione di una realtà; ciò avviene, secondo un esempio
riportato da Anselmo stesso, analogamente al modo un cui si dice di qualcuno
che è cieco anche se la cecità non è tanto una facoltà quanto la negazione
della facoltà della vista.[101] Anselmo fa così propria la concezione,
già espressa da un Agostino che l'aveva a sua volta mutuata dal neoplatonismo
di Ambrogio,[102] del male come privazione, ovvero nega la positività
ontologica del male stesso: come bisogna parlare del nulla come negazione
dell'esistente e della cecità come negazione della vista, bisogna parlare del male
come mancanza di bene. Dunque Lucifero, cui Dio aveva dato la facoltà di
scegliere se perseguire la giustizia (adeguandosi alla volontà divina) o se
perseguire la felicità (ribellandosi e tentando di sostituirsi a Dio) abbandonò
la rettitudine e compì un moto di allontanamento da Dio; compì cioè
un'ingiustizia che, però, non era nient'altro che una negazione della
giustizia. Prendendo le mosse dall'esempio del diavolo, Anselmo dunque sviluppa
la sua riflessione relativamente all'uomo: l'essere umano è creato da Dio ed è
dotato da Dio stesso di una volontà libera, la cui piena realizzazione si ha
nella conservazione della rettitudine – cioè nell'adesione alla legge che Dio,
con un atto di grazia, dona all'uomo. Tuttavia al momento del peccato originale
anche l'uomo, come già il diavolo, corrompe la sua libertà; e non gli è
possibile tornare ad agire rettamente se non grazie a un nuovo dono di grazia
da parte di Dio.[105] Come Anselmo avrebbe approfondito nel De concordia la
volontà, che essendo libera ha facoltà (in potenza) di perseguire la
rettitudine, non può di fatto (in atto) perseguire tale rettitudine se non in
virtù del fatto di essere retta, e dunque il ruolo della grazia concessa da Dio
è fondante. Un capolettera decorato da un manoscritto del Cur Deus homo
del XII secolo. La necessità di un Dio-uomo redentore: il Cur Deus homo
Magnifying glass icon mgx2.svg Cur Deus homo. Nel dialogo in due libri Cur Deus
homo Anselmo spiega come, malgrado l'impossibilità dell'uomo di riparare al
peccato di Adamo ed Eva contro Dio, Dio stesso si è riconciliato con l'umanità
facendosi uomo.[106] Il testo contiene anche, come è reso inevitabile dal suo
soggetto, un'apologia del dogma cristiano dell'incarnazione di Dio (che, per
l'appunto, si è fatto uomo in Gesù) contro le critiche di ebrei e musulmani;
tuttavia non è questo il suo tema principale, e in effetti il Cur Deus homo è
un testo di ampio respiro che di fatto conclude, insieme al successivo De
concordia, l'esposizione della visione teologica di Anselmo.Il testo si apre
con una chiarificazione metodologica, in cui Anselmo ribadisce la sua posizione
sul rapporto tra ragione e fede: come già si era riscontrato nel Monologion, e
in accordo con la consueta dinamica dell'intellectus fidei (comprensione della
fede), egli tratta sempre la fede come il necessario punto di partenza di ogni
riflessione teologica ma giudica «negligenza» astenersi poi dal portare a
compimento razionalmente tale riflessione. Dopodiché, Anselmo procede a
spiegare il carattere necessario della volontà divina: Dio, sostiene l'autore,
è dotato di una volontà spontanea e autonoma (non è cioè soggetto né a
costrizioni né a impedimenti) ma tale volontà è talmente rigida nella sua
assoluta immutabilità da far sì che essa possa essere considerata necessaria;
si può dire, ad esempio, che è necessario che Dio non menta perché la volontà
di Dio, tesa per sua stessa natura verso la verità (e da cui anzi la verità
stessa trae la sua natura) è invariabile e incorruttibile nella sua costanza, e
non può in alcun modo rivolgersi verso la menzogna.[109] Si è già visto che
questa non può secondo Anselmo essere considerata una limitazione della potenza
divina. È proprio per via della necessità e assoluta immodificabilità del
piano che Dio aveva predisposto per l'uomo all'inizio del tempo che, in seguito
alla perdita dell'immortalità dovuta alla caduta di Adamo ed Eva, si è reso
necessario un intervento di Dio per redimere l'uomo dal peccato originale e
ripristinare tale immortalità (sotto forma della possibilità di vivere in
eterno nell'altra vita).[110] Dopodiché, risulta necessario che la remissione
da parte di Dio dei peccati dell'uomo passi attraverso un'effettiva espiazione:
se infatti Dio si riconciliasse con l'uomo con un atto di pura misericordia,
senza che il peccato ricevesse una giusta e proporzionata punizione, il
disordine generato dal peccato non verrebbe ricondotto all'ordine e, in
generale, la legalità dell'universo morale umano e divino risulterebbe
compromessa.[111] Bisogna dunque che l'uomo restituisca a Dio l'onore che
peccando gli ha negato – anche se resta inteso che le azioni dell'uomo non
aggiungono né tolgono nulla a Dio, dato che è impossibile privare dell'onore un
Dio che coincide con lo stesso onore e con tutte le altre qualità positive:
restituire a Dio l'onore che gli è dovuto significa semplicemente ripristinare
la sottomissione, venuta meno con il peccato originale, della volontà umana a
quella divina. Tuttavia l'uomo, che anche prima della caduta in quanto creatura
era incapace di compiere il bene se non in virtù della partecipazione al bene
supremo di Dio, non può espiare la sua colpa da solo: gli è impossibile rendere
a Dio la giusta soddisfazione, perché la bontà di ogni azione di riparazione
sarebbe comunque dovuta a Dio. È così che Anselmo dimostra che il salvatore
dell'uomo deve necessariamente essere di natura divina; quindi egli procede ad
argomentare che, per la precisione, egli deve essere un Dio-uomo.[112]
Risulta infatti che a rendere soddisfazione a Dio non può essere qualcuno che
sia inferiore a Dio, e d'altra parte è necessario che ad espiare il peccato dell'uomo
sia un uomo: pertanto le caratteristiche che le scritture attribuiscono a Gesù,
vero uomo e vero Dio, partecipe in ugual modo e nello stesso tempo di entrambe
le nature, sono esattamente quelle necessarie a spiegare razionalmente la
redenzione dell'umanità[15] dal momento che, come scrive il filosofo Giuseppe
Colombo, «Dio (per sé preso) non deve nulla a nessuno e l'uomo (per sé preso)
non può nulla». Dunque Gesù, non macchiato dal peccato in virtù della sua
natura divina e perciò privo di doveri e di debiti nei confronti di Dio, offrì
volontariamente e liberamente la sua vita innocente a Dio stesso e così
facendo, essendo uomo, espiò il peccato originale dell'umanità. La
compatibilità di prescienza divina e libertà umana: il De concordia Il De
concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero
arbitrio, l'ultima opera di Anselmo, è volto a dimostrare la compatibilità
della prescienza divina, oltre che della predestinazione e della grazia, con il
libero arbitrio dell'uomo. Un manoscritto del nord della Francia del De
concordia, risalente alla metà del XII secolo. Il problema dell'apparente
inconciliabilità della prescienza e della predestinazione divina con la libertà
umana, che risulta dal fatto che pare impossibile prevedere (e a maggior
ragione predeterminare) un fatto senza far venir meno il suo carattere libero e
non necessario, è risolta da Anselmo con un duplice argomento. In primo luogo,
egli osserva, bisogna distinguere la necessità ontologica da quella logica, dal
momento che quella ontologica ha una priorità su quella logica: se infatti
qualcosa è necessario ontologicamente (come il sorgere del sole) allora lo è
anche logicamente (nel momento in cui il sole sorge, sorge necessariamente);
tuttavia se qualcosa è necessario logicamente (nel momento in cui avviene,
avviene necessariamente) può anche non essere necessario ontologicamente (è il
caso, ad esempio, di una rivolta popolare).[115] In secondo luogo Anselmo
propone una tesi già affermata da Agostino e da Boezio: la nostra concezione di
predestinazione e predeterminazione è limitata alla nostra coscienza temporale
delle priorità cronologiche, ma Dio si colloca in un'eternità al di fuori e al
di sopra del tempo, in cui non «nulla è passato o futuro, ma tutto è
simultaneamente e senza divenire»; pertanto, Dio conosce e determina gli eventi
che per noi sono passati, presenti e futuri da una prospettiva sovratemporale
in cui tali eventi sono tutti simultanei; stando così le cose, non c'è
contraddizione tra il fatto che egli conosca o determini un evento libero in
quanto libero (allo stesso modo di come vede o determina eventi necessari in
quanto necessari). Il problema di conciliare la grazia di Dio con il libero
arbitrio invece sorge dalla contrapposizione di coloro che da un lato, «superbi»,
considerano la virtù e quindi la salvezza suscettibili di essere raggiunte
dalla sola libera volontà dell'uomo; e di coloro che, dall'altro lato,
attribuiscono così tanta importanza alla grazia divina nella redenzione
dell'uomo da negare addirittura la sua libertà.[117] Anselmo assume nella
controversia una posizione intermedia, in cui cioè grazia e libertà vengono
armonizzate: egli sostiene infatti che, come si era già visto nel De casu
diaboli, per agire rettamente è necessario volere rettamente, e per volere
rettamente è necessaria una retta volontà; tuttavia l'uomo non può darsi da
solo tale rettitudine della volontà, poiché (mentre si può autonomamente
conservare la rettitudine della volontà quando la si ha) non si può volere la
rettitudine con il solo libero arbitrio quando non si ha una volontà
retta;[118] e dunque se è vero che è Dio, per grazia, a dare all'uomo questa
facoltà, è vero anche che sta alla libertà dell'uomo conservarla – i due
aspetti non sono quindi contraddittori, bensì complementari.[117] Il
testo prosegue con un'analisi dei significati della parola "volontà"
e delle sue interazioni con il concetto di giustizia, e si conclude con una
ricapitolazione dei punti già trattati: l'autore ribadisce che la volontà,
creata come ente positivo e quindi di per sé orientata a Dio e alla
conservazione della sua originaria bontà, è stata corrotta dalla deviazione del
volere dell'uomo per un cattivo uso della libertà; pertanto la volontà umana ha
perso la rettitudine necessaria a volere rettamente, e ha bisogno che tale
rettitudine sia ripristinata dalla grazia divina prima di poter ricominciare ad
agire con giustizia, preservando grazie alla libertà la rettitudine della sua
volontà.[118] Altri scritti Miniatura inglese del XII secolo di un
capolettera delle Orationes sive meditationes. Anselmo d'Aosta fu autore di
diversi altri scritti di carattere teologico, ma pur sempre animati da uno
spirito filosofico: l'Epistola de incarnatione Verbi e il successivo De
processione Spiritus Sancti trattavano del problema della processione dello
Spirito Santo e delle modalità della sua incarnazione; il De conceptu virginali
et de peccato originali analizzava le questioni dottrinali dell'Immacolata
Concezione e del peccato originale, e inoltre ripercorreva ragionamenti già
portati avanti nelle opere precedenti; a ciò si aggiungono meditazioni,
preghiere e opuscoli minori, oltre a una serie di frammenti provenienti da
un'opera non conclusa e a un De moribus (Sui costumi [morali]) in parte spurio
che tratta delle affezioni dell'anima.[15] Le preghiere scritte da
Anselmo sono raccolte in un'opera nota come Orationes sive meditationes
(Preghiere ovvero meditazioni); esse, scritte lungo tutta la vita dell'autore
dal periodo di Bec all'episcopato inglese, costituiscono un ulteriore esempio
dell'ideale anselmiano di comprensione della fede: benché orientate più alla
contemplazione e al raccoglimento spirituale che alla vera e propria filosofia
o teologia, il loro scopo è infatti quello di suscitare nel lettore quel
sentimento rivolto verso la verità e la rettitudine che è necessario
presupposto tanto della teoresi quanto della stessa vita buona.[119] Di
Anselmo si è poi conservato un epistolario particolarmente significativo, che
testimonia in modo efficace sia della sua personalità che della sua figura
pubblica: risulta infatti chiaramente, da una parte, l'affetto, la carità, la
sensibilità e la ferma pazienza che Anselmo infondeva nelle lettere ai monaci
suoi amici e suoi discepoli; e dall'altra la sua determinazione nelle faticose
e a volte frustranti questioni politiche legate alla sua posizione di arcivescovo.
Esercita un'influenza estremamente significativa sulla storia della filosofia
sia. La sua riflessione giunse a livelli di estrema profondità in tutti i campi
in cui si espresse, anche se è forse vero che tali campi furono relativamente
pochi. Infatti alla sua filosofia, estremamente raffinata dal punto di vista
dialettico, fa difetto un'approfondita analisi del campo della filosofia della
natura – la quale sarebbe stata necessaria per poter dire che le riflessioni di
Anselmo formano un sistema forganico e completo. La discussione di Anselmo di
certi problemi come quelli della libertà e del male, ebbe la sua risonanza
nella filosofia, venendo ripresa ad esempio da Riccardo di San Vittore. L’'attenzione
di Anselmo per la dimensione logico-dialettica della filosofia fa poi di lui,
secondo alcuni critici, un precursore della filosofia scolastica. D'altra parte
le pagine più famose della sua opera sono certamente quelle in cui, nel “Proslogion”
egli espone il suo argomento a priori per la dimostrazione dell'esistenza di
Dio. Esse, considerate un punto di riferimento di importanza capitale per la
storia della filosofia, genera una mole di saggi sia critici che apologetici. A
proposito della rilevanza dell'argomento
di Anselmo, le sue implicazioni sono tanto ricche che il solo fatto di averle
ammesse o rifiutate è sufficiente a determinare il gruppo a cui una filosofia
appartiene. Ciò che è comune a tutti coloro che l'ammettono è l'identificazione
dell'essere reale con l'essere intelligibile concepito col pensiero. Ciò che è
comune a tutti coloro che ne condannano il principio è il rifiuto di porre un
problema d'esistenza separato da un dato esistente empiricamente. Dopo
Gaunilone, che fu praticamente l'unico a mostrare interesse per il cosiddetto
argomento ontologico durante la vita di Anselmo, esso venne citato da Guglielmo
d'Auxerre e ripreso criticamente da diversi altri pensatori nel XIII secolo,
tra cui i più degni di nota sono Aquino e Fidanza. Aquino contesta la validità
di tale dimostrazione, Fidanza la difese. Oltre a Fidanza, altri dottori della
Chiesa, tra cui Enrico di Gand e Alberto Magno, accettarono la prova
anselmiana. Nel Medioevo anche Alessandro di Hales e Duns Scoto si espressero
sull'argomento, entrambi condividendolo, anche se Duns Scoto sostenne che la
formulazione sarebbe stata più appropriata se anziché dal concetto di dio Anselmo
fosse partito dal concetto d’ente. Cartesio riprese a sua volta l'argomento,
considerandolo valido e apprezzando la sua indipendenza da considerazioni di
carattere empirico, disinteressandosi però di quegli aspetti della prova
anselmiana che implicavano la necessaria trascendenza di Dio come fondamento
del suo argomentare.[129] Passando tramite Cartesio, una dimostrazione simile
alla prova a priori di Anselmo entrò anche nel sistema metafisico dell'Ethica
di Spinoza, il quale dimostrava l'esistenza della sostanza (poi identificata
con Dio stesso) sulla base del fatto che, per la definizione stessa della
sostanza, la sua essenza implica l'esistenza. Leibniz sostenne la validità in
sé della dimostrazione, ma contesta un'apparente leggerezza da parte di
Anselmo. Leibniz riconosce infatti che l'autore del Proslogion in effetti
dimostra che, SE Dio (inteso come l'essere massimamente perfetto) è possibile,
allora è necessario, ma sosteneva che non avesse dimostrato che è possibile se
non con argomenti a posteriori. L’argomento fu oggetto di critiche da parte di
Hume e soprattutto di Kant: quest'ultimo in particolare, nella Critica della
ragion pura, evidenzia che l'esistenza non può essere considerata un predicato
(non senza cadere nelle contraddizioni messe in evidenza dai filosofi della
scuola di Velia) e che, dunque, non si può dire che l'esistenza è un predicato
positivo che un Dio di cui non può essere pensato il maggiore non potrebbe non
avere. Hegel torna a difendere la dimostrazione di Anselmo affermando che in
Dio essenza ed esistenza coincidono, e che la distinzione tra le due è tipica
esclusivamente del mondo materiale. Secondo Russell, l'argomento è ancora alla
base del sistema di Hegel e dei suoi seguaci, e riappare nel principio di
Bradley. Ciò che può essere e dev'essere, è. La dimostrazione anselmiana piacce
inoltre a Gioberti e Rosmini, che se ne appropriarono modificandola. La critica
si è rivolta soprattutto all'analisi del rapporto tra fede e ragione negli
scritti di Anselmo e si è interrogata sulla misura in cui le singole opere
dovrebbero essere considerate filosofiche. Si è inoltre discusso sul valore
della logica costruita da Anselmo e sono state analizzate le implicazioni
esistenziali, con particolare riferimento al problema del peccato e della
salvezza e al concetto di rettitudine. Barth vede Anselmo tra i suoi principali
punti di riferimento, ed è stato un attento studioso della sua filosofia. Sono
altresì degne di nota le rivisitazioni della prova anselmiana, con l'intento di
emendarla da aporie ed equivoci logici, operate da Hartshorne e Malcolm. Di diverso
tenore l'analisi di Findlay, che ha mosso una critica serrata, sotto il profilo
linguistico, alla nozione di dio come ente assoluto utilizzata da Anselmo. In
occasione dell'ottavo centenario della morte di Anselmo, il 21 aprile 1909,
papa Pio X promulgò l'enciclica Communium Rerum in cui ne celebra la figura e
ne promuoveva il culto. Papa San Giovanni Paolo II nell'enciclica Fides et
ratio guardava alla prova ontologica di Anselmo come a un modello di quella
complementarità imprescindibile tra fede e ragione, grazie a cui l'armonia
fondamentale della conoscenza filosofica e della conoscenza di fede è ancora
una volta confermata: la fede chiede che il suo oggetto venga compreso con
l'aiuto della ragione; la ragione, al culmine della sua ricerca, ammette come
necessario ciò che la fede presenta. Altre opere: “Monologion”; “Proslogion”;
“De grammatico”; De veritate”; “De libertate arbitrii”; “De casu diaboli”; “Epistola
de incarnatione Verbi”; “Cur Deus homo”; “De conceptu virginali et de peccato
originali”; “Meditatio de humana redemptione”; “De processione Spiritus
Sancti”; “Epistola de sacrificio azymi et fermentati”; “Epistola de sacramentis
Ecclesiae”; “De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum
libero arbitrio”; “De potestate et impotentia, possibilitate et
impossibilitate, necessitate et libertate:; “Orationes sive meditationes
Epistolae. Fabio Arduino, Sant'Anselmo d'Aosta, in Santi, beati e testimoni -
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esistente. Gilson,292-293. Giuseppe Colombo, Invito al pensiero di Sant'Anselmo,
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Colombo,56. Simonetta,476. Gilson,293. Gilson,294-296. Thomas Williams, Introduction
to the Monologion and Proslogion (PDF), su University of South Florida. URL
consultato il 9 settembre 2012. Tale interpretazione
nacque dalla sintesi neoplatonico-cristiana operata da Agostino. Si veda
Simonetta,440. Simonetta,442 e 476. Colombo,44. Gilson,296.
Simonetta,477. G. C., Enciclopedia
Italiana (1935), alla voce "argomento ontologico" Proslogion, cap. II. Che l'argomento di Anselmo consista
principalmente in una reductio ad absurdum è stato evidenziato soprattutto da
Alvin Plantinga, esponente della filosofia analitica, in A. Plantinga, The
nature of necessity, cap. X,196-221, Oxford University Press, 1974. Karl Barth fa notare in proposito che Anselmo
non attribuisce a Dio alcun contenuto positivo, enunciando il suo argomento più
che altro come regola del pensiero, come divieto di pensare in modo
inappropriato (K. Bart, Filosofia e rivelazione [1931], trad. di V. Vinay,123 e
segg., Silva, Milano 1965). Coloman
Étienne Viola, Anselmo D'Aosta: fede e ricerca dell'intelligenza,58-80, Senso
della formula dialettica del Proslogion, Jaka Book, 2000. Simonetta,479. Colombo,53.
A proposito della disputa sull'esistenza di Dio, avuta col benedettino
Gaunilone. Proslogion, cap. 15, Opera
Omnia, I, 112. Cfr. Coloman Étienne
Viola, Anselmo D'Aosta: fede e ricerca dell'intelligenza,58-80, Senso della
formula dialettica del Proslogion , Jaka Book, 2000. Colombo,52. Simonetta,478. Colombo,56-57. Colombo,57-58. Per Anselmo, infatti, anche il sole non è
fissabile direttamente dallo sguardo, eppure attraverso la luce del giorno
riusciamo benissimo a vedere la sua stessa luce (cfr. Monologio e Proslogio, a
cura di Italo Sciuto,296, Bompiani, 2002).
«Nam etsi quisquam est tam insipiens, ut dicat non esse aliquid, quo
maius non possit cogitari, non tamen ita erit impudens, ut dicat se non posse
intelligere aut cogitare, quid dicat. Aut si quis talis invenitur, non modo
sermo eius est respuendus, sed et ipse conspuendus» (Liber apologeticus contra
Gaunilonem respondentem pro insipiente, 9, 258C). Colombo,59-60. Colombo,61. Simonetta,478-479. Colombo,61-62. Colombo,62-63. Colombo,63. Colombo,64-67. Colombo,67.
Giacobbe, Marchetti,7-8. Colombo,73. Tale definizione era stata proposta da
Giovanni Scoto Eriugena. Si veda Simonetta, 479. Colombo, 74.
Simonetta, 490. Colombo,75.
Colombo, 75-76. Colombo,73,
76. Colombo,76-77. Giacobbe, Marchetti,10. Colombo,77. Il quale l'aveva a sua volta ricavata da
Plotino e Porfirio. Si veda Simonetta,440. Colombo,78. Su questi argomenti Anselmo si esprimeva
anche nel De concordia. Si veda Colombo,79. Colombo,79. Colombo,80.
Colombo,81-82. Colombo,82. Colombo,82-23. Colombo,82, 84. Colombo,85.
Colombo,86. Colombo,86-87. Colombo,87. Colombo,88. Simonetta,480. Colombo,89.
Colombo,91. Colombo ,95. Colombo,91-95. Gilson,303. Gilson,302-303. Colombo,135. Colombo,132. Gilson,298.
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vol. 1, Torino, Paravia, Diego Fusaro, Anselmo d'Aosta, su Filosofico.net. URL
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Colombo,132-133. Francesco
Tomatis, L'argomento ontologico: l'esistenza di Dio da Anselmo a Schelling,56-57,
Città Nuova, 2010: mentre Anselmo intendeva mostrare la contraddizione logica
di chi rinnega la fede in Dio, la preoccupazione di Cartesio è garantire
l'autonomia interna del pensiero privandolo di sbocchi al trascendente. È stato
rilevato come Cartesio sia caduto in fondo nello stesso errore di Gaunilone,
concependo Dio soltanto in termini positivi come «il più grande di tutti»
(maius omnibus), anziché in maniera negativa (nihil maius, «niente di più
grande»): cfr. Virgilio Melchiorre, La via analogica,10-11, nota 18, Vita e
Pensiero, 1996. Nello stesso equivoco sarebbe caduto Hegel (A. Molinaro,
Anselmo, Hegel e l'argomento ontologico, in AA.VV., L'argomento ontologico,
«Archivio di filosofia»,353-370, 1-3, 1990).
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Roma-Bari, Laterza, 2008,17-18,978-88-420-8732-8. Colombo,133. Piergiorgio Odifreddi, Il diavolo in cattedra
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Cantuariensis – Operum Omnium Conspectus seu 'Index of available writings', su
Documenta Catholica Omnia. URL consultato il 12 novembre 2017.
PredecessoreArcivescovo di CanterburySuccessoreArchbishcantarms.png Lanfranco
di Pavia (1070-1089)1093-1109 Ralph d'Escures V · D · M Anselmo d'Aosta V · D ·
M Padri e dottori della Chiesa cattolica V · D · M Ordine di San Benedetto V ·
D · M Santi della Legenda Aurea di Iacopo da Varagine WorldCat
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cristiani franchiPersonaggi citati nella Divina Commedia (Paradiso)Santi
benedettiniSanti del XII secoloSanti franchiSanti per nomeAbati benedettiniScrittori
medievali in lingua latina. anselmo “I would call him ‘Canterbury,’ only he was an
Italian!”H. P. Grice. Saint, called Anselm of Canterbury, philosopher
theologian. A Benedictine monk and the second Norman archbishop of Canterbury,
he is best known for his distinctive method
fides quaerens intellectum; his “ontological” argument for the existence
of God in his treatise Proslogion; and his classic formulation of the
satisfaction theory of the Atonement in the Cur Deus homo. Like Augustine
before him, Anselm is a Christian Platonist in metaphysics. He argues that the
most accessible proofs of the existence of God are through value theory: in his
treatise Monologion, he deploys a cosmological argument, showing the existence
of a source of all goods, which is the Good per se and hence supremely good;
that same thing exists per se and is the Supreme Being. In the Proslogion,
Anselm begins with his conception of a being a greater than which cannot be
conceived, and mounts his ontological argument that a being a greater than
which cannot be conceived exists in the intellect, because even the fool
understands the phrase when he hears it; but if it existed in the intellect
alone, a greater could be conceived that existed in reality. This supremely
valuable object is essentially whatever it is
other things being equal that is
better to be than not to be, and hence living, wise, powerful, true, just,
blessed, immaterial, immutable, and eternal per se; even the paradigm of
sensory goods Beauty, Harmony,
Sweetness, and Pleasant Texture, in its own ineffable manner. Nevertheless, God
is supremely simple, not compounded of a plurality of excellences, but “omne et
unum, totum et solum bonum,” a being a more delectable than which cannot be
conceived. Everything other than God has its being and its well-being through
God as efficient cause. Moreover, God is the paradigm of all created natures,
the latter ranking as better to the extent that they more perfectly resemble
God. Thus, it is better to be human than to be horse, to be horse than to be
wood, even though in comparison with God everything else is “almost nothing.”
For every created nature, there is a that-for-which-it-ismade ad quod factum
est. On the one hand, Anselm thinks of such teleology as part of the internal
structure of the natures themselves: a creature of type F is a true F only
insofar as it is/does/exemplifies that for which F’s were made; a defective F,
to the extent that it does not. On the other hand, for Anselm, the telos of a
created nature is that-for-which-God-made-it. Because God is personal and acts
through reason and will, Anselm infers that prior in the order of explanation
to creation, there was, in the reason of the maker, an exemplar, form,
likeness, or rule of what he was going to make. In De veritate Anselm maintains
that such teleology gives rise to obligation: since creatures owe their being and
well-being to God as their cause, so they owe their being and well-being to God
in the sense of having an obligation to praise him by being the best beings
they can. Since every creature is of some nature or other, each can be its best
by being that-for-which-God-made-it. Abstracting from impediments, non-rational
natures fulfill this obligation and “act rightly” by natural necessity;
rational creatures, when they exercise their powers of reason and will to
fulfill God’s purpose in creating them. Thus, the goodness of a creature how
good a being it is is a function of twin factors: its natural telos i.e., what
sort of imitation of divine nature it aims for, and its rightness in exercising
its natural powers to fulfill its telos. By contrast, God as absolutely
independent owes no one anything and so has no obligations to creatures. In De
casu diaboli, Anselm underlines the optimism of his ontology, reasoning that
since the Supreme Good and the Supreme Being are identical, every being is good
and every good a being. Two further conclusions follow. First, evil is a
privation of being, the absence of good in something that properly ought to
have it e.g., blindness in normally sighted animals, injustice in humans or
angels. Second, since all genuine powers are given to enable a being to fulfill
its natural telos and so to be the best being it can, all genuine
metaphysically basic powers are optimific and essentially aim at goods, so that
evils are merely incidental side effects of their operation, involving some lack
of coordination among powers or between their exercise and the surrounding
context. Thus, divine omnipotence does not, properly speaking, include
corruptibility, passibility, or the ability to lie, because the latter are
defects and/or powers in other things whose exercise obstructs the flourishing
of the corruptible, passible, or potential liar. Anselm’s distinctive action
theory begins teleologically with the observation that humans and angels were
made for a happy immortality enjoying God, and to that end were given the
powers of reason to make accurate value assessments and will to love
accordingly. Anselm regards freedom and imputability of choice as essential and
permanent features of all rational beings. But freedom cannot be defined as a
power for opposites the power to sin and the power not to sin, both because
neither God nor the good angels have any power to sin, and because sin is an
evil at which no metaphysically basic power can aim. Rather, freedom is the
power to preserve justice for its own sake. Choices and actions are imputable
to an agent only if they are spontaneous, from the agent itself. Creatures
cannot act spontaneously by the necessity of their natures, because they do not
have their natures from themselves but receive them from God. To give them the
opportunity to become just of themselves, God furnishes them with two
motivaAnselm Anselm 31 31 tional drives
toward the good: an affection for the advantageous affectio commodi or a
tendency to will things for the sake of their benefit to the agent itself; and
an affection for justice affectio justitiae or a tendency to will things
because of their own intrinsic value. Creatures are able to align these drives
by letting the latter temper the former or not. The good angels, who preserved
justice by not willing some advantage possible for them but forbidden by God
for that time, can no longer will more advantage than God wills for them,
because he wills their maximum as a reward. By contrast, creatures, who sin by
refusing to delay gratification in accordance with God’s will, lose both
uprightness of will and their affection for justice, and hence the ability to
temper their pursuit of advantage or to will the best goods. Justice will never
be restored to angels who desert it. But if animality makes human nature
weaker, it also opens the possibility of redemption. Anselm’s argument for the
necessity of the Incarnation plays out the dialectic of justice and mercy so
characteristic of his prayers. He begins with the demands of justice: humans
owe it to God to make all of their choices and actions conform to his will;
failure to render what was owed insults God’s honor and makes the offender
liable to make satisfaction; because it is worse to dishonor God than for
countless worlds to be destroyed, the satisfaction owed for any small sin is
incommensurate with any created good; it would be maximally indecent for God to
overlook such a great offense. Such calculations threaten certain ruin for the
sinner, because God alone can do/be immeasurably deserving, and depriving the
creature of its honor through the eternal frustration of its telos seems the
only way to balance the scales. Yet, justice also forbids that God’s purposes
be thwarted through created resistance, and it was divine mercy that made
humans for a beatific immortality with him. Likewise, humans come in families
by virtue of their biological nature which angels do not share, and justice
allows an offense by one family member to be compensated by another. Assuming
that all actual humans are descended from common first parents, Anselm claims
that the human race can make satisfaction for sin, if God becomes human and
renders to God what Adam’s family owes. When Anselm insists that humans were
made for beatific intimacy with God and therefore are obliged to strive into
God with all of their powers, he emphatically includes reason or intellect
along with emotion and will. God, the controlling subject matter, is in part
permanently inaccessible to us because of the ontological incommensuration
between God and creatures and our progress is further hampered by the
consequences of sin. Our powers will function best, and hence we have a duty to
follow right order in their use: by submitting first to the holistic discipline
of faith, which will focus our souls and point us in the right direction. Yet
it is also a duty not to remain passive in our appreciation of authority, but
rather for faith to seek to understand what it has believed. Anselm’s works
display a dialectical structure, full of questions, objections, and contrasting
opinions, designed to stir up the mind. His quartet of teaching dialogues De grammatico, De veritate, De libertate
arbitrii, and De casu diaboli as well as his last philosophical treatise, De
concordia, anticipate the genre of the Scholastic question quaestio so dominant
in the thirteenth and fourteenth centuries. His discussions are likewise
remarkable for their attention to modalities and proper-versus-improper
linguistic usage. Fin dagli esordi della filosofia
medievale, la dottrina dei segni riguarda la questione dell’interpretazione, o
addirittura dell'intero mondo reale, inteso come insieme di segni attraverso i
quali l’assoluto di Bradley si fa manifesto, e attraverso i quali ci indirizza
alla verità. Siamo agli albori di una logica del segno, con Alenino, lo
Pseudo-Dionigi l'Areopagita, Scoto Eriugena, Beda il Venerabile. Al principio
dell'xi secolo iniziano la vera e propria logica e la semantica medievali.
Sant'Anselmo d'Aosta elabora una dot- trina della verità finalizzata alla
dimostrazione dell'esistenza di Dio. È convinto, infatti, che la fede possa
essere confermata dal- la ragione, anche se la sua origine -vieneprima della
ragione stes- sa. Nelle sue opere {Monologion, Proslogion, De veritate) vengo-
no articolate così le prove dell'esistenza dell’Assoluto, che costituiscono un
momento di notevole interesse semiotico. Nel “Proslogion”, Anselmo d’Aosta sostiene
la differenza fra linguaggio (o segno, segnante) e realtà (segnato). Se, secondo
il linguaggio si può dire che l’Assoluto non esiste, non lo si può però pensare
secondo il reale. Si tratta della cosiddetta "prova ontologica",
importante perché distingue fra una verità referenziale e una verità *proposizionale*.
La verita proposizionale è limitata a una pura asserzione di *esistenza*, che
ha valore indipendentemente dall'*essenza* della cosa. Nel dialogo “De veritate”,
la dicotomia fra segno (segno, segnante) e referente (relatum, segnatum) è
maggiormente sviluppata, su base aristotelica, distinguendo fra verità di un
segno (del segnato) -- la significazione -- e verità stretta della
proposizione. Una cosa o avvenimento – l’alpha e beta -- determina la verità o
falsita (il valore di verita) della proposizione ‘l’alpha e beta’ Fido is
shaggy, ma non costituisce la sua verità. La verita IN-tensionale della
proposizione e, infatti, data a priori, analiticamente, da una propria legge
logica interna. Dunque, la verità di quello ‘segnato’, ‘comunicato’ o impiegato
o impicato (la significazione) non è mai certa o provata. Questa dipende dalla
realtà -- o livello ontologico -- con la quale non può essere coerente. Dunque,
la verità della significazione, che può essere detta "semantica" o
del segno, non si applica che al comunicato o impiegato della conversazione o
discorso umano, che riflette piti o meno la cosa, evvento, o situazione
(l’alpha e beta), mentre il verbum dell’assoluto è con-sustanziale alla natura, ed è, alla
Velia, Uno e Indivisibile. MAESTRO: Quando una proposizione, “Fido is shaggy”,
è vera? DISCEPOLO: Quando esiste realmente ciò che essa enuncia affermandolo
(il fatto che Fido e shaggy) o negandolo (il fatto che non e shaggy). Voglio
dire che *esiste* -- una x che e Fido e che e shaggy -- ciò che essa *enuncia*
*anche* se essa nega l'esistenza di ciò che non è. E questo perché, così, essa,
“l’alpha e beta”, enuncia, in un certo modo, che una cosa è (“l’alpha e – Ex Kx
e Bx). M: Ti sembra dunque che la cosa *enunciate* sia la verità della
proposizione? DISCEPOLO. No!. MAESTRO: Perché? DISCEPOLO: Perché *nulla* -- cf.
Heidegger -- è vero che per partecipazione alla verità, ed è così che la idea
della verità sta nel vero. Ma la cosa enunciata (che Fido e shaggy) non sta
nella proposizione vera. Perciò, non deve essere detta la sua verità, ma la
*causa* (ragione) della verità della proposizione. MAESTRO. Vedi allora se il
tuo *discorso* (il segnante) stesso o il segnato (la significazione del
segnante) o qualche elemento della definizione della proposizione non siano ciò
che tu cerchi. DISCEPOLO. Non lo penso! MAESTRO: Perché? DISCEPOLO. Perché se
fosse così, *ogni* discorso –il discorso, la proposizione -- sarebbe vero o
vera, poiché tutti gli elementi della definizione della proposizione – l’alpha
e beta -- restano gli stessi, che ciò che essa enuncia esista o meno. Il
discorso, la è lo stesso; la signi-ficazione
(lo segnato) anche e vero, e così tutto il resto. MAESTRO: Che cosa ti sembra
essere dunque il vero? DISCEPOLO: Non ne so nulla, se non che, quando essa
signi-fica esistere ciò che realmente è, ha in sé della verità, ed è vera. La prova
dell'esistenza dell’Assoluto bradleyiano consiste nella discussione sul
linguaggio che Aosta considera un vero e proprio rispecchiamento della natura,
un po' come il logos platonico o il verbum agostiniano. La differenza fra il
segno da natura (dell’assoluto) e il segno d’arte umana sta nel fatto che il
segno dalla natura è cons-ustanziale alla natura, ne è l'esatta immagine, e per
questo è perfetto (“If those spots mean measles, he has measles”). Invece, il
segno dall’arte permette solo di "pensare alle cose", ed è pertanto
necessariamente imperfetto: 1 Anselmo d'Aosta, Deventate, 11. 51
Questo basta per la verità della significazione di cui abbiamo cominciato
a parlare. In effetti, la stessa ragione di verità che noi scopriamo in un
segno dall’arte è applicabile a ogni segno che si fanno per affermare o negare
qualcosa, come gli scritti, il linguaggio o i gesti. Ogni segno dall’arte e con
l'aiuto del quale noi diciamo le cose, cioè di quel ci serviamo per pensar le cose,
e una rassomiglianze o immagine (fantasma, manifestazione) della cose che il
segno de-nota. Ora, ogni rassomiglianza o immagine è più o meno vera a seconda
della sua maggiore o minore fedeltà alle cose che essa rappresenta. La logica o dialettica è, di norma, considerata come
la solida roccia cui ancorare la filosofia. Infatti nella dialettica riteniamo
di trovare garanzia di chiarezza, verità, comprensibilità. Ma quanto è
affidabile questa garanzia? Parrebbe non molto, stando a quel che argomenta in modo
provocatorio Anselmo d’Aosta. Colla sua dialettica e sovversione – dialettica
sovversiva – Aosta rivela l’altra faccia della dialettica, quella
perturbatrice, una dialettica che non è stabile e chiara, bensì ingannevole e
torbida. Aosta propone, come caso di studio di una dialettica sovversiva che
svia l’umana ragione, la argomentazione addotta a sostegno della prova
ontologica dell’esistenza di dio. L’intento anselmiano e quello di stilare una
ricetta dagli ingredienti ben poco amalgamabili – ragione, dialettica, e fede –
per sfornare la ciambella del “credo ut intelligam”, da servire al posto di
quella del “credo quia absurdum” di Tertulliano. Infatti, è da presumere che
Aosta non fosse assillato da alcun dubbio circa il suo credo. Quindi cercava
solo di *intelligere* la sua fede [credenza] senza ricorrere ad alcuna sua demonstratio.
In soldoni, Aosta, con il suo argomento ontologico forne all’insipiente -- che nel Salmo 13
sentenzia, in ebraico, “Dio non c’è” (dio non e) -- una prova cogente dell’esistenza
di dio oppure Aosta credente vuole convincersi e convincere gl’altri credente,
ancor di più dell’oggetto del loro credo? Ma da un attento e diffidente
esame dell’intero corpus del fondatore della scolastica, con un’irritante, ma
utile, tattica vuol risvegliare nel destinatario il memento che, sicuramente
l’uso della ragione può combattere l’eresia. Ma, al contempo, un *abuso*
dell’argomentare può sottilmente minare la stessa ortodossia. Infatti, nel
progetto d’Aosta la ragione dialettica svolge ruoli differenti a livelli
differenti. La ragione dialettica, da un lato, per la sua natura normativa,
impone limiti a ogni eccesso. All’altro lato, però, la ragione dialettica apre
un vasto spazio di sperimentazione in cui non si raggiunge mai un
limite. Il programma di natura tipicamente dialettica impostato d’Aosta
perché possa farci pensare più correttamente al signore ineffabile di tutte le
cose anziché schiarire l’orizzonte crea una selva di interrogative. Nell’arco
di un dialogo, Aosta è costretto a ricorrere al punto di domanda per ben 19
volte). L’illusione del possibile conseguimento di una perfezione morale e
logica che sa tanto di viaggio verso l’isola che non c’è, fa diventare il
problema dell’illuminazione razionale oggetto di una ermeneutica del sospetto
alla Ricoeur. Pertanto, è più che naturale chiedersi che senso ha seguire
l’incoraggiamento d’Aosta a cercar di raggiungere quel che è fuori portata. Come
possiamo tracciare un percorso se non ne conosciamo la meta? Non è che forse stiamo
in realtà facendo qualcos’altro quando cerchiamo’ così? Pur ammettendo la
necessità delle considerazioni dialettico-razionali d’Aosta, che trovano il
loro punto di partenza nella “fides quaerens intellectum”, c’è da chiedersi se
nello “Proslogion” Aosta non avesse intenzione di convertire gli infedeli per
mezzo di un sillogismo. A tal proposito, vale la pena riportare quanto ebbe a
filosofare Newman in “Un saggio per aiuta di una grammatical dell’assentimento.
La logica fa una triste retorica colla multitude. Il primo tiro, il colpo alla
cieca, accircola le quadre, ma tu non despera da convertirte da un sillogismo! Infatti,
usando la metafora del far partire il colpo alla cieca, Newman implica che
bisogna partire dalla fede e dalla rivelazione – teologia revelata no naturale.
Solo quando si accetta l’esistenza di Dio per revelazione, fede revelata, assiomaticamente,
per assunzione, senza alcun tipo di dimostrazione, prova, presupposizione, o
premessa, solo allora si è pronti a una conversione mediante un argomento
dialettico-razionale. Pertanto, esistono dunque buoni motivi per cui il “gioco”
d’Aosta debbe essere ristretto al suo destinatario gia credente. La chiave di
lettura dell’argomentazione d’Aosta è da individuare, tramite la citazione di
quello Salmo ebraico, numero 13, in ebreo, “Dio non c’e” -- nella figura dello
stultus et “insipiens”. Certa critica ha sostenuto che Aosta ha messo in scena
lo stolto per meglio promuovere la sua tesi. In un certo senso potrebbe essere
cosi. Ma la caratterizzazione del *miscredente* come uno stolto è sfruttata
sottilmente per dimostrarci che è possibile individuare un argomento *razionale*
che consenta di affermare che *deum esse*, che dio e. Giungere a possedere un
tale argomento dialettico razionale che concluse ‘Dio c’e” non serve solo nel
caso in cui se ci imbattessimo in uno stolto sapremmo come comportarci. E che
il destinatario di Aosta e stolto (discepolo, non maestro) in certa misura. La
ricerca di trasparenza suggerita d’Aosta contribute a renderci – a rendere il
destinatio – *meno* stolti. Lo stolto non è tale perché non vede che l’esistere
di Dio è analiticamente, a priore, di manire intensionale, a priori, per se
notum, per se notificatum, per se segnatum, per se segnatum per il segnante, ma
lo è perché egli *sbaglia* nell’usare o proffirere una profferenza della forma
logica, “dio e” – non-ente, ‘dio’ come suggeto di una enunciazione della forma
“il S e P”. E stolto perche persevera in questo modo di *esprimersi* -- a
negazione ‘non c’e’ del salmo interpretata per implicatura come interna – cf.
‘il re di Francia non e calvo, dato che ‘il presente re di Francia’ e una
descrizione vacua – ‘Pegaso vuola’ – Grice, “Nomi vacuii”. Se il profferente
usa correttamente l’espressione ‘dio’, riconosce che deve dire che dio esiste
-- il ‘Deum esse’ di d’Aquino. Ma con questa affermazione (dio e – l’esistenza
non e un predicato ma la copola) non puo pretendere di avere afferrato
l’essenza di Dio (il ‘Dei esse’ d’Aquino– quello che dio e, s’e. ). Infatti,
per Aosta la prova dell’esistenza di ‘dio’ (o dell’assoluto della scuola di
Velia e di Bradley) può funzionare solo se dio o l’assoluto (o Assoluto, come
preferisce Croce) è inteso (=df, alla Peano) come “id, quo nihil majus cogitari
possit”. Tanto è che anche chi, vestendo i panni dello stolto, dice in cuor suo
“non esiste alcun Dio” può *pensare* concivere il concetto di “quello da che
niente maggiore puo essere cogitato”. Perché altrimenti non potrebbe neanche *formularne*
la negazione. L’espressione soggeto “quello da che niente maggiore puo
essere cogitato” diventa per Aosta una vera e propria macchina-generante-attributi-divini
– il dio dei filosofi della filosofia naturale --. L’assoluto (quello da che
niente maggior puo essere cogitato) deve essere onnipotente. Se non lo fosse,
tu possi concepire un essere maggiore di lui. Ma l’assoluto è, per definizione,
quello da che ninente maggiore puo essere cogitato. Quindi, l’assoluto deve
essere onnipotente. Allo stesso modo, l’assoluto deve essere giusto,
misericordioso, eterno, immutabile e così via. Se mancasse solo di una di
queste qualità, non sarebbe più quello che l’assoluto e per definizione, =df –
quello da cui niente maggiore puo essere cogitato, il che è
impossibile. La semplicità teoretica di questa impostazione è fuorviante.
L’apparente successo nel generare molteplici attributi divini per mezzo
dell’argomento ontologico comporta un problema che innesca una reazione a
catena. Si deve dimostrare che gli attributi divini siano non contraddittori
l’uno con l’altro – in altri termini, dimostrare la possibilità della loro
compresenza in un solo identico ente. Ecco il punto: il filosofo con la sua
ratio argomentativa può rintracciare tutte le possibili relazioni
intercorrenti, per esempio, fra bontà, giustizia e misericordia, ed è in grado
anche di dimostrare che Dio non solo *può* -- il diamante dellla logica modale
-- ma anche *deve* -- il quadrato della logica modale -- possedere tutti e tre
questi attributi, pur tuttavia non esiste animale razionale al mondo che possa
dar conto del perché l’assoluto si mostri giusto e misericordioso proprio nel
modo in cui lo fa. L’algoritmo nel programma d’Aosta o porta all’output. Dunque,
Signore, tu non sei solo colui di cui non può pensarsi il maggiore. Tu sei
anche qualcosa di maggiore di tutto ciò che può essere pensato. Questa
proposizione molecolare richiamano tutte le argomentazioni circa gli esiti di
impossibilità della logica contemporanea. Tu possi pensare che esista qualcosa
di maggiore di qualsiasi cosa io possa pensare, quindi ciò di cui non posso
pensare il maggiore deve essere tale che non posso pensarlo” (p. 109). Anselmo
ben sapeva di iniziare una partita impossibile – la razionalizzazione della
fede – nella quale un ruolo chiave era svolto dalla inaccessibilità di Dio, pur
tuttavia impostando come limite ultimo il concetto di quello di cui non puo
pensarsi il maggiore, tenta di procurarsi una giustificazione razionale per
l’inevitabile fallimento della ragione! Una mossa azzardata che dava in questo *gioco*
la possibilità all’antagonista (l’infedele, la stessa ragione che è negativa
per vocazione) di contrattaccare arrecando danno con una manciata di domande
ben azzeccate, che possono trovarci pronti a fornire comunque una risposta o in
subordine occuparci la coscienza con la loro presenza importuna. Possiamo,
dunque, senz’altro dire che Aosta ha svolto egregiamente una ricognizione
dell’aporia della ragiona trovando anche addentellati significativi circa
l’esercizio della libertà intellettuale con un efficace richiamo a Bruno e
Turing. Alcune perplessità sorgono dai commenti approntati dall’autore
sull’argomento ontologico. Per esempio, vengono riportate queste parole
d’Aosta. Così quando si *dice* ‘ente di cui non si può pensare il maggiore’,
senza dubbio queste parole possono essere capite e pensate, anche se la cosa
stessa di cui non si può pensare nulla di maggiore non può essere pensata o
compresa. Subito si attribuisce ad Aosta l’utilizzo di una via negativa per giungere
alla comprensione dell’assoluto. Non si sa veramente un gran che di qualcosa se
si sa solo ciò che quella cosa *non* è. Ma non bisogna farsi confondere da
questa limitazione. Non si tratta qui di avere un’intuizione dell’assoluto, ma
di fornire un fondamento razionale per la verità di una proposizione. E tale
operazione, lo sappiamo, spesso può essere compiuta per via puramente negativa
– prova ne siano le argomentazioni attraverso reductio ad absurdum. Sull’argomento
della reductio, si cita un passo tratto dalla Responsio d’Aosta. Si può pensare
a cio di cui non si puo pensare il maggiore. Quindi, c’è un mondo m (pensabile)
dove cio di cui non si puo pensare il maggiore esiste. Ora supponiamo che cio
di cui non si puo pensare il maggiore non esista nel mondo reale. Allora *è* possibile
pensare, in m, qualcosa di maggiore di cio di cui non si puo pensare il
maggiore. Ma questa è una falsità logica. L’argomentazione è una reductio
ad absurdum e la terza premessa è la premessa da dimostrare *assurda*, il che
la rende indisputabile. Riterra che
l’argomentazione funziona se almeno stabilisce che l’assoluto esiste, senza
renderlo molto incomprensibile o inconcepibile di quanto fosse prima dell’argomentazione.
Dalla combinazione di questi due passi si ricava che si ritenga che la reductio
sia particolarmente adatta per rendere accetta l’esistenza di cose
inconcepibili. Rivisitando l’abusato sillogismo su “Socrate è ….”, si supponga
che Socrate non è mortale; che Socrate è un uomo, e tutti gli uomini sono
mortali; sicché Socrate è sia mortale che non mortale. Ma la terza premessa è
necessariamente falsa e la seconda premessa è vera. Perciò la prima premessa è
falsa. La seconda premessa non assume riguardo a Socrate una forma puramente
negative. Pertanto in questo caso la reductio ad absurdum non può essere
addotta in difesa dell’uso della via negativa. Perciò, anche se vi sono
reductiones ad absurdum che possono essere formulate con premesse del tipo via
negativa, non si spiega cosa di speciale vi sia nell’argomentazione per
reductio ad absurdum da renderla adatta per esprimersi per via puramente
negativa, e quindi la legittimità della reduction ad absurdum non suffraga
l’accettabilità della via negativa. P(φ) φ è
positivo (o φ ∈ P)
ASSIOMA 1. P(φ) . P(ψ) ⊃ P(φ .
ψ) ASSIOMA 2. P(φ) ∨ P(∼φ) (Disgiunzione esclusiva) DEFINIZIONE 1.
G(x) ≡ (φ) [ P(φ) ⊃ φ(x) ]
(Dio) DEFINIZIONE 2. φ Ess.x ≡ (ψ) [ ψ(x) ⊃ N(y) [ φ(y) ⊃ ψ(y)
]] (Essenza di x) p ⊃ Nq =
N(p ⊃ q)
(Necessità) ASSIOMA 3. P(φ) ⊃ NP(φ) ∼P(φ) ⊃ N ∼P(φ)
Poiché ciò segue dalla natura della proprietà. TEOREMA. G(x) ⊃ G Ess.x DEFINIZIONE 3. E(x) = (φ) [φ Ess.
x ⊃ N (∃x) φ(x) ] (Esistenza necessaria)
ASSIOMA 4. P(E) TEOREMA. G(x) ⊃ N(∃y) G(y) quindi (∃x) G(x) ⊃ N(∃y) G(y)
quindi M(∃x) G(x)
⊃ MN(∃y) G(y) sibilità) (M = pos- M(∃x) G(x) significa che il sistema di tutte
le proprietà positive è compatibile. Ciò è reso grazie a: ASSIOMA 5. P(φ) . φ ⊃ Nψ : ⊃ P(ψ) x = x è positivo x ≠ x è negative.
Anselmo d’Aosta. Aosta. Keywords: L’implicatura sovversiva. : Grice, “Anselmo’s
“De grammatico” and paronymy.” Speranza, “Grice and Anselm on paronymy: a
‘quaestio subtilissima.’” Implicatura sovversiva, cio di cui non si puo pensare
il maggiore, semantica, concetto, pensare, Turing, Bruno, Il programma Le critiche al programma La revisione del
programma Ciò di cui non si può pensare il maggiore Appendici La logica di
un’illusione Dottrine esotericheil programma sovversivo di Anselmo,
eresia. Keywords. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Aosta” – The Swimming-Pool Library.
Aquino (Roccasecca).
Filosofo. Grice: “Srawson used to joke and call me St. Thomas, as I rushed to
tutor on ‘De interpretatione’ ‘That’s precisely what Aquino did at Bologna! Can’t
the tutee not interpret it by himself?!’” Tommaso d'Aquino (Roccasecca, 1225 –
Abbazia di Fossanova, 7 marzo 1274) è stato un religioso, teologo, filosofo e
accademico italiano. Frate domenicano esponente della Scolastica, era definito
Doctor Angelicus dai suoi contemporanei. È venerato come santo dalla Chiesa
cattolica che dal 1567 lo considera anche dottore della Chiesa. Tommaso
rappresenta uno dei principali pilastri teologici e filosofici della Chiesa
cattolica: egli è anche il punto di raccordo fra la cristianità e la filosofia
classica, che ha i suoi fondamenti e maestri in Socrate, Platone e Aristotele,
e poi passati attraverso il periodo ellenistico, specialmente in autori come
Plotino. Fu allievo di sant'Alberto Magno, che lo difese quando i compagni lo
chiamavano "il bue muto" dicendo: «Ah! Voi lo chiamate il bue muto!
Io vi dico, quando questo bue muggirà, i suoi muggiti si udranno da
un'estremità all'altra della terra!». San Tommaso d'Aquino San Tommaso d'Aquino
e gli angeliSan Tommaso sorretto dagli angeli, del Guercino
Sacerdote e Dottore della Chiesa Nascita1225 Morte7 marzo
1274 Venerato daChiesa cattolica e Chiesa anglicana Canonizzazione18 luglio
1323 da Papa Giovanni XXII Santuario principaleChiesa dei Giacobini Tolosa
Ricorrenza28 gennaio; 7 marzo (forma straordinaria) AttributiAbito domenicano,
libro, penna e calamaio, modellino di chiesa, sole raggiato sul petto, colomba.
Patrono diTeologi, accademici, librai, scolari, studenti, fabbricanti di
matite; regione Campania; comune di Aquino, Grottaminarda, Monte San Giovanni
Campano e Priverno; diocesi di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo; Belcastro;
Falerna; San Mango d'Aquino. San Tommaso in una vetrata della Cattedrale
di Saint-Rombouts, Mechelen (Belgio). Tommaso dei conti d'Aquino nacque,
forse, nel 1225 nella contea di Aquino, territorio dell'odierna Roccasecca, nel
Regno di Sicilia (Sgarbossa). Secondo altre tesi, San Tommaso sarebbe nato a
Belcastro; a sostegno di esse si segnalano quelle di fra' Giovanni Fiore da
Cropani, storico calabrese del XVII secolo, che lo scriveva nella sua opera
Della Calabria illustrata, di Gabriele Barrio nella sua opera De antiquitate et
situ Calabriae e di padre Girolamo Marafioti, teologo dell'ordine dei Minori
Osservanti, nella sua opera Croniche ed antichità di Calabria. Il
castello paterno di Roccasecca rimane comunque ancora oggi il luogo più
accreditato della sua nascita, da Landolfo d'Aquino e da Donna Teodora
Galluccio, nobildonna teanese appartenente al ramo Rossi della famiglia napoletana
dei Caracciolo. La sua data di nascita non è certa, ma è calcolata in maniera
approssimativa a partire da quella della sua morte. Bernardo Gui, ad esempio,
afferma che Tommaso è morto quando aveva compiuto i suoi quarantanove anni e
iniziato il suo cinquantesimo anno. Oppure, in un testo un po' anteriore,
Tolomeo da Lucca fa eco ad un'incertezza: «Egli è morto all'età di 50 anni, ma
alcuni dicono 48». Tuttavia, oggi, sembra che ci sia accordo nel fissare la sua
data di nascita tra il 1224 e il 1226. Da Montecassino a Napoli Secondo
le usanze del tempo Tommaso, essendo il figlio più piccolo, era destinato alla
vita ecclesiastica e proprio per questo a soli cinque anni fu inviato dal padre
Landolfo come oblato nella vicina Abbazia di Montecassino, di cui era abate
Landolfo Sinibaldo, figlio di Rinaldo d'Aquino, per ricevere l'educazione
religiosa e succedere a Sinibaldo in qualità di abate. In ossequio alla regola
benedettina, Landolfo versò un'oblazione di venti once d'oro al monastero
cassinese perchè accettasero il figlio di una nobile famiglia e in tenera età.In
quegli anni l'abbazia si trovava in un periodo di decadenza e costituiva una
preda contesa dal Papa e dall'imperatore. Ma il trattato di San Germano,
concluso tra il Papa Gregorio IX e l'imperatore Federico II il 23 luglio 1230,
inaugurava un periodo di relativa pace ed è proprio allora che si può collocare
l'ingresso di Tommaso nel monastero. In quel luogo Tommaso ricevette i primi
rudimenti delle lettere e fu iniziato alla vita religiosa benedettina. Ma
a partire dal 1236 la calma di cui godeva il monastero fu nuovamente turbata e
Landolfo, consigliato dal nuovo abate, Stefano di Corbario, volle mettere al
riparo il figlio dai disordini e inviò Tommaso, oramai adolescente, a Napoli,
perché potesse seguire degli studi più approfonditi. Così nell'autunno del
1239, a quattordici o quindici anni, Tommaso si iscrisse al nuovo Studium
generale, l'Università degli studi fondata nel 1224 da Federico II per formare
la classe dirigente del suo Impero. Fu proprio a Napoli, dove era stato
fondato un convento, che Tommaso conobbe i Domenicani, ordine in cui entrò a
far parte e in cui fece la sua vestizione nell'aprile del 1244. Ma
l'ingresso di Tommaso presso i Frati predicatori comprometteva definitivamente
i piani dei suoi genitori riguardo al suo futuro incarico di abate di
Montecassino. Così la madre inviò un corriere ai suoi figli, che in quel
periodo stavano guerreggiando nella regione di Acquapendente, perché
intercettassero il loro fratello e glielo conducessero. Essi, accompagnati da
un piccolo drappello, catturarono facilmente il giovane religioso, lo fecero
salire su di un cavallo e lo condussero al Castello di Monte San Giovanni
Campano, un castello di famiglia ove fu tenuto prigioniero per due anni. Qui
tutta la famiglia tentò di far cambiare idea a Tommaso, ma inutilmente.
Tuttavia bisogna precisare che egli non fu né maltrattato né rinchiuso in
qualche prigione, si trattava piuttosto di un soggiorno obbligato, in cui
Tommaso poteva entrare e uscire a piacimento e anche ricevere visite. Ma
prendendo atto che Tommaso era ben saldo nella sua risoluzione, la sua famiglia
lo restituì al convento di Napoli nell'estate del 1245. Ciò avvenne in
occasione del Concilio di Lione del 17 luglio 1245, allorché papa Innocenzo IV
ufficializzò la deposizione dell'imperatore Federico II di Svevia. Gli studi a Parigi
e a Colonia Beato Angelico: San Tommaso d'Aquino Dipinto del Velazquez I
Domenicani di Napoli ritennero che non fosse sicuro trattenere presso di loro
il novizio e lo inviarono a Roma dove si trovava il maestro dell'Ordine,
Giovanni Teutonico, il quale stava per partire alla volta di Parigi, dove si
sarebbe celebrato il Capitolo generale del 1246. Egli accolse Tommaso
inviandolo prima a Parigi e poi a Colonia, dove c'era un fiorente Studium
generale sotto la direzione di fra Alberto (il futuro sant'Alberto Magno),
maestro in teologia, il quale era ritenuto sapiente in tutti i campi del
sapere. Al seguito di Giovanni Teutonico, si sarebbe dunque messo in
viaggio per Parigi e vi avrebbe trascorso tre anni scolastici. Qui potrebbe
aver studiato le arti, sia in facoltà che in convento. Partì per Colonia con
fra' Alberto, presso il quale continuò il suo studio della teologia e il suo
lavoro di assistente. Il soggiorno di Tommaso a Colonia, al contrario di quello
a Parigi, non è mai stato messo in dubbio, poiché è ben testimoniato dalle
fonti. Il capitolo generale dei Domenicani riunito a Parigi decise la creazione
di uno studium generale a Colonia, città nella quale esisteva già un convento domenicano
fondato da fra' Enrico, compagno di Giordano di Sassonia. L'incarico di
insegnare venne affidato a fra Alberto, la cui reputazione in quel periodo era
già notevole. Questo soggiorno a Colonia costituì una tappa decisiva nella vita
di Tommaso. Per quattro anni, dai 23 ai 27 anni, Tommaso poté assimilare
profondamente il pensiero di Alberto. Un esempio di questa influenza lo
troviamo nell'opera nota con il nome di Tabula libri Ethicorum, la quale si
presenta come un lessico le cui definizioni sono molto spesso delle citazioni
quasi letterali di Alberto. Il primo periodo di insegnamento a Parigi. Chiesa
dei domenicani di Friesach: San Tommaso e papa Urbano V e il dogma della
transustanziazione Quando il Maestro Generale dei Domenicani domandò ad Alberto
di indicargli un giovane teologo che potesse essere nominato baccelliere per
insegnare a Parigi, Alberto gli propose Tommaso che stimava sufficientemente
preparato in scientia et vita. Sembra che Giovanni Teutonico abbia esitato per
via della giovane età del prescelto, 27 anni, perché secondo gli statuti
dell'Università egli avrebbe dovuto averne 29 per poter assumere canonicamente
quest'impegno. Fu grazie alla mediazione del cardinale Ugo di Saint-Cher che la
richiesta di Alberto fu esaudita e Tommaso ricevette quindi l'ordine di recarsi
subito a Parigi e di prepararsi a insegnare. Egli iniziò il suo insegnamento
come baccelliere nel settembre di quello stesso anno, cioè del 1252, sotto la
responsabilità del maestro Elia Brunet de Bergerac che occupava il posto
lasciato vacante a causa della partenza di Alberto. A Parigi Tommaso
trovò un clima intellettuale meno tranquillo di quello di Colonia. Ancora era
vietato commentare i libri di Aristotele, ma durante la prima parte del
soggiorno di Tommaso, la Facoltà delle Arti avrebbe finalmente ottenuto il
permesso di insegnare pubblicamente tutti i libri del grande filosofo
greco. Fu nuovamente in Italia, impegnato nell'insegnamento e negli
scritti teologici: fu prima assegnato a Orvieto, come lettore, vale a dire
responsabile per la formazione continua della comunità. Qui ebbe il tempo per
completare la stesura della Summa contra Gentiles e della Expositio super Iob
ad litteram. Inoltre qui Tommaso, che non conosceva direttamente il greco in
maniera sufficiente a leggere i testi di Aristotele in originale, si poté
avvalere dell'opera di traduzione di un confratello, Guglielmo di Moerbeke,
eccellente grecista. Guglielmo rifece o rivide le traduzioni delle opere di
Aristotele e pure dei principali commentatori greci (Temistio, Ammonio, Proclo).
Alcune fonti riportano addirittura che Guglielmo avrebbe tradotto Aristotele
dietro richiesta (ad istantiam) di Tommaso stesso. Il contributo di Guglielmo,
anche lui in Italia come Tommaso dopo il 1260, fornì a Tommaso un prezioso
apporto che gli permise di redigere le prime parti dei Commenti alle opere di
Aristotele, spesso validi ancora oggi per la comprensione e discussione del
testo aristotelico. Soggiornò a Roma come maestro reggente. Nel febbraio 1265
il neoeletto papa Clemente IV lo convocò a Roma come teologo pontificio. Nello
stesso anno gli fu ordinato dal Capitolo domenicano di Agnani di insegnare allo
studium conventuale del convento romano della Basilica di Santa Sabina, fondato
alcuni anni prima. Lo studium di Santa Sabina diviene un esperimento per i
domenicani, il primo studium provinciale dell'Ordine, una scuola intermedia tra
lo studium conventuale e lo studium generale. Prima di allora la Provincia
romana non offriva una formazione specializzata di alcun tipo, solo semplici
scuole conventuali, con i loro corsi di base di teologia per i frati residenti.
Il nuovo studium provinciale di Santa Sabina divenne la scuola più avanzata per
la provincia. Durante il suo soggiorno romano, Tommaso cominciò a scrivere la
Summa Theologiae e compilò numerosi altri scritti su varie questioni
economiche, canoniche e morali. Durante questo periodo, ebbe l'opportunità di
lavorare con la corte papale (che non era residente a Roma). Nel secondo
periodo di insegnamento a Parigi, la sua occupazione principale fu
l'insegnamento della Sacra Pagina e proprio a questo periodo risalgono alcune
delle sue opere più celebri, come i commenti alla Scrittura e le Questioni
Disputate. Anche se i commenti al Nuovo Testamento restano il cuore della sua
attività, egli si segnala anche per la varietà della sua produzione, come ad
esempio la scrittura di diversi brevi scritti (come ad esempio il De Mixtione
elementorum, il De motu cordis, il De operationibus occultis naturae...) e per
la partecipazione alle problematiche del suo tempo: che si tratti di secolari o
dell'averroismo vediamo Tommaso impegnato su tutti i fronti. A questa
multiforme attività bisogna aggiungere un ultimo tratto: Tommaso è anche il
commentatore di Aristotele. Tra queste opere ricordiamo: l' Expositio libri
Peri ermenias, l' Expositio libri Posteriorum, la Sententia libri Ethicorum, la
Tabula libri Ethicorum, il Commento alla Fisica e alla Metafisica. Vi sono poi
anche delle opere incompiute, come la Sententia libri Politicorum, il De Caelo
et Mundo, il De Generatione et corruptione, il Super Meteora. Gli ultimi
anni e la morte Ritratto di Tommaso ad opera di Fra Bartolomeo Fu quindi
richiamato in Italia a Firenze per il Capitolo generale dell'Ordine dei
Domenicani[8], secondo dopo quello del 1251[9]. Lascia definitivamente Parigi e
poco dopo la Pentecoste di quello stesso anno il capitolo della provincia
domenicana di Roma gli affidò il compito di organizzare uno Studium generale di
teologia, lasciandolo libero di scegliere il luogo, le persone e il numero
degli studenti. Ma la scelta di Napoli era già stata designata da un precedente
capitolo provinciale ed è anche verosimile che Carlo I d'Angiò abbia fatto
pressione perché venisse scelta la sua capitale come sede e che a capo di
questo nuovo centro di teologia venisse insediato un maestro di fama. Tommaso
D'Aquino abitò per oltre un anno San Domenico Maggiore nell'ultimo periodo
della sua vita, lasciandovi scritti e reliquie[10]. Gli fu offerto
l'arcivescovado di Napoli, che non volle mai accettare, continuando a vivere in
povertà, dedito allo studio e alla preghiera. Durante gli ultimi anni del
periodo napoletano, continuò a procurarsi testi filosofici che leggeva e
commentava con cura, disputandone i contenuti con i suoi confratelli e
studenti. Si dedicò anche alle opere scientifiche di Aristotele relative ai
fenomeni atmosferici e ai terremoti, cercando di procurarsi testi sulla
costruzione degli acquedotti e la possibilità di applicazione della geometria
alle costruzioni, commentando le traduzioni di testi greci e arabi in
latino. La famiglia D'aquino era in rapporti con Federico II di Svevia
che aveva istituzionalizzato la Scuola Medica Salernitana, primo centro di
fruizione culturale degli scritti medici e filosofici di Avicenna e Averroè, noti
al Dottore Angelico. Stabilendosi presso la sorella Teodora al Castello dei
Sanseverino[13], tenne una serie di lezioni straordinarie nella celebre Scuola
Medica che aveva sollecitato l'onore ed il decoro della parola
dell'Aquinate[8]. A memoria del suo soggiorno, nella Chiesa di San Domenico si
conservano la reliquia del suo braccio e le spoglie delle sorelle. Partecipò al
capitolo della sua provincia a Roma in qualità di definitore. Ma alcune
settimane più tardi, mentre celebrava la Messa nella cappella di San Nicola,
Tommaso ebbe una sorprendente visione tanto che dopo la messa non scrisse, non
dettò più nulla e anzi si sbarazzò persino degli strumenti per scrivere. A
Reginaldo da Piperno, che non comprendeva ciò che accadeva, Tommaso rispose
dicendo: «Non posso più. Tutto ciò che ho scritto mi sembra paglia in confronto
con quanto ho visto». «San Bonaventura, entrato nello studio di Tommaso
mentre scriveva, vide la colomba dello Spirito accanto al suo volto. Ultimato
il trattato sull'Eucaristia, lo depose sull'altare davanti al crocifisso per
ricevere dal Signore un segno. Subito fu sollevato da terra e udì le parole:
Bene scripsisti, Thoma, de me quam ergo mercedem accipies? E rispose Non aliam
nisi te, Domine. Anche Paolo fu rapito al terzo cielo, e poi Antonio e tutta
una serie di santi fino a Caterina; il volo, il levarsi in aria indica la
vicinanza con il cielo e con Dio, con archetipo nelle figure di Enoch e
Elia.» (Il piccolo Tommaso e l'"appetito" per i libri in
L'Osservatore Romano, 28 gennaio 2010. Tommaso e il socius si misero in viaggio
per partecipare al Concilio che Gregorio X aveva convocato per il 1º maggio
1274 a Lione. Dopo qualche giorno di viaggio arrivarono al castello di Maenza,
dove abitava sua nipote Francesca. È qui che si ammalò e perse del tutto
l'appetito. Dopo qualche giorno, sentendosi un po' meglio, tentò di riprendere
il cammino verso Roma, ma dovette fermarsi all'abbazia di Fossanova per
riprendere le forze. Tommaso rimase a Fossanova per qualche tempo e tra il 4 e
il 5 marzo, dopo essersi confessato da Reginaldo, ricevette l'eucaristia e
pronunciò, com'era consuetudine, la professione di fede eucaristica. Il giorno
successivo ricevette l'unzione dei malati, rispondendo alle preghiere del rito.
Morì di lì a tre giorni, mercoledì 7 marzo 1274, alle prime ore del mattino
dopo aver ricevuto l'Eucaristia. Le spoglie di Tommaso d'Aquino sono conservate
nella chiesa domenicana detta Les Jacobins a Tolosa. La reliquia della mano
destra, invece, si trova a Salerno, nella chiesa di San Domenico; il suo cranio
si trova invece nella concattedrale di Priverno, mentre la costola del cuore
nella Basilica concattedrale di Aquino. Il pensiero di Tommaso San
Tommaso d'Aquino, ritratto di Carlo Crivelli Per Tommaso l'anima è creata "a
immagine e somiglianza di Dio" (come dice la Genesi), unica, immateriale
(priva di volume, peso ed estensione), forma del corpo e non localizzata in un
punto particolare di esso, trascendente come Dio e come lui in una dimensione
al di fuori dello spazio e del tempo in cui sono il corpo e gli altri enti.
L'anima è tota in toto corpore, contenuta interamente in ogni parte del corpo,
e in questo senso legata ad esso indissolubilmente: si veda, sul tema, la
questione 76 della Prima Parte della Summa theologiae, questione dedicata
appunto al rapporto tra anima e corpo. Secondo Tommaso: «Ciò che si
accetta per fede sulla base della rivelazione divina non può essere contrario
alla conoscenza naturale... Dio non può indurre nell'uomo un'opinione o una
fede contro la conoscenza naturale... tutti gli argomenti contro la fede non
procedono rettamente dai primi principii per sé noti.» (Tommaso d'Aquino,
Summa contra Gentiles, I, 7.) Nella filosofia tomista Dio è descritto con le
seguenti proprietà:[senza fonte] massimo grado possibile di ogni qualità
(che è, è stata o possa essere fra gli enti), fra queste: sommo amore e sommo
bene immutabile, semplice e indivisibile: è da sempre e per sempre uguale a sé
stesso, a lui nulla manca e in lui nulla cambia. eterno: non nasce e non muore,
vive da sempre e per sempre infinito in atto (non infinito potenziale): non ha
limite-confine di tempo o di spazio onnisciente unico: nessuno, nemmeno Dio può
creare un altro Dio onnipotente: ma non può perpetrare il male e non può creare
un altro Dio per sé: non riceve la vita o altre proprietà da alcuno, poteva
esistere senza gli enti da lui creati, che perciò non nascono come parte di lui
e non sono Dio. trascendente: Dio non è un ente qualunque tra gli altri enti,
la differenza tra Dio e gli altri enti è una differenza quantitativa, vale a
dire stesse qualità ma in un minore grado di completezza e perfezione. Gli enti
creati, fra cui gli angeli e l'uomo, in infiniti gradi a lui somigliano, sono
come Dio, ma non sono Dio: non hanno una parte fisica dell'essere per essenza,
poiché l'essere è semplice, senza parti e indivisibile. Questo essere (inteso
da S.Tommaso come "Ipsum esse subsistens") ha molte proprietà in
comune con l'essere della filosofia greca, così come lo definì Parmenide: uno e
unico, semplice e indivisibile, infinito ed eterno, onnisciente. La differenza
sostanziale però consiste nel fatto che crea gli enti, è più grande della somma
di essi, e può esistere senza. Anche nell'ultima forma del pensiero greco,
quello di Plotino, troviamo che l'emanazione dall'essere agli enti è un fatto
eterno, ma anche necessario e reversibile, non una libera scelta dell'assoluto,
che avrebbe potuto non manifestarsi. Il concetto di creazione ("produzione
dal nulla") è peraltro estraneo alla filosofia greca ed è proprio del
pensiero giudaico-cristiano. Se la trascendenza nega il panteismo, la
personalità di Dio nega a sua volta il deismo (che sarà proprio degli
Illuministi): trascendenza ed essere per sé non significano lontananza
inarrivabile. Gli uomini non nascono, ma hanno la possibilità di diventare
parte integrante di Dio e, già in questa esistenza terrena, di identificare la
propria vita con la vita del creatore. In modo identico, si può dire che
l'essere per san Tommaso non è solo l'essere comune o la piattaforma di tutto
ciò che esiste, ma è l’esse ut actus inteso come atto puro che perfeziona ogni
altra perfezione (essenza, sostanza, forma). Dio è atto puro, puro da ogni
potenza, limite e imperfezione. Quando l'essere è mischiato o ricevuto in una potenza,
allora è atto misto ed è ente finito. Tommaso fonda la sua concezione
metafisica sul concetto di Analogia, rielaborando in maniera molto originale il
pensiero aristotelico. Le cinque vie per dimostrare l'esistenza di Dio
San Tommaso distinse tre forme di conoscenza umana in relazione all'ente e al
suo Creatore: an sit ("se sia"), quomodo sit ("in che modo
sia"), quid sit ("che cosa sia"). La conoscenza umana di Dio è
possibile soltanto in merito alla Sua esistenza e ad un quomodo sit negativo,
nel quale la mente umana procede ad analizzare il creato sensibile, e, per
analogia e differenza, identifica tutte le qualità dell'ente che non possono
essere proprie di Dio Creatore, pur essendone l'opera. Tale percorso fu
chiamato via negationis (o anche ' via remotionis) ordinata al fine di
descrivere il quomodo non sit("in che modo non sia") di Dio. Esso è
effetto della grazia divina ed è possibile soltanto perché il Creatore decide
liberamente di rivelarSi all'uomo, conducendolo per mano da una serie di negazioni
delle qualità dell'ente colte con i cinque sensi fino a pervenire ad
un'affermazione intelligibile e positiva di Lui. L'autore delle Cinque
Vie, infine, escluse che la dimostrazione razionale dell'esistenza e unicità di
Dio potesse rivelare all'uomo anche la Sua vera essenza, quel qui sit che
rimane un mistero accessibile soltanto alla virtù ed è ritenuto un limite
esterno per il dominio possibile della ragione. La conoscenza teologica può
essere soltanto indiretta, relativa agli effetti della causa prima e del fine ultimo
sulla Sua creazione. Molti pensatori cristiani hanno elaborato diversi percorsi
razionali per cercare di dimostrare l'esistenza di Dio: mentre Anselmo d'Aosta,
sulla scia neoplatonica di Agostino d'Ippona procedeva sia a simultaneo, cioè
dal concetto stesso di Dio, da lui ritenuto id quo maius cogitari nequit (nel
Proslogion, cap.2.3), sia a posteriori (nel Monologion) per dimostrare
l'esistenza di Dio, l'unico modo per arrivarci, secondo Tommaso, consiste nel
procedere a posteriori: partendo cioè dagli effetti, dall'esperienza sensibile,
che è la prima a cadere sotto i nostri sensi, per dedurne razionalmente la sua
Causa prima. Si tratta di quella che chiama demonstratio quia, cioè, appunto
dagli effetti, il cui risultato è ammettere necessariamente che esista il punto
d'arrivo della dimostrazione, anche se non è pienamente intelligibile, come in
questo caso, ed in altri, il perché (demonstratio quid, es. i sillogismi: le
premesse esprimono proprietà che sono cause della conclusione: «Ogni uomo è
mortale; ogni ateniese è uomo; ogni ateniese è mortale": essere uomo e
mortale è necessaria causa della mortalità di ogni ateniese)» Sulla base
di questo sfondo di pensiero Tommaso espone le sue prove dell'esistenza di Dio,
Tutte e cinque, con alcune variazioni, seguono questa struttura. Constatazione
di un fatto in rerum natura, nell'esperienza sensibile ordinaria (movimento
inteso come trasformazione; causalità efficiente subordinata; inizio e fine
dell'esistenza degli esseri generabili e corruttibili, perciò materiali,
contingenti nel suo vocabolario, che quindi possono essere e non essere;
gradualità degli esseri nelle perfezioni trascendentali, come bontà, verità,
nobiltà ed essere stesso; finalità nei processi degli esseri non intelligenti);
2) analisi metafisica di quel dato iniziale esperenziale alla luce del
principio metafisico di causalità, enunciato in varie formulazioni ("Tutto
ciò che si muove è mosso da un altro"; "È impossibile che una cosa
sia causa efficiente di sé stessa"; "Ora, è impossibile che tutte di
tal natura siano state sempre, perché ciò che può non essere un tempo non
esisteva"; "Ma il grado maggiore o minore si attribuiscono alle
diverse cose secondo che si accostano di più o di meno a qualcosa di sommo o di
assoluto"; "Ora, ciò che è privo di intelligenza non tende al fine se
non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente"); 3)
impossibilità di un regressus in infinitum inteso in senso metafisico, non
quantitativo, perché ciò renderebbe inintelligibile, inspiegabile pienamente il
dato di fatto di partenza esistente ("Ora, non si può in tal modo
procedere all'infinito, perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di
conseguenza nessun altro motore..."; "Ma procedere all'infinito nelle
cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente; e così non
avremmo neppure l'effetto ultimo, né le cause intermedie..."; "Dunque
non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà ci sia
qualcosa di necessario. Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della
sua necessità in un altro essere oppure no. D'altra parte [in questo genere di
esseri] non si può procedere all'infinito..."; questo passaggio manca, per
la sua evidenza agli occhi dell'Aquinate manca nella quarta via e nella quinta
via, si passa direttamente alla conclusione; 4) conclusione deduttiva
strettamente razionale (senza nessuna cogenza di fede) che identifica il
'conosciuto' sotto quel determinato aspetto con quello "che tutti chiamano
Dio", o espressioni simili ("Dunque è necessario arrivare ad un primo
motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio";
"Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano
Dio"; "Dunque bisogna concludere all'esistenza di un essere che sia di
per sé necessario e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di
necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio"; "Ora ciò che è
massimo in un dato genere è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come
il fuoco, caldo al massimo, è causa di ogni calore, come dice lo stesso
Aristotele. Dunque vi è qualcosa che per tutti gli enti è causa dell'essere,
della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio"; "Vi è
dunque un qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono
ordinate ad un fine: e quest'essere chiamiamo Dio". I cinque
percorsi indicati da San Tommaso sono: Ex motu et mutatione rerum (tutto ciò
che si muove esige un movente primo perché, come insegna Aristotele nella
Metafisica: "Non si può andare all'infinito nella ricerca di un primo
motore"); Ex ordine causarum efficientium (cioè "dalla causa
efficiente", intesa in senso subordinato, non in senso coordinato nel
tempo. Tommaso non è, per sola ragione, in grado di escludere la durata indefinita
nel tempo di un mondo creato da Dio, la cosiddetta creatio ab aeterno: ogni
essere finito, partecipato, dipende nell'essere da un altro detto causa;
necessità di una causa prima incausata); Ex rerum contingentia (cioè
"dalla contingenza". Nella terminologia di Tommaso la generabilità e
corruttibilità sono prese come segno evidente della possibilità di essere e non
essere legata alla materialità, sinonimo, nel suo vocabolario di
"contingenza", ben diverso dall'uso più comune, legato ad una
terminologia avicenniana, dove "contingente" è qualsiasi realtà che
non sia Dio. Tommaso, in questa argomentazione della Summa Theologiae distingue
attentamente il necessario dipendente da altro (anima umana e angeli) e
necessario assoluto (Dio). L'esistenza di esseri generabili e corruttibili è in
sé insufficiente metafisicamente, rimanda ad esseri necessari, dapprima
dipendenti da altro, quindi ad un essere assolutamente necessario); Ex variis
gradibus perfectionis (le cose hanno diversi gradi di perfezioni, intese in
senso trascendentale, come verità, bontà, nobiltà ed essere, sebbene sia usato
un 'banale' esempio fisico legato al fuoco e al calore; ma solo un grado
massimo di perfezione rende possibile, in quanto causa, i gradi intermedi); Ex
rerum gubernatione (cioè "dal governo delle cose": le azioni di
realtà non intelligenti nell'universo sono ordinate secondo uno scopo, quindi,
non essendo in loro quest'intelligenza, ci deve essere un'intelligenza ultima
che le ordina così). Kant, pur ammettendo l'esistenza di Dio come postulato
della ragion pratica, ritiene che l'esistenza di Dio sia indimostrabile da un
punto di vista teoretico-speculativo: nella Dialettica trascendentale della Critica
della ragion pura, Kant ha contestato tali dimostrazioni, pur non prendendo in
realtà in considerazione direttamente le cinque "vie" di San Tommaso,
ma le prove dell'esistenza di Dio nella filosofia leibniziano-wollfiana. La
critica kantiana si rivolge infatti alla: 1) prova ontologica; 2) prova
cosmologica e 3) prova fisico-teologica. Se per quanto riguarda almeno nelle
conclusioni sia S.Tommaso, sia Kant sono concordi nel rifiutare la prova
ontologica, per quanto riguarda la prova cosmologica e quella fisico-
teologica, Kant critica queste due prove (a cui si possono ridurre le cinque "vie
tomistiche), in quanto sarebbero legate ad un'estensione indebita dell'uso
della ragione (nel suo uso teoretico-speculativo), i cui concetti razionali,
cioè le idee, sono vuote. Solo l'intuizione empirica infatti potrebbe ovviare a
ciò: per questo motivo l'idea di Dio è assolutamente non verificabile tramite
la ragione, superando i limiti dell'esperienza possibile. Processo
conoscitivo. Tommaso, affermava che la conoscenza dell'essere umano, in
quanto dotato di un corpo creato da Dio, muove sempre dall'universo immanente,
sensibile e corporeo nella direzione dell'universo trascendente, intellegibile
(invisibile) e incorporeo. In tale aspetto, si differenziò da sant'Agostino,
che pensava che questa avvenisse tramite l'illuminazione divina.[senza
fonte] Agostino sostenne che la sorgente del sapere e dell'essere è la
stessa, Dio Creatore dell'universo, e che quindi i due piani dell'essere e del
sapere non possono cadere in contraddizione l'uno con l'altro. Senza negare
Agostino[senza fonte], San Tommaso aggiunse che il corpo umano deve poter
essere capace di conoscere il creato mediante la sua mente e i suoi sensi,
poiché l'uomo non soltanto è una creatura di Dio, ma più di ogni altro vivente
è l'unico creato a immagine e somiglianza della mente e del Suo corpo umano-divino
di Dio Padre e di Gesù, Suo Figlio. Tommaso aggiunse che i due piani
dell'essere e del sapere sono tra loro comunicanti: infatti, le Cinque Vie
dimostrarono che dall'essere della natura corporea è possibile giungere a
conoscere e dimostrare la possibilità, la realtà e la necessità dell'esistenza
e dell'unicità di Dio. Prima ancora di questo, mediante ogni conoscenza
(anche scientifica[senza fonte]) del creato, Tommaso riuscì a raggiungere il
dono e il raro privilegio della visione del Corpo del Cristo risorto e del
dialogo personale con Lui, il giorno della ricorrenza di San Nicola, poco tempo
prima di completare la Summa theologica e di morire. Ciò non significa che
Tommaso disconoscesse il pensiero di sant'Agostino, che è invece citato a più riprese
nella Summa Theologica', e che fu dichiarato Dottore della Chiesa nel 1298,
dopo la morte dell'Aquinate. La conoscenza degli universali però
appartiene solo alle intelligenze angeliche; noi, invece, conosciamo gli
universali post-rem, ossia li ricaviamo dalla realtà sensibile. Soltanto Dio
conosce ante rem. La conoscenza è, quindi, un processo di adeguamento
dell'anima o dell'intelletto e della cosa, secondo una formula che dà ragione
del sofisticato aristotelismo di Tommaso. Veritas: Adaequatio intellectus ad
rem. Adaequatio rei ad intellectum. Adaequatio intellectus et
rei.» «Verità: Adeguamento dell'intelletto alla cosa. Adeguamento della
cosa all'intelletto. Adeguamento dell'intelletto e della cosa.» (Tommaso
d'Aquino) La creazione secondo Tommaso Tommaso spiega che l'uomo può stabilire
a partire dalla ragione il rapporto creaturale di dipendenza dell'universo da
Dio ovvero la creatio ex nihilo intesa come totale dipendenza dell'essere
creato, anche quello sostanziale, dall'Essere divino[26]. Ciò che la sola
ragione non può stabilire è se il mondo è eterno o se è stato creato nel tempo
ovvero se ha un cominciamento. La verità della seconda alternativa (la
creazione con un inizio temporale) può essere conosciuta, secondo Tommaso,
solamente per fede a partire dalla rivelazione divina. Dio, creando l'uomo,
fornisce l'esistenza all'uomo secondo una dinamica simile a quella di atto e
potenza, e lo rende quindi ente reale, fornito di esistenza (che è propriamente
definita da Tommaso actus essendi oltre che di essenza. Soltanto in Dio, atto
puro, essenza ed esistenza coincidono. Il rapporto tra Dio (necessario) e la
creatura (contingente) è analogico in un solo senso: le creature sono simili a
Dio. Il rapporto è di somiglianza non univoca né equivoca. Secondo Tommaso
tutti gli enti sono buoni, poiché somigliano a Dio: "bonum" è uno dei
tre trascendenti (o trascendentali), ovvero di caratteri applicabili a ogni
ente e perciò trascendenti le categorie di Aristotele. Gli altri due sono
"unum" e "verum". Nelle opere di Tommaso l'universo
(o cosmo) ha una struttura rigorosamente gerarchica[senza fonte]: posto al
vertice da Dio che viene posto come al di là della fisicità, governa da solo il
mondo al di sopra di tutte le cose e gli enti; al di sotto di Dio troviamo gli
angeli (forme pure e immateriali), ai quali Tommaso attribuisce la definizione
di intelligenze motrici dei cieli anch'esse ordinate gerarchicamente tra di
loro; poi un gradino più in basso troviamo l'uomo, posto al confine tra il
mondo delle sostanze spirituali e il regno della corporeità, in ogni uomo
infatti si ha l'unione del corpo (elemento materiale) con l'anima intellettiva
(ovvero la forma, che secondo Tommaso costituisce l'ultimo grado delle
intelligenze angeliche): l'uomo è l'unico ente che fa parte sia del mondo
fisico, sia del mondo spirituale. Tommaso crede che la conoscenza umana cominci
con i sensi: l'uomo, non avendo il grado di intelligenza degli angeli, non è in
grado di apprendere direttamente gli intelligibili, ma può apprendere solamente
attribuendo alle cose una forma e quindi solamente grazie all'esperienza
sensibile. Un'altra facoltà necessaria che caratterizza l'uomo è la sua
tendenza a realizzare pienamente la propria natura ovvero compiere ciò per cui
è stato creato[senza fonte]. Ciascun uomo infatti corrisponde all'idea divina
su cui è modellato, di cui l'uomo è consapevole e razionale, conscio delle
proprie finalità, alle quali si dirige volontariamente avvalendosi dell'uso
dell'intelletto: l'uomo prende le proprie decisioni sulla base di un
ragionamento pratico, attraverso il quale tra due beni sceglie sempre quello
più consono al raggiungimento del suo fine. Nel fare ciò segue la Legge
naturale, che è scritta nel cuore dell'uomo. La legge naturale, che è un
riflesso della Legge eterna, deve essere il fondamento della Legge positiva,
cioè l'insieme delle norme che gli uomini stabiliscono storicamente in un dato
tempo ed in un dato luogo. Al di sotto dell'uomo troviamo le piante e le
varie molteplicità degli elementi. Concezione della donna Sacra
conversazione di Monticelli (Ghirlandaio, XV secolo) Tommaso riprende e cita,
nella prima parte della Summa theologiae, alle questioni 92 e 99,
l'affermazione di Aristotele (De generatione et corruptione 2,3) per cui la
donna sarebbe un uomo mancato (mas occasionatus). L'aquinate afferma che
"rispetto alla natura particolare la femmina è un essere difettoso e
manchevole" (I, 92, 1). «Infatti la virtù attiva racchiusa nel seme
del maschio tende a produrre un essere perfetto simile a sé, di sesso maschile,
e il fatto che ne derivi una femmina può dipendere dalla debolezza della virtù
attiva, o da un'indisposizione della materia, o da una trasmutazione causata
dal di fuori, per esempio dai venti australi, che sono umidi, come dice il filosofo.»
Ma aggiunge: «Rispetto invece alla natura nella sua universalità, la femmina
non è un essere mancato, ma è espressamente voluto in ordine alla generazione.
Ora, l'ordinamento della natura nella sua universalità dipende da Dio, il quale
è l'autore universale della natura. Quindi, nel creare la natura, egli produsse
non solo il maschio, ma anche la femmina 2. Ci sono due specie di sudditanza.
La prima, servile, è quella per cui chi è a capo si serve dei sottoposti per il
proprio interesse: e tale dipendenza sopravvenne dopo il peccato. Ma vi è una
seconda sudditanza, economica o politica, in forza della quale chi è a capo si
serve dei sottoposti per il loro interesse e per il loro bene. E tale
sudditanza ci sarebbe stata anche prima del peccato, poiché senza il governo
dei più saggi sarebbe mancato il bene dell'ordine nella società umana. E in
questa sudditanza la donna è naturalmente soggetta all'uomo: poiché l'uomo ha
per natura un più vigoroso discernimento razionale.» (Somma teologica, I,
92, 1, ad 1) «la diversità dei sessi rientra nella perfezione della natura
umana» (Somma teologica, I, 99, 2, ad 1.) Importanza ed eredità
Magnifying glass icon mgx2.svgTomismo. Tommaso disputa con Averroè
Trionfo di san Tommaso, di Lippo Memmi Trionfo di san Tommaso, di Benozzo
Gozzoli San Tommaso fu uno dei pensatori più eminenti della filosofia
Scolastica, che verso la metà del XIII secolo aveva raggiunto il suo apice.
Egli indirizzò diversi aspetti della filosofia del tempo: la questione del
rapporto tra fede e ragione, le tesi sull'anima (in contrapposizione ad
Averroè), le questioni sull'autorità della religione e della teologia, che
subordina ogni campo della conoscenza. Tali punti fermi del suo pensiero
furono difesi da diversi suoi seguaci successivi, tra i quali Reginaldo da
Piperno, Tolomeo da Lucca, Giovanni di Napoli, il domenicano francese Giovanni
Capreolus e Antonino di Firenze. Infine però, con la lenta dissoluzione della
Scolastica, si ebbe parallelamente anche la dissoluzione del Tomismo, col
conseguente prevalere di un indirizzo di pensiero nominalista nel successivo
sviluppo della filosofia, e una progressiva sfiducia nelle possibilità
metafisiche della ragione, che indurrà Lutero a giudicare quest'ultima «cieca,
sorda, stolta, empia e sacrilega».[30] Oggigiorno il pensiero di Tommaso
d'Aquino trova ampio consenso anche in ambienti non cattolici (studiosi
protestanti statunitensi, ad esempio) e perfino non cristiani, grazie al suo
metodo di lavoro, fortemente razionale e aperto a fonti e contributi di ogni
genere: la sua indagine intellettuale procede dalla Bibbia agli autori pagani,
dagli ebrei ai musulmani, senza alcun pregiudizio, ma tenendo sempre il suo
centro nella Rivelazione cristiana, alla quale ogni cultura, dottrina o autore
antico faceva capo.[senza fonte] Il suo operato culmina nella Summa Theologiae
(cioè "Il complesso di teologia"), in cui tratta in maniera
sistematica il rapporto fede-ragione e altre grandi questioni teologiche.
Agostino vedeva il rapporto fede-ragione come un circolo ermeneutico (dal greco
ermeneuo, cioè "interpreto") in cui credo ut intelligam et intelligo
ut credam (ossia "credo per comprendere e comprendo per credere").
Tommaso porta la fede su un piano superiore alla ragione, affermando che dove
la ragione e la filosofia non possono proseguire inizia il campo della fede e
il lavoro della teologia.[senza fonte] Dunque, fede e ragione sono certamente
in circolo ermeneutico e crescono insieme sia in filosofia che in teologia.
Mentre però la filosofia parte da dati dell'esperienza sensibile o razionale,
la teologia inizia il circolo con i dati della fede, su cui ragiona per credere
con maggiore consapevolezza ai misteri rivelati. La ragione, ammettendo di non
poterli dimostrare, riconosce che essi, pur essendo al di sopra di sé, non sono
mai assurdi o contro la ragione stessa: fede e ragione, sono entrambe dono di
Dio e non possono contraddirsi. Questa posizione esalta ovviamente la ricerca
umana: ogni verità che io posso scoprire non minaccerà mai la Rivelazione anzi,
rafforzerà la mia conoscenza complessiva dell'opera di Dio e della Parola di
Cristo. Si vede qui un esempio tipico della fiducia che nel Medioevo si
riponeva nella ragione umana. Nel XIV secolo queste certezze andranno in crisi,
coinvolgendo l'intero impianto culturale del periodo precedente. La
teologia, in ambito puramente speculativo, rispetto alla tradizione classica,
era considerata una forma inferiore di sapere, poiché usava in prestito gli
strumenti della filosofia, ma Tommaso fa notare, citando Aristotele, che anche
la filosofia non può dimostrare tutto, perché sarebbe un processo all'infinito.
Egli distingue due tipi di scienze: quelle che esaminano i propri principi e
quelle che ricevono i principi da altre scienze. L'ideale, per uno spirito
concreto come Tommaso, sarebbe superare la fede e raggiungere la conoscenza ma,
sui misteri fondamentali della Rivelazione, questo non è possibile nella vita
terrena del corpo. Avverrà nella vita eterna dello spirito. La filosofia
è dunque ancilla theologiae e regina scientiarum, prima fra i saperi delle
scienze. Il primato del sapere teologico non è nel metodo, ma nei contenuti
divini che affronta, per i quali è sacrificabile anche la necessità
filosofica. Il punto di discrimine fra filosofia e teologia è la
dimostrazione dell'esistenza di Dio; dei due misteri fondamentali della Fede
(Trinitario e Cristologico), la ragione può dimostrare solamente il primo,
l'esistenza di Dio, mentre non può dimostrare che questo Dio è necessariamente
Trinitario. Ciò non è un paradosso razionale, perché da una premessa falsa non
possono che derivare nel sillogismo conseguenze false, è più semplicemente
qualcosa che la ragione non può spiegare: un Dio Uno e Trino. Il maggior
servizio che la ragione può fare alla fede è che non è possibile nemmeno
dimostrare il contrario, che Dio non è Trinitario, che la negazione non
dimostrabile della Trinità a sua volta porta conseguenze paradossali e
contraddittorie, laddove invece la Sua affermazione per fede è feconda di
verità e conseguenze non contraddittorie. La ragione non può entrare nella
parte storica dei misteri religiosi, può mostrare solo prove storiche che tal
"profeta" è esistito, ma non che era Dio, e il senso della Sua
missione, che è appunto un dato, un fatto a cui si può credere o meno. Il
primato della teologia verrà fortemente discusso nei secoli successivi, ma sarà
anche lo studio praticato da tutti i filosofi cristiani nel Medioevo e oltre,
tant'è che Pascal fece la sua famosa "scommessa" ancora nel XVII
secolo. La teologia era questione sentita dal popolo nelle sacre
rappresentazioni, era il mondo dei medioevali e degli zelanti studenti che
attraversavano a piedi le paludi di Francia per ascoltare le lectiones
dell'Aquinate nella prestigiosa Università della Sorbonne di Parigi,
incontrandosi da tutta Europa . Gli storici della filosofia richiamano
l'attenzione anche sulla prevalenza dell'intelletto rispetto ad una prevalenza
della volontà nella vita intellettuale/spirituale dell'uomo. La prima è seguita
da San Tommaso e dalla sua scuola, mentre l'altra è propria di San Bonaventura
e della scuola francescana. Per Tommaso il fine supremo è "vedere
Dio", mentre per Bonaventura fine ultimo dell'uomo è "amare
Dio". Quindi per Tommaso la categoria più alta è "il vero",
mentre per Bonaventura è "il bene". Per ambedue però, "il
vero" è anche "il bene", e "il bene" è anche "il
vero". Il pensiero di Tommaso ebbe influenza anche su autori non
cristiani, a cominciare dal famoso pensatore ebreo Hillel da Verona. A
partire dal secondo Novecento poi il suo pensiero viene ripreso nel dibattito
etico da autori cattolici e non, quali Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe,
Alasdair MacIntyre, Philippa Ruth Foot e Jacques Maritain. Culto Fu
canonizzato nel 1323 da papa Giovanni XXII. La sua memoria viene celebrata
dalla Chiesa cattolica il 28 gennaio; la stessa, nella Forma straordinaria, lo
ricorda il 7 marzo. La Chiesa luterana lo ricorda l'8 marzo. San Tommaso
d'Aquino è patrono dei teologi, degli accademici, dei librai e degli studenti.
È patrono della città e della diocesi privernate e della Città e della diocesi
aquinate. L'11 aprile 1567 papa Pio V lo dichiarò dottore della Chiesa
con la bolla Mirabilis Deus. Il 29 giugno 1923, nel VI centenario della
canonizzazione, papa Pio XI gli dedicò l'enciclica Studiorum Ducem.
L'enciclica Aeterni Patris di papa Leone XIII ricorda san Tommaso come il più
illustre esponente della Scolastica. Gli statuti dei Benedettini, degli
Carmelitani, degli Agostiniani, della Compagnia di Gesù dispongono
l'obbligatorietà dello studio e della messa in pratica delle dottrine di
Tommaso, del quale l'enciclica afferma: «Per la verità, sopra tutti i
Dottori Scolastici, emerge come duce e maestro San Tommaso d’Aquino, il quale,
come avverte il cardinale Gaetano, “perché tenne in somma venerazione gli
antichi sacri dottori, per questo ebbe in sorte, in certo qual modo,
l’intelligenza di tutti” . Le loro dottrine, come membra dello stesso corpo
sparse qua e là, raccolse Tommaso e ne compose un tutto; le dispose con ordine
meraviglioso, e le accrebbe con grandi aggiunte, così da meritare di essere
stimato singolare presidio ed onore della Chiesa Cattolica. Clemente VI, Nicolò
V, Benedetto XIII ed altri attestano che tutta la Chiesa viene illustrata dalle
sue meravigliose dottrine; San Pio V poi confessa che mercé la stessa dottrina
le eresie, vinte e confuse, si disperdono come nebbia, e che tutto il mondo si
salva ogni giorno per merito suo dalla peste degli errori. Altri, con Clemente
XII, affermano che dagli scritti di lui sono pervenuti a tutta la Chiesa
copiosissimi beni, e che a lui è dovuto quello stesso onore che si rende ai
sommi Dottori della Chiesa Gregorio, Ambrogio, Agostino e Girolamo. Altri,
infine, non dubitarono di proporlo alle Accademie e ai grandi Licei quale
esempio e maestro da seguire a piè sicuro. A conferma di questo Ci sembrano
degnissime di essere ricordate le seguenti parole del Beato Urbano V
all’Accademia di Tolosa: “Vogliamo, e in forza delle presenti vi imponiamo, che
seguiate la dottrina del Beato Tommaso come veridica e cattolica, e che vi
studiate con tutte le forze di ampliarla” . Successivamente innocenzo XII,
nella Università di Lovanio, e Benedetto XIV , nel Collegio Dionisiano presso
Granata, rinnovarono l’esempio di Urbano.» (Enciclica Aeterni Patris[31])
Opere di San Tommaso Sintesi teologiche Scriptum super libros Sententiarum
Summa contra Gentiles Summa Theologiae Questioni disputate Quaestiones
disputatae de Veritate Quaestiones disputatae De potentia Quaestio disputata De
anima Quaestio disputata De spiritualibus creaturis Quaestiones disputatae De
malo Quaestiones disputatae De uirtutibus Quaestio disputata De unione uerbi
incarnati Quaestiones de Quodlibet I-XII Commenti biblici Expositio super
Isaiam ad litteram Super Ieremiam et Threnos Principium “Rigans montes de
superioribus” et “Hic est liber mandatorum Dei” Expositio super Iob ad litteram
Glossa continua super Evangelia (Catena Aurea) Lectura super Mattheum Lectura
super Ioannem Expositio et Lectura super Epistolas Pauli Apostoli Postilla
super Psalmos Commenti ad Aristotele Sententia Libri De anima Sententia
Libri De sensu et sensato Sententia super Physicam Sententia super Meteora
Expositio Libri Peryermenias Expositio Libri Posteriorum Sententia Libri Ethicorum
Tabula Libri Ethicorum Sententia Libri Politicorum Sententia super Metaphysicam
Sententia super Librum De caelo et mundo Sententia super Libros De generatione
et corruptione Super libros de generatione et corruptione Altri commenti
Super Boetium De Trinitate Expositio Libri Boetii De ebdomadibus Super Librum
Dionysii De divinis nomibus Super Librum De Causis Scritti polemici
Contra impugnantes Dei cultum et religionem De perfectione spiritualis vitae
Contra doctrinam retrahentium a religione De unitate intellectus contra
Avveroistas De aeternitate mundi Trattati De ente et essentia De
principiis naturae Compendium theologiae seu brevis compilatio theologiae ad
fratrem Raynaldum De regno ad regem Cypri De substantiis separatis
Lettere e pareri De emptione et venditione ad tempus Contra errores Graecorum
De rationibus fidei ad Cantorem Antiochenum Expositio super primam et secundam
Decretalem ad Archidiaconum Tudertinum De articulis fidei et ecclesiae
sacramentis ad archiepiscopum Panormitanum Responsio ad magistrum Ioannem de
Vercellis de 108 articulis De forma absolutionis De secreto Liber De sortibus
ad dominum Iacobum de Tonengo Responsiones ad lectorem Venetum de 30 et 36
articulis Responsio ad magistrum Ioannem de Vercellis de 43 articulis Responsio
ad lectorem Bisuntinum de 6 articulis Epistola ad ducissam Brabantiae De
mixtione elementorum ad magistrum Philippum de Castro Caeli De motu cordis ad
magistrum Philippum de Castro Caeli De operationibus occultis naturae ad
quendam militem ultramontanum De iudiciis astrorum Epistola ad Bernardum
abbatem casinensem Opere liturgiche, prediche, preghiere Officium de
festo Corporis Christi ad mandatum Urbani Papae Inno Adoro te devote
Collationes in decem precepta Collationes in orationem dominicam in Symbolum
Apostolorum in salutationem angelicam. Traduzioni italiane Lo specchio
dell'anima, La sentenza di Tommaso d'Aquino sul "De anima" di
Aristotele, Traduzione e testo latino a fronte, Ed. San Paolo, Milano 2012. (È
tradotto anche il testo dell'Aristotele latino). Catena aurea, Glossa continua
super Evangelia vol. 1, Matteo, Bologna, Matteo, Bologna, Marco, Bologna 2007
Commento ai Libri di Boezio, Super Boetium De Trinitate, Expositio Libri Boetii
De Ebdomadibus, Bologna, Commento ai Nomi Divini di Dionigi, Super Librum
Dionysii de Divinis Nominibus vol. 1, Bologna 2004 vol. 2, (comprende anche De
ente et essentia), Bologna, 2004 Commento al Corpus Paulinum, Expositio et
lectura super Epistolas Pauli Apostoli vol. 1, Romani, Bologna 2004 vol. 2, 1
Corinzi, Bologna 2004 vol. 3, 2 Corinzi, Galati, Bologna, 2004 vol. 4, Efesini,
Filippesi, Colossesi, Bologna, 2004 vol. 5, Tessalonicesi, Timoteo, Tito,
Filemone, Bologna, Ebrei, Bologna, Commento al Libro di Giobbe, Bologna, 1995
Commento all'Etica Nicomachea di Aristotele, Sententia Libri Ethicorum, in 2
volumi, Bologna, 1998 Commento alla Fisica di Aristotele, Sententia super
Physicorum vol. 1, Bologna, 2004 vol. 2, Bologna, 2004 vol. 3, Bologna, 2005
Commento alla Metafisica di Aristotele, Sententia super Metaphysicorum vol. 1,
Bologna, Bologna, 2005 vol. 3, Bologna, 2005 Commento alla Politica di
Aristotele, Sententia Libri Politicorum, Bologna, Commento alle Sentenze di
Pietro Lombardo, Scriptum super Libros Sententiarum in 10 volumi, Bologna, Ed.
ESD, 2002 Compendio di teologia, Compendium theologiae, Bologna, I Sermoni e le
due Lezioni inaugurali, Bologna, 2003 La conoscenza sensibile, Commenti ai
libri di Aristotele: Il senso e il sensibile; La memoria e la reminiscenza,
Bologna, La perfezione cristiana nella vita consacrata, Bologna, 1995 De
venerabili sacramentu altaris, Bologna, 1996 La Somma contro i Gentili, Summa
contra Gentiles vol. 1, (traduzione Tito Centi), Bologna (traduzione Tito
Centi), Bologna, 2001 vol. 3, (traduzione Tito Centi), Bologna, 2001 La Somma
Teologica, Summa Theologiae, in 35 volumi La Somma Teologica, Summa Theologiae,
in 6 volumi, Bologna, Ed. ESD Le Questioni Disputate, Quaestiones Disputatae
vol. 1, La Verità, Bologna, 1992 vol. 2, La Verità, Bologna, 1992 vol. 3, La
Verità, Bologna, 1993 vol. 4, L'anima umana, Bologna, 2001 vol. 5, Le virtù,
Bologna, 2002 vol. 6, Il male, Bologna, Il male, Bologna, La potenza divina, Bologna, La potenza divina,
Bologna, Questioni su argomenti vari, Bologna, Questioni su argomenti vari,
Bologna, Logica dell'enunciazione, Commento al libro di Aristotele Peri
Hermeneias, Expositio Libri Peryermenias, Bologna, Opuscoli politici: Il
governo dei principi, Lettera alla duchessa del Brabante, La dilazione nella
compravendita, Bologna, Opuscoli spirituali: Commenti al Credo, Padre Nostro,
Ave Maria, Dieci Comandamenti, Ufficio e Messa per la Festa del Corpus Domini,
Le preghiere di san Tommaso, Lettera a uno studente, Bologna, Pagine di
Filosofia: I principi della natura, De principiis naturae ad fratrem
Silvestrum, sola trad. it., e antologia ragionata e commentata di altri brani
filosofici di antropologia, gnoseologia, teologia naturale, etica, politica e
pedagogia. Inni eucaristici A Tommaso d'Aquino sono classicamente attribuiti
gli inni eucaristici per la solennità del Corpus Domini, usati per secoli in
occasione dell'adorazione eucaristica. Gli inni sono stati confermati nella
liturgia solenne dal Concilio Vaticano II: Adoro te devote Pange lingua,
che contiene al termine il Tantum ergo sacramentum Sacris sollemniis Verbum
supernum prodiens Note Napoli A.N.
Rossi, Delle dissertazioni di Alessio Niccolo Rossi intorno ad alcune materie
alla citta di Napoli appartenenti, Pasquale Cayro, Storia sacra e profana
d'Aquino e sua diocesi del signor D. Pasquale Cayro, patrizio anagnino,
Vincenzo Orsino, 1808,348. Ferante della
Marra, Discorsi delle famiglie estinte, forastiere o non comprese ne' seggi di
Napoli imparentate colla casa della Marra. Composti dal signor Ferrante della
Marra duca della Guardia, dati in luce da Camillo Tutini, Ottavio Beltrano, Jean-Pierre
Torrell, O. P., Amico della verità: vita e opere di Tommaso d'Aquino, Edizioni
Studio Domenicano, Fino a pochi anni fa gli storici avevano dei dubbi sulla
veridicità del soggiorno di Tommaso a Parigi nel periodo immediatamente
successivo a quello in cui la sua famiglia lo restituì all'Ordine. Dallo studio
delle fonti, Walz-Novarina concludono che il viaggio di Tommaso in compagnia di
Giovanni Teutonico «... senza essere certo, può considerarsi probabile... », ma
erano più riservati circa la questione degli studi a Parigi. Grandi eruditi
come Denifle e De Groot si associano a questa opinione, ma altri come
Mandonnet, Chenu e Glorieux, osservano che il viaggio a Parigi non avrebbe
avuto alcun senso se Tommaso non avesse dovuto svolgervi i suoi studi, questo
perché lo studium generale di Colonia non era funzionante prima del 1248, data
della sua apertura dovuta a fra Alberto al momento del suo ritorno in questa
città. Sofia Vanni Rovighi, Introduzione
a Tommaso d'Aquino, Roma-Bari, Laterza, Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di
Marcello Zanatta, traduzione di Marcello Zanatta, vol. 1, 8. ed, Milano,
Rizzoli, Astrid Filangieri, La vita e le Opere di San Tommaso d'Aquino. Storia
dell'Ordine Domenicano a Firenze, su fiorentininelmondo.La cella di San Tommaso
a San Domenico Maggiore (Napoli). G. Bosco, Storia ecclesiastica ad uso della
gioventù utile ad ogni grado di persone, Torino, Libreria Salesiana Editore, con
l'approvazione del card. Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino Filmato audio Luca Bianchi, Onorato Grassi e
Costantino Esposito, Tommaso e la sua eredità - il pensiero che nasce
dall'esperienza, Centro Culturale di Milano,
«Non è vero che alcuni traduttori
lavorassero al suo servizio, come Guglielmo di Moerbeke». (v. 1h 14'). Premio letterario internazionale San Tommaso
d’Aquino, sabato 4 a Mercato San Severino., su gazzettadisalerno, Mercato San
Severino (SA), Convento di San Domenico a Salerno, oggi caserma, su salernodavedere.
Sandra Isetta, Il piccolo Tommaso e l'"appetito" per i libri, in
L'Osservatore Romano. Jean-Pierre Torrell, Amico della verità,392 Quaestio 76 della Parte I della Summa
Theologiae di San Tommaso d'Aquino. A cura di Marcello Landi Massimo
Adinolfi, Francesco Paolo Adorno, Francesco Berto, Massimo Cacciari, Piero
Coda, Carmela Covino, Adriano Fabris, Franco Ferrari, Ernesto Forcellino, Carlo
Sini, Luigi Vero Tarca, Vincenzo Vitiello, La conoscenza di Dio tra remotio e
revelatio nella "Summa theologiae" di San Tommaso D'Aquino, in Il
Pensiero. Rivista di filosifia, XLVI, Inschibboleth Edizioni, S. Th. I, q.2, a.2, c. e luoghi paralleli nei
commenti aristotelici Cf. Summa
Theologiae, Iª q. 2 a. 3 Cf. Summa
Theologiae, pars I, quaestio 2 articolo 3.
Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Leo Elders, The
Philosophical Theology of St. Thomas Aquinas, E.J. Brill, When St. Thomas
Aquinas had a foretaste of heaven on St. Nicholas’ feast day, su
lifesitenews.com, Cf. Quaestio disputata de anima, a. 3 ad 1; Summa Theologiae,
Iª q. 16 aa. 1-2. Sofia Vanni Rovighi,
Introduzione a Tommaso d'Aquino, Roma-Bari, Laterza, Summa contra gentiles, libro II, 31-37 e Summa
theologiae, pars I quaestio 46 La Somma
Teologica. Sola trad. italiana: Volume 1 - Prima Parte, Edizioni Studio Domenicano,
«Né prima né dopo, si è pensato con tanta precisione, con tanta intima
sicurezza logica, quanto nell'epoca dell'alta Scolastica. L'essenziale è che
allora il puro pensiero si svolgeva con matematica sicurezza di idea in idea,
di giudizio in giudizio, di conclusione in conclusione» (Rudolf Steiner, La
filosofia di Tommaso d'Aquino, II, Opera Omnia, 74). Steiner aggiungeva che «il
nominalismo è il padre di tutto lo scetticismo moderno» (conferenza del marzo
1908, cit. in Posizione dell'antroposofia nei confronti della filosofia, O.O.,
108). Martin Lutero, Servo arbitrio, WA
51, 126. Encilica Aeterni Patris, su vatican.va.
(o la traduzione similare qui riportata.
Heinrich Fries, Georg Kretschmar (a cura di), I classici della teologia,
Jaca Book, 2005,978-88-16-30402-4. Annotazioni
Nella Sala del Tesoro di San Domenico Maggiore è conservato un arazzo
raffigurante il Carro del Sole, parte delle Storie ed alle Virtù di san Tommaso
d’Aquino, donato ai domenicani da Vincenza Maria d’Aquino Pico Bibliografia
Tommaso d'Aquino, Super libros de generatione et corruptione, Jacques Myt,
Jacques Giunta. Thomas Aquinas; Richard J. Regan, Compendium of theology Oxford
University Press. Aimé Forest, Saint Thomas d'Aquin,Mellottée, Le Ragioni del
Tomismo dopo il centenario dell'enciclica "Aeterni Patris" , Ares,
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correlate Corpus Domini Dio, essere e ragione in Tommaso d'Aquino Ebraismo e
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Modernità, attualità, italianità di S. Tommaso D'Aquino, Salerno : Stab. Tip.
F.lli Di Giacomo di Giov., La figura di Tommaso I conte di Acerra, braccio
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e dottori della Chiesa cattolica V · D · M Famiglia domenicana. ·Biografie
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italiani del XIII secoloNati nel 1225Morti nel 1274Morti il 7 marzoNati a
RoccaseccaTommaso d'AquinoAccademici italianiProfessori dell'Università di
ParigiDottori della Chiesa cattolicaFilosofi cattoliciFilosofi della
politicaDomenicani italianiScolasticiSanti italiani del XIII secoloSanti
canonizzati da Giovanni XXIISanti domenicaniSanti per nomePersonaggi citati
nella Divina Commedia (Paradiso)Studenti dell'Università degli Studi di Napoli
Federico IIScrittori medievali in lingua latinaTomismoSanti incorrotti[altre] “Perhaps the Italian most studied at
Oxford!”Grice. Aquino and intentionalityClarkArmini -- aquinokeyword: “medieval pragmatics”! -- thomism, the theology
and philosophy of Thomas Aquinas. The term is applied broadly to various
thinkers from different periods who were heavily influenced by Aquinas’s
thought in their own philosophizing and theologizing. Here three different eras
and three different groups of thinkers will be distinguished: those who
supported Aquinas’s thought in the fifty years or so following his death in
1274; certain highly skilled interpreters and commentators who flourished
during the period of “Second Thomism” sixteenthseventeenth centuries; and
various late nineteenth- and twentieth-century thinkers who have been deeply
influenced in their own work by Aquinas. Thirteenth- and fourteenth-century
Thomism. Although Aquinas’s genius was recognized by many during his own
lifetime, a number of his views were immediately contested by other Scholastic
thinkers. Controversies ranged, e.g., over his defense of only one substantial
form in human beings; his claim that prime matter is purely potential and
cannot, therefore, be kept in existence without some substantial form, even by
divine power; his emphasis on the role of the human intellect in the act of
choice; his espousal of a real distinction betweeen the soul and its powers;
and his defense of some kind of objective or “real” rather than a merely
mind-dependent composition of essence and act of existing esse in creatures.
Some of Aquinas’s positions were included directly or indirectly in the 219
propositions condemned by Bishop Stephen Tempier of Paris in 1277, and his
defense of one single substantial form in man was condemned by Archbishop
Robert Kilwardby at Oxford in 1277, with renewed prohibitions by his successor
as archbishop of Canterbury, John Peckham, in 1284 and 1286. Only after
Aquinas’s canonization in 1323 were the Paris prohibitions revoked insofar as
they touched on his teaching in 1325. Even within his own Dominican order,
disagreement about some of his views developed within the first decades after
his death, notwithstanding the order’s highly sympathetic espousal of his cause.
Early English Dominican defenders of his general views included William Hothum
d.1298, Richard Knapwell d.c.1288, Robert Orford b. after 1250, fl.129095,
Thomas Sutton d. c. and William Macclesfield, Dominican Thomists included
Bernard of Trilia d.1292, Giles of Lessines in present-day Belgium d.c.1304?,
John Quidort of Paris d. 1306, Bernard of Auvergne d. after 1307, Hervé Nédélec
d.1323, Armand of Bellevue fl. 131634, and William Peter Godin d.1336. The
secular master at Paris, Peter of Auvergne d. 1304, while remaining very
independent in his own views, knew Aquinas’s thought well and completed some of
his commentaries on Aristotle. Sixteenth- and seventeenth-century Thomism.
Sometimes known as the period of Second Thomism, this revival gained impetus from
the early fifteenth-century writer John Capreolus 13801444 in his Defenses of
Thomas’s Theology Defensiones theologiae Divi Thomae, a commentary on the
Sentences. A number of fifteenth-century Dominican and secular teachers in G.
universities also contributed: Kaspar Grunwald Freiburg; Cornelius Sneek and
John Stoppe in Rostock; Leonard of Brixental Vienna; Gerard of Heerenberg,
Lambert of Heerenberg, and John Versor all at Cologne; Gerhard of Elten; and in
Belgium Denis the Carthusian. Outstanding among various sixteenth-century
commentators on Thomas were Tommaso de Vio Cardinal Cajetan, Francis Sylvester
of Ferrara, Francisco de Vitoria Salamanca, and Francisco’s disciples Domingo
de Soto and Melchior Cano. Most important among early seventeenth-century
Thomists was John of St. Thomas, who lectured at Piacenza, Madrid, and Alcalá,
and is best known for his Cursus philosophicus and his Cursus theologicus.
Theravada Buddhism Thomism 916 916 The
nineteenth- and twentieth-century revival. By the early to mid-nineteenth
century the study of Aquinas had been largely abandoned outside Dominican
circles, and in most Roman Catholic s and seminaries a kind of Cartesian and
Suarezian Scholasticism was taught. Long before he became Pope Leo XIII,
Joachim Pecci and his brother Joseph had taken steps to introduce the teaching
of Thomistic philosophy at the diocesan seminary at Perugia in 1846. Earlier
efforts in this direction had been made by Vincenzo Buzzetti, by Buzzetti’s
students Serafino and Domenico Sordi, and by Taparelli d’Aglezio, who became
director of the Collegio Romano Gregorian
in 1824. Leo’s encyclical Aeterni Patris1879 marked an official effort
on the part of the Roman Catholic church to foster the study of the philosophy
and theology of Thomas Aquinas. The intent was to draw upon Aquinas’s original
writings in order to prepare students of philosophy and theology to deal with
problems raised by contemporary thought. The Leonine Commission was established
to publish a critical edition of all of Aquinas’s writings; this effort
continues today. Important centers of Thomistic studies developed, such as the
Higher Institute of Philosophy at Louvain founded by Cardinal Mercier, the
Dominican School of Saulchoir in France, and the Pontifical Institute of Mediaeval
Studies in Toronto. Different groups of Roman, Belgian, and Jesuits acknowledged a deep indebtedness to
Aquinas for their personal philosophical reflections. There was also a
concentration of effort in the United States at universities such as The Catholic of America, St. Louis , Notre Dame, Fordham,
Marquette, and Boston , to mention but a few, and by the Dominicans at River
Forest. A great weakness of many of the nineteenthand twentieth-century Latin
manuals produced during this effort was a lack of historical sensitivity and
expertise, which resulted in an unreal and highly abstract presentation of an
“Aristotelian-Thomistic” philosophy. This weakness was largely offset by the
development of solid historical research both in the thought of Aquinas and in
medieval philosophy and theology in general, championed by scholars such as H.
Denifle, M. De Wulf, M. GrabmannMandonnet, F. Van Steenberghen, E. Gilson and
many of his students at Toronto, and by a host of more recent and contemporary
scholars. Much of this historical work continues today both within and without
Catholic scholarly circles. At the same time, remarkable diversity in
interpreting Aquinas’s thought has emerged on the part of many
twentieth-century scholars. Witness, e.g., the heavy influence of Cajetan and
John of St. Thomas on the Thomism of Maritain; the much more historically
grounded approaches developed in quite different ways by Gilson and F. Van
Steenberghen; the emphasis on the metaphysics of participation in Aquinas in
the very different presentations by L. Geiger and C. Fabro; the emphasis on
existence esse promoted by Gilson and many others but resisted by still other
interpreters; the movement known as Transcendental Thomism, originally inspired
byRousselot and by J. Marechal in dialogue with Kant; and the long controversy
about the appropriateness of describing Thomas’s philosophy and that of other
medievals as a Christian philosophy. An increasing number of non-Catholic
thinkers are currently directing considerable attention to Aquinas, and the
varying backgrounds they bring to his texts will undoubtedly result in still
other interesting interpretations and applications of his thought to
contemporary concerns. :
--a strange genitive for “Aquino,” the little village where the saint was born.
while Grice, being C. of E., would avoid Aquinas like the rats, he was aware of
Aquinas’s clever ‘intention-based semantics’ in his commentary of Aristotle’s
De Interpretatione. Saint Thomas 122574,
philosopher-theologian, the most influential thinker of the medieval
period. He produced a powerful philosophical synthesis that combined
Aristotelian and Neoplatonic elements within a Christian context in an original
and ingenious way. Life and works. Thomas was born at Aquino castle in
Roccasecca, Italy, and took early schooling at the Benedictine Abbey of Monte
Cassino. He then studied liberal arts and philosophy at the of Naples 123944 and joined the Dominican
order. While going to Paris for further studies as a Dominican, he was detained
by his family for about a year. Upon being released, he studied with the
Dominicans at Paris, perhaps privately, until 1248, when he journeyed to a
priori argument Aquinas, Saint Thomas 36
36 Cologne to work under Albertus Magnus. Thomas’s own report reportatio
of Albertus’s lectures on the Divine Names of Dionysius and his notes on
Albertus’s lectures on Aristotle’s Ethics date from this period. In 1252 Thomas
returned to Paris to lecture there as a bachelor in theology. His resulting
commentary on the Sentences of Peter Lombard dates from this period, as do two
philosophical treatises, On Being and Essence De ente et essentia and On the
Principles of Nature De principiis naturae. In 1256 he began lecturing as
master of theology at Paris. From this period 125659 date a series of
scriptural commentaries, the disputations On Truth De veritate, Quodlibetal
Questions VIIXI, and earlier parts of the Summa against the Gentiles Summa
contra gentiles; hereafter SCG. At different locations in Italy from 1259 to
1269, Thomas continued to write prodigiously, including, among other works, the
completion of the SCG; a commentary on the Divine Names; disputations On the
Power of God De potentia Dei and On Evil De malo; and Summa of Theology Summa
theologiae; hereafter ST, Part I. In January 1269, he resumed teaching in Paris
as regent master and wrote extensively until returning to Italy in 1272. From
this second Parisian regency date the disputations On the Soul De anima and On
Virtues De virtutibus; continuation of ST; Quodlibets IVI and XII; On the Unity
of the Intellect against the Averroists De unitate intellectus contra
Averroistas; most if not all of his commentaries on Aristotle; a commentary on
the Book of Causes Liber de causis; and On the Eternity of the World De
aeternitate mundi. In 1272 Thomas returned to Italy where he lectured on
theology at Naples and continued to write until December 6, 1273, when his
scholarly work ceased. He died three months later en route to the Second
Council of Lyons. Doctrine. Aquinas was both a philosopher and a theologian.
The greater part of his writings are theological, but there are many strictly
philosophical works within his corpus, such as On Being and Essence, On the
Principles of Nature, On the Eternity of the World, and the commentaries on
Aristotle and on the Book of Causes. Also important are large sections of
strictly philosophical writing incorporated into theological works such as the
SCG, ST, and various disputations. Aquinas clearly distinguishes between
strictly philosophical investigation and theological investigation. If
philosophy is based on the light of natural reason, theology sacra doctrina
presupposes faith in divine revelation. While the natural light of reason is
insufficient to discover things that can be made known to human beings only
through revelation, e.g., belief in the Trinity, Thomas holds that it is
impossible for those things revealed to us by God through faith to be opposed
to those we can discover by using human reason. For then one or the other would
have to be false; and since both come to us from God, God himself would be the
author of falsity, something Thomas rejects as abhorrent. Hence it is
appropriate for the theologian to use philosophical reasoning in theologizing.
Aquinas also distinguishes between the orders to be followed by the theologian
and by the philosopher. In theology one reasons from belief in God and his
revelation to the implications of this for created reality. In philosophy one
begins with an investigation of created reality insofar as this can be
understood by human reason and then seeks to arrive at some knowledge of divine
reality viewed as the cause of created reality and the end or goal of one’s
philosophical inquiry SCG II, c. 4. This means that the order Aquinas follows
in his theological Summae SCG and ST is not the same as that which he
prescribes for the philosopher cf. Prooemium to Commentary on the Metaphysics.
Also underlying much of Aquinas’s thought is his acceptance of the difference
between theoretical or speculative philosophy including natural philosophy,
mathematics, and metaphysics and practical philosophy. Being and analogy. For
Aquinas the highest part of philosophy is metaphysics, the science of being as
being. The subject of this science is not God, but being, viewed without
restriction to any given kind of being, or simply as being Prooemium to
Commentary on Metaphysics; In de trinitate, qu. 5, a. 4. The metaphysician does
not enjoy a direct vision of God in this life, but can reason to knowledge of
him by moving from created effects to awareness of him as their uncreated
cause. God is therefore not the subject of metaphysics, nor is he included in
its subject. God can be studied by the metaphysician only indirectly, as the
cause of the finite beings that fall under being as being, the subject of the
science. In order to account for the human intellect’s discovery of being as
being, in contrast with being as mobile studied by natural philosophy or being
as quantified studied by mathematics, Thomas appeals to a special kind of
intellectual operation, a negative judgment, technically named by him
“separation.” Through this operation one discovers that being, in order to be
realized as such, need not be material and changAquinas, Saint Thomas Aquinas,
Saint Thomas 37 37 ing. Only as a
result of this judgment is one justified in studying being as being. Following
Aristotle and Averroes, Thomas is convinced that the term ‘being’ is used in
various ways and with different meanings. Yet these different usages are not
unrelated and do enjoy an underlying unity sufficient for being as being to be
the subject of a single science. On the level of finite being Thomas adopts and
adapts Aristotle’s theory of unity by reference to a first order of being. For
Thomas as for Aristotle this unity is guaranteed by the primary referent in our
predication of being substance. Other
things are named being only because they are in some way ordered to and
dependent on substance, the primary instance of being. Hence being is
analogous. Since Thomas’s application of analogy to the divine names
presupposes the existence of God, we shall first examine his discussion of that
issue. The existence of God and the “five ways.” Thomas holds that unaided
human reason, i.e., philosophical reason, can demonstrate that God exists, that
he is one, etc., by reasoning from effect to cause De trinitate, qu. 2, a. 3;
SCG I, c. 4. Best-known among his many presentations of argumentation for God’s
existence are the “five ways.” Perhaps even more interesting for today’s
student of his metaphysics is a brief argument developed in one of his first
writings, On Being and Essence c.4. There he wishes to determine how essence is
realized in what he terms “separate substances,” i.e., the soul, intelligences
angels of the Christian tradition, and the first cause God. After criticizing
the view that created separate substances are composed of matter and form,
Aquinas counters that they are not entirely free from composition. They are
composed of a form or essence and an act of existing esse. He immediately
develops a complex argument: 1 We can think of an essence or quiddity without
knowing whether or not it actually exists. Therefore in such entities essence
and act of existing differ unless 2 there is a thing whose quiddity and act of
existing are identical. At best there can be only one such being, he continues,
by eliminating multiplication of such an entity either through the addition of
some difference or through the reception of its form in different instances of
matter. Hence, any such being can only be separate and unreceived esse, whereas
esse in all else is received in something else, i.e., essence. 3 Since esse in
all other entities is therefore distinct from essence or quiddity, existence is
communicated to such beings by something else, i.e., they are caused. Since
that which exists through something else must be traced back to that which
exists of itself, there must be some thing that causes the existence of
everything else and that is identical with its act of existing. Otherwise one
would regress to infinity in caused causes of existence, which Thomas here
dismisses as unacceptable. In qu. 2, a. 1 of ST I Thomas rejects the claim that
God’s existence is self-evident to us in this life, and in a. 2 maintains that
God’s existence can be demonstrated by reasoning from knowledge of an existing
effect to knowledge of God as the cause required for that effect to exist. The
first way or argument art. 3 rests upon the fact that various things in our
world of sense experience are moved. But whatever is moved is moved by
something else. To justify this, Thomas reasons that to be moved is to be
reduced from potentiality to actuality, and that nothing can reduce itself from
potency to act; for it would then have to be in potency if it is to be moved
and in act at the same time and in the same respect. This does not mean that a
mover must formally possess the act it is to communicate to something else if it
is to move the latter; it must at least possess it virtually, i.e., have the
power to communicate it. Whatever is moved, therefore, must be moved by
something else. One cannot regress to infinity with moved movers, for then
there would be no first mover and, consequently, no other mover; for second
movers do not move unless they are moved by a first mover. One must, therefore,
conclude to the existence of a first mover which is moved by nothing else, and
this “everyone understands to be God.” The second way takes as its point of
departure an ordering of efficient causes as indicated to us by our
investigation of sensible things. By this Thomas means that we perceive in the
world of sensible things that certain efficient causes cannot exercise their
causal activity unless they are also caused by something else. But nothing can
be the efficient cause of itself, since it would then have to be prior to
itself. One cannot regress to infinity in ordered efficient causes. In ordered
efficient causes, the first is the cause of the intermediary, and the
intermediary is the cause of the last whether the intermediary is one or many.
Hence if there were no first efficient cause, there would be no intermediary
and no last cause. Thomas concludes from this that one must acknowledge the
existence of a first efficient cause, “which everyone names God.” The third way
consists of two major parts. Some Aquinas, Saint Thomas Aquinas, Saint Thomas
38 38 textual variants have complicated
the proper interpretation of the first part. In brief, Aquinas appeals to the
fact that certain things are subject to generation and corruption to show that
they are “possible,” i.e., capable of existing and not existing. Not all things
can be of this kind revised text, for that which has the possibility of not
existing at some time does not exist. If, therefore, all things are capable of
not existing, at some time there was nothing whatsoever. If that were so, even
now there would be nothing, since what does not exist can only begin to exist
through something else that exists. Therefore not all beings are capable of
existing and not existing. There must be some necessary being. Since such a
necessary, i.e., incorruptible, being might still be caused by something else,
Thomas adds a second part to the argument. Every necessary being either depends
on something else for its necessity or it does not. One cannot regress to
infinity in necessary beings that depend on something else for their necessity.
Therefore there must be some being that is necessary of itself and that does
not depend on another cause for its necessity, i.e., God. The statement in the
first part to the effect that what has the possibility of not existing at some
point does not exist has been subject to considerable dispute among commentators.
Moreover, even if one grants this and supposes that every individual being is a
“possible” and therefore has not existed at some point in the past, it does not
easily follow from this that the totality of existing things will also have
been nonexistent at some point in the past. Given this, some interpreters
prefer to substitute for the third way the more satisfactory versions found in
SCG I ch. 15 and SCG II ch. 15. Thomas’s fourth way is based on the varying
degrees of perfection we discover among the beings we experience. Some are more
or less good, more or less true, more or less noble, etc., than others. But the
more and less are said of different things insofar as they approach in varying
degrees something that is such to a maximum degree. Therefore there is
something that is truest and best and noblest and hence that is also being to
the maximum degree. To support this Thomas comments that those things that are
true to the maximum degree also enjoy being to the maximum degree; in other
words he appeals to the convertibility between being and truth of being. In the
second part of this argument Thomas argues that what is supremely such in a
given genus is the cause of all other things in that genus. Therefore there is
something that is the cause of being, goodness, etc., for all other beings, and
this we call God. Much discussion has centered on Thomas’s claim that the more
and less are said of different things insofar as they approach something that
is such to the maximum degree. Some find this insufficient to justify the
conclusion that a maximum must exist, and would here insert an appeal to
efficient causality and his theory of participation. If certan entities share
or participate in such a perfection only to a limited degree, they must receive
that perfection from something else. While more satisfactory from a
philosophical perspective, such an insertion seems to change the argument of
the fourth way significantly. The fifth way is based on the way things in the
universe are governed. Thomas observes that certain things that lack the
ability to know, i.e., natural bodies, act for an end. This follows from the
fact that they always or at least usually act in the same way to attain that
which is best. For Thomas this indicates that they reach their ends by
“intention” and not merely from chance. And this in turn implies that they are
directed to their ends by some knowing and intelligent being. Hence some
intelligent being exists that orders natural things to their ends. This
argument rests on final causality and should not be confused with any based on
order and design. Aquinas’s frequently repeated denial that in this life we can
know what God is should here be recalled. If we can know that God exists and
what he is not, we cannot know what he is see, e.g., SCG I, c. 30. Even when we
apply the names of pure perfections to God, we first discover such perfections
in limited fashion in creatures. What the names of such perfections are
intended to signify may indeed be free from all imperfection, but every such
name carries with it some deficiency in the way in which it signifies. When a
name such as ‘goodness’, for instance, is signified abstractly e.g., ‘God is
goodness’, this abstract way of signifying suggests that goodness does not
subsist in itself. When such a name is signified concretely e.g., ‘God is
good’, this concrete way of signifying implies some kind of composition between
God and his goodness. Hence while such names are to be affirmed of God as
regards that which they signify, the way in which they signify is to be denied
of him. This final point sets the stage for Thomas to apply his theory of
analogy to the divine names. Names of pure perfections such as ‘good’, ‘true’,
‘being’, etc., cannot be applied to God with Aquinas, Saint Thomas Aquinas,
Saint Thomas 39 39 exactly the same
meaning they have when affirmed of creatures univocally, nor with entirely
different meanings equivocally. Hence they are affirmed of God and of creatures
by an analogy based on the relationship that obtains between a creature viewed
as an effect and God its uncaused cause. Because some minimum degree of
similarity must obtain between any effect and its cause, Thomas is convinced
that in some way a caused perfection imitates and participates in God, its uncaused
and unparticipated source. Because no caused effect can ever be equal to its
uncreated cause, every perfection that we affirm of God is realized in him in a
way different from the way we discover it in creatures. This dissimilarity is
so great that we can never have quidditative knowledge of God in this life know
what God is. But the similarity is sufficient for us to conclude that what we
understand by a perfection such as goodness in creatures is present in God in
unrestricted fashion. Even though Thomas’s identification of the kind of
analogy to be used in predicating divine names underwent some development, in
mature works such as On the Power of God qu. 7, a. 7, SCG I c.34, and ST I qu.
13, a. 5, he identifies this as the analogy of “one to another,” rather than as
the analogy of “many to one.” In none of these works does he propose using the
analogy of “proportionality” that he had previously defended in On Truth qu. 2,
a. 11. Theological virtues. While Aquinas is convinced that human reason can arrive
at knowledge that God exists and at meaningful predication of the divine names,
he does not think the majority of human beings will actually succeed in such an
effort SCG I, c. 4; ST IIIIae, qu. 2, a. 4. Hence he concludes that it was
fitting for God to reveal such truths to mankind along with others that purely
philosophical inquiry could never discover even in principle. Acceptance of the
truth of divine revelation presupposes the gift of the theological virtue of
faith in the believer. Faith is an infused virtue by reason of which we accept
on God’s authority what he has revealed to us. To believe is an act of the
intellect that assents to divine truth as a result of a command on the part of
the human will, a will that itself is moved by God through grace ST II IIae,
qu. 2, a. 9. For Thomas the theological virtues, having God the ultimate end as
their object, are prior to all other virtues whether natural or infused.
Because the ultimate end must be present in the intellect before it is present
to the will, and because the ultimate end is present in the will by reason of
hope and charity the other two theological virtues, in this respect faith is
prior to hope and charity. Hope is the theological virtue through which we
trust that with divine assistance we will attain the infinite good eternal enjoyment of God ST IIIIae, qu. 17,
aa. 12. In the order of generation, hope is prior to charity; but in the order
of perfection charity is prior both to hope and faith. While neither faith nor
hope will remain in those who reach the eternal vision of God in the life to
come, charity will endure in the blessed. It is a virtue or habitual form that
is infused into the soul by God and that inclines us to love him for his own
sake. If charity is more excellent than faith or hope ST II IIae, qu. 23, a. 6,
through charity the acts of all other virtues are ordered to God, their
ultimate end qu. 23, a. 8. Aquino --
Aquinismo“If followers of William are called Occamists, followers of a Saint
should surely call themselves “Aquinistae”! -- neo-Thomismas opposed to
palaeo-Thomism --, a philosophical-theological movement in the nineteenth and
twentieth centuries manifesting a revival of interest in Aquinas. It was
stimulated by Pope Leo XIII’s encyclical Aeterni Patris 1879 calling for a
renewed emphasis on the teaching of Thomistic principles to meet the
intellectual and social challenges of modernity. The movement reached its peak
in the 0s, though its influence continues to be seen in organizations such as
the Catholic Philosophical Association.
Among its major figures are Joseph Kleutgen, Désiré Mercier, Joseph Maréchal,
Pierre Rousselot, Réginald Garrigou-LaGrange, Martin Grabmann, M.-D. Chenu,
Jacques Maritain, Étienne Gilson, Yves R. Simon, Josef Pieper, Karl Rahner, Cornelio
Fabro, Emerich Coreth, Bernard Lonergan, and W. Norris Clarke. Few, if any, of
these figures have described themselves as NeoThomists; some explicitly
rejected the designation. Neo-Thomists have little in common except their
commitment to Aquinas and his relevance to the contemporary world. Their
interest produced a more historically accurate understanding of Aquinas and his
contribution to medieval thought Grabmann, Gilson, Chenu, including a
previously ignored use of the Platonic metaphysics of participation Fabro. This
richer understanding of Aquinas, as forging a creative synthesis in the midst
of competing traditions, has made arguing for his relevance easier. Those
Neo-Thomists who were suspicious of modernity produced fresh readings of
Aquinas’s texts applied to contemporary problems Pieper, Gilson. Their
influence can be seen in the revival of virtue theory and the work of Alasdair
MacIntyre. Others sought to develop Aquinas’s thought with the aid of later
Thomists Maritain, Simon and incorporated the interpretations of
Counter-Reformation Thomists, such as Cajetan and Jean Poinsot, to produce more
sophisticated, and controversial, accounts of the intelligence, intentionality,
semiotics, and practical knowledge. Those Neo-Thomists willing to engage modern
thought on its own terms interpreted modern philosophy sympathetically using
the principles of Aquinas Maréchal, Lonergan, Clarke, seeking dialogue rather
than confrontation. However, some readings of Aquinas are so thoroughly
integrated into modern philosophy that they can seem assimilated Rahner,
Coreth; their highly individualized metaphysics inspired as much by other
philosophical influences, especially Heidegger, as Aquinas. Some of the labels
currently used among Neo-Thomists suggest a division in the movement over
critical, postKantian methodology. ‘Existential Thomism’ is used for those who
emphasize both the real distinction between essence and existence and the role
of the sensible in the mind’s first grasp of being. ‘Transcendental Thomism’
applies to figures like Maréchal, Rousselot, Rahner, and Coreth who rely upon
the inherent dynamism of the mind toward the real, rooted in Aquinas’s theory
of the active intellect, from which to deduce their metaphysics of being.
Dedicatio. Dilecto sibi praeposito Lovaniensi frater Thomas de Aquino
salutem et verae sapientiae incrementa. Diligentiae tuae, qua in iuvenili
aetate non vanitati sed sapientiae intendis, studio provocatus, et desiderio
satisfacere cupiens, libro Aristotelis, qui peri hermeneias dicitur, multis
obscuritatibus involuto, inter multiplices occupationum mearum sollicitudines,
expositionem adhibere curavi, hoc gerens in animo sic altiora pro posse
perfectioribus exhibere, ut tamen iunioribus proficiendi auxilia tradere non
recusem. Suscipiat ergo studiositas tua praesentis expositionis munus exiguum,
ex quo si profeceris, provocare me poteris ad maiora. 1 Sicut dicit philosophus
in III de anima, duplex est operatio intellectus: una quidem, quae dicitur
indivisibilium intelligentia, per quam scilicet intellectus apprehendit
essentiam uniuscuiusque rei in seipsa; alia est operatio intellectus scilicet
componentis et dividentis. Additur autem et tertia operatio, scilicet
ratiocinandi, secundum quod ratio procedit a notis ad inquisitionem ignotorum.
Harum autem operationum prima ordinatur ad secundam: quia non potest esse
compositio et divisio, nisi simplicium apprehensorum. Secunda vero ordinatur ad
tertiam: quia videlicet oportet quod ex aliquo vero cognito, cui intellectus
assentiat, procedatur ad certitudinem accipiendam de aliquibus ignotis. There
is a twofold operation of the intellect, as the Philosopher says in III De
anima [6: 430a 26]. One is the understanding of simple objects, that is, the
operation by which the intellect apprebends just the essence of a thing alone;
the other is the operation of composing and dividing. There is also a third
operation, that of reasoning, by which reason proceeds from what is known to
the investigation of things that are unknown. The first of these operations is
ordered to the second, for there cannot be composition and division unless
things have already been apprehended simply. The second, in turn, is ordered to
the third, for clearly we must proceed from some known truth to which the
intellect assents in order to have certitude about something not yet known.
Aquinas pr. 2 Cum autem logica dicatur rationalis scientia, necesse est quod
eius consideratio versetur circa ea quae pertinent ad tres praedictas
operationes rationis. De his igitur quae pertinent ad primam operationem
intellectus, idest de his quae simplici intellectu concipiuntur, determinat
Aristoteles in libro praedicamentorum. De his vero, quae pertinent ad secundam
operationem, scilicet de enunciatione affirmativa et negativa, determinat
philosophus in libro perihermeneias. De his vero quae pertinent ad tertiam
operationem determinat in libro priorum et in consequentibus, in quibus agitur
de syllogismo simpliciter et de diversis syllogismorum et argumentationum
speciebus, quibus ratio de uno procedit ad aliud. Et ideo secundum praedictum
ordinem trium operationum, liber praedicamentorum ordinatur ad librum
perihermeneias, qui ordinatur ad librum priorum et sequentes. 2. Since logic is
called rational science it must direct its consideration to the things that
belong to the three operations of reason we have mentioned. Accordingly,
Aristotle treats those belonging to the first operation of the intellect, i.e.,
those conceived by simple understanding, in the book Praedicamentorum; those
belonging to the second operation, i.e., affirmative and negative enunciation,
in the book Perihermeneias; those belonging to the third operation in the book
Priorum and the books following it in which he treats the syllogism absolutely,
the different kinds of syllogism, and the species of argumentation by which
reason proceeds from one thing to another. And since the three operations of
reason are ordered to each other so are the books: the Praedicamenta to the
Perihermeneias and the Perihermeneias to the Priora and the books following it.
Aquinas pr. 3. Dicitur ergo liber iste, qui prae manibus habetur,
perihermeneias, quasi de interpretatione. Dicitur autem interpretatio, secundum
Boethium, vox significativa, quae per se aliquid significat, sive sit complexa
sive incomplexa. Unde coniunctiones et praepositiones et alia huiusmodi non
dicuntur interpretationes, quia non per se aliquid significant. Similiter etiam
voces signi-ficantes naturaliter, non ex proposito aut cum imaginatione aliquid
significandi, sicut sunt voces brutorum animalium, interpretationes dici non
possunt. Qui enim interpretatur aliquid exponere intendit. Et ideo sola nomina
et verba et orationes dicuntur interpretationes, de quibus in hoc libro
determinatur. Sed tamen nomen et verbum magis interpretationis principia esse
videntur, quam interpretationes. Ille enim interpretari videtur, qui exponit
aliquid esse verum vel falsum. Et ideo sola oratio enunciativa, in qua verum
vel falsum invenitur, interpretatio vocatur. Caeterae vero orationes, ut optativa
et imperativa, magis ordinantur ad exprimendum affectum, quam ad interpretandum
id quod in intellectu habetur. Intitulatur ergo liber iste de interpretatione,
ac si dicetur de enunciativa oratione: in qua verum vel falsum invenitur. Non
autem hic agitur de nomine et verbo, nisi in quantum sunt partes enunciationis.
Est enim proprium uniuscuiusque scientiae partes subiecti tradere, sicut et
passiones. Patet igitur ad quam partem philosophiae pertineat liber iste, et
quae sit necessitas istius, et quem ordinem teneat inter logicae libros.3. The
one we are now examining is named Perihermeneias, that is, On Interpretation.
Interpretation, according to Boethius, is "significant vocal sound —whether
complex or incomplex — which signifies something by itself.” Conjunctions,
then, and prepositions and other words of this kind are not called
interpretations since they do not signify anything by themselves. Nor can
sounds signifying naturally but not from purpose or in connection with a mental
image of signifying something—such as the sounds of brute animals—be called
interpretations, for one who in terprets intends to explain something.
Therefore only names and verbs and speech are called interpretations and these
Aristotle treats in this book. The name and verb, however, seem to be
principles of interpretation rather than interpretations, for one who
interprets seems to explain something as either true or false. Therefore, only
enunciative speech in which truth or falsity is found is called interpretation.
Other kinds of speech, such as optatives and imperatives, are ordered rather to
expressing volition than to interpreting what is in the intellect. This book,
then, is entitled On Interpretation, that is to say, On Enunciative Speech in
which truth or falsity is found. The name and verb are treated only insofar as
they are parts of the enunciation; for it is proper to a science to treat the
parts of its subject as well as its properties. It is clear, then, to which
part of philosophy this book belongs, what its necessity is, and what its place
is among the books on logic. I. 1. Praemittit autem huic operi philosophus
prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et
quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem
compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de
enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet
constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum. In Graeco
habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim demonstrationes
definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones.
Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia
ex definitionibus alia cognoscuntur. The Philosopher begins this work with an
introduction in which he points out one by one the things that are to be
treated. For, since every science begins with a treatment of the principles,
and the principles of composite things are their parts, one who intends to
treat enunciation must begin with its parts, Therefore Aristotle begins by
saying: First we must determine, i.e., define, what a name is and what a verb
is. In the Greek text it is First we must posit, which signifies the same
thing, for demonstrations presuppose definitions, from which they conclude, and
hence definitions are rightly called "positions.” This is the reason he
only points out here the definitions of the things to be treated; for from
definitions other things are known. 2. Si quis autem quaerat, cum in libro
praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum
de nomine et verbo determinaretur. Ad hoc dicendum quod simplicium dictionum
triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute
significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum
praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes
enunciationis. Et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub
ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum
tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem
dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur
secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de
eis sub ratione terminorum in libro priorum. It might be asked why it is
necessary to treat simple things again, i.e., the name and the verb, for they
were treated in the book Praedicamentorum. In answer to this we should say that
simple words can be considered in three ways: first, as they signify simple
intellection absolutely, which is the consideration proper to the book
Praedicamentorum; secondly, according to their function as parts of the
enunciation, which is the way they are considered in this book. Hence, they are
treated here under the formality of the name and the verb, and under this
formality they signify something with time or without time and other things of
the kind that belong to the formality of words as they are components of an
enunciation. Finally, simple words may be considered as they are components of
a syllogistic ordering. They are treated then under the formality of terms and
this Aristotle does in the book Priorum. 3 Potest iterum dubitari quare,
praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad
quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit,
sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex
necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et verbo simplex
enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his; et ideo
sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola nomina
et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur
pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo
loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod consignificat tempus:
quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes
partium orationis, significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis
partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis
coniunctiones. It might be asked why he treats only the name and verb and omits
the other parts of speech. The reason could be that Aristotle intends to
establish rules about the simple enunciation and for this it is sufficient to
consider only the parts of the enunciation that are necessary for simple
speech. A simple enunciation can be formed from just a name and a verb, but it
cannot be formed from other parts of speech without these. Therefore, it is
sufficient to treat these two.On the other hand, the reason could be that names
and verbs are the principal parts of speech. Pronouns, which do not name a
nature but determine a person-and therefore are put in place of names-are
comprehended under names. The participle-althougb it has similarities with the
name-signifies with time and is therefore comprehended under the verb. The
others are things that unite the parts of speech. They signify relations of one
part to another rather than as parts of speech; as nails and other parts of
this kind are not parts of a ship, but connect the parts of a ship. 4 His
igitur praemissis quasi principiis, subiungit de his, quae pertinent ad
principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae
sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum
(alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam
esse), sed partes subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius
autem manifestabitur. After he has proposed these parts [the name and the verb]
as principles, Aristotle states what he principally intends to establish:...
then what negation is and affirmation. These, too, are parts of the
enunciation, not integral parts however, as are the name and the verb—otherwise
every enunciation would have to be formed from an affirmation and negation—but
subjective parts, i.e., species. This is supposed here but will be proved later.
5 Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam,
quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest
dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non
differunt nisi secundum differentiam unius et multi. Vel potest dici, et
melius, quod hypothetica enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius
cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber iste principaliter
ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit
in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis
enunciationis. Et ideo Aristoteles praetermisit tractatum de hypotheticis
enunciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus
negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis. Since
enunciation is divided into categorical and hypothetical, it might be asked why
he does not list these as well as affirmation and negation. In reply to this we
could say that Aristotle has not added these because the hypothetical
enunciation is composed of many categorical propositions and hence categorical
and hypothetical only differ according to the difference of one and many.Or we
could say—and this would be a better reason—that the hypothetical enunciation
does not contain absolute truth, the knowledge of which is required in
demonstration, to which this book is principally ordered; rather, it signifies
something as true by supposition, which does not suffice for demonstrative sciences
unless it is confirmed by the absolute truth of the simple enunciation. This is
the reason Aristotle does not treat either hypothetical enunciations or
syllogisms. He adds, and the enunciation, which is the genus of negation and
affirmation; and speech, which is the genus of enunciation. 6 Si quis ulterius quaerat, quare non facit
ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde
pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de
anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie
orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales
ad constitutionem artificialium. If it should be asked why, besides these, he
does not mention vocal sound, it is because vocal sound is something natural
and therefore belongs to the consideration of natural philosophy, as is evident
in II De Anima [8: 420b 5-421a 6] and at the end of De generatione animalium
[ch. 8]. Also, since it is something natural, vocal sound is not properly the
genus of speech but is presupposed for the forming of speech, as natural things
are presupposed for the formation of artificial things. 7 Videtur autem ordo enunciationis
esse praeposterus. Nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior
est enunciatio, sicut genus. Et per consequens oratio enunciatione. Sed
dicendum quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad
totum. Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit
affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad
partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum
quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse,
prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat
affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul
natura; unde non refert quod eorum praeponatur. In this introduction, however,
Aristotle seems to have inverted the order of the enunciation, for affirmation
is naturally prior to negation and enunciation prior to these as a genus; and
consequently, speech to enunciation. We could say in reply to this that he
began to enumerate from the parts and consequently he proceeds from the parts
to the whole. He puts negation, which contains division, before affirmation,
which consists of composition, for the same reason: division is closer to the
parts, composition closer to the whole. Or we could say, as some do, that he
puts negation first because in those things that can be and not be, non-being,
which negation signifies, is prior to being, which affirmation signifies.
Aristotle, however, does not refer to the fact that one of them is placed
before the other, for they are species equally dividing a genus and are therefore
simultaneous according to nature. II. 1.
Praemisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea,
de quibus promiserat se dicturum, sunt voces signi-ficativae complexae vel
incomplexae, ideo praemittit tractatum de sign-ificatione vocum. Et deinde de
vocibus signi-ficativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat.
Et hoc ibi:. Nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo
facit. Pprimo, determinat qualis sit sign-ificatio vocum. Scundo, ostendit differentiam
significationum vocum complexarum et incomplexarum. Ibi: est autem quemadmodum
et cetera. Circa primum duo facit. Primo quidem, praemittit ordinem signi-ficationis
vocum. Secundo, ostendit qualis sit vocum signi-ficatio, utrum sit ex natura
vel *ex impositione* [ex positione, ex arte non ex natura – signo ex natura –
signo ex arte, segno da natura, segno d’arte --. Ibi: et quemadmodum nec
litterae et cetera. After his introduction the Philosopher begins to
investigate the things he has proposed. Since the things he promised to speak
of are either complex or incomplex significant vocal sounds, he prefaces this
with a treatment of the signification of vocal sounds; then he takes up the
significant vocal sounds he proposed in the introduction where he says, A name,
then, is a vocal sound significant by convention, without time, etc. In regard
to the signification of vocal sounds he first determines what kind of
signification vocal sound has and then shows the difference between the
signification of complex and incomplex vocal sounds where he says, As sometimes
there is thought in the soul, etc. With respect to the first point, he presents
the order of the signification of vocal sounds and then shows what kind of
signification vocal sound has, i.e., whether it is from nature or by
imposition. This he does where he says, And just as letters are not the same
for all men, etc. 2 Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex
quorum uno intelligitur quartum. Aristoteles proponit enim scripturam, voces et
animae passiones, ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex im-pressione
alicuius agentis. Et sic passiones animae originem habent ab ipsis rebus
[teoria causale della percezione]. Et si quidem homo esset naturaliter animal
solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis rebus
conformaretur, ut earum *notitiam* [nota, notitia – notizia – notatura --] in se haberet. Sed quia homo est animal
naturaliter politicum et sociale [chi ama la comunicazione!], necesse fuit quod
conceptiones unius hominis *innotescerent* [co-gnoscere] [informare,
notificare, essibire, per influire] aliis, quod fit per vocem. Et ideo necesse
fuit esse voces signi-ficativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent.
Unde illi, qui sunt diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad
invicem. Rursum si homo uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum
ad hic et nunc, sufficeret sibi ad convivendum aliis vox signi-ficativa, sicut
et caeteris animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi
manifestant. Sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae
abstrahit ab hic et nunc. Consequitur ipsum sollicitudo non solum de
praesentibus secundum locum et tempus, sed etiam de his quae distant loco et
futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui distant
secundum locum et his qui venturi sunt in futuro tempore manifestet, necessarius
fuit usus scripturae. Apropos of the order of signification of vocal sounds he
proposes three things, from one of which a fourth is understood. He proposes
writing, vocal sounds, and passions of the soul; things is understood from the
latter, for passion is from the impression of something acting, and hence
passions of the soul have their origin from things. Now if man were by nature a
solitary animal the passions of the soul by which he was conformed to things so
as to have knowledge of them would be sufficient for him; but since he is by
nature a political and social animal it was necessary that his conceptions be
made known to others. This he does through vocal sound. Therefore there had to
be significant vocal sounds in order that men might live together. Whence those
who speak different languages find it difficult to live together in social
unity. Again, if man had only sensitive cognition, which is of the here and
now, such significant vocal sounds as the other animals use to manifest their
conceptions to each other would be sufficient for him to live with others. But
man also has the advantage of intellectual cognition, which abstracts from the
here and now, and as a consequence, is concerned with things distant in place
and future in time as well as things present according to time and place. Hence
the use of writing was necessary so that he might manifest his conceptions to
those who are distant according to place and to those who will come in future
time. 3. Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, signi-ficatio
vocum, quae est *immediate* [senza medio, non-mediata] ipsis conceptionibus
intellectus, pertinet ad principalem considerationem ipsius. Signi-ficatio
autem litterarum, tanquam magis remota [mediate], non pertinet ad eius
considerationem, sed magis ad considerationem grammatici e non filosofi. Et
ideo exponens ordinem signi-ficationum non incipit a litteris, sed a vocibus. Quarum
primo signi-ficationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce, notae,
idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi ex
praemissis concludens. Qquia supra dixerat determinandum esse de nomine et
verbo et aliis praedictis. Haec autem sunt voces signi-ficativae. Ergo oportet
vocum significationem exponere. However, since logic is ordered to obtaining
knowledge about things, the signification of vocal sounds, which is immediate
to the conceptions of the intellect, is its principal consideration. The
signification of written signs, being more remote, belongs to the consideration
of the grammarian rather than the logician. Aristotle therefore begins his
explanation of the order of signification from vocal sounds, not written signs.
First he explains the signification of vocal sounds: Therefore those that are
in vocal sound are signs of passions in the soul. He says "therefore” as
if concluding from premises, because he has already said that we must establish
what a name is, and a verb and the other things he mentioned; but these are
significant vocal sounds; therefore, signification of vocal sounds must be explained.
4. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea quae sunt in voce, et non,
voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis. Dixerat enim dicendum esse
de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem tripliciter habent esse. Uno
quidem modo, in conceptione intellectus. Alio modo, in prolatione vocis. Tertio
modo, in conscriptione litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc. Ac si
dicat, nomina et verba et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt
notae. Vel, quia non omnes voces sunt signi-ficativae, et earum quaedam sunt
signi-ficativae *naturaliter*, quae longe sunt a ratione nominis et verbi et
aliorum consequentium. Ut appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo
dicit, ea quae sunt in voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub
toto. Vel, quia vox est quoddam naturale, nomen autem et verbum signi-ficant *ex
institutione humana*, quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti
ligno. Ideo ad *de-signandum* [DE-SIGNARE, desegno] nomina et verba et alia
consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de lecto diceretur, ea quae
sunt in ligno. When he says "Those that are in vocal sound,” and not
"vocal sounds,” his mode of speaking implies a continuity with what he has
just been saying, namely, we must define the name and the verb, etc. Now these
have being in three ways: in the conception of the intellect, in the utterance
of the voice, and in the writing of letters. He could therefore mean when he
says "Those that are in vocal sound,” etc., names and verbs and the other
things we are going to define, insofar as they are in vocal sound, are signs.
On the other hand, he may be speaking in this way because not all vocal sounds
are significant, and of those that are, some are significant naturally and
hence are different in nature from the name and the verb and the other things
to be defined. Therefore, to adapt what he has said to the things of which he
intends to speak he says, "Those that are in vocal sound,” i.e., that are
contained under vocal sound as parts under a whole. There could be still
another reason for his mode of speaking. Vocal sound is something natural. The
name and verb, on the other hand, signify by human institution, that is, the
signification is added to the natural thing as a form to matter, as the form of
a bed is added to wood. Therefore, to designate names and verbs and the other
things he is going to define he says, "Those that are in vocal sound,” in
the same way he would say of a bed, "that which is in wood.” 5. Circa id
autem quod dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod
passiones animae communiter dici solent appetitus *sensibilis* affectiones,
sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est
quod huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut
gemitus infirmorum [infirmi], et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae.
Sed nunc sermo est de vocibus significativis *ex institutione* humana. Et ideo
oportet passiones animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina
et verba et orationes significant immediate, secundum sententiam Aristotelis.
Non enim potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo
significandi apparet. Significat enim hoc nomen ‘homo’ naturam humanam [homo]
in abstractione a singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate
hominem singularem. Unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam *ideam*
[hominis] separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit
realiter secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu. Ideo
necesse fuit Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones
immediate [IN-MEDIATA, NON-MEDIATA – senza medio] et eis mediantibus [MEDIATA
-- medio] res. U segna [mediatamente] che piove non che CREDE che piove. When he speaks of passions in the soul we are
apt to think of the affections of the sensitive appetite, such as anger, joy,
and the other passions that are customarily and commonly called passions of the
soul, as is the case in II Ethicorum [5: 1105b 21]. It is true that some of the
vocal sounds man makes signify passions of this kind naturally, such as the
groans of the sick and the sounds of other animals, as is said in I Politicae
[2: 1253a 10-14]. But here Aristotle is speaking of vocal sounds that are
significant by human institution. Therefore "passions in the soul” must be
understood here as conceptions of the intellect, and names, verbs, and speech,
signify these conceptions of the intellect immediately according to the
teaching of Aristotle. They cannot immediately signify things, as is clear from
the mode of signifying, for the name "man” signifies human nature in
abstraction from singulars; hence it is impossible that it immediately signify
a singular man. The Platonists for this reason held that it signified the
separated idea of man. But because in Aristotle’s teaching man in the abstract
does not really subsist, but is only in the mind, it was necessary for
Aristotle to say that vocal sounds signify the conceptions of the intellect
immediately and things by means of them. 6. Sed quia non est consuetum quod
conceptiones intellectus Aristoteles nominet passiones. Ideo Andronicus posuit
hunc librum non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod
passiones animae vocat omnes animae *operations* [judicate/volere – accetare].
Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia intelligere
nostrum non est sine “phantasmate” [sing. fantasma – etym. – fendere,
offendere, manifestare, diafano]. Quod non est sine corporali [del corpo]
passione. Unde et *imaginativam* philosophus in III de anima vocat passivum [non
activum] intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem,
etiam ipsum intelligere intellectus possibilis [passibilis] quoddam *pati* est,
ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam
intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta *ex amore* vel
odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit. Tum
etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod
oritur a rebus per modum cuiusdam *impressionis* [im-primere – ex-primere] vel
passionis. Since Aristotle did not customarily speak of conceptions of the
intellect as passions, Andronicus took the position that this book was not
Aristotle’s. In I De anima, however, it is obvious that he calls all of the
operations of the soul "passions” of the soul. Whence even the conception
of the intellect can be called a passion and this either because we do not
understand without a phantasm, which requires corporeal passion (for which
reason the Philosopher calls the imaginative power the passive intellect) [De
Anima III, 5: 430a 25]; or because by extending the name "passion” to
every reception, the understanding of the possible intellect is also a kind of
undergoing, as is said in III De anima [4: 429b 29]. Aristotle uses the name
"passion,” rather than "understanding,” however, for two reasons:
first, because man wills to signify an interior conception to another through
vocal sound as a result of some passion of the soul, such as love or hate;
secondly, because the signification of vocal sound is referred to the
conception of the intellect inasmuch as the conception arises from things by
way of a kind of impression or passion. 7. Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur
etc., agit de signi-ficatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad
manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus. Ita
ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa
vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec
litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae
significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud
diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non
dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur. Quia
dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie,
secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in
prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et
ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur,
sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum
ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod *nomina* [Fido --
denotatum] et verba [-- is shaggy -- attributum], quae sunt in voce, sunt *signa*
eorum quae sunt *in* *anima*, continuatim subdit quod nomina et verba quae
scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. When he
says, and those that are written are signs of those in vocal sound, he treats
of the signification of writing. According to Alexander he introduces this to
make the preceding clause evident by means of a similitude; and the meaning is:
those that are in vocal sound are signs of the passions of the soul in the way
in which letters are of vocal sound; then he goes On to manifest this point
where he says, And just as letters are not the same for all men so neither are
vocal sounds the same—by introducing this as a sign of the preceding. For when
he says in effect, just as there are diverse vocal sounds among diverse peoples
so there are diverse letters, he is signifying that letters signify vocal.
sounds. And according to this exposition Aristotle said those that are written
are signs... and not, letters are signs of those that are in vocal sound,
because they are called letters in both speech and writing, alt bough they are
more properly called letters in writing; in speech they are called elements of
vocal sound. Aristotle, however, does not say, just as those that are written,
but continues with his account. Therefore it is better to say as Porphyry does,
that Aristotle adds this to complete the order of signification. For after he
says that names and verbs in vocal sound are signs of those [names and verbs –
‘Fido is shaggy’ denotative – attributive – the S is P -- in the soul, he
adds—in continuity with this—that names and verbs that are written are signs of
the names and verbs that are in vocal sound. 8. Deinde cum dicit: et
quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum signi-ficantium
et signi-ficatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum naturam, vel non
esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam signum, quo
manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant. Ea enim, quae
naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem litterarum et
vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos
unquam dubitatum fuit quantum ad litteras. Quarum non solum *ratio significandi
est ex impositione* [positione], sed etiam ipsarum formatio fit *per artem*
[per arte ma non ‘artificiale’ – signo di natura, signo di arte, signum
naturae, signum artis, signum naturalis – signum artis – segno artato -- --.
[non per naturam]. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam
dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat
ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec
voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces
naturaliter significant, sed *ex institutione* humana. Voces autem illae, quae
naturaliter signi-FICANT, sicut gemitus infirmorum [infirmi] et alia huiusmodi,
sunt *eadem* apud omnes. Then where he says, And just as letters are not the
same for all men so neither are vocal sounds the same, he shows that the
foresaid things differ as signified and signifying inasmuch as they are either
according to nature or not. He makes three points here. He first posits a sign
to show that neither vocal sounds nor letters signify naturally; things that
signify naturally are the same among all men; but the signification of letters
and vocal sounds, which is the point at issue here, is not the same among all
men. There has never been any question about this in regard to letters, for
their character of signifying is from imposition and their very formation is
through art. Vocal sounds, however, are formed naturally and hence there is a
question as to whether they signify naturally. Aristotle determines this by
comparison with letters: these are not the same among all men, and so neither
are vocal sounds the same. Consequently, like letters, vocal sounds do not
signify naturally but by human institution. The vocal sounds that do signify
naturally, such as groans of the sick and others of this kind, are the same
among all men. 9. Secundo, ibi. Quorum
autem etc., ostendit passiones animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc
quod eaedem sunt apud omnes. Unde dicit. Quorum autem. Idest sicut passiones
animae sunt eaedem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum primarum,
hae, scilicet voces, sunt *notae*, idest *signa*; comparantur enim passiones
animae ad voces, sicut primum ad secundum. Voces enim non proferuntur, nisi ad
ex-primendum [exprimere] in-teriores [interior/exterior] animae passiones), et
res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae,
scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras
dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter. Passiones
autem animae dicit esse similitudines rerum. Et hoc ideo, quia res non
cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu
vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces passionum,
quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio *institutionis*,
sicut et in multis aliis signis. Ut *tuba* est signum [sola ratio
institutionis] belli [notifica la partenza dalla battaglia]. In passionibus
autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas res, quia
naturaliter eas designant, non ex institutione. Secondly, when he says, but the
passions of the soul, of which vocal sounds are the first signs, are the same
for all, he shows that passions of the soul exist naturally, just as things
exist naturally, for they are the same among all men. For, he says, but the
passions of the soul, i.e., just as the passions of the soul are the same for
all men; of which first, i.e., of which passions, being first, these, namely,
vocal sounds, are tokens [cf. teach] -- ,” i.e., signs” (for passions of the
soul are compared to vocal sounds as first to second since vocal sounds are
produced *only* to express interior passions of the soul), so also the
things... are the same, i.e., are the same among all, of which, i.e., of which
things, passions of the soul are likenesses. Notice he says here that letters
are signs, i.e., signs of vocal sounds, and similarly vocal sounds are signs of
passions of the soul, but that passions of the soul are likenesses of things.
This is because a thing is not known by the soul unless there is some likeness
of the thing existing either in the sense or in the intellect. Now letters are
signs of vocal sounds and vocal sounds of passions in such a way that we do not
attend to any idea of likeness in regard to them but *only one [idea] of
institution, as is the case in regard to many other signs, for example, the
trumpet as a sign of war. But in the passions of the soul we have to take into
account the idea of a likeness to the things represented, since passions of the
soul designate things naturally, not by institution. 10 Obiiciunt autem quidam,
ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas significant
voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias
habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones.
Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones animae
conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius conceptiones
esse apud omnes easdem. Quia, si quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed
quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod componit et dividit,
non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut
dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices intellectus
conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem apud omnes:
quia, si quis vere intelligit quid est [homo] [viz. animale razionale],
quodcunque aliud aliquid, quam [hominem] apprehendat, non intelligit hominem.
Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces
significant. Unde dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen,
est definitio. Et ideo *signanter* dicit. Quorum primorum hae *notae* sunt, ut
scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo signi-ficatas. There
are some who object to Aristotle’s position that passions of the soul, which
vocal sounds signify, are the same for all men. Their argument against it is as
follows. Different men have different opinions about things. Therefore,
passions of the soul do not seem to be the same among all men. Boethius in
reply to this objection says that here Aristotle is using ‘passions of the
soul’ to denote conceptions of the intellect, and since the intellect is never
deceived, conceptions of the intellect must be the same among all men. For if
someone is at variance with what is true, in this instance he does not
understand. However, since what is false can also be in the intellect, not as
it *knows* what a thing is, i.e., the essence of a thing, but as it composes
and divides, as is said in III De anima [6: 430a 26]. Aristotle’s statement
should be referred to the simple conceptions of the intellect — that are
signified by the incomplex vocal sounds — which are the same among all men. For
if someone truly understands what man [homo[ is [viz. animale razionale],
whatever else than man he apprehends he does not understand *as* man. Simple
conceptions of the intellect, which vocal sounds first signify, are of this
kind. This is why Aristotle says in IV Metaphysicae [IV, 4: 1006b 4] that the
notion which the name signifies is the definition.” And this is the reason
Aristotle expressly says, ‘of which first [passions] these are signs [notae]’, I
.e., so that this will be referred to the first conceptions [conceptiones] first
signified by vocal sounds. 11. Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus aequi-vocis,
in quibus eiusdem vocis non est eadem passio, quae significatur apud omnes. Et
respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo, qui vocem profert, ad unam
intellectus conceptionem signi-ficandam eam refert. Et si aliquis alius, cui
loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se exponendo, faciet
quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est quod intentio
Aristotelis non est asserere *identitatem* conceptionis animae per
comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conception. Quia voces
sunt diversae apud diversos. Sed intendit asserere identitatem conceptionum
animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem. The equivocal
name is given as another objection to this position, for in the case of an
equivocal name the same vocal sound does *not* signify the same passion among
all men. Porphyry answers this by pointing out that a man who utters a vocal
sound *intends* it to signify one conception of the intellect. If the person to
whom he is speaking understands something else by it, the one who is speaking,
by explaining himself, will make the one to whom he is speaking refer his
understanding to the same thing. However it is better to say that it is not
Aristotle’s intention to maintain an identity of the conception of the soul in
relation to a vocal sound such that there is one conception in relation to one
vocal sound, for vocal sounds are different among different peoples. Rather, he
intends to maintain an identity of the conceptions of the soul in relation to
things, which things he also says are the same. 12 Tertio, ibi: de his itaque etc.,
excusat se a diligentiori harum consideratione: quia quales sint *animae passiones*,
et quomodo sint rerum similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc
pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Thirdly when he says, This has
been discussed, however, in our study of the soul, etc., he excuses himself
from a further consideration of these things, for the nature of the passions of
the soul and the way in which they are likenesses of things does not pertain to
logic but to philosophy of nature and has already been treated in the book De anima
[III, 4-8]. III. 1. Postquam philosophus tradidit ordinem signi-ficationis
vocum, hic agit de diversa vocum signi-ficatione. Quarum quaedam significant
verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit
differentiam. Secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim et cetera.
Quia vero conceptiones intellectus prae-ambulae sunt ordine naturae vocibus,
quae *ad eas exprimendas* [exprimere] proferuntur [pro-ferere], ideo ex
similitudine differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam,
quae est circa signi-ficationes vocum. Ut scilicet haec manifestatio non solum
sit ex simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus. After the
Philosopher has treated the order of the signification of vocal sounds, he goes
on to discuss a diversity in the signification of vocal sounds, i.e., some of
them signify the true or the false, others do not. He first states the
difference and then manifests it where he says, for in composition and division
there is truth and falsity. Now because in the order of nature conceptions of
the intellect precede vocal sounds, which are uttered to express them, he
assigns the difference in respect to the significations of vocal sounds from a
likeness to the difference in intellection. Thus the manifestation is from a
likeness and at the same time from the cause which the effects imitate. 2. Est
ergo considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio
intellectus, ut traditur in III de anima. In quarum una non invenitur verum et
falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima
aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem ex necessitate
habet alterum horum. Et quia voces significativae [notae, signa, vestigial]
formantur ad exprimendas – exprimere -- conceptiones – conceptus -- intellectus,
ideo ad hoc quod *signum* [signans – segno -- segnante] conformetur [conformatur]
signato [segnato], necesse est quod etiam vocum significativarum similiter
quaedam significent sine vero et falso, quaedam autem cum vero et falso. The
operation of the intellect is twofold, as was said in the beginning, and as is
explained in III De anima [6: 430a 26]. Now truth and falsity is found in one
of these operations but not in the other. This is what Aristotle says at the
beginning of this portion of the text, i.e., that in the soul sometimes there
is thought without truth and falsity, but sometimes of necessity it has one or
the other of these. And since significant vocal sounds are formed to express
these conceptions of the intellect, it is necessary that some significant vocal
sounds signify without truth and falsity, others with truth and falsity—in
order that the sign be conformed to what is signified. 3 Deinde cum dicit:
circa compositionem etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod
dixerat de intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione
vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad
ostendendum igitur quod intellectus quandoque est sine vero et falso, quandoque
autem cum altero horum, dicit primo quod veritas et falsitas est circa
compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum
operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet
intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per
seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero
operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul
componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus,
idest componentis et dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod
in prima operatione non invenitur, ut etiam traditur in III de anima. Then when
he says, for in composition and division there is truth and falsity, he
manifests what he has just said: first with respect to what he has said about
thought; secondly, with respect to what he has said about the likeness of vocal
sounds to thought, where he says Names and verbs, then are like understanding
without composition or division, etc. To show that sometimes there is thought
without truth or falsity and sometimes it is accompanied by one of these, he
says first that truth and falsity concern composition and division. To
understand this we must note again that one of the two operations of the intellect
is the understanding of what is indivisible. This the intellect does when it
understands the quiddity or essence of a thing absolutely, for instance, what
man is or what white is or what something else of this kind is. The other
operation is the one in which it composes and divides simple concepts of this
kind. He says that in this second operation of the intellect, i.e., composing
and dividing, truth and falsity is found; the conclusion being that it is not
found in the first, as he also says in III De anima [6: 430a 26]. 4 Sed circa
hoc primo videtur esse dubium: quia cum divisio fiat per resolutionem ad
indivisibilia sive simplicia, videtur quod sicut in simplicibus non est veritas
vel falsitas, ita nec in divisione. Sed dicendum est quod cum conceptiones
intellectus sint similitudines rerum, ea quae circa intellectum sunt dupliciter
considerari et nominari possunt. Uno modo, secundum se: alio modo, secundum
rationes rerum quarum sunt similitudines. Sicut imago Herculis secundum se
quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem est similitudo Herculis
nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quae sunt circa intellectum
secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et falsitas; quae nunquam
invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus comparat unum simplicem
conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque dicitur compositio,
quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando intellectus comparat unum
conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem aut identitatem rerum, quarum
sunt conceptiones; divisio autem, quando sic comparat unum conceptum alteri, ut
apprehendat res esse diversas. Et per hunc etiam modum in vocibus affirmatio
dicitur compositio, in quantum coniunctionem ex parte rei significat; negatio
vero dicitur divisio, in quantum significat rerum separationem. There seems to
be a difficulty about this point, for division is made by resolution to what is
indivisible, or simple, and therefore it seems that just as truth and falsity
is not in simple things, so neither is it in division. To answer this it should
be pointed out that the conceptions of the intellect are likenesses of things
and therefore the things that are in the intellect can be considered and named
in two ways: according to themselves, and according to the nature of the things
of which they are the likenesses. For just as a statue—say of Hercules—in
itself is called and is bronze but as it is a likeness of Hercules is named
man, so if we consider the things that are in the intellect in themselves,
there is always composition where there is truth and falsity, for they are
never found in the intellect except as it compares one simple concept with
another. But if the composition is referred to reality, it is sometimes called
composition, sometimes division: composition when the intellect compares one
concept to another as though apprehending a conjunction or identity of the
things of which they are conceptions; division, when it so compares one concept
with another that it apprehends the things to be diverse. In vocal sound,
therefore, affirmation is called composition inasmuch as it signifies a
conjunction on the part of the thing and negation is called division inasmuch
as it signifies the separation of things. 5 Ulterius autem videtur quod non
solum in compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam
res dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam
quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio
intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate.
Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum
sensibilium semper est verus; sensus autem non componit vel dividit; non ergo
in sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla
est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et
summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem. There
is still another objection in relation to this point. It seems that truth is
not in composition and division alone, for a thing is also said to be true or
false. For instance, gold is said to be true gold or false gold. Furthermore,
being and true are said to be convertible. It seems, therefore, that the simple
conception of the intellect, which is a likeness of the thing, also has truth
and falsity. Again, the Philosopher says in his book De anima [II, 6: 418a 15],
that the sensation of proper sensibles is always true. But the sense does not
compose or divide. Therefore, truth is not in composition and division
exclusively. Moreover, in the divine intellect there is no composition, as is
proved in XII Metaphysicae [9: 1074b 15–1075a 11]. But the first and highest
truth is in the divine intellect. Therefore, truth is not in composition and
division exclusively. 6 Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod
veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum:
alio modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas
sicut in eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in
dicente vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et
divisionem. Quod quidem sic patet. To answer these difficulties the following
considerations are necessary. Truth is found in something in two ways: as it is
in that which is true, and as it is in the one speaking or knowing truth. Truth
as it is in that which is true is found in both simple things and composite
things, but truth in the one speaking or knowing truth is found only according
to composition and division. This will become clear in what follows. 7 Verum
enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de
quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per respectum ad intellectum.
Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut signa, res autem sicut ea
quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum autem quod aliqua res
comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo, sicut mensura ad
mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum speculativum
humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod conformatur rei,
falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur esse
vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam antiqui
naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est videri:
secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera, quia
contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquae
verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter
vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt facere de se
veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel
falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad
mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus
artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum
vero, in quantum deficit a ratione artis. Truth, as the Philosopher says in VI
Ethicorum [2: 1139a 28-30], is the good of the intellect. Hence, anything that
is said to be true is such by reference to intellect. Now vocal sounds are
related to thought as signs, but things are related to thought as that of which
thoughts are likenesses. It must be noted, however, that a thing is related to
thought in two ways: in one way as the measure to the measured, and this is the
way natural things are related to the human speculative intellect. Whence
thought is said to be true insofar as it is conformed to the thing, but false
insofar as it is not in conformity with the thing. However, a natural thing is
not said to be true in relation to our thought in the way it was taught by
certain ancient natural philosophers who supposed the truth of things to be
only in what they seemed to be. According to this view it would follow that
contradictories could be at once true, since the opinions of different men can
be contradictory. Nevertheless, some things are said to be true or false in
relation to our thought—not essentially or formally, but effectively—insofar as
they are so constituted naturally as to cause a true or false estimation of
themselves. It is in this way that gold is said to be true or false. In another
way, things are compared to thought as measured to the measure, as is evident
in the practical intellect, which is a cause of things. In this way, the work
of an artisan is said to be true insofar as it achieves the conception in the
mind of the artist, and false insofar as it falls short of that conception. 8 Et
quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut
artificiata ad artem, consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera
secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam
falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia
quaelibet res naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde
philosophus in I physicae, formam nominat quoddam divinum. Now all natural
things are related to the divine intellect as artifacts to art and therefore a
thing is said to be true insofar as it has its own form, according to which it
represents divine art; false gold, for example, is true copper. It is in terms
of this that being and true are converted, since any natural thing is conformed
to divine art through its form. For this reason the Philosopher in I Physicae
[9: 192a 17] says that form is something divine. 9. Et sicut res dicitur vera
per comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius
mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam
conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii
sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est
absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima.
Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non
tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem
conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest
huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus
potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod
veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere
autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita
esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus
non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod
quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat
rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a
re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod
veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa
compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia
voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum,
falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res
quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est
vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa. And
just as a thing is said to be true by comparison to its measure, so also is
sensation or thought, whose measure is the thing outside of the soul.
Accordingly, sensation is said to be true when the sense through its form is in
conformity with the thing existing outside of the a soul. It is in this way
that the sensation of proper sensibles is true, and the intellect apprehending
what a thing is apart from composition and division is always true, as is said
in III De anima [3: 427b 12; 428a 11; 6: 43a 26]. It should be noted, however,
that although the sensation of the proper object is true the sense does not
perceive the sensation to be true, for it cannot know its relationship of
conformity with the thing but only apprehends the thing. The intellect, on the
other hand, can know its relationship of conformity and therefore only the
intellect can know truth. This is the reason the Philosopher says in VI
Metaphysicae [4: 1027b 26] that truth is only in the mind, that is to say, in
one knowing truth. To know this relationship of conformity is to judge that a
thing is such or is not, which is to compose and divide; therefore, the
intellect does not know truth except by composing and dividing through its
judgment. If the judgment is in accordance with things it will be true, i.e.,
when the intellect judges a thing to be what it is or not to be what it is not.
The judgment will be false when it is not in accordance with the thing, i.e.,
when it judges that what is, is not, or that what is not, is. It is evident
from this that truth and falsity as it is in the one knowing and speaking is
had only in composition and division. This is what the Philosopher is speaking
of here. And since vocal sounds are signs of thought, that vocal sound will be
true which signifies true thought, false which signifies false thought,
although vocal sound insofar as it is a real thing is said to be true in the
same way other things are. Thus the vocal sound "Man is an ass” is truly
vocal sound and truly a sign, but because it is a sign of something false it is
said to be false. 10 Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic
loquitur secundum quod pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de
conformitate rerum et intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium
intellectus divini de hoc est absque compositione et divisione: quia sicut
etiam intellectus noster intelligit materialia immaterialiter, ita etiam
intellectus divinus cognoscit compositionem et divisionem simpliciter. It
should be noted that the Philosopher is speaking of truth here as it relates to
the human intellect, which judges of the conformity of things and thought by
composing and dividing. However, the judgment of the divine intellect
concerning this is without composition and division, for just as our intellect
understands material things immaterially, so the divine intellect knows
composition and division simply.” Deinde cum dicit: nomina igitur ipsa et verba
etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad intellectum. Et primo,
manifestat propositum. Secundo, probat per signum. Ibi: huius autem signum et
cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum circa compositionem et
divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens est quod ipsa
nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui est sine
compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil aliud
addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur esse
vel non esse, fit verum vel falsum. When he says, Names and verbs, then, are
like thought without composition or division, he manifests what he has said
about the likeness of vocal sounds to thought. Next he proves it by a sign when
he says, A sign of this is that "goatstag” signifies something but is
neither true nor false, etc. Here he concludes from what has been said that
since there is truth and falsity in the intellect only when there is composition
or division, it follows that names and verbs, taken separately, are like
thought which is without composition and division; as when we say "man” or
"white,” and nothing else is added. For these are neither true nor false
at this point, but when "to be” or "not to be” is added they be come
true or false. Nec est instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem
dat ad interrogationem factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis
respondet, piscis. Nam intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum.
Et sicut nomen per se positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum
per se dictum. Nec est instantia de verbo primae et secundae personae, et de
verbo exceptae actionis: quia in his intelligitur certus et determinatus
nominativus. Unde est *implicita* -- im-plicata – implicatura – implicitura -- compositio,
licet non explicita – ex-plicata – explicatura – explicitura --. Although one might think so, the case of
someone giving a,, single name as a true response to a question is not an
instance that can be raised against this position; for example, suppose someone
asks, "What swims in the sea?” and the answer is "Fish”; this is not
opposed to the position Aristotle is taking here, for the verb that was posited
in the question is understood. And just as the name said by itself does not
signify truth or falsity, so neither does the verb said by itself. The verbs of
the first and second person and the intransitive verb” are not instances
opposed to this position either, for in these a particular and determined
nominative is understood. Consequently there is implicit composition, though
not explicit. 13. Deinde cum dicit:
signum autem etc., inducit signum ex nomine composito, scilicet “hirco-cervus”,
quod componitur ex “hirco” et “cervus” et quod in graeco dicitur “tragelaphos”
-- nam “tragos” est ‘hircus’, et “elaphos” ‘cervus’. [Benedetto Croce –
Calogero – antifascism – liberaldemocrazia – Berlusconi – ‘che diavolo e un
icocerco? Una chimera, ma anche un obggetivo possibile”] Huiusmodi enim nomina
significant aliquid, scilicet quosdam conceptus simplices, licet rerum
compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi quando additur esse vel
non esse, per quae exprimitur iudicium intellectus. Potest autem addi esse vel
non esse, vel secundum praesens tempus, quod est esse vel non esse in actu, et
ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum tempus praeteritum, aut
futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum quid; ut cum dicitur
aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur exemplo ex nomine
significante quod non est in rerum natura, in quo statim falsitas apparet, et
quod sine compositione et divisione non possit verum vel falsum esse. Then he says, A sign of this is that
"goatstag” signifies something but is neither true nor false unless
"to be or "not to be” is added either absolutely or according to
time. Here he introduces as a sign the composite name "goatstag,” from
"goat” and "stag.” In Greek the word is "tragelaphos,” from "tragos”
meaning goat and "elaphos” meaning stag. Now names of this kind signify
something, namely, certain simple concepts (although the things they signify
are composite), and therefore are not true or false unless "to be” or
"not to be” is added, by which a judgment of the intellect is expressed.
The "to be” or "not to be” can be added either according to present
time, which is to be or not to be in act and for this reason is to be simply;
or according to past or future time, which is to be relatively, not simply; as
when we say that something has been or will be. Notice that Aristotle expressly
uses as an example here a name signifying something that does not exist in
reality, in which fictiveness is immediately evident, and which cannot be true
or false without composition and division.
IV. 1. Postquam [Aristoteles] philosophus
determinavit de ordine significationis vocum, hic accedit ad determinandum de
ipsis vocibus signi-ficativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione,
quae est subiectum huius libri. In qualibet autem scientia oportet praenoscere
principia subiecti. Ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo,
de ipsa enunciatione. Ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum
duo facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis,
scilicet partes integrales ipsius. Secundo, determinat principium formale,
scilicet orationem, quae est enunciationis genus. Ibi: oratio autem est vox
signi-ficativa et cetera. Circa primum duo facit. Primo, determinat de nomine,
quod signi-ficat rei substantiam. Secundo, determinat de verbo, quod significat
actionem vel passionem procedentem a re. Ibi: verbum autem est quod con-significat
tempus et cetera. Circa primum tria facit. Primo, definit nomen; secundo,
definitionem exponit. Ibi: in nomine enim quod est equiferus etc. Tertio,
excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero
non est nomen. [“Having determined the order of the signification of vocal
sounds, the Philosopher begins here to establish the definitions of the
significant vocal sounds. His principal intention is to establish what an
enunciation is—which is the subject of this book—but since in any science the
principles of the subject must be known first, he begins with the principles of
the enunciation and then establishes what an enunciation is where he says, All
speech is not enunciative, etc.” With respect to the principles of the
enunciation he first determines the nature of the quasi material principles,
i.e., its integral parts, and secondly the formal principle, i.e., speech,
which is the genus of the enunciation, where he says, Speech is significant
vocal sound, etc.” Apropos of the quasi material principles of the enunciation
he first establishes that a name signifies the substance of a thing and then
that the verb signifies action or passion proceeding from a thing, where he
says The verb is that which signifies with time, etc.” In relation to this
first point, he first defines the name, and then explains the definition where
he says, for in the name "Campbell” the part "bell,” as such,
signifies nothing, etc., and finally excludes certain things—those that do not
have the definition of the name perfectly—where he says, "Non-man,”
however, is not a name, etc.”] 2. Circa primum considerandum est quod definitio
ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem. Ita scilicet, quod nihil
rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat. Nec aliquid
aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat. [“It should be
noted in relation to defining the name, that a definition is said to be a limit
because it includes a thing totally, i.e., such that nothing of the thing is
outside of the definition, that is, there is nothing of the thing to which the
definition does not belong; nor is any other thing under the definition, that
is, the definition belongs to no other thing.”] 3 Et ideo quinque ponit in
definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod
distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab
ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima.
Additur autem prima differentia, scilicet *signi-ficativa*, ad differentiam
quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata,
sicut “biltris”, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo
factus. Et quia de signi-ficatione vocum in superioribus actum est, ideo ex
praemissis concludit quod nomen est vox signi-ficativa. Aristotle posits five
parts in the definition of the name. Vocal sound is given first, as the genus.
This distinguishes the name from all sounds that are not vocal; for vocal sound
is sound produced from the mouth of an animal and involves a certain kind of
mental image, as is said in II De anima [8: 420b 30-34]. The second part is the
first difference, i.e., significant, which differentiates the name from any
non-significant vocal sound, whether lettered and articulated, such as
"biltris,” or non-lettered and non-articulated, as a hissing for no
reason. Now since he has already determined the signification of vocal sounds,
he concludes from what has been established that a name is a significant vocal
sound. 4 Sed cum vox sit quaedam res *naturalis*,
nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod
non debuit genus nominis ponere vocem, quae est *ex natura*, sed magis *signum*,
quod est *ex institutione*. Ut diceretur: nomen est *signum* vocale. Sicut
etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum,
quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas. But vocal sound is a natural thing, whereas a
name is not natural but instituted by men; it seems, therefore, that Aristotle
should have taken sign, which is from institution, as the genus of the name,
rather than vocal sound, which is from nature. Then the definition would be: a
name is a vocal sign, etc., just as a salver would be more suitably defined as
a wooden dish than as wood formed into a dish. 5. Sed dicendum quod *arti-ficialia*
sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere autem
accidentium ex parte formae. Nam formae *arti-ficialium* accidentia sunt. Nomen
ergo signi-ficat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in
definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si
qua nomina accidens in abstracto signi-ficant quod in eorum definitione ponatur
accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia;
ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens
significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum,
quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus
curvus. Si igitur nomina rerum *arti-ficialium* significant formas
accidentales, ut concretas subiectis *naturalibus*, convenientius est, ut in
eorum definitione ponatur res *naturalis* quasi genus, ut dicamus quod scutella
est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox signi-ficativa. Secus
autem esset, si nomina *arti-ficialium* acciperentur, quasi signi-ficantia
ipsas formas arti-ficiales in abstracto. [5. “It should be noted, however, that
while it is true that artificial things are in the genus of substance on the
part of matter, they are in the genus of accident on the part of form, since
the forms of artificial things are accidents. A name, therefore, signifies an
accidental form made concrete in a subject. Now the subject must be posited in
the definition of every accident; hence, when names signify an accident in the
abstract the accident has to be posited directly (i.e., in the nominative case)
as a quasi-genus in their definition and the subject posited obliquely (i.e.,
in an oblique case such as the genitive, dative, or accusative) as a
quasi-difference; as for example, when we define snubness as curvedness of the
nose. But when names signify an accident ill the concrete, the matter or
subject has to be posited in their definition as a quasi-genus and the accident
as a quasi-difference, as when we say that a snub nose is a curved nose.
Accordingly, if the names of artificial things signify accidental forms as made
concrete in *natural* subjects, then it is more appropriate to posit the
natural thing in their definition as a quasi-genus. We would say, therefore,
that a salver is shaped wood, and likewise, that a name is a significant vocal
sound. It would be another matter if names of *artificial* things were taken as
signifying artificial forms in the abstract”]. 6. Tertio, Aristotele ponit
secundam differentiam cum dicit: ‘secundum placitum’, idest *secundum
institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem*. Et per hoc differt
nomen a vocibus signi-FICANTIBUS *naturaliter*, sicut sunt *gemitus infirmorum*
[gemitus infirmi] et voces brutorum animalium. 7. Quarto, ponit tertiam
differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed
videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed
dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum
tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine,
sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore
mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter
tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum
quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia
autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non
habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod
subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et
participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo,
potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per
adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi. The fourth part is the third
difference, i.e., without time, which differentiates the name from the verb.
This, however, seems to be false, for the name "day” or "year”
signifies time. But there are three things that can be considered with respect
to time; first, time itself, as it is a certain kind of thing or reality, and
then it can be signified by a name just like any other thing; secondly, that
which is measured by time, insofar as it is measured by time. Motion, which
consists of action and passion, is what is measured first and principally by
time, and therefore the verb, which signifies action and passion, signifies
with time. Substance considered in itself, which a name or a pronoun signify,
is not as such measured by time, but only insofar as it is subjected to motion,
and this the participle signifies. The verb and the participle, therefore,
signify with time, but not the name and pronoun. The third thing that can be
considered is the very relationship of time as it measures. This is signified
by adverbs of time such as "tomorrow,” "yesterday,” and others of this
kind. 8 Quinto, ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est
significativa separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad
significationem nominis secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia
significatio est quasi forma nominis; nulla autem pars separata habet formam
totius, sicut manus separata ab homine non habet formam humanam. Et per hoc
distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat separata; ut cum dicitur,
homo iustus. The fifth part is the fourth difference, no part of which is
significant separately, that is, separated from the whole name; but it is
related to the signification of the name according as it is in the whole. The
reason for this is that signification is a quasi-form of the name. But no
separated part has the form of the whole; just as the hand separated from the
man does not have the human form. This difference distinguishes the name from
speech, some parts of which signify separately, as for example in "just
man.” 9 Deinde cum dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat praemissam
definitionem. Et primo, quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad
tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae
sunt ex praemissis; tertia autem particula, scilicet sine tempore,
manifestabitur in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit:
primo, manifestat propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc
differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at vero nonquemadmodum
et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat,
per nomina composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est
equiferus, haec pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac
oratione, quae est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad
significandum unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur
nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis
imponitur a laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad
significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi,
quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non significat partem
conceptionis compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio
significat ipsam conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem
conceptionis compositae. When he says, for in the name "Campbell” the part
"bell” as such signifies nothing, etc., he explains the definition. First
he explains the last part of the definition; secondly, the third part, by
convention. The first two parts were explained in what preceded, and the fourth
part, without time, will be explained later in the section on the verb. And first
he explains the last part by means of a composite name; then he shows what the
difference is between simple and composite names where he says, However the
case is not exactly the same in simple names and composite names, etc. First,
then, he shows that a part separated from a name signifies nothing. To do this
he uses a composite name because the point is more striking there. For in the
name "Campbell” the part "bell” per se signifies nothing, although it
does signify something in the phrase "camp bell.” The reason for this is
that one name is imposed to signify one simple conception; but that from which
a name is imposed to signify is different from that which a name signifies. For
example, the name "pedigree”, The Latin here is lapis, from laesione pedis.
To bring out the point St. Thomas is making herean equivalent English word of
Latin derivation, i.e., "pedigree,” has been used. Close is imposed from
pedis and grus [crane’s foot] which it does not signify, to signify the concept
of a certain thing. Hence, a part of the composite name—which composite name is
imposed to signify a simple concept—does not signify a part of the composite
conception from which the name is imposed to signify. Speech, on the other
hand, does signify a composite conception. Hence, a part of speech signifies a
part of the composite conception. 10. Deinde cum dicit: at vero non etc.,
ostendit quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et
dicit quod non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis:
quia in simplicibus pars nullo modo est significativa, neque secundum
veritatem, neque secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest
apparentiam habet significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est
de nomine equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex
sicut imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad
significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a
composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet. When
he says, However, the case is not exactly the same in simple names and
composite names, etc., he shows that there is a difference between simple and
composite names in regard to their parts not signifying separately. Simple names
are not the same as composite names in this respect because in simple names a
part is in no way significant, either according to truth or according to
appearance, but in composite names the part has meaning, i.e., has the
appearance of signifying; yet a part of it signifies nothing, as is said of the
name "breakfast.” The reason for this difference is that the simple name
is imposed to signify a simple concept and is also imposed from a simple
concept; but the composite name is imposed from a composite conception, and
hence has the appearance that a part of it signifies. 11. Deinde cum dicit: “secundum
placitum”, etc., manifestat tertiam partem praedictae definitionis; et dicit
quod ideo dictum est quod nomen “significat secundum placitum”, quia nullum nomen
est “naturaliter”. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat
*naturaliter*, sed *ex institutione*. Et hoc est quod subdit: sed quando fit
nota, idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter
significat *non fit* [cfr. signi-FICARE], sed naturaliter est signum. Et hoc *signi-ficat*
cum dicit. Illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris *signi-FICARI*
non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam animalia non habent
vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias *passiones* *naturaliter*
*signi-FICANT*. Nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur
intelligi quod nomen non significat naturaliter. --- 12. Sciendum tamen est
quod circa hoc fuit diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina
nullo modo naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine
significentur. Alii vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant,
quasi nomina sint naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod
nomina non naturaliter significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non
est a natura, ut Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter
significant quod eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec
obstat quod una res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse
multae similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei
multa diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum
nihil est nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim
quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia
nullus talis sonus est nomen, ut dictum est. However, there were diverse
opinions about this. Some men said that names in no way signify naturally and
that it makes no difference which things are signified by which names. Others
said that names signify naturally in every way, as if names were natural
likenesses of things. Still others said names do not signify naturally, i.e.,
insofar as their signification is not from nature, as Aristotle maintains here,
but that names do signify naturally in the sense that their signification
corresponds to the natures of things, as Plato held. The fact that one thing is
signified by many names is not in opposition to Aristotle’s position here, for
there can be many likenesses of one thing; and similarly, from diverse
properties many diverse names can be imposed on one thing. When Aristotle says,
but none of them is a name, he does not mean that the sounds of animals are not
named, for we do have names for them; "roaring,” for example, is said of
the sound made by a lion, and "lowing” of that of a cow. What he means is
that no such sound is a name. 13 Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit
quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum;
ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est
nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut
personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed
hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam
significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de
ente, et non ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non
est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in
rerum natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a
privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a
negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt.
Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari,
requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum
tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est
oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus
compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia
huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et
ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter
indeterminationem significationis, ut dictum est. When he says, "Non-man,”
however, is not a name, etc., he points out that certain things do not have the
nature of a name. First he excludes the infinite name; then the cases of the
name where he says, "Of Philo” and "to Philo,” etc. He says that
"non-man” is not a name because every name signifies some determinate
nature, for example, "man,” or a determinate person in the case of the
pronoun, or both determinately, as in "Socrates.” But when we say
"non-man” it signifies neither a determinate nature nor a determinate
person, because it is imposed from the negation of man, which negation is
predicated equally of being and non-being. Consequently, "non-man” can be
said indifferently both of that which does not exist in reality, as in "A
chimera is non-man,” and of that which does exist in reality, as in "A
horse is non-man.” Now if the infinite name were imposed from a privation it
would require at least an existing subject, but since it is imposed from a
negation, it can be predicated of being and nonbeing, as Boethius and Ammonius
say. However, since it signifies in the mode of a name, and can therefore be
subjected and predicated, a suppositum is required at least in apprehension. In
the time of Aristotle there was no name for words of this kind. They are not
speech since a part of such a word does not signify something separately, just
as a part of a composite name does not signify separately; and they are not
negations, i.e., negative speech, for speech of this kind adds negation to
affirmation, which is not the case here. Therefore he imposes a new name for
words of this kind, the "infinite name,” because of the indetermination of
signification, as has been said. 14 Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni
etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia
huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen,
per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem
obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis
originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem
dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod
cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo
quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui
cadens ligno infigitur. When he says, "Of Philo” and "to Philo” and
all such expressions are not names but modes of names, he excludes the cases of
names from the nature of the name. The nominative is the one that is said to be
a name principally, for the imposition of the name to signify something was
made through it. Oblique expressions of the kind cited are called cases of the
name because they fall away from the nominative as a kind of source of their
declension. On the other hand, the nominative, because it does not fall away,
is said to be erect. The Stoics held that even the nominatives were cases (with
which the grammarians agree), because they fall, i.e., proceed from the
interior conception of the mind; and they said they were also called erect
because nothing prevents a thing from falling in such a way that it stands
erect, as when a pen falls and is fixed in wood. Aquinas lib. 1 l. 4 n.
15Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se
habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est
eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod
nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel
falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de
verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae
cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem,
quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia
habet Socratem. Then he says, The definition of these is the same in all other
respects as that of the name itself, etc. Here Aristotle shows how oblique
cases are related to the name. The definition, as it signifies the name, is the
same in the others, namely, in the cases of the name. But they differ in this
respect: the name joined to the verb "is” or "will be” or "has
been” always signifies the true or false; in oblique cases this is not so. It
is significant that the substantive verb is the one he uses as an example, for
there are other verbs, i.e., impersonal verbs, that do signify the true or
false when joined with a name in an oblique case, as in "It grieves
Socrates,” because the act of the verb is understood to be carried over to the
oblique cases, as though what were said were, "Grief possesses Socrates.”
Aquinas lib. 1 l. 4 n. 16Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt
nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis
convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen,
postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel
dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim
infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis significat
secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. However, an objection
could be made against Aristotle’s position in this portion of his text. If the
infinite name and the cases of the name are not names, then the definition of
the name (which belongs to these) is not consistently presented. There are two
ways of answering this objection. We could say, as Ammonius does, that
Aristotle defines the name broadly, and afterward limits the signification of
the name by subtracting these from it. Or, we could say that the definition
Aristotle has given does not belong to these absolutely, since the infinite
name signifies nothing determinate, and the cases of the name do not signify
according to the first intent of the one instituting the name, as has been
said. V. 1. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de
verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit
quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio,
ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba,
et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo
exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et cetera. After determining
the nature of the name the Philosopher now determines the nature of the verb.
First he defines the verb; secondly, he excludes certain forms of verbs from
the definition, where he says, "Non-matures” and "non-declines” I do
not call verbs, etc.; finally, he shows in what the verb and name agree where
he says, Verbs in themselves, said alone, are names, etc. First, then, he
defines the verb and immediately begins to explain the definition where he
says, I mean by "signifies with time,” etc. 2 Est autem considerandum quod
Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt
nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae
dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione
verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod
consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen
significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur
verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra significat. In
order to be brief, Aristotle does not give what is common to the name and the
verb in the definition of the verb, but leaves this for the reader to
understand from the definition of the name. He posits three elements in the
definition of the verb. The first of these distinguishes the verb from the
name, for the verb signifies with time, the name without time, as was stated in
its definition. The second element, no part of which signifies separately,
distinguishes the verb from speech. 3 Sed cum hoc etiam positum sit in
definitione nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum
est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in
definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae
componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam
quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est
moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi
iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in
qua perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam
videbatur verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam
nomen, quod est quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo
oportuit iterari. This second element was also given in the definition of the
name and therefore it seems that this second element along with vocal sound
significant by convention, should have been omitted. Ammonius says in reply to
this that Aristotle posited this in the definition of the name to distinguish it
from speech which is composed of names, as in "Man is an animal”; but
speech may also be composed of verbs, as in "To walk is to move”;
therefore, this also bad to be repeated in the definition of the verb to
distinguish it from speech. We might also say that since the verb introduces
the composition which brings about speech signifying truth or falsity, the verb
seems to be more like speech (being a certain formal part of it) than the name
which is a material and subjective part of it; therefore this had to be repeated.
4 Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine,
sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper
eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia scilicet nomina et
participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed verbum semper est
ex parte praedicati. The third element distinguishes the verb not only from the
name, but also from the participle, which also signifies with time. He makes
this distinction when he says, and it is a sign of something said of something
else, i.e., names and participles can be posited on the part of the subject and
the predicate, but the verb is always posited on the part of the predicate. 5 Sed
hoc videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur
ex parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod
verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et
in Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum
sicut et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem
aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet
actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo,
per se in abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum
dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum
actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto,
et sic significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis.
Sed quia etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab
intellectu et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi
modi, quae significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi
ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res
quasdam. But it seems that verbs are used as subjects. The verb in the
infinitive mode is an instance of this, as in the example, "To walk is to
be moving.” Verbs of the infinitive mode, however, have the force of names when
they are used as subjects. (Hence in both Greek and ordinary Latin usage
articles are added to them as in the case of names.) The reason for this is
that it is proper to the name to signify something as existing per se, but
proper to the verb to signify action or passion. Now there are three ways of
signifying action or passion. It can be signified per se, as a certain thing in
the abstract and is thus signified by a name such as "action,” "passion,”
"walking,” "running,” and so on. It can also be signified in the mode
of an action, i.e., as proceeding from a substance and inhering in it as in a
subject; in this way action or passion is signified by the verbs of the
different modes attributed to predicates. Finally—and this is the third way in
which action or passion can be signified—the very process or inherence of
action can be apprehended by the intellect and signified as a thing. Verbs of
the infinitive mode signify such inherence of action in a subject and hence can
be taken as verbs by reason of concretion, and as names inasmuch as they
signify as things. 6 Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum
modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum.
Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur
formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod
materialiter significat ipsam vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam
verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in
vi nominum. On this point the objection may also be raised that verbs of other
modes sometimes seem to be posited as subjects; for example when we say,
"‘Matures’is a verb.” In such a statement, however, the verb
"matures” is not taken formally according as its signification is referred
to a thing, but as it signifies the vocal sound itself materially, which vocal
sound is taken as a thing. When posited in this way, i.e., materially, verbs
and all parts of speech are taken with the force of names. 7 Deinde cum dicit: dico vero quoniam
consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod
dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod
est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit: et semper est et cetera.
Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non
exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod
verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia
significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se
existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit
verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus
tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est autem
supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum.
Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest
nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit
nomini, sed verbo. Then he says, I mean by "signifies with time” that
"maturity,” for example, is a name, but "matures” is a verb, etc.”’
With this he begins to explain the definition of the verb: first in regard to
signifies with time; secondly, in regard to the verb being a sign of something
said of something else. He does not explain the second part, no part of which
signifies separately, because an explanation of it has already been made in
connection with the name. First, he shows by an example that the verb signifies
with time. "Maturity,” for example, because it signifies action, not in
the mode of action but. in the mode of a thing existing per se, does not
signify with time, for it is a name. But "matures,” since it is a verb
signifying action, signifies with time, because to be measured by time is
proper to motion; moreover, actions are known by us in time. We have already
mentioned that to signify with time is to signify something measured in time. Hence
it is one thing to signify time principally, as a thing, which is appropriate
to the name; however, it is another thing to signify with time, which is not
proper to the name but to the verb. 8 Deinde cum dicit: et est semper etc.,
exponit aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis
significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum
actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte
praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut
dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero:
tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni
praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua
praedicatum componitur subiecto. Then he says, Moreover, a verb is always a
sign of something that belongs to something, i.e., of something present in a
subject. Here he explains the last part of the definition of the verb. It
should be noted first that the subject of an enunciation signifies as that in
which something inheres. Hence, when the verb signifies action through the mode
of action (the nature of which is to inhere) it is always posited on the part
of the predicate and never on the part of the subject—unless it is taken with
the force of a name, as was said. The verb, therefore, is always said to be a
sign of something said of another, and this not only because the verb always
signifies that which is predicated but also because there must be a verb in
every predication, for the verb introduces the composition by which the
predicate is united with the subject. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 9Sed dubium
videtur quod subditur: ut eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur
enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est
animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est
albus. Si ergo verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia,
consequens est ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra
igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod
utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in
subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per
utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod,
verbum semper est nota eorum, quae de altero praedicantur, non est sic
intelligendum, quasi significata verborum sint quae praedicantur, quia cum
praedicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt
quae praedicantur, magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum
quod verbum semper est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio
fit per verbum ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid
essentialiter sive accidentaliter. The last phrase of this portion of the text
presents a difficulty, namely, "of something belonging to [i.e., of] a
subject or in a subject.” For it seems that something is said of a subject when
it is predicated essentially, as in "Man is an animal”; but in a subject,
when it is an accident that is predicated of a subject, as in "Man is
white.” But if verbs signify action or passion (which are accidents), it
follows that they always signify what is in a subject. It is useless,
therefore, to say "belonging to [i.e., of] a subject or in a subject.” In
answer to this Boethius says that both pertain to the same thing, for an
accident is predicated of a subject and is also in a subject. Aristotle, however,
uses a disjunction, which seems to indicate that he means something different
by each. Therefore it could be said in reply to this that when Aristotle says
the verb is always a sign of those things that are predicated of another” it is
not to be understood as though the things signified by verbs are predicated.
For predication seems to pertain more properly to composition; therefore, the
verbs themselves are what are predicated, rather than signify predicates.” The
verb, then, is always a sign that something is being predicated because all
predication is made through the verb by reason of the composition introduced,
whether what is being predicated is predicated essentially or accidentally.
Aquinas lib. 1 l. 5 n. 10Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc.,
excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba
praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit
ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est
enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod
praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius
quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non
proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in
definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat
agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies
tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper
ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: et hoc ideo, quia negatio
reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem
vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae
dictiones significant remotionem actionis vel passionis. When he says,
"Non-matures” and "non-declines” I do not call verbs, etc., he
excludes certain forms of verbs from the definition of the verb. And first he
excludes the infinite verb, then the verbs of past and future time.
"Non-matures” and "non-declines” cannot strictly speaking be called
verbs for it is proper to the verb to signify something in the mode of action
or passion. But these words remove action or passion rather than signify a
determinate action or passion. Now while they cannot properly be called verbs,
all the parts of the definition of the verb apply to them. First of all the
verb signifies time, because it signifies to act or to be acted upon; and since
these are in time so are their privations; whence rest, too, is measured by
time, as is said in VI Physicorum [3:234a 24–234b 9; & 8: 238a 23–239b 41].
Again, the infinite verb is always posited on the part of the predicate just as
the verb is; the reason is that negation is reduced to the genus of affirmation.
Hence, just as the verb, which signifies action or passion, signifies something
as existing in another, so the foresaid words signify the remotion of action or
passion. 11 Si quis autem obiiciat: si praedictis dictionibus convenit
definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod definitio verbi supra
posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur
esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat
nomen positum huic generi dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi
dictiones in aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata
ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia
unumquodque eorum indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non
est. Sumitur enim negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis
negationis. Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen
huiusmodi verba a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius
dictionis, verba vero negativa in vi duarum dictionum. Now someone might object
that if the definition of the verb applies to the above words, then they are
verbs. In answer to this it should be pointed out that the definition which has
been given of the verb is the definition of it taken commonly. Insofar as these
words fall short of the perfect notion of the verb, they are not called verbs.
Before Aristotle’s time a name bad not been imposed for a word that differs
from verbs as these do. He calls them infinite verbs because such words agree
in some things with verbs and yet fall short of the determinate notion of the
verb. The reason for the name, he says, is that an infinite verb can be said
indifferently of what is or what is not; for the adjoined negation is taken, not
with the force of privation, but with the force of simple negation since
privation supposes a determinate subject. Infinite verbs do differ from
negative verbs, however, for infinite verbs are taken with the force of one
word, negative verbs with the force of two. 12 Deinde cum dicit: similiter
autem curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et
dicit quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret,
quod est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt
verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum
consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde
circumstans. Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter
praesens, ne intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in
instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens
tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et nondum est determinata per
actum. Recte autem ea quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non
sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel
pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est
agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est
secundum quid. When he says, Likewise, "has matured” and "will
mature” are not verbs, but modes of verbs, etc., he excludes verbs of past and
future time from the definition. For just as infinite verbs are not verbs
absolutely, so "will mature,” which is of future time, and "has
matured,” of past time, are not verbs. They are cases of the verb and differ
from the verb—which signifies with present time—by signifying time before and
after the present. Aristotle expressly says "present time” and not just
"present” because he does not mean here the indivisible present which is
the instant; for in the instant there is neither movement, nor action, nor
passion. Present time is to be taken as the time that measures action which has
begun and has not yet been terminated in act. Accordingly, verbs that signify
with past or future time are not verbs in the proper sense of the term, for the
verb is that which signifies to act or to be acted upon and therefore strictly
speaking signifies to act or to be acted upon in act, which is to act or to be
acted upon simply, whereas to act or to be acted upon in past or future time is
relative. 13 Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter
casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum
dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens,
futurum autem quod erit praesens. It is with reason that verbs of past or
future time are called cases of the verb signifying with present time, for past
or future are said with respect to the present, the past being that which was
present, the future, that which will be present. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 14Cum
autem declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas,
variatio quae fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia
talis variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio
quae est per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque
constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur,
sicut et verba praeteriti vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi
praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Although
the inflection of the verb is varied by mode, time, number, and person, the
variations that are made in number and person do not constitute cases of the
verb, the reason being that such variation is on the part of the subject, not
on the part of the action. But variation in mode and time refers to the action
itself and hence both of these constitute cases of the verb. For verbs of the
imperative or optative modes are called cases as well as verbs of past or
future time. Verbs of the indicative mode in present time, however, are not
called cases, whatever their person and number. 15 Deinde cum dicit: ipsa
itaque etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit:
primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et
significant aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se
dicta sunt nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi
nominis, ut dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est
moveri, sive sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non
videtur esse intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent
sequentia. Et ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter
significat quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia
etiam ipsum agere vel pati est quaedam res, inde est quod et ipsa verba in
quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus
comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur,
significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se
existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari. He points out the
conformity between verbs and names where he says, Verbs in themselves, said
alone, are names. He proposes this first and then manifests it. He says then,
first, that verbs said by themselves are names. Some have taken this to mean
the verbs that are taken with the force of names, either verbs of the
infinitive mode, as in "To run is to be moving,” or verbs of another mode,
as in "‘Matures’ is a verb.” But this does not seem to be what Aristotle
means, for it does not correspond to what he says next. Therefore "name”
must be taken in another way here, i.e., as it commonly signifies any word
whatever that is imposed to signify a thing. Now, since to act or to be acted
upon is also a certain thing, verbs themselves as they name, i.e., as they
signify to act or to be acted upon, are comprehended under names taken
commonly. The name as distinguished from the verb signifies the thing under a
determinate mode, i.e., according as the thing can be understood as existing per
se. This is the reason names can be subjected and predicated. 6 Deinde cum
dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod
verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non
significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et
cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in
quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces
significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est
quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum
quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum,
constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod
ille, qui audit, quiescit. He proves the point he has just made when he says,
and signify something, etc., first by showing that verbs, like names, signify
something; then by showing that, like names, they do not signify truth or
falsity when he says, for the verb is not a sign of the being or nonbeing of a
thing. He says first that verbs have been said to be names only insofar as they
signify a thing. Then he proves this: it has already been said that significant
vocal sound signifies thought; hence it is proper to significant vocal sound to
produce something understood in the mind of the one who hears it. To show,
then, that a verb is significant vocal sound he assumes that the one who utters
a verb brings about understanding in the mind of the one who bears it. The
evidence he introduces for this is that the mind of the one who bears it is set
at rest. 17 Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit
quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim
dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem
dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum
duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel
verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae
est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in
suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio
terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam operationem,
quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se
dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem. But what Aristotle says
here seems to be false, for it is only perfect speech that makes the intellect
rest. The name or the verb, if said by themselves, do not do this. For example,
if I say "man,” the mind of the hearer is left in suspense as to what I
wish to say about mail; and if I say "runs,” the bearer’s mind is left in
suspense as to whom I am speaking of. It should be said in answer to this
objection that the operation of the intellect is twofold, as was said above,
and therefore the one who utters a name or a verb by itself, determines the
intellect with respect to the first operation, which is the simple conception
of something. It is in relation to this that the one hearing, whose mind was
undetermined before the name or the verb was being uttered and its utterance
terminated, is set at rest. Neither the name nor the verb said by itself,
however, determines the intellect in respect to the second operation, which is
the operation of the intellect composing and dividing; nor do the verb or the
name said alone set the hearer’s mind at rest in respect to this operation. 18
Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum
significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi.
Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa
verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet
ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum
neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde
multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis. Quia
enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc
consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non
esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet
esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non
esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat
hoc totum, scilicet rem esse vel non esse. Aristotle therefore immediately
adds, but they do not yet signify whether a thing is or is not, i.e., they do
not yet signify something by way of composition and division, or by way of
truth or falsity. This is the second thing he intends to prove, and he proves
it by the verbs that especially seem to signify truth or falsity, namely the
verb to be and the infinite verb to non-be, neither of which, said by itself,
signifies real truth or falsity; much less so any other verbs. This could also
be understood in a more general way, i.e., that here he is speaking of all
verbs; for he says that the verb does not signify whether a thing is or is not;
he manifests this further, therefore, by saying that no verb is significative
of a thing’s being or non-being, i.e., that a thing is or is not. For although
every finite verb implies being, for "to run” is "to be running,” and
every infinite verb implies nonbeing, for "to non-run” is "to be
non-running,” nevertheless no verb signifies the whole, i.e., a thing is or a thing
is not. 19 Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum subdit: nec
si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi notandum est quod
in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad
probandum enim quod verba non significant rem esse vel non esse, assumpsit id
quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil
est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis;
omne autem aequivocum per se positum nihil significat, nisi aliquid addatur
quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est per se dictum
significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum
quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde
simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia
dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc,
quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum
facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum
ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed
solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam
compositionem, quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc
convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum
coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones
aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod
ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et rationem huius
assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur
hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum
consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat, scilicet
alii adiunctum compositionem significat, quae non potest intelligi sine
extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et verbis,
non videtur haec expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit
ipsum ens quasi quoddam speciale. He proves this point from something in which
it will be clearer when he adds, Nor would it be a sign of the being or
nonbeing of a thing if you were to say "is” alone, for it is nothing. It
should be noted that the Greek text has the word "being” in place of
"is” here. In order to prove that verbs do not signify that a thing is or
is not, he takes the source and origin of to be [esse], i.e., being [ens]
itself, of which he says, it is nothing. Alexander explains this passage in the
following way: Aristotle says being itself is nothing because "being”
[ens] is said equivocally of the ten predicaments; now an equivocal name used
by itself signifies nothing unless something is added to determine its
signification; hence, "is” [est] said by itself does not signify what is
or is not. But this explanation is not appropriate for this text. In the first
place "being” is not, strictly speaking, said equivocally but according to
the prior and posterior. Consequently, said absolutely, it is understood of
that of which it is said primarily. Secondly, an equivocal word does not
signify nothing, but many things, sometimes being taken for one, sometimes for
another. Thirdly, such an explanation does not have much application here.
Porphyry explains this passage in another way. He says that "being” [ens]
itself does not signify the nature of a thing as the name "man” or
"wise” do, but only designates a certain conjunction and this is why
Aristotle adds, it signifies with a composition, which cannot be conceived apart
from the things composing it. This explanation does not seem to be consistent
with the text either, for if "being” itself does not signify a thing, but
only a conjunction, it, like prepositions and conjunctions, is neither a name
nor a verb. Therefore Ammonius thought this should be explained in another way.
He says "being itself is nothing” means that it does not signify truth or
falsity. And the reason for this is given when Aristotle says, it signifies
with a composition. The "signifies with,” according to Ammonius, does not
mean what it does when it is said that the verb signifies with time;
"signifies with,” means here signifies with something, i.e., joined to
another it signifies composition, which cannot be understood without the
extremes of the composition. But this explanation does not seem to be in
accordance with the intention of Aristotle, for it is common to all names and
verbs not to signify truth or falsity, whereas Aristotle takes "being”
here as though it were something special. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 20 Et ideo ut
magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod
verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem
esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat
aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil
est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico
quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret
esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio
significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod
dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum
significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non
sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas
et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema
compositionis. Therefore in order to understand what Aristotle is saying we
should note that he has just said that the verb does not signify that a thing
exists or does not exist [rem esse vel non esse]; nor does "being” [ens]
signify that a thing exists or does not exist. This is what he means when he
says, it is nothing, i.e., it does not signify that a thing exists. This is
indeed most clearly seen in saying "being” [ens], because being is nothing
other than that which is. And thus we see that it signifies both a thing, when
I say "that which,” and existence [esse] when I say "is” [est]. If
the word "being” [ens] as signifying a thing having existence were to
signify existence [esse] principally, without a doubt it would signify that a
thing exists. But the word "being” [ens] does not principally signify the
composition that is implied in saying "is” [est]; rather, it signifies
with composition inasmuch as it signifies the thing having existence. Such
signifying with composition is not sufficient for truth or falsity; for the
composition in which truth and falsity consists cannot be understood unless it
connects the extremes of a composition. 21 Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut
libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem
esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non
significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur
compositio quaedam, et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri
significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum
subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non potest
intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae
si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea
esse verum, vel falsum. If in place of what Aristotle says we say nor would
"to be” itself [nec ipsum esse], as it is in our texts, the meaning is
clearer. For Aristotle proves through the verb "is” [est] that no verb
signifies that a thing exists or does not exist, since "is” said by itself
does not signify that a thing exists, although it signifies existence. And
because to be itself seems to be a kind of composition, so also the verb
"is” [est], which signifies to be, can seem to signify the composition in
which there is truth or falsity. To exclude this Aristotle adds that the
composition which the verb "is” signifies cannot be understood without the
composing things. The reason for this is that an understanding of the
composition which "is” signifies depends on the extremes, and unless they
are added, understanding of the composition is not complete and hence cannot be
true or false. 22 Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat
compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti;
significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis
absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo
significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat
hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis
vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel
actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est,
vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus;
secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est
significat compositionem. Therefore he says that the verb "is” signifies
with composition; for it does not signify composition principally but
consequently. it primarily signifies that which is perceived in the mode of
actuality absolutely; for "is” said simply, signifies to be in act, and
therefore signifies in the mode of a verb. However, the actuality which the
verb "is” principally signifies is the actuality of every form commonly,
whether substantial or accidental. Hence, when we wish to signify that any form
or act is actually in some subject we signify it through the verb "is,”
either absolutely or relatively; absolutely, according to present time,
relatively, according to other times; and for this reason the verb "is”
signifies composition, not principally, but consequently. VI. 1. Postquam
philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae sunt principia materialia
enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quae
est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc
tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam;
ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio
omnis et cetera. Having established and explained the definition of the name
and the verb, which are the material principles of the enunciation inasmuch as
they are its parts, the Philosopher now determines and explains what speech is,
which is the formal principle of the enunciation inasmuch as it is its genus.
First he proposes the definition of speech; then he explains it where he says,
Let me explain. The word "animal” signifies something, etc.; finally, he
excludes an error where he says, But all speech is significant—not just as an
instrument, however, etc. 2 Circa primum
considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud
in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox
significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo
quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat
ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem
frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio
orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum
significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum
compositum. In defining speech the Philosopher first states what it has in
common with the name and verb where he says, Speech is significant vocal sound.
This was posited in the definition of the name but not repeated in the case of
the verb, because it was supposed from the definition of the name. This was
done for the sake of brevity and to avoid repetition; but subsequently he did
prove that the verb signifies something. He repeats this, however, in the
definition of speech because the signification of speech differs from that of
the name and the verb; for the name and the verb signify simple thought,
whereas speech signifies composite thought. 3 Secundo autem ponit id, in quo
oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid
significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non
significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus
partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa aliquid
separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter negationes et
alia syncategoremata, quae secundum se non significant aliquid absolutum, sed
solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est significatio vocis, una
quae refertur ad intellectum compositum, alia quae refertur ad intellectum
simplicem; prima significatio competit orationi, secunda non competit orationi,
sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat:
pars orationis est significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et
verbum, non sicut affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem
mentionem solum de affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum
vocem superaddit affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem
non significat aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio. Secondly, he
posits what differentiates speech from the name and verb when he says, of which
some of the parts are significant separately; for a part of a name taken
separately does not signify anything per se, except in the case of a name
composed of two parts, as he said above. Note that he says, of which some of
the parts are significant, and not, a part of which is significant separately;
this is to exclude negations and the other words used to unite categorical
words, which do not in themselves signify something absolutely, but only the
relationship of one thing to another. Then because the signification of vocal
sound is twofold, one being referred to composite thought, the other to simple
thought (the first belonging to speech, the second, not to speech but to a part
of speech), he adds, as words but not as an affirmation. What he means is that
a part of speech signifies in the way a word signifies, a name or a verb, for
instance; it does not signify in the way an affirmation signifies, which is
composed of a name and a verb. He only mentions affirmation because negation
adds something to affirmation as far as vocal sound is concerned for if a part
of speech, since it is simple, does not signify as an affirmation, it will not
signify as a negation. 4 Sed contra hanc definitionem Aspasius obiicit quod
videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt enim quaedam orationes,
quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut puta, si sol lucet super
terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc respondet Porphyrius quod in
quocumque genere invenitur prius et posterius, debet definiri id quod prius
est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei, puta hominis, intelligitur
definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est in potentia; et ideo quia
in genere orationis prius est oratio simplex, inde est quod Aristoteles prius
definivit orationem simplicem. Vel potest dici, secundum Alexandrum et
Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde debet poni in hac
definitione id quod est commune orationi simplici et compositae. Habere autem
partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli orationi, compositae;
sed habere partes significantes aliquid per modum dictionis, et non per modum
affirmationis, est commune orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit
poni in definitione orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de
ratione orationis quod pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione
orationis est quod pars eius sit aliquid quod significat per modum dictionis,
et non per modum affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad
sensum, licet quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles
frequenter ponit dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur,
subdit quod pars orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio:
quasi diceret, secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum
quod idem est quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes
grammaticus, voluit quod haec definitio orationis daretur solum de oratione
perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes
partes domus referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta
habet partes significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes
partes referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes
referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra
organica ad animal: quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt
partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa
ad animal mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi.
Sic ergo omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem
perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes
significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam
imperfectae. Aspasius objects to this definition because it does not seem to
belong to all parts of speech. There is a kind of speech he says, in which some
of the parts signify as an affirmation; for instance, "If the sun shines
over the earth, it is day,” and so in many other examples. Porphyry says in
reply to this objection that in whatever genus there is something prior and
posterior, it is the prior thing that has to be defined. For example, when we
give the definition of a species—say, of man—the definition is understood of
that which is in act, not of that which is in potency. Since, then, in the
genus of speech, simple speech is prior, Aristotle defines it first. Or, we can
answer the objection in the way Alexander and Ammonious do. They say that
speech is defined here commonly. Hence what is common to simple and composite
speech ought to be stated in the definition. Now to have parts signifying
something as an affirmation belongs only to composite speech, but to have parts
signifying something in the mode of a word and not in the mode of an
affirmation is common to simple and composite speech. Therefore this had to be
posited in the definition of speech. We should not conclude, however, that it
is of the nature of speech that its part not be an affirmation, but rather that
it is of the nature of speech that its parts be something that signify in the
manner of words and not in the manner of an affirmation. Porphyry’s solution
reduces to the same thing as far as meaning is concerned, although it is a
little different verbally. Aristotle frequently uses "to say” for "to
affirm,” and hence to prevent "word” from being taken as
"affirmation” when he says that a part of speech signifies as a word, he
immediately adds, not as an affirmation, meaning—according to Porphyry’s
view—"word” is not taken here in the sense in which it is the same as
"affirmation.” A philosopher called John the Grammarian thought that this
definition could only apply to perfect speech because there only seem to be
parts in the case of something perfect, or complete; for example, a house to
which all of the parts are referred. Therefore only perfect speech has
significant parts. He was in error on this point, however, for while it is true
that all the parts are referred principally to the perfect, or complete whole,
some parts are referred to it immediately, for example, the walls and roof to a
house and organic members to an animal; others, however, are referred to it
through the principal parts of which they are parts; stones, for example, to the
house by the mediate wall, and nerves and bones to the animal by the mediate
organic members like the hand and the foot, etc. In the case of speech,
therefore, all of the parts are principally referred to perfect speech, a part
of which is imperfect speech, which also has significant parts. Hence this
definition belongs both to perfect and to imperfect speech. Aquinas lib. 1 l. 6
n. 5Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem.
Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum
intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod
dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo,
quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio aut
negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed
solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit
affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum. When he says, Let me
explain. The word "animal” signifies something, etc., he elucidates the
definition. First he shows that what he says is true; secondly, he excludes a
false understanding of it where he says, But one syllable of "animal” does
not signify anything, etc. He explains that when he says some parts of speech
are significant, he means that some of the parts signify something in the way
the name "animal,” which is a part of speech, signifies something and yet
does not signify as an affirmation or negation, because it does not signify to
be or not to be. By this I mean it does not signify affirmation or negation in
act, but only in potency; for it is possible to add something that will make it
an affirmation or negation, i.e., a verb. 6 Deinde cum dicit: sed non una
hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate
dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei
addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non
conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est
in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum
separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate
venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum
est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et
verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel
litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non
tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis,
quae quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico
rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut
una quaedam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per
se, sed est vox sola. Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus,
tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat
simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere
partem quae sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest
habere partem significantem. Unde syllabae quidem sunt voces, sed non sunt
voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quae
imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito,
partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem.
Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabae quae
possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid,
scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem
significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo,
sicut supra dictum est. He excludes a false understanding of what has been said
by his next statement. But one syllable of "animal” does not signify
anything. This could be referred to what has just been said and the meaning
would be that the name will be an affirmation or negation if something is added
to it, but not if what is added is one syllable of a name. However, what he
says next is not compatible with this meaning and therefore these words should
be referred to what was stated earlier in defining speech, namely, to some
parts of which are significant separately. Now, since what is properly called a
part of a whole is that which contributes immediately to the formation of the
whole, and not that which is a part of a part, "some parts” should be
understood as the parts from which speech is immediately formed, i.e., the name
and verb, and not as parts of the name or verb, which are syllables or letters.
Hence, what is being said here is that a part of speech is significant
separately but not such a part as the syllable of a name. He manifests this by
means of syllables that sometimes can be words signifying per se. "Owl,”
for example, is sometimes one word signifying per se. When taken as a syllable
of the name "fowl,” however, it does not signify something per se but is
only a vocal sound. For a word is composed of many vocal sounds, but it has
simplicity in signifying insofar as it signifies simple thought. Hence, a word
inasmuch as it is a composite vocal sound can have a part which is a vocal
sound, but inasmuch as it is simple in signifying it cannot have a signifying part.
Whence syllables are indeed vocal sounds, but they are not vocal sounds
signifying per se. In contrast to this it should be noted that in composite
names, which are imposed to signify a simple thing from some composite
understanding, the parts appear to signify something, although according to
truth they do not. For this reason he adds that in compound words, i.e.,
composite names, the syllables may be words contributing to the composition of
a name, and therefore signify something, namely, in the composite, and
according as they are words; but as parts of this kind of name they do not
signify something per se, but in the way that has already been explained. 7 Deinde
cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui
dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum.
Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse
naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem
interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia.
Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa
interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens
operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana significans,
sed naturaliter. Then he says, But all speech is significant—not just as an
instrument, however, etc. Here he excludes the error of those who said that
speech and its parts signify naturally rather than by convention. To prove their
point they used the following argument. The instruments of a natural power must
themselves be natural, for nature does not fail in regard to what is necessary;
but the interpretive power is natural to man; therefore, its instruments are
natural. Now the instrument of the interpretive power is speech since it is
through speech that expression is given to the conception of the mind; for we
mean by an instrument that by which an agent operates. Therefore, speech is
something natural, signifying, not from human institution, but naturally.
Aquinas lib. 1 l. 6 n. 8Huic autem rationi, quae dicitur esse Platonis in Lib.
qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod omnis oratio est
significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis: quia
instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo, quibus
formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati soni
distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis
interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva utitur
naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera
artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis
naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res
naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio
significat ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et
voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex
humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam
non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed
supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius
corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet
virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis
utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc
modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis:
quamvis non naturaliter significent. Aristotle refutes this argument, which is
said to be that of Plato in the Cratylus, when he says that all speech is
significant, but not as an instrument of a power, that is, of a natural power;
for the natural instruments of the interpretive power are the throat and lungs,
by which vocal sound is formed, and the tongue, teeth and lips by which letters
and articulate sounds are formulated. Rather, speech and its parts are effects
of the interpretative power through the aforesaid instruments. For just as the
motive power uses natural instruments such as arms and hands to make an
artificial work, so the interpretative power uses the throat and other natural
instruments to make speech. Hence, speech and its parts are not natural things,
but certain artificial effects. This is the reason Aristotle adds here that
speech signifies by convention, i.e., according to the ordinance of human will
and reason. It should be noted, however, that if we do not attribute the
interpretative power to a motive power, but to reason, then it is not a natural
power but is beyond every corporeal nature, since thought is not an act of the
body, as is proved in III De anima [4: 429a 10]. Moreover, it is reason itself
that moves the corporeal motive power to make artificial works, which reason
then uses as instruments; and thus artificial works are not instruments of a
corporeal power. Reason can also use speech and its parts in this way, i.e., as
instruments, although they do not signify naturally. VII. 1. Postquam
philosophus determinavit de principiis enunciationis, hic incipit determinare
de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de
enunciatione absolute; in secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit secundum
ea quae simplici enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam
autem est de aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes
tres. In prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem
una prima oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem;
ibi: quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo,
ponit definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem
differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus
etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae
quidemrelinquantur. Having defined the principles of the enunciation, the
Philosopher now begins to treat the enunciation itself. This is divided into
two parts. In the first he examines the enunciation absolutely; in the second
the diversity of enunciations resulting from an addition to the simple
enunciation. The latter is treated in the second book, where he says, Since an
affirmation signifies something about a subject, etc.”’ The first part, on the
enunciation absolutely, is divided into three parts. In the first he defines
enunciation; in the second he divides it where he says, First affirmation, then
negation, is enunciative speech that is one, etc.;” in the third he treats of
the opposition of its parts to each other, where he says, Since it is possible
to enunciate that what belongs to a subject does not belong to it, etc. In the
portion of the text treated in this lesson, which is concerned with the
definition of enunciation, he first states the definition, then shows that this
definition differentiates the enunciation from other species of speech, where
he says, Truth and falsity is not present in all speech however, etc., and finally
indicates that only the enunciation is to be treated in this book where he
says, Let us therefore consider enunciative speech, etc. 2 Circa primum
considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum alicuius virtutis
naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut supra dictum est.
Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti:
usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est significare
conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt operationes
intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in alia autem
invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit ex
significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa, sed
in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles mirabili
brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis
oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in
qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio
enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est. The point
has just been made that speech, although it is not an instrument of a power
operating naturally, is nevertheless an instrument of reason. Now every
instrument is defined by its end, which is the use of the instrument. The use
of speech, as of every significant vocal sound, is to signify a conception of
the intellect. But there are two operations of the intellect. In one truth and
falsity is found, in the other not. Aristotle therefore defines enunciative
speech by the signification of the true and false: Yet not all speech is
enunciative; but only speech in which there is truth or falsity. Note with what
remarkable brevity he signifies the division of speech by Yet not all speech is
enunciative, and the definition by, but only speech in which there is truth or
falsity. This, then, is to be understood as the definition of the enunciation:
speech in which there is truth and falsity. 3 Dicitur autem in enunciatione
esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in
subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re
autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res
est vel non est, oratio vera vel falsa est. True or false is said to be in the
enunciation as in a sign of true or false thought; but true or false is in the
mind as in a subject (as is said in VI Metaphysicae [1027b 17–1028a 5]), and in
the thing as in a cause (as is said in the book Predicamentorum [5: 4a 35–4b
9])—for it is from the facts of the case, i.e., from a thing’s being so or not
being so, that speech is true or false. 4 Deinde cum dicit: non autem in
omnibus etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis
orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non
significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo
audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo
consistit verum vel falsum. His igitur praetermissis, sciendum est quod
perfectae orationis, quae complet sententiam, quinque sunt species, videlicet
enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen
intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia
oportet aliquid partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra
dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad
attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum
dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua
invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute significat conceptum
intellectus, in quo est verum vel falsum. Next he shows that this definition
differentiates the enunciation from other speech, when he says, Truth or
falsity is not present in all speech however, etc. In the case of imperfect or
incomplete speech it is clear that it does not signify the true or false, since
it does not make complete sense to the mind of the hearer and therefore does
not completely express a judgment of reason in which the true or false
consists. Having made this point, however, it must be noted that there are five
species of perfect speech that are complete in meaning: enunciative,
deprecative, imperative, interrogative, and vocative. (Apropos of the latter it
should be noted that a name alone in the vocative case is not vocative speech,
for some of the parts must signify something separately, as was said above. So,
although the mind of the hearer is provoked or aroused to attention by a name
in the vocative case, there is not vocative speech, unless many words are
joined together, as in "O good Peter!”) Of these species of speech the
enunciative is the only one in which there is truth or falsity, for it alone
signifies the conception of the intellect absolutely and it is in this that
there is truth or falsity. 5 Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit
in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum
suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per
enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent
aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia
diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo
quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad
respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad
exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio
imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur
oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per
expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non
significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed
quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur
verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de
rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur
verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam
vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et
optativa ad deprecativam. But the intellect, or reason, does not just conceive
the truth of a thing. It also belongs to its office to direct and order others
in accordance with what it conceives. Therefore, besides enunciative speech,
which signifies the concept of the mind, there had to be other kinds of speech
to signify the order of reason by which others are directed. Now, one man is
directed by the reason of another in regard to three things: first, to attend
with his mind, and vocative speech relates to this; second, to respond with his
voice, and interrogative speech relates to this; third, to execute a work, and
in relation to this, imperative speech is used with regard to inferiors,
deprecative with regard to superiors. Optative speech is reduced to the latter,
for a man does not have the power to move a superior except by the expression
of his desire. These four species of speech do not signify the conception of
the intellect in which there is truth or falsity, but a certain order following
upon this. Consequently truth or falsity is not found in any of them, but only
in enunciative speech, which signifies what the mind conceives from things. It
follows that all the modes of speech in which the true or false is found are
contained under the enunciation, which some call indicative or suppositive. The
dubitative, it should be noted, is reduced to the interrogative, as the
optative is to the deprecative. 6 Deinde cum dicit: caeterae igitur
relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod
aliae quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad
praesentem intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae
vel poeticae scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est.
Cuius ratio est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam
demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum
vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum
finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum
veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod
intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones
audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur
provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et
ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem
audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae,
ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout consideratur
in eis congrua vocum constructio. Then Aristotle says, Let us therefore
consider enunciative speech, etc. Here he points out that only enunciative
speech is to be treated; the other four species must be omitted as far as the
present intention is concerned, because their investigation belongs rather to
the sciences of rhetoric or poetics. Enunciative speech belongs to the present
consideration and for the following reason: this book is ordered directly to
demonstrative science, in which the mind of man is led by an act of reasoning
to assent to truth from those things that are proper to the thing; to this end
the demonstrator uses only enunciative speech, which signifies things according
as truth about them is in the mind. The rhetorician and the poet, on the other
hand, induce assent to what they intend not only through what is proper to the
thing but also through the dispositions of the hearer. Hence, rhetoricians and
poets for the most part strive to move their auditors by arousing certain passions
in them, as the Philosopher says in his Rhetorica [I, 2: 1356a 2, 1356a 14;
III, 1: 1403b 12]. This kind of speech, therefore, which is concerned with the
ordination of the hearer toward something, belongs to the consideration of
rhetoric or poetics by reason of its intent, but to the consideration of the
grammarian as regards a suitable construction of the vocal sounds. VIII. 1. Postquam
philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas
partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam;
ibi: necesse est autem et cetera. Having defined the enunciation the
Philosopher now divides it. First he gives the division, and then manifests it
where he says, Every enunciative speech however, must contain a verb, etc. 2 Circa
primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio duas divisiones
enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam est una simplex,
quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt extra animam,
aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum, aliquid est unum
colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et unum convertuntur,
necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem aliqualiter esse unam. It
should be noted that Aristotle in his concise way gives two divisions of the
enunciation. The first is the division into one simply and one by conjunction.
This parallels things outside of the soul where there is also something one
simply, for instance the indivisible or the continuum, and something one either
by aggregation or composition or order. In fact, since being and one are
convertible, every enunciation must in some way be one, just as every thing is.
3 Alia vero subdivisio enunciationis est quod si enunciatio sit una, aut est
affirmativa aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior est negativa,
triplici ratione, secundum tria quae supra posita sunt: ubi dictum est quod vox
est signum intellectus, et intellectus est signum rei. Ex parte igitur vocis,
affirmativa enunciatio est prior negativa, quia est simplicior: negativa enim
enunciatio addit supra affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam
intellectus affirmativa enunciatio, quae significat compositionem intellectus,
est prior negativa, quae significat divisionem eiusdem: divisio enim
naturaliter posterior est compositione, nam non est divisio nisi compositorum,
sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa
enunciatio, quae significat esse, prior est negativa, quae significat non esse:
sicut habitus naturaliter prior est privatione. The other is a subdivision of
the enunciation: the division of it as it is one into affirmative and negative.
The affirmative enunciation is prior to the negative for three reasons, which
are related to three things already stated. It was said that vocal sound is a
sign of thought and thought a sign of the thing. Accordingly, with respect to
vocal sound, affirmative enunciation is prior to negative because it is
simpler, for the negative enunciation adds a negative particle to the
affirmative. With respect to thought, the affirmative enunciation, which
signifies composition by the intellect, is prior to the negative, which
signifies division, for division is posterior by nature to composition since
division is only of composite things—just as corruption is only of generated
things. With respect to the thing, the affirmative enunciation, which signifies
to be is prior to the negative, which signifies not to be, as the having of
something is naturally prior to the privation of it. 4 Dicit ergo quod oratio
enunciativa una et prima est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et
contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde negatio, idest negativa oratio,
quia est posterior affirmativa, ut dictum est. Contra id autem quod dixerat
una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter,
sed coniunctione unae. What he says, then, is this: Affirmation, i.e.,
affirmative enunciation, is one and the first enunciative speech. And in
opposition to first he adds, then negation, i.e., negative speech, for it is
posterior to affirmative, as we have said. In Opposition to one, i.e., one
simply, he adds, certain others are one, not simply, but one by conjunction. 5
Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis
in affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio
nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis
speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens
esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de novem
generibus accidentium. From what Aristotle says here Alexander argues that the
division of enunciation into affirmation and negation is Dot a division of a
genus into species, but a division of a multiple name into its meanings; for a
genus is not predicated according to the prior and posterior, but is predicated
univocally of its species; this is the reason Aristotle would not grant that
being is a common genus of all things, for it is predicated first of substance,
and then of the nine genera of accidents. 6 Sed dicendum quod unum dividentium
aliquod commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias
rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis
illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem
generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam
rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant
rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo
mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem
generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis:
quia in ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet
respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio
secundum propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant
rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio
in qua verum vel falsum est. However, in the division of that which is common,
one of the dividing members can be prior to another in two ways: according to
the proper notions” or natures of the dividing members, or according to the
participation of that common notion that is divided in them. The first of these
does not destroy the univocity of a genus, as is evident in numbers. Twoness,
according to its proper notion, is naturally prior to threeness, yet they
equally participate in the notion of their genus, i.e., number; for both a
multitude consisting of three and a multitude consisting of two is measured by
one. The second, however, does impede the univocity of a genus. This is why
being cannot be the genus of substance and accident, for in the very notion of
being, substance, which is being per se, has priority in respect to accident,
which is being through another and in another. Applying this distinction to the
matter at hand, we see that affirmation is prior to negation in the first way,
i.e., according to its notion, yet they equally participate in the definition
Aristotle has given of the enunciation, i.e., speech in which there is truth or
falsity. 7 Deinde cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas
divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una
simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod
enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem
simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, praemittit
quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat
propositum; ibi: est autem una oratio et cetera. Where he says, Every
enunciative speech, however, must contain a verb or a mode of the verb, etc.,
he explains the divisions. He gives two explanations, one of the division of
enunciation into one simply and one by conjunction, the second of the division
of the enunciation which is one simply into affirmative or negative. The latter
explanation begins where he says, A simple enunciation is vocal sound
signifying that something belongs or does not belong to a subject, etc. Before
he explains the first division, i.e., into one simply and one by conjunction,
he states certain things that are necessary for the evidence of the
explanation, and then explains the division where he says, Enunciative speech
is one when it signifies one thing, etc. 8 Circa primum duo facit: primo, dicit
quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est praesentis
temporis, vel ex casu verbi quod est praeteriti vel futuri. Tacet autem de
verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum
negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum
sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio
imperfecta. Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad rationem hominis,
idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit,
quae sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu
casus verbi, nondum est oratio enunciativa. He states the first thing that is
necessary for his explanation when he says that every enunciative speech must
contain a verb in present time, or a case of the verb, i.e., in past or future
time. (The infinite verb is not mentioned because it has the same function in
the enunciation as the negative verb.) To manifest this he shows that one name,
without a verb, does not even constitute imperfect enunciative speech, let
alone perfect speech. Definition, he points out, is a certain kind of speech,
and yet if the verb "is” or modes of the verb such as "was” or
"has been” or something of the kind, is not added to the notion of man, i.e.,
to the definition, it is not enunciative speech. 9 Potest autem esse dubitatio:
cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine,
sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla
oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua
enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum;
ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum
est, verbum est nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est
principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva
ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa.
Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit
mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori. Cuius signum
est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa solum ratione
verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis dicitur
affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a qua
denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio
Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem
complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia
dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam autem coniunctione
una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una simpliciter careret omni
compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet
esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine
compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non importat compositionem, et
ideo non exigit praesens intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de
verbo. But, one might ask, why mention the verb and not the name, for the
enunciation consists of a name and a verb? This can be answered in three ways.
First of all because enunciative speech is not attained without a verb or a
mode of the verb, but it is without a name, for instance, when infinitive forms
of the verb are used in place of names, as in "To run is to be moving.” A
second and better reason for speaking only of the verb is that the verb is a
sign of what is predicated of another. Now the predicate is the principal part
of the enunciation because it is the formal part and completes it. This is the
reason the Greeks called the enunciation a categorical, i.e., predicative,
proposition. It should also be noted that denomination is made from the form
which gives species to the thing. He speaks of the verb, then, but not the
name, because it is the more principal and formal part of the enunciation. A
sign of this is that the categorical enunciation is said to be affirmative or
negative solely by reason of the verb being affirmed or denied, and the
conditional enunciation is said to be affirmative or negative by reason of the
conjunction by which it is denominated being affirmed or denied. A third and
even better reason is that Aristotle did not intend to show that the name or
verb is not sufficient for a complete enunciation, for he explained this
earlier. Rather, he is excluding a misunderstanding that might arise from his
saying that one kind of enunciation is one simply and another kind is one by
conjunction. Some might think this means that the kind that is one simply,
lacks all composition. But he excludes this by saying that there must be a verb
in every enunciation; for the verb implies composition and composition cannot
be understood apart from the things composed, as he said earlier.” The name, on
the other hand, does not imply composition and therefore did not have to be mentioned.
10 Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad
manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile
bipes, quae est definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de
omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse
alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae
ratio huius assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per
accidens sed per se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia
determinatur per formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem
differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex
genere et differentia. The other, point necessary for the evidence of the first
division is made where he says, but then the question arises as to why the
definition "terrestrial biped animal” is something one, etc. He indicates
by this that "terrestrial biped animal,” which is a definition of man, is
one and not many. The reason it is one is the same as in the case of all
definitions but, he says, to assign the reason belongs to another subject of
inquiry. It belongs, in fact, to metaphysics and he assigns the reason in VII
and VIII Metaphysicae [VII, 12: 1037b 7; VIII, 6: 1045a 6] which is this: the
difference does not accrue to the genus accidentally but per se and is
determinative of it in the way in which form determines matter; for the genus
is taken from matter, the difference from form. Whence, just as one thing—not
many—comes to be from form and matter, so one thing comes to be from the genus
and difference. 11 Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis
posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes
eius sunt propinquae, idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae.
Et quidem non interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis,
quia si interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non
determinaret primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem
operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad
unitatem definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione
et interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit
medium inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad
unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis
servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam,
homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod
absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam importat
verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et est
eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad
materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum
simpliciter. The reason for the unity of this definition might be supposed by
some to be only that of juxtaposition of the parts, i.e., that
"terrestrial biped animal” is said to be one only because the parts are
side by side without conjunction or pause. But he excludes such a notion of its
unity. Now it is true that non-interruption of locution is necessary for the
unity of a definition, for if a conjunction were put between the parts the
second part would not determine the first immediately and the many in locution
would consequently signify many in act. The pause used by rhetoricians in place
of a conjunction would do the same thing. Whence it is a requirement for the
unity of a definition that its parts be uttered without conjunction and
interpolation, the reason being that in the natural thing, whose definition it
is, nothing mediates between matter and form. However, non-interruption of
locution is not the only thing that is needed for unity of the definition, for
there can be continuity of utterance in regard to things that are not one
simply, but are accidentally, as in white musical man.” Aristotle has therefore
manifested very subtly that absolute unity of the enunciation is not impeded
either by the composition which the verb implies or by the multitude of names
from which a definition is established. And the reason is the same in both
cases, i.e., the predicate is related to the subject as form to matter, as is
the difference to a genus; but from form and matter a thing that is one simply
comes into existence. 12 Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit
ad manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod
dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis
secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa
primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod
ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et
verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem
manifestat per modos pluralitatis. He begins to explain the division when he
says, Enunciative speech is one when it signifies one thing, etc. First he
makes the common thing that is divided evident, i.e., the enunciation as it is
one; secondly, he makes the parts of the division evident according to their
own proper notions, where he says, Of enunciations that are one, simple
enunciation is one kind, etc. After he has made the division of the common
thing evident, i.e., enunciation, he then concludes that the name and the verb
are excluded from each member of the division where he says, Let us call the
name or the verb a word only, etc. Now plurality is opposed to unity. Therefore
he is going to manifest the unity of the enunciation through the modes of
plurality. 13 Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute,
scilicet quae unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quae est
coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes
plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo
modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales opponuntur
secundo modo unitatis. He begins his explanation by saying that enunciation is
either one absolutely, i.e., it signifies one thing said of one thing, or one
relatively, i.e., it is one by conjunction. In opposition to these are the
enunciations that are many, either because they signify not one but many
things, which is opposed to the first mode of unity or because they are uttered
without a connecting particle, which is opposed to the second mode of unity. 14
Circa quod considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas
orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur
secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum
solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est
albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem
significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam,
animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in
conditionalibus, quae quidem unum significant et non multa. Similiter autem
quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione
ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio
plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in
enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto
vel in praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive
non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si
coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive sine
coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc
sensus litterae est quod enunciatio una est illa, quae unum de uno significat,
non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter
enunciationes plures dicuntur quae plura et non unum significant: non solum quando
interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter
ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua
interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum,
multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex
quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus
currit. Boethius interprets this passage in the following way. "Unity” and
"plurality” of speech refers to what is signified, whereas "simple”
and "composite” is related to the vocal sounds. Accordingly, an
enunciation is sometimes one and simple, namely, when one thing is signified by
the composition of name and verb, as in "Man is white.” Sometimes it is
one and composite. In this case it signifies one thing, but is composed either
from many terms, as in "A mortal rational animal is running,” or from many
enunciations, as in conditionals that signify one thing and not many. On the
other hand, sometimes there is plurality along with simplicity, namely, when a
name signifying many things is used, as in "The dog barks,” in which case
the enunciation is many because it signifies many things [i.e., it signifies
equivocally], but it is simple as far as vocal sound is concerned. But sometimes
there is plurality and composition, namely, when many things are posited on the
part of the subject or predicate from which one thing does not result, whether
a conjunction intervenes or not, as in "The musical white man is arguing.”
This is also the case if there are many enunciations joined together, with or
without connecting particles as in "Socrates runs, Plato discusses.
According to this exposition the meaning of the passage in question is this: an
enunciation is one when it signifies one thing said of one thing, and this is
the case whether the enunciation is one simply or is one by conjunction; an
enunciation is many when it signifies not one but many things, and this not
only when a conjunction is inserted between either the names or verbs or
between the enunciations themselves, but even if there are many things that are
not conjoined. In the latter case they signify many things either because an
equivocal name is used or because many names signifying many things from which
one thing does not result are used without conjunctions, as in "The white
grammatical logical man is running.” 15 Sed haec expositio non videtur esse
secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam
interponit, videtur distinguere inter orationem unum significantem, et
orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum
quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione
unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur
dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam
et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra
dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile
bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate
nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum
significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non
erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio,
animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut
in prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. However, this
exposition does not seem to be what Aristotle had in mind. First of all the
disjunction he inserts seems to indicate that he is distinguishing between
speech signifying one thing and speech which is one by conjunction. In the
second place, he has just said that terrestrial biped animal is something one
and not many. Moreover, what is one by conjunction is not one, and not many,
but one from many. Hence it seems better to say that since he has already said
that one kind of enunciation is one simply and another kind is one by
conjunction be is showing here what one enunciation is. Having said, then, that
many names joined together are something one as in the example
"terrestrial biped animal,” he goes on to say that an enunciation is to be
judged as one, not from the unity of the name but from the unity of what is
signified, even if there are many names signifying the one thing; and if an
enunciation which signifies many things is one, it will not be one simply, but
one by conjunction. Hence, the enunciation "A terrestrial biped animal is
risible,” is not one in the sense of one by conjunction as the first exposition
would have it, but because it signifies one thing. 16 Et quia oppositum per
oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes,
et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur enunciationes
quae plura significant. Contingit autem aliqua plura significari in aliquo uno
communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno communi, quod est
animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una et non plures. Et
ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse additum propter
definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic modus pluralitatis
opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis est, quando non
solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura nullatenus
coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et
secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur primo modo
pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum
est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam plures: plures in
quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres
modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in quantum unum
significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura significat, sed
est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam sunt
simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua
uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia
quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est
coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans. Then — because
an opposite is manifested through an opposite — he goes on to show which
enunciations are many, and he posits two modes of plurality. Enunciations are
said to be many which signify many things. Many things may be signified in some
one common thing however; when I say, for example, "An animal is a
sentient being,” many things are contained under the one common thing, animal,
but such an enunciation is still one, not many. Therefore Aristotle adds, and
not one. It would be better to say, however, that the and not one is added
because of definition, which signifies many things that are one. The mode of
plurality he has spoken of thus far is opposed to the first mode of unity. The
second mode of plurality covers enunciations that not only signify many things
but many that are in no way joined together. This mode is opposed to the second
mode of unity. Thus it is evident that the second mode of unity is not opposed
to the first mode of plurality. Now those things that are not opposed can be
together. Therefore, the enunciation that is one by conjunction is also many
many insofar as it signifies many and not one. According to this understanding
of the text there are three modes of the enunciation: the enunciation that is
one simply inasmuch as it signifies one thing; the enunciation that is many
simply inasmuch as it signifies many things, but is one relatively inasmuch as
it is one by conjunction; finally, the enunciations that are many simply—those
that do not signify one thing and are not united by any conjunction. Aristotle
posits four kinds of enunciation rather than three, for an enunciation is
sometimes many because it signifies many things, and yet is not one by
conjunction; a case in point would be an enunciation in which a name signifying
many things is used. 17 Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit
ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est,
quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum
significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum
subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non
enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad
significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola
manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid
significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum
innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad
interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus,
magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut
cum dicimus, Petrus currit. Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum
nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo
interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante,
sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel
verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum
significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel
verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in
interrogatione. Ut si quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister,
subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo
non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut
nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra
praemisit: necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu
verbi. Where he says, Let us call the name or the verb a word only, etc., he excludes
the name and the verb from the unity of speech. His reason for making this
point is that his statement, "an enunciation is one inasmuch as it
signifies one thing,” might be taken to mean that an enunciation signifies one
thing in the same way the name or verb signify one thing. To prevent such a
misunderstanding he says, Let us call the name or the verb a word only, i.e., a
locution which is not an enunciation. From his mode of speaking it would seem
that Aristotle himself imposed the name "phasis” [word] to signify such
parts of the enunciation. Then he shows that a name or verb is only a word by
pointing out that we do not say that a person is enunciating when be signifies
something in vocal sound in the way in which a name or verb signifies. To manifest
this he suggests two ways of using the enunciation. Sometimes we use it to
reply to questions; for example if someone asks "Who is it who discusses,”
we answer "The teacher.” At other times we use the enunciation, not in
reply to a question, but of our own accord, as when we say "Peter is
running.” What Aristotle is saying, then, is that the person who signifies
something one by a name or a verb is not enunciating in the way in which either
the person who replies to a question or who utters an enunciation of his own
accord is enunciating. He introduces this point because the simple name or
verb, when used in reply to a question seems to signify truth or falsity and
truth or falsity is what is proper to the enunciation. Truth and falsity is not
proper, however, to the name or verb unless it is understood as joined to
another part proposed in a question; if someone should ask, for example,
"Who reads in the schools,” we would answer, "The teacher,”
understanding also, "reads there.” If, then, something expressed by a name
or verb is not an enunciation, it is evident that the enunciation does not
signify one thing in the same way as the name or verb signify one thing.
Aristotle draws this by way of a conclusion from, Every enunciative speech must
contain a verb or a mode of the verb, which was stated earlier. 18 Deinde cum
dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum
rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno
significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis
est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit:
harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur
una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec
quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum significat. Sed ne
intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum
hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab
aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet
dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo,
enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur
in simplex et compositum. Then when he says, Of enunciations that are one,
simple enunciation is one kind, etc., he manifests the division of enunciation
by the natures of the parts. He has said that the enunciation is one when it
signifies one thing or is one by conjunction. The basis of this division is the
nature of one, which is such that it can be divided into simple and composite.
Hence, Aristotle says, Of these, i.e., enunciations into which one is divided,
which are said to be one either because the enunciation signifies one thing
simply or because it is one by conjunction, simple enunciation is one kind,
i.e., the enunciation that signifies one thing. And to exclude the
understanding of this as signifying one thing in the same way as the name or
the verb signifies one thing he adds, something affirmed of something, i.e., by
way of composition, or something denied of something, i.e., by way of division.
The other kind—the enunciation that is said to be one by conjunction—is
composite, i.e., speech composed of these simple enunciations. In other words,
he is saying that the unity of the enunciation is divided into simple and
composite, just as one is divided into simple and composite. 19 Deinde cum
dicit: est autem simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum
videlicet quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem
divisio primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem
convenit compositae enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae
divisionis dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est
aliquid: quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad
negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit:
quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis
temporibus sicut et in praesenti. He manifests the second division of the
enunciation where he says, A simple enunciation is vocal sound signifying that
something belongs or does not belong to a subject, i.e., the division of
enunciation into affirmation and negation. This is a division that belongs
primarily to the simple enunciation and consequently to the composite
enunciation; therefore, in order to suggest the basis of the division he says
that a simple enunciation is vocal sound signifying that something belongs to a
subject, which pertains to affirmation, or does not belong to a subject, which
pertains to negation. And to make it clear that this is not to be understood
only of present time he adds, according to the divisions of time, i.e., this
holds for other times as well as the present. 20 Alexander autem existimavit
quod Aristoteles hic definiret enunciationem; et quia in definitione
enunciationis videtur ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere
quod enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia species
nunquam ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce praedicatur
de multis (quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune
multis), non potest notificari nisi per illa multa quae significantur. Et inde
est quod quia unum non dicitur aequivoce de simplici et composito, sed per
prius et posterius, Aristoteles in praecedentibus semper ad notificandum
unitatem enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et
negatione ad notificandum enunciationem, volebat Alexander accipere quod
enunciatio non dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis
speciebus. Alexander thought that Aristotle was defining the enunciation here
and because he seems to put affirmation and negation in the "definition”
he took this to mean that enunciation is not the genus of affirmation and
negation, for the species is never posited in the definition of the genus. Now
what is not predicated univocally of many (namely, because it does not signify
something one that is common to many) cannot be made known except through the
many that are signified. "One” is not said equivocally of the simple and
composite, but primarily and consequently, and hence Aristotle always used both
"simple” and "composite” in the preceding reasoning to make the unity
of the enunciation known. Now, here he seems to use affirmation and negation to
make the enunciation known; therefore, Alexander took this to mean that enunciation
is not said of affirmation and negation univocally as a genus of its species. 21
Sed contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine
enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit
quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum
compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per
modum divisionis. Nomine autem aequivoco non consuevimus uti ad notificandum
significata eius. Et ideo Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio
utens, simul usus est et definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo
quod est aliquid vel non est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed
ad eius divisionem. Sed quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius
definitione, nec hoc solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est
definitio enunciationis; melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum
quod dicitur vox significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est
definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione
enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum
eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione.
Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum
dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem
enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent
poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare
esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium
negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur
enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum
est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem
definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est
autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in
species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est
affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est
differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur
differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi
constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio
alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio
alicuius ab aliquo quod significat non esse. But the contrary appears to be the
case, for the Philosopher subsequently uses the name "enunciation” as a
genus when in defining affirmation and negation he says, Affirmation is the
enunciation of something about something, i.e., by way of composition; negation
is the enunciation of something separated from something, i.e., by way of
division. Moreover, it is not customary to use an equivocal name to make known
the things it signifies. Boethius for this reason says that Aristotle with his
customary brevity is using both the definition and its division at once.
Therefore when he says that something belongs or does not belong to a subject
he is not referring to the definition of enunciation but to its division.
However, since the differences dividing a genus do not fall in its definition
and since vocal sound signifying is not a sufficient definition of the
enunciation, Porphyry thought it would be better to say that the whole
expression, vocal sound signifying that something belongs or does not belong to
a subject, is the definition of the enunciation. According to his exposition this
is not affirmation and negation that is posited in the definition, but capacity
for affirmation and negation, i.e., what the enunciation is a sign of, which is
to be or not to be, which is prior in nature to the enunciation. Then
immediately following this he defines affirmation and negation in terms of
themselves when he says, Affirmation is the enunciation of something about
something; negation the enunciation of something separated from something. But
just as the species should not be stated in the definition of the genus, so
neither should the properties of the species. Now to signify to be is the
property of the affirmation, and to signify not to be the property of the
negation. Therefore Ammonius thought it would be better to say that the enunciation
was not defined here, but only divided. For the definition was posited above
when it was said that the enunciation is speech in which there is truth or
falsity—in which definition no mention is made of either affirmation or
negation. It should be noticed, however, that Aristotle proceeds very
skillfully here, for he divides the genus, not into species, but into specific
differences. He does not say that the enunciation is an affirmation or
negation, but vocal sound signifying that something belongs to a subject, which
is the specific difference of affirmation, or does not belong to a subject,
which is the specific difference of negation. Then when he adds, Affirmation is
the enunciation of something about something which signifies to be, and
negation is the enunciation of something separated from something, which
signifies not to be, he establishes the definition of the species by joining
the differences to the genus. IX. 1. Posita divisione enunciationis, hic agit
de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et negationis. Et
quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel falsum, primo,
ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam
dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo quae sunt et
quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter una
enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni;
ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in duas partes: in
prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis absolute; in
secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex parte subiecti;
ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod
omni affirmationi est negatio opposita et e converso; secundo, manifestat
oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit hoccontradictio
et cetera.Having mad e the division of the enunciation, Aristotle now deals
with the opposition of the parts of the enunciation, i.e., the opposition of
affirmation and negation. He has already said that the enunciation is speech in
which there is truth or falsity; therefore, he first shows how enunciations are
opposed to each other; secondly, he raises a doubt about some things previously
determined and then resolves it where he says, In enunciations about that which
is or has taken place, etc. He not only shows how one enunciation is opposed to
another, but that only one is opposed to one, where he says, It is evident also
that there is one negation of one affirmation. In showing how one enunciation
is opposed to another, he first treats of the opposition of affirmation and
negation absolutely, and then shows in what way opposition of this kind is
diversified on the part of the subject where he says, Since some of the things
we are concerned with are universal and others singular, etc. With respect to
the opposition of affirmation and negation absolutely, he first shows that
there is a negation opposed to every affirmation and vice versa, and then where
he says, We will call this opposed affirmation and negation
"contradiction,” he explains the opposition of affirmation and negation
absolutely. 2 Circa primum considerandum est quod ad ostendendum suum
propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum
prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est quod
enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel
est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per
comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et
enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum
congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa. In relation to
the first point, that there is a negation opposed to every affirmation and vice
versa, the Philosopher assumes a twofold diversity of enunciation. The first
arises from the very form or mode of enunciating. According to this diversity,
enunciation is either affirmative—in which it is enunciated that something is —
or negative — in which it is signified that something is not. The second is the
diversity that arises by comparison to reality. Truth and falsity of thought
and of the enunciation depend upon this comparison, for when it is enunciated
that something is or is not, if there is agreement with reality, there is true
speech; otherwise there is false speech. 3 Sic igitur quatuor modis potest
variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo,
quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad
affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio
modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad
negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum
enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad affirmationem
falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid
non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur,
nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas
veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod
contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem,
ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura,
esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae,
quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse.
Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum
dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. The enunciation can
therefore be varied in four ways according to a combination of these two
divisions: in the first way, what is in reality is enunciated to be as it is in
reality. This is characteristic of true affirmation. For example, when Socrates
runs, we say, "Socrates is running.” In the second way, it is enunciated
that something is not what in reality it is not. This is characteristic of true
negation, as when we say, "An Ethiopian is not white.” In the third way,
it is enunciated that something is what in reality it is not. This is
characteristic of a false affirmation, as in "The raven is white.” In the
fourth way, it is enunciated that something is not what it is in reality. This
is characteristic of a false negation, as in "Snow is not white.” In order
to proceed from the weaker to the stronger the Philosopher puts the false
before the true, and among these he states the negative before the affirmative.
He begins, then, with the false negative; it is possible to enunciate, that
what is, namely, in reality, is not. Secondly, he posits the false affirmative,
and that what is not, namely, in reality, is. Thirdly, he posits the true affirmative—which
is opposed to the false negative he gave first—and that what is, namely, in
reality, is. Fourthly, he posits the true negative—which is opposed to the
false affirmative—and that what is not, namely, in reality, is not. Aquinas
lib. 1 l. 9 n. 4Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et
quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti,
sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei
significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur
quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens. In saying what is and
what is not, Aristotle is not referring only to the existence or nonexistence
of a subject. What he is saying is that the reality signified by the predicate
is in or is not in the reality signified by the subject. For what is signified
in saying, "The raven is white,” is that what is not, is, although the
raven itself is an existing thing. 5 Et sicut istae quatuor differentiae
enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum
praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus
ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse
est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit:
quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea,
quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt
quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti
et futuri. These four differences of enunciations are found in propositions in
which there is a verb of present time and also in enunciations in which there
are verbs of past or future time. He said earlier that every enunciative speech
must contain a verb or a mode of the verb. Here he makes this point in relation
to the four differences of enunciations: similarly it is possible to enunciate
these, i.e., that the enunciation be varied in diverse ways in regard to those
times outside of the present, i.e., with respect to the past or future, which
are in a certain way extrinsic in respect to the present, since the present is
between the past and the future. 6 Et quia ita est, contingit omne quod quis
affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem
manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari nisi vel quod est in
rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et hoc totum
contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et
e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex
opposito contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat
negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset
contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non
posset. Since there are these four differences of enunciation in past and
future time as well as in present time, it is possible to deny everything that
is affirmed and to affirm everything that is denied. This is evident from the
premises, for it is only possible to affirm either that which is in reality
according to past, present, or future time, or that which is not; and it is
possible to deny all of this. It is clear, then, that everything that is affirmed
can be denied or vice versa. Now, since affirmation and negation are per se
opposed, i.e., in an opposition of contradiction, it follows that any
affirmation would have a negation opposed to it, and conversely. The contrary
of this could happen only if an affirmation could affirm something that the
negation could not deny. 7 Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc.,
manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo,
manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera.
Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e
converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio.
Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum
nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis,
ut Ammonius dicit. When he says, We will call this opposed affirmation and
negation "contradiction,” he explains what absolute opposition of
affirmation and negation is. He does this first through the name; secondly,
through the definition where he says, I mean by "opposed” the enunciation
of the same thing of the same subject, etc. "Contradiction,” he says, is
the name imposed for the kind of opposition in which a negation is opposed to
an affirmation and conversely. By saying We will call this
"contradiction,” we are given to understand—as Ammonius points out—that he
has himself imposed the name "contradiction” for the opposition of
affirmation and negation. 8 Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit
contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio
affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae
requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita
esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato,
requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint
eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est
contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur,
Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur
quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit
simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non
sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una,
requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae
unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit
identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Then he
defines contradiction when he says, I mean by "opposed” the enunciation of
the same thing of the same subject, etc. Since contradiction is the opposition
of affirmation and negation, as he has said, whatever is required for the
opposition of affirmation and negation is required for contradiction. Now,
opposites must be about the same thing and since the enunciation is made up of
a subject and predicate the first requirement for contradiction is affirmation
and negation of the same predicate, for if we say "Plato runs” and
"Plato does not discuss,” there is no contradiction. The second is that
the affirmation and negation be of the same subject, for if we say "Socrates
runs” and "Plato does not run,” there is no contradiction. The third
requirement is identity of subject and predicate not only according to name but
according to the thing and the name at once; for clearly, if the same name is
not used there is not one and the same enunciation; similarly there must be
identity of the thing, for as was said above, the enunciation is one when it
signifies one thing said of one thing.”’ This is why he adds, not equivocally
however, for identity of name with diversity of the thing—which is
equivocation—is not sufficient for contradiction. Aquinas lib. 1 l. 9 n. 9Sunt
autem et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis
diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset
oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec
autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum
diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est
albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte
praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non
movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est
animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel
temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in
Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex
habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures
quoad domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et
quaecumque caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in
disputationibus contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et
litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I
elenchorum. There are also certain other things that must be observed with
respect to contradiction in order that all diversity be destroyed except the
diversity of affirmation and negation, for if the negation does not deny in
every way the same thing that the affirmation affirms there will not be
opposition. Inquiry can be made about this diversity in respect to four things:
first, are there diverse parts of the subject, for if we say "An Ethiopian
is white as to teeth” and "An Ethiopian is not white as to foot,” there is
no contradiction; secondly, is there a diverse mode on the part of the
predicate, for there is no contradiction if we say "Socrates runs slowly”
and "Socrates is not moving swiftly,” or "An egg is an animal in
potency” and "An egg is not an animal in act”; thirdly, is there diversity
on the part of measure, for instance, of place or time, for there is no
contradiction if we say "It is raining in Gaul” and "It is not
raining in Italy,” or "It rained yesterday” and "It did not rain
today”; fourthly, is there diversity from a relationship to something
extrinsic, as when we say "Ten men are many in respect to a house, but not
in respect to a court house.” Aristotle designates all of these when he adds,
nor in any of the other ways that we have distinguished, i.e., that it is usual
to determine in disputations against the specious difficulties of the sophists,
i.e., against the fallacious and quarrelsome objections of the sophists, which
he mentions more fully in I Elenchorum [5: 166b 28–167a 36]. X. 1 Quia
philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse
contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere
diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera
contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem
enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam;
secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera.
Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam
subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum;
secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et
cetera. The Philosopher has just said that contradiction is the opposition of
the affirmation and negation of the same thing of the same subject. Following
upon this he distinguishes the diverse oppositions of affirmation and negation,
the purpose being to know what true contradiction is. He first states a
division of enunciation which is necessary in order to assign the difference of
these oppositions; then he begins to manifest the different oppositions where
he says, If, then, it is universally enunciated of a universal that something
belongs or does not belong to it, etc. The division he gives is taken from the
difference of the subject and therefore he divides the subject of enunciations
first; then he concludes with the division of enunciation, where he says, we
have to enunciate either of a universal or of a singular, etc. 2 Subiectum
autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est
vox significativa ad placitum simplicis intellectus, quod est similitudo rei;
et ideo subiectum enunciationis distinguit per divisionem rerum, et dicit quod
rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt singularia. Manifestat autem
membra divisionis dupliciter: primo quidem per definitionem, quia universale
est quod est aptum natum de pluribus praedicari, singulare vero quod non est
aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno solo; secundo, manifestat per
exemplum cum subdit quod homo est universale, Plato autem singulare. Now the
subject of an enunciation is a name or something taken in place of a name. A
name is a vocal sound significant by convention of simple thought, which, in
turn, is a likeness of the thing. Hence, Aristotle distinguishes the subject of
enunciation by a division of things; and he says that of things, some are
universals, others singulars. He then explains the members of this division in
two ways. First he defines them. Then he manifests them by example when he
says, "man” is universal, "Plato” singular. 3 Accidit autem dubitatio
circa hanc divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicae,
universale non est aliquid extra res existens. Item, in praedicamentis dicitur
quod secundae substantiae non sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non
ergo videtur esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia
nullae res videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. There is a
difficulty about this division, for the Philosopher proves in VII Metaphysicae
[14: 1039a 23] that the universal is not something existing outside of the
thing; and in the Predicamenta [5: 2a 11] he says that second substances are
only in first substances, i.e., singulars. Therefore, the division of things
into universals and singulars does not seem to be consistent, since according
to him there are no things that are universal; on the contrary, all things are
singular. 4 Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum quod
significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est
autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo
oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in
intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest
distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem
re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est
haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est
considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod
Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando
igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec
res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem
denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi
dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive
dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem
dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod
referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum aliquid
quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam, quod
pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est
praedicari de multis vel de uno solo. The things divided here, however, are
things as signified by names—which names are subjects of enunciations. Now,
Aristotle has already said that names signify things only through the mediation
of the intellect; therefore, this division must be taken as a division of
things as apprehended by the intellect. Now in fact, whatever is joined
together in things can be distinguished by the intellect when one of them does
not belong to the notion of the other. In any singular thing, we can consider
what is proper to the thing insofar as it is this thing, for instance, what is
proper to Socrates or to Plato insofar as he is this man. We can also consider
that in which it agrees with certain other things, as, that Socrates is an
animal, or man, or rational, or risible, or white. Accordingly, when a thing is
denominated from what belongs only to this thing insofar as it is this thing,
the name is said to signify a singular. When a thing is denominated from what
is common to it and to many others, the name is said to signify a universal
since it signifies a nature or some disposition which is common to many.
Immediately after giving this division of things, then—not of things absolutely
as they are outside of the soul, but as they are referred to the
intellect—Aristotle defines the universal and the singular through the act of
the intellective soul, as that which is such as to be predicated of many or of
only one, and not according to anything that pertains to the thing, that is, as
if he were affirming such a universal outside of the soul, an opinion relating
to Plato’s teaching. 5 Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem
intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de
anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit
autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei
quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid
accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus
remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol,
non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae
ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non
dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum
est praedicari de pluribus. There is a further point we should consider in
relation to this portion of the text. The intellect apprehends the
thing—understood according to the thing’s essence or definition. This is the
reason Aristotle says in III De anima [4:429b 10] that the proper object of the
intellect is what the thing essentially is. Now, sometimes the proper nature of
some understood form is not repugnant to being in many but is impeded by
something else, either by something occurring accidentally (for instance if all
men but one were to die) or because of the condition of matter; the sun, for
instance, is only one, not because it is repugnant to the notion of the sun to
be in many according to the condition of its form, but because there is no
other matter capable of receiving such a form. This is the reason Aristotle did
not say that the universal is that which is predicated of many, but that which
is of such a nature as to be predicated of many. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 6Cum
autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se,
communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod
significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo,
quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam,
sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est
in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est
nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis;
sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde
esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si
essent species rerum separatae, sicut posuit Plato, essent individua. Now,
since every form which is so constituted as to be received in matter is
communicable to many matters, there are two ways in which what is signified by
a name may not be of such a nature as to be predicated of many: in one way,
because a name signifies a form as terminated in this matter, as in the case of
the name "Socrates” or "Plato,” which signifies human nature as it is
in this matter; in another way, because a name signifies a form which is not
constituted to be received in matter and consequently must remain per se one
and singular. Whiteness, for example, would be only one if it were a form not a
existing in matter, and consequently singular. This is the reason the
Philosopher says in VII Metaphysicae [6: 1045a 36–1045b 7] that if there were
separated species of things, as Plato held, they would be individuals. 7 Potest
autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus
praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad
hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit
nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod
universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed
id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non
contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat
naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur
alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit
alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. It could be
objected that the name "Socrates” or "Plato” is of such a kind as to
be predicated of many, since there is nothing to prevent their being applied to
many. The response to this objection is evident if we consider Aristotle’s
words. Notice that he divides things into universal and particular, not names.
It should be understood from this that what is said to be universal not only
has a name that can be predicated of many but what is signified by the name is
of such a nature as to be found in many. Now this is not the case in the
above-mentioned names, for the name "Socrates” or "Plato” signifies
human nature as it is in this matter. If one of these names is imposed on
another man it will signify human nature in other matter and thus another signification
of it. Consequently, it will be equivocal, not universal. 8 Deinde cum dicit:
necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim
semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia,
quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel
non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est
suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem
rerum etc., necesse est enunciare et cetera. When he says, we have to enunciate
either of a universal or of a singular that something belongs or does not
belong to it, he infers the division of the enunciation. Since something is
always enunciated of some thing, and of things some are universals and some
singulars, it follows that sometimes it will be enunciated that something
belongs or does not belong to something universal, sometimes to something
singular. The construction of the sentence was interrupted by the explanation
of universal and singular but now we can see the meaning: Since some of the
things we are concerned with are universal and others singular... we have to
enunciate either of a universal or of a singular that something belongs or does
not belong to it. 9 Est autem considerandum quod de universali aliquid
enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi
separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut Plato posuit, sive,
secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic
potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic
considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si
dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species.
Huiusmodi enim intentiones format intellectus attribuens eas naturae
intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam.
Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato, quod scilicet
apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet
ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae
sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc
enim convenit naturae humanae etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet
homo singularis dignior est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes
homines singulares non sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione
intellectus; et per hunc modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei.
Alio autem modo attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc
dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum
attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur
principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis.
Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione singularis in quo invenitur,
puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad actionem individui; ut cum
dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur aliquid tripliciter: uno
modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est
singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem, ratione naturae
communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui
ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat. Et totidem etiam modis negationes
variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut supra
dictum est. 9.
In relation to the point being made here we have to consider the four ways in
which something is enunciated of the universal. On the one band, the universal
can be considered as though separated from singulars, whether subsisting per se
as Plato held or according to the being it has in the intellect as Aristotle
held; considered thus, something can be attributed to it in two ways. Sometimes
we attribute something to it which pertains only to the operation of the
intellect; for example when we say, "Man,” whether the universal or the
species, "is predicable” of many. For the intellect forms intentions of
this kind, attributing them to the nature understood according as it compares
the nature to the things outside of the mind. But sometimes we attribute
something to the universal thus considered (i.e., as it is apprehended by the
intellect as one) which does not belong to the act of the intellect but to the
being that the nature apprehended has in things outside of the soul; for
example, when we say "Man is the noblest of creatures.” For this truly
belongs to human nature as it is in singulars, since any single man is more
noble than all irrational creatures; yet all singular men are not one man
outside of the mind, but only in the apprehension of the intellect; and the
predicate is attributed to it in this way, i.e., as to one thing. On the other
hand, we attribute something to the universal as in singulars in another way,
and this is twofold: sometimes it is in view of the universal nature itself;
for instance, when we attribute something to it that belongs to its essence, or
follows upon the essential principles, as in "Man is an animal,” or
"Man is risible.” Sometimes it is in view of the singular in which the
universal is found; for instance, when we attribute something to the universal
that pertains to the action of the individual, as in "Man walks. Moreover,
something is attributed to the singular in three ways: in one way, as it is
subject to the intellect, as when we say "Socrates is a singular,” or
"predicable of only one”; in another way, by reason of the common nature,
as when we say "Socrates is an animal”; in the third way, by reason of
itself, as when we say "Socrates is walking.” The negations are varied in
the same number of ways, since everything that can be affirmed can also be
denied, as was said above. 10 Est autem haec tertia divisio enunciationis quam
ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una
simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in
ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur
secundum prius in simplex et per posterius in compositum. Alia vero fuit
divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio
generis in species, quia sumitur secundum differentiam praedicati ad quod
fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis enunciationis; et ideo
huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem,
inquam, essentialem, secundum quod differentia significat quale quid. Tertia
autem est huiusmodi divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod
praedicatur de pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad
quantitatem enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam. This is the
third division the Philosopher has given of the enunciation. The first was the
division of the enunciation into one simply and one by conjunction. This is an
analogous division into those things of which one is predicated primarily and
consequently, for one is divided according to the prior and posterior into
simple and composite. The second was the division of enunciation into
affirmation and negation. This is a division of genus into species, for it is
taken from the difference of the predicate to which a negation is added. The
predicate is the formal part of the enunciation and hence such a division is
said to pertain to the quality of the enunciation. By "quality” I mean
essential quality, for in this case the difference signifies the quality of the
essence. The third division is based upon the difference of the subject as
predicated of many or of only one, and is therefore a division that pertains to
the quantity of the enunciation, for quantity follows upon matter. 11 Deinde
cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes
diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit:
primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus;
secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum
et falsum; ibi: quocirca hasquidem impossibile est et cetera.Aristotle shows
next how enunciations are opposed in diverse ways according to the diversity of
the subject when he says, If, then, it is universally enunciated of a universal
that something belongs or does not belong to it, etc. He first distinguishes
the diverse modes of opposition in enunciations; secondly, he shows how these
diverse oppositions are related in different ways to truth and falsity where he
says, Hence in the case of the latter it is impossible that both be at once
true, etc. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 12Circa primum considerandum est quod cum
universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod
est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut
supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae
sunt quaedam dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus
designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia
non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia
subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad
designandum illum modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a
singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere,
adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur
universali, prout est extra singularia, et vocabat universale separatum
subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel
ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod
est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae
sunt quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali
sic accepto. First, then, he distinguishes the diverse modes of opposition and
since these depend upon a diversity in the subject we must first consider the
latter diversity. Now the universal can be considered either in abstraction
from singulars or as it is in singulars, and by reason of this something is
attributed in diverse modes to the universal, as we have already said. To
designate diverse modes of attribution certain words have been conceived which
may be called determinations or signs and which designate that something is
predicated in this or that mode. But first we should note that since it is not
commonly apprehended by all men that universals subsist outside of singulars
there is no word in common speech to designate the mode of predicating in which
something is said of a universal thus in abstraction from singulars. Plato, who
held that universals subsist outside of singulars, did, however, invent certain
determinations to designate the way in which something is attributed to the
universal as it is outside of singulars. With respect to the species man he
called the separated universal subsisting outside of singulars "man per
se”’or "man itself,” and he designated other such universals in like
manner. The universal as it is in singulars, however, does fall within the
common apprehension of men and accordingly certain words have been conceived to
signify the mode of attributing something to the universal taken in this way. 13
Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur universali ratione
ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari de eo universaliter,
quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in qua invenitur; et ad
hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa est haec dictio,
omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto universali quantum
ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem praedicationibus
adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod praedicatum
removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde
nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi nec unus, quia
nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo praedicatum non
removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo
ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa
est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod praedicatum
attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed quia non
determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione
singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non
est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus,
universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest,
non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit
universalem affirmationem. As was said above, sometimes something is attributed
to the universal in view of the universal nature itself; for this reason it is
said to be predicated of the universal universally, i.e., that it belongs to
the universal according to the whole multitude in which it is found. The word
"every” has been devised to designate this in affirmative predications. It
designates that the predicate is attributed to the universal subject with
respect to the whole of what is contained under the subject. In negative
predications the word "no” has been devised to signify that the predicate
is removed from the universal subject according to the whole of what is
contained under it. Hence, saying nullus in Latin is like saying non ullus [not
any] and in Greek ??de?? [none] is like ??de e?? [not one], for not a single
one is understood under the universal subject from which the predicate is not
removed. Sometimes something is either attributed to or removed from the
universal in view of the particular. To designate this in affirmative
enunciations, the word "some,” or "a certain one,” has been devised.
We designate by this that the predicate is attributed to the universal subject
by reason of the particular. "Some,” or "a certain one,” however,
does not signify the form of any singular determinately, rather, it designates
the singular under a certain indetermination. The singular so designated is
therefore called the vague individual. In negative enunciations there is no
designated word, but "not all” can be used. just as "no,” then,
removes universally, for it signifies the same thing as if we were to say
"not any,” (i.e., "not some”) so also "not all” removes
particularly inasmuch as it excludes universal affirmation. Aquinas lib. 1 l.
10 n. 14Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus aliquid de
universali praedicatur. Una quidem est, in qua de universali praedicatur
aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia, in qua
aliquid praedicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam homo
est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali praedicatur absque
determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi enunciatio
solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes oppositae. There are,
therefore, three kinds of affirmations in which something is predicated of a
universal: in one, something is predicated of the universal universally, as in
"Every man is an animal”; in another, something is predicated of the
universal particularly, as in "Some man is white.” The third is the
affirmation in which something is predicated of the universal without a
determination of universality or particularity. Enunciations of this kind are
customarily called indefinite. There are the same number of opposed negations. 15
De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione praedicetur, ut supra dictum
est, tamen totum refertur ad singularitatem ipsius, quia etiam natura
universalis in ipso singulari individuatur; et ideo nihil refert quantum ad
naturam singularitatis, utrum aliquid praedicetur de eo ratione universalis
naturae; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat ei ratione
singularitatis. In the case of the singular, although something is predicated
of it in a different respect, as was said above, nevertheless the whole is
referred to its singularity because the universal nature is individuated in the
singular; therefore it makes no difference as far as the nature of singularity
is concerned whether something is predicated of the singular by reason of the
universal nature, as in "Socrates is a man,” or belongs to it by reason of
its singularity. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 16Si igitur tribus praedictis
enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad
quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis, indefinitus
et particularis. If we add the singular to the three already mentioned there
will be four modes of enunciation pertaining to quantity: universal singular,
indefinite, and particular. 17 Sic igitur secundum has differentias Aristoteles
assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo, secundum
differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum differentiam
universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera. Circa
primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium
adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in
universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et
cetera. Aristotle assigns the diverse oppositions of enunciations according to
these differences. The first opposition is based on the difference of
universals and indefinites; the second bn the difference of universals and
particulars, the latter being treated where he says, Affirmation is opposed to
negation in the way I call contradictory, etc. With respect to the first
opposition, the one between universals and indefinites, the opposition of
universal propositions to each other is treated first, and then the opposition
of indefinite enunciations where he says, On the other hand, when the
enunciations are of a universal but not universally enunciated, etc. Finally he
precludes a possible question where he says, In the predicate, however, the
universal universally predicated is not true, etc. Aquinas lib. 1 l. 10 n.
18Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto universali
universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis, quoniam est,
idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae enunciationes;
ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio
est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid
nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod est non esse album,
quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab
albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est
albus, removetur per hanc negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo
quod negatio removeat modum quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat
haec dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus
homo est albus, totalem remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod
pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem
dicit contrarietatem. He says first, then, that if someone enunciates
universally of a universal subject, i.e., according to the content of its
universality, that it is, i.e., affirmatively, or is not, i.e., negatively,
these enunciations will be contrary; as when we say, "Every man is white,”
"No man is white.” And the reason is that the things that are most distant
from each other are said to be contraries. For a thing is not said to be black
only because it is not white but because over and beyond not being white—which
signifies the remotion of white commonly—it is, in addition, black, the extreme
in distance from white. What is affirmed by the enunciation "Every man is
white” then, is removed by the negation "Not every man is white”; the negation,
therefore, removes the mode in which the predicate is said of the subject which
the word "every” designates. But over and beyond this remotion, the
enunciation "No man is white” which is most distant from "Every man
is white,” adds total remotion, and this belongs to the notion of contrariety.
He therefore appropriately calls this opposition contrariety. Aquinas lib. 1 l.
10 n. 19Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio
affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit;
secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter
etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit
homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis
affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae
enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum
dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi
considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed
non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de
solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in
universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus
homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo,
qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo
praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum
universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur
universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper
significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio
refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur,
non sunt contrariae. When he says, On the other hand, when the enunciations are
of a universal but not universally enunciated, etc., he shows what kind of
opposition there is between affirmation and negation in indefinite
enunciations. First he states the point; he then manifests it by an example
when he says, I mean by "enunciated of a universal but not universally,”
etc. Finally he gives the reason for this when he says, For while "man” is
a universal, it is not used as universal, etc. He says first, then, that when
something is affirmed or denied of a universal subject, but not universally,
the enunciations are not contrary but the things that are signified may be
contraries. He clarifies this with examples where he says, I mean by
"enunciated of a universal but not universally,” etc. Note in relation to
this that what he said just before this was "when... of universals but not
universally enunciated” and not, "when... of universals particularly,” the
reason being that he only intends to speak of indefinite enunciations, not of
particulars. This he manifests by the examples he gives. When we say "Man
is white” and "Man is not white,” the universal subjects do not make them
universal enunciations. He gives as the reason for this, that although man,
which stands as the subject, is universal, the predicate is not predicated of
it universally because the word "every” is not added, which does not
itself signify the universal, but the mode of universality, i.e., that the predicate
is said universally of the subject. Therefore when "every” is added to the
universal subject it always signifies that something is said of it universally.
This whole exposition relates to his saying, On the other hand, when the
enunciations are of a universal but not universally enunciated, they are not
contraries. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 20Sed hoc quod additur: quae autem
significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem
contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre
voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi
enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus,
homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se
tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse
falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione
significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad
propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et
falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus
enunciationibus dici. Immediately after this he adds, although it is possible
for the things signified to be contraries, and in spite of the fact that this
is obscure he does not explain it. It has therefore been interpreted in
different ways. Some related it to the contrariety of truth and falsity proper
to enunciations of this kind, For such enunciations may be simultaneously true,
as in "Man is white” and "Man is not white,” and thus not be
contraries, for contraries mutually destroy each other. On the other hand, one
may be true and the other false, as in "Man is an animal” and "Man is
not an animal,” and thus by reason of what is signified seem to have a certain
kind of contrariety. But this does not seem to be related to what Aristotle has
said: first, because the Philosopher has not yet taken up the point of truth
and falsity of enunciations; secondly, because this very thing can also be said
of particular enunciations. Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad
contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de
subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est
albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non
est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a
subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut
cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei
privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est
videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel
etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic
igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae
enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non
sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid
sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum. Others, following
Porphyry, relate this to the contrariety of the predicate. For sometimes the
predicate may be denied of the subject because of the presence of the contrary
in it, as when we say, "Man is not white” because he is black; thus it
could be the contrary that is signified by "is not white.” This is not
always the case, however, for we remove something from a subject even when it
is not a contrary that is present in it but some mean between contraries, as in
saying, "So-and-so is not white” because he is pale; or when there is a
privation of act or habit or potency, as in saying, "So-and-so is
non-seeing” because he lacks the power of sight or has an impediment so that he
cannot see, or even because something is not of such a nature as to see, as in
saying, "A stone does not see.” It is therefore possible for the things
signified to be contraries, but the enunciations themselves not to be; for as
is said near the end of this book, opinions that are about contraries are not
contrary,”’ for example, an opinion that something is good and an opinion that
something is evil. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 22Sed nec hoc videtur ad propositum
Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum,
sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda
expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis
enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto
universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter
(quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi
enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur.
Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta,
cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non
apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est
animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si
diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal. This does not seem to
relate to what Aristotle has proposed either, for he is not treating here of
contrariety of things or opinions, but of contrariety of enunciations. For this
reason it seems better here to follow the exposition of Alexander. According to
his exposition, in indefinite enunciations it is not determined whether the
predicate is attributed to the subject universally (which would constitute
contrariety of enunciations), or particularly (which would not constitute contrariety
of enunciations). Accordingly, enunciations of this kind are not contrary in
mode of expression. However, sometimes they have contrariety by reason of what
is signified, i.e., when something is attributed to a universal in virtue of
the universal nature although the universal sign is not added, as in "Man
is an animal” and "Man is not an animal,” for in virtue of what is
signified these enunciations have the same force as "Every man is an
animal” and "No man is an animal.” Aquinas lib. 1 l. 10 n. 23Deinde cum
dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim
posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod
universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset
aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc
scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non
universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur
aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter.
Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi
videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in
enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis
enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod
universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum
habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando
universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad
aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem
determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare
convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim
dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et
similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid
album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum
praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc
praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei,
sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio
potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum
in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter
praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla
affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter praedicetur,
idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter praedicandum; ut si
diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum praedicta, quod
hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso continentur,
praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non potest esse
verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si praedicatum
sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo esset animalia
omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis, quod accipitur
sub universali. When he says, But as regards the predicate the universal
universally predicated is not true, etc., he precludes a certain difficulty. He
has already stated that there is a diversity in the opposition of enunciations
because of the universal being taken either universally or not universally on
the part of the subject. Someone might think, as a consequence, that a similar
diversity would arise on the part of the predicate, i.e., that the universal
could be predicated both universally and not universally. To exclude this he
says that in the case in which a universal is predicated it is not true that
the universal is predicated universally. There are two reasons for this. The
first is that such a mode of predicating seems to be repugnant to the predicate
in relation to its status in the enunciation; for, as has been said, the
predicate is a quasi-formal part of the enunciation, while the subject is a
material part of it. Now when a universal is asserted universally the universal
itself is taken according to the relationship it has to the singulars contained
under it, and when it is asserted particularly the universal is taken according
to the relationship it has to some one of what is contained under it. Thus both
pertain to the material determination of the universal. This is why it is not
appropriate to add either the universal or particular sign to the predicate,
but rather to the subject; for it is more appropriate to say, "No man is
an ass” than "Every man is no ass”; andlikewise, to say, "Some man is
white” than, "Man is some white.” However, sometimes philosophers put the
particular sign next to the predicate to indicate that the predicate is in more
than the subject, and this especially when they have a genus in mind and are
investigating the differences which complete the species. There is an instance
of this in II De anima [1:412a 22] where Aristotle says that the soul is a
certain act.”’ The other reason is related to the truth of enunciations. This
has a special place in affirmations, which would be false if the predicate were
predicated universally. Hence to manifest what he has stated, he adds, for
there is no affirmation in which, i.e., truly, a universal predicate will be
predicated universally, i.e., in which a universal predicate is used to
predicate universally, for example, "Every man is every animal.” If this
could be done, the predicate "animal” according to the singulars contained
under it would have to be predicated of the singulars contained under
"man”; but such predication could not be true, whether the predicate is in
more than the subject or is convertible with the subject; for then any one man
would have to be all animals or all risible beings, which is repugnant to the
notion of the singular, which is taken tinder the universal. Aquinas lib. 1 l.
10 n. 24Nec est instantia si dicatur quod haec est vera, omnis homo est omnis
disciplinae susceptivus: disciplina enim non praedicatur de homine, sed
susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est
omne susceptivum disciplinae. The truth of the enunciation "Every man is
susceptible of every discipline” is not an instance that can be used as an
objection to this position, for it is not "discipline” that is predicated
of man but "susceptible of discipline.” It would be repugnant to truth if
it were said that "Every man is everything susceptible of discipline.” 25 Signum
autem universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius
ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex
parte praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse
veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est
vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in
quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales
enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae
habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae
aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per
hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit
intelligere omnes consimiles esse improbandas. On the other hand, although the
negative universal sign or the particular affirmative sign are more
appropriately posited on the part of the subject, it is not repugnant to truth
if they are posited on the part of the predicate, for such enunciations may be
true in some matter. The enunciation "Every man is no stone,” for example,
is true, and so is "Every man is some animal.” But the enunciation
"Every man is every animal,” in whatever matter it occurs, is false. There
are other enunciations of this kind that are always false, such as, "Some
man is every animal” (which is false for the same reason as "Every man is
every animal” is false). And if there are any others like these, they are
always false; and the reason is the same in every case. And, therefore, in
rejecting the enunciation "Every man is every animal,” the Philosopher
meant it to be understood that all similar enunciations are to be rejected. XI.
1. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum, comparando
universales enunciationes ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum
comparando universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod
potest duplex oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem,
et hanc primo tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit
secundo; ibi: contrariae vero et cetera. Now that he has determined the
opposition of enunciations by comparing universal enunciations with indefinite
enunciations, Aristotle determines the opposition of enunciations by comparing
universals to particulars. It should be noted that there is a twofold
opposition in these enunciations, one of universal to particular, and he
touches upon this first; the other is the opposition of universal to universal,
and this he takes up next, where he says, They are opposed contrarily when the
universal affirmation is opposed to the universal negation, etc. 2 Particularis
vero affirmativa et particularis negativa, non habent proprie loquendo
oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem subiectum; subiectum autem
particularis enunciationis est universale particulariter sumptum, non pro
aliquo determinato singulari, sed indeterminate pro quocumque; et ideo, cum de
universali particulariter sumpto aliquid affirmatur vel negatur, ipse modus
enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de eodem: quod requiritur
ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum praemissa. The particular
affirmative and particular negative do not have opposition properly speaking,
because opposition is concerned with the same subject. But the subject of a
particular enunciation is the universal taken particularly, not for a
determinate singular but indeterminately for any singular. For this reason,
when something is affirmed or denied of the universal particularly taken, the
mode of enunciating is not such that the affirmation and negation are of the
same thing; hence what is required for the opposition of affirmation and
negation is lacking. 3 Dicit ergo primo quod enunciatio, quae universale
significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei, quae non
significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa,
altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis
negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis
homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis
negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et
nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est
signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est
particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis negativa),
sunt contradictoriae. First he says that the enunciation that signifies the
universal, i.e., universally, is opposed contradictorily to the one that does
not signify universally but particularly, if one of them is affirmative and the
other negative (whether the universal is affirmative and the particular
negative or conversely), as in "Every man is white,” "Not every man
is white.” For, the "not every” is used in place of the particular
negative sign; consequently, "Not every man is white” is equivalent to
"Some man is not white.” In a parallel way "no,” which signifies the
same thing as "not any” or "not some,” is the universal negative sign;
consequently, the two enunciations, "Some man is white,” which is the
particular affirmative, and "No man is white,” which is the universal
negative, are contradictories. 4 Cuius ratio est quia contradictio consistit in
sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem affirmativa
removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex necessitate
ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest nisi per
universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis affirmativa non
proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod universali
affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et particulari
affirmativae universalis negativa. The reason for this is that contradiction
consists in the mere removal of the affirmation by a negation. Now the
universal affirmative is removed by merely the negation of the particular and
nothing else is required of necessity; but the particular affirmative can only
be removed by the universal negative because, as has already been said, the
particular negative is not properly opposed to the particular affirmative.
Consequently, the particular negative is opposed contradictorily to the
universal affirmative and the universal negative to the particular affirmative.
5 Deinde cum dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium
enunciationum; et dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa
sunt contrariae; sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia
scilicet universalis negativa non solum removet universalem affirmativam, sed
etiam designat extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio
ponit; et hoc pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis
affirmativa et negativa se habent sicut medium inter contraria. When he says,
They are opposed contrarily when the universal affirmation is opposed to the
universal negation, etc., he touches on the opposition of universal
enunciations. The universal affirmative and universal negative, he says, are
contraries, as in "Every man is just... No man is just”; for the universal
negative not only removes the universal affirmative but also designates an
extreme of distance between them inasmuch as it denies the whole that the
affirmation posits; and this belongs to the notion of contrariety. The
particular affirmative and particular negative, for this reason, are related as
a mean between contraries. 6 Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc.,
ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad verum et falsum.
Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi:
quaecumque igiturcontradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quae videntur
contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in universalibus et cetera.
Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt
contrariae, impossibile est quod sint simul verae. Contraria enim mutuo se
expellunt. Sed particulares, quae contradictorie opponuntur universalibus
contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus,
quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est
albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi
etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam
simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse:
potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est
pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non possunt simul esse verae,
sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul possunt esse verae. He
shows how the opposed affirmation and negation are related to truth and falsity
when he says, Hence in the case of the latter it is impossible that both be at
once true, etc. He shows this first in regard to contraries; secondly, in
regard to contradictories, where he says, Whenever there are contradictions
with respect to universal signifying universally, etc.; thirdly, in regard to
those that seem contradictory but are not, where he says, But when the
contradictions are of universals not signifying universally, etc. First, he
says that because the universal affirmative and universal negative are
contraries, it is impossible for them to be simultaneously true, for contraries
mutually remove each other. However, the particular enunciations that are
contradictorily opposed to the universal contraries, can be verified at the
same time in the same thing, for example, "Not every man is white” (which
is opposed contradictorily to "Every man is white”) and "Some man is
white” (which is opposed contradictorily to "No man is white”) . A
parallel to this is found in the contrariety of things, for white and black can
never be in the same thing at the same time; but the remotion of white and black
can be in the same thing at the same time, for a thing may be neither white nor
black, as is evident in something yellow. In a similar way, contrary
enunciations cannot be at once true, but their contradictories, by which they
are removed, can be true simultaneously. 7 Deinde cum dicit: quaecumque igitur
contradictiones etc., ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in
contradictoriis. Circa quod considerandum est quod, sicut dictum est supra, in
contradictoriis negatio non plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod
contingit dupliciter. Uno modo, quando est altera earum universalis, altera
particularis, ut supra dictum est. Alio modo, quando utraque est singularis:
quia tunc negatio ex necessitate refertur ad idem (quod non contingit in
particularibus et indefinitis), nec potest se in plus extendere nisi ut
removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa semper contradicit
singulari negativae, supposita identitate praedicati et subiecti. Et ideo dicit
quod, sive accipiamus contradictionem universalium universaliter, scilicet
quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum, semper necesse est quod
una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse simul veras aut simul
falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur esse quod est, aut non
esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse quod non est, aut non esse
quod est, ut patet ex IV metaphysicorum. Then he says, Whenever there are
contradictions with respect to universals signifying universally, one must be
true and the other false, etc. Here he shows how truth and falsity are related
in contradictories. As was said above, in contradictories the negation does no
more than remove the affirmation, and this in two ways: in one way when one of
them is universal, the other particular; in another way when each is singular.
In the case of the singular, the negation is necessarily referred to the same
thing—which is not the case in particulars and indefinites—and cannot extend to
more than removing the affirmation. Accordingly, the singular affirmative is
always contradictory to the singular negative, the identity of subject and
predicate being supposed. Aristotle says, therefore, that whether we take the
contradiction of universals universally (i.e., one of the universals being
taken universally) or the contradiction of singular enunciations, one of them
must always be true and the other false. It is not possible for them to be at
once true or at once false because to be true is nothing other than to say of
what is, that it is, or of what is not that it is not; to be false, to say of
what is not, that it is, or of what is, that it is not, as is evident in IV
Metaphysicorum [7: 1011b 25]. 8 Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium
etc., ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur
esse contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod
intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.;
tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem
subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio
et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi
propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare,
et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum
philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de
universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit
verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum
dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus,
et, homo non est probus. When he says, But when the contradictions are of
universals not signifying universally, etc., he shows how truth and falsity are
related to enunciations that seem to be contradictory, but are not. First he
proposes how they are related; then he proves it where he says, For if he is
ugly, he is not beautiful, etc.; finally, he excludes a possible difficulty
where he says, At first sight this might seem paradoxical, etc. With respect to
the first point we should note that affirmation and negation in indefinite
propositions seem to be opposed contradictorily because there is one subject in
both of them and it is not determined by a particular sign. Hence, the
affirmation and negation seem to be about the same thing. To exclude this, the
Philosopher says that in the case of affirmative and negative enunciations of
universals not taken universally, one need not always be true and the other false,
but they can be at once true. For it is true to say both that "Man is
white” and that "Man is not white,” and that "Man is honorable” and
"Man is not honorable. 9 In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui
Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit
accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali
ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae;
materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est;
dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et
ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa:
sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem
particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior
est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro
universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse
Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in
libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non
est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo
dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum
sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est
verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et
alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per
accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato
etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro
universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis
affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens;
ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem
in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id
quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa
esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo
indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior,
sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione
partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni
parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas
particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et
simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae
negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione
suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi
indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus;
sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se
de universalibus praedicantur. On this point, as Ammonius reports, some men,
maintaining that the indefinite negative is always to be taken for the
universal negative, have taken a position contradictory to Aristotle’s. They
argued their position in the following way. The indefinite, since it is
indeterminate, partakes of the nature of matter; but matter considered in
itself is regarded as what is less worthy. Now the universal affirmative is
more worthy than the particular affirmative and therefore they said that the
indefinite affirmative was to be taken for the particular affirmative. But,
they said, the universal negative, which destroys the whole, is less worthy
than the particular negative, which destroys the part (just as universal
corruption is worse than particular corruption); therefore, they said that the
indefinite negative was to be taken for the universal negative. They went on to
say in support of their position that philosophers, and even Aristotle himself,
used indefinite negatives as universals. Thus, in the book Physicorum [III, 1:
200b 32] Aristotle says that there is not movement apart from the thing; and in
the book De anima [III, 1: 424b 20], that there are not more than five senses.
However, these reasons are not cogent. What they say about matter—that
considered in itself it is taken for what is less worthy—is true according to
the opinion of Plato, who did not distinguish privation from matter; however,
it is not true according to Aristotle, who says in I Physicae [9: 192a 3 &
192a 22], that the evil and ugly and other things of this kind pertaining to
defect, are said of matter only accidentally. Therefore the indefinite need not
stand always for the more ignoble. Even supposing it is necessary that the
indefinite be taken for the less worthy, it ought not to be taken for the
universal negative; for just as the universal affirmative is more powerful than
the particular in the genus of affirmation, as containing the particular
affirmative, so also the universal negative is more powerful in the genus of
negations. Now in each genus one must consider what is more powerful in that
genus, not what is more powerful simply. Further, if we took the position that
the particular negative is more powerful than all other modes, the reasoning
still would not follow, for the indefinite affirmative is not taken for the
particular affirmative because it is less worthy, but because something can be
affirmed of the universal by reason of itself, or by reason of the part
contained under it; whence it suffices for the truth of the particular
affirmative that the predicate belongs to one part (which is designated by the
particular sign); for this reason the truth of the particular affirmative
suffices for the truth of the indefinite affirmative. For a similar reason the
truth of the particular negative suffices for the truth of the indefinite
negative, because in like manner, something can be denied of a universal either
by reason of itself, or by reason of its part. Apropos of the examples cited
for their argument, it should be noted that philosophers sometimes use
indefinite negatives for universals in the case of things that are per se
removed from universals; and they use indefinite affirmatives for universals in
the case of things that are per se predicated of universals. 10 Deinde cum
dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus
concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si
particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas
indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita
praedicata: quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum
perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo,
idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro.
Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine
existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam
homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo
est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus;
ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est probus: et
eadem ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem
oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur
ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius
quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in
successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est
albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit
albus, haec est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus.
Ergo istae duae sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus. When he
says, For if he is ugly, he is not beautiful, etc., he proves what he has
proposed by something conceded by everyone, namely, that the indefinite
affirmative is verified if the particular affirmative is true. We may take two
indefinite affirmatives, one of which includes the negation of the other, as
for example when they have opposed predicates. Now this opposition can happen in
two ways. It can be according to perfect contrariety, as shameful (i.e.,
dishonorable) is opposed to worthy (i.e., honorable) and ugly (i.e., deformed
in body) is opposed to beautiful. But the reasoning by which the affirmative
enunciation, "Man is worthy,” is true, i.e., by some worthy man existing,
is the same as the reasoning by which "Man is shameful” is true, i.e., by
a shameful man existing. Therefore these two enunciations are at once true,
"Man is worthy” and "Man is shameful.” But the enunciation, "Man
is not worthy,” follows upon "Man is shameful.” Therefore the two
enunciations, " Man is worthy,” and "Man is not worthy,” are at once
true; and by the same reasoning these two, "Man is beautiful” and
"Man is not beautiful.” The other opposition is according to the complete
and incomplete, as to be in movement is opposed to to have been moved, and
becoming to to have become. Whence the non-being of that which is coming to be
in permanent things, whose being is complete, follows upon the becoming but this
is not so in successive things, whose being is incomplete. Thus, "Man is
white” is true by the fact that a white man exists; by the same reasoning,
because a man is becoming white, the enunciation "Man is becoming white”
is true, upon which follows, "Man is not white.” Therefore, the two
enunciations, "Man is white” and "Man is not white” are at once true.
11 Deinde cum dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret
dubitationem circa praedicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu
videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non
est albus, videtur idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus.
Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant neque ex necessitate
sunt simul vera, sicut ex praedictis manifestum est. Then when he says, At
first sight this might seem paradoxical, etc., he excludes what might present a
difficulty in relation to what has been said. At first sight, he says, what has
been stated seems to be inconsistent; for "Man is not white” seems to
signify the same thing as "No man is white.” But he rejects this when he
says that they neither signify the same thing, nor are they at once true
necessarily, as is evident from what has been said. XII. 1. Postquam
philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus, nunc
intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa hoc
duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur;
secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem
affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit;
secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quae
dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera. Having distinguished the
diverse modes of opposition in enunciations, the Philosopher now proposes to
show that there is one negation opposed to one affirmation. First he shows that
there is one negation opposed to one affirmation; then he manifests what one
affirmation and negation are, where he says, Affirmation or negation is one
when one thing is signified of one thing, etc. With respect to what he intends
to do he first proposes the point; then he manifests it where he says, for the
negation must deny the same thing that the affirmation affirms, etc. Finally,
he gives a summary of what has been said, where he says, We have said that
there is one negation opposed contradictorily to one affirmation, etc. 2 Dicit ergo primo, manifestum esse quod unius
affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem fuit necessarium hic dicere:
quia cum posuerit plura oppositionum genera, videbatur quod uni affirmationi
duae negationes opponerentur; sicut huic affirmativae, omnis homo est albus,
videtur, secundum praedicta, haec negativa opponi, nullus homo est albus, et
haec, quidam homo non est albus. Sed si quis recte consideret huius
affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola ista, quidam homo non est
albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua aequipollenti, quae est,
non omnis homo est albus. Universalis vero negativa includit quidem in suo
intellectu negationem universalis affirmativae, in quantum includit
particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in quantum scilicet
importat non solum remotionem universalitatis, sed removet quamlibet partem
eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis affirmationis: et idem
apparet in aliis. He says, then, that it is evident that there is only one
negation of one affirmation. It is necessary to make this point here because he
has posited many kinds of opposition and it might appear that two negations are
opposed to one affirmation. Thus it might seem that the negative enunciations,
"No man is white” and "Some man is not white” are both opposed to the
affirmative enunciation, "Every man is white.” But if one carefully
examines what has been said it will be evident that the only negative opposed
to "Every man is white” is "Some man is not white,” which merely
removes it, as is clear from its equivalent, "Not every man is white.” It is
true that the negation of the universal affirmative is included in the
understanding of the universal negative inasmuch as the universal negative
includes the particular negative, but the universal negative adds something
over and beyond this inasmuch as it not only brings about the removal of
universality but removes every part of it. Thus it is evident that there is
only one negation of a universal affirmation, and the same thing is evident in
the others. 3 Deinde cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo,
per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus.
Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur
affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet
negationem negare illud idem praedicatum, quod affirmatio affirmavit et de
eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid
universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed hoc non
contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod affirmatio
posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola negatio. When
he says, for the negation must deny the same thing that the affirmation
affirms, etc., he manifests what he has said: first, from reason; secondly, by
example. The reasoning is taken from what has already been said, namely, that
negation is opposed to affirmation when the enunciations are of the same thing
of the same subject. Here he says that the negation must deny the same
predicate the affirmation affirms, and of the same subject, whether that
subject he something singular or something universal, either taken universally
or not taken universally. But this can only be done in one way, i.e., when the
negation denies what the affirmation posits, and nothing else. Therefore there
is only one negation opposed to one affirmation. 4 Deinde cum dicit: dico
autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in
singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur, Socrates
non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud praedicatum
vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut
ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates est albus;
neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates non est
albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale
universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur
sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quae aequipollet
particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum
est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis
homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus.
Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum
quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod
isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa
quae est, non est homo albus. In manifesting this by example, where he says,
For example, the negation of "Socrates is white,” etc., he first takes
examples of singulars. Thus, "Socrates is not white” is the proper
negation opposed to "Socrates is white.” If there were another predicate
or another subject, it would not be the opposed negation, but wholly different.
For example, "Socrates is not musical” is not opposed to "Socrates is
white,” nor is "Plato is white” opposed to "Socrates is not white.”
Then he manifests the same thing in an affirmation with a universal universally
taken as the subject. Thus, "Not every man is white,” which is equivalent
to the particular negative, is the proper negation opposed to the affirmation,
"Every man is white.” Thirdly, he gives an example in which the subject of
the affirmation is a universal taken particularly. The proper negation opposed
to the affirmation "Some man is white” is "No man is white,” for to
say "no” is to say "not any,” i.e., "not some.” Finally, he
gives as an example enunciations in which the subject of the affirmation is the
universal taken indefinitely; "Man is not white” is the proper negation
opposed to the affirmation "Man is white.” 5 Sed videtur hoc esse contra
id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum
indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua
opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad
hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem
refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo,
quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de
eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid
affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur. The
last example used to manifest his point seems to be contrary to what he has
already said, namely, that the indefinite negative and the indefinite
affirmative can be simultaneously verified; but a negation and its opposite
affirmation cannot be simultaneously verified, since it is not possible to
affirm and deny of the same subject. But what Aristotle is saying here must be
understood of the negation when it is referred to the same thing the affirmation
contained, and this is possible in two ways: in one way, when something is
affirmed to belong to man by reason of what he is (which is per se to be
predicated of the same thing), and this very thing the negation denies;
secondly, when something is affirmed of the universal by reason of its
singular, and the same thing is denied of it. 6 Deinde cum dicit: quod igitur
una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex
praedictis quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum
affirmationum et negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et
dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt
recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis
contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large contradictio pro
qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere
contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam
oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt
contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit
etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas
esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem
falsa, quia scilicet in his quae vere sunt contradictoria. He concludes by
summarizing what has been said: We have said that there is one negation opposed
contradictorily to one affirmation, etc. He considers it evident from what has
been said that one negation is opposed to one affirmation; and that of opposite
affirmations and negations, one kind are contraries, the other contradictories;
and that what each kind is has been stated. He does not speak of subcontraries
because it is not accurate to say that they are opposites, as was said above.
He also says here that it has been shown that not every contradiction is true
or false, "contradiction” being taken here broadly for any kind of
opposition of affirmation and negation; for in enunciations that are truly
contradictory one is always true and the other false. The reason why this may
not be verified in some kinds of opposites has already been stated, namely,
because some are not contradictories but contraries, and these can be false at
the same time. It is also possible for affirmation and negation not to be
properly opposed and consequently to be true at the same time. It has been
stated, however, when one is always true and the other false, namely, in those
that are truly contradictories. 7 Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc.,
ostendit quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat,
ubi habitum est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia
enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel
non universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non
impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod
unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub
universali, cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas
enunciationis per multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi:
si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio
cum unum significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale
universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale
particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et
exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo
est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet
non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine
autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum
sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola
multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis
propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia
praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se
divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi. The Philosopher explains
what one affirmation or negation is where he says, Affirmation or negation is
one when one thing is signified of one thing, etc. He did in fact state this
earlier when he said that an enunciation is one when it signifies one thing,
but because the enunciation in which something is predicated of a universal,
either universally or not universally, contains under it many things, he is
going to show here that unity of enunciation is not impeded by this. First he
shows that unity of enunciation is not impeded by the multitude contained under
the universal, whose notion is one. Then he shows that unity of enunciation is
impeded by the multitude contained under the unity of a name only, where he
says, But if one name is imposed for two things, etc. He says, then, that an
affirmation or negation is one when one thing is signified of one thing,
whether the one thing that is subjected be a universal taken universally, or
not, i.e., it may be a universal taken particularly or indefinitely, or even a
singular. He gives examples of the differ6nt kinds: such as, the universal
affirmative "Every man is white” and the particular negative, which is its
negation, "Not every man is white,” each of which is one. There are other
examples which are evident. At the end he states a condition that is required
for any of them to be one, i.e., provided the "white,” which is the
predicate, signifies one thing; for a multiple predicate with a subject
signifying one thing would also impede the unity of an enunciation. The
universal proposition is therefore one, even though it comprehends a multitude
of singulars under it, for the predicate is not attributed to many singulars according
as each is divided from the other, but according as they are united in one
common thing. 8 Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola
unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor
facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis
ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert
corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod
si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est
affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi
dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno
universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat
utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum
quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod
ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et
differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales
alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale
praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod
illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum
modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum
quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est nomen. When
he says, But if one name is imposed for two things, he shows that unity of name
alone does not suffice for unity of an enunciation. He first makes the point;
secondly, he gives an example, where he says, if someone were to impose the
name "cloak” on horse and man, etc.; thirdly, he proves it where he says,
For this is no different from saying "Horse and man is white,” etc.;
finally, he infers a corollary from what has been said, where he says,
Consequently, in such enunciations, it is not necessary, etc. If one name is
imposed for two things, he says, from which one thing is not formed, there is
not one affirmation. The from which one thing is not formed can be understood
in two ways. It can be understood as excluding the many that are contained
under one universal, as man and horse under animal, for the name "animal”
signifies both,.not as they are many and different from each other but as they
are united in the nature of the genus. It can also be understood—and this would
be more accurate—as excluding the many parts from which something one is
formed, whether the parts of the notion as known, as the genus and the
difference, which are parts of the definition, or the integral parts of some
composite, as the stones and wood from which a house is made. If, then, there
is such a predicate which is attributed to a thing, the many that are signified
must concur in one thing according to some of the modes mentioned in order that
there be one enunciation; unity of vocal sound alone would not suffice.
However, if there is such a predicate which is referred to vocal sound, unity
of vocal sound would suffice, as in "‘Dog’is a name.” 9 Deinde cum dicit:
ut si quis etc., exemplificat quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica
imponat ad significandum hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba,
non est affirmatio una, neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim differt
etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et equum,
nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et,
equus est albus; sed istae, homo est albus, et equus est albus, significant
multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa
significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas: si vero
significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non
est aliqua res quae componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non
differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non
est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo
est albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera:
sed haec, tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam
altera existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices
propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum
quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus
et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum;
ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba. He gives an example of what he
means where he says, For example, if someone were to impose the name
"cloak,” etc. That is, if someone were to impose the name "cloak” to
signify man and horse and then said, "Cloak is white,” there would not be
one affirmation, nor would there be one negation. He proves this where he says,
For this is no different from saying, etc. His argument is as follows. If
"cloak” signifies man and horse there is no difference between saying
"Cloak is white” and saying, "Man is white, and, Horse is white.” But
"Man is white, and, horse is white” signify many and are many
enunciations. Therefore, the enunciation, "Cloak is white,” signifies many
things. This is the case if "cloak” signifies man and horse as diverse
things; but if it signifies man and horse as one thing, it signifies nothing,
for there is not any thing composed of man and horse. When Aristotle says that
there is no difference between saying "Cloak is white” and, "Man is
white, and, horse is white,” it is not to be understood with respect to truth
and falsity. For the copulative enunciation "Man is white and horse is
white” cannot be true unless each part is true; but the enunciation "Cloak
is white,” under the condition given, can be true even when one is false;
otherwise it would not be necessary to distinguish multiple propositions to
solve sophistic arguments. Rather, it is to be understood with respect to unity
and multiplicity, for just as in "Man is white and horse is white” there
is not some one thing to which the predicate is attributed, so also in "Cloak
is white.” 10 Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex praemissis
quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae utuntur subiecto
aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet
negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. When he says,
Consequently, it is not necessary in such enunciations, etc., he concludes from
what has been said that in affirmations and negations that use an equivocal
subject, one need not always be true and the other false since the negation may
deny something other than the affirmation affirms. XIII. 1. Postquam
philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo
dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod
poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum est similiter inveniatur in
omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit
dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et cetera. Now
that he, has treated opposition of enunciations and has shown the way in which
opposed enunciations divide truth and falsity, the Philosopher inquires about a
question that might arise, namely, whether what has been said is found to be so
in all enunciations or not. And first he proposes a dissimilarity in
enunciations with regard to dividing truth and falsity, then proves it where he
says, For if every affirmation or negation is true or false, etc. 2 Circa
primum considerandum est quod philosophus in praemissis triplicem divisionem
enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem enunciationis,
prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione una; secunda
fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est affirmativa vel
negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod enunciatio quaedam est
universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et quaedam singularis. In
relation to the dissimilarity which he intends to prove we should recall that
the Philosopher has given three divisions of the enunciation. The first was in
relation to the unity of enunciation, and according to this it is divided into
one simply and one by conjunction; the second was in relation to quality, and
according to this it is divided into affirmative and negative; the third was in
relation to quantity, and according to this it is either universal, particular,
indefinite, or singular. 3 Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum
secundum tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam
de futuro; et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt:
dictum est enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex
casu verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem
verbi sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem
accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio
attenditur secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per
se insit subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut
cum dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per
se repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse
in materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero
medio modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet
subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive
contingenti. Here he treats of a fourth division of enunciation, a division
according to time. Some enunciations are about the present, some about the
past, some about the future. This division could be seen in what Aristotle has
already said, namely, that every enunciation must have a verb or a mode of a
verb, the verb being that which signifies the present time, the modes with past
or future time. In addition, a fifth division of the enunciation can be made, a
division in regard to matter. It is taken from the relationship of the
predicate to the subject. If the predicate is per se in the subject, it will be
said to be an enunciation in necessary or natural matter. Examples of this are
"Man is an animal” and "Man is risible.” If the predicate is per se
repugnant to the subject, as excluding the notion of it, it is said to be an
enunciation in impossible or remote matter; for example, the enunciation
"Man is an ass.” If the predicate is related to the subject in a way
midway between these two, being neither per se repugnant to the subject nor per
se in it, the enunciation is said to be in possible or contingent matter. 4 His
igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter se habet iudicium
de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit, ex praemissis
concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de praesenti, et in
his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito, necesse est quod
affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa. Diversificatur tamen
hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in enunciationibus, in
quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter praedicatur, necesse
est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel negativa, et altera
falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra quod negatio
enunciationis universalis in qua aliquid universaliter praedicatur, est negativa
non universalis, sed particularis, et e converso universalis negativa non est
directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et sic oportet,
secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa in quacumque
materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae etiam
contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus, in
quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse
quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae,
ut supra ostensum est. Given these differences of enunciations, the judgment of
truth and falsity is not alike in all. Accordingly, the Philosopher says, as a
conclusion from what has been established: In enunciations about that which is,
i.e., in propositions about the present, or has taken place, i.e., in
enunciations about the past, the affirmation or the negation must be
determinately true or false. However, this differs according to the different
quantity of the enunciations. In enunciations in which something is universally
predicated of universal subjects, one must always be true, either the
affirmative or negative, and the other false, i.e., the one opposed to it. For
as was said above, the negation of a universal enunciation in which something
is predicated universally, is not the universal negative, but the particular
negative, and conversely, the universal negative is not directly the negation
of the universal affirmative, but the particular negative. According to the foregoing,
then, one of these must always be true and the other false in any matter
whatever. And the same is the case in singular enunciations, which are also
opposed contradictorily. However, in enunciations in which something is
predicated of a universal but not universally, it is not necessary that one
always be true and the other false, for both could be at once true. 5 Et hoc
quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de praeterito vel de
praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro, etiam
similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus vel
universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes
affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et
praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e contrario.
In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in
futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque
simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel praeteritis. The case as it
was just stated has to do with propositions about the past or the present.
Enunciations about the future that are of universals taken either universally
or not universally are also related in the same way in regard to oppositions.
In necessary matter all affirmative enunciations are determinately true; this
holds for enunciations in future time as well as in past and present time; and
negative enunciations are determinately false. In impossible matter the contrary
is the case. In contingent matter, however, universal enunciations are false
and particular enunciations true. This is the case in enunciations about the
future as well as those of the past and present. In indefinite enunciations,
both are at once true in future enunciations as well as in those of the present
or the past. 6 Sed in singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in
praeteritis et praesentibus necesse est quod altera oppositarum determinate sit
vera et altera falsa in quacumque materia; sed in singularibus quae sunt de
futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit vera et altera falsa. Et
hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem: nam quantum ad materiam
necessariam et impossibilem similis ratio est in futuris singularibus, sicut in
praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia
contingenti, quia illa proprie ad singularia pertinent quae contingenter
eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus
secundum universalium rationes. Circa hoc igitur versatur tota praesens
intentio: utrum in enunciationibus singularibus de futuro in materia
contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit vera et altera
falsa. In singular future enunciations, however, there is a difference. In past
and present singular enunciations, one of the opposites must be determinately
true and the other false in any matter whatsoever, but in singulars that are
about the future, it is not necessary that one be determinately true and the
other false. This holds with respect to contingent matter; with respect to
necessary and impossible matter the rule is the same as in enunciations about
the present and the past. Aristotle has not mentioned contingent matter until
now because those things that take place contingently pertain exclusively to
singulars, whereas those that per se belong or are repugnant are attributed to
singulars according to the notions of their universals. Aristotle is therefore
wholly concerned here with this question: whether in singular enunciations
about the future in contingent matter it is necessary that one of the opposites
be determinately true and the other determinately false. 7 Deinde cum dicit:
nam si omnis affirmatio etc., probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo
facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa
esse impossibilia quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris
non semper potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo,
ostendit quod non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero
nequequoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit
quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio
determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis,
consequens est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde
cum dicit: quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in
Graeco, probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines,
quorum unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero
dicat hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet
quod in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel
affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum
dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus
propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et
negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse
est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse
vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter
consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re.
Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod
album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare,
ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re
vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et
eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum
dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel
negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat,
sequitur quod affirmans vel negans mentiatur. He proves that there is a
difference between these opposites and the others where he says, For if every
affirmation or negation is true or false, etc. First he proves it by showing
that the opposite position leads to what is unlikely; secondly, he shows that
what follows from this position is impossible, where he says, These absurd
consequences and others like them, etc. In his proof he first shows that in
enunciations about future singulars, truth cannot always be determinately
attributed to one of the opposites, and then he shows that both cannot lack
truth, where he says, But still it is not possible to say that neither is true,
etc. He gives two arguments with respect to the first point. In the first of
these he states a certain consequence, namely, that if every affirmation or
negation is determinately true or false, in future singulars as in the others,
it follows that all things must determinately be or not be. He proves this
consequence where he says, wherefore, if one person says, etc.,or as it is in
the Greek, for if one person says something will be, etc.”’ Let us suppose, he
argues, that there are two men, one of whom says something will take place in
the future, for instance, that Socrates will run, and the other says this same
thing will not take place. If the foregoing position is supposed—that in
singular future enunciations one of them will be true, either the affirmative
or the negative it would follow that only one of them is saying what is true,
because in singular future propositions both cannot be at once true, that is,
both the affirmative and the negative. This occurs only in indefinite
propositions. Moreover, from the fact that one of them must be speaking the
truth, it follows that it must determinately be or not be. Then he proves this
from the fact that these two follow upon each other convertibly, namely, truth
is that which is said and which is so in reality. And this is what he manifests
when he says that, if it is true to say that a thing is white, it necessarily
follows that it is so in reality; and if it is true to deny it, it necessarily
follows that it is not so. And conversely, for if it is so in reality, or is
not, it necessarily follows that it is true to affirm or deny it. The same
convertibility is also evident in what is false, for if someone lies, saying
what is false, it necessarily follows that in reality it is not as he affirms
or denies it to be; and conversely, if it is not in reality as he affirms or
denies it to be, it follows that in affirming or denying it he lies. 8. Est
ergo processus huius rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel
negatio in singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis
affirmans vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur
quod omne necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio
determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc
concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus
contingentium excluditur. The process of Aristotle’s reasoning is as follows.
If it is necessary that every affirmation or negation about future singulars is
true or false, it is necessary that everyone who affirms or denies,
determinately says what is true or false. From this it follows that it is
necessary that everything be or not be. Therefore, if every affirmation or negation
is determinately true, it is necessary that everything determinately be or not
be. From this he concludes further that all things are of necessity. This would
exclude the three kinds of contingent things. 9 Quaedam enim contingunt ut in
paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad
utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et
ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut
hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex
necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est
quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit
quantum ad productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad
ea quae sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea
quae se habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad
neutrum horum sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non
erit. De eo enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus
determinate verum dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de
convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius
sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in II de generatione quod futurus
quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad
incedendum, vere potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens
impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia
non determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate
dici, neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil
sit ad utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis
affirmatio vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat
vel ille qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet:
quia, si esse aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret
vel non fieret, et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem considerandum
quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut in pluribus,
duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit quin altera
oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est.
Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit,
removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt
id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in
minori parte. The three kinds of contingent things are these: some, the ones
that happen by chance or fortune, happen infrequently; others are in
determinate to either of two alternatives because they are not inclined more to
one part than to another, and these proceed from choice; still others occur for
the most part, for example, men becoming gray in old age, which is caused by
nature. If, however, everything took place of necessity, there would be none of
these kinds of contingent things. Therefore, Aristotle says, nothing is with
respect to the very permanence of those things that are contingently permanent;
or takes place with respect to those that are caused contingently; by chance
with respect to those that take place for the least part, or infrequently; or is
indeterminate to either of two alternatives with respect to those that are
related equally to either of two, i.e., to being or to nonbeing, and are
determined to neither of these, which he signifies when he adds, or will be, or
will not be. For of that which is more determined to one part we can truly and
determinately say that it will be or will not be, as for example, the physician
truly says of the convalescent, "He will be restored to health,” although
perchance by some accident his cure may be impeded. The Philosopher makes this
same point when he says in II De generatione [11: 337b 7], "A man about to
walk might not walk.” For it can be truly said of someone who has the
determined intention to walk that he will walk, although by some accident his
walking might be impeded. But in the case of that which is indeterminate to
either of two, it cannot determinately be said of it either that it will be or
that it will not be, for it is proper to it not to be determined more to one
than to another. Then he manifests how it follows from the foregoing hypothesis
that nothing is indeterminate to either of two when he adds that if every
affirmation or negation is determinately true, then either the one who affirms
or the one who denies must be speaking the truth. That which is indeterminate
to either of two is therefore destroyed, for if there is something
indeterminate to either of two, it would be related alike to taking place or
not taking place, and no more to one than to the other. It should be, noted
that the Philosopher is not expressly excluding the contingent that is for the
most part. There are two reasons for this. In the first place, this kind of
contingency still excludes the determinate truth of one of the opposite
enunciations and the falsity of the other, as has been said. Secondly, when the
contingent that is infrequent, i.e., that which takes place by chance, is
removed, the contingent that is for the most part is removed as a consequence,
for there is no difference between that which is for the most part and that
which is infrequent except that the former fails for the least part. 10 Deinde
cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam rationem ad ostendendum
praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet
veritas et falsitas in praesentibus et futuris, sequitur ut quidquid verum est
de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo modo quo est verum de praesenti.
Sed determinate nunc est verum dicere de aliquo singulari quod est album; ergo
primo, idest antequam illud fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit
album. Sed eadem ratio videtur esse in propinquo et in remoto; ergo si ante
unum diem verum fuit dicere quod hoc erit album, sequitur quod semper fuit
verum dicere de quolibet eorum, quae facta sunt, quod erit. Si autem semper est
verum dicere de praesenti quoniam est, vel de futuro quoniam erit, non potest
hoc non esse vel non futurum esse. Cuius consequentiae ratio patet, quia ista
duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere dicatur esse, et quod non sit. Nam
hoc includitur in significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur
verum esse id quod dicitur de praesenti vel de futuro, non potest esse quin
illud sit praesens vel futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat
cum eo quod est impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem
significat cum eo quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur.
Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae futura sunt, necesse est fieri. Ex
quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia
illud quod accidit a casu non est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc
autem relinquit pro inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod
omne quod est verum esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum. When he
says, Furthermore, on such a supposition, if something is now white, it was
true to say formerly that it will be white, etc., he gives a second argument to
show the dissimilarity of enunciations about future singulars. This argument is
by reduction to the impossible. If truth and falsity. are related in like
manner in present and in future enunciations, it follows that whatever is true
of the present was also true of the future, in the way in which it is true of
the present. But it is now determinately true to say of some singular that it
is white; therefore formerly, i.e., before it became white, it was true to say
that this will be white. Now the same reasoning seems to hold for the proximate
and the remote. Therefore, if yesterday it was true to say that this will be
white, it follows that it was always true to say of anything that has taken
place that it will be. And if it is always true to say of the present that it
is, or of the future that it will be, it is not possible that this not be, or,
that it will not be. The reason for this consequence is evident, for these two
cannot stand together, that something truly be said to be, and that it not be;
for this is included in the signification of the true, that that which is said,
is. If therefore that which is said concerning the present or the future is
posited to be true, it is not possible that this not be in the present or
future. But that which cannot not take place signifies the same thing as that
which is impossible not to take place. And that which is impossible not to take
place signifies the same thing as that which necessarily takes place, as will
be explained more fully in the second book. It follows, therefore, that all
things that are future must necessarily take place. From this it follows
further, that there is nothing that is indeterminate to either of two or that
takes place by chance, for what happens by chance does not take place of
necessity but happens infrequently. But this is unlikely. Therefore the first
proposition is false, i.e., that of everything of which it is true that it is,
it was determinately true to say that it would be. 11 Ad cuius evidentiam
considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod
est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in
praesenti habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed
quamdiu aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua
causa: quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut
ex necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa;
unde determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua
causa, ut quae habet inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri
potest; unde et hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de
hoc vere dici potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio,
aliquid est in sua causa pure in potentia, quae etiam non magis est determinata
ad unum quam ad aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum
determinate dici quod sit futurum, sed quod sit vel non sit. For clarification
of this point, we must consider the following. Since "true” signifies that
something is said to be what it is, something is true in the manner in which it
has being. Now, when something is in the present it exists in itself, and hence
it can be truly said of it that it is. But as long as something is future, it
does not yet exist in itself, but it is in a certain way in its cause, and this
in a threefold way. It may be in its cause in such a way that it comes from it
necessarily. In this case it has being determinately in its cause, and
therefore it can be determinately said of it that it will be. In another way,
something is in its cause as it has an inclination to its effect but can be
impeded. This, then, is determined in its cause, but changeably, and hence it
can be truly a said of it that it will be but not with complete certainty.
Thirdly, something is in its cause purely in potency. This is the case in which
the cause is as yet not determined more to one thing than to another, and
consequently it cannot in any way be said determinately of these that it is
going to be, but that it is or is not going to be. 12 Deinde cum dicit: at vero
neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus
futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut
non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate,
sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque
erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum
duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum
et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum
quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam
esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit
falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem
affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et
similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta
positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum.
Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est:
si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere
quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut
de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si
ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit,
oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est
ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale
bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod
in praemissis. Then Aristotle says, But still it is not possible to say that
neither is true, etc. Here he shows that truth is not altogether lacking to
both of the opposites in singular future enunciations. First he says that just
as it is not true to say that in such enunciations one of the opposites is
determinately true, so it is not true to say that neither is true; as if we
could say that a thing neither will take place nor will not take place. Then
when he says, In the first place, though the affirmation be false, etc., he
gives two arguments to prove his point. The first is as follows. Affirmation
and negation divide the true and the false. This is evident from the definition
of true and false, for to be true is to be what in fact is, or not to be what
in fact is not; and to be false is to be what in fact is not, or not to be what
in fact is. Consequently, if the affirmation is false, the negation must be
true, and conversely. But if the position is taken that neither is true, the
affirmation, "This will be” is false, yet the negation is not true;
likewise the negation will be false and the affirmation not be true. Therefore,
the aforesaid position is impossible, i.e., that truth is lacking to both of
the opposites. The second argument begins where he says, Secondly, if it is
true to say that a thing is white and large, etc. The argument is as follows.
If it is true to say something, it follows that it is. For example, if it is
true to say that something is large and white, it follows that it is both. And
this is so of the future as of the present, for if it is true to say that it
will be tomorrow, it follows that it will be tomorrow. Therefore, if the
position that it neither will be or not be tomorrow is true, it will be
necessary that it neither happen nor not happen, which is contrary to the
nature of that which is indeterminate to either of two, for that which is
indeterminate to either of two is related to either; for example, a naval
battle will take place tomorrow, or will not. The same unlikely things follow,
then, from this as from the first argument. XIV. 1. Ostenderat superius
philosophus ducendo ad inconveniens quod non est similiter verum vel falsum
determinate in altero oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de
aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quae
adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit
impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit quomodo circa haec se
veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera. The Philosopher has
shown—by leading the opposite position to what is unlikely—that in singular
future enunciations truth or falsity is not determinately in one of the
opposites, as it is in other enunciations. Now he is going to show that the
unlikely things to which it has led are impossibilities. First he shows that
the things that followed are impossibilities; then he concludes what the truth
is, where he says, Now that which is, when it is, necessarily is, etc. 2 Circa
primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo,
ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim
prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi:
quod si haecpossibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis
rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod
necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram
esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet
nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex
necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum
est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum
quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de
contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod
omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae
est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex
necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed
hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et
negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid
aliud, erit alius finis. With respect to the impossibilities that follow he
first states the unlikely things that follow from the opposite position, then
shows that these follow from the aforesaid position, where he says, For nothing
prevents one person from saying that this will be so in ten thousand years,
etc. Finally he shows that these are impossibilities where he says, But these
things appear to be impossible, etc. He says, then, concluding from the
preceding reasoning, that these unlikely things follow—if the position is taken
that of opposed enunciations one of the two must be determinately true and the
other false in the same way in singular as in universal enunciations—namely,
that in things that come about nothing is indeterminate to either of two, but
all things are and take place of necessity. From this he infers two other
unlikely things that follow. First, it will not be necessary to deliberate
about anything; whereas he proved in III Ethicorum [3: 1112a 19] that counsel
is not concerned with things that take place necessarily but only with
contingent things, i.e., things which can be or not be. Secondly, all human
actions that are for the sake of some end (for example, a business transaction
to acquire riches) will be superfluous, because what we intend will take place
whether we take pains to bring it about or not—if all things come about of
necessity. This, however, is in opposition to the intention of men, for they
seem to deliberate and to transact business with the intention that if they do
this there will be such a result, but if they do something else, there will be
another result. 3 Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta
inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo,
ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo,
ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi:
at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante
mille annos, quando nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de
his quae nunc aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis
subverteretur, alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio
vel negatio determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate
verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem
ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt. Where he says,
For nothing prevents one person from saying that this will be so in ten
thousand years, etc., he proves that the said unlikely things follow from the
said position. First he shows that the unlikely things follow from the positing
of a certain possibility; then he shows that the same unlikely things follow
even if that possibility is not posited, where he says, Moreover, it makes no
difference whether people have actually made the contradictory statements or
not, etc. He says, then, that it is not impossible that a thousand years
before, when men neither knew nor ordained any of the things that are taking
place now, a man said, "This will be,” for example, that such a state
would be overthrown, and another man said, "This will not be.” But if
every affirmation or negation is determinately true, one of them must have
spoken the truth. Therefore one of them had to take place of necessity; and
this same reasoning holds for all other things. Therefore everything takes
place of necessity. Aquinas lib. 1 l. 14 n. 4Deinde cum dicit: at vero neque
hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur.
Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante
hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si
hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum
affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia
veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e
converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur,
utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque
tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas
enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad
hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel
fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex
necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si
ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut
supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim
significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur.
Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt,
quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel
praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident,
quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens,
semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.Then he shows that the same
thing follows if this possibility is not posited where he says, Moreover, it
makes no difference whether people have actually made the contradictory
statements or not, etc. It makes no difference in relation to the existence or
outcome of things whether a person denies that this is going to take place when
it is affirmed, or not; for as was previously said, the event will either take
place or not whether the affirmation and denial have been made or not. That
something is or is not does not result from a change in the course of things to
correspond to our affirmation or denial, for the truth of our enunciation is
not the cause of the existence of things, but rather the converse. Nor does it
make any difference to the outcome of what is now being done whether it was
affirmed or denied a thousand years before, or at any other time before.
Therefore, if in all past time, the truth of enunciations was such that one of
the opposites had to have been truly said and if upon the necessity of
something being truly said it follows that this must be or take place, it will
follow that everything that takes place is such that it takes place of
necessity. The reason he assigns for this consequence is the following. If it
is posited that someone truly says this will be, it is not possible that it
will not be, just as having supposed that man is, he cannot not be a rational
mortal animal. For to be truly said means that it is such as is said. Moreover,
the relationship of what is said. now to what will be is the same as the
relationship of what was said previously to what is in the present or the past.
Therefore, all things have necessarily happened, and they are necessarily
happening, and they will necessarily happen, for of what is accomplished now,
as existing in the present or in the past, it was always true to say that it would
be. 5 Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit
praedicta esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla
sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit:
primo, ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus;
ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit
esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse
principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et
in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si
removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia
philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis,
nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines
alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis
scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit
principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod
consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent
dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam
naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde
impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari.
Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex
necessitate eveniant. When he says, But these things appear to be impossible,
etc., he shows that what has been said is impossible. He shows this first by
reason, secondly by sensible examples, where he says, We can point to many
clear instances of this, etc. First he argues that the position taken is
impossible in relation to human affairs, for clearly man seems to be the
principle of the future things that he does insofar as he is the master of his
own actions and has the power to act or not to act. Indeed, to reject this
principle would be to do away with the whole order of human association and all
the principles of moral philosophy. For men are attracted to good and withdrawn
from evil by persuasion and threat, and by punishment and reward; but rejection
of this principle would make these useless and thus nullify the whole of civil
science. Here the Philosopher accepts it as an evident principle that man is
the principle of future things. However, he is not the principle of future
things unless he deliberates about a thing and then does it. In those things
that men do without deliberation they do not have dominion over their acts,
i.e., they do not judge freely about things to be done, but are moved to act by
a kind of natural instinct such as is evident in the case of brute animals.
Hence, the conclusion that it is not necessary for us to take pains about
something or to deliberate is impossible; likewise what it followed from is
impossible, i.e., that all things take place of necessity. Aquinas lib. 1 l. 14
n. 6Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit idem etiam in aliis
rebus. Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse quaedam, quae non
semper actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse: alioquin vel semper
essent, vel semper non essent. Id autem quod non est, incipit esse aliquid per
hoc quod fit illud; sicut id quod non est album, incipit esse album per hoc
quod fit album. Si autem non fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus
contingit esse et non esse, contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia
ex necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam
se habent ad fieri et non fieri, esse et non esse. Then he shows that this is
also the case in other things where he says, and that universally in the things
not always in act, there is a potentiality to be and not to be, etc. In natural
things, too, it is evident that there are some things not always in act; it is
therefore possible for them to be or not be, otherwise they would either always
be or always not be. Now that which is not begins to be something by becoming
it; as for example, that which is not white begins to be white by becoming
white. But if it does not become white it continues not to be white. Therefore,
in things that have the possibility of being and not being, there is also the
possibility of becoming and not becoming. Such things neither are nor come to
be of necessity but there is in them the kind of possibility which disposes
them to becoming and not becoming, to being and not being. 7 Deinde cum dicit:
ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit
enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam possibile est incidi, quia
nihil obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat
autem quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi, possibile est etiam eam
non incidi, eodem modo quo supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul
veras, scilicet per assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam
vestem incidi, ita possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si
exteritur non inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et
non incidi. Et ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non
sunt in actu semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex
necessitate sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se
habent magis ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus
alterum eorum contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in
paucioribus quod altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut
in pluribus. Next he shows the impossibility of what was said by examples perceptible
to the senses, where he says, We can point to many clear instances of this,
etc. Take a new garment for example. It is evident that it is possible to cut
it, for nothing stands in the way of cutting it either on the part of the agent
or the patient. He proves it is at once possible that it be cut and that it not
be cut in the same way he has already proved that two opposed indefinite
enunciations are at once true, i.e., by the assumption of contraries. just as
it is possible that the garment be cut, so it is possible that it wear out,
i.e., be corrupted in the course of time. But if it wears out it is not cut.
Therefore both are possible, i.e., that it be cut and that it not be cut. From
this he concludes universally in regard to other future things which are not
always in act, but are in potency, that not all are or take place of necessity;
some are indeterminate to either of two, and therefore are not related any more
to affirmation than to negation; there are others in which one possibility happens
for the most part, although it is possible, but for the least part, that the
other part be true, and not the part which happens for the most part. 8 Est
autem considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa possibile
et necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea
secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam
erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit,
quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora
prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi
quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile
vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur
esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid
est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est
necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori
et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet
impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et
ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur
illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse;
impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod
ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad
alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet.
Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia
Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et
contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi,
in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque oppositorum. With
regard to this question about the possible and the necessary, there have been
different opinions, as Boethius says in his Commentary, and these will have to
be considered. Some who distinguished them according to result—for example,
Diodorus—said that the impossible is that which never will be, the necessary,
that which always will be, and the possible, that which sometimes will be,
sometimes not. The Stoics distinguished them according to exterior restraints.
They said the necessary was that which could not be prevented from being true,
the impossible, that which is always prevented from being true, and the
possible, that which can be prevented or not be prevented. However, the
distinctions in both of those cases seem to be inadequate. The first
distinctions are a posteriori, for something is not necessary because it always
will be, but rather, it always will be because it is necessary; this holds for
the possible as well as the impossible. The second designation is taken from
what is external and accidental, for something is not necessary because it does
not have an impediment, but it does not have an impediment because it is
necessary. Others distinguished these better by basing their distinction on the
nature of things. They said that the necessary is that which in its nature is
determined only to being, the impossible, that which is determined only to
nonbeing, and the possible, that which is not altogether determined to either,
whether related more to one than to another or related equally to both. The
latter is known as that which is indeterminate to either of two. Boethius
attributes these distinctions to Philo. However, this is clearly the opinion of
Aristotle here, for he gives as the reason for the possibility and contingency
in the things we do the fact that we deliberate, and in other things the fact
that matter is in potency to either it of two opposites. 9 Sed videtur haec
ratio non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia
invenitur in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus
caelestibus invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit
contingenter, sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas
materiae ad utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio
contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit
omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod
impediri non potest, consequens est quod ex necessitate reducat in actum
potentiam passivam eodem modo. But this reasoning does not seem to be adequate
either. While it is true that in corruptible bodies matter is in potency to
being and nonbeing, and in celestial bodies there is potency to diverse
location; nevertheless nothing happens contingently in celestial bodies, but
only of necessity. Consequently, we have to say that the potentiality of matter
to either of two, if we are speaking generally, does not suffice as a reason
for contingency unless we add on the part of the active potency that it is not
wholly determined to one; for if it is so determined to one that it cannot be
impeded, it follows that it necessarily reduces into act the passive potency in
the same mode. 10 Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae
est in ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa
determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in
quadam serie, seu connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo
accidit habet causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una
causa per se non sufficit, multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem
unius causae sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate
eveniunt. Considering this, some maintained that the very potency which is in
natural things receives necessity from some cause determined to one. This cause
they called fate. The Stoics, for example, held that fate was to be found in a
series or interconnection of causes on the assumption that everything that
happens has a cause; but when a cause has been posited the effect is posited of
necessity, and if one per se cause does not suffice, many causes concurring for
this take on the nature of one sufficient cause; so, they concluded, everything
happens of necessity. 11 Sed hanc rationem solvit Aristoteles in VI
metaphysicae interimens utramque propositionum assumptarum. Dicit enim quod non
omne quod fit habet causam, sed solum illud quod est per se. Sed illud quod est
per accidens non habet causam; quia proprie non est ens, sed magis ordinatur
cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse musicum habet causam, et
similiter esse album; sed hoc quod est, album esse musicum, non habet causam:
et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa, quod
posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum poni: non enim omnis causa
est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius effectus impediri non possit;
sicut ignis est sufficiens causa combustionis lignorum, sed tamen per effusionem
aquae impeditur combustio. Aristotle refutes this reasoning in VI Metaphysicae
[2: 1026a 33] by destroying each of the assumed propositions. He says there
that not everything that takes place has a cause, but only what is per se has a
cause. What is accidental does not have a cause, for it is not properly being
but is more like nonbeing, as Plato also held. Whence, to be musical has a
cause and likewise to be white, but to be musical white does not have a cause;
and the same is the case with all others of this kind. It is also false that
when a cause has been posited—even a sufficient one—the effect must be posited,
for not every cause (even if it is sufficient) is such that its effect cannot
be impeded. For example, fire is a sufficient cause of the combustion of wood,
but if water is poured on it the combustion is impeded. 12 Si autem utraque
propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex
necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset effectum
(qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in
aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam, quae nunc est
in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita, necesse est
effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad ultimum
effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum:
si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse
est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque
praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est. However, if both of the
aforesaid propositions were true, it would follow infallibly that everything
happens necessarily. For if every effect has a cause, then it would be possible
to reduce an effect (which is going to take place in five days or whatever
time) to some prior cause, and so on until it reaches a cause which is now in
the present or already has been in the past. Moreover, if when the cause is
posited it is necessary that the effect be posited, the necessity would reach
through an order of causes all the way to the ultimate effect. For instance, if
someone eats salty food, he will be thirsty; if he is thirsty, he will go
outside to drink; if he goes outside to drink, he will be killed by robbers.
Therefore, once he has eaten salty food, it is necessary that he be killed. To
exclude this position, Aristotle shows that both of these propositions are
false. 13 Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur
ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in
causam per se. Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per
se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et
omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in
aliquo effectu est per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui
quantum ad id quod per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod
inest ei per accidens non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet
enim effectum proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et
in V methaphysicae dicitur. However, some persons object to this on the grounds
that everything accidental is reduced to something per se and therefore an
effect that is accidental must be reduced to a per se cause. Those who argue in
this way fail to take into account that the accidental is reduced to the per se
inasmuch as it is accidental to that which is per se; for example, musical is accidental
to Socrates, and every accident to some subject existing per se. Similarly,
everything accidental in some effect is considered in relation to some per se
effect, which effect, in relation to that which is per se, has a per se cause,
but in relation to what is in it accidentally does not have a per se cause but
an accidental one. The reason for this is that the effect must be
proportionately referred to its cause, as is said in II Physicorum [3: 195b
25-28] and in V Metaphysicae [2: 1013b 28]. 14 Quidam vero non attendentes
differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes
effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse
virtutem caelestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse
fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire
necessitas in omnibus quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et
voluntate, quae per se et directe non subduntur virtuti caelestium corporum:
cum enim intellectus sive ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus
organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est quod directe
subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla
enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem
sensitivae in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur
actioni caelestium corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem
ponentium voluntatem hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant
intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat
ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas
utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium
sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens
habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in
VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit
necessitas in his quae per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis
corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens
eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se
in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem
est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio
non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo
philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa
praeexistunt in corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non
eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam
impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem;
tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam
naturaliter agentem. Some, however, not considering the difference between
accidental and per se effects, tried to reduce all the effects that come about
in this world to some per se cause. They posited as this cause the power of the
heavenly bodies and assumed fate to be dependent on this power—fate being,
according to them, nothing else but the power of the position of the
constellations. But such a cause cannot bring about necessity in all the things
accomplished in this world, since many things come about from intellect and
will, which are not subject per se and directly to the power of the heavenly
bodies. For the intellect, or reason, and the will which is in reason, are not
acts of a corporeal organ (as is proved in the treatise De anima [III, 4: 429a
18]) and consequently cannot be directly subject to the power of the heavenly
bodies, since a corporeal force, of itself, can only act on a corporeal thing.
The sensitive powers, on the other hand, inasmuch as they are acts of corporeal
organs, are accidentally subject to the action of the heavenly bodies. Hence,
the Philosopher in his book De anima [III, 3: 427a 21] ascribes the opinion
that the will of man is subject to the movement of the heavens to those who
hold the position that the intellect does not differ from sense. The power of
the heavenly bodies, however, does indirectly redound to the intellect and will
inasmuch as the aq intellect and will use the sensitive powers. But clearly the
passions of the sensitive powers do not induce necessity of reason and will,
for the continent man has wrong desires but is not seduced by them, as is shown
in VII Ethicorum [3: 1146a 5]. Therefore, we may conclude that the power of the
heavenly bodies does not bring about necessity in the things done through
reason and will. This is also the case in other corporeal effects of
corruptible things, in which many things happen accidentally. What is
accidental cannot be reduced to a per se cause in a natural power because the
power of nature is directed to some one thing; but what is accidental is not
one; whence it was said above that the enunciation "Socrates is a white
musical being” is not one because it does not signify one thing. This is the
reason the Philosopher says in the book De somno et vigilia [object] Close that
many things of which the signs pre-exist in the heavenly bodies—for example in
storm clouds and tempests—do not take place because they are accidentally
impeded. And although this impediment considered as such is reduced to some celestial
cause, the concurrence of these, since it is accidental, cannot be reduced to a
cause acting naturally. 15 Sed considerandum est quod id quod est per accidens
potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis
secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum
scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id,
quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem
intellectum praeordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum locum est
per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest
tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco
sibi occurrant. However, what is accidental can be taken as one by the
intellect. For example, "the white is musical,” which as such is not one,
the intellect takes as one, i.e., insofar as it forms one enunciation by
composing. And in accordance with this it is possible to reduce what in itself
happens accidentally and fortuitously to a preordaining intellect For example,
the meeting of two servants at a certain place may be accidental and fortuitous
with respect to them, since neither knew the other would be there, but be per
se intended by their master who sent each of them to encounter the other in a
certain place. 16 Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc
mundo aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem
providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui
stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri,
qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et
velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit
omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem
ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem
cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit
omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso
quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod
est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid
cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per
intellectum agens. Accordingly, some have maintained that everything whatever
that is effected in this world—even the things that seem fortuitous and
casual—is reduced to the order of divine providence on which they said fate
depends. Other foolish men have denied this, judging of the Divine Intellect in
the mode of our intellect which does not know singulars. But the position of
the latter is false, for His divine thinking and willing is His very being.
Hence, just as His being by its power comprehends all that is in any way (i.e.,
inasmuch as it is through participation of Him) so also His thinking and what
He thinks comprehend all knowing and everything knowable, and His willing and
what He wills comprehend all desiring and every desirable good; in other words,
whatever is knowable falls under His knowledge and whatever is good falls under
His will, just as whatever is falls under His active power, which He
comprehends perfectly, since He acts by His intellect. 17 Sed si providentia
divina sit per se causa omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum,
videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae
eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur
quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei
inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate
eveniant. It may be objected, however, that if Divine Providence is the per se
cause of everything that happens in this world, at least of good things, it
would look as though everything takes place of necessity: first on the part of
His knowledge, for His knowledge cannot be fallible, and so it would seem that
what He knows happens necessarily; secondly, on the part of the will, for the
will of God cannot be inefficacious; it would seem, therefore, that everything
He wills happens of necessity. 18 Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod
cognitio divini intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum
eorum, quae in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant. These
objections arise from judging of the cognition of the divine intellect and the
operation of the divine will in the way in which these are in us, when in fact
they are very dissimilar. 19 Nam primo quidem ex parte cognitionis vel
scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae secundum ordinem
temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub ordine temporis
aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra ordinem temporis.
Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum
philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est
prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi
homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine
transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et subsequentibus,
in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et
ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos
praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset
aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri
constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via
existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione
scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum
alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per
se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet
adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius
cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo
praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia;
praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis,
quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem
quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut ex quibus de
necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic determinata quin
impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis
causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud,
sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod
est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum
in IX metaphysicae. On the part of cognition or knowledge it should be noted
that in knowing things that take place according to the order of time, the
cognitive power that is contained in any way under the order of time is related
to them in another way than the cognitive power that is totally outside of the
order of time. The order of place provides a suitable example of this.
According to the Philosopher in IV Physicorum [11:219a 14], before and after in
movement, and consequently in time, corresponds to before and after in
magnitude. Therefore, if there arc many men passing along some road, any one of
those in the ranks has knowledge of those preceding and following as preceding
and following, which pertains to the order of place. Hence any one of them sees
those who are next to him and some of those who precede him; but he cannot see
those who follow behind him. If, however, there were someone outside of the
whole order of those passing along the road, for instance, stationed in some
high tower where he could see the whole road, he would at once see all those
who were on the road—not under the formality of preceding and subsequent (i.e.,
in relation to his view) but all at the same time and how one precedes another.
Now, our cognition falls under the order of time, either per se or
accidentally; whence the soul in composing and dividing necessarily includes
time, as is said in III De anima [6: 430a 32]. Consequently, things are subject
to our cognition under the aspect of present, past, and future. Hence the soul
knows present things as existing in act and perceptible by sense in some way;
past things it knows as remembered; future things are not known in themselves
because they do not yet exist, but can be known in their causes—with certitude
if they are totally determined in their causes so that they will take place of
necessity; by conjecture if they are not so determined that they cannot be
impeded, as in the case of those things that are for the most part; in no way
if in their causes they are wholly in potency, i.e., not more determined to one
than to another, as in the case of those that are indeterminate to either of
two. The reason for this is that a thing is not knowable according as it is in
potency, but only according as it is in act, as the Philosopher shows in IX
Metaphysicae [9: 1051a 22]. 20 Sed Deus est omnino extra ordinem temporis,
quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui subiacet totus
temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu
videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et unumquodque secundum
quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum
prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum
videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque eorum quae sunt in
quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere in seipso, non in
causa sua. God, however, is wholly outside the order of time, stationed as it
were at the summit of eternity, which is wholly simultaneous, and to Him the
whole course of time is subjected in one simple intuition. For this reason, He
sees in one glance everything that is effected in the evolution of time, and
each thing as it is in itself, and it is not future to Him in relation to His
view as it is in the order of its causes alone (although He also sees the very
order of the causes), but each of the things that are in whatever time is seen
wholly eternally as the human eye sees Socrates sitting, not in its causes but
in itself. 21 Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non tollitur eius
contingentia quae respicit ordinem causae ad effectum; tamen certissime et
infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet, quia unumquodque
prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur relinquitur, quod Deus
certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt in tempore; et tamen ea
quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex necessitate, sed contingenter. Now
from the fact that man sees Socrates sitting, the contingency of his sitting
which concerns the order of cause to effect, is not destroyed; yet the eye of
man most certainly and infallibly sees Socrates sitting while he is sitting,
since each thing as it is in itself is already determined. Hence it follows
that God knows all things that take place in time most certainly and
infallibly, and yet the things that happen in time neither are nor take place
of necessity, but contingently. 22 Similiter ex parte voluntatis divinae
differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra
ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius
differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo
ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et
distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim,
quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem,
quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest
potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur
vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina,
sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae.
Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia
omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo
oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit
contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non
omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. There is likewise
a difference to be noted on the part of the divine Will, for the divine will
must be understood as existing outside of the order of beings, as a cause
producing the whole of being and all its differences. Now the possible and the
necessary are differences of being, an(] therefore necessity and contingency in
things and the distinction of each according to the nature of their proximate
causes originate from the divine will itself, for He disposes necessary causes
for the effects that He wills to be necessary, and He ordains causes acting
contingently (i.e., able to fail) for the effects that He wills to be
contingent. And according to the condition of these causes, effects are called
either necessary or contingent, although all depend on the divine will as on a
first cause, which transcends the order of necessity and contingency. This,
however, cannot be said of the human will, nor of any other cause, for every
other cause already falls under the order of necessity or contingency; hence,
either the cause itself must be able to fail or, if not, its effect is not contingent,
but necessary. The divine will, on the other hand, is unfailing; yet not all
its effects are necessary, but some are contingent. 23 Similiter autem aliam
radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus
consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in
eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum
voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod
sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei
quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens
semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per
consilium et electionem, ex necessitate provenient. Some men, in their desire to
show that the will in choosing is necessarily moved by the desirable, argued in
such a way as to destroy the other root of contingency the Philosopher posits
here, based on our deliberation. Since the good is the object of the will, they
argue, it cannot (as is evident) be diverted so as not to seek that which seems
good to it; as also it is not possible to divert reason so that it does not
assent to that which seems true to it. So it seems that choice, which follows
upon deliberation, always takes place of necessity; thus all things of which we
are the principle through deliberation and choice, will take place of necessity.
24 Sed dicendum est quod similis differentia attendenda est circa bonum, sicut
circa verum. Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima
principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt
autem quaedam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est
conditio: quaedam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet
quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes
conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit
intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius.
Quaedam autem sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita
scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt
opinabilia, quibus non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo
motivo magis inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam
bonum quod est propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem
ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim
quadam necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae
sunt appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad
principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua
bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent
ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et
forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed
particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub
ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta,
comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde
moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas
non ex necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus
signanter radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte
consilii, quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In
his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in
III Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae,
quas hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere. In
regard to this point there is a similar diversity with respect to the good and
with respect to the true that must be noted. There are some truths that are
known per se, such as the first indemonstrable principles; these the intellect
assents to of necessity. There are others, however, which are not known per se,
but through other truths. The condition of these is twofold. Some follow
necessarily from the principles, i.e., so that they cannot be false when the
principles are true. This is the case with all the conclusions of
demonstrations, and the intellect assents necessarily to truths of this kind
after it has perceived their order to the principles, but not before. There are
others that do not follow necessarily from the principles, and these can be
false even though the principles be true. This is the case with things about
which there can be opinion. To these the intellect does not assent necessarily,
although it may be inclined by some motive more to one side than another.
Similarly, there is a good that is desirable for its own sake, such as
happiness, which has the nature of an ultimate end. The will necessarily adheres
to a good of this kind, for all men seek to be happy by a certain kind of
natural necessity. There are other good things that are desirable for the sake
of the end. These are related to the end as conclusions are to principles. The
Philosopher makes this point clear in II Physicorum [7: 198a 35]. If, then,
there were some good things without the existence of which one could not be
happy, these would be desirable of necessity, and especially by the person who
perceives such an order. Perhaps to be, to live, and to think, and other
similar things, if there are any, are of this kind. However, particular good
things with which human acts are concerned are not of this kind nor are they
apprehended as bein,r such that without tbeni happiness is impossible, for
instance, to eat this food or that, or abstain from it. Such things,
nevertheless, do have in them that whereby they move the appetite according to
some good considered in them. The will, therefore, is not induced to choose
these of necessity. And on this account the Philosopher expressly designates
the root of the contingency of things effected by us on the part of
deliberation—which is concerned with those things that are for the end and yet
are not determined. In those things in which the means are determined there is
no need for deliberation, as is said in III Ethicorum [3: 1112a 30–1113a 14].
These things have been stated to save the roots of contingency that Aristotle
posits here, although they may seem to exceed the mode of logical matter. XV. 1
Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis
rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et
circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab
enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res
sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas
circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare
quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas;
secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi:
et in contradictione eadem ratio est et cetera. Now that the Philosopher has
shown the impossibilities that follow from the foresaid arguments, he concludes
what the truth is on this point. In arguing to the impossibility of the
position, he proceeded from enunciations to things, and has already rejected
the unlikely consequences in respect to things. Now, in the converse order, he
first shows the way in which there is truth about things; secondly, the way in
which there is truth in enunciations, where he says, And so, since speech is
true as it corresponds to things, etc. With respect to truth about things be
first shows the way in which there is truth and necessity about things
absolutely considered; secondly, the way in which there is truth and necessity
about things through a comparing of their opposites, where he says, And this is
also the case with respect to contradiction, etc. 2 Dicit ergo primo, quasi ex
praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia
ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod
omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non
esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium:
impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est
illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non
esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et
similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse
est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod
omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non
esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed
ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod
est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non
idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne
ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex
suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de
esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex
necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et
per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his,
quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum
determinate esset futurum. 2. He begins, then, as though concluding from
premises: if the foresaid things are unlikely (namely, that all things take
place of necessity), then the case with respect to things must be this:
everything that is must be when it is, and everything that is not, necessarily
not be when it is not. This necessity is founded on the principle that it is
impossible at once to be and not be; for if something is, it is impossible that
it at the same time not be; therefore it is necessary that it be at that time.
For "impossible not to be” signifies the same thing as "necessary to
be,” as Aristotle says in the second book. Similarly, if something is not, it
is impossible that it at the same time be. Therefore it is necessary that it
not be, for they also signify the same thing. Clearly it is true, then, that
everything that is must be when it is, and everything that is not must not be
when it is not. This is not absolute necessity, but necessity by supposition.
Consequently, it cannot be said absolutely and simply that everything that is
must be, and that everything that is not must not be. For "every being,
when it is, necessarily is” does not signify the same thing as "every
being necessarily is, simply. The first signifies necessity by supposition, the
second, absolute necessity. What has been said about to be must be understood
to apply also to not to be, for "necessarily not to be simply” and
"necessarily not to be when it is not” are also different. By this
Aristotle seems to exclude what was said above, namely, that if in those things
that are, one of the two is determinately true, then even before it takes place
one of the two would determinately be going to be. 3 Deinde cum dicit: et in
contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa
res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in
contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod non est
absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est
esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit
necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit
vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec
necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria
simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo
necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur,
necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia
necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est
necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium
non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est
quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad
necessitatem quae est sub disiunctione. 3. He shows how truth and necessity is
had about things through the comparing of their opposites where he says, This
is also the case with respect to contradiction, etc. The reasoning is the same,
he says, in respect to contradiction and in respect to supposition. For just as
that which is not absolutely necessary becomes necessary by supposition of the
same (for it must be when it is), so also what in itself is not necessary
absolutely, becomes necessary through the disjunction of the opposite, for of
each thing it is necessary that it is or is not, and that it will or will not
be in the future, and this under disjunction. This necessity is founded upon
the principle that it is impossible for contradictories to be at once true and
false. Accordingly, it is impossible that a thing neither be nor not be;
therefore it is necessary that it either be or not be. However if one of these
is taken separately [i.e., divisively], it is not necessary that that one be
absolutely. This he manifests by example: it is necessary that there will be or
will not be a naval battle tomorrow; but it is not necessary that a naval
battle will take place tomorrow, nor is it necessary that it will not take
place, for this pertains to absolute necessity. It is necessary, however, that
it will take place or will not take place tomorrow. This pertains to the
necessity which is under disjunction. 4 Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex
eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et
primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa
esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius
dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc
modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut et res ad esse vel non
esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa),
consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut sint ad utrumlibet,
et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere
possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur
quod etiam similiter se habeat contradictio enunciationum. Et exponit
consequenter quae sint illae res, quarum contradictoria contingere queant; et
dicit huiusmodi esse quae neque semper sunt, sicut necessaria, neque semper non
sunt, sicut impossibilia, sed quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius
manifestat quomodo similiter se habeat in contradictoriis enunciationibus; et
dicit quod harum enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod
sub disiunctione altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec
vel illa determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera
pars contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt
ut in pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum
determinate sit vera vel falsa. Then when he says, And so, since speech is true
as it corresponds to things, etc., he shows how truth in speech corresponds to
the way things are. First he shows in what way truth of speech conforms to the
being and nonbeing of things; secondly, and finally, he arrives at the truth of
the whole question, where he says, Therefore it is clear that it is not
necessary that of every affirmation and negation of opposites, one is true and
one false, etc. He says, then, that enunciative speech is related to truth in
the way the thing is to being or nonbeing (for from the fact that a thing is or
is not, speech is true or false). It follows, therefore, that when things are
such as to be indeterminate to either of two, and when they are such that their
contradictories could happen in whichever way, whether equally or one for the
most part, the contradiction of enunciations must also be such. He explains
next what the things are in which contradictories can happen. They are those that
neither always are (i.e., the necessary), nor always are not (i.e., the
impossible), but sometimes are and some times are not. He shows further how
this is maintained in contradictory enunciations. In those enunciations that
are about contingent things, one part of the contradiction must be true or
false tinder disjunction; but it is related to either, not to this or that
determinately. If it should turn out that one part of the contradiction is more
true, as happens in contingents that are for the most part, it is nevertheless
not necessary on this account that one of them is determinately true or false. 5
Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale intentum et
dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni genere
affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram et
alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his
quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non
esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in
his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum:
quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur
primus liber. 5. Then he says, Therefore, it is clear that it is not necessary
that of every affirmation and negation of opposites, one is true and one,
false, etc. This is the conclusion he principally intended. It is evident from
what has been said that it is not necessary in every genus of affirmation and
negation of opposites that one is determinately true and the other false, for
truth and falsity is not had in the same way in regard to things that are
already in the present and those that are not but which could be or not be. The
position in regard to each has been explained. In those that are, it is
necessary that one of them be determinately true and the other false; in things
that are future, which could be or not be, the case is not the same. The first
book ends with this. lib. 2 l. 1 n. 1Postquam philosophus in primo libro
determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de
enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt
autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur
vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba;
secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione
affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam.
Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat
enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel
praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid
additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero
determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones
enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi;
ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum
quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem
enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis
dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat
enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo,
ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi:
at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat
de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in
quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed
etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera.
Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales
enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima
est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes
distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest
esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et
cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi
enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.;
tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera. 1. In the
first book, the Philosopher has dealt with the enunciation considered simply.
Now he is going to treat of the enunciation as it is diversified by the
addition of something to it. There are three things that can be considered in
the enunciation: first, the words that are predicated or subjected, which he
has already distinguished into names and verbs; secondly, the composition,
according to which there is truth or falsity in the affirmative or negative
enunciation; finally, the opposition of one enunciation to another. This book
is divided into three parts which are related to these three things in the
enunciation. In the first, he shows what happens to the enunciation when something
is added to the words posited as the subject or predicate; in the second, what
happens when something is added to determine the truth or falsity of the
composition. He begins this where he says, Having determined these things, we
must consider in what way negations and affirmations of the possible and not
possible, etc. In the third part he solves a question that arises about the
oppositions of enunciations in which something is added to the simple
enunciation. This he takes up where he says, There is a question as to whether
the contrary of an affirmation is a negation, or whether the contrary of an
affirmation is another affirmation, etc. With respect to additions made to the
words used in the enunciation, it should be noted that an addition made to the
predicate or the subject sometimes destroys the unity of the enunciation, and
sometimes not, the latter being the case in which the addition is a negative
making a word infinite. Consequently, he first shows what happens to the
enunciation when the added negation makes a word infinite. Secondly, he shows
what happens when an addition destroys the unity of the enunciation where he
says, Neither the affirmation nor the negation which affirms or denies one
predicate of many subjects or many predicates of one subject is one, unless
something one is constituted from the many, etc. In relation to the first point
he first investigates the simplest of enunciations, in which a finite or
infinite name is posited only on the part of the subject. Then he considers the
enunciation in which a finite or infinite name is posited not only on the part
of the subject, but also on the part of the predicate, where he says, But when
"is” is predicated as a third element in the enunciation, etc. Apropos of
these simple enunciations, he proposes certain grounds for distinguishing such
enunciations and then gives their distinction and order where he says,
Therefore the primary affirmation and negation is "Man is,” "Man is
not,” etc. And first he gives the grounds for distinguishing enunciations on
the part of the name; secondly, he shows that there are not the same grounds
for a distinction on the part of the verb, where he says, There can be no
affirmation or negation without a verb, etc. First, then, he proposes the
grounds for distinguishing these enunciations; secondly, he explains this where
he says, we have already stated what a name is, etc.; finally, he arrives at
the conclusion he intended where he says, every affirmation will be made up of
a name and a verb, or an infinite name and a verb. 2 Resumit ergo illud, quod
supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet affirmatio est
enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est proprie nota
eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo aliquid
dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum; et
ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de
aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum
affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut
in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur
innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed
solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in
affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum
subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una,
de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod
subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum. First of all,
he goes back to what was said above in defining affirmation, namely, that
affirmation is an enunciation signifying something about something; and, since
it is peculiar to the verb to be a sign of what is predicated of another, it
follows that that about which something is said pertains to the name; but the
name is either finite or infinite; therefore, as if drawing a conclusion, he
says that since affirmation signifies something about something it follows that
that about which something is signified, i.e., the subject of an affirmation,
is either a finite name (which is properly called a name), or unnamed, i.e., an
infinite name. It is called "unnamed” because it does not name something
with a determinate form but removes the determination of form. And lest anyone
think that what is subjected in an affirmation is at once a name and unnamed,
he adds, and one thing must be signified about one thing in an affirmation,
i.e., in the enunciation, of which we are speaking now; and hence the subject
of such an affirmation must be either the name or the infinite name. 3 Deinde
cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum
est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non
homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est
verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad
dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat
unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod
significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum
significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut
in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et
ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum
quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio
est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne
aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non
significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum. When he
says, we have already stated what a name is, etc., he relates what he has
previously said. We have already stated, he says, what a name is and what that
which is unnamed is, i.e., the infinite name. "Non-man” is not a name but
an infinite name, and "non-runs” is not a verb but an infinite verb. Then
he interposes a point that is useful for the preclusion of a difficulty, i.e.,
that an infinite name in a certain way does signify one thing. It does not
signify one thing simply as the finite name does, which signifies one form of a
genus or species, or even of an individual; rather it signifies one thing
insofar as it signifies the negation of a form, in which negation many things
are united, as in something one according to reason. For something is said to
be one in the same way it is said to be a being. Hence, just as nonbeing is
said to be being, not simply, but according to something, i.e., according to
reason, as is evident in IV Metaphysicae [21: 1003b 6], so also a negation is
one according to something, i.e., according to reason. Aristotle introduces
this point so that no one will say that an affirmation in which an infinite
name is the subject does not signify one thing about one subject on the grounds
that an infinite name does not signify something one. 4 Deinde cum dicit: erit
omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex est modus
affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex nomine et verbo;
quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex
hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel
est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi ex parte
negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare, ut in
primo habitum est. When he says, every affirmation will be made up of a name
and a verb or an infinite name and a verb, he concludes that the mode of
affirmation is twofold. One consists of a name and a verb, the other of an
infinite name and a verb. This follows from what has been said, namely, that
that about which an affirmation signifies something is either a name or
unnamed. The same difference can be taken on the part of negation, for of
whatever something can be affirmed it can be denied, as was said in the first
book. 5 Deinde cum dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia
enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod,
praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse
aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum
nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni infinitum verbum,
duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum constituitur per
additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per se dicto, idest
extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut addita nomini,
removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem potest accipi
verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum. Sed
quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet
verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex
parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur
compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione
positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas
enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut
faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori
intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit
affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut
diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem
considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et
infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo
addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in
primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in
casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et
futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde
si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc
est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et
ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia
huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest
fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur
per respectum ad praesens. When he says, There can be no affirmation or
negation without a verb, etc., he intends to show that enunciations cannot be
differentiated on the part of the verb. He made the point earlier that there is
no affirmation or negation without a verb. However there can be an affirmation
or negation without a name, i.e., when an infinite name is posited in place of
a name.” An infinite verb, on the other hand, cannot be posited in an
enunciation in place of a verb, and this for two reasons. First of all, the
infinite verb is constituted by the addition of an infinite particle which,
when added to a verb said by itself (i.e., posited outside of the enunciation),
removes it absolutely, just as it removes the form of the name absolutely when
added to it. Therefore, outside of the enunciation, the infinite verb, as well
as the infinite name, can be taken in the mode of one word. But when a negation
is added to the verb in an enunciation it removes the verb from something and
thus makes the enunciation negative, which is not the case with respect to the
name. For an enunciation is made negative by denying the composition which the
verb introduces; hence, an infinite verb posited in the enunciation becomes a
negative verb. Secondly, whichever way we use the negative particle, whether as
making the verb infinite or as making a negative enunciation, the truth of the
enunciation is not changed. The negative particle, therefore, is always taken
in the more absolute sense, as being clearer. This, then, is why Aristotle does
not diversify the affirmation as made up of a verb or infinite verb, but as
made up of a name or an infinite name. It should also be noted that besides the
difference of finite and infinite there is the difference of nominative and
oblique cases. The cases of names even with a verb added do not constitute an
enunciation signifying truth or falsity, as was said in the first book, for the
nominative is not included in an oblique name. The verb of present time,
however, is included in the cases of the verb, for the past and future, which
the cases of the verb signify, are said with respect to the present. Whence,
‘if we say, "This will be,” it is the same as if we were to say,
"This is future”; and "This has been” the same as "This is
past.” A name, then, and a case of the verb do constitute an enunciation.
Therefore Aristotle adds that "is,” or "will be,” or "was,” or
any other verb of this kind that we use are of the number of the foresaid verbs
without which an enunciation cannot be made, since they all signify with time
and past and future time are said with respect to the present. 6 Deinde cum
dicit: quare prima erit affirmatio etc., concludit ex praemissis distinctionem
enunciationum in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte
subiecti, in quibus triplex differentia intelligi potest: una quidem, secundum
affirmationem et negationem; alia, secundum subiectum finitum et infinitum;
tertia, secundum subiectum universaliter, vel non universaliter positum. Nomen
autem finitum est ratione prius infinito sicut affirmatio prior est negatione;
unde primam affirmationem ponit, homo est, et primam negationem, homo non est.
Deinde ponit secundam affirmationem, non homo est, secundam autem negationem,
non homo non est. Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum
universaliter ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est
subiectum non universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de
enunciationibus, in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non
est, quia singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi
enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam
praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter
ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto
universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex
parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in
extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant praesens,
est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. When he says,
Therefore the primary affirmation and negation is, etc., he infers from the
premises the distinction of enunciations in which the finite and infinite name
is posited only on the part of the subject. Among these there is a threefold
difference to be noted: the first, according to affirmation and negation; the
second, according to finite and infinite subject; the third, according as the
subject is posited universally or not universally. Now the finite name is prior
in notion to the infinite name just as affirmation is prior to negation.
Accordingly, he posits "Man is” as the first affirmation and "Man is
not” as the first negation. Then he posits the second affirmation, "Non-man
is,” and the second negation, "Non-man is not.” Finally he posits the
enunciations in which the subject is universally posited. These are four, as
are those in which the subject is not universally posited. The reason he does
not give examples of the enunciation with a singular subject, such as
"Socrates is” and "Socrates is not,” is that no sign is added to
singular names, and hence not every difference can be found in them. Nor does
he give examples of the enunciation in which the subject is taken particularly,
for such a subject in a certain way has the same force as a universal subject
not universally taken. He does not posit any difference on the part of the verb
according to its cases because, as he himself says, affirmations and negations
in regard to extrinsic times, i.e., past and future time which surround the
prcsent, are similar to these, as has already been said. II. 1 Postquam
philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas
enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti
et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi
enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent;
ibi: quoniam vero contrariaest et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit
de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de
enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et
cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum
triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de
enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum;
secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi:
similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen
infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa
primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum;
secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor
etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo
facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat;
ibi: dico autem et cetera. 1.
After distinguishing enunciations in which either a finite or an infinite name
is posited only on the part of the subject, the Philosopher begins here to
distinguish enunciations in which either a finite or an infinite name is
posited as the subject and as the predicate. First he distinguishes these
enunciations, and then he manifests certain things that might be doubtful in
relation to them where he says, Since the negation contrary to "Every
animal is just,” is the one signifying "No animal is just,” etc. With
respect to their distinction he first deals with enunciations in which the name
is predicated with the verb "is”; secondly, with those in which other
verbs are used, where he says, In enunciations in which "is” does not join
the predicate to the subject, for example, when the verb "matures” or
"walks” is used, etc.” He distinguishes these enunciations as he did the
primary enunciations, according to a threefold difference on the part of the
subject, first treating those in which the subject is a finite name not taken
universally, secondly, those in which the subject is a finite name taken
universally where he says, The same is the case when the affirmation is of a
name taken universally, etc.” Thirdly, he treats those in which an infinite
name is the subject, where he says, and there are two other pairs, if something
is added to non-man” as a subject, etc. With respect to the first enunciations
[in which the subject is a finite name not taken universally] he proposes a
diversity of oppositions and then concludes as to their number and states their
relationship, where he says, In this case, therefore, there will be four
enunciations, etc. Finally, he exemplifies this with a table. Aquinas lib. 2 l.
2 n. 2Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc quod
dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est
quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum
dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod
Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi
principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad
connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est
intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat
ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut
adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium
praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum
nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas
partes et non in tres. In relation to the first point two things have to be
understood. First, what is meant by "is” is predicated as a third element
in the enunciation. To clarify this we must note that the verb "is” itself
is sometimes predicated in an enunciation, as in "Socrates is.” By this we
intend to signify that Socrates really is. Sometimes, however, "is” is not
predicated as the principal predicate, but is joined to the principal predicate
to connect it to the subject, as in "Socrates is white.” Here the
intention is not to assert that Socrates really is, but to attribute whiteness
to him by means of the verb "is.” Hence, in such enunciations "is” is
predicated as added to the principal predicate. It is said to be third, not
because it is a third predicate, but because it is a third word posited in the
enunciation, which together with the name predicated makes one predicate. The enunciation
is thus divided into two parts and not three. Aquinas lib. 2 l. 2 n. 3Secundo,
considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum
est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod
considerandum est quod in praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur
solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta
si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una
oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens
praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum
differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut
haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero
oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio
fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum est, quod est nota
praedicationis. Secondly, we must consider what he means by when "is” is
predicated as a third element in the enunciation, in the mode in which we have
explained, there are two oppositions. In the enunciations already treated, in
which the name is posited only on the part of the subject, there was one
opposition in relation to any subject. For example, if the subject was a finite
name not taken universally there was only one opposition, "Man is,”
"Man is not.” But when "is” is predicated in addition there are two
oppositions with regard to the same subject corresponding to the difference of the
predicate name, which can be finite or infinite. There is the opposition of
"Man is just,” "Man is not just,” and the opposition, "Man is
non-just,” "Man is not non-just.” For the negation is effected by applying
the negative particle to the verb "is,” which is a sign of a predication. 4
Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est
tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est,
adiacet, scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione.
Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic
est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum
loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter
hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum
dicatur nomen vel verbum.When he says, I mean by this that in an enunciation
such as"Man is just,” etc., he explains what he means by when "is” is
predicated as a third element in the enunciation. When we say "Man is
just,” the verb "is” is added to the predicate as a third name or verb in
the affirmation. Now "is,” like any other word, may be called a name, and
thus it is a third name, i.e., word. But because, according to common usage, a
word signifying time is called a verb rather than a name Aristotle adds here,
or verb, as if to say that with respect to the fact that it is a third thing,
it does not matter whether it is called a name or a verb. 5 Deinde cum dicit:
quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit
conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem
etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera.
Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens
praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est
quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens,
praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum
duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem;
et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et
negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam,
ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia
breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est. He goes
on to say, In this case, therefore, there will be four enunciations, etc. Here
he concludes to the number of the enunciations, first giving the number, and
then their relationship where he says, two of which will correspond in their
sequence, in respect of affirmation and negation, with the privations but two
will not. Finally, he explains the reason for the number where he says, I mean
that the "is” will be added either to "just” or to "non-just,”
etc. He says first, then, that since there are two oppositions when "is”
is predicated as a third element in the enunciation, and since every opposition
is between two enunciations, it follows that there are four enunciations in
which "is” is predicated as a third element when the subject is finite and
is not taken universally. When he says, two of which will correspond in their
sequence, etc., he shows their relationship. Two of these enunciations are
related to affirmation and negation according to consequence (or according to
correlation or proportion, as it is in the Greek) like privations; the other
two are not. Because this is said so briefly and obscurely, it has been
explained in diverse ways. 6 Ad cuius evidentiam considerandum est quod
tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque
enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes,
una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est
iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum,
secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo
non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen
privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est
iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Before we take up
the various explanations of this passage there is a general point in relation
to it that needs to be clarified. In this kind of enunciation a name can be
predicated in three ways. We can predicate a finite name and by this we obtain
two enunciations, one affirmative and one negative, "Man is just” and
"Man is not just.” These are called simple enunciations. Or, we can
predicate an infinite name and by this we obtain two other enunciations,
"Man is non-just” and "Man is not non-just,” These are called
infinite enunciations. Finally, we can predicate a privative name and again we
will have two, "Man is unjust” and "Man is not unjust.” These are called
privative. 7 Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas
praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad
affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum
consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de
praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se
habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum
transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad
affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito
praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito,
huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato,
scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic
scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de
infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo
praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato,
scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa
vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est
iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae,
quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus.
In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de
finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo
praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut
patet in subscripta figura. (Figura). Sic ergo duae, scilicet quae sunt de
infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito
praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo
praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo
est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem
consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero,
minime, referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste
est contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet
de finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens,
quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod
utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito
subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum
est quod de eis nunc non loquitur. Now the passage in question has been
explained by some in the following way. Two of the enunciations he has given,
those with an infinite predicate, are related to the affirmation and negation
of the finite predicate according to consequence or analogy, as are privations,
i.e., as those with a privative predicate. For the two with an infinite
predicate are related according to consequence to those with a finite predicate
but in a transposed way, namely, affirmation to negation and negation to
affirmation. That is, "Man is non-just,” the affirmation of the infinite
predicate, corresponds according to consequence to the negative of the finite
predicate, i.e., to "Man is not just”; the negative of the infinite
predicate, "Man is not non-just,” corresponds to the affirmative of the
finite predicate, i.e., to "Man is just.” Theophrastus for this reason
called those with the infinite predicate, "transposed.” The affirmative
with a privative predicate also corresponds according to consequence to the
negative with a finite predicate, i.e., "Man is unjust” to "Man is
not just”; and the negative of the privative predicate to the affirmative of
the finite predicate, "Man is not unjust” to "Man is just.” These enunciations
can therefore be placed in a table in the following way: Man is just Man is not
non-just Man is not unjust Man is not just Man is non-just Man is unjust This
makes it clear that two, those with the infinite predicate, are related to the
affirmation and negation of the finite predicate in the way privations are,
i.e., as those that have a privative predicate. It is also evident that there
are two others that do not have a similar consequence, i.e., those with an
infinite subject, "Non-man is just” and "Non-man is not just.” This
is the way Herminus explained the words but two will not, i.e., by referring it
to enunciations with an infinite subject. This, however, is clearly contrary to
the words of Aristotle, for after giving the four enunciations, two with a
finite predicate and two with an infinite predicate, he adds two of which...
but two will not, as though he were subdividing them, which can only mean that
both pairs are comprised in what he is saying. He does not include among these
the ones with an infinite subject but will mention them later. It is clear,
then, that he is not speaking of these here. 8 Et ideo, ut Ammonius dicit, alii
aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor propositionum duae,
scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad affirmationem et
negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et negationis, ut privationes,
idest ut privativae affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo
est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum
privationem affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed
secundum privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito
praedicato. Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem
affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim,
homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est
simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit
enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt
disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex
his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito
vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit. Since this
exposition is not consonant with Aristotle’s words, others, Ammonius says, have
explained this in another way. According to them, two of the four propositions,
those of the infinite predicate, are related to affirmation and negation, i.e.,
to the species itself of affirmation and negation, as privations, that is, as
privative affirmations and negations. For the affirmation, "Man is
non-just,” is not an affirmation simply, but relatively, as though according to
privation; as a dead man is not a man simply, but according to privation. The
same thing applies to the negative enunciation with an infinite predicate.
However, the two enunciations having finite predicates are not related to the
species of affirmation and negation according to privation, but simply, for the
enunciation "Man is just” is simply affirmative and "Man is not just”
is simply negative. But this meaning does not correspond to the words of
Aristotle either, for he says further on: This, then, is the way these are
arranged, as we have said in the Analytics, but there is nothing in that text
pertaining to this meaning. Ammonius, therefore, interprets this differently
and in accordance with what is said at the end of I Priorum [46: 51b 5] about
propositions having a finite or infinite or privative predicate. Aquinas lib. 2
l. 2 n. 9 Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit,
enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in
enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo
est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod
est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad
omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus.
Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus
est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non
iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae;
sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente
habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est
vera, lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non
iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut
etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam
ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo
quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa
infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et
de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non
iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus.
Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit
homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod
penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam
negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de
homine habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de
quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest
dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent
habitum iniustitiae. To make Ammonius’ explanation clear, it must be noted
that, as Aristotle himself says, the enunciation, by some power, is related to
that of which the whole of what is signified in the enunciation can be truly
predicated. The enunciation, "Man is just,” for example, is related to all
those of which in any way "is a just man” can be truly said. So, too, the
enunciation "Man is not just” is related to all those of which in any way
"is not a just man” can be truly said. According to this mode of speaking
it is evident, then, that the simple negative is wider than the infinite
affirmative which corresponds to it. Thus, "is a non-just man” can truly
be said of any man who does not have the habit of justice; but "is not a
just man” can be said not only of a man not having the habit of justice, but
also of what is not a man at all. For example, it is true to say "Wood is
not a just man,” but false to say, "Wood is a non-just man.” The simple
negative, then, is wider than the infinite affirmative-just as animal is wider
than man, since it is verified of more. For a similar reason the simple
negative is wider than the privative affirmative, for "is an unjust man”
cannot be said of what is not man. But the infinite affirmative is wider than
the private affirmative, for "is a non-just man” can be truly said of a
boy or of any man not yet having a habit of virtue or vice, but "is an
unjust man” cannot. And the simple affirmative is narrower than the infinite
negative, for "is not a non-just man” can be said not only of a just man,
but also of what is not man at all. Similarly, the privative negative is wider
than the infinite negative. For "is not an unjust man” can be said not
only of a man having the habit of justice and of what is not man at all—of
which "is not a non-just man” can be said—but over and beyond this can be
said about all men who neither have the habit of justice nor the habit of injustice.
10 His igitur visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum,
scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae,
se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una
est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo
consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet,
sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur
(eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam
sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut
simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non
convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam,
quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in
consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum. With these
points in mind it is easy to explain the present sentence in Aristotle. Two of
which, i.e., the infinites, will be related to the simple affirmation and
negation according to consequence, i.e., in their mode of following upon the
two simple enunciations, the infinitives will be related as are privations,
i.e., as the two privative enunciations. For just as the infinite negative
follows upon the simple affirmative, and.is not convertible with it (because
the infinite negative is wider), so also the privative negative which is wider
follows upon the simple affirmative and is not convertible. But just as the
simple negative follows upon the infinite affirmative, which is narrower and is
not convertible with it, so also the simple negative follows upon the privative
affirmative, which is narrower and is not convertible. From this it is clear
that there is the same relationship, with respect to consequence, of infinites
to simple enunciations as there is of privatives. 11 Sequitur, duae autem,
scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a
quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas in
consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte
simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa
est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in
plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam
infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad
infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas. He goes on
to say, but two, i.e., the simple entinciations that are left after the two
infinite enunciations have been taken care of, will not, i.e., are not related
to infinites according to consequence as privatives are related to them,
because, on the one hand, the simple affirmative is narrower than the infinite
negative, and the privative negative wider than the infinite negative; and on
the other hand, the simple negative is wider than the infinite affirmative, and
the privative affirmative narrower than the infinite affirmative. Thus it is
clear that simple entinciations are riot related to infinites in respect to
consequence as privatives are related to infinites. 12 Quamvis autem secundum
hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum
expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas habitudines
non esse attendendas respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo
accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo
habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens
litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius ponit; secundum quam
expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam
affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum,
duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se
habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad
unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem
sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa
simplex. Duae vero, scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad
affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex
affirmativis sequebantur negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae
sicut infinitae. But although this explains the words of the Philosopher in a
subtle manner the explanation appears a bit forced. For the words of the
Philosopher seem to say that diverse relationships will not apply in respect to
diverse things; however, in the exposition we have just seen, first there is an
explanation of a similitude of relationship to simple enunciations and then an
explanation of a dissimilitude of relationship in respect to infinites. The
simpler exposition of this passage of Aristotle by Porphyry, which Boethius
gives, is therefore more apposite. According to Porphyry’s explanation there is
similitude and dissimilitude according to consequence of affirmatives and
negatives. Thus Aristotle is saying: Of which, i.e., the four enunciations we
are discussing, two, i.e., affirmatives, one simple and the other infinite, will
be related according to consequence in regard to affirmation and negation,
i.e., so that upon one affirmative follows the other negative, for the infinite
negative follows upon the simple affirmative and the simple negative upon the
infinite affirmative. But two, i.e., the negatives, will not, i.e., are not so
related to affirmatives, i.e., so that affirmatives follow from negatives. And
with respect to both, privatives are related in the same way as the infinites.
Aquinas lib. 2 l. 2 n. 13Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat
quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae
enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est
solum praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito:
puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum
quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra
harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa.
Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est.
Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet
duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices
enunciationes. Then Aristotle says, I mean that the "is” will be added
either to "just” or to "non-just,” etc. Here he shows how, under
these circumstances, we get four enunciations. We are speaking now of
enunciations in which the verb "is” is predicated as added to some finite
or infinite name, for instance as it adjoins "just” in "Man is just,”
or "non-just” in "Man is non-just.” Now since the negation is not
applied to the verb in either of these, each is affirmative. However, there is
a negation opposed to every affirmation as was shown in the first book.
Therefore, two negatives correspond to the two foresaid affirmative
enunciations, making four simple enunciations. 14 Deinde cum dicit:
intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam figuralem
descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est, intelligi
potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura, in cuius
uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex opposito
describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus scribantur
duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus.
(Figura). In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel
negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor enunciationes.
Then he says, The following diagram will make this clear. Here he manifests
what he has said by a diagrammatic description; for, as he says, what has been
stated can be understood from the following diagram. Take a four-sided figure
and in one corner write the enunciation "Man is just.” Opposite it write
its negation "Man is not just,” and under these the two infinite
enunciations, "Man is non-just,” "Man is not non-just.” Man is just
Man is not non-just Man is not just Man is non-just It is evident from this
table that the verb "is” whether affirmative or negative is adjoined to
"just” and "non-just.” It is according to this that the four
enunciations are diversified. 15 Ultimo autem concludit quod praedictae
enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in
resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est
aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non
homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo
accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt
de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte
praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte
praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod praedicta
littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod
signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non
differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Finally, he concludes that
these enunciations are disposed aaccording to an order of consequence that he
has stated in the Analytics, i.e., in I Priorum [46: 51b 5]. There is a variant
reading of a previous portion of this text, namely, I mean that "is” will
be added either to "man” or to non-man,” and in the diagram "is” is
added to "man” and "non-man. This cannot be understood to mean that
"man” and "non-man” are taken on the part of the subject; for
Aristotle is not treating here of enunciations with an infinite subject and
hence "man” and "non-man” must be taken on the part of the predicate.
This variant text seemed to Alexander to be corrupt, for the Philosopher has
been explicating enunciations in which "just” and "non-just” are
posited on the part of the predicate. Others think it can be sustained and that
Aristotle has intentionally varied the names to show that it makes no
difference what names are used in the examples. III. 1 Postquam philosophus
distinxit enunciationes in quibus subiicitur nomen infinitum non universaliter
sumptum, hic intendit distinguere enunciationes, in quibus subiicitur nomen
finitum universaliter sumptum. Et circa hoc tria facit: primo, ponit
similitudinem istarum enunciationum ad infinitas supra positas; secundo,
ostendit dissimilitudinem earumdem; ibi: sed non similiter etc.; tertio,
concludit numerum oppositionum inter dictas enunciationes; ibi: hae duae igitur
et cetera. Dicit ergo primo quod similes sunt enunciationes, in quibus est
nominis universaliter sumpti affirmatio. Having distinguished enunciations in
which the subject is an infinite name not taken universally, Aristotle now
distinguishes enunciations in which the subject is a finite name taken
universally. He first proposes a similarity between these enunciations and the
infinite enunciations already discussed, and then shows their difference where
he says, But it is not possible, in the same way as in the former case, that
those on the diagonal both be true, etc. Finally, he concludes with the number
of oppositions there are between these enunciations where he says, These two
pairs, then, are opposed, etc. He says first, then, that enunciations in which
the affirmation is of a name taken universally are similar to those already
discussed. 2 Quoad primum notandum est quod in enunciationibus indefinitis
supra positis erant duae oppositiones et quatuor enunciationes, et affirmativae
inferebant negativas, et non inferebantur ab eis, ut patet tam in expositione
Ammonii, quam Porphyrii. Ita in enunciationibus in quibus subiicitur nomen
finitum universaliter sumptum inveniuntur duae oppositiones et quatuor
enunciationes: et affirmativae inferunt negativas et non e contra. Unde
similiter se habent enunciationes supradictae, si nominis in subiecto sumpti
fiat affirmatio universaliter. Fient enim tunc quatuor enunciationes: duae de
praedicato finito, scilicet omnis homo est iustus, et eius negatio quae est non
omnis homo est iustus; et duae de praedicato infinito, scilicet omnis homo est
non iustus, et eius negatio quae est, non omnis homo est non iustus. Et quia
quaelibet affirmatio cum sua negatione unam integrat oppositionem, duae
efficiuntur oppositiones, sicut et de indefinitis dictum est. Nec obstat quod
de enunciationibus universalibus loquens particulares inseruit; quoniam sicut
supra de indefinitis et suis negationibus sermonem fecit, ita nunc de
affirmationibus universalibus sermonem faciens de earum negationibus est
coactus loqui. Negatio siquidem universalis affirmativae non est universalis
negativa, sed particularis negativa, ut in I libro habitum est. It is to be
noted in relation to Aristotle’s first point that in indefinite enunciations
there were two oppositions and four enunciations, the affirmatives inferring
the negatives and not being inferred by them, as is clear in the exposition of
Ammonius as well as of Porphyry. In enunciations in which the finite name
universally taken is the subject there are also two oppositions and four
eminciations, the affirmatives inferring the negatives and not the contrary.
Hence, enunciations are related in a similar way if the affirmation is made
universally of the name taken as the subject. For again, four enunciations will
be made, two with a finite predicate-"Every man is just,” and its negation,
"Not every man is just”-and two with an infinite predicate-"Every man
is non-just” and its negation, "Not every man is non-just.” And since any
affirmation together with its negation makes one whole opposition, two
oppositions are made, as was also said of indefinite enunciations. There might
seem to be an objection to his use of particulars when speaking of universal
enunciations, but this cannot be objected to, for just as in dealing with
indefinite enunciations he spoke of their negations, so now in dealing with
universal affirmatives be is forced to speak of their negations. The negation
of the universal affirmative, however, is not the do universal but the
particular negative as was stated in the first book. Cajetanus lib. 2 l. 3 n.
3Quod autem similis sit consequentia in istis et supradictis indefinitis patet
exemplariter. Et ne multa loquendo res clara prolixitate obtenebretur, formetur
primo figura de indefinitis, quae supra posita est in expositione Porphyrii,
scilicet ex una parte ponatur affirmativa finita, et sub ea negativa infinita,
et sub ista negativa privativa. Ex altera parte primo negativa finita, et sub
ea affirmativa infinita, et sub ea affirmativa privativa. Deinde sub illa
figura formetur alia figura similis illi universaliter: ponatur scilicet ex una
parte universalis affirmativa de praedicato finito, et sub ea particularis
negativa de praedicato infinito, et ad complementum similitudinis sub ista
particularis negativa de praedicato privativo; ex altera vero parte ponatur
primo particularis negativa de praedicato infinito, et sub ea universalis
affirmativa de praedicato finito, et sub ista universalis affirmativa de
praedicato privativo, hoc modo: (Figura). Quibus ita dispositis, exerceatur
consequentia semper in ista proxima figura, sicut supra in indefinitis exercita
est: sive sequendo expositionem Ammonii, ut infinitae se habeant ad finitas,
sicut privativae se habent ad ipsas finitas; finitae autem non se habeant ad
infinitas medias, sicut privativae se habent ad ipsas infinitas: sive sectando
expositionem Porphyrii, ut affirmativae inferant negativas, et non e contra.
Utrique enim expositioni suprascriptae deserviunt figurae, ut patet diligenter
indaganti. Similiter ergo se habent enunciationes istae universales ad
indefinitas in tribus, scilicet in numero propositionum, et numero
oppositionum, et modo consequentiae. A table will make it evident that the
consequence is similar in these and in indefinite eminciations. And lest what
is clear be made obscure by prolixity let us first make a diagram of the
indefinites posited in the last lesson, based upon the exposition of Porphyry.
Place the finite affirmative on one side and under it the infinite negative,
and under this the privative negative. On the other side put the finite
negative first, under it the infinite affirmative, and under this the privative
affirmative. Then under this diagram make another similar to it but of
universals. On one side put the universal affirmative of the finite predicate,
under it the particular negative of the infinite predicate, and to complete the
parallel put the particular negative of the privative predicate under this. On
the other side, first put the particular negative of the infinite predicate,
under it the universal affirmative of the finite predicate,” and under this the
universal affirmative of the privative predicate. Thus: DIAGRAM OF THE
INDEFINITES Man is just Man is not just Man is not non-just Man is non-just Man
is not unjust Man is unjust DIAGRAM OF THE UNIVERSALS Every man is just Not
every man is just. Not every man is non-just Every man is non-just Not every
man is unjust Every man is unjust In this disposition of enunciations, the
consequence always follows in the second diagram just as it followed in regard
to indefinites in the first diagram. This is true if we follow the exposition
of Ammonius in which infinites are related to finites as privatives are related
to the same finites, and the finites not related to the infinite middle
enunciatious as privatives are related to those infinites. It is equally true
if we follow the exposition of Porphyry, in which affirmatives infer negatives
and not vice versa. That the tables serve both expositions will be clear to one
studying them. These universal enunciations, therefore, are related in like manner
to indefinite entinciations in three things: the number of propositions, the
number of oppositions, and the mode of consequence. 4 Deinde cum dicit: sed non
similiter angulares etc., ponit dissimilitudinem inter istas universales et
supradictas indefinitas, in hoc quod angulares non similiter contingit veras
esse. Quae verba primo exponenda sunt secundum eam, quam credimus esse ad
mentem Aristotelis, expositionem; deinde secundum alios. Angulares
enunciationes in utraque figura suprascripta vocat eas quae sunt diametraliter
oppositae, scilicet affirmativam finitam ex uno angulo, et affirmativam
infinitam sive privativam ex alio angulo: et similiter negativam finitam ex uno
angulo, et negativam infinitam vel privativam ex alio angulo. When he says, But
it is not possible, in the same way as in the former case, that those on the
diagonal both be true, etc., he proposes a difference between the universals
and the indefinites, i.e., that it is not possible for the diagonals to be true
in the case of universals. First we will explain these words according to the
exposition we believe Aristotle had in mind, then according to the opinion of
others. Aristotle means by diagonal eminciations those that are diametrically
opposed in the diagram above, i.e., the finite affirmative in one corner and
the infinite affirmative or the privative in the other; and the finite negative
in one corner and the, infinite negative or privative in the other. 5 Enunciationes
ergo in qualitate similes angulares vocatae, eo quod angulares, idest
diametraliter distant, dissimilis veritatis sunt apud indefinitas et
universales. Angulares enim indefinitae tam in diametro affirmationum, quam in
diametro negationum possunt esse simul verae, ut patet in suprascripta figura
indefinitarum. Et hoc intellige in materia contingenti. Angulares vero in
figura universalium non sic se habent, quoniam angulares secundum diametrum
affirmationum impossibile est esse simul veras in quacumque materia. Angulares
autem secundum diametrum negationum quandoque possunt esse simul verae, quando
scilicet fiunt in materia contingenti: in materia enim necessaria et remota
impossibile est esse ambas veras. Haec est Boethii, quam veram credimus, expositio.
Enunciations that are similar in quality, and called diagonal because
diametrically distant, are dissimilar in truth, tben, in the case of
indefinites and universals. The indefinites on the corners, both oil the
diagonal of affirmations and the diagonal of negations can be simultaneously
true, as is evident in the table of the indefinite entinciations. This is to be
understood in regard to contingent matter. But diagonals of universals are not
so related, for angtilars on the diagonal of affirmations cannot be
simultaneously true in any matter. Those on the diagonal of negations, however,
can sometimes be true simultaneously, i.e., when they are in contingerlt
matter. In necessary and rernote matter it is impossible for both of these to
be true. This is the exposition of Boethitis, which we believe to be the true one.
6 Herminus autem, Boethio referente, aliter exponit. Licet enim ponat
similitudinem inter universales et indefinitas quoad numerum enunciationum et
oppositionum, oppositiones tamen aliter accipit in universalibus et aliter in
indefinitis. Oppositiones siquidem indefinitarum numerat sicut et nos
numeravimus, alteram scilicet inter finitas affirmativam et negativam, et
alteram inter infinitas affirmativam et negativam, quemadmodum nos fecimus.
Universalium vero non sic numerat oppositiones, sed alteram sumit inter
universalem affirmativam finitam et particularem negativam finitam, scilicet
omnis homo est iustus, non omnis homo est iustus, et alteram inter eamdem
universalem affirmativam finitam et universalem affirmativam infinitam,
scilicet omnis homo est iustus, omnis homo est non iustus. Inter has enim est
contrarietas, inter illas vero contradictio. Dissimilitudinem etiam
universalium ad indefinitas aliter ponit. Non enim nobiscum fundat
dissimilitudinem inter angulares universalium et indefinitarum supra
differentiam quae est inter angulares universalium affirmativas et negativas,
sed supra differentiam quae est inter ipsas universalium angulares inter se ex
utraque parte. Format namque talem figuram, in qua ex una parte sub universali
affirmativa finita, universalis affirmativa infinita est; et ex alia parte sub
particulari negativa finita, particularis negativa infinita ponitur; sicque
angulares sunt disparis qualitatis, et similiter indefinitarum figuram format
hoc modo: (Figura). Quibus ita dispositis, ait in hoc stare dissimilitudinem,
quod angulares indefinitarum mutuo se invicem compellunt ad veritatis sequelam,
ita quod unius angularis veritas suae angularis veritatem infert undecumque
incipias. Universalium vero angulares non se mutuo compellunt ad veritatem, sed
ex altera parte necessitas deficit illationis. Si enim incipias ab aliquo
universalium et ad suam angularem procedas, veritas universalis non ita potest
esse simul cum veritate angularis, quod compellit eam ad veritatem: quia si
universalis est vera, sua universalis contraria erit falsa: non enim possunt
esse simul verae. Et si ista universalis contraria est falsa, sua
contradictoria particularis, quae est angularis primae universalis assumptae,
erit necessario vera: impossibile est enim contradictorias esse simul falsas.
Si autem incipias e converso ab aliqua particularium et ad suam angularem
procedas, veritas particularis ita potest stare cum veritate suae angularis,
quod tamen non necessario infert eius veritatem: quia licet sequatur: particularis
est vera; ergo sua universalis contradictoria est falsa; non tamen sequitur
ultra: ista universalis contradictoria est falsa; ergo sua universalis
contraria, quae est angularis particularis assumpti, est vera. Possunt enim
contrariae esse simul falsae. Herminus, however, according to Boethius,
explains this in another way. He takes the oppositions in one way in universals
and in another in indefinites, although he holds that there is a likeness
between universals and indefinites with respect to the n timber of enunciations
and of oppositions. He arrives at the oppositions of indefinites we have, i.e.,
one between the affirmative and negative finites, and the other between the
affirmative and negative infinites. But he disposes the oppositions of
universals in another way, taking one between the finite universal affirmative
and finite particular negative, "Every man is just” and "Not every
man is just,” and the other between the same finite universal affirmative and
the infinite universal affirmative, "Every man is just” and "Every
man is non-just.” Between the latter there is contrariety, between the former
contradiction. He also proposes the dissimilarity between universals and
indefinites in another way. He does not base the dissimilarity between
diagonals of universals and indefinites on the difference between affirinative
and negative diagonals of universals, as we do, but on the difference between
the diagonals of universals on both sides among themselves. Hence he forms his
diagram in this way: under the finite universal affirmative be places the
infinite universal affirmative, and on the other side, under the finite
particular negative the infinite particular negative. Thus the diagonals are of
different quality. He also diagrams the indefinites in this way. Every man is
just ? contradictories ? Not every man is just contraries subcontraries Every
man is non-just ? contradictories? Not every man is non-just Man is just Man is
non-just Man is not just Man is not non-just With enunciations disposed in this
way he says their difference is this: that in indefinite enunciations, one on
the diagonal is true as a necessary consequence of the truth of the other, so
that the truth of one enunciation infers the truth of its diagonal from
wherever you begin * But there is no such mutual necessary consequence in
universals—from the truth of one on a diagonal to the other—since the necessity
of inference fails in part. If you begin from any of the universals and proceed
to its diagonal, the truth of the universal cannot be simultaneous with the
truth of its diagonal so as to compel it to truth. For if the universal is true
its universal contrary will be false, since they cannot be at once true; and if
this universal contrary is false, its particular contradictory, which is the
diagonal of the first universal assumed, will necessarily be true, since it is
impossible for contradictories to be at once false; but if, conversely, you
begin with a particular enunciation and proceed to its diagonal, the truth of
the particular can so stand with the truth of its diagonal that it does not
infer its truth necessarily. For this follows: the particular is true,
therefore its universal contradictory is false. But this does not follow: this
universal contradictory is false, therefore its universal contrary, which is
the diagonal of the particular assumed, is true. For contraries can be at once false.
7 Sed videtur expositio ista deficere ab Aristotelis mente quoad modum sumendi
oppositiones. Non enim intendit hic loqui de oppositione quae est inter finitas
et infinitas, sed de ea quae est inter finitas inter se, et infinitas inter se.
Si enim de utroque modo oppositionis exponere volumus, iam non duas, sed tres
oppositiones inveniemus: primam inter finitas, secundam inter infinitas,
tertiam quam ipse herminus dixit inter finitam et infinitam. Figura etiam quam
formavit, conformis non est ei, quam Aristoteles in fine I priorum formavit, ad
quam nos remisit, cum dixit: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum
est, sic sunt disposita. In Aristotelis namque figura, angulares sunt
affirmativae affirmativis, et negativae negativis. But the way in which
oppositions are taken in this exposition does not seem to be what Aristotle had
in mind. He did not intend to speak here of the opposition between finites and
infinites, but of the opposition between finites themselves and infinites
themselves. For if we meant to explain each mode of opposition, there would not
be two but three oppositions: first, between finites; second, between infinites;
and third, the one Herminus states between finite and infinite. Even the
diagram Herminus makes is not like the one Aristotle makes at the end of I
Priorum, to which Aristotle himself referred us in the last lesson when he
said, This, then, is the way these are arranged, as we have said in the
Analytics; for in Aristotle’s diagram affirmatives are diagonal to affirmatives
and negatives to negatives. 8 Deinde cum dicit: hae igitur duae etc., concludit
numerum propositionum. Et potest dupliciter exponi; primo, ut ly hae demonstret
universales, et sic est sensus, quod hae universales finitae et infinitae
habent duas oppositiones, quas supra declaravimus; secundo, potest exponi ut ly
hae demonstret enunciationes finitas et infinitas quoad praedicatum sive
universales sive indefinitas, et tunc est sensus, quod hae enunciationes
supradictae habent duas oppositiones, alteram inter affirmationem finitam et
eius negationem, alteram inter affirmationem infinitam et eius negationem.
Placet autem mihi magis secunda expositio, quoniam brevitas cui Aristoteles
studebat, replicationem non exigebat, sed potius quia enunciationes finitas et
infinitas quoad praedicatum secundum diversas quantitates enumeraverat, ad duas
oppositiones omnes reducere, terminando earum tractatum, voluit. Then Aristotle
says, These two pairs, then, are opposed, etc. Here he concludes to the number
of propositions. What he says here can be interpreted in two ways. In the first
way, "these” designates universals, and thus the meaning is that the
finite and infinite universals have two oppositions, which we have explained
above. In the second, "these” designates enunciations which are finite and
infinite with respect to the predicate, whether universal or indefinite, and
then the meaning is that these enunciations have two oppositions, one between
the finite affirmation and its negation and the other between the infinite
affirmation and its negation. The second exposition seems more satisfactory to
me, for the brevity for which, Aristotle strove allows for no repetition;
hence, in terminating his treatment of the enunciations he had enumerated—those
with a finite and infinite predicate according to diverse quantities—he meant
to reduce all the oppositions to two. 9 Deinde
cum dicit: aliae autem ad id quod est etc., intendit declarare diversitatem
enunciationum de tertio adiacente, in quibus subiicitur nomen infinitum. Et
circa hoc tria facit: primo, proponit et distinguit eas; secundo, ostendit quod
non dantur plures supradictis; ibi: magis autem etc.; tertio, ostendit
habitudinem istarum ad alias; ibi: hae autem extra et cetera. Ad evidentiam
primi advertendum est tres esse species enunciationum de inesse, in quibus
explicite ponitur hoc verbum est. Quaedam sunt, quae subiecto sive finito sive infinito
nihil habent additum ultra verbum, ut, homo est, non homo est. Quaedam vero
sunt quae subiecto finito habent, praeter verbum, aliquid additum sive finitum
sive infinitum, ut, homo est iustus, homo est non iustus. Quaedam autem sunt
quae subiecto infinito, praeter verbum, habent aliquid additum sive finitum
sive infinitum, ut, non homo est iustus, non homo est non iustus. Et quia de
primis iam determinatum est, ideo de ultimis tractare volens, ait: aliae autem
sunt, quae habent aliquid, scilicet praedicatum, additum supra verbum est, ad
id quod est, non homo, quasi ad subiectum, idest ad subiectum infinitum. Dixit
autem quasi, quia sicut nomen infinitum deficit a ratione nominis, ita deficit
a ratione subiecti. Significatum siquidem nominis infiniti non proprie
substernitur compositioni cum praedicato quam importat, est, tertium adiacens.
Enumerat quoque quatuor enunciationes et duas oppositiones in hoc ordine, sicut
in superioribus fecit. Distinguit etiam istas ex finitate vel infinitate
praedicata. Unde primo, ponit oppositiones inter affirmativam et negativam
habentes subiectum infinitum et praedicatum finitum, dicens: ut, non homo est
iustus, non homo non est iustus. Secundo, ponit oppositionem alteram inter
affirmativam et negativam, habentes subiectum infinitum et praedicatum
infinitum, dicens: ut, non homo est non iustus, non homo non est non iustus. When
he says, and there, are two other pairs if something is added to "non-man”
as a subject, etc., he shows the diversity of enunciations when "is” is
added as a third element and the subject is an infinite name. First, he
proposes and distinguishes them; secondly, he shows that there are no more
opposites than these where he says, There will be no more opposites than these;
thirdly, he shows the relationship of these to the others where he says, The
latter, however, are separate from the former and distinct from them, etc. With
respect to the first point, it should be noted that there are three species of
absolute [de inesse] enunciations in which the verb "is” is posited
explicitly. Some have nothing added to the subject—which can be either finite
or infinite—beyond the verb, as in "Man is,” "Non-man is.” Some have,
besides the verb, something either finite or infinite added to a finite
subject, as in "Man is just,” "Man is non-just.” Finally, some have,
besides the verb, something either finite or infinite added to an infinite
subject, as in "Non-man is just,” "Non-man is non-just.” He has
already treated the first two and now intends to take tip the last ones. And
there are two other pairs, he says, that have something, namely a predicate.
added beside the verb "is” to "non-man” as if to a subject, i.e., to
an infinite subject. He says "as if” because the infinite name falls short
of the notion of a subject insofar as it falls short of the notion of a name.
Indeed, the signification of an infinite name is not properly submitted to
composition with the predicate, which "is,” the third element added,
introduces. Aristotle enumerates four enunciations and two oppositions in this
order as he did in the former. In addition he distinguishes these from the
former finiteness and infinity. First, he posits the opposition between
affirmative and negative enunciations with an infinite subject and a finite
predicate, "Non-man is just,” "Non-man is not just.” Then he posits
another opposition between those with an infinite subject and an infinite
predicate, "Non-man is non-just,” "Non-man is not non-just. 10 Deinde
cum dicit: magis autem plures etc., ostendit quod non dantur plures
oppositiones enunciationum supradictis. Ubi notandum est quod enunciationes de
inesse, in quibus explicite ponitur hoc verbum est, sive secundum, sive tertium
adiacens, de quibus loquimur, non possunt esse plures quam duodecim supra
positae; et consequenter oppositiones earum secundum affirmationem et
negationem non sunt nisi sex. Cum enim in tres ordines divisae sint
enunciationes, scilicet in illas de secundo adiacente, in illas de tertio
subiecti finiti, et in illas de tertio subiecti infiniti, et in quolibet ordine
sint quatuor enunciationes; fiunt omnes enunciationes duodecim, et oppositiones
sex. Et quoniam subiectum earum in quolibet ordine potest quadrupliciter
quantificari, scilicet universalitate, particularitate, et singularitate et
indefinitione; ideo istae duodecim multiplicantur in quadraginta octo. Quater
enim duodecim quadraginta octo faciunt. Nec possibile est plures his imaginari.
Et licet Aristoteles nonnisi viginti harum expresserit, octo in primo ordine,
octo in secundo, et quatuor in tertio, attamen per eas reliquas voluit
intelligi. Sunt autem sic enumerandae et ordinandae secundum singulos ordines,
ut affirmationi negatio prima ex opposito situetur, ut oppositionis intentum
clarius videatur. Et sic contra universalem affirmativam non est ordinanda
universalis negativa, sed particularis negativa, quae est illius negatio; et e
converso, contra particularem affirmativam non est ordinanda particularis
negativa, sed universalis negativa quae est eius negatio. Ad clarius autem intuendum
numerum, coordinandae sunt omnes, quae sunt similis quantitatis, simul in recta
linea, distinctis tamen ordinibus tribus supradictis. Quod ut clarius
elucescat, in hac subscripta videatur figura: (Figura). Quod autem plures his
non sint, ex eo patet quod non contingit pluribus modis variari subiectum et
praedicatum penes finitum et infinitum, nec pluribus modis variantur finitum et
infinitum subiectum. Nulla enim enunciatio de secundo adiacente potest variari
penes praedicatum finitum vel infinitum, sed tantum penes subiectum quod
sufficienter factum apparet. Enunciationes autem de tertio adiacente
quadrupliciter variari possunt, quia aut sunt subiecti et praedicati finiti,
aut utriusque infiniti, aut subiecti finiti et praedicati infiniti, aut subiecti
infiniti et praedicati finiti. Quarum nullam praetermissam esse superior docet
figura. Then he says, There will be no more opposites than these. Here he
points out that there are no more oppositions of enunciations than the ones be
has already given. We should note, then, that simple [or absolute]
enunciations—of which we have been speaking—in which the verb "is” is
explicitly posited whether it is the second or third element added, cannot be
more than the twelve posited. Consequently, their oppositions according to
affirmation and negation are only six. For enunciations are divided into three
orders: those with the second element added, those with the third element added
to a finite subject, and those with the third element added to an infinite
subject; and in any order there are four enunciations. And since their subject
in any order can be quantified in four ways, i.e., by universality,
particularity, singularity, and indefiniteness, these twelve will be increased
to fortyeight (four twelves being forty-eight). Nor is it possible to imagine
more than these. Aristotle has only expressed twenty of these, eight in the
first order, eight in the second, and four in the third, but through them be
intended the rest to be understood. They are to be enumerated and disposed
according to each order so that the primary negation is placed opposite an
affirmation in order to make the relation of opposition more evident. Thus, the
universal negative should not be ordered as opposite to the universal
affirmative, but the particular negative, which is its negation. Conversely,
the particular negative should not be ordered as opposite to the particular
affirmative, but the universal negative, which is its negation. For a clearer
look at their number all those of similar quantity should be co-ordered in a
straight line and in the three distinct orders given above. The following
diagram will make this clear. FIRST ORDER Socrates is Socrates is not
Non-Socrates is Non-Socrates is not Some man is Some man is not Some non-man is
Some non-man is not Man is Man is not Non-man is Non-man is not Every man is No
man is Every non-man is No non-man is SECOND ORDER Socrates is just Socrates is
not just Socrates is non-just Socrates is not non-just Some man is just Some
man is not just Some man is non-just Some man is not non-just Man is just Man
is not just Man is non-just Man is not non-just Every man is just No man is
just Every man is non-just No man is non-just THIRD ORDER Non-Socrates is just
Non-Socrates is not just Non-Socrates is non-just Non-Socrates is not non-just
Some non-man is just Some non-man is not just Some non-man is non-just Some
non-man is not non-just Non-man is just Non-man is not just Non-man is non-just
Non-man is not non-just Every non-man is just No non-man is just Every non-man
is non-just No non-man is non-just It is evident that there are no more than
these, for the subject and the predicate cannot be varied in any other way with
respect to finite and infinite. Nor can the finite and infinite subject be varied
in any other way, for the enunciation with a second adjoining element cannot be
varied with a finite and infinite predicate but only in respect to the subject.
This is clear enough. But enunciations with a third adjoining element can be
varied in four ways: they may have either a finite subject and predicate, or an
infinite subject and predicate, or a finite subject and infinite predicate, or
an infinite subject and finite predicate. These variations are all evident in
the above table. 11 Deinde cum dicit: hae autem extra illas etc., ostendit
habitudinem harum quas in tertio ordine numeravimus ad illas, quae in secundo
sitae sunt ordine, et dicit quod istae sunt extra illas, quia non sequuntur ad
illas, nec e converso. Et rationem assignans subdit: ut nomine utentes eo quod
est non homo, idest ideo istae sunt extra illas, quia istae utuntur nomine
infinito loco nominis, dum omnes habent subiectum infinitum. Notanter autem
dixit enunciationes subiecti infiniti uti ut nomine, infinito nomine, quia cum
subiici in enunciatione proprium sit nominis, praedicari autem commune nomini
et verbo, omne subiectum enunciationis ut nomen subiicitur. Then when he says,
The latter, however, are separate from the former and distinct from them, etc.,
he shows the relationship of those we have put in the third order to those in
the second order. The former, he says, are distinct from the latter because
they do not follow upon the latter, nor conversely. He assigns the reason when
he adds: because of the use of "non-man” as a name, i.e., the former are
separate from the latter because the former use an infinite name in place of a
name, since they all have an infinite subject. It should be noted that he says
enunciations of an infinite subject use an infinite name as a name; for to be
subjected in an enunciation is proper to a name, to be predicated common to a
name and a verb, and therefore every subject of an enunciation is subjected as
a name. 12 Deinde cum dicit: in his vero in quibus est etc., determinat de
enunciationibus in quibus ponuntur verba adiectiva. Et circa hoc tria facit:
primo, distinguit eas; secundo, respondet cuidam tacitae quaestioni; ibi: non
enim dicendum est etc.; tertio, concludit earum conditiones; ibi: ergo et
caetera eadem et cetera. Ad evidentiam primi resumendum est, quod inter
enunciationes in quibus ponitur est secundum adiacens, et eas in quibus ponitur
est tertium adiacens talis est differentia quod in illis, quae sunt de secundo
adiacente, simpliciter fiunt oppositiones, scilicet ex parte subiecti tantum
variati per finitum et infinitum; in his vero, quae habent est tertium adiacens
dupliciter fiunt oppositiones, scilicet et ex parte praedicati et ex parte
subiecti, quia utrumque variari potest per finitum et infinitum. Unde unum
ordinem tantum enunciationum de secundo adiacente fecimus, habentem quatuor
enunciationes diversimode quantificatas et duas oppositiones. Enunciationes
autem de tertio adiacente oportuit partiri in duos ordines, quia sunt in eis
quatuor oppositiones et octo enunciationes, ut supra dictum est. Considerandum
quoque est quod enunciationes, in quibus ponuntur verba adiectiva, quoad
significatum aequivalent enunciationibus de tertio adiacente, resoluto verbo
adiectivo in proprium participium et est, quod semper fieri licet, quia in omni
verbo adiectivo clauditur verbum substantivum. Unde idem significant ista,
omnis homo currit, quod ista, omnis homo est currens. Propter quod Boethius
vocat enunciationes cum verbo adiectivo de secundo adiacente secundum vocem, de
tertio autem secundum potestatem, quia potest resolvi in tertium adiacens, cui
aequivalet. Quoad numerum autem enunciationum et oppositionum, enunciationes
verbi adiectivi formaliter sumptae non aequivalent illis de tertio adiacente,
sed aequivalent enunciationibus, in quibus ponitur est secundum adiacens. Non
possunt enim fieri oppositiones dupliciter in enunciationibus adiectivis,
scilicet ex parte subiecti et praedicati, sicut fiebant in substantivis de
tertio adiacente, quia verbum, quod praedicatur in adiectivis, infinitari non
potest. Sed oppositiones adiectivarum fiunt simpliciter, scilicet ex parte
subiecti tantum variati per infinitum et finitum diversimode quantificati,
sicut fieri didicimus supra in enunciationibus substantivis de secundo
adiacente, eadem ducti ratione, quia praeter verbum nulla est affirmatio vel
negatio, sicut praeter nomen esse potest. Quia autem in praesenti tractatu non
de significationibus, sed de numero enunciationum et oppositionum sermo
intenditur, ideo Aristoteles determinat diversificandas esse enunciationes
adiectivas secundum modum, quo distinctae sunt enunciationes in quibus ponitur
est secundum adiacens. Et ait quod in his enunciationibus, in quibus non
contingit poni hoc verbum est formaliter, sed aliquod aliud, ut, currit, vel,
ambulat, idest in enunciationibus adiectivis, idem faciunt quoad numerum
oppositionum et enunciationum sic posita, scilicet nomen et verbum, ac si est
secundum adiacens subiecto nomini adderetur. Habent enim et istae adiectivae,
sicut illae, in quibus ponitur est, duas oppositiones tantum, alteram inter
finitas, ut, omnis homo currit, omnis homo non currit, alteram inter infinitas
quoad subiectum, ut, omnis non homo currit, omnis non homo non currit. Next he
takes up enunciations in which adjective verbs are posited, when he says, In
enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject,
etc. First, he distinguishes these adjective verbs; secondly, he answers an
implied question where he says, We must not say "non-every man,” etc.;
thirdly, he concludes with their conditions where he says, All else in the
enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject will
be the same, etc. It is necessary to note here that there is a difference
between enunciations in which "is” is posited as a second adjoining
element and those in which it is posited as a third element. In those with
"is” as a second element oppositions are simple, i.e., varied only on the
part of the subject by finite and infinite. In those having "is” as a
third element oppositions are made in two ways—on the part of the predicate and
on the part of the subject—for both can be varied by finite and infinite. Hence
we made only one order of enunciations with "is” as the second element. It
had four enunciations quantified in diverse ways, and two oppositions. But
enunciations with "is” as a third element must be divided into two orders,
because in them there are four oppositions and eight enunciations, as we said
above. Enunciations with adjective verbs are made equivalent in signification
to enunciations with "is” as the third element by resolving the adjective
verb into its proper participle and "is,” which may always be done because
a substantive verb is contained in every adjective verb. For example,
"Every man runs” signifies the same thing as "Every man is running.”
Because of this Boethius calls enunciations having an adjective verb
"eminciations of the second adjoining element according to vocal sound,
but of the third adjoining element according to power.” He designates them in
this manner because they can be resolved into enunciations with a third
adjoining element to which they are equivalent. With respect to the number and
oppositions of enunciations, those with an adjective verb, formally taken, are
not equivalent to those with a third adjoining element but to those in which
"is” is posited as the second element. For oppositions cannot be made in
two ways in adjectival enunciations as they are in the case of substantival
enunciations with a third adjoining element, namely, on the part of the subject
and predicate, because the verb which is predicated in adjectival enunciations
cannot be made infinite. Hence oppositions of adjectival enunciations are made
simply, i.e., only by the subject quantified in diverse ways being varied by
finite and infinite, as was done above in substantival enunciations with a
second adjoining element, and for the same reason, i.e., there can be no
affirmation or negation without a verb but there can be without a name. Since
the present treatment is not of significations but of the number of
enunciations and oppositions, Aristotle determines that adjectival enunciations
are to be diversified according to the mode in which enunciations with
"is” as the second adjoining element are distinguished. And he says that
in enunciations in which the verb "is” is not posited formally, but some
other verb, such as "matures” or "walks,” i.e., in adjectival
enunciations, the name and verb form the same scheme with respect to the number
of oppositions and enunciations as when is as a second adjoining element is
added to the name as a subject. For these adjectival enunciations, like the
ones in which "is” is posited, have only two oppositions, one between the
finites, as in "Every man runs,” "Not every man runs,” the other
between the infinites with respect to subject, as in "Every non-man runs,”
"Not every non-man runs.” 13 Deinde cum dicit: non enim dicendum est etc.,
respondet tacitae quaestioni. Et circa hoc facit duo: primo, ponit solutionem
quaestionis; deinde, probat eam; ibi: manifestum est autem et cetera. Est ergo
quaestio talis: cur negatio infinitans numquam addita est supra signo
universali aut particulari, ut puta, cum vellemus infinitare istam, omnis homo
currit, cur non sic infinitata est, non omnis homo currit, sed sic, omnis non
homo currit? Huic namque quaestioni respondet, dicens quod quia nomen
infinitabile debet significare aliquid universale, vel singulare; omnis autem
et similia signa non significant aliquid universale aut singulare, sed quoniam
universaliter aut particulariter; ideo non est dicendum, non omnis homo, si
infinitare volumus (licet debeat dici, si negare quantitatem enunciationis
quaerimus), sed negatio infinitans ad ly homo, quod significat aliquid
universale, addenda est, et dicendum, omnis non homo. Then he answers an
implied question when he says, We, must not say "non-every man” but must
add the negation to man, etc. First he states the solution of the question,
then he proves it where he says, This is evident from the following, etc. The
question is this: Why is the negation that makes a word infinite never added to
the universal or particular sign? For example, when we wish to make "Every
man runs” infinite, why do we do it in this way "Every non-man runs,” and
not in this, "Non-every man runs.” He answers the question by saying that
to be capable of being made infinite a name has to signify something universal
or singular. "Every” and similar signs, however, do not signify something
universal or singular, but that something is taken universally or particularly.
Therefore, we should not say "non-every man” if we wish to infinitize
(although it may be used if we wish to deny the quantity of an enunciation),
but must add the infinitizing negation to "man,” which signifies something
universal, and say "every non-man.” 14 Deinde cum dicit: manifestum est
autem ex eo quod est etc., probat hoc quod dictum est, scilicet quod omnis et
similia non significant aliquod universale, sed quoniam universaliter tali
ratione. Illud, in quo differunt enunciationes praecise differentes per habere
et non habere ly omnis, est non universale aliquod, sed quoniam universaliter;
sed illud in quo differunt enunciationes praecise differentes per habere et non
habere ly omnis, est significatum per ly omnis; ergo significatum per ly omnis
est non aliquid universale, sed quoniam universaliter. Minor huius rationis,
tacita in textu, ex se clara est. Id enim in quo, caeteris paribus, habentia a
non habentibus aliquem terminum differunt, significatum est illius termini.
Maior vero in littera exemplariter declaratur sic. Illae enunciationes homo
currit, et omnis homo currit, praecise differunt ex hoc, quod in una est ly
omnis, et in altera non. Tamen non ita differunt ex hoc, quod una sit
universalis, alia non universalis. Utraque enim habet subiectum universale,
scilicet ly homo, sed differunt, quia in ea, ubi ponitur ly omnis, enunciatur
de subiecto universaliter, in altera autem non universaliter. Cum enim dico,
homo currit, cursum attribuo homini universali, sive communi, sed non pro tota
humana universitate; cum autem dico, omnis homo currit, cursum inesse homini
pro omnibus inferioribus significo. Simili modo declarari potest de tribus
aliis, quae in textu adducuntur, scilicet, homo non currit, respectu suae universalis
universaliter, omnis homo non currit: et sic de aliis. Relinquitur ergo, quod,
omnis et nullus et similia signa nullum universale significant, sed tantummodo
significant, quoniam universaliter de homine affirmant vel negant. Where he
says, This is evident from the following, etc., he proves that "every” and
similar words do not signify a universal but that a universal is taken
universally. His argument is the following: That by which enunciations having
or not having the "every” differ is not the universal; rather, they differ
in that the universal is taken universally. But that by which enunciations
having and not having the "every” differ is signified by the "every.”
Therefore, that which is signified by the "every” is not a universal but
that the universal is taken universally. The minor of the argument is evident,
though not explicitly given in the text: that in which the having of some term
differs from the not having of it, other things being equal, is the
signification of that term. The major is made evident by examples. The
enunciations "Man matures” and "Every man matures” differ precisely
by the fact that in one there is an "every,” in the other not. However,
they do not differ in such a way by this that one is universal, the other not
universal, for both have the universal subject, "man”; they differ because
in the one in which "every” is posited, the enunciation is of the subject
universally, but in the other not universally. For when I say, "Man
matures,” I attribute maturing to "man” as universal or common but not to
man as to the whole human race; when I say, "Every man matures,” however,
I signify maturing to be present to man according to all the inferiors. This is
evident, too, in the three other examples of enunciations in Aristotle’s text.
For example, "Non-man matures” when its universal is taken universally
becomes "Every non-man matures,” and so of the others. It follows,
therefore, that "every” and "no” and similar signs do not signify a
universal but only signify that they affirm or deny of man universally. 15 Notato
hic duo: primum est quod non dixit omnis et nullus significat universaliter,
sed quoniam universaliter; secundum est, quod addit, de homine affirmant vel
negant. Primi ratio est, quia signum distributivum non significat modum ipsum
universalitatis aut particularitatis absolute, sed applicatum termino
distributo. Cum enim dico, omnis homo, ly omnis denotat universitatem applicari
illi termino homo, ita quod Aristoteles dicens quod omnis significat quoniam
universaliter, per ly quoniam insinuavit applicationem universalitatis
importatam in ly omnis in actu exercito, sicut et in I posteriorum, in
definitione scire applicationem causae notavit per illud verbum quoniam,
dicens: scire est rem per causam cognoscere, et quoniam illius est causa. Ratio
autem secundi insinuat differentiam inter terminos categorematicos et
syncategorematicos. Illi siquidem ponunt significata supra terminos absolute;
isti autem ponunt significata sua supra terminos in ordine ad praedicata. Cum
enim dicitur, homo albus, ly albus denominat hominem in seipso absque respectu
ad aliquod sibi addendum. Cum vero dicitur, omnis homo, ly omnis etsi hominem
distribuat, non tamen distributio intellectum firmat, nisi in ordine ad aliquod
praedicatum intelligatur. Cuius signum est, quia, cum dicimus, omnis homo
currit, non intendimus distribuere hominem pro tota sua universitate absolute,
sed in ordine ad cursum. Cum autem dicimus, albus homo currit, determinamus
hominem in seipso esse album et non in ordine ad cursum. Quia ergo omnis et
nullus, sicut et alia syncategoremata, nil aliud in enunciatione faciunt, nisi
quia determinant subiectum in ordine ad praedicatum, et hoc sine affirmatione
et negatione fieri nequit; ideo dixit quod nil aliud significant, nisi quoniam
universaliter de nomine, idest de subiecto, affirmant vel negant, idest
affirmationem vel negationem fieri determinant, ac per hoc a categorematicis ea
separavit. Potest etiam referri hoc quod dixit, affirmant vel negant, ad ipsa
signa, scilicet omnis et nullus, quorum alterum positive distribuit, alterum
removendo. Two things should be noted here: first, that Aristotle does not say
"every” and "no” signify universally, but that the universal is taken
universally; secondly, that he adds, they affirm or deny of man. The reason for
the first is that the distributive sign does not signify the mode of
universality or of particularity absolutely, but the mode applied to a
distributed term. When I say, "every man” the "every” denotes that
universality is applied to the term "man.” Hence, when Aristotle says
"every” signifies that a universal is taken universally, by the
"that” he conveys the application in actual exercise of the universality
denoted by the "every,” just as in I Posteriorum [2: 71b 10] in the definition
of "to know,” namely, To know scientifically is to know a thing through
its cause and that this is its cause, he signifies by the word "that” the
application of the cause. The reason for the second is to imply the difference
between categorematic and syneategorematic terms. The former apply what is
signified to the terms absolutely; the latter apply what they signify to the
terms in relation to the predicates. For example, in "white man” the
"white” denominates man in himself apart from any regard to something to
be added; but in "every man,” although the "every” distributes man,”
the distribution does not confirm the intellect unless it is under stood in
relation to some predicate. A sign of this is that when we say "Every man
runs” we do not intend to distribute "man” in its whole universality
absolutely, but only in relation to "running.” When we say "White man
runs,” on the other hand, we designate man in himself as "white” and not
in relation to "running.” Therefore, since "every” and "no” and the
other syncategorematic terms do nothing except determine the subject in
relation to the predicate in the enunciation, and this cannot be done without
affirmation and negation, Aristotle says that they only signify that the
affirmation or negation is of a name, i.e., of a subject, universally, i.e.,
they prescribe the affirmation or negation that is being formed, and by this he
separates them from categorematic terms. They affirm, or deny can also be
referred to the signs themselves i.e., "every” and "no,” one of which
distributes positively, the other distributes by removing. 16 Deinde cum dicit:
ergo et caetera eadem etc., concludit adiectivarum enunciationum conditiones.
Dixerat enim quod adiectivae enunciationes idem faciunt quoad oppositionum
numerum, quod substantivae de secundo adiacente; et hoc declaraverat,
oppositionum numero exemplariter subiuncto. Et quia ad hanc convenientiam
sequitur convenientia quoad finitationem praedicatorum, et quoad diversam
subiectorum quantitatem, et earum multiplicationem ex ductu quaternarii in
seipsum, et si qua sunt huiusmodi enumerata; ideo concludit: ergo et caetera,
quae in illis servanda erant, eadem, idest similia istis apponenda sunt. When
he says All else in enunciations in which "is”does not join the predicate
to the subject, etc., he concludes the treatment of the conditions of
adjectival enunciations. He has already stated that adjectival enunciations are
the same with respect to the number of oppositions as substantival enunciations
with "is” as the second element, and has clarified this by a table showing
the number of oppositions. Now, since upon this conformity follows conformity
both with respect to finiteness of predicates and with respect to the diverse
quantity of subjects, and also-if any enunciations of this kind are
enumerated—their multiplication in sets of four, he concludes, Therefore also
the other things, which are to be observed in them, are to be considered the
same, i.e., similar to these. IV. 1. Postquam determinatum est de diversitate
enunciationum, hic intendit removere quaedam dubia circa praedicta. Et circa
hoc facit sex secundum numerum dubiorum, quae suis patebunt locis. Quia ergo
supra dixerat quod in universalibus non similiter contingit angulares esse
simul veras, quia affirmativae angulares non possunt esse simul verae,
negativae autem sic; poterat quispiam dubitare, quae est causa huius
diversitatis. Ideo nunc illius dicti causam intendit assignare talem, quia,
scilicet, angulares affirmativae sunt contrariae inter se; contrarias autem in
nulla materia contingit esse simul veras. Angulares autem negativae sunt
subcontrariae illis oppositae; subcontrarias autem contingit esse simul veras.
Et circa haec duo facit: primo, declarat conditiones contrariarum et
subcontrariarum; secundo, quod angulares affirmativae sint contrariae et quod
angulares negativae sint subcontrariae; ibi: sequuntur vero et cetera. Dicit
ergo resumendo: quoniam in primo dictum est quod enunciatio negativa contraria
illi affirmativae universali, scilicet, omne animal est iustum, est ista,
nullum animal est iustum; manifestum est quod istae non possunt simul, idest in
eodem tempore, neque in eodem ipso, idest de eodem subiecto esse verae. His
vero oppositae, idest subcontrariae inter se, possunt esse simul verae aliquando,
scilicet in materia contingenti, ut, quoddam animal est iustum, non omne animal
est iustum. Having treated the diversity of enunciations Aristotle now answers
certain questions about them. He takes up six points related to the number of
difficulties. These will become evident as we come to them. Since he has said
that in universal enunciations the diagonals in one case cannot be at once true
but can be in another, for the diagonal affirmatives cannot be at once true but
the negatives can,” someone might raise a question as to the cause of this
diversity. Therefore, it is his intention now to assign the cause of this:
namely, that the diagonal affirmatives are contrary to each other, and
contraries cannot be at once true in any matter; but the diagonal negatives are
subcontraries opposed to these and can be at once true. In relation to this he
first states the conditions for contraries and subcontraries. Then he shows
that diagonal affirmatives are contraries and that diagonal negatives are
subcontraries where he says, Now the enunciation "No man is just” follows
upon the enunciation "Every man is nonjust,” etc. By way of resumé,
therefore, he says that in the first book it was said that the negative
enunciation contrary to the universal affirmative "Every animal is just”
is "No animal is just.” It is evident that these cannot be at once true,
i.e., at the same time, nor of the same thing, i.e., of the same subject. But
the opposites of these, i.e., the subcontraries, can sometimes be at once true,
i.e., in contingent matter, as in "Some animal is just” and "Not
every animal is just.” 2 Deinde cum dicit: sequuntur vero etc., declarat quod
angulares affirmativae supra positae sint contrariae, negativae vero
subcontrariae. Et primum quidem ex eo quod universalis affirmativa infinita et
universalis negativa simplex aequipollent; et consequenter utraque earum est
contraria universali affirmativae simplici, quae est altera angularis. Unde
dicit quod hanc universalem negativam finitam, nullus homo est iustus, sequitur
aequipollenter illa universalis affirmativa infinita, omnis homo est non
iustus. Secundum vero declarat ex eo quod particularis affirmativa finita et
particularis negativa infinita aequipollent. Et consequenter utraque earum est
subcontraria particulari negativae simplici, quae est altera angularis, ut in
figura supra posita inspicere potes. Unde subdit quod illam particularem
affirmativam finitam, aliquis homo est iustus, opposita sequitur aequipollenter
(opposita intellige non istius particularis, sed illius universalis
affirmativae infinitae), non omnis homo est non iustus. Haec enim est
contradictoria eius. Ut autem clare videatur quomodo supra dictae enunciationes
sint aequipollentes, formetur figura quadrata, in cuius uno angulo ponatur
universalis negativa finita, et sub ea contradictoria particularis affirmativa
finita; ex alia vero parte locetur universalis affirmativa infinita, et sub ea
contradictoria particularis negativa infinita, noteturque contradictio inter
angulares et collaterales inter se, hoc modo: (Figura). His siquidem sic
dispositis, patet primo ipsarum universalium mutua consequentia in veritate et
falsitate, quia si altera earum est vera, sua angularis contradictoria est
falsa; et si ista est falsa, sua collateralis contradictoria, quae est altera
universalis, erit vera, et similiter procedit quoad falsitatem particularium.
Deinde eodem modo manifestatur mutua sequela. Si enim altera earum est vera,
sua angularis contradictoria est falsa, ista autem existente falsa, sua contradictoria
collateralis, quae est altera particularis erit vera; simili quoque modo procedendum
est quoad falsitatem. When he says, Now the enunciation, "No man is just”
follows upon the enunciation "Every man is nonjust,” etc., he shows that
the diagonal affirmatives previously posited are contraries, the negatives
subcontraries. First he manifests this from the fact that the infinite
universal affirmative and the simple universal negative are equal in meaning,
and consequently each of them is contrary to the simple universal affirmative,
which is the other diagonal. Hence, he says that the infinite universal
affirmative "Every man is non-just” follows upon the finite universal
negative "No man is just,” equivalently. Secondly he shows this from the
fact that the finite particular affirmative and the infinite particular
negative are equal in meaning, and consequently each of these is subcontrary to
the simple particular negative, which is the other diagonal. This you can see
in the previous diagram. He says, then, that the opposite "Not every man
is non-just” follows upon the finite particular "Some man is just”
equivalently (understand "the opposite” not of this particular but of the
infinite universal affirmative, for this is its contradictory). In order to see
clearly how these enunciations are equivalent, make a four-sided figure,
putting the finite universal negative in one corner and under it the
contradictory, the finite particular affirmative. On the other side, put the
infinite universal affirmative and under it the contradictory, the infinite
particular negative. Now indicate the contradiction between diagonals and the
contradiction between collaterals. No man is just equivalents Every man is
non-just contradictories contradictories Some man is just equivalents Not every
man is non-just This arrangement makes the mutual consequence of the universals
in truth and falsity evident, for if one of them is true, its diagonal
contradictory is false; and if this is false, its collateral contradictory,
which is the other universal, will be true. With respect to the falsity of the
particulars the procedure is the same. Their mutual consequence is made evident
in the same way, for if one of them is true, its diagonal contradictory is
false, and if this is false, its contradictory collateral, which is the other
particular, will be true; the procedure is the same with respect to falsity. 3 Sed
est hic unum dubium. In I enim priorum, in fine, Aristoteles ex proposito
determinat non esse idem iudicium de universali negativa et universali
affirmativa infinita; et superius in hoc secundo, super illo verbo: quarum duae
se habent secundum consequentiam, duae vero minime, Ammonius, Porphyrius,
Boethius et sanctus Thomas dixerunt quod negativa simplex sequitur affirmativam
infinitam, sed non e converso. Ad hoc dicendum est, secundum Albertum, quod
negativam finitam sequitur affirmativa infinita subiecto constante; negativa
vero simplex sequitur affirmativam absolute. Unde utrumque dictum verificatur,
et quod inter eas est mutua consequentia cum subiecti constantia, et quod inter
eas non est mutua consequentia absolute. Potest dici secundo, quod supra locuti
sumus de infinita enunciatione quoad suum totalem significatum ad formam
praedicati reductum; et secundum hoc, quia negativa finita est superior
affirmativa infinita, ideo non erat mutua consequentia: hic autem loquimur de
ipsa infinita formaliter sumpta. Unde s. Thomas tunc adducendo Ammonii
expositionem dixit, secundum hunc modum loquendi: negativa simplex, in plus est
quam affirmativa infinita. Textus vero I priorum ultra praedicta loquitur de
finita et infinita in ordine ad syllogismum. Manifestum est autem quod
universalis affirmativa sive finita sive infinita non concluditur nisi in primo
primae. Universalis autem negativa quaecumque concluditur et in secundo primae,
et primo et secundo secundae. However, a question arises with respect to this.
At the end of I Priorum [46: 51b 5], Aristotle determines from what he has
proposed that the judgment of the universal negative and the infinite universal
affirmative is not the same. Furthermore, in the second book of the present
work, in relation to the phrase Of which two are related according to
consequence, two are not. Ammonius, Porphyry, Boethius, and St. Thomas say that
the simple negative follows upon the infinite affirmative and not conversely.”
Albert answers this latter difficulty by pointing out that the infinite
affirmative follows upon the finite negative when the subject is constant, but
the simple negative follows upon the affirmative absolutely. Hence both
positions are verified, for with a constant subject there is a mutual
consequence between them, but there is not a mutual consequence between them
absolutely. We could also answer this difficulty in this way. In Book II,
Lesson 2 we were speaking of the infinite enunciation with the whole of what it
signified reduced to the form of the predicate, and according to this there was
not a mutual consequence, since the finite negative is superior to the infinite
affirmative. But here we are speaking of the infinite itself formally taken.
Hence St. Thomas, when he introduced the exposition of Ammonius in his
commentary on the above passage, said that according to this mode of speaking
the simple negative is wider than the infinite affirmative. In the above
mentioned text in I Priorum [46: 52a 36], Aristotle is speaking of finite and
infinite enunciations in relation to the syllogism. It is evident, however,
that the universal affirmative, whether finite or infinite is only inferred in
the first mode of the first figure, while any universal negative whatever is
inferred in the second mode of the first figure and in the first and second
modes of the second figure. 4 Deinde cum dicit: manifestum est autem etc.,
movet secundum dubium de vario situ negationis, an scilicet quoad veritatem et
falsitatem differat praeponere et postponere negationem. Oritur autem haec
dubitatio, quia dictum est nunc quod non refert quoad veritatem si dicatur,
omnis homo est non iustus, aut si dicatur, omnis homo non est iustus; et tamen
in altera postponitur negatio, in altera praeponitur, licet multum referat
quoad affirmationem et negationem. Hanc, inquam, dubitationem solvere intendens
cum distinctione, respondet quod in singularibus enunciationibus eiusdem
veritatis sunt singularis negatio et infinita affirmatio eiusdem, in
universalibus autem non est sic. Si enim est vera negatio ipsius universalis
non oportet quod sit vera infinita affirmatio universalis. Negatio enim
universalis est particularis contradictoria, qua existente vera, non est
necesse suam subalternam, quae est contraria suae contradictoriae esse veram.
Possunt enim duae contrariae esse simul falsae. Unde dicit quod in singularibus
enunciationibus manifestum est quod, si est verum negare interrogatum, idest,
si est vera negatio enunciationis singularis, de qua facta est interrogatio,
verum etiam est affirmare, idest, vera erit affirmatio infinita eiusdem
singularis. Verbi gratia: putasne Socrates est sapiens? Si vera est ista responsio,
non; Socrates igitur non sapiens est, idest, vera erit ista affirmatio
infinita, Socrates est non sapiens. In universalibus vero non est vera, quae
similiter dicitur, idest, ex veritate negationis universalis affirmativae
interrogatae non sequitur vera universalis affirmativa infinita, quae similis
est quoad quantitatem et qualitatem enunciationi quaesitae; vera autem est eius
negatio, idest, sed ex veritate responsionis negativae sequitur veram esse
eius, scilicet universalis quaesitae negationem, idest, particularem negativam.
Verbi gratia: putasne omnis homo est sapiens? Si vera est ista responsio, non;
affirmativa similis interrogatae quam quis ex hac responsione inferre
intentaret est illa: igitur omnis homo est non sapiens. Haec autem non sequitur
ex illa negatione. Falsum est enim hoc, scilicet quod sequitur ex illa
responsione; sed inferendum est, igitur non omnis homo sapiens est. Et ratio
utriusque est, quia haec particularis ultimo illata est opposita, idest
contradictoria illi universali interrogatae quam respondens falsificavit; et
ideo oportet quod sit vera. Contradictoriarum enim si una est falsa, reliqua
est vera. Illa vero, scilicet universalis affirmativa infinita primo illata,
est contraria illi eidem universali interrogatae. Non est autem opus quod si
universalium altera sit falsa, quod reliqua sit vera. In promptu est autem
causa huius diversitatis inter singulares et universales. In singularibus enim
varius negationis situs non variat quantitatem enunciationis; in universalibus
autem variat, ut patet. Ideo fit ut non sit eadem veritas negantium universalem
in quarum altera praeponitur, in altera autem postponitur negatio, ut de se
patet. When he says, And it is also clear with respect to the singular that if
a question is asked and a negative answer is the true one, there is also a true
affirmation, etc., he presents a difficulty relating to the varying position of
the negation, i.e., whether there is a difference as to truth and falsity when
the negation is a part of the predicate or a part of the verb. This difficulty
arises from what he has just said, namely, that it is of no consequence as to
truth or falsity whether you say, "Every man is non-just” or "Every
man is not just”; yet in one case the negation is a part of the predicate, in
the other part of the copula, and this makes a great deal of difference with
respect to affirmation and negation. To solve this problem Aristotle makes a
distinction: in singular enunciations, the singular negation and infinite
affirmation of the same subject are of the same truth, but in universals this
is not so. For if the negation of the universal is true it is not necessary
that the infinite affirmation of the universal is true. The negation of the
universal is the contradictory particular, but if it is true [i.e., the
contradictory particular] it is not necessary that the subaltern, which is the
contrary of the contradictory, be true, for two contraries can be at once
false. Hence he says that in singular enunciations it is evident that if it is
true to deny the thing asked, i.e., if the negation of a singular enunciation,
which has been made into an interrogation, is true, there will also be a true
affirmation, i.e., the infinite affirmation of the same singular will be true.
For example, if the question "Do you think Socrates is wise?” has
"No” as a true response, then "Socrates is non-wise,” i.e., the
infinite affirmation "Socrates is non-wise” will be true. But in the case
of universals the affirmative inference is not true, i.e., from the truth of a
negation to a universal affirmative question, the truth of the infinite
universal affirmative (which is similar in quantity and quality to the
enunciation asked) does not follow. But the negation is true, i.e., from the
truth of the negative response it follows that its negation is true, i.e., the
negation of the universal asked, which is the particular negative. Consider,
for example, the question "Do you think every man is wise?” If the
response "No” is true, one would be tempted to infer the affirmative
similar to the question asked, i.e., then "Every man is non-wise.” This,
however, does not follow from the negation, for this is false as it follows
from that response. Rather, what must be inferred is "Then not every man
is wise.” And the reason for both is that the particular enunciation inferred
last is the opposite, i.e., the contradictory of the universal question, which,
being falsified by the negative response, makes the contradictory of the
universal affirmative true, for of contradictories, if one is false the other
is true. The infinite universal affirmative first inferred, however, is
contrary to the same universal question. Should it not also be true? No,
because it is not necessary in the case of universals that if one is false the
other is true. The cause of the diversity between singulars and universals is
now clear. In singulars the varying position of the negation does not vary the
quantity of the enunciation ‘ but in universals it does. Therefore there is not
the same truth in enunciations denying a universal when in one the negation is
a part of the predicate and in the other a part of the verb. Cajetanus lib. 2
l. 4 n. 5Deinde cum dicit: illae vero secundum infinitaetc., solvit tertiam
dubitationem, an infinita nomina vel verba sint negationes. Insurgit autem hoc
dubium, quia dictum est quod aequipollent negativa et infinita. Et rursus
dictum est nunc quod non refert in singularibus praeponere et postponere
negationem: si enim infinitum nomen est negatio, tunc enunciatio, habens
subiectum infinitum vel praedicatum, erit negativa et non affirmativa. Hanc
dubitationem solvit per interpretationem, probando quod nec nomina nec verba
infinita sint negationes, licet videantur. Unde duo circa hoc facit: primo,
proponit solutionem dicens: illae vero, scilicet dictiones, contraiacentes:
verbi gratia: non homo, et, homo non iustus et iustus. Vel sic: illae vero,
scilicet dictiones, secundum infinita, idest secundum infinitorum naturam,
iacentes contra nomina et verba (utpote quae removentes quidem nomina et verba
significant, ut non homo et non iustus et non currit, quae opponuntur contra ly
homo ly iustus et ly currit), illae, inquam, dictiones infinitae videbuntur
prima facie esse quasi negationes sine nomine et verbo ex eo quod comparatae
nominibus et verbis contra quae iacent, ea removent, sed non sunt secundum
veritatem. Dixit sine nomine et verbo quia nomen infinitum, nominis natura
caret, et verbum infinitum verbi natura non possidet. Dixit quasi, quia nec
nomen infinitum a nominis ratione, nec verbum infinitum a verbi proprietate
omnino semota sunt. Unde, si negationes apparent, videbuntur sine nomine et
verbo non omnino sed quasi. Deinde probat distinctiones infinitas non esse
negationes tali ratione. Semper est necesse negationem esse veram vel falsam,
quia negatio est enunciatio alicuius ab aliquo; nomen autem infinitum non dicit
verum vel falsum; igitur dictio infinita non est negatio. Minorem declarat,
quia qui dixit, non homo, nihil magis de homine dixit quam qui dixit, homo. Et
quoad significatum quidem clarissimum est: non homo, namque, nihil addit supra
hominem, imo removet hominem. Quoad veritatis vero vel falsitatis conceptum,
nihil magis profuit qui dixit, non homo, quam qui dixit, homo, si aliquid aliud
non addatur, imo minus verus vel falsus fuit, idest magis remotus a veritate et
falsitate, qui dixit, non homo, quam qui dixit, homo: quia tam veritas quam
falsitas in compositione consistit; compositioni autem vicinior est dictio
finita, quae aliquid ponit, quam dictio infinita, quae nec ponit, nec componit,
idest nec positionem nec compositionem importat. Then he says, The antitheses
in infinite names and verbs, as in " non-man” and "nonjust,” might
seem to be negations without a name or a verb, etc. Here he raises the third
difficulty, i.e., whether infinite names or verbs are negations. This question
arises from his having said that the negative and infinite are equivalent and
from having just said that in singular enunciations it makes no difference
whether the negative is a part of the predicate or a part of the verb. For if
the infinite name is a negation, then the enunciation having an infinite
subject or predicate will be negative and not affirmative. He resolves this
question by an interpretation which proves that neither infinite names nor
verbs are negations although they seem to be. First he proposes the solution
saying, The antitheses in infinite names and verbs, i.e., words contraposed,
e.g., "non-man,” and "non-just man” and "just man”; or this may
be read as, Those (namely, words) corresponding to infinites, i.e.,
corresponding to the nature of infinites, placed in opposition to names or
verbs (namely, removing what the names and verbs signify, as in "non-man,”
"non-just,” and "non-runs,” which are opposed to "man,”
"just” and "runs”), would seem at first sight to be quasi-negations
without Dame and verb, because, as related to the names and verbs before which
they are placed, they remove them; they are not truly negations however. He
says without a name or a verb because the infinite name lacks the nature of a
name and the infinite verb does not have the nature of a verb. He says quasi
because the infinite name does not fall short of the notion of the name in
every way, nor the infinite verb of the nature of the verb. Hence, if it is
thought that they are negations, they will be regarded as without a name or a
verb, not in every way but as though they were without a name or a verb. He
proves that infinitizing signs of separation are not negations by pointing out
that it is always necessary for the negation to be true or false since a
negation is an enunciation of something separated from something. The infinite
name, however, does not assert what is true or false. Therefore the infinite
word is not a negation. He manifests the minor when he says that the one who
says "non-man” says nothing more of man than the one who says "man.”
Clearly this is so with respect to what is signified, for "non-man” adds
nothing beyond "man”; rather, it removes "man.” Moreover, with
respect to a conception of truth or falsity, it is of no more use to say
"non-man” than to say "man” if something else is not added; rather,
it is less true or false, i.e., one who says non-man is more removed from truth
and falsity than one who says man,” for both truth and falsity depend on
composition, and the finite word which posits something is closer to
composition than the infinite word, which neither posits nor composes, i.e., it
implies neither positing nor composition. 6 Deinde cum dicit: significat autem
etc., respondet quartae dubitationi, quomodo scilicet intelligatur illud verbum
supradictum de enunciationibus habentibus subiectum infinitum: hae autem extra
illas, ipsae secundum se erunt. Et ait quod intelligitur quantum ad significati
consequentiam, et non solum quantum ad ipsas enunciationes formaliter. Unde
duas habentes subiectum infinitum, universalem scilicet affirmativam et
universalem negativam adducens, ait quod neutra earum significat idem alicui
illarum, scilicet habentium subiectum finitum. Haec enim universalis
affirmativa, omnis non homo est iustus, nulli habenti subiectum finitum
significat idem: non enim significat idem quod ista, omnis homo est iustus;
neque quod ista, omnis homo est non iustus. Similiter opposita negatio et
universalis negativa habens subiectum infinitum, quae est contrarie opposita
supradictae, scilicet omnis non homo non est iustus, nulli illarum de subiecto
finito significat idem. Et hoc clarum est ex diversitate subiecti in istis et
in illis. When he says, Moreover, "Every non-man is just does not signify
the same thing as any of the other enunciations, etc., he answers a fourth
difficulty, i.e., how the earlier statement concerning enunciations having an
infinite subject is to be understood. The statement was that these stand by
themselves and are distinct from the former [in consequence of using the name
"non-man”]. This is to be understood not just with respect to the
enunciations themselves formally, but with respect to the consequence of what
is signified. Hence, giving two examples of enunciations with an infinite
subject, the universal affirmative and universal negative,” he says that
neither of these signifies the same thing as any of those, namely of those
having a finite subject. The universal affirmative "Every non-man is just”
does not signify the same thing as any of the enunciations with a finite
subject; for it does not signify "Every man is just” nor "Every man
is non-just.” Nor do the opposite negation, or the universal negative having an
infinite subject which is contrarily opposed to the universal affirmative,
signify the same thing as enunciations with a finite subject; i.e., "Not
every non-man is just” and "No non-man is just,” do not signify the same
thing as any of those with a finite subject. This is evident from the diversity
of subject in the latter and the former. Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 7Deinde cum
dicit: illa vero quae est etc., respondet quintae quaestioni, an scilicet inter
enunciationes de subiecto infinito sit aliqua consequentia. Oritur autem dubitatio
haec ex eo, quod superius est inter eas ad invicem assignata consequentia. Ait
ergo quod etiam inter istas est consequentia. Nam universalis affirmativa de
subiecto, et praedicato infinitis et universalis negativa de subiecto infinito,
praedicato vero finito, aequipollent. Ista namque, omnis non homo est non
iustus, idem significat illi, nullus non homo est iustus. Idem autem est
iudicium de particularibus indefinitis et singularibus similibus supradictis.
Cuiuscunque enim quantitatis sint, semper affirmativa de utroque extremo
infinita et negativa subiecti quidem infiniti, praedicati autem finiti,
aequipollent, ut facile potes exemplis videre. Unde Aristoteles universales
exprimens, caeteras ex illis intelligi voluit. When he says, But "Every
non-man is non-just” signifies the same thing as "No non-man is just,” he
answers a fifth difficulty, i.e., is there a consequence among enunciations
with an infinite subject? This question arises from the fact that consequences
were assigned among them earlier.” He says, therefore, that there is a
consequence even among these, for the universal affirmative with an infinite
subject and predicate and the universal negative with an infinite subject but a
finite predicate are equivalent, i.e., "Every non-man is non-just”
signifies the same thing as "No non-man is just.” This is also the case in
particular infinites and singulars which are similar to the foresaid, for no
matter what their quantity, the affirmative with both extremes infinite and the
negative with an infinite subject and a finite predicate are always equivalent,
as may be easily seen by examples. Hence, Aristotle in giving the universals
intends the others to be understood from these. Cajetanus lib. 2 l. 4 n.
8Deinde cum dicit: transposita vero nomina etc., solvit sextam dubitationem, an
propter nominum vel verborum transpositionem varietur enunciationis
significatio. Oritur autem haec quaestio ex eo, quod docuit transpositionem
negationis variare enunciationis significationem. Aliud enim dixit significare,
omnis homo non est iustus, et aliud, non omnis homo est iustus. Ex hoc, inquam,
dubitatur, an similiter contingat circa nominum transpositionem, quod ipsa
transposita enunciationem varient, sicut negatio transposita. Et circa hoc duo
facit: primo, ponit solutionem dicens, quod transposita nomina et verba idem
significant: verbi gratia, idem significat, est albus homo, et, est homo albus,
ubi est transpositio nominum. Similiter transposita verba idem significant, ut,
est albus homo, et, homo albus est. When he says, When the names and verbs are
transposed, the enunciations signify the same thing, etc., he resolves a sixth
difficulty: whether the signification of the enunciation is varied because of
the transposition of names or verbs. This question arises from his having shown
that the transposition of the negation varies the signification of the
enunciation. "Every man is non-just,” he said, does not signify the same
thing as "Not every man is just.” This raises the question as to whether a
similar thing happens when we transpose names. Would this vary the enunciation
as the transposed negation does? First he states the solution, saying that
transposed names and verbs signify the same thing, e.g., "Man is white”
signifies the same thing as "White is man.” Transposed verbs also signify
the same thing, as in "Man is white” and "Man white is.” Cajetanus
lib. 2 l. 4 n. 9Deinde cum dicit: nam si hoc non est etc., probat praedictam
solutionem ex numero negationum contradictoriarum ducendo ad impossibile, tali
ratione. Si hoc non est, idest si nomina transposita diversificant
enunciationem, eiusdem affirmationis erunt duae negationes; sed ostensum est in
I libro, quod una tantum est negatio unius affirmationis; ergo a destructione
consequentis ad destructionem antecedentis transposita nomina non variant
enunciationem. Ad probationis autem consequentiae claritatem formetur figura,
ubi ex uno latere locentur ambae suprapositae affirmationes, transpositis
nominibus; et ex altero contraponantur duae negativae, similes illis quoad
terminos et eorum positiones. Deinde, aliquantulo interiecto spatio, sub
affirmativis ponatur affirmatio infiniti subiecti, et sub negativis illius
negatio. Et notetur contradictio inter primam affirmationem et duas negationes
primas, et inter secundam affirmationem et omnes tres negationes, ita tamen
quod inter ipsam et infimam negationem notetur contradictio non vera, sed
imaginaria. Notetur quoque contradictio inter tertiam affirmationem et tertiam
negationem inter se. Hoc modo: (Figura). His ita dispositis, probat
consequentiam Aristoteles sic. Illius affirmationis, est albus homo, negatio
est, non est albus homo; illius autem secundae affirmationis, quae est, est
homo albus, si ista affirmatio non est eadem illi supradictae affirmationi, scilicet,
est albus homo, propter nominum transpositionem, negatio erit altera istarum,
scilicet aut, non est non homo albus, aut, non est homo albus. Sed utraque
habet affirmationem oppositam alia ab illa assignatam, scilicet, est homo
albus. Nam altera quidem dictarum negationum, scilicet, non est non homo albus,
negatio est illius quae dicit, est non homo albus; alia vero, scilicet, non est
homo albus, negatio est eius affirmationis, quae dicit, est albus homo, quae
fuit prima affirmatio. Ergo quaecunque dictarum negationum afferatur
contradictoria illi mediae, sequitur quod sint duae unius, idest quod unius
negationis sint duae affirmationes, et quod unius affirmationis sint duae
negationes: quod est impossibile. Et hoc, ut dictum est, sequitur stante hypothesi
erronea, quod illae affirmationes sint propter nominum transpositionem
diversae. Then he proves the solution from the number of contradictory
negations when he says, For if this is not the case there will be more than one
negation of the same enunciation, etc. He does this by a reduction to the
impossible and his reasoning is as follows. If this is not so, i.e., if
transposed names diversify enunciations, there will be two negations of the
same affirmation. But in the first book it was shown that there is only one
negation of one affirmation. Going, then, from the destruction of the
consequent to the destruction of the antecedent, transposed names do not vary
the enunciation. To clarify the proof of the consequent, make a figure in which
both of the affirmations posited above, with the names transposed are located
on one side. Put the two negatives similar to them in respect to terms and
position on the opposite side. Then leaving a little space, under the
affirmatives put the affirmation with an infinite subject and under the
negatives the negation of it. Mark the contradiction between the first
affirmation and the first two negations and between the second affirmation and
all three negations, but in the latter case mark the contradiction between it
and the lowest negation as not true but imaginary. Mark, also, the
contradiction between the third affirmation and negation. (1) Man is white - contradictories
- Man is not white (2) White is man – contradictories - White is not man (3)
Non-man is white - contradictories - Non-man is not white Now we can see how
Aristotle proves the consequent. The negation of the affirmation "Man is
white” is "Man is not white.” But if the second affirmation, "White
is man,” is not the same as "Man is white,” because of the transposition
of the names, its negation, [i.e., of "White is man”] will be either of
these two: "Non-man is not white,” or "White is not man.” But each of
these has another opposed affirmation than that assigned, namely, than
"White is man.” For one of the negations, namely, "Non-man is not
white,” is the negation of "Non-man is white”; the other, "White is
not man” is the negation of the affirmation "Man is white,” which was the
first affirmation. Therefore whatever negation is given as contradictory to the
middle enunciation, it follows that there are two of one, i.e., two
affirmations of one negation, and two negations of one affirmation, which is
impossible. And this, as has been said, follows upon an erroneously set up
hypothesis, i.e., that these affirmations are diverse because of the
transposition of names. 10 Adverte hic primo quod Aristoteles per illas duas
negationes, non est non homo albus, et, non est homo albus, sub disiunctione
sumptas ad inveniendam negationem illius affirmationis, est homo albus,
caeteras intellexit, quasi diceret: aut negatio talis affirmationis
acceptabitur illa quae est vere eius negatio, aut quaecunque extranea negatio
ponetur; et quodlibet dicatur, semper, stante hypothesi, sequitur unius
affirmationis esse plures negationes, unam veram quae est contradictoria suae
comparis habentis nomina transposita, et alteram quam tu ut distinctam
acceptas, vel falso imaginaris; et e contra multarum affirmationum esse unicam
negationem, ut patet in opposita figura. Ex quacunque enim illarum quatuor
incipias, duas sibi oppositas aspicis. Unde notanter concludit indeterminate:
quare erunt duae unius. Notice first that Aristotle through these two
negations, "Non-man is not white” and "White is not man,” taken under
disjunction to find the negation of the affirmation "Man is white,” has
comprehended other things. It is as though he said: The negation which will be
taken will either be the true negation of such an affirmation or some
extraneous negation; and whichever is taken, it always follows, given the
hypothesis, that there are many negations of one affirmation—one which is the
contradictory of it, having equal truth with the one having its name
transposed, and the other which you accept as distinct, or you imagine falsely.
And conversely, there is a single negation of many affirmations, as is clear in
the diagram. Hence, from whichever of these four you begin, you see two opposed
to it. It is significant, therefore, that Aristotle concludes indeterminately:
Therefore, there will be two [negations] of one [affirmation]. 11 Nota secundo
quod Aristoteles contempsit probare quod contradictoria primae affirmationis
sit contradictoria secundae, et similiter quod contradictoria secundae
affirmationis sit contradictoria primae. Hoc enim accepit tamquam per se notum,
ex eo quod non possunt simul esse verae neque simul falsae, ut manifeste patet
praeposito sibi termino singulari. Non stant enim simul aliquo modo istae duae,
Socrates est albus homo, Socrates non est homo albus. Nec turberis quod eas non
singulares proposuit. Noverat enim supra dictum esse in primo quae affirmatio
et negatio sint contradictoriae et quae non, et ideo non fuit sollicitus de
exemplorum claritate. Liquet ergo ex eo quod negationes affirmationum de
nominibus transpositis non sunt diversae quod nec ipsae affirmationes sunt
diversae et sic nomina et verba transposita idem significant. Note secondly
that Aristotle does not consider it important to prove that the contradictory
of the first affirmation is the contradictory of the second, and similarly that
the contradictory of the second affirmation is the contradictory of the first.
This he accepts as self-evident since they can neither be true at the same time
nor false at the same time. This is manifestly clear when a singular term is
placed first, for "Socrates is a white man” and "Socrates is not a
white man” cannot be maintained at the same time in any mode. You should not be
disturbed by the fact that he does not propose these singulars here, for he was
undoubtedly aware that he had already stated in the first book which
affirmation and negation are contradictories and which not and for this reason
felt that a careful elaboration of the examples was not necessary here. It is
therefore evident that since negations of affirmations with transposed names
are not diverse the affirmations themselves are not diverse, and hence
transposed names and verbs signify the same thing. 12 Occurrit autem dubium
circa hoc, quia non videtur verum quod nominibus transpositis eadem sit
affirmatio. Non enim valet: omnis homo est animal; ergo omne animal est homo.
Similiter, transposito verbo, non valet: homo est animal rationale; ergo homo
animal rationale est, de secundo adiacente. Licet enim nugatio committatur,
tamen non sequitur primam. Ad hoc est dicendum quod sicut in rebus naturalibus
est duplex transmutatio, scilicet localis, scilicet de loco ad locum, et
formalis de forma ad formam; ita in enunciationibus est duplex transmutatio,
situalis scilicet, quando terminus praepositus postponitur, et e converso, et
formalis, quando terminus, qui erat praedicatum efficitur subiectum, et e
converso vel quomodolibet, simpliciter et cetera. Et sicut quandoque fit in
naturalibus transmutatio pure localis, puta quando res transfertur de loco ad
locum, nulla alia variatione facta; quandoque autem fit transmutatio secundum
locum, non pura sed cum variatione formali, sicut quando transit de loco
frigido ad locum calidum: ita in enunciationibus quandoque fit transmutatio
pure situalis, quando scilicet nomen vel verbum solo situ vocali variatur;
quandoque autem fit transmutatio situalis et formalis simul, sicut contingit
cum praedicatum fit subiectum, vel cum verbum tertium adiacens fit secundum. Et
quoniam hic intendit Aristoteles de transmutatione nominum et verborum pure
situali, ut transpositionis vocabulum praesefert, ideo dixit quod transposita
nomina et verba idem significant, insinuare volens quod, si nihil aliud praeter
transpositionem nominis vel verbi accidat in enunciatione, eadem manet oratio.
Unde patet responsio ad instantias. Manifestum est namque quod in utraque non
sola transpositio fit, sed transmutatio de subiecto in praedicatum, vel de
tertio adiacente in secundum. Et per hoc patet responsio ad similia. A doubt
does arise, however, about the point Aristotle is making here, for it does not
seem true that with transposed names the affirmation is the same. This, for
example, is not valid: "Every man is an animal”; therefore, "Every
animal is a man.” Nor is the following example with a transposed verb valid:
"Man is a rational animal and (taking "is” as the second element),
therefore "Man animal rational is”; for although it is nugatory as a whole
combination, nevertheless it does not follow upon the first. The answer to this
is as follows. just as there is a twofold transmutation in natural things,
i.e., local, from place to place, and formal, from form to form, so in
enunciations there is a twofold transmutation: a positional transmutation when
a term placed before is placed after, and conversely, and a formal
transmutation when a term that was a predicate is made a subject, and
conversely, or in whatever mode, simply, etc. And just as in natural things
sometimes a purely local transmutation is made (for instance, when a thing is
transferred from place to place, with no other variation made) and sometimes a
transmutation is made according to place—not simply but with a formal variation
(as when a thing passes from a cold place to a hot place), so in enunciations a
transmutation is sometimes made which is purely positional, i.e., when the name
and verb are varied only in vocal position, and sometimes a transmutation is
made which is at once formal and positional, as when the predicate becomes the
subject, or the verb which is the third element added becomes the second.
Aristotle’s purpose here was to treat of the purely positional transmutation of
names and verbs, as the vocabulary of the transposition indicates; when he
says, then, that transposed names and verbs signify the same thing, he intends
to imply that if nothing other than the transposition of name and verb takes
place in the enunciation, what is said remains the same. Hence, the response to
the present objection is clear, for in both examples there is not only a
transposition but a transmutation of subject to predicate in one case, and from
an enunciation with a third element to one with a second element in the other.
The response to similar questions is evident from this. V. 1. Postquam
Aristoteles determinavit diversitatem enunciationis unius provenientem ex
additione negationis infinitatis, hic intendit determinare quid accidat
enunciationi ex hoc quod additur aliquid subiecto vel praedicato tollens eius
unitatem. Et circa hoc duo facit: quia primo, determinat diversitatem earum;
secundo, consequentias earum; ibi: quoniam vero haec quidem et cetera. Circa
primum duo facit: primo, ponit earum diversitatem; secundo, probat omnes
enunciationes esse plures; ibi: si ergo dialectica et cetera. Dicit ergo quoad
primum, resumendo quod in primo dictum fuerat, quod affirmare vel negare unum
de pluribus, vel plura de uno, si ex illis pluribus non fit unum, non est
enunciatio una affirmativa vel negativa. Et declarando quomodo intelligatur
unum debere esse subiectum aut praedicatum, subdit quod unum dico non si nomen
unum impositum sit, idest ex unitate nominis, sed ex unitate significati. Cum
enim plura conveniunt in uno nomine, ita quod ex eis non fiat unum illius
nominis significatum, tunc solum vocis unitas est. Cum autem unum nomen
pluribus impositum est, sive partibus subiectivis, sive integralibus, ut eadem
significatione concludat, tunc et vocis et significati unitas est, et enunciationis
unitas non impeditur. After the Philosopher has treated the diversity in an
enunciation arising from the addition of the infinite negation, he explains
what happens to an enunciation when something is added to the subject or
predicate which takes away its unity. He first determines their diversity, and
then proves that all the enunciations are many where he says, In fact, if
dialectical interrogation is a request for an answer, etc. Secondly, he
determines their consequences, where he says, Some things predicated separately
are such that they unite to form one predicate, etc. He begins by taking up
something he said in the first book: there is not one affirmative enunciation
nor one negative enunciation when one thing is affirmed or denied of many or
many of one, if one thing is not constituted from the many. Then he explains
what he means by the subject or predicate having to be one where he says, I do
not use "one” of those things which, although one name may be imposed, do
not constitute something one, i.e., a subject or predicate is one, not from the
unity of the name, but from the unity of what is signified. For when many
things are brought together under one name in such a way that what is signified
by that name is not one, then the unity is only one of vocal sound. But when
one name has been imposed for many, whether for subjective or for integral
parts, so that it encloses them in the same signification, then there is unity
both of vocal sound and what is signified. In the latter case, unity of the
enunciation is not impeded. 2 Secundum quod subiungit: ut homo est fortasse
animal et mansuetum et bipes obscuritate non caret. Potest enim intelligi ut
sit exemplum ab opposito, quasi diceret: unum dico non ex unitate nominis
impositi pluribus ex quibus non fit tale unum, quemadmodum homo est unum
quoddam ex animali et mansueto et bipede, partibus suae definitionis. Et ne quis
crederet quod hae essent verae definitionis nominis partes, interposuit,
fortasse. Porphyrius autem, Boethio referente et approbante, separat has textus
particulas, dicens quod Aristoteles hucusque declaravit enunciationem illam
esse plures, in qua plura subiicerentur uni, vel de uno praedicarentur plura,
ex quibus non fit unum. In istis autem verbis: ut homo est fortasse etc.,
intendit declarare enunciationem aliquam esse plures, in qua plura ex quibus
fit unum subiiciuntur vel praedicantur; sicut cum dicitur, homo est animal et
mansuetum et bipes, copula interiecta, vel morula, ut oratores faciunt. Ideo
autem addidisse aiunt, fortasse, ut insinuaret hoc contingere posse,
necessarium autem non esse. Then he adds, For example, man probably is an
animal and biped and civilized. This, however, is obscure, for it can be
understood as all example of the opposite, as if he were saying, "I do not
mean by ‘one’ such a ‘one’ as the unity of the name imposed upon many from
which one thing is not constituted, for instance, ‘man’ as ‘one’ from the parts
of the definition, animal and civilized and biped.” And to prevent anyone from
thinking these are true parts of the definition of the name he interposes
perhaps. Porphyry, however, referred to with approval by Boethius, separates
these parts of the text. He says Aristotle first states that that enunciation
is many in which many are subjected to one, or many are predicated of one, when
one thing is not constituted from these. And when he says, For example, man
perhaps is, etc., he intends to show that an enunciation is many when many from
which one thing is constituted are subjected or predicated, as in the example
"Man is an animal and civilized and biped,” with copulas interjected or a
pause such as orators make. He added perhaps, they say, to imply that this
could happen, but it need not. 3 Possumus in eamdem Porphyrii, Boethii et
Alberti sententiam incidentes subtilius textum introducere, ut quatuor hic
faciat. Et primo quidem, resumit quae sit enunciatio in communi dicens:
enunciatio plures est, in qua unum de pluribus, vel plura de uno enunciantur.
Si tamen ex illis pluribus non fit unum, ut in primo dictum et expositum fuit.
Deinde dilucidat illum terminum de uno, sive unum, dicens: dico autem unum,
idest, unum nomen voco, non propter unitatem vocis, sed significationis, ut
supra dictum est. Deinde tertio, dividendo declarat, et declarando dividit,
quot modis contingit unum nomen imponi pluribus ex quibus non fit unum, ut ex
hoc diversitatem enunciationis multiplicis insinuet. Et ponit duos modos,
quorum prior est, quando unum nomen imponitur pluribus ex quibus fit unum, non
tamen in quantum ex eis fit unum. Tunc enim, licet materialiter et per accidens
loquendo nomen imponatur pluribus ex quibus fit unum, formaliter tamen et per
se loquendo nomen unum imponitur pluribus, ex quibus non fit unum: quia
imponitur eis non in quantum ex eis est unum, ut fortasse est hoc nomen, homo,
impositum ad significandum animal et mansuetum et bipes, idest, partes suae
definitionis, non in quantum adunantur in unam hominis naturam per modum actus
et potentiae, sed ut distinctae sint inter se actualitates. Et insinuavit quod
accipit partes definitionis ut distinctas per illam coniunctionem, et per illud
quoque adversative additum: sed si ex his unum fit, quasi diceret, cum hoc
tamen stat quod ex eis unum fit. Addidit autem, fortasse, quia hoc nomen, homo,
non est impositum ad significandum partes sui definitivas, ut distinctae sunt.
Sed si impositum esset aut imponeretur, esset unum nomen pluribus impositum ex
quibus non fit unum. Et quia idem iudicium est de tali nomine, et illis
pluribus; ideo similiter illae plures partes definitivae possunt dupliciter
accipi. Uno modo, per modum actualis et possibilis, et sic unum faciunt; et sic
formaliter loquendo vocantur plura, ex quibus fit unum, et pronunciandae sunt
continuata oratione, et faciunt enunciationem unam dicendo, animal rationale
mortale currit. Est enim ista una sicut et ista, homo currit. Alio modo,
accipiuntur praedictae definitionis partes ut distinctae sunt inter se
actualitates, et sic non faciunt unum: ex duobus enim actibus ut sic, non fit
unum, ut dicitur VII metaphysicae; et sic faciunt enunciationes plures et
pronunciandae sunt vel cum pausa, vel coniunctione interposita, dicendo, homo
est animal et mansuetum et bipes; sive, homo est animal, mansuetum, bipes,
rhetorico more. Quaelibet enim istarum est enunciatio multiplex. Et similiter
ista, Socrates est homo, si homo est impositum ad illa, ut distinctae
actualitates sunt, significandum. Secundus autem modus, quo unum nomen
impositum est pluribus ex quibus non fit unum, subiungitur, cum dicit: ex albo
autem et homine et ambulante etc., idest, alio modo hoc fit, quando unum nomen
imponitur pluribus, ex quibus non potest fieri unum, qualia sunt: homo, album,
et ambulans. Cum enim ex his nullo modo possit fieri aliqua una natura, sicut
poterat fieri ex partibus definitivis, clare liquet quod nomen aliquod si eis
imponeretur, esset nomen non unum significans, ut in primo dictum fuit de hoc
nomine, tunica, imposito homini et equo. While agreeing with the opinion of
Porphyry, Boethius, and Albert, we think a more subtle construction can be made
of the text. According to it Aristotle makes four points here. First, he
reviews what an enunciation is in general when he says, The enunciation is many
in which one is enunciated of many or many of one, unless from the many
something one is constituted... as he stated and explained in the first book.
Secondly, he clarifies the term "one,” when he says, I do not use
"one” of those things, etc., i.e., I call a name one, not by reason of the
unity of vocal sound, but of signification, as was said above. Thirdly, he
manifests (by dividing) and divides (by manifesting) the number of ways in which
one name may be imposed on many things from which one thing is not constituted.
From this he implies the diversity of the multiple enunciation. And he posits
two ways in which one name may be imposed on many things from which one thing
is not constituted: first, when one name is imposed upon many things from which
one thing is constituted but not as one thing is constituted from them. In this
case, materially and accidentally speaking, the name is imposed on many from
which one thing is constituted, but it is formally and per se imposed on many
from which one thing is not constituted; for it is not imposed upon them in the
respect in which they constitute one thing; as perhaps the name "man” is
imposed to signify animal and civilized and biped (i.e., parts of its
definition) not as they are united in the one nature of man in the mode of act
and potency, but as they are themselves distinct actualities. Aristotle implies
that he is taking these parts of the definition as distinct by the conjunctions
and by also adding adversatively, but if there is something one formed from
these, Neither the Greek nor the Latin text of Aristotle has the "if” that
Cajetan puts into this phrase.The correct reading is "...but there is
something one formed from these.” Close as if to say, "when however it
holds that one thing is constituted from these.” He adds perhaps because the
name "man” is not imposed to signify its definitive parts as they are
distinct. But if it had been so imposed or were imposed, it would be one name
imposed on many things from which no one thing is constituted. And since the
judgment with respect to such a name and those many things is the same, the
many definitive parts can also be taken in two ways: first, in the mode of the
actual and possible, and thus they constitute one thing, and formally speaking
are called many from which one thing is constituted, and they are to be
pronounced in continuous speech and they make one enunciation, for example,
"A mortal rational animal is running.” For this is one enunciation, just
as is "Man is running.” In the second way, the foresaid parts of the
definition are taken as they are distinct actualities, and thus they do not
constitute one thing, for one thing is not constituted from two acts as such,
as Aristotle says in VII Metaphysicae [13: 1039a 5]. In this case they
constitute many enunciations and are pronounced either with conjunctions
interposed or with a pause in the rhetorical manner, for example, "Man is
an animal and civilized and biped” or "Man is an animal–civilized–biped.”
Each of these is a multiple enunciation. And so is the enunciation,
"Socrates is a man” if "man” is imposed to signify animal, civilized,
and biped as they are distinct actualities. Aristotle takes up the second way
in which one name is imposed on many from which one thing is not constituted
where he says, whereas from "white” and "man” and "walking”
there is not [something one formed]. Since in no way can any one nature be
constituted from "man,” white,” and "walking” (as there can be from
the definitive parts), it is evident that if a name were imposed on these it
would be a name that does not signify one thing, as was said in the first book
of the name "cloak” imposed for man and horse. 4 Habemus ergo
enunciationis pluris seu multiplicis duos modos, quorum, quia uterque fit
dupliciter, efficiuntur quatuor modi. Primus est, quando subiicitur vel
praedicatur unum nomen impositum pluribus, ex quibus fit unum, non in quantum
sunt unum; secundus est, quando ipsa plura ex quibus fit unum, in quantum sunt
distinctae actualitates, subiiciuntur vel praedicantur; tertius est, quando ibi
est unum nomen impositum pluribus ex quibus non fit unum; quartus est, quando
ista plura ex quibus non fit unum, subiiciuntur vel praedicantur. Et notato
quod cum enunciatio secundum membra divisionis illius, qua divisa est, in unam
et plures, quadrupliciter variari possit, scilicet cum unum de uno praedicatur,
vel unum de pluribus, vel plura de uno, vel plura de pluribus; postremum sub
silentio praeterivit, quia vel eius pluralitas de se clara est, vel quia, ut
inquit Albertus, non intendebat nisi de enunciatione, quae aliquo modo una est,
tractare. Demum concludit totam sententiam, dicens: quare nec si aliquis
affirmet unum de his pluribus, erit affirmatio una secundum rem: sed vocaliter
quidem erit una, significative autem non una, sed multae fient affirmationes.
Nec si e converso de uno ista plura affirmabuntur, fiet affirmatio una. Ista
namque, homo est albus, ambulans et musicus, importat tres affirmationes,
scilicet, homo est albus et est ambulans et est musicus, ut patet ex illius
contradictione. Triplex enim negatio illi opponitur correspondens triplici
affirmationi positae. We have, therefore, two modes of the many (i.e., the
multiple enunciation) and since both are constituted in two ways, there will be
four modes: first, when one name imposed on many from which one thing is
constituted is subjected or predicated as though the name stands for many; the
second, when the many from one which one thing is constituted are subjected or
predicated as distinct actualities; the third, when one name is imposed for a
many from which nothing one is constituted; the fourth, when many which do not
constitute one thing are subjected or predicated. Note that the enunciation,
according to the members of the division by which it has been divided into one
and many, can be varied in four ways, i.e., one is predicated of one, one of
many, many of one, and many of many. Aristotle has not spoken of the last one,
either because its plurality is clear enough or because, as Albert says, he
only intends to treat of the enunciation which is one in some way. Finally
[fourthly], he concludes with this summary: Consequently, if someone affirms
something one of these latter there will not be one affirmation according to
the thing: vocally it will be one; significatively, it will not be one, but
many. And conversely, if the many are affirmed of one subject, there will not
be one affirmation. For example, "Man is white, walking, and musical” implies
three affirmations, i.e., "Man is white” and "is walking” and
"is musical,” as is clear from its contradiction, for a threefold negation
is opposed to it, corresponding to the threefold affirmation. 5 Deinde cum
dicit: si ergo dialectica etc., probat a posteriori supradictas enunciationes
esse plures. Circa quod duo facit: primo, ponit rationem ipsam ad hoc probandum
per modum consequentiae; deinde probat antecedens dictae consequentiae; ibi:
dictum est autem de his et cetera. Quoad primum talem rationem inducit. Si
interrogatio dialectica est petitio responsionis, quae sit propositio vel
altera pars contradictionis, nulli enunciationum supradictarum interrogative
formatae erit responsio una; ergo nec ipsa interrogatio est una, sed plures.
Cuius rationis primo ponit antecedens: si ergo et cetera. Ad huius
intelligendos terminos nota quod idem sonant enunciatio, interrogatio et
responsio. Cum enim dicitur, caelum est animatum, in quantum enunciat
praedicatum de subiecto, enunciatio vocatur; in quantum autem quaerendo
proponitur, interrogatio; ut vero quaesito redditur, responsio appellatur. Idem
ergo erit probare non esse responsionem unam, et interrogationem non esse unam,
et enunciationem non esse unam. Adverte secundo interrogationem esse duplicem.
Quaedam enim est utram partem contradictionis eligendam proponens; et haec
vocatur dialectica, quia dialecticus habet viam ex probabilibus ad utramque
contradictionis partem probandam. Altera vero determinatam ad unum responsionem
exoptat; et haec est interrogatio demonstrativa, eo quod demonstrator in unum
determinate tendit. Considera ulterius quod interrogationi dialecticae
dupliciter responderi potest. Uno modo, consentiendo interrogationi, sive
affirmative sive negative; ut si quis petat, caelum est animatum? Et respondeatur,
est; vel, Deus non movetur? Et respondeatur, non: talis responsio vocatur
propositio. Alio modo, potest responderi interimendo; ut si quis petat, caelum
est animatum? Et respondeatur, non; vel Deus non movetur? Et respondeatur,
movetur: talis responsio vocatur contradictionis altera pars, eo quod
affirmationi negatio redditur et negationi affirmatio. Interrogatio ergo
dialectica est petitio annuentis responsionis, quae est propositio, vel
contradicentis, quae est altera pars contradictionis secundum supradictam
Boethii expositionem. Then when he says, In fact, if dialectical interrogation
is a request for an answer, etc., he proves a posteriori that the foresaid
enunciations are many. First he states an argument to prove this by way of the
consequent; then he proves the antecedent of the given consequent where he
says, But we have spoken about these things in the Topics, etc. Now if
dialectical questioning is a request for an answer, either a proposition or one
part of a contradiction, none of the foresaid enunciations, put in the form of
a question, will have one answer. Therefore, the question is not one, but many.
Aristotle first states the antecedent of the argument, if dialectical
interrogation is a request for an answer, etc. To understand this it should be
noted that an enunciation, a question, and an answer sound the same. For when
we say, "The region of heaven is animated,” we call it an enunciation
inasmuch as it enunciates a predicate of a subject, but when it is proposed to
obtain an answer we call it an interrogation, and as applied to what was asked
we call it a response. Therefore, to prove that there is not one response or
one question or one enunciation will be the same thing. It should also be noted
that interrogation is twofold. One proposes either of the two parts of a
contradiction to choose from. This is called dialectical interrogation because
the dialectician knows the way to prove either part of a contradiction from
probable positions. The other kind of interrogation seeks one determinate
response. This is the demonstrative interrogation, for the demonstrator
proceeds determinately toward a single alternative. Note, finally, that it is
possible to reply to a dialectical question in two ways. We may consent to the
question, either affirmatively or negatively; for example, when someone asks,
"Is the region of heaven animated,” we may respond, "It is,” or to
the question "Is not God moved,” we may say, "No.” Such a response is
called a proposition. The second way of replying is by destroying; for example,
when someone asks "Is the region of heaven animated?” and we respond,
"No,” or to the question, "Is not God moved?” we respond, "He is
moved.” Such a response is called the other part of a contradiction, because a
negation is given to an affirmation and an affirmation to a negation.
Dialectical interrogation, then, according to the exposition just given, which
is that of Boethius, is a request for the admission of a response which is a
proposition, or which is one part of a contradiction. 6 Deinde subdit
probationem consequentiae, cum ait: propositio vero unius contradictionis est
et cetera. Ubi notandum est quod si responsio dialectica posset esse plures,
non sequeretur quod responsio enunciationis multiplicis non posset esse dialectica;
sed si responsio dialectica non potest esse nisi una enunciatio, tunc recte
sequitur quod responsio enunciationis pluris, non est responsio dialectica,
quae una est. Notandum etiam quod si enunciatio aliqua plurium contradictionum
pars est, una non esse comprobatur: una enim uni tantum contradicit. Si autem
unius solum contradictionis pars est, una est eadem ratione, quia scilicet
unius affirmationis unica est negatio, et e converso. Probat ergo Aristoteles
consequentiam ex eo quod propositio, idest responsio dialectica unius
contradictionis est, idest una enunciatio est affirmativa vel negativa. Ex hoc
enim, ut iam dictum est, sequitur quod nullius enunciationis multiplicis sit
responsio dialectica, et consequenter nec una responsio sit. Nec praetereas
quod cum propositionem, vel alteram partem contradictionis, responsionemque
praeposuerit dialecticae interrogationis, de sola propositione subiunxit, quod
est una; quod ideo fecit, quia illius alterius vocabulum ipsum unitatem
praeferebat. Cum enim alteram contradictionis partem audis, unam affirmationem
vel negationem statim intelligis. Adiunxit autem antecedenti ly ergo, vel
insinuans hoc esse aliunde sumptum, ut postmodum in speciali explicabit, vel,
permutato situ, notam consequentiae huius inter antecedens et consequens
locandam, antecedenti praeposuit; sicut si diceretur, si ergo Socrates currit,
movetur; pro eo quod dici deberet, si Socrates currit, ergo movetur. Sequitur
deinde consequens: non erit una responsio ad hoc; et infert principalem conclusionem
subdens, quod neque una erit interrogatio et cetera. Si enim responsio non
potest esse una, nec interrogatio ipsa una erit. He adds the proof of the
consequent when he says, and a proposition is a part of one contradiction. In
relation to this it should be noted that if a dialectical response could be
many, it would not follow that a response to a multiple enunciation would not
be dialectical. However, if the dialectical response can only be one
enunciation then it follows that a response to a plural enunciation is not a
dialectical response, for it is one [i.e., it inclines to one part of a
contradiction at a time]. It should also be noted that if an enunciation is a
part of many contradictions, it is thereby proven not to be one, for one contradicts
only one. But if an enunciation is a part of only one contradiction, it is one
by the same reasoning, i.e., because there is only one negation of one
affirmation, and conversely. Hence Aristotle proves the consequent from the
fact that the proposition, i.e., the dialectical response, is a part of one
contradiction, i.e., it is one affirmative or one negative enunciation. It
follows from this, as has been said, that there is no dialectical response of a
multiple enunciation, and consequently not one response. It should not be
overlooked that when he designates a proposition or one part of a contradiction
as the response to a dialectical interrogation, it is only of the proposition
that he adds that it is one, because the very wording shows the unity of the
other. For when you hear one part of a contradiction, you immediately
understand one affirmation or negation. He puts the "therefore” with the
antecedent, either implying that this is taken from another place and he will
explain in particular afterward, or having changed the structure, he places the
sign of the consequent, which should be between the antecedent and consequent
before the antecedent, as when one says, "Therefore if Socrates runs, he
is moved,” for "If Socrates runs, therefore he is moved.” Then the
consequent follows: there will not be one answer to this, etc.; and the
inference of the principal conclusion, for there would not be a single
question. For if the response cannot be one, the question will not be one. 7 Quod
autem addidit: nec si sit vera, eiusmodi est. Posset aliquis credere, quod
licet interrogationi pluri non possit dari responsio una, quando id de quo
quaestio fit non potest de omnibus illis pluribus affirmari vel negari (ut cum
quaeritur, canis est animal? Quia non potest vere de omnibus responderi, est,
propter caeleste sidus, nec vere de omnibus responderi, non est, propter canem
latrabilem, nulla possit dari responsio una); attamen quando id quod sub
interrogatione cadit potest vere de omnibus affirmari aut negari, tunc potest
dari responsio una; ut si quaeratur, canis est substantia? Quia potest vere de
omnibus responderi, est, quia esse substantiam omnibus canibus convenit, unica
responsio dari possit. Hanc erroneam existimationem removet dicens: nec si sit
vera, idest, et dato quod responsio data enunciationi multiplici de omnibus
verificetur, nihilominus non est una, quia unum non significat, nec unius
contradictionis est pars, sed plures responsio illa habet contradictorias, ut
de se patet. He adds, even if there is a true answer, because someone might
think that although one response cannot be given to a plural interrogation when
the question concerns something that cannot be affirmed or denied of all of the
many (for example, when someone asks, "Is a dog an animal?” no one
response can be given, for we cannot truly say of every dog that it is an
animal because of the star by that name; nor can we truly say of every dog that
it is not an animal, because of the barking dog), nevertheless one response
could be given when that which falls tinder the interrogation can be truly said
of all. For example, when someone asks, "Is a dog a substance?” a single
response can be given because it can truly he said of every dog that it is a
substance, for to be a substance belongs to all dogs. Aristotle adds the
phrase, even if there is a true answer, to remove such an erroneous judgment.
For even if the response to the multiple enunciation is verified of all, it is
nonetheless not one, since it does not signify one thing, nor is it a part of
one contradiction. Rather, as is evident, this response has many contradictories.
8 Deinde cum dicit: dictum est autem de his in Topicis etc., probat antecedens
dupliciter: primo, auctoritate eorum quae dicta sunt in Topicis; secundo, a
signo. Et circa hoc duo facit. Primo, ponit ipsum signum, dicens: quod
similiter etc., cum auctoritate topicorum, manifestum est, scilicet, antecedens
assumptum, scilicet quod dialectica interrogatio est petitio responsionis
affirmativae vel negativae. Quoniam nec ipsum quid est, idest ex eo quod nec
ipsa quaestio quid est, est interrogatio dialectica: verbi gratia; si quis
quaerat, quid est animal? Talis non quaerit dialectice. Deinde subiungit
probationem assumpti, scilicet quod ipsum quid est, non est quaestio dialectica;
et intendit quod quia interrogatio dialectica optionem respondenti offerre
debet, utram velit contradictionis partem, et ipsa quaestio quid est talem
libertatem non proponit (quia cum dicimus, quid est animal? Respondentem ad
definitionis assignationem coarctamus, quae non solum ad unum determinata est,
sed etiam omni parte contradictionis caret, cum nec esse, nec non esse dicat);
ideo ipsa quaestio quid est, non est dialectica interrogatio. Unde dicit:
oportet enim ex data, idest ex proposita interrogatione dialectica, hunc
respondentem eligere posse utram velit contradictionis partem, quam
contradictionis utramque partem interrogantem oportet determinare, idest
determinate proponere, hoc modo: utrum hoc animal sit homo an non: ubi
evidenter apparet optionem respondenti offerri. Habes ergo pro signo cum
quaestio dialectica petat responsionem propositionis, vel alterius
contradictionis partem, elongationem quaestionis quid est a quaestionibus
dialecticis. Where he says, But we have spoken about these things in the
Topics, etc., he proves the antecedent in two ways. First, he proves it on the
basis of what was said in the Topics; secondly, by a sign. The sign is given
first where he says, Similarly it is clear that the question "What is it?”
is not a dialectical one, etc. That is, given the doctrine in the Topics, it is
clear (i.e., assuming the antecedent that the dialectical interrogation is a
request for an affirmative or negative response) that the question "What
is it?” is not a dialectical interrogation, e.g., when someone asks, "What
is an animal?” he does not interrogate dialectically. Secondly, he gives the
proof of what was assumed, namely, that the question "What is it?” is not
a dialectical question. He states that a dialectical interrogation must offer
to the one responding the option of whichever part of the contradiction he
wishes. The question "What is it?” does not offer such liberty, for in
saying "What is an animal?” the one responding is forced to assign a
definition, and a definition is not only determined to one but is also entirely
devoid of contradiction, since it affirms neither being nor non-being.
Therefore, the question "What is it?” is not a dialectical interrogation.
Whence he says, For the dialectical interrogation must provide, i.e., from the
proposed dialectical interrogation the one responding must be able to choose
whichever part of the contradiction he wishes, which parts of the contradiction
the interrogator must specify, i.e., he must propose the question in this way: "Is
this animal man or not?” wherein the wording of the question clearly offers an
option to the one answering. Therefore, you have as a sign that a dialectical
question is seeking a response of a proposition or of one part of a
contradiction, the setting apart of the question "What is it?” from
dialectical questions. VI. 1 Postquam declaravit diversitatem multiplicis
enunciationis, intendit determinare de earum consequentiis. Et circa hoc duo
facit, secundum duas dubitationes quas solvit. Secunda incipit; ibi: verum
autem est dicere et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit
quaestionem; secundo, ostendit rationabilitatem quaestionis; ibi: si enim
quoniam etc.; tertio, solvit eam; ibi: eorum igitur et cetera. Est ergo
dubitatio prima: quare ex aliquibus divisim praedicatis de uno sequitur
enunciatio, in qua illamet unita praedicantur de eodem, et ex aliquibus non.
Unde haec diversitas oritur? Verbi gratia; ex istis, Socrates est animal et est
bipes; sequitur, ergo Socrates est animal bipes; et similiter ex istis,
Socrates est homo et est albus; sequitur, ergo Socrates est homo albus. Ex
illis vero, Socrates est bonus, et est citharoedus; non sequitur, ergo est
bonus citharoedus. Unde proponens quaestionem inquit: quoniam vero haec,
scilicet praedicta, ita praedicantur composita, idest coniuncta, ut unum sit
praedicamentum quae extra praedicantur, idest, ut ex eis extra praedicatis
unite fiat praedicatio, alia vero praedicata non sunt talia, quae est inter
differentia; unde talis innascitur diversitas? Et subdit exempla iam adducta,
et ad propositum applicata: quorum primum continet praedicata ex quibus fit
unum per se, scilicet, animal et bipes, genus et differentia; secundum autem
praedicata ex quibus fit unum per accidens, scilicet, homo albus; tertium vero
praedicata ex quibus neque unum per se neque unum per accidens inter se fieri
sequitur; ut, citharoedus et bonus, ut declarabitur. Having explained the
diversity of the multiple enunciation Aristotle now proposes to determine the
consequences of this. He treats this in relation to two questions which he
solves. The second begins where he says, On the other hand, it is also true to
say predicates of something singly, etc. With respect to the other question,
first he proposes it, then he shows that the question is a reasonable one where
he says, For if we hold that whenever each is truly said of a subject, both
together must also be true, many absurdities will follow, etc. Finally, he
solves it where he says, Those things that are predicated—taken in relation to
that to which they are joined in predication, etc. The first question is this:
Why is it that from some things predicated divisively of a subject an
enunciation follows in which they are predicated of the same subject unitedly,
and from others not? What is the reason for this diversity? For example, from
"Socrates is an animal and he is biped” follows, "Therefore, Socrates
is a biped animal”; and similarly, from "Socrates is a man and he is
white” follows, "Therefore, Socrates is a white man.” But from
"Socrates is good and he is a lute player,” the enunciation,
"Therefore, he is a good lute player” does not follow. Hence in proposing
the question Aristotle says, Some things, i.e., predicates, are so predicated
when combined, that there is one predicate from what is predicated separately,
i.e., from some things that are predicated separately, a united predication is
made but from others this is riot so. What is the difference between these;
whence does such a diversity arise? He adds the examples which we have already
cited and applied to the question. Of these examples, the first contains
predicates from which something one per se is formed, i.e., "animal” and
"biped,” a genus and difference; the second contains predicates from which
something accidentally one is formed, namely, "white man”; the third
contains predicates from which neither one per se nor one accidentally is
formed, "lute player” and "good,” as will be explained. Cajetanus
lib. 2 l. 6 n. 2Deinde cum dicit: si enim quoniam etc., declarat veritatem
diversitatis positae, ex qua rationabilis redditur quaestio: si namque inter
praedicata non esset talis diversitas, irrationabilis esset dubitatio. Ostendit
autem hoc ratione ducente ad inconveniens, nugationem scilicet. Et quia nugatio
duobus modis committitur, scilicet explicite et implicite; ideo primo deducit
ad nugationem explicitam, secundo ad implicitam; ibi: amplius, si Socrateset
cetera. Ait ergo quod si nulla est inter quaecumque praedicata differentia, sed
de quolibet indifferenter censetur quod quia alterutrum separatum dicitur, quod
utrumque coniunctim dicatur, multa inconvenientia sequentur. De aliquo enim
homine, puta Socrate, verum est separatim dicere quod, homo est, et albus est;
quare et omne, idest et coniunctim dicetur, Socrates est homo albus. Rursus et
de eodem Socrate potest dici separatim quod, est homo albus, et quod, est
albus; quare et omne, idest, igitur coniunctim dicetur, Socrates est homo albus
albus: ubi manifesta est nugatio. Rursus si de eodem Socrate iterum dicas separatim
quod, est homo albus albus, verum dices et congrue quod est albus, et secundum
hoc, si iterum hoc repetes separatim, a veritate simili non discedes, et sic in
infinitum sequetur, Socrates est homo albus, albus, albus in infinitum. Simile
quod ostenditur in alio exemplo. Si quis de Socrate dicat quod, est musicus,
albus, ambulans, cum possit et separatim dicere quod, est musicus, et quod, est
albus, et quod, est ambulans; sequetur, Socrates est musicus, albus, ambulans,
musicus, albus, ambulans. Et quia pluries separatim, in eodem tamen tempore,
enunciari potest, procedit nugatio sine fine. Deinde deducit ad implicitam
nugationem, dicens, cum de Socrate vere dici possit separatim quod, est homo,
et quod, est bipes, si coniunctim inferre licet, sequetur quod, Socrates sit
homo bipes. Ubi est implicita nugatio. Bipes enim circumloquens differentiam
hominis actu et intellectu clauditur in hominis ratione. Unde ponendo loco
hominis suam rationem (quod fieri licet, ut docet Aristoteles II topicorum), apparebit
manifeste nugatio. Dicetur enim: Socrates est homo, idest, animal bipes, bipes.
Quoniam ergo plurima inconvenientia sequuntur si quis ponat complexiones,
idest, adunationes praedicatorum fieri simpliciter, idest, absque diversitate
aliqua, manifestum est ex dictis; quomodo autem faciendum est, nunc, idest, in
sequentibus dicemus. Et nota quod iste textus non habetur uniformiter apud
omnes quoad verba, sed quia sententia non discrepat, legat quicunque ut vult. When
he says, For if we hold that whenever each is truly said of a subject, both
together must also be true, etc., he shows that there truly is such a diversity
among predicates and in so doing renders the question reasonable, for if there
were not such a diversity among predicates the question would be pointless. He
shows this by reasoning lead-ing to an absurdity, i.e., to something nugatory.
Now, something nugatory is effected in two ways, explicitly and implicitly.
Therefore, he first makes a deduction to the explicitly nugatory, secondly to the
implicitly, where he says, Furthermore, if Socrates is Socrates and a man,
Socrates is a Socrates man, etc. If, he says, there is no difference between
predicates, and it is supposed of any of them indifferently that because both
are said separately both may he said conjointly, many absurdities will follow.
For of some man, say Socrates, it is true to say separately that he is a man
and he is white; therefore both -together, i.e., we may also say conjointly,
"Socrates is a white man.” Again, of the same Socrates we can say
separately that he is a white man and that he is white, and both together,
i.e., therefore conjointly, "Socrates is a white white man.” Here the
nugatory expression is evident. Further, if of the same Socrates that you again
say separately is a white white man it will be true and consistent to say that
he is white, and according to this, if again repeating this separately, you
will not deviate from a similar truth, and this will follow to infinity, then
Socrates is a white white white man to infinity. The same thing can be shown by
another example, If someone says of Socrates that he is musical, white, and
walking, since it is also possible to say separately that he is musical, and
that he is white, and that he is walking, it will follow that Socrates is
musical, white, walking, musical, white, walking. And since these can be
enunciated many times separately, yet at the same time, the nugatory statement
proceeds without end. Then he makes a deduction to the implicitly nugatory.
Since it can be truly said of Socrates separately that he is man and that he is
biped, it will follow that Socrates is a biped man, if it is licit to infer
conjointly. This is implicitly nugatory because the "biped,” which
indirectly expresses the difference of man in act and in understanding, is
included in the notion of man. Hence, if we posit the definition of man in
place of "man” (which it is licit to do, as Aristotle teaches in II
Topicorum [2: 110a 5]) the nugatory character of the enunciation will be evident,
for when we say "Socrates is a biped man,” we are saying "Socrates is
a biped biped animal.” From what has been said it is evident that many
absurdities follow if anyone proposes that combinations, i.e., unions of
predicates, be made simply, i.e., without any distinction. Now, i.e., in what
follows, we will state how this must be settled. This particular text is not
uniformly worded in the manuscripts, but since no discrepancy of thought is
involved one may read it as he wishes. 3 Deinde cum dicit: eorum igitur etc.,
solvit propositam quaestionem. Et circa hoc duo facit: primo, respondet
instantiis in ipsa propositione quaestionis adductis; secundo, satisfacit
instantiis in probatione positis; ibi: amplius nec quaecumqueet cetera. Circa
primum duo facit: primo namque, declarat veritatem; secundo, applicat ad
propositas instantias; ibi: quocirca et cetera. Determinat ergo dubitationem
tali distinctione. Praedicatorum sive subiectorum plurium duo sunt genera:
quaedam sunt per accidens, quaedam per se. Si per accidens, hoc dupliciter
contingit, vel quia ambo dicuntur per accidens de uno tertio, vel quia alterum
de altero mutuo per accidens praedicatur. Quando illa plura divisim praedicata
sunt per accidens quovis modo, ex eis non sequitur coniunctim praedicatum; quando
autem sunt per se, tum ex eis sequitur coniuncte praedicatum. Unde continuando
se ad praecedentia ait: eorum igitur quae praedicantur, et de quibus
praedicantur, idest subiectorum, quaecumque dicuntur secundum accidens (et per
hoc innuit oppositum membrum, scilicet per se), vel de eodem, idest
accidentaliter concurrunt ad unius tertii denominationem, vel alterutrum de
altero, idest accidentaliter mutuo se denominant (et per hoc ponit membra
duplicis divisionis), haec, scilicet plura per accidens, non erunt unum, idest
non inferent praedicationem coniunctam. When he says, Those things that are
predicated—taken in relation to that to which they are joined in predication,
etc., he solves the proposed question. First he makes an answer with respect to
the instances cited in proposing the question; secondly, he solves the problem
as related to the instances posited in his proof where he says, Furthermore,
predicates that are present in one another cannot be combined simply. In
relation to the first answer, he states the true position first and then
applies it to the instances where he says, This is the reason "good” and
"shoemaker” cannot be combined simply, etc. He settles the question with
this distinction: there are two kinds of multiple predicates and subjects. Some
are accidental, some per se. If they are accidental this occurs in two ways,
either because both are said accidentally of a third thing or because they are
predicated of each other accidentally. Now when the many predicated divisively
are in any way accidental, a conjoined predicate does not follow from them; but
when they are per se, a conjoined predicate does follow from them. In answering
the question, therefore, Aristotle connects what he is saying with what has
gone before: Of those things that are predicated and those of which they are
predicated, i.e., subjects, whichever are said accidentally (by which he
intimates the opposite member, i.e., per se), either of the same subject, i.e.,
they unite accidentally for the denomination of one third thing, or of one
another, i.e., they denominate each other accidentally (and by this he posits
the members of a two-fold division), these (i.e., these many accidentally) will
not be one, i.e., do not produce a conjoined predication. 4 Et explanat utrumque
horum exemplariter. Et primo, primum, quando scilicet illa plura per accidens
dicuntur de tertio, dicens: ut si homo albus est et musicus divisim. Sed non
est idem, idest non sequitur adunatim, ergo homo est musicus albus. Utraque
enim sunt accidentia eidem tertio. Deinde explanat secundum, quando solum illa
plura per accidens de se mutuo praedicantur, subdens: nec si album musicum
verum est dicere, idest, et etiamsi de se invicem ista praedicantur per
accidens ratione subiecti in quo uniuntur, ut dicatur, homo est albus, et est
musicus, et album est musicum, non tamen sequitur quod album musicum unite
praedicetur, dicendo, ergo homo est albus musicus. Et causam assignat, quia
album dicitur de musico per accidens, et e converso. He explains both of these by
examples. First, the many said accidentally of a third; for example, man is
white and musical divisively. But they are not the same, i.e., it does not
follow unitedly that "Man is musical white” for both are accidental to the
same third thing. Then he explains the second member by an example. In it the
many are predicated only of one another. Even if it were true to say white is
musical, i.e., even if these are predicated accidentally of each other by
reason of the subject in which they are united, so that we may say "Man is
white and he is musical, and white is musical,” it still does not follow that
"musical white” is predicated as a unity when we say, "Therefore, man
is musical white.” He gives as the cause of this that "white” is said of
"musical” accidentally and conversely. 5 Notandum est hic quod cum duo
membra per accidens enumerasset, unico tamen exemplo utrumque membrum
explanavit, ut insinuaret quod distinctio illa non erat in diversa praedicata
per accidens, sed in eadem diversimode comparata; album enim et musicum,
comparata ad hominem, sub primo cadunt membro; comparata autem inter se, sub
secundo. Diversitatem ergo comparationis pluralitate membrorum, identitatem
autem praedicatorum unitate exempli astruxit. It must be noted here that
although he has enumerated two accidental members, he explains both members by
this single example so as to imply that the distinction is not one of different
accidental predicates, but of the same predicates compared in different ways.
"White” and "musical” compared to "man” fall under the first
member, but compared with each other, under the second. Hence he has provided
diversity of comparison by the plurality of the members, but identity of
predicates by the unity of the example. 6 Advertendum est ulterius, ad
evidentiam divisionis factae in littera, quod, secundum accidens, potest
dupliciter accipi. Uno modo, ut distinguitur contra perseitatem
posterioristicam, et sic non sumitur hic: quoniam cum dicitur plura praedicata
secundum accidens, aut ly secundum accidens determinaret coniunctionem inter
se, et sic manifeste esset falsa regula; quoniam inter prima praedicata, animal
bipes, seu, animal rationale, est praedicatio secundum accidens hoc modo
(differentia enim in nullo modo perseitatis praedicatur de genere, et tamen
Aristoteles in textu dicit ea non esse praedicata per accidens, et asserit quod
est optima illatio, est animal et bipes, ergo est animal bipes); aut
determinaret coniunctionem illarum ad subiectum, et sic etiam inveniretur
falsitas in regula: bene namque dicitur, paries est coloratus, et est
visibilis, et tamen coloratum visibile non per se inest parieti. Alio modo,
accipitur ly secundum accidens, ut distinguitur contra hoc quod dico, ratione
sui, seu, non propter aliud, et sic idem sonat, quod, per aliud: et hoc modo
accipitur hic. Quaecunque enim sunt talis naturae quod non ratione sui
iunguntur, sed propter aliud, ab illatione coniuncta deficere necesse est, ex
eo quod coniuncta illatio unum alteri substernit, et ratione sui ea adunata
denotat ut potentiam et actum. Est ergo sensus divisionis, quod praedicatorum
plurium, quaedam sunt per accidens, quaedam per se, idest, quaedam adunantur
inter se ratione sui, quaedam propter aliud. Ea quae per se uniuntur inferunt
coniunctum, ea autem quae propter aliud, nequaquam. To make this division
evident it must also be noted that accidentally can be taken in two ways. It
may be taken as it is distinguished from "posterioristic perseity.” This
is not the way it is taken here, for "many predicates accidentally” would
then mean that the "accidentally” determines a conjunction between
predicates, and thus the rule would clearly be false, for the first predicates
he gave as examples are predicated accidentally in this way, namely,
"biped animal,” or "rational animal” (for a difference is not
predicated of a genus in any mode of perseity, and yet Aristotle says in the
text that these are not predicated accidentally, and has asserted that "He
is an animal and biped, therefore he is a biped animal” is a good inference).
Or it would mean that the "accidentally” determines a conjunction of the
predicates with the subject, and thus also the rule would be false, for it is
valid to say, "The wall is colored and it is visible,” yet visible colored
is not per se in the wall. Accidentally” taken in the second way is
distinguished from what I call "on its own account,” i.e., not because of
something else; "accidentally” then means "through another.” This is
the way it is taken here, for whatever are of such a nature that they are
joined because of something else, and not on their own account, do not admit of
conjoined inference, because a conjoined inference subjects one to the other,
and denotes the things united on their own account as potency and act.
Therefore, the sense of the division is this: of many predicates, some are
accidental, some per se, i.e., some are united among themselves on their own
account, some on account of another. Those that are per se united infer
conjointly; those that are united on account of another do not infer conjointly
in any way. 7 Deinde cum dicit: quocirca nec citharoedusetc., applicat
declaratam veritatem ad partes quaestionis. Et primo, ad secundam partem, quia
scilicet non sequitur: est bonus et est citharoedus; ergo est bonus
citharoedus, dicens: quocirca nec citharoedus bonus etc.; secundo, ad aliam
partem quaestionis, quare sequebatur: est animal et est bipes; ergo est animal
bipes: et ait: sed animal bipes et cetera. Et subiungit huius ultimi dicti
causam, quia, animal bipes, non sunt praedicata secundum accidens coniuncta
inter se aut in tertio, sed per se. Et per hoc explanavit alterum membrum
primae divisionis, quod adhuc positum non fuerat explicite. Adverte quod
Aristoteles, eamdem tenens sententiam de citharoedo et bono et musico et albo,
conclusit quod album et musicum non inferunt coniunctum praedicatum; ideo nec
citharoedus et bonus inferunt citharoedus bonus simpliciter, idest coniuncte.
Est autem ratio dicti, quia licet musica et albedo dissimiles sint bonitati et
arti citharisticae in hoc, quod bonitas nata est denominare et subiectum
tertium, puta hominem et ipsam artem citharisticam (propter quod falsitas
manifeste cernitur, quando dicitur: est bonus et citharoedus; ergo bonus
citharoedus), musica vero et albedo subiectum tertium natae sunt denominare
tantum, et non se invicem (propter quod latentior est casus cum proceditur: est
albus et est musicus; ergo est musicus albus), licet, inquam, in hoc sint
dissimiles, et propter istam dissimilitudinem processus Aristotelis minus sufficiens
videatur; attamen similes sunt in hoc quod, si servetur identitas omnimoda
praedicatorum quam servari oportet, si illamet divisa debent inferri
coniunctim, sicut musica non denominat albedinem, neque contra, ita nec
bonitas, de qua fit sermo, cum dicitur, homo est bonus, denominat artem
citharisticam, neque e converso. Cum enim bonum sit aequivocum, licet a
consilio, alia ratione dicitur de perfectione citharoedi, et alia de
perfectione hominis. Quando namque dicimus, Socrates est bonus, intelligimus
bonitatem moralem, quae est hominis bonitas simpliciter (analogum siquidem
simpliciter positum sumitur pro potiori); cum autem infertur, citharoedus
bonus, non bonitatem moris sed artis praedicas: unde terminorum identitas non
salvatur; sufficienter igitur et subtiliter Aristoteles eamdem de utrisque
protulit sententiam, quia eadem est haec, et ibi ratio et cetera. When he says,
This is the reason "good” and "shoemaker” cannot be combined simply,
etc., he applies the truth he has stated to the parts of the question. He
applies it first to the second part, i.e., why this does not follow: "He
is good and he is a shoemaker, therefore he is a good shoemaker.” Then he
applies it to the other part of the question, i.e., why this follows: "He
is an animal and he is biped, therefore he is a biped animal.” He adds the
reason in the case of the latter: "biped” and "animal” are not
predicates accidentally conjoined among themselves, nor in a third thing, but
per se. This also explains the other member of the first division which has not
yet been explicitly posited. Notice that he maintains the same judgment is to
be made about lute player and good, and musical and white. He has concluded
that "white” and "musical” do not infer a conjoined predicate; hence
neither do "lute player” and "good” infer "good lute player”
simply, i.e., conjointly. There is a reason for saying this. For although there
is a difference between musical and white, and goodness and the art of
luteplaying, they are also similar. Let us consider their difference first.
Goodness is of such a nature that it denominates both a third subject, namely,
man, and the art of lute-playing. This is the reason the falsity is clearly
discernible when we say "He is good and a lute player, therefore he is a good
lute player.” Musical and whiteness, on the other band, are of such a nature
that they denominate only a third subject, and not each other, and hence, the
error is less obvious in "He is white and be is musical, therefore he is
musical white.” Now it is this difference that makes Aristotle’s process of
reasoning appear somewhat inconclusive. However, they are similar. For if
identity of predicates is kept in every way that is required for the same
things divided to be inferred conjointly, then, just as "musical” does not
denominate "whiteness,” nor the contrary, so neither does "goodness,”
of which we are speaking when we say "Man is good,” denominate the art of
lute-playing,,nor conversely. For "good” is equivocal—by choice though—and
therefore is said of the perfection of the lute player by means of one notion
and of the perfection of man by means of another. For example, when we say,
"Socrates is good” we understand moral goodness, which is the goodness of
man absolutely (for the analogous term posited simply, stands for what is
mainly so); but when good lute player is inferred, it is not the goodness of
morality that is predicated but the goodness of art; whence identity of the
terms is not saved. Therefore, Aristotle has adequately and subtly expressed the
same judgment about both, i.e., "white” and "musical,” and
"good” and "lute player,” for the reason here is the same as there. Nec
praetereundum est quod, cum tres consequentias adduxit quaestionem proponendo,
scilicet; est animal et bipes; ergo est animal bipes: et, est homo et albus;
ergo est homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo est homo albus: et, est
citharoedus et bonus; ergo est bonus citharoedus; et duas primas posuerat esse
bonas, tertiam vero non; huius diversitatis causam inquirere volens, cur
solvendo quaestionem nullo modo meminerit secundae consequentiae, sed tantum
primae et tertiae. Indiscussum namque reliquit an illa consequentia sit bona an
mala. Et ad hoc videtur mihi dicendum quod ex his paucis verbis etiam illius
consequentiae naturam insinuavit. Profundioris enim sensus textus capax apparet
cum dixit quod, non sunt unum album et musicum etc., ut scilicet non tantum
indicet quod expositum est, sed etiam eius causam, ex qua natura secundae
consequentiae elucescit. Causa namque quare album et musicum non inferunt
coniunctam praedicationem est, quia in praedicatione coniuncta oportet alteram
partem alteri supponi, ut potentiam actui, ad hoc ut ex eis fiat aliquo modo
unum, et altera a reliqua denominetur (hoc enim vis coniunctae praedicationis
requirit, ut supra diximus de partibus definitionis); album autem et musicum
secundum se non faciunt unum per se, ut patet, neque unum per accidens. Licet
enim ipsa ut adunantur in subiecto uno sint unum subiecto per accidens, tamen
ipsamet quae adunantur in uno, tertio subiecto, non faciunt inter se unum per
accidens: tum quia neutrum informat alterum (quod requiritur ad unitatem per
accidens aliquorum inter se, licet non in tertio); tum quia non considerata
subiecti unitate, quae est extra eorum rationes, nulla remanet inter ea
unitatis causa. Dicens ergo quod album et musicum non sunt unum, scilicet inter
se, aliquo modo, causam expressit quare coniunctim non infertur ex eis
praedicatum. Et quia oppositorum eadem est disciplina, insinuavit per illamet
verba bonitatem illius consequentiae. Ex eo enim quod homo et albus se habent
sicut potentia et actus (et ita albedo informet, denominet atque unum faciat
cum homine ratione sui), sequitur quod ex divisis potest inferri coniuncta
praedicatio; ut dicatur: est homo et albus; ergo est homo albus. Sicut per
oppositum dicebatur quod ideo musicum et album non inferunt coniunctum
praedicatum quia neutrum alterum informabat. There is another point that must
be mentioned. Aristotle in proposing the question draws three consequences:
"He is an animal and biped, therefore he is a biped animal” and "He
is a man and white, therefore he is a white man” and "He is a lute player
and good, therefore he is a good lute player.” Then he states that the first
two consequences are good, the third not. His intention was to inquire into the
cause of this diversity, but in solving the question he mentions only the first
and third consequences, leaving the goodness or badness of the second
consequence undiscussed. Why is this? I would say in answer to this that in
these few words he has also implied the nature of the second consequence, for
there is a more profound meaning to the statement in the text that whiteness
and being musical is not one. It is a meaning that not only indicates what has
already been explained but also its cause, and from this the nature of the
second consequence is apparent. For the reason "white” and "musical”
do not infer a conjoined predication is that in conjoined predication one part
must be subjected to the other as potency to act such that in some way one
thing is formed from them and one is denominated from the other (for the force
of the conjoined predication requires this, as we have said above concerning
the parts of the definition). "White” and "musical,” however, do not
in themselves form one thing per se, as is evident, nor do they form one thing
accidentally. For while it is true that as united in a subject they are one in
subject accidentally, nevertheless things that are united in one third subject
do not form one thing accidentally among themselves: first, because neither
informs the other (which is required for accidental unity of things among
themselves, although not in a third thing); secondly, because, considered apart
from the unity of a subject, which is outside of their notions, there is no
cause of unity between them. Therefore, when Aristotle says that whiteness and
being musical are not one, i.e., among themselves, in some measure he expresses
the reason why a predicate is not conjointly inferred from them. And since the
same discipline extends to opposites, the goodness of the second consequence is
implied by these words. That is, man and white are related as potency and act
(and so, on its own account whiteness informs, denominates, and forms one thing
with ‘man’); therefore from these taken divisively a conjoined predication can
be inferred, i.e., "He is man and white, therefore be is a white man”;
just as, in the opposite case, it was said that "musical” and "white”
do not infer a conjoined predicate because neither informs the other. 9 Nec
obstat quod album faciat unum per accidens cum homine: non enim dictum est quod
unitas per accidens aliquorum impedit ex diversis inferre coniunctum, sed quod
unitas per accidens aliquorum ratione tertii tantum est illa quae impedit.
Talia enim quae non sunt unum per accidens nisi ratione tertii, inter se nullam
habent unitatem; et propterea non potest inferri coniunctum, ut dictum est,
quod unitatem importat. Illa vero quae sunt unum per accidens ratione sui, seu
inter se, ut, homo albus, cum coniuncta accipiuntur, unitate necessaria non
carent, quia inter se unitatem habent. Notanter autem apposui ly tantum:
quoniam si aliqua duo sunt unum per accidens, ratione tertii subiecti scilicet,
sed non tantum ex hoc habent unitatem, sed etiam ratione sui, ex hoc quod
alterum reliquum informat, ex istis divisis non prohibetur inferri coniunctum.
Verbi gratia, optime dicitur: est quantum et est coloratum; ergo est quantum
coloratum: quia color informat quantitatem. There is no opposition between the
position just stated and the fact that white forms an accidental unity with
man. For we did not say that accidental unity of certain things impedes
inferring a conjunction from divided things,” but that accidental unity of
certain things only by reason of a third thing is the one that impedes. Things
that are one accidentally only by reason of a third thing have no unity among
them selves; and for this reason a conjunction, which implies unity, cannot be
inferred, as we have said. But things that are one accidentally on their own
account, i.e., among themselves, as for example, "white man,” when taken
conjointly, have the necessary unity because they have unity among themselves.
Notice that I have added "only.” The reason is that if any two C are one
accidentally, namely, by reason of a third subject, and they not only have
unity from this but also on their own account (because one informs the other),
then from these taken divisively a conjoined inference can be made. For
example, we can infer, "It is a quantity and it is colored, therefore it
is a colored quantity,” because color informs quantity. Cajetanus lib. 2 l. 6
n. 10Potes autem credere quod secunda illa consequentia, quam non explicite
confirmavit Aristoteles respondendo, sit bona et ex eo quod ipse proponendo
quaestionem asseruit bonam, et ex eo quod nulla instantia reperitur. Insinuavit
autem et Aristoteles quod sola talis unitas impedit illationem coniunctam,
quando dixit quaecumque secundum accidens dicuntur vel de eodem vel alterutrum
de altero. Cum enim dixit, secundum accidens de eodem, unitatem eorum ex sola
adunatione in tertio posuit (sola enim haec per accidens praedicantur de eodem,
ut dictum est); cum autem addidit, vel alterutrum de altero, mutuam
accidentalitatem ponens, ex nulla parte inter se unitatem reliquit. Utraque
ergo per accidens adducta praedicata, in tertio scilicet vel alterutrum, quae
impediant illationem coniunctam, nonnisi in tertio unitatem habent. You can
hold as true that this second consequence is good even though Aristotle has not
explicitly confirmed it by returning to it, both from the fact that in
proposing the question he has claimed it as good and also because there is no
instance opposed to it. Moreover, Aristotle has implied that it is only such
unity that impedes the conjoined inference where he says: which are said
accidentally, either of the same subject or of one another. By accidentally of
the same subject, he posits their unity to be only from union in a third thing
(for only these are predicated accidentally of the same subject, as was said).
When he adds, or of one another—positing mutual accidentality—no unity at all
is left between them. Therefore, both kinds of accidental predicates, namely,
in a third thing or in one another, that impede a conjoined inference have
unity only in a third thing. 11 Deinde cum dicit: amplius nec etc., satisfacit
instantiis in probatione adductis, et in illis in quibus explicita
committebatur nugatio, et in illis in quibus implicita; et ait quod non solum
inferre ex divisis coniunctum non licet quando praedicata illa sunt per
accidens, sed nec etiam quaecunque insunt in alio: idest, sed nec hoc licet
quando praedicata includunt se, ita quod unum includatur in significato formali
alterius intrinsece, sive explicite, ut album in albo, sive implicite, ut
animal et bipes in homine. Quare neque album frequenter dictum divisim infert
coniunctum, neque homo divisim ab animali vel bipede enunciatum, animal bipes,
coniunctum cum homine infert; ut dicatur, ergo Socrates est homo bipes, vel
animal homo. Insunt enim in hominis ratione, animal et bipes actu et
intellectu, licet implicite. Stat ergo solutio quaestionis in hoc, quod unitas
plurium per accidens in tertio tantum et nugatio, impediunt ex divisis inferri
coniunctum; et consequenter, ubi neutrum horum invenitur, ex divisis licebit
inferre coniunctum. Et hoc intellige quando divisae sunt simul verae de eodem
et cetera. Then when he says, Furthermore, predicates that are present in one
another cannot be combined simply, etc., he gives the solution for the
instances (both the explicitly nugatory and the implicitly nugatory) cited in
the proof. It is not only not licit, he says, to infer a union from divided
predicates when these are accidental, but it is not licit when the predicates
are present in one another. That is, it is not licit to infer a conjoined
predicate from divided predicates when the predicates include one another in
such a way that one is included in the formal signification of another
intrinsically, or explicitly, as "white” in white,” or implicitly, as
"animal” and "biped” in "man.” Therefore, white” said repeatedly
and divisively does not infer a conjoined predication, nor does "man”
divisively enunciated from "animal” or "biped” infer "biped” or
"animal” conjoined with man, such that we could say, "Therefore,
Socrates is a biped-man” or "animal-man.” For animal and biped are
included in the notion of man in act and in understanding, although implicitly.
The solution of the question, then, is this: the inferring of a conjunction
from divided predicates is impeded when there is unity of the many accidentally
only in a third thing and when there is a nugatory result. Consequently, where
neither of these is found it will be licit to infer a conjunction from divided
predicates. It is to be understood that this applies when the divided
predicates are at once true of the same subject. VII. 1. Postquam expedita est
prima dubitatio, tractat secundam dubitationem. Et circa hoc tria facit: primo,
movet ipsam quaestionem; secundo, solvit eam; ibi: sed quando in adiecto etc.,
tertio, ex hoc excludit quemdam errorem; ibi: quod autem non est et cetera. Est
ergo quaestio: an ex enunciatione habente praedicatum coniunctum, liceat
inferre enunciationes dividentes illud coniunctum; et est quaestio contraria
superiori. Ibi enim quaesitum est an ex divisis inferatur coniunctum; hic autem
quaeritur an ex coniuncto sequantur divisa. Unde movendo quaestionem dicit:
verum autemaliquando est dicere de aliquo et simpliciter, idest divisim, quod
scilicet prius dicebatur coniunctim, ut quemdam hominem album esse hominem, aut
quoddam album hominem album esse, idest ut ex ista, Socrates est homo albus,
sequitur divisim, ergo Socrates est homo, ergo Socrates est albus. Non autem
semper, idest aliquando autem ex coniuncto non inferri potest divisim; non enim
sequitur, Socrates est bonus citharoedus, ergo est bonus. Unde haec est
differentia, quod quandoque licet et quandoque non. Et adverte quod notanter
adduxit exemplum de homine albo, inferendo utramque partem divisim, ut
insinuaret quod intentio quaestionis est investigare quando ex coniuncto potest
utraque pars divisim inferri, et non quando altera tantum. Aristotle now takes
up the second question in relation to multiple enunciations. He first presents
it, and then solves it where he says, When something opposed is present in the
adjunct, from which a contradiction follows, it will not be true to predicate
them singly, but false, etc. Finally, he excludes an error where he says, In
the case of non-being, however, it is not true to say that because it is a
matter of opinion, it is something, etc. The second question is this: Is it
licit to infer from an enunciation having a conjoined predication, enunciations
dividing that conjunction? This question is the contrary of the first question.
The first asked whether a conjoined predicate could be inferred from divided
predicates; the present one asks whether divided predicates follow from
conjoined predicates. When he presents the question he says, on the other hand,
it is also true to say predicates of something singly, i.e., what was
previously said conjointly may be said divisively; for example, that some white
man is a man, or that some white man is white. That is, from "Socrates is
a white man,” follows divisively, "Therefore Socrates is a man,”
"There fore Socrates is white.” However, this is not always the case,
i.e., some times it is not possible to infer divisively from conjoined
predicates, for this does not follow: "Socrates is a good lute player,
therefore he is good.” Hence, sometimes it is licit, sometimes not. Note that
in inferring each part divisively he takes as an ex ample "white man.”
This is significant, for by it he means to imply that his intention is to
investigate when each part can be inferred divisively from a conjoined
predicate, and not when only one of the two can be inferred. 2 Deinde cum
dicit: sed quando in adiecto etc., solvit quaestionem. Et duo facit: primo,
respondet parti negativae quaestionis, quando scilicet non licet; secundo, ibi:
quare in quantiscumque etc., respondet parti affirmativae, quando scilicet
licet. Circa primum considerandum quod quia dupliciter contingit fieri
praedicatum coniunctum, uno modo ex oppositis, alio modo ex non oppositis, ideo
duo facit: primo, ostendit quod numquam ex praedicato coniuncto ex oppositis
possunt inferri eius partes divisim; secundo, quod nec hoc licet universaliter
in praedicato coniuncto ex non oppositis, ibi: vel etiam quando et cetera. Ait ergo
quod quando in termino adiecto inest aliquid de numero oppositorum, ad quae
sequitur contradictio inter ipsos terminos, non verum est, scilicet inferre
divisim, sed falsum. Verbi gratia cum dicitur, Caesar est homo mortuus, non
sequitur, ergo est homo: quia ly mortuus, adiacens homini, oppositionem habet
ad hominem, quam sequitur contradictio inter hominem et mortuum: si enim est
homo, non est mortuus, quia non est corpus inanimatum; et si est mortuus, non
est homo, quia mortuum est corpus inanimatum. Quando autem non inest, scilicet
talis oppositio, verum est, scilicet inferre divisim. Ratio autem quare, quando
est oppositio in adiecto, non sequitur illatio divisa est, quia alter terminus
ex adiecti oppositione corrumpitur in ipsa enunciatione coniuncta. Corruptum
autem seipsum absque corruptione non infert, quod illatio divisa sonaret. When
he says, When something opposed is present in the adjunct, etc., he solves the
question, first by responding to the negative part of the question, i.e., when
it is not licit; secondly, to the affirmative part, i.e., when it is licit,
where he says, Therefore, in whatever predications no contrariety is present
when definitions are put in place of the names, and wherein predicates are
predicated per se and not accidentally, etc. It should be noted, in relation to
the negative part of the question, that a conjoined predicate may be formed in
two ways: from opposites and from non-opposites. Therefore, he shows first that
the parts in a conjoined predicate of opposites can never be inferred
divisively. Secondly, he shows that this is not licit universally in a
conjoined predicate of non-opposites, where he says, Or, rather, when something
opposed is present in it, it is never true; but when something opposed is not
present, it is not always true. Aristotle says, then, that when something that
is an opposite is contained in the adjacent term, which results in a
contradiction between the terms themselves, it is not true, namely, to infer
divisively, but false. For example, when we say, "Caesar is a dead man,”
it does not follow, "Therefore he is a man,” because the contradiction
between 11 man” and "dead” which results from adding the "dead” to
"man” is opposed to man, for if he is a man he is not dead, because he is
not an inanimate body; and if he is dead he is not a man, because as dead he is
an inanimate body. When something opposed is not present, i.e., there is no
such opposition, it is true, i.e., it is true to infer divisively. The reason a
divided inference does not follow when there is opposition in the added term is
that in a conjoined enunciation the other term is destroyed by the opposition
of the added term. But that which has been destroyed is not inferred apart from
the destruction, which is what the divided inference would signify. Cajetanus
lib. 2 l. 7 n. 3Dubitatur hic primo circa id quod supponitur, quomodo possit
vere dici, Caesar est homo mortuus, cum enunciatio non possit esse vera, in qua
duo contradictoria simul de aliquo praedicantur. Hoc enim est primum principium.
Homo autem et mortuus, ut in littera dicitur, contradictoriam oppositionem
includunt, quia in homine includitur vita, in mortuo non vita. Dubitatur
secundo circa ipsam consequentiam, quam reprobat Aristoteles: videtur enim
optima. Cum enim ex enunciatione praedicante duo contradictoria possit utrumque
inferri (quia aequivalet copulativae), aut neutrum (quia destruit seipsam), et
enunciatio supradicta terminos oppositos contradictorie praedicet, videtur
sequi utraque pars, quia falsum est neutram sequi. Two questions arise at this
point. The first concerns something assumed here: how can it ever be true to
make such a statement as "Caesar is a dead man,” since an enunciation
cannot be true in which two contradictories are predicated at the same time of
something (for this is a first principle). But "man” and "dead,” as
is said in the text, include contradictory opposition, for in man is included
life, and in dead, non-life. The second question concerns the consequent that
Aristotle rejects, which appears to be good. The enunciation given as an
example predicates terms that are opposed contradictorily. But from an
enunciation predicating two contradictory terms, either both can be inferred
(because it is equivalent to a copulative enunciation), or neither (because it
destroys itself); therefore both parts seem to follow, since it is false that
neither follows. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 4Ad hoc simul dicitur quod aliud est
loqui de duobus terminis secundum se, et aliud de eis ut unum stat sub determinatione
alterius. Primo namque modo, homo et mortuus, contradictionem inter se habent,
et impossibile est quod simul in eodem inveniantur. Secundo autem modo, homo et
mortuus, non opponuntur, quia homo transmutatus iam per determinationem
corruptivam importatam in ly mortuus, non stat pro suo significato secundum se,
sed secundum exigentiam termini additi, a quo suum significatum distractum est.
Ad utrunque autem insinuandum Aristoteles duo dixit, et quod habent
oppositionem quam sequitur contradictio, attendens significata eorum secundum
se, et quod etiam ex eis formatur una vera enunciatio cum dicitur, Socrates est
homo mortuus, attendens coniunctionem eorum alterius corruptivam. Unde patet
quid dicendum sit ad dubitationes. Ad utramque siquidem dicitur, quod non
enunciantur duo contradictoria simul de eodem, sed terminus ut stat sub
distractione, seu transmutatione alterius, cui secundum se esset
contradictorius. These two questions can be answered simultaneously. It is one
thing to speak of two terms in themselves, and another to speak of them as one
stands under the determination of another. Taken in the first way, "man”
and "dead” have a contradiction between them and it is impossible that
they be found in the same thing at the same time. In the second way, however,
"man” and "dead” are not opposed, since "man,” changed by the
destructive element introduced by "dead,” no longer stands for what it
signifies as such, but as determined by the term added, by which what is
signified is removed. Aristotle, in order to imply both, says two things: that
they have the opposition upon which contradiction follows if you regard what
they signify in themselves; and, that one true enunciation is formed from them
as in "Socrates is a dead man,” if you regard their conjunction as
destructive of one of them. Accordingly, the answer to the two questions is
evident. In a case such as this two contradictories are not enunciated of the
same thing at the same time, but one term as it stands under dissolution or
transmutation from the other, to which by itself it would be contradictory.
Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 5Dubitatur quoque circa id quod ait: inest aliquid
oppositorum quae consequitur contradictio; superflue enim videtur addi illa
particula, quae consequitur contradictio. Omnia enim opposita consequitur
contradictio, ut patet discurrendo in singulis; pater enim est non filius, et
album non nigrum, et videns non caecum et cetera. Et ad hoc dicendum est quod
opposita possunt dupliciter accipi: uno modo formaliter, idest secundum sua
significata; alio modo denominative, seu subiective. Verbi gratia, pater et
filius possunt accipi pro paternitate et filiatione, et possunt accipi pro eo
qui denominatur pater vel filius. Rursus cum omnis distinctio fiat oppositione
aliqua, ut dicitur in X metaphysicae, supponatur omnino distincta esse
opposita. Dicendum ergo est quod, licet ad omnia opposita seu distincta
contradictio sequatur inter se formaliter sumpta, non tamen ad omnia opposita
sequitur contradictio inter ipsa denominative sumpta. Quamvis enim pater et
filius mutuam sui negationem inferant inter se formaliter, quia paternitas est
non filiatio, et filiatio est non paternitas; in relatione tamen ad
denominatum, contradictionem non necessario inferunt. Non enim sequitur,
Socrates est pater; ergo non est filius; nec e converso. Ut persuaderet igitur
Aristoteles quod non quaecunque opposita colligata impediunt divisam illationem
(quia non illa quae habent contradictionem annexam formaliter tantum, sed illa
quae habent contradictionem et formaliter et secundum rem denominatam),
addidit: quae consequitur contradictio, in tertio scilicet denominato. Et usus
est satis congrue vocabulo, scilicet, consequitur: contradictio enim ista in
tertio est quodammodo extra ipsa opposita. There is also a question about
something else that Aristotle says, namely, something opposed is present...
from which a contradiction follows. The phrase from which a contradiction
follows seems to be superfluous, for contradiction follows upon all opposites,
as is evident in discoursing about singulars; for a father is not a son, and
white is not black, and one seeing is not blind, etc. Opposites, however, can
be taken in two ways: formally, i.e., according to what they signify, and
denominatively, or subjectively. For example, father and son can be taken for
paternity and filiation, or they can be taken for the one who is denominated a
father or a son. But, again, since every distinction is made by some
opposition, as is said in X Metaphysicae [3: 1054a 20], it could be supposed
that opposites are wholly distinct. It must be pointed out, therefore, that
although contradiction follows between all opposites or distinct things
formally taken, nevertheless, contradiction does not follow upon all opposites
denominatively taken. Father and son formally taken infer a mutual negation of
one another, for paternity is not filiation and filiation is not paternity, but
in respect to what is denominated they do not necessarily infer a
contradiction. It does not follow, for example, that "Socrates is a
father; therefore he is not a son,” nor conversely. Aristotle, therefore, in
order to establish that not all combined opposites prevent a divided inference
(since those having a contradiction applying only formally do not prevent a divided
inference, but those having a contradiction both formally and according to the
thing denominated do prevent a divided inference) adds, from which a
contradiction follows, namely, in the third thing denominated. And
appropriately enough he uses the word follows, for the contradiction in "
the third thing denominated is in a certain way outside of the opposites
themselves. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 6Deinde cum dicit: vel etiam quando est
etc., declarat quod ex non oppositis in tertio coniunctis secundum unum praedicatum,
non universaliter possunt inferri partes divisim. Et primo, hoc proponit quasi
emendans quod immediate dixerat, subiungens: vel etiam quando est, scilicet
oppositio inter terminos coniunctos, falsum est semper, scilicet inferre
divisim; quasi diceret: dixi quod quando inest oppositio, non verum sed falsum
est inferre divisim; quando autem non inest talis oppositio, verum est inferre
divisim. Vel etiam ut melius dicatur, quod quando est oppositio, falsum est
semper, quando autem non inest talis oppositio, non semper verum est. Et sic
modificavit supradicta addendo ly semper, et, non semper. Et subdens exemplum
quod non semper ex non oppositis sequatur divisio, ait: ut, Homerus est aliquid
ut poeta; ergo etiam est? Non. Ex hoc coniuncto, est poeta, de Homero
enunciato, altera pars, ergo Homerus est, non sequitur; et tamen clarum est
quod istae duae partes colligatae, est et poeta, non habent oppositionem, ad
quam sequitur contradictio. Igitur non semper ex non oppositis coniunctis illatio
divisa tenet et cetera. When he says, Or, rather, when something opposed is
present in it, it is never true, etc., he explains that the parts cannot
universally be inferred divisively in the case of a conjoined predicate in
which there is a non-opposite as the third thing denominated. He proposes
this—Or, rather, when something opposed is contained in it, i.e., opposition
between the terms conjoined—as if amending what he has just said, namely, it is
always false, i.e., to infer divisively. What he is saying, then, is this: I
have said that when there is inherent opposition it is not true but false to
infer divisively; but when there is not such opposition it is true to infer
divisively; or, even better, when there is opposition it is always false but
when there is not such opposition it is not always true. That is, he modifies
what he first said by the addition of "always” and "not always.” Then
he adds an example to show that division does not always follow from
non-opposites: For example, Homer is something, say, a poet. Is it therefore
true to say also that Homer "is,” or not? From the conjoined predicate, is
a poet, enunciated of Homer, one part, Therefore Homer is, does not follow; yet
it is evident that these two conjoined parts, "is” and "poet,” do not
have the opposition upon which contradiction follows. Therefore, in the case of
conjoined non-opposites a divided inference does not always hold. Cajetanus
lib. 2 l. 7 n. 7Deinde cum dicit: secundum accidens etc., probat hoc, quod modo
dictum est, ex eo quod altera pars istius compositi, scilicet, est, in
antecedente coniuncto praedicatur de Homero secundum accidens, idest ratione
alterius, quoniam, scilicet poeta, praedicatur de Homero, et non praedicatur
secundum se ly est de Homero; quod tamen infertur, cum concluditur: ergo
Homerus est. Considerandum est hic quod ad solvendam illam conclusionem
negativam, scilicet,- non semper ex non oppositis coniunctis infertur divisim,-
sufficit unam instantiam suae oppositae universali affirmativae afferre. Et hoc
fecit Aristoteles adducendo illud genus enunciationum, in quo altera pars
coniuncti est aliquid pertinens ad actum animae. Loquimur enim modo de Homero
vivente in poematibus suis in mentibus hominum. In his siquidem enunciationibus
partes coniunctae non sunt oppositae in tertio, et tamen non licet inferre
utramque partem divisim. Committitur enim fallacia secundum quid ad
simpliciter. Non enim valet, Caesar est laudatus, ergo est: et simile est de
esse in effectu dependente in conservari. Quomodo autem intelligenda sit ratio
ad hoc adducta ab Aristotele in sequenti particula dicetur. When he says, The
"is” here is predicated accidentally of Homer, he proves what he has said.
One part of this composite, namely, "is,” is predicated of Homer in the
antecedent conjunction accidentally, i.e., by reason of another, namely, with
regard to the "poet” which is predicated of Homer; it is not predicated as
such of Homer. Nevertheless, this is what is inferred when one concludes
"Therefore Homer is.” To validate his negative conclusion, namely, that it
is not always true to infer divisively from conjoined non-opposites, it was
sufficient to give one instance of the opposite of the universal affirmative.
To do this Aristotle introduces that genus of enunciation in which one part of
the conjunction is something pertaining to an act of the mind (for we are
speaking only of Homer living in his poems in the minds of men). In such
enunciations the parts conjoined are not opposed in the third thing
denominated; nevertheless it is not licit to infer each part divisively, for
the fallacy of going from the relative to the absolute will be committed. For
example, it is not valid to say, "Caesar is praiseworthy, therefore he
is,” which is a parallel case, i.e., of an effect whose existence requires
maintenance. Aristotle will explain in the following sections of the text how
the reasoning in the above text is to be understood. Cajetanus lib. 2 l. 7 n.
8Deinde cum dicit: quare in quantiscunque etc., respondet parti affirmativae
quaestionis, quando scilicet ex coniunctis licet inferre divisim. Et ponit duas
conditiones oppositas supradictis debere convenire in unum, ad hoc ut possit
fieri talis consequentia; scilicet, quod nulla inter partes coniuncti oppositio
sit, et quod secundum se praedicentur. Unde dicit inferendo ex dictis: quare in
quantiscunque praedicamentis, idest praedicatis ordine quodam adunatis, neque
contrarietas aliqua, in cuius ratione ponitur contradictio in tertio (contraria
enim sunt quae mutuo se ab eodem expellunt), aut universaliter nulla oppositio
inest, ex qua scilicet sequatur contradictio in tertio, si definitiones pro
nominibus sumantur. Dixit hoc, quia licet in quibusdam non appareat oppositio,
solis nominibus positis, sicut, homo mortuus, et in quibusdam appareat, ut, vivum
mortuum; hoc tamen non obstante, si, positis nominum definitionibus loco
nominum, oppositio appareat, inter opposita collocamus. Sicut, verbi gratia,
homo mortuus, licet oppositionem non praeseferat, tamen si loco hominis et
mortui eorum definitionibus utamur, videbitur contradictio. Dicemus enim corpus
animatum rationale, corpus inanimatum irrationale. In quantiscunque, inquam,
coniunctis nulla est oppositio, et secundum se, et non secundum accidens
praedicantur, in his verum erit dicere et simpliciter, idest divisim quod fuerat
coniunctim enunciatum. When he says, Therefore, in whatever predications no
contrariety is present when definitions are put in place of the names, etc., he
replies to the affirmative part of the question, i.e., when it is licit to
infer divisively from conjoined predicates. He maintains that two
conditions—opposed to what has been said earlier in this portion of the
text—must combine in one enunciation in order that such a consequence be
effected: there must be no opposition between the parts conjoined, and they
must be predicated per se. He says, then, inferring from what has been said:
Therefore, in whatever predicaments, i.e., predicates joined in a certain
order, no contrariety, in virtue of which contradiction is posited in the third
thing denominated (for contraries mutually remove each other from the same
thing), is present, or universally, no opposition is present, i.e., upon which
a contradiction follows in the third thing denominated, when definitions are
taken in place of the names.... He says this because it may be the case that
the opposition is not apparent from the names alone, as in "dead man,” and
again it may be, as in "living dead,” but whether apparent or not it will
be evident that we are putting together opposites if we posit the definitions
of the names in place of the names. For example, in the case of "dead
man,” if we replace "man” and "dead,” with their definitions, the
contradiction will be evident, for what we are saying is "rational animate
body, irrational inanimate body.” In whatever conjoined predicates, then, there
is no opposition, and wherein predicates are predicated per se and not
accidentally, in these it will also be true to predicate them singly, i.e., say
divisively what had been enunciated conjointly. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 9Ad
evidentiam secundae conditionis hic positae, nota quod ly secundum se potest
dupliciter accipi: uno modo positive, et sic dicit perseitatem primi, secundi,
universaliter, quarti modi; alio modo negative, et sic idem sonat quod non per
aliud. Rursus considerandum est quod cum Aristoteles dixit de praedicato
coniuncto quod, secundum se praedicetur, ly secundum se potest ad tria referri,
scilicet, ad partes coniuncti inter se, ad totum coniunctum respectu subiecti,
et ad partes coniuncti respectu subiecti. Si ergo accipiatur ly secundum se
positive, licet non falsus, extraneus tamen a mente Aristotelis reperitur
sensus ad quodcunque illorum trium referatur. Licet enim valeat, est homo
risibilis, ergo est homo et est risibilis, et, est animal rationale, ergo est
animal et est rationale; tamen his oppositae inferunt similes consequentias.
Dicimus enim, est albus musicus, ergo est musicus et est albus: ubi nulla est
perseitas, sed est coniunctio per accidens, tam inter partes inter se, quam
inter totum et subiectum, quam etiam inter partes et subiectum. Liquet igitur
quod non accipit Aristoteles ly secundum se positive, ex eo quod vana fuisset
talis additio, quae ab oppositis non facit in hoc differentiam. Ad quid enim
addidit, secundum se, et non, secundum accidens, si tam illae quae sunt
secundum se, modo exposito, quam illae quae sunt secundum accidens ex
coniuncto, inferunt divisum? Si vero accipiatur secundum se, negative, idest,
non per aliud, et referatur ad partes coniuncti inter se, falsa invenitur
regula. Nam non licet dicere, est bonus citharoedus; ergo est bonus et
citharoedus; et tamen ars citharizandi et bonitas eius sine medio coniunguntur.
Et similiter contingit, si referatur ad totum coniunctum respectu subiecti, ut
in eodem exemplo apparet. Totum enim hoc, citharoedus bonus, non propter aliud
convenit homini; et tamen non infert, ut dictum est, divisionem. Superest ergo
ut ad partem coniuncti respectu subiecti referatur, et sit sensus: quando
aliqua coniunctim praedicata, secundum se, idest, non per aliud, praedicantur,
idest, quod utraque pars praedicatur de subiecto non propter alteram, sed
propter seipsam et subiectum, tunc ex coniuncto infertur divisa praedicatio. In
order to make this second condition clear, it should be noted that "per
se” can be taken in two ways: positively, and thus it refers to "perseity”
of the first, of the second, and of the fourth mode universally; or negatively,
and thus it means the same as not through something else. It should also be
noted that when Aristotle says of a conjoined predicate that it is predicated
"per se,” the "per se” can be referred to three things: to the parts
of the conjunction among themselves, to the whole conjunction with respect to
the subject, and to the parts of the conjoined predicate with respect to the
subject. Now if "per se” is taken positively, although it will not be
false, nevertheless in reference to any of these three the meaning will be
found to be foreign to the mind of Aristotle. For, although these are valid:
"He is a risible man, therefore he is man and he is risible” and "He
is a rational animal, therefore he is animal and he is rational,” nevertheless
the opposite kind of predication infers consequences in a similar way. For
example, there is no 11 perseity” in "He is a white musician, therefore he
is white and he is a musician”; rather, there is an accidental conjunction, not
only between the parts among themselves and between the whole and the subject,
but even between the parts and the subject. It is evident, therefore, that
Aristotle is not taking "per se” positively, for an addition that does not
differentiate this kind of predication from the opposed kind of predication
would be useless. Why add "per se and not accidentally,” if both those
that are per se in the way explained and those that are conjoined accidentally
infer divisively? If "per se” is taken negatively, i.e., as not through
another, and is referred to the parts of the conjoined predicate among
themselves, the rule is found to be false. It is not licit, for example, to
say, "He is a good lute player, therefore he is good and a lute player”;
yet the art of lute-playing and its goodness are conjoined without anything as
a medium. And the case is the same if it is referred to the whole conjoined
predicate with respect to the subject, as is clear in the same example, for the
whole, "good lute player,” does not belong to man on account of another,
and yet it does not infer the division, as has already been said. Therefore, "per
se” is referred to the parts of the conjoined predicate with respect to the
subject and the meaning is: when the predicates are conjointly predicated per
se, i.e., not through another, i.e., each part is predicated of the subject,
not on account of another but on account of itself and the subject, then a
divided predication is inferred from the conjoined predication. 10 Et hoc modo
exponunt Averroes et Boethius; et vera invenitur regula, ut inductive facile
manifestari potest, et ratio ipsa suadet. Si enim partes alicuius coniuncti
praedicati ita inhaerent subiecto quod neutra propter alteram insit, earum
separatio nihil habet quod veritatem impediat divisarum. Est et verbis
Aristotelis consonus sensus iste. Quoniam et per hoc distinguit inter
enunciationes ex quibus coniunctum infert divisam praedicationem, et eas quibus
haec non inest consequentia. Istae siquidem ultra habentes oppositiones in
adiecto, sunt habentes praedicatum coniunctum, cuius una partium alterius est
ita determinatio, quod nonnisi per illam subiectum respicit, sicut apparet in
exemplo ab Aristotele adducto, Homerus est poeta. Est siquidem ibi non respicit
Homerum ratione ipsius Homeri, sed praecise ratione poesis relictae; et ideo
non licet inferre, ergo Homerus est. Et simile est in negativis. Si quis enim
dicat, Socrates non est paries, non licet inferre, ergo Socrates non est, eadem
ratione, quia esse non est negatum de Socrate, sed de pariete in Socrate. This
is the way in which Averroes and Boethius explain this and, explained in this
way, a true rule is found, as can easily be manifested inductively; moreover,
the reasoning is compelling. For, if the parts of some conjoined predicate so
inhere in the subject that neither is in it on account of another, their
separation produces nothing that could impede the truth of the divided
predicates. And this meaning is consonant with the words of Aristotle, for by
this he also distinguishes between enunciations in which the conjoined
predicate infers a divided predicate, and those in which this consequence is
not inherent. For besides the predicates having opposition in the additional
determining element, there are those with a conjoined predicate wherein one
part is a determination of the other in such a way that only through it does it
regard the subject, as is evident in Aristotle’s example, "Homer is a
poet.” The "is” does not regard Homer by reason of Homer himself, but
precisely by reason of the poetry he left. Hence it is not licit to infer,
"Therefore Homer is.” The same is true with respect to negative
enunciations of this type, for it is not licit to infer from "Socrates is
not a wall,” "Therefore Socrates is not.” And the reason is the same:
"to be” is not denied of Socrates, but of "wallness” in Socrates. 11 Et
per hoc patet qualiter sit intelligenda ratio in textu superiore adducta.
Accipitur enim ibi, secundum se negative, modo hic exposito, et secundum
accidens, idest propter aliud. In eadem ergo significatione est usus ly
secundum accidens, solvendo hanc et praecedentem quaestionem: utrobique enim
intellexit secundum accidens, idest, propter aliud, coniuncta, sed ad diversa
retulit. Ibi namque ly secundum accidens determinabat coniunctionem duorum
praedicatorum inter se; hic vero determinat partem coniuncti praedicati in
ordine ad subiectum. Unde ibi, album et musicum, inter ea quae secundum
accidens sunt, numerabantur; hic autem non. Accordingly, it is evident how the
reasoning in the text above is to be understood. "Per se” is taken
negatively in the way explained here, and "accidentally” as "on
account of another.” The "accidentally” is used with the same
signification in solving this and the preceding question. In both he
understands "accidentally” to mean conjoined on account of another, but it
is referred to diverse things. In the preceding question "accidentally”
determines the way in which two predicates are conjoined among themselves; in
the latter question it determines the way in which the part of the conjoined
predicate is ordered to the subject. Hence, in the former, "white” and
"musician” are numbered among the things that are accidental, but in the
latter they are not. 12 Sed occurrit circa hanc expositionem dubitatio non
parva. Si enim ideo non licet ex coniuncto inferre divisim, quia altera pars
coniuncti non respicit subiectum propter se, sed propter alteram partem (ut
dixit Aristoteles de ista enunciatione, Homerus est poeta), sequetur quod
numquam a tertio adiacente ad secundum erit bona consequentia: quia in omni
enunciatione de tertio adiacente, est respicit subiectum propter praedicatum et
non propter se et cetera. This exposition seems a bit dubious, however. For if
it is not licit to infer divisively from a conjoined predicate because one part
of the conjoined predicate does not regard the subject on account of itself but
on account of another part (as Aristotle says of the enunciation, "Homer
is a poet”), it will follow that there will never be a good consequence from
the third determinant to the second, since in every enunciation with a third
determinant, "is” regards the subject on account of the predicate and not
on account of itself. 13 Ad huius difficultatis evidentiam, nota primo hanc
distinctionem. Aliud est tractare regulam, quando ex tertio adiacente infertur
secundum et quando non, et aliud quando ex coniuncto fit illatio divisa et
quando non. Illa siquidem est extra propositum, istam autem venamur. Illa
compatitur varietatem terminorum, ista non. Si namque unus terminorum, qui est
altera pars coniuncti, secundum significationem seu suppositionem varietur in
separatione, non infertur ex coniuncto praedicato illudmet divisim, sed aliud.
Nota secundo hanc propositionem: cum ex tertio adiacente infertur secundum, non
servatur identitas terminorum. Liquet ista quoad illum terminum, est. Dictum
siquidem fuit supra a sancto Thoma, quod aliud importat est secundum adiacens,
et aliud est tertium adiacens. Illud namque importat actum essendi simpliciter,
hoc autem habitudinem inhaerentiae vel identitatis praedicati ad subiectum. Fit
ergo varietas unius termini cum ex tertio adiacente infertur secundum, et
consequenter non fit illatio divisi ex coniuncto. Unde praelucet responsio ad
obiectionem, quod, licet ex tertio adiacente quandoque possit inferri secundum,
numquam tamen ex tertio adiacente licet inferri secundum tamquam ex coniuncto
divisum, quia inferri non potest divisim, cuius altera pars ipsa divisione
perit. Negetur ergo consequentia obiectionis et ad probationem dicatur quod,
optime concludit quod talis illatio est illicita infra limites illationum, quae
ex coniuncto divisionem inducunt, de quibus hic Aristoteles loquitur. To make
this difficulty clear, we must first note a distinction. It is one thing to
treat of the rule when inferring a second determinant from a third determinant,
and when not; it is quite another thing when a divided inference is made from a
conjoined predicate, and when not. The former is an additional point; the
latter is the question we have been inquiring about. The former is compatible
with variety of the terms, the latter not. For if one of the terms which is one
part of a conjoined predicate will be varied according to signification, or
supposition when taken separately, it is not inferred divisively from the
conjoined predicate, but the other is. Secondly, note this proposition: when a
second determinant is inferred from a third, identity of the terms is not kept.
This is evident with respect to the term "is.” Indeed, St. Thomas said
above that "is” as the second determinant implies one thing and "is”
as the third determinant another. The former implies the act of being simply,
the latter implies the relationship of inherence, or identity of the predicate
with the subject. Therefore, when the second determinant is inferred from the
third, one term is varied and consequently an inference is not made of the
divided from the conjoined. Accordingly, the response to the objection is
clear, for although the second determinant can sometimes be inferred from the
third, it is never licit for the second to be inferred from the third as
divided from conjoined, because you cannot infer divisively when one part is
destroyed by that very division. Therefore, let the consequence of the
objection be denied and for proof let it be said that the conclusion that such
an inference is illicit under the limits of inferences which induce division
from a conjoined predicate-is good, for this is what Aristotle is speaking of
here. 14 Sed contra hoc instatur. Quia etiam tanquam ex coniuncto divisa fit
illatio, Socrates est albus, ergo est, per locum a parte in modo ad suum totum,
ubi non fit varietas terminorum. Et ad hoc dicitur quod licet homo albus sit
pars in modo hominis (quia nihil minuit de hominis ratione albedo, sed ponit
hominem simpliciter), tamen est album non est pars in modo ipsius est, eo quod
pars in modo est universale cum conditione non minuente, ponente illud
simpliciter. Clarum est autem quod album minuit rationem ipsius est, et non
ponit ipsum simpliciter: contrahit enim ad esse secundum quid. Unde apud
philosophos, cum fit aliquid album, non dicitur generari, sed generari secundum
quid. But the objection is raised against this that in the case of
"Socrates is white, therefore be is,” a divided inference can be made as
from a conjoined predicate, in virtue of the argument that we can go from what
is in the mode of part to its whole as long as the terms remain the same. The
answer to this is as follows. It is true that white man is a part in the mode
of man (because white diminishes nothing of the notion of man but posits man
simply); is white, however, is not a part in the mode of is, because a part in
the mode of its whole is a universal, the condition not diminishing the
positing of it simply. But it is evident that white diminishes the notion of
is, and does not posit it simply, for it contracts it to relative being. Whence
when something becomes white, philosophers do not say that it is generated, but
generated relatively. 15 Sed instatur adhuc quia secundum hoc, dicendo, est
animal, ergo est, fit illatio divisa per eumdem locum. Animal enim non minuit rationem
ipsius est. Ad hoc est dicendum quod ly est, si dicat veritatem propositionis,
manifeste peccatur a secundum quid ad simpliciter. Si autem dicat actum
essendi, illatio est bona, sed non est de tertio, sed de secundo adiacente. In
accordance with this, the objection is raised that in saying "It is an
animal, therefore it is,” a divided inference is made in virtue of the same
argument; for animal does not diminish the notion of is itself. The answer to
this is that if the is asserts the truth of a proposition, the fallacy is
committed of going from the relative to the absolute; if the is asserts the act
of being, the inference is good, but it is of the second determinant, not of
the third. 16 Potest ulterius dubitari circa principale: quia sequitur, est
quantum coloratum, ergo est quantum, et, est coloratum; et tamen coloratum
respicit subiectum mediante quantitate: ergo non videtur recta expositio supra
adducta. Ad hoc et similia dicendum est quod coloratum non ita inest subiecto
per quantitatem quod sit eius determinatio et ratione talis determinationis
subiectum denominet, sicut bonitas artem citharisticam determinat; cum dicitur,
est citharoedus bonus; sed potius subiectum ipsum primo coloratum denominatur,
quantum vero secundario coloratum dicitur, licet color media quantitate
suscipiatur. Unde notanter supra diximus, quod tunc altera pars coniuncti
praedicatur per accidens, quando praecise denominat subiectum, quia denominat
alteram partem. Quod nec in similibus instantiis invenitur. There is another
doubt, this time about the principle in the exposition; for this follows,
"It is a colored quantity, therefore it is a quantity and it is colored”;
but "colored” regards the subject through the medium of quantity;
therefore the exposition given above does not seem to be correct. The answer to
this and to similar objections is that "colored” is not so present in a
subject by means of quantity that it is its determination, and by reason of
such a determination denominates the subject; as goodness,” for instance,
determines the art of lute-playing when we say "He is a good lute player.”
Rather, the subject itself is first denominated "colored” and quantity is
called "colored” secondarily, although color is received through the
medium of quantity. Hence, we made a point of saying earlier that one part of a
conjoined predicate is predicated accidentally when it denominates the subject
precisely because it denominates the other part.93 This is not the case here
nor in similar instances. 17 Deinde cum dicit: quod autem non est etc.,
excludit quorumdam errorem qui, quod non est, esse tali syllogismo concludere
satagebant: quod est, opinabile est. Quod non est, est opinabile. Ergo quod non
est, est. Hunc siquidem processum elidit Aristoteles destruendo primam propositionem,
quae partem coniuncti in subiecto divisim praedicat, ac si diceret: est
opinabile, ergo est. Unde assumendo subiectum conclusionis illorum ait: quod
autem non est; et addit medium eorum, quoniam opinabile est; et subdit maiorem
extremitatem, non est verum dicere, esse aliquid. Et causam assignat, quia
talis opinatio non propterea est, quia illud sit, sed potius quia non est. When
he says, In the case of non-being, however, it is not true to say that it is
something, etc., he excludes the error of those who were satisfied to conclude
that what is not, is. This is the syllogism they use: "That which is, is
‘opinionable’; that which is not, is ‘opinionable’; therefore what is not, is.”
Aristotle destroys this process of reasoning by destroying the first
proposition, which predicates divisively a part of what is conjoined in the
subject, as if it said "It is ‘opinionable,’ therefore it is.” Hence,
assuming the subject of their conclusion, he says, In the case of that which is
not, however; and he adds their middle term, because it is a matter of opinion;
then he adds the major extreme, it is not true to say that it is something. He
then assigns the cause: it is not because it is but rather because it is not,
that there is such opinion. VIII. 1 Postquam determinatum est de
enunciationibus, quarum partibus aliud additur tam remanente quam variata
unitate, hic intendit declarare quid accidat enunciationi, ex eo quod aliquid
additur, non suis partibus, sed compositioni eius. Et circa hoc duo facit:
primo, determinat de oppositione earum; secundo, de consequentiis; ibi:
consequentiae vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, exequitur; ibi: nam si eorum et cetera. Proponit ergo quod
iam perspiciendum est, quomodo se habeant affirmationes et negationes
enunciationum de possibili et non possibili et cetera. Et causam subdit: habent
enim multas dubitationes speciales. Sed antequam ulterius procedatur, quoniam
de enunciationibus, quae modales vocantur, sermo inchoatur, praelibandum est
esse quasdam modales enunciationes, et qui et quot sunt modi reddentes
propositiones modales; et quid earum sit subiectum et quid praedicatum; et quid
sit ipsa enunciatio modalis; quisque sit ordo earum ad praecedentes; et quae
necessitas sit specialem faciendi tractatum de his. Now that he has treated
enunciations in which something added to the parts leaves the unity intact on
the one hand, and varies it on the other, Aristotle begins to explain what
happens to the enunciation when something is added, not to its parts, but to
its composition. First, he explains their opposition; secondly, he treats of
the consequences of their opposition where he says, Logical sequences result
from modals ordered thus, etc. With respect to the first point, he proposes the
question he intends to consider and then begins his consideration where he
says, Let us grant that of mutually related enunciations, contradictories are
those opposed to each other, etc. He proposes that we must now investigate the
way in which affirmations and negations of the possible and not possible are
related. He gives the reason when he adds, for the question has many special
difficulties. However, before we proceed with the consideration of enunciations
that are called modal, we must first see that there are such things as modal
enunciations, and which and how many modes render propositions modal; we must
also know what their subject is and their predicate, what the modal enunciation
itself is, what the order is between modal enunciations and the enunciations
already treated, and finally, why a special treatment of them is necessary. 2 Quia
ergo possumus dupliciter de rebus loqui; uno modo, componendo rem unam cum
alia, alio modo, compositionem factam declarando qualis sit, insurgunt duo
enunciationum genera; quaedam scilicet enunciantes aliquid inesse vel non
inesse alteri, et hae vocantur de inesse, de quibus superius habitus est sermo;
quaedam vero enunciantes modum compositionis praedicati cum subiecto, et hae
vocantur modales, a principaliori parte sua, modo scilicet. Cum enim dicitur,
Socratem currere est possibile, non enunciatur cursus de Socrate, sed qualis
sit compositio cursus cum Socrate, scilicet possibilis. Signanter autem dixi
modum compositionis, quoniam modus in enunciatione positus duplex est. Quidam
enim determinat verbum, vel ratione significati ipsius verbi ut Socrates currit
velociter, vel ratione temporis consignificati, ut Socrates currit hodie;
quidam autem determinat compositionem ipsam praedicati cum subiecto; sicut cum dicitur,
Socratem currere est possibile. In illis namque determinatur qualis cursus
insit Socrati, vel quando; in hac autem, qualis sit coniunctio cursus cum
Socrate. Modi ergo non illi qui rem verbi, sed qui compositionem determinant,
modales enunciationes reddunt, eo quod compositio veluti forma totius totam
enunciationem continet. We can speak about things in two ways: in one,
composing one thing with another; in the other, declaring the kind of
composition that exists between the two things. To signify these two ways of
speaking about things we form two kinds of enunciations. One kind enunciates
that something belongs or does not belong to something. These are called
absolute [de inesse] enunciations; these we have already discussed. The other
enunciates the mode of composition of the predicate with the subject. These are
called modal, from their principal part, the mode. For when we say, "That
Socrates run is possible,” it is not the running of Socrates that is enunciated
but the kind of composition there is between running and Socrates-in this case,
possible. I have said "mode of composition” expressly, for there are two
kinds of mode posited in the enunciation. One modifies the verb, either with
respect to what it signifies, as in "Socrates runs swiftly,” or with
respect to the time signified along with the verb, as in "Socrates runs
today.” The other kind modifies the very composition of the predicate with the
subject, as in the example, "That Socrates run is possible.” The former
determines how or when running is in Socrates; the latter determines the kind
of conjunction there is between running and Socrates. The former, which affects
the actuality of the verb, does not make a modal enunciation. Only the modes
that affect the composition make a modal enunciation, the reason being that the
composition, as the form of the whole, contains the whole enunciation. 3 Sunt
autem huiusmodi modi quatuor proprie loquendo, scilicet possibile et
impossibile, necessarium et contingens. Verum namque et falsum, licet supra
compositionem cadant cum dicitur, Socratem currere est verum, vel hominem esse
quadrupedem est falsum, attamen modificare proprie non videntur compositionem
ipsam. Quia modificari proprie dicitur aliquid, quando redditur aliquale, non
quando fit secundum suam substantiam. Compositio autem quando dicitur vera, non
aliqualis proponitur, sed quod est: nihil enim aliud est dicere, Socratem
currere est verum, quam quod compositio cursus cum Socrate est. Et similiter
quando est falsa, nihil aliud dicitur, quam quod non est: nam nihil aliud est
dicere, Socratem currere est falsum, quam quod compositio cursus cum Socrate
non est. Quando vero compositio dicitur possibilis aut contingens, iam non
ipsam esse, sed ipsam aliqualem esse dicimus: cum siquidem dicitur, Socratem
currere est possibile, non substantificamus compositionem cursus cum Socrate,
sed qualificamus, asserentes illam esse possibilem. Unde Aristoteles hic modos
proponens, veri et falsi nullo modo meminit, licet infra verum et non verum
inferat, propter causam ibi assignandam. This kind of mode, properly speaking,
is fourfold: possible, impossible, necessary, and contingent. True and false
are not included because, strictly speaking, they do not seem to modify the
composition even though they fall upon the composition itself, as is evident in
"That Socrates runs is true,” and "That man is four-footed is false.”
For something is said to be modified in the proper sense of the term when it is
caused to be in a certain way, not when it comes to be according to its
substance. Now, when a composition is said to be true it is not proposed that
it is in a certain way, but that it is. To say, "That Socrates runs is
true,” for example, is to say that the composition of running with Socrates is.
The case is similar when it is false, for what is said is that it is not; for
example, to say, "That Socrates runs is false” is to say that the
composition of running with Socrates is not. On the other hand, when the
composition is said to be possible or contingent, we are not saying that it is
but that it is in a certain way. For example, when we say, "That Socrates
run is possible,” we do not make the composition of running with Socrates
substantial, but we qualify it, asserting that it is possible. Consequently,
Aristotle in proposing the modes, does not mention the true and false at all,
although later on he infers the true and the not true, and assigns the reason
for it where he does this. 4 Et quia enunciatio modalis duas in se continet
compositiones, alteram inter partes dicti, alteram inter dictum et modum,
intelligendum est eam compositionem modificari, idest, quae est inter partes
dicti, non eam quae est inter modum et dictum. Quod sic perpendi potest. Huius
enunciationis modalis, Socratem esse album est possibile, duae sunt partes;
altera est, Socratem esse album, altera est, possibile. Prima dictum vocatur,
eo quod est id quod dicitur per eius indicativam, scilicet, Socrates est albus:
qui enim profert hanc, Socrates est albus, nihil aliud dicit nisi Socratem esse
album: secunda vocatur modus, eo quod modi adiectio est. Prima compositionem
quandam in se continet ex Socrate et albo; secunda pars primae opposita
compositionem aliquam sonat ex dicti compositione et modo. Prima rursus pars,
licet omnia habeat propria, subiectum scilicet, et praedicatum, copulam et
compositionem, tota tamen subiectum est modalis enunciationis; secunda autem
est praedicatum. Dicti ergo compositio subiicitur et modificatur in
enunciatione modali. Qui enim dicit, Socratem esse album est possibile, non
significat qualis est coniunctio possibilitatis cum hoc dicto, Socratem esse
album, sed insinuat qualis sit compositio partium dicti inter se, scilicet albi
cum Socrate, scilicet quod est compositio possibilis. Non dicit igitur
enunciatio modalis aliquid inesse, vel non inesse, sed dicti potius modum
enunciat. Nec proprie componit secundum significatum, quia compositionis non
est compositio, sed rerum compositioni modum apponit. Unde nihil aliud est
enunciatio modalis, quam enunciatio dicti modificativa. Since the modal
enunciation contains two compositions, one between the parts of what is said,
the other between what is said and the mode, it must be understood that it is
the former composition that is modified, i.e., the composition between the parts
of what is said, not the composition between what is said and the mode. This
can be seen in an example. In the modal enunciation, "That Socrates be
white is possible,” there are two parts: one, "That Socrates be white,”
the other, "is possible.” The first is called the dictum because it is
that which is asserted by the indicative, namely, "Socrates is white”; for
in saying "Socrates is white” we are simply saying, "That Socrates be
white.” The second part is called the mode because it is the addition of a
restriction. The first part of the modal enunciation consists of a certain
composition of Socrates and white; the second part, opposed to the first, 4
indicates a composition from the composition of dictum and mode. Again, the
first part, although it has all the properties of an enunciation—subject,
predicate, copula, and composition—is, in its entirety, the subject of the
modal enunciation; the second part, the mode, is the predicate. In a modal
enunciation, therefore, the composition of the dictum is subjected and
modified; for when we say, "That Socrates be white is possible,” it does
not signify the kind of conjunction of possibility there is with the dictum
"That Socrates be white,” but it implies the kind of composition there is
of the parts of the dictum among themselves, i.e., of white with Socrates,
namely, that it is a possible composition. The modal enunciation, therefore,
does not say that something is present in or not present in a subject, but
rather, it enunciates a mode of the dictum. Nor properly speaking does it
compose according to what is signified, since it is not a composition of the
composition; rather, it adds a mode to the composition of the things. Hence the
modal enunciation is simply an enunciation in which the dictum is modified. 5 Nec
propterea censenda est enunciatio plures modalis, quia omnia duplicata habeat:
quoniam unum modum de unica compositione enunciat, licet illius compositionis
plures sint partes. Plura enim illa ad dicti compositionem concurrentia, veluti
plura ex quibus fit unum subiectum concurrunt, de quibus dictum est supra quod
enunciationis unitatem non impediunt. Sicut nec cum dicitur, domus est alba,
est enunciatio multiplex, licet domus ex multis consurgat partibus. Because the
modal enunciation has everything duplicated, it must not on that account be
thought to be many. It enunciates one mode of only one composition, although
there are many parts of that composition. The many concurring for the
composition of the dictum are like the many that concur to make one subject, of
which it was said above that it does not impede the unity of the enunciation.”
The enunciation, "The house is white,” is also a case in point, for it is
not multiple, although a house is built of many parts. 6 Merito autem est, post
enunciationes de inesse, de modalibus tractandum, quia partes naturaliter sunt
toto priores, et cognitio totius ex partium cognitione dependet; et specialis
sermo de his est habendus, quia proprias habet difficultates. Notavit quoque
Aristoteles in textu multa. Horum ordinem scilicet, cum dixit: his vero
determinatis etc.; modos qui et quot sunt, cum eos expressit et inseruit;
variationem eiusdem modi, per affirmationem et negationem, cum dixit: possibile
et non possibile, contingens et non contingens; necessitatem cum addidit:
habent enim multas dubitationes proprias et cetera. Modal enunciations are
rightly treated after the absolute enunciation, for parts are naturally prior
to the whole, and knowledge of the whole depends on knowledge of the parts.
Moreover, a special discussion of them was necessary because the modal
enunciation has its own peculiar difficulties. Aristotle indicates in his text
many of the things we have taken up here: the order of modal enunciations, when
he says, Having determined these things, etc.; what and how many modes there
are when he expresses and lists them, the variation of the same mode by
affirmation and negation when he says, the possible and not possible,
contingent and not contingent; the necessity of treating them, when he adds,
for they have many difficulties of their own. 7 Deinde cum dicit: nam si eorum
etc., exequitur tractatum de oppositione modalium. Et circa hoc duo facit:
primo, movendo quaestionem arguit ad partes; secundo, determinat veritatem;
ibi: contingit autem et cetera. Est autem dubitatio: an in enunciationibus
modalibus fiat contradictio negatione apposita ad verbum dicti, quod dicit rem;
an non, sed potius negatione apposita ad modum qui qualificat. Et primo, arguit
ad partem affirmativam, quod scilicet addenda sit negatio ad verbum; secundo,
ad partem negativam, quod non apponenda sit negatio ipsi verbo; ibi: videtur
autem et cetera. Then he investigates the opposition of modal enunciations,
where he says, Let us grant that of those things that are combined, contradictories
are those opposed to each other by being related in a certain way according to
"to be” and "not to be,” etc. First, he presents the question and in
so doing gives arguments for the parts; secondly, he determines the truth,
where he says, For it follows from what we have said, either that the same
thing is asserted and denied at once of the same subject, etc. The question
with respect to the opposition of modals is this: Is a contradiction made in
modal enunciations by a negation added to the verb of the dictum, which
expresses what is; or is it not, but rather by a negation added to the mode
which qualifies? Aristotle first argues for the affirmative part, that the
negation must be added to the verb; then he argues for the negative part, that
the negation must not be added to the verb, where he says, However it seems
that the same thing is possible to be and possible not to be, etc. 8 Intendit
ergo primo tale argumentum; si complexorum contradictiones attenduntur penes
esse et non esse (ut patet inductive in enunciationibus substantivis de secundo
adiacente et de tertio, et in adiectivis), contradictionesque omnium hoc modo
sumendae sunt, contradictoria huius, possibile esse, erit, possibile non esse,
et non illa, non possibile esse. Et consequenter apponenda est negatio verbo,
ad sumendam oppositionem in modalibus. Patet consequentia, quia cum dicitur,
possibile esse, et, possibile non esse, negatio cadit supra esse. Unde dicit:
nam si eorum, quae complectuntur, idest complexorum, illae sibi invicem sunt
oppositae contradictiones, quae secundum esse vel non esse disponuntur, idest
in quarum una affirmatur esse, et in altera negatur. His first argument is
this. If of combined things, contradictions are those related according to
"to be” and "not to be” (as is clear inductively in substantive
enunciations with a second determinant, in those with a third determinant, and
in adjectival enunciations) and all contradictions must be obtained in this
way, the contradictory of "possible to be” will be "possible not to
be,” and not, "not possible to be.” Consequently, the negation must be
added to the verb to get opposition in modal enunciations. The consequence is
clear, for when we say "possible to be” and possible not to be” the
negation falls on "to be.” Accordingly, he says, Let us grant that of
those things that are combined, i.e., of complex things, contradictions are
those opposed to each other which are disposed according to "to be” and
"not to be,” i.e., in one of which "to be” is affirmed and in the
other denied. 9 Et subdit inductionem, inchoans a secundo adiacente: ut, eius
enunciationis quae est, esse hominem, idest, homo est, negatio est, non esse
hominem, ubi verbum negatur, idest, homo non est; et non est eius negatio ea
quae est, esse non hominem, idest, non homo est: haec enim non est negativa,
sed affirmativa de subiecto infinito, quae simul est vera cum illa prima,
scilicet, homo est. He goes on to give an induction, beginning with an
enunciation having a second determinant. The negation of "Man is,” is,
"Man is not,” in which the verb is negated. The negation of "Man is,”
is not, "Non-man is,” for this is not the negative but the affirmative of
the infinite subject, which is true at the same time as the first enunciation,
"Man is.” Cajetanus lib. 2 l. 8 n. 10Deinde prosequitur inductionem in
substantivis de tertio adiacente: ut, eius quae est, esse album hominem idest,
ut illius enunciationis, homo est albus, negatio est, non esse album hominem,
ubi verbum negatur, idest, homo non est albus; et non est negatio illius ea,
quae est, esse non album hominem, idest, homo est non albus. Haec enim non est
negativa, sed affirmativa de praedicato infinito. Et quia istae duae
affirmativae de praedicato finito et infinito non possunt de eodem verificari,
propterea quia sunt de praedicatis oppositis, posset aliquis credere quod sint
contradictoriae; et ideo ad hunc errorem tollendum interponit rationem
probantem quod hae duae non sunt contradictoriae. Est autem ratio talis.
Contradictoriorum talis est natura quod de omnibus aut dictio, idest affirmatio
aut negatio verificatur. Inter contradictoria siquidem nullum potest inveniri
medium; sed hae duae enunciationes, scilicet, est homo albus, et, est homo non
albus, sunt contradictoriae per se; ergo sunt talis naturae quod de omnibus
altera verificatur. Et sic, cum de ligno sit falsum dicere, est homo albus,
erit verum dicere de eo, scilicet ligno, esse non album hominem, idest, lignum
est homo non albus. Quod est manifeste falsum: lignum enim neque est homo albus,
neque est homo non albus. Restat ergo ex quo utraque est simul falsa de eodem,
quod non sit inter eas contradictio. Sed contradictio fit quando negatio
apponitur verbo. He continues the induction with substantive enunciations
having a third determinant. The negation of the enunciation "Man is white”
is "Man is not white,” in which the verb is negated. The negation is not
"Man is nonwhite,” for this is not the negative, but the affirmative of
the infinite predicate. Now it might be thought that the affirmatives of the
finite and infinite predicates are contradictories since they cannot be
verified of the same thing because of their opposed predicates. To obviate this
error, Aristotle interposes an argument proving that these two are not
contradictories. The nature of contradictories, he reasons, is such that either
the assertion, i.e., the affirmation, or the negation, is verified of anything,
for between contradictories no middle is possible. Now the two enunciations,
that something "is white man” and "is nonwhite man” are per se
contradictories. Therefore, they are of such a nature that one of them is
verified of anything. For example, it is false to say "is white man” of
wood; hence "is nonwhite man” will be true to say of it, namely of wood,
i.e., "Wood is nonwhite man.” This is manifestly false, for wood is
neither white man nor nonwhite man. Consequently, there is not a contradiction
in the case in which each is at once false of the same subject. Therefore,
contradiction is effected when the negation is added to the verb. 11 Deinde
prosequitur inductionem in enunciationibus adiectivi verbi, dicens: quod si hoc
modo, scilicet supradicto, accipitur contradictio, et in quantiscunque
enunciationibus esse non ponitur explicite, idem faciet quoad oppositionem
sumendam, id quod pro esse dicitur (idest verbum adiectivum, quod locum ipsius
esse tenet, pro quanto, propter eius veritatem in se inclusam, copulae officium
facit), ut eius enunciationis quae est, homo ambulat, negatio est, non ea quae
dicit, non homo ambulat (haec enim est affirmativa de subiecto infinito), sed
negatio illius est, homo non ambulat; sicut et in illis de verbo substantivo,
negatio verbo addenda erat. Nihil enim differt dicere verbo adiectivo, homo
ambulat, vel substantivo, homo est ambulans. He continues his induction with
enunciations having an adjective verb: Now if the case is as we have stated it,
i.e., contradiction is taken as said above, then in enunciations in which
"to be” is not the determining word added (explicitly), that which is said
in place of "to be” will effect the same thing with respect to the
opposition obtained (i.e., the adjective verb that occupies the place of
"to be,” inasmuch as the truth of "to be” is included in it, effects
the function of the copula). For example, the negation of the enunciation
"Man walks” is not, "Non-man walks” (for this is the affirmative of
the infinite subject) but "Man is not walking.” In this case, as in that
of the substantive verb, the negation must be added to the verb, for there is
no difference between using the adjective verb, as in "Man walks,” and
using the substantive verb, as in "Man is walking.” 12 Deinde ponit
secundam partem inductionis dicens: et si hoc modo in omnibus sumenda est
contradictio, scilicet, apponendo negationem ad esse, concluditur quod et eius
enunciationis, quae dicit, possibile esse, negatio est, possibile non esse, et
non illa quae dicit, non possibile esse. Patet conclusionis sequela: quia in
illa, possibile non esse, negatio apponitur verbo; in ista autem non. Dixit
autem in principio huius rationis: eorum quae complectuntur, idest complexorum,
contradictiones fiunt secundum esse et non esse, ad differentiam incomplexorum
quorum oppositio non fit negatione dicente non esse, sed ipsi incomplexo
apposita, ut, homo, et, non homo, legit, et non legit. Then he posits the
second part of the induction: And if this is always the case, i.e., that
contradiction must be gotten by adding the negation to "to be,” we must
conclude that the negation of the enunciation that asserts "Possible to
be” is "possible not to be,” and not, "not possible to be.” The
consequent of the conclusion is evident, for in "possible not to be” the
negation is added to the verb, in "not possible to be,” it is not. At the
beginning of this argument, Aristotle said, Of those things that are combined,
i.e., complex things, the contradictions are effected according to "to be”
and "not to be.” He said this in reference to the difference between
complex and incomplex things, for opposition in the latter is not made by the
negation expressing "not to be,” but by adding the negative to the
incomplex thing itself, as in "man” and "non-man,” "reads” and
"non-reads.” Cajetanus lib. 2 l. 8 n. 13Deinde cum dicit: videtur autem idem
etc., arguit ad quaestionis partem negativam (scilicet quod ad sumendam
contradictionem in modalibus non addenda est negatio verbo), tali ratione.
Impossibile est duas contradictorias esse simul veras de eodem; sed
supradictae, scilicet, possibile esse, et, possibile non esse, simul
verificantur de eodem; ergo istae non sunt contradictoriae: igitur contradictio
modalium non attenditur penes verbi negationem. Huius rationis primo ponitur in
littera minor cum sua probatione; secundo maior; tertio conclusio. Minor quidem
cum dicit: videtur autem idem possibile esse, et, non possibile esse. Sicut
verbi gratia, omne quod est possibile dividi est etiam possibile non dividi, et
quod est possibile ambulare est etiam possibile non ambulare. Ratio autem huius
minoris est, quoniam omne quod sic possibile est (sicut, scilicet, est
possibile ambulare et dividi), non semper actu est: non enim semper actualiter
ambulat, qui ambulare potest; nec semper actu dividitur, quod dividi potest.
Quare inerit etiam negatio possibilis, idest, ergo non solum possibilis est
affirmatio, sed etiam negatio eiusdem. Adverte quod quia possibile est
multiplex, ut infra dicetur, ideo notanter Aristoteles addidit ly sic,
assumens, quod sic possibile est, non semper actu est. Non enim de omni
possibili verum est dicere quod non semper actu est, sed de aliquo, eo scilicet
quod est sic possibile, quemadmodum ambulare et dividi. Nota ulterius quod quia
tale possibile habet duas conditiones, scilicet quod potest actu esse et quod
non semper actu est, sequitur necessario quod de eo simul est verum dicere,
possibile esse, et, non esse. Ex eo enim quod potest actu esse, sequitur quod
sit possibile esse; ex eo vero quod non semper actu est, sequitur quod sit
possibile non esse. Quod enim non semper est, potest non esse. Bene ergo
intulit Aristoteles ex his duobus: quare inerit etiam negatio possibilis et non
solum affirmatio; potest igitur et non ambulare, quod est ambulabile, et non
videri, quod est visibile. Maior vero subiungitur, cum ait: at vero impossibile
est de eodem veras esse contradictiones. Infertur quoque ultimo conclusio: non
est igitur ista (scilicet, possibile non esse) negatio illius, quae dicit,
possibile esse: quia sunt simul verae de eodem. Caveto autem ne ex isto textu
putes possibile, ut est modus, debere semper accipi pro possibili ad
utrumlibet: quoniam hoc infra declarabitur esse falsum; sed considera quod
satis fuit intendenti declarare quod in modalibus non sumitur contradictio ex
verbi negatione, afferre instantiam in una modali, quae continetur sub modalibus
de possibili. When he says, However, it seems that the same thing is possible
to be and possible not to be, etc., he argues for the negative part of the
question, namely, to get a contradiction in modals the negation should not be
added to the verb. His reasoning is the following: It is impossible for two
contradictories to be true at once of the same subject; but "possible to
be” and "possible not to be” are verified at once of the same thing;
therefore, these are not contradictories. Consequently, contradiction of the
modals is not obtained by negation of the verb. In this reasoning, the minor is
posited first, with its proof; secondly, the major; finally, the conclusion.
The minor is: However, it seems that the same thing is possible to be and possible
not to be. For instance, everything that has the possibility of being divided
also has the possibility of not being divided, and that which has the
possibility of walking also has the possibility of not walking. The proof of
this minor is that everything that is possible in this way (as are possible to
walk and to be divided) is not always in act; for he who is able to walk is not
always actually walking, nor is that which can be divided always divided. And
so the negation of the possible will also be inherent in it, i.e., therefore
not only is the affirmation possible but also the negation. Notice that since
the possible is manifold, as will be said further on, Aristotle explicitly adds
"in this way” when he assumes here that that which is possible is not
always in act. For it is not true to say of every possible that it is not
always in act, but only of some, namely, those that are possible in the way in
which to walk and to be divided are possible. Note also that "possible in
this way” has two conditions: that it is able to be in act, and that it is not
always in act. It follows necessarily, then, that it is true to say of it
simultaneously that it is both possible to be and possible not to be. From the
fact that it can be in act it follows that it is possible to be; from the fact
that it is not always in act it follows that it is possible not to be, for that
which not always is, is able not to be. Aristotle, then, rightly infers from
these two: and so the negation of the possible will also be inherent in it; and
not just the affirmation, for that which could walk could also not walk and
that which could be seen not be seen. The major is: But it is impossible that
contradictions in respect to the same thing be true. The final conclusion
inferred is: Therefore, the negation of "possible to be” is not,
"possible not to be” because they are true at once of the same thing. In
relation to this part of the text, be careful not to suppose that possible as
it is a mode, is always to be taken for possible to either of two alternatives,
for this will be shown to be false later on. If you consider the matter
carefully you will see that it was enough for his intention to give as an
instance one modal contained under the modals of the possible in order to show
that contradiction in modals is not obtained by negation of the verb. 14 Deinde
cum dicit: contingit autem unum ex his etc., determinat veritatem huius
dubitationis. Et quia duo petebat, scilicet, an contradictio modalium ex
negatione verbi fiat an non, et, an potius ex negatione modi; ideo primo,
determinat veritatem primae petitionis, quod scilicet contradictio harum non
fit negatione verbi; secundo determinat veritatem secundae petitionis, quod
scilicet fiat modalium contradictio ex negatione modi; ibi: est ergo negatioet
cetera. Dicit ergo quod propter supradictas rationes evenit unum ex his duobus,
quae conclusimus determinare, aut idem ipsum, idest, unum et idem dicere, idest
affirmare et negare simul de eodem: idest, aut quod duo contradictoria simul
verificantur de eodem, ut prima ratio conclusit; aut affirmationes vel
negationes modalium, quae opponuntur contradictorie, fieri non secundum esse
vel non esse, idest, aut contradictio modalium non fiat ex negatione verbi, ut
secunda ratio conclusit. Si ergo illud est impossibile, scilicet quod duo
contradictoria possunt simul esse vera de eodem, hoc, scilicet quod
contradictio modalium non fiat secundum verbi negationem, erit magis eligendum.
Impossibilia enim semper vitanda sunt. Ex ipso autem modo loquendi innuit quod
utrique earum aliquid obstat. Sed quia primo obstat impossibilitas quae
acceptari non potest, secundo autem nihil aliud obstat nisi quod negatio supra
enunciationis copulam cadere debet, si negativa fieri debet enunciatio, et hoc
aliter fieri potest quam negando dicti verbum, ut infra declarabitur; ideo hoc
secundum, scilicet quod contradictio modalium non fiat secundum negationem
verbi, eligendum est: primum vero est omnino abiiciendum. Aristotle establishes
the truth with respect to this difficulty where he says, For it follows from
what we have said, either that the same thing is asserted and denied at once of
the same subject, etc. Since he is investigating two things, i.e., whether
contradiction of modals is made by the negation of the verb or not; and,
whether it is not rather by negation of the mode, he first determines the truth
in relation to the first question, namely, that contradiction of modals is not
made by negation of the verb; then he determines the truth in relation to the
second, namely, that contradiction of modals is made by negation of the mode,
where he says, Therefore, the negation of "possible to be” is "not
possible to be,” etc. Hence he says that because of the foresaid reasoning one
of these two follows: first, that either the same thing, i.e., one and the same
thing is said, i.e., is asserted and denied at once of the same subject, i.e.,
either two contradictories are verified at once of the same thing, as the first
argument concluded; or secondly, that assertions and denials of modals, which
are opposed contradictorily are not made by the addition of "to be” or
"not to be,” i.e., contradiction of modals is not made by the negation of
the verb, as the second argument concluded. If the former alternative is
impossible, namely, that two contradictories can be true of the same thing at
once, the latter, that contradiction of modals is not made according to
negation of the verb, must obtain, for impossible things must always be
avoided. His mode of speaking here indicates that there is some obstacle to
each alternative. But since in the first the obstacle is an impossibility that
cannot be accepted, while in the second the only obstacle is that the negation
must fall upon the copula of the enunciation if a negative enunciation is to be
formed, and this can be done otherwise than by denying the verb of the dictum,
as will be shown later on, then the second alternative must be chosen, i.e.,
that the contradiction of modals is not made according to negation of the verb,
and the first alternative is to be rejected. IX. 1. Determinat ubi ponenda sit
negatio ad assumendam modalium contradictionem. Et circa hoc quatuor facit:
primo, determinat veritatem summarie; secundo, assignat determinatae veritatis
rationem, quae dicitur rationi ad oppositum inductae; ibi: fiunt enim etc.;
tertio, explanat eamdem veritatem in omnibus modalibus; ibi: eius veroetc.;
quarto, universalem regulam concludit; ibi: universaliter vero et cetera. Quia
igitur negatio aut verbo aut modo apponenda est, et quod verbo non addenda est,
declaratum est per locum a divisione; concludendo determinat: est ergo negatio
eius quae est possibile esse, ea quae est non possibile esse, in qua negatur
modus. Et eadem est ratio in enunciationibus de contingenti. Huius enim, quae
est, contingens esse, negatio est, non contingens esse. Et in aliis, scilicet
de necesse et impossibile idem est iudicium. Aristotle now determines where the
negation must be placed in order to obtain contradiction in modals. He first
determines the truth summarily; secondly, he presents the argument for the
truth of the position, which is also the answer to the reasoning induced for
the opposite position, where he says, For just as "to be” and "not to
be” are the determining additions in the former, and the things subjected are
"white” and "man,” etc.; thirdly, he makes this truth evident in all
the modals, where he says, The negation, then, of "possible not to be” is
"not possible not to be,” etc.; fourthly, he arrives at a universal rule where
he says, And universally, as has been said, "to be” and "not to be
must be posited as the subject, etc. Since the negation must be added either to
the verb or to the mode and it was shown above in virtue of an argument from
division that it is not to be added to the verb, he concludes: Therefore, the
negation of "possible to be” is "not possible to be”, that is, the
mode is negated. The reasoning is the same with respect to enunciations of the
contingent, for the negation of "contingent to be” is "not contingent
to be.” And the judgment is the same in the others, i.e., the necessary and the
impossible. Cajetanus lib. 2 l. 9 n. 2Deinde cum dicit: fiunt enim in illis
appositiones etc., subdit huius veritatis rationem talem. Ad sumendam
contradictionem inter aliquas enunciationes oportet ponere negationem super
appositione, idest coniunctione praedicati cum subiecto; sed in modalibus
appositiones sunt modi; ergo in modalibus negatio apponenda est modo, ut fiat
contradictio. Huius rationis, maiore subintellecta, minor ponitur in littera
per secundam similitudinem ad illas de inesse. Et dicitur quod quemadmodum in
illis enunciationibus de inesse appositiones, idest praedicationes, sunt esse
et non esse, idest verba significativa esse vel non esse (verbum enim semper
est nota eorum quae de altero praedicantur), subiective vero appositionibus res
sunt, quibus esse vel non esse apponitur, ut album, cum dicitur, album est, vel
homo, cum dicitur, homo est; eodem modo hoc in loco in modalibus accidit: esse
quidem subiectum fit, idest dictum significans esse vel non esse subiecti locum
tenet; contingere vero et posse oppositiones, idest modi, praedicationes sunt.
Et quemadmodum in illis de inesse penes esse et non esse veritatem vel
falsitatem determinavimus, ita in istis modalibus penes modos. Hoc est enim
quod subdit, determinantes, scilicet, fiunt ipsi modi veritatem, quemadmodum in
illis esse et non esse, eam determinat. When he says, For just as "to be”
and "not to be” are the determining additions in the former, and the
things subjected are "white” and "man,” etc., he gives the argument
for the truth of his position. To obtain contradiction among any enunciations
the negation must be applied to the determining addition, i.e., to the word
that joins the predicate with the subject; but in modals the determining
additions are the modes; therefore, to get a contradiction in modals, the
negation must be added to the mode. The major of the argument is subsumed; the
minor is stated in Aristotle’s wording by a further similitude to absolute enunciations.
In absolute enunciations the determining additions, i.e., the predications, are
"to be” and "not to be,” i.e., the verb signifying "to be” or
"not to be” (for the verb is always a sign of those things that are
predicated of another). The things subjected to the determining additions,
i.e., to which to be” and "not to be” are applied, are "white,” in
"White is, "or man,” in "Man is.” This happens in modals in the
same way but in a manner appropriate to them. "To be” is as the subject,
i.e., the dictum signifying "to be” or "not to be” holds the place of
the subject; "is possible” and "is contingent,” i.e., the modes, are
the predicates. And just as in absolute enunciations we determine truth or
falsity with "to be” and "not to be,” so in modals with the modes. He
makes this point when he says, determining additions, i.e., these modes effect
truth just as "to be” and "not to be” determine truth and falsity in
the others. 3. Et sic patet responsio ad argumentum in oppositum primo
adductum, concludens quod negatio verbo apponenda sit, sicut illis de inesse.
Dicitur enim quod cum modalis enunciet modum de dicto sicut enunciatio de
inesse, esse vel esse tale, puta esse album de subiecto, eumdem locum tenet
modus hic, quem ibi verbum; et consequenter super idem proportionaliter cadit
negatio hic et ibi. Eadem enim, ut dictum est, proportio est modi ad dictum,
quae est verbi ad subiectum. Rursus cum veritas et falsitas affirmationem et
negationem sequantur, penes idem attendenda est affirmatio vel negatio enunciationis,
et veritas vel falsitas eiusdem; sicut autem in enunciationibus de inesse
veritas vel falsitas esse vel non esse consequitur, ita in modalibus modum.
Illa namque modalis est vera quae sic modificat dictum sicut dicti compositio
patitur, sicut illa de inesse est vera, quae sic significat esse sicut est. Est
ergo negatio modo hic apponenda, sicut ibi verbo, cum sit eadem utriusque vis
quoad veritatem et falsitatem enunciationis. Adverte quod modos, appositiones,
idest, praedicationes vocavit, sicut esse in illis de inesse, intelligens per
modum totum praedicatum enunciationis modalis, puta, est possibile. In cuius
signum modos ipsos verbaliter protulit dicens: contingere vero et posse
appositiones sunt. Contingit enim et potest, totum praedicatum modalis continent.
Thus the response to the argument for the opposite position, which he gave
first, is evident. That argument concluded that the negation should be added to
the verb as it is in absolute enunciations. But since the modal enunciates a
mode of a dictum—as the absolute enunciation enunciates "to be” or
"not to be” such, for instance, "to be white” of a subject—the mode
holds the same place here that the verb does there. Consequently, the negation
falls upon the same thing proportionally here and there, for the proportion of
mode to dictum is the same as the proportion of verb to subject. Again, since
truth and falsity follow upon affirmation and negation, the affirmation and
negation of an enunciation and its truth and falsity must be controlled by the
same thing. In absolute enunciations truth and falsity follow upon "to be”
or "not to be,” hence in the modals they follow upon the mode; for that
modal is true which modifies the dictum as the composition of the dictum
permits, just as that absolute enunciation is true which signifies that
something is as it is. Therefore, negation is added here to the mode just as it
is added there to the verb, since the power of each is the same with respect to
the truth and falsity of an enunciation. Notice that he calls the modes
"determining additions,” i.e., predications—as "to be” is in absolute
enunciations—understanding by the mode the whole predicate of the modal
enunciation, for example, "is possible.” As a sign of this he expresses
the modes themselves verbally when he says, "is possible” and "is
contingent” are determining additions. For "is contingent” and "is
possible” comprise the whole predicate of the modal enunciation. Cajetanus lib.
2 l. 9 n. 4Deinde cum dicit: eius vero quod est possibile est non esse etc.,
explanat determinatam veritatem in omnibus modalibus, scilicet de possibili, et
necessario, et impossibili. Contingens convertitur cum possibili. Et quia
quilibet modus facit duas modales affirmativas, alteram habentem dictum
affirmatum, et alteram habentem dictum negatum; ideo explanat in singulis modis
quae cuiusque affirmationis negatio sit. Et primo in illis de possibili. Et
quia primae affirmativae de possibili (quae scilicet habet dictum affirmatum)
scilicet possibile esse, negatio assignata fuit, non possibile esse; ideo ad
reliquam affirmativam de possibili transiens ait: eius vero, quae est possibile
non esse (ubi dictum negatur) negatio est non possibile non esse. Et hoc
consequenter probat per hoc quod contradictoria huius, possibile non esse, aut
est, possibile esse, aut illa, quam diximus, scilicet, non possibile non esse.
Sed illa, scilicet, possibile esse, non est eius contradictoria. Non enim sunt
sibi invicem contradicentes, possibile esse, et, possibile non esse, quia
possunt simul esse verae. Unde et sequi sese invicem putabuntur: quoniam, ut
supra dictum fuit, idem est, possibile esse, et, non esse, et consequenter
sicut ad, posse esse, sequitur, posse non esse, ita e contra ad, posse non
esse, sequitur, posse esse; sed contradictoria illius, possibile esse, quae non
potest simul esse vera est, non possibile esse: hae enim, ut dictum est,
opponuntur. Remanet ergo quod huius negatio, possibile non esse, sit illa, non
possibile non esse: hae namque simul nunquam sunt verae vel falsae. Dixit quod
possibile esse et non esse sequi se invicem putabuntur, et non dixit quod se
invicem consequuntur: quia secundum veritatem universaliter non sequuntur se,
sed particulariter tantum, ut infra dicetur; propter quod putabitur quod
simpliciter se invicem sequantur. Deinde declarat hoc idem in illis de
necessario. Et primo, in affirmativa habente dictum affirmatum, dicens:
similiter eius quae est, necessarium esse, negatio non est ea, quae dicit
necessarium non esse, ubi modus non negatur, sed ea quae est, non necessarium
esse. Deinde subdit de affirmativa de necessario habente dictum negatum, et
ait: eius vero, quae est, necessarium non esse, negatio est ea, quae dicit, non
necessarium non esse. Deinde transit ad illas de impossibili, eumdem ordinem
servans, et inquit: et eius, quae dicit, impossibile esse, negatio non est ea
quae dicit, impossibile non esse, sed, non impossibile esse: ubi iam modus
negatur. Alterius vero affirmativae, quae est, impossibile non esse, negatio
est ea quae dicit non impossibile non esse. Et sic semper modo negatio addenda
est. When he says, The negation, then, of "possible not to be” is [not,
"not possible to be” but] "not possible not to be,” etc., he makes
this truth evident in all the modals, i.e., the possible, the necessary, and
the impossible (the contingent being convertible with the possible). And since
any mode makes two modal affirmatives, one having an affirmed dictum and the
other having a negated dictum, he shows what the negation of each affirmation
is in each mode. First he takes those of the possible. The negation of the
first affirmative of the possible (the one with an affirmed dictum), i.e.,
"possible to be,” was assigned as "not possible to be.” Hence, going
on to the remaining affirmative of the possible he says, The negation, then, of
"possible not to be” [wherein the dictum is negated] is, "not
possible not to be.” Then he a proves this. The contradictory of "possible
not to be” is either "Possible to be” or "not possible not to be.”
But the former, i.e., "possible to be,” is not the contradictory of
"possible not to be,” for they can be at once true. Hence they are also
thought to follow upon each other, for, as was said above, the same thing is
possible to be and not to be. Consequently, just as "possible not to be”
follows upon "possible to be,” so conversely "possible to be” follows
upon "possible not to be.” But the contradictory of "possible to be,”
which cannot be true at the same time, is "not possible to be,” for these,
as has been said, are opposed. Therefore, the negation of "possible not to
be” is, "not possible not to be,” for these are never at once true or
false. Note that he says, Wherefore "possible to be” and "possible
not to be” would appear to be consequent to each other, and not that they do
follow upon each other, for it is not true that they follow upon each other
universally, but only particularly (as will be said later); this is the reason
they appear to follow upon each other simply. Then he manifests the same thing
in the modals of the necessary, and first in the affirmative with an affirmed
dictum: The case is the same with respect to the necessary. The negation of
"necessary to be” is not, "necessary not to be” (in which the mode is
not negated) but, "not necessary to be.” Next he adds the affirmative of
the necessary with a negated dictum: and the negation of "necessary not to
be is "not necessary not to be.” Next, he takes up the impossible, keeping
the same order. The negation of "impossible to be” is not, "impossible
not to be” but, "not impossible to be,” in which the mode is negated. The
negation of the other affirmative, "impossible not to be” is "not
impossible not to be.” The negation, therefore, is always added to the mode.
Cajetanus lib. 2 l. 9 n. 5Deinde cum dicit: universaliter vero etc., concludit
regulam universalem dicens quod, quemadmodum dictum est, dicta importantia esse
et non esse oportet ponere in modalibus ut subiecta, negationem vero et
affirmationem hoc, idest contradictionis oppositionem, facientem, oportet
apponere tantummodo ad suum eumdem modum, non ad diversos modos. Debet namque
illemet modus negari, qui prius affirmabatur, si contradictio esse debet. Et
exemplariter explanans quomodo hoc fiat, subdit: et oportet putare has esse
oppositas dictiones, idest affirmationes et negationes in modalibus, possibile
et non possibile, contingens et non contingens. Item cum dixit negationem alio
tantum modo ad modum apponi debere, non exclusit modi copulam, sed dictum. Hoc
enim est singulare in modalibus quod eamdem oppositionem facit, negatio modo
addita, et eius verbo. Contradictorie enim opponitur huic, possibile est esse,
non solum illa, non possibile est esse, sed ista, possibile non est esse;
meminit autem modi potius, et propter hoc quod nunc diximus, ut scilicet
insinuaret quod negatio verbo modi postposita, modo autem praeposita, idem
facit ac si modali verbo praeponeretur, et quia, cum modo numquam caret modalis
enunciatio, semper negatio supra modum poni potest. Non autem sic de eius
verbo: verbo enim modi carere contingit modalem, ut cum dicitur, Socrates
currit necessario; et ideo semper verbo negatio aptari potest. Quod autem in
fine addidit, verum et non verum, insinuat, praeter quatuor praedictos modos,
alios inveniri, qui etiam compositionem enunciationis determinant, puta, verum
et non verum, falsum et non falsum: quos tamen inter modos supra non posuit,
quia, ut declaratum fuit, non proprie modificant. Then he says, And
universally, as has been said, "to be”and "not to be” must be posited
as the subject, and those that produce affirmation and negation must be joined
to "to be” and "not to be,” etc. Here he concludes with the universal
rule. As has been said, the dictums denoting "to be” and "not to be”
must be posited in the modals as subjects, and the one making this an
affirmation and negation, i.e., the opposition of contradiction, must be added
only to the selfsame mode, not to diverse modes, for the selfsame mode which
was previously affirmed must be denied if there is to be a contradiction. He
gives examples of how this is to be done when he adds, And these are the words
that are to be considered opposed, i.e., affirmations and negations in modals,
possible–not possible, contingent–not contingent. Moreover, when he said
elsewhere but in another way that the negation must be applied only to the
mode, he did not exclude the copula of the mode, but the copula of the dictum.
For it is unique to modals that the same opposition is made by adding a
negation to the mode and to its verb. The contradictory of "is possible to
be,” for instance, is not only "is not possible to be,” but also "not
is possible to be.” There are two reasons, however, for his mentioning the mode
rather than the verb: first, for the reason we have just given, namely, so as
to imply that the negation placed after the verb of the mode, the mode having
been put first, accomplishes the same thing as if it were placed before the
modal verb; and secondly, because the modal enunciation is never without a
mode; hence the negation can always be put on the mode. However, it cannot
always be put on the verb of a mode, for the modal enunciation may lack the
verb of a mode as for example in "Socrates runs necessarily,” in which
case the negation can always be adapted to the verb. In adding "true” and
"not true” at the end he implies that besides the four modes mentioned
previously there are others that also determine the composition of the
enunciation, for example, "true” and "not true,” "false” and
"not false”; nevertheless he did not posit these among the modes first
given because, as was shown, they do not properly modify. X. 1. Postquam
determinavit de oppositione modalium, hic determinare intendit de consequentiis
earum. Et circa hoc duo facit: primo, tradit veritatem; secundo, movet quandam dubitationem
circa determinata; ibi: dubitabit autem et cetera. Circa primum duo facit:
primo, ponit consequentias earum secundum opinionem aliorum; secundo,
examinando et corrigendo dictam opinionem, determinat veritatem; ibi: ergo
impossibile et cetera. Having established the opposition of modals, Aristotle
now intends to determine their consequents. He first presents the true
doctrine; then, he raises a difficulty where he says, But it may be questioned
whether "Possible to be follows upon "necessary to be,” etc. In
presenting the true doctrine, he first posits the consequents of the opposition
of modals according to the opinion of others; secondly, he determines the truth
by examining and correcting their opinion, where he says, Now the impossible
and the not impossible follow contradictorily upon the contingent and the
possible and the not contingent and the not possible, but inversely, etc. 2 Quoad
primum considerandum est quod cum quilibet modus faciat duas affirmationes, ut
dictum fuit, et duabus affirmationibus opponantur duae negationes, ut etiam
dictum fuit in primo; secundum quemlibet modum fient quatuor enunciationes,
duae scilicet affirmativae et duae negativae. Cum autem modi sint quatuor,
efficientur sexdecim modales: quaternarius enim in seipsum ductus sexdecim
constituit. Et quoniam apud omnes, quaelibet cuiusque modi, undecumque
incipias, habet unam tantum cuiusque modi se consequentem, ideo ad assignandas
consequentias modalium, singulas ex singulis modis accipere oportet et ad
consequentiae ordinem inter se adunare. Before we consider these consequents
according to the opinion of others, we must first note that since any mode
makes two affirmations and there are two negations opposed to these, there will
be four enunciations according to any one mode, two affirmatives and two
negatives. And since there are four modes, there will be sixteen modals. Among
these sixteen, anyone of each mode, from wherever you begin, has only one of
each mode following upon it. Hence, to assign the consequents of the modals, we
have to take one from each mode and arrange them among themselves to form an
order of consequents. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 3Et hoc modo fecerunt antiqui,
de quibus inquit Aristoteles: consequentiae vero fiunt secundum infrascriptum
ordinem, antiquis ita ponentibus. Formaverunt enim quatuor ordines modalium, in
quorum quolibet omnes quae se consequuntur collocaverunt. Ut autem confusio
vitetur, vocetur, cum Averroe, de caetero, in quolibet modo, affirmativa de
dicto, et modo, affirmativa simplex; affirmativa autem de modo et negativa de
dicto, affirmativa declinata; negativa vero de modo et non dicto, negativa
simplex; negativa autem de utroque, negativa declinata: ita quod modi
affirmationem vel negationem simplicitas, dicti vero declinatio denominet.
Dixerunt ergo antiqui quod affirmationem simplicem de possibili, scilicet,
possibile est esse, sequitur affirmativa simplex de contingenti, scilicet,
contingens est esse (contingens enim convertitur cum possibili); et negativa
simplex de impossibili, scilicet, non impossibile esse; et similiter negativa
simplex de necessario, scilicet, non necesse est esse. Et hic est primus ordo
modalium consequentium se. In secundo autem dixerunt quod affirmativas
declinatas de possibili et contingenti, scilicet, possibile non esse, et,
contingens non esse, sequuntur negativae declinatae de necessario et
impossibili, scilicet, non necessarium non esse, et, non impossibile non esse.
In tertio vero ordine dixerunt quod negativas simplices de possibili et contingenti,
scilicet, non possibile esse, non contingens esse, sequuntur affirmativa
declinata de necessario, scilicet, necesse non esse, et affirmativa simplex de
impossibili, scilicet, impossibile esse. In quarto demum ordine dixerunt quod
negativas declinatas de possibili et contingenti, scilicet, non possibile non
esse, et, non contingens non esse, sequuntur affirmativa simplex de necessario,
scilicet, necesse esse, et affirmativa declinata de impossibili, scilicet,
impossibile est non esse. The modals were ordered in this way by the ancients.
They disposed them in four orders placing together in each order those that
were a consequent to each other. Aristotle speaks of this order when he says,
Logical consequents follow according to the order in the table below, which is
the way in which the ancients posited them. Henceforth, however, to avoid
confusion let us call the affirmative of dictum and mode in any one mode, the
simple affirmative, as it is by Averroes, among others; affirmative of mode and
negative of dictum, the declined affirmative; negative of mode and not of
dictum, the simple negative; negative of both mode and dictum, the declined
negative. Hence, simplicity of mode designates affirmation or negation, and so,
too, does declination of dictum. The ancients said, then, that simple
affirmation of the contingent, i.e., "contingent to be” follows upon
simple affirmation of the possible, i.e., "Possible to be” (for the
contingent is converted with the possible); the simple negative of the impossible
also follows upon this, i.e., "not impossible to be”; and the simple
negative of the necessary, i.e., "not necessary to be.” This is the first
order of modal consequents. In the second order they said that the declined
negatives of the necessary and impossible, i.e., "not necessary not to be”
and "not impossible not to be,” follow upon the declined affirmative of
the possible and the contingent, i.e., "possible not to be” and
"contingent not to be.” In the third order, according to them, the
declined affirmative of the necessary, i.e., "necessary not to be,” and
the simple affirmative of of the impossible, i.e., "impossible to be,”
follow upon the simple negatives of the possible and the contingent, i.e.,
"not possible to be” and not contingent to be.” Finally, in the fourth
order, the simple affirmative of the necessary, i.e., "necessary to be,”
and the declined affirmative of the impossible, i.e., "impossible not to
be,” follow upon the declined negatives of the possible and the contingent,
i.e., "not possible not to be” and "not contingent not to be.” 4 Consideretur
autem ex subscriptione appositae figurae, quemadmodum dicimus, ut clarius
elucescat depictum. Consequentiae enunciationum modalium secundum quatuor
ordines ab antiquis positae et ordinatae. (Figura). To make this ordering more
evident, let us consider it with the help of the following table. CONSEQUENTS
OF MODAL ENUNCIATIONS IN THE FOUR ORDERS POSITED AND ORDERED BY THE ANCIENTS
FIRST ORDER It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to
be It is not necessary to be SECOND ORDER It is possible not to be It is
contingent not to be It is not impossible not to be It is not necessary not to
be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be
It is necessary not to be FOURTH ORDER It is not possible not to be It is not
contingent not to be It is impossible not to be It is necessary to be Cajetanus
lib. 2 l. 10 n. 5Deinde cum dicit: ergo impossibile et non impossibile etc.,
examinando dictam opinionem, determinat veritatem. Et circa hoc duo facit: quia
primo examinat consequentias earum de impossibili; secundo, illarum de
necessario; ibi: necessarium autem et cetera. Unde ex praemissa opinione
concludens et approbans, dicit: ergo istae, scilicet, impossibile, et, non
impossibile, sequuntur illas, scilicet, contingens et possibile, non
contingens, et, non possibile, sequuntur, inquam, contradictorie, idest ita ut
contradictoriae de impossibili contradictorias de possibili et contingenti
consequantur, sed conversim, idest, sed non ita quod affirmatio affirmationem
et negatio negationem sequatur, sed conversim, scilicet, quod affirmationem
negatio et negationem affirmatio. Et explanans hoc ait: illud enim quod est
possibile esse, idest affirmationem possibilis negatio sequitur impossibilis,
idest, non impossibile esse; negationem vero possibilis affirmatio sequitur
impossibilis. Illud enim quod est, non possibile esse, sequitur ista,
impossibile est esse; haec autem, scilicet, impossibile esse, affirmatio est;
illa vero, scilicet, non possibile esse, negatio est: hic siquidem modus
negatur; ibi, non. Bene igitur dixerunt antiqui in quolibet ordine quoad
consequentias illarum de impossibili, quia, ut in suprascripta figura apparet,
semper ex affirmatione possibilis negationem impossibilis, et ex negatione
possibilis affirmationem impossibilis inferunt.When he says, Now the impossible
and the not impossible follow contradictorily upon the contingent and the
possible and the not contingent and the not possible, but inversely, etc., he
determines the truth by examining the foresaid opinion. First, he examines the
consequents of enunciations predicating impossibility; secondly, those
predicating necessity, where he says, Now we must consider how enunciations
predicating necessity are related to these, etc. From the opinion advanced,
then, he concludes with approval that the impossible and the not impossible
follow upon the contingent and the possible and the not contingent and the not
possible, contradictorily, i.e., the contradictories of the impossible follow
upon the contradictories of the possible and the contingent, but inversely,
i.e., not so that affirmation follows upon affirmation and negation upon
negation, but inversely, i.e., negation follows upon affirmation and affirmation
upon negation. He explains this when he says, The negation of "impossible
to be” follows upon "possible to be,” i.e., the negation of the
impossible, i.e., "not impossible to be,” follows upon the affirmation of
the possible, and the affirmation of the impossible follows upon the negation
of the possible. For the affirmation, "impossible to be” follows upon the
negation, "not possible to be.” In the latter the mode is negated, in the
former it is not. Therefore, the ancients were right in saying that in any
order, the consequences of enunciations predicating impossibility are as
follows: from affirmation of the possible, negation of the impossible is
inferred; and from negation of the possible, affirmation of the impossible is
inferred. This is apparent in the diagram. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 6Deinde
cum dicit: necessarium autem etc., intendit examinando determinare
consequentias de necessario. Et circa hoc duo facit: primo examinat dicta
antiquorum; secundo, determinat veritatem intentam; ibi: at vero neque
necessarium et cetera. Circa primum quatuor facit. Primo, declarat quid bene et
quid male dictum sit ab antiquis in hac re. Ubi attendendum est quod cum
quatuor sint enunciationes de necessario, ut dictum est, differentes inter se
secundum quantitatem et qualitatem, adeo ut unam integrent figuram oppositionis
iuxta morem illarum de inesse; duae earum sunt contrariae inter se, duae autem
illis contrariis contradictoriae, ut patet in hac figura. (Figura). Quia ergo
antiqui universales contrarias bene intulerunt ex aliis, contradictorias autem
earum, scilicet particulares, male intulerunt; ideo dicit quod considerandum
restat de his, quae sunt de necessario, qualiter se habeant in consequendo
illas de possibili et non possibili. Manifestum est autem ex dicendis quod non
eodem modo istae de necessario illas de possibili consequuntur, quo easdem
sequuntur illae de impossibili. Nam omnes enunciationes de impossibili recte
illatae sunt ab antiquis. Enunciationes autem de necessario non omnes recte
inferuntur: sed duae earum, quae sunt contrariae, scilicet, necesse est esse,
et, necesse est non esse, sequuntur, idest recta consequentia deducuntur ab
antiquis, in tertio scilicet et quarto ordine; reliquae autem duae de
necessario, scilicet, non necesse non esse, et, non necesse esse, quae sunt
contradictoriae supradictis, sunt extra consequentias illarum, in secundo
scilicet et primo ordine. Unde antiqui in tertio et quarto ordine omnia recte
fecerunt; in primo autem et in secundo peccaverunt, non quoad omnia, sed quoad
enunciationes de necessario tantum. When he says, Now we must consider how
enunciations predicating necessity are related to these, etc., he proposes an
examination of the consequents of enunciations predicating necessity in order
to determine the truth about them. First he examines what was said by the
ancients; secondly, he determines the truth, where he says, But in fact neither
" necessary to be” nor "necessary not to be” follow upon
"possible to be,” etc. In his examination of the ancients, Aristotle makes
four points. First, he shows what was well said by the ancients and what was
badly said. It must be noted in regard to this that, as we have said, there are
four enunciations predicating necessity, which differ among themselves in
quantity and quality, and hence they make up a diagram of opposition in the
manner of the absolute enunciations. Two of them are contrary to each other,
and two are contradictory to these contraries, as is clear in the diagram
below. necessary to be contraries necessary not to be not necessary not to be
subcontraries not necessary to be Now the ancients correctly inferred the
universal contraries from the possibles, contingents, and impossibles, but
incorrectly inferred their contradictories, namely, particulars. This is the
reason Aristotle says that it remains to be considered how enunciations
predicating necessity are related consequentially to the possible and not
possible. From what Aristotle says, it is clear that those predicating
necessity do not follow upon the possibles in the same way as those predicating
impossibility follow upon the possibles, for all of the enunciations
predicating impossibility were correctly inferred by the ancients, but those
predicating necessity were not. Two of them, the contraries, "necessary to
be” and "necessary not to be,” follow, i.e., correct consequents were
deduced by the ancients in the third and fourth orders; the remaining two,
"not necessary not to be” and "not necessary to be,” which are
contradictories of the contraries, are outside of the consequents of these,
i.e., in the second and first orders. Hence, the ancients represented
everything correctly in the third and fourth orders, but in the first and
second they erred, not with respect to all things, but only with respect to
enunciations predicating necessity. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 7Secundo cum
dicit: non enim est negatio eius etc., respondet cuidam tacitae obiectioni, qua
defendi posset consequentia enunciationis de necessario in primo ordine ab
antiquis facta. Est autem obiectio tacita talis. Non possibile esse, et,
necesse non esse, convertibiliter se sequuntur in tertio ordine iam approbato;
ergo, possibile esse, et, non necesse esse, invicem se sequi debent in primo
ordine. Tenet consequentia: quia duorum convertibiliter se sequentium
contradictoria mutuo se sequuntur; sed illae duae tertii ordinis
convertibiliter se sequuntur, et istae duae primi ordinis sunt earum
contradictoriae; ergo istae primi ordinis, scilicet, possibile esse, et, non
necesse esse, mutuo se sequuntur. Huic, inquam, obiectioni respondet
Aristoteles hic interimendo minorem quoad hoc quod assumit, quod scilicet
necessaria primi ordinis et necessaria tertii ordinis sunt contradictoriae.
Unde dicit: non enim est negatio eius quod est, necesse non esse (quae erat in
tertio ordine), illa quae dicit, non necesse est esse, quae sita erat in primo
ordine. Et causam subdit, quia contingit utrasque simul esse veras in eodem;
quod contradictoriis repugnat. Illud enim idem, quod est necessarium non esse, non
est necessarium esse. Necessarium siquidem est hominem non esse lignum et non
necessarium est hominem esse lignum. Adverte quod, ut infra patebit, istae duae
de necessario, quas posuerunt antiqui in primo et tertio ordine, sunt
subalternae (et ideo sunt simul verae), et deberent esse contradictoriae; et
ideo erraverunt antiqui. Secondly, he says, For the negation of "necessary
not to be” is not "not necessary to be,” since both may be true of the
same subject, etc. Here he replies to a tacit objection. This reply could be
used to defend the consequent of the enunciation of the necessary made by the
ancients in the first order. The tacit objection is this: "not possible to
be” and "necessary not to be” follow convertibly in the third order which
has already been shown to be correct; therefore, "possible to be” and
"not necessary to be” ought to follow upon each other in the first order.
The consequent holds; for the contradictories of two that convertibly follow
upon each other, mutually follow upon each other; but those two follow upon
each other convertibly in the third order and these two in the first order are
their contradictories; therefore, those of the first order, i.e.,
"possible to be” and "not necessary to be,” mutually follow upon each
other. Aristotle replies here to this objection by destroying what was assumed
in the minor, i.e., that the necessary of the first order and the necessary of
the third order are contradictories. He says, For the negation of
"necessary not to be” (which is in the third order) is not "not
necessary to be” (which has been placed in the first order). He also gives the
reason: it is possible for both to be true at once of the same subject, which
is repugnant to contradictories. For the same thing which is necessary not to
be, is not necessary to be; for example, it is necessary that man not be wood
and it is not necessary that man be wood. Notice, as will be clear later, that
these two which the ancients posited in the first and third orders, are
subalterns and therefore are at once true, whereas they should be
contradictories; hence the ancients were in error. Cajetanus lib. 2 l. 10 n.
8Boethius autem et Averroes non reprehensive legunt tam hanc, quam praecedentem
textus particulam, sed narrative utramque simul iungentes. Narrare enim aiunt
Aristotelem qualitatem suprascriptae figurae quoad consequentiam illarum de
necessario, postquam narravit quo modo se habuerint illae de impossibili, et
dicere quod secundum praescriptam figuram non eodem modo sequuntur illas de
possibili illae de necessario, quo sequuntur illae de impossibili. Nam
contradictorias de possibili contradictoriae de impossibili sequuntur, licet
conversim; contradictoriae autem de necessario non dicuntur sequi illas
contradictorias de possibili, sed potius eas sequi dicuntur contrariae de
necessario: non inter se contrariae, sed hoc modo, quod affirmationem
possibilis negatio de necessario sequi dicitur, negationem vero possibilis non
affirmatio de necessario sequi ponitur, quae sit contradictoria illi negativae
quae ponebatur sequi ad possibilem, sed talis affirmationis de necessario
contrario. Et quod hoc ita fiat in illa figura ut dicimus, patet ex primo et
tertio ordine, quorum capita sunt negatio et affirmatio possibilis, et extrema
sunt, non necesse esse, et, necesse non esse. Hae siquidem non sunt
contradictoriae. Non enim est negatio eius, quae est, necesse non esse, non
necesse esse (quoniam contingit eas simul verificari de eodem), sed illa
scilicet, necesse non esse, est contraria contradictoriae huius, scilicet, non
necesse esse, quae est, necesse est esse. Sed quia sequenti litterae magis
consona est introductio nostra, quae etiam Alberto consentit, et extorte
videtur ab aliis exponi ly contrariae, ideo prima, iudicio meo, acceptanda est
expositio et ad antiquorum reprehensionem referendus est textus. Boethius and
Averroes read both this and the preceding part of the text, not reprovingly,
but as explanatorily joined together. They say Aristotle explains the quality
of the above table with respect to the consequents of enunciations predicating
necessity after he has explained in what way those predicating impossibility
are related. What Aristotle is saying, then, is that those of the necessary do
not follow those of the possible in the same way as those of the impossible
follow upon the possible. For contradictories of the impossible follow upon
contradictories of the possible, although inversely; but contradictories of the
necessary are not said to follow the contradictories of the possible, but rather
the contraries of the necessary follow upon them. It is not the contraries
among themselves that follow, but contraries in this way: the negation of the
necessary is said to follow upon the affirmation of the possible; but what
follows on the negation of this possible is not the affirmation of the
necessary contradictory to that negative of the necessary following upon the
possible, but the contrary of such an affirmation of the necessary. That this
is the case is evident in the first and third orders. The sources are negation
and affirmation of the possible, and the extremes are "not necessary to
be” and "necessary not to be.” But these are not contradictories, for the
negation of "necessary not to be” is not "not necessary to be,” for
it is possible for them to be at once true of the same thing. "Necessary
not to be” is the contrary of the contradictory of "not necessary to be,”
which contradictory is "necessary to be.” In my judgment, however, the
first exposition should be accepted and this portion of the text taken as a
reproof of the ancients, because the contraries seem to be explained in a
forced way by others, whereas our introduction is more in accord with what
follows in the next part of the text; in addition, it agrees with Albert’s
interpretation. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 9Tertio cum dicit: causa autem cur
etc., manifestat id quod praemiserat, scilicet, quod non simili modo ad illas
de possibili sequuntur illae de impossibili et illae de necessario. Antiquorum
enim hoc peccatum fuit tam in primo quam in secundo ordine, et quod simili modo
intulerunt illas de impossibili et necessario. In primo siquidem ordine, sicut
posuerunt negativam simplicem de impossibili, ita posuerunt negativam simplicem
de necessario, et similiter in secundo ordine utranque negativam declinatam
locaverunt. Hoc ergo quare peccatum sit, et causa autem quare necessarium non
sequitur possibile, similiter, idest, eodem modo cum caeteris, scilicet, de
impossibili, est, quoniam impossibile redditur idem valens necessario, idest, aequivalet
necessario, contrarie, idest, contrario modo sumptum, et non eodem modo. Nam
si, hoc esse est impossibile, non inferemus, ergo hoc esse est necesse, sed,
hoc non esse est necesse. Quia ergo impossibile et necesse mutuo se sequuntur,
quando dicta eorum contrario modo sumuntur, et non quando dicta eorum simili
modo sumuntur, sequitur quod non eodem modo ad possibile se habeant impossibile
et necessarium, sed contrario modo. Nam ad id possibile quod sequitur dictum
affirmatum de impossibili, sequitur dictum negatum de necessario; et e
contrario. Quare autem hoc accidit infra dicetur. Erraverunt igitur antiqui
quod similes enunciationes de impossibili et necessario in primo et in secundo
ordine locaverunt. Thirdly, he says, Now the reason why enunciations
predicating necessity do not follow in the same way as the others, etc. Here
Aristotle shows why enunciations predicating impossibility and necessity do not
follow in a similar way upon those predicating possibility. This was the error
made by the ancients in both the first and second orders, for in the first
order they posited the simple negative of the impossible, and in a similar way
the simple negative of the necessary, and in the second order their declined
negatives, the reason being that they inferred those predicating impossibility
and necessity in a similar way. The cause of this error, then, and the reason
why enunciations predicating necessity do not follow the possible in the same
way, i.e., in a similar mode, as the others, i.e., as the impossibles, is that
the impossible expresses the same meaning as the necessary, i.e., is equivalent
to the necessary, contrarily, i.e., taken in a contrary mode, and not in the
same mode. For if something is impossible to be, we do not infer, therefore it
is necessary to be, but it is necessary not to be. Since, therefore, the
impossible and necessary mutually follow each other when their dictums are
taken in a contrary mode—and not when their dictums are taken in a similar mode
— it follows that the impossible and necessary are not related in the same way
to the possible, but in a contrary way. For the negated dictum of the necessary
follows upon that possible which follows the affirmed dictum of the impossible,
and contrarily. Why this is so will be explained later. Therefore, the ancients
erred when they located similar enunciations of the impossible and necessary in
the first and in the second orders. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 10 Hinc apparet
quod supra posita nostra expositio conformior est Aristoteli. Cum enim hunc
textum induxerit ad manifestandum illa verba: manifestum est autem quoniam non
eodem modo, etc., eo accipiendo sunt sensu illa verba, quo hic per causam
manifestantur. Liquet autem quod hic redditur causa dissimilitudinis verae
inter necessarias et impossibiles in consequendo possibiles, et non
dissimilitudinis falso opinatae ab antiquis: quoniam ex vera causa nonnisi
verum concluditur. Ergo reprehendendo antiquos, veram dissimilitudinem inter
necessarias, et impossibiles in consequendo possibiles, quam non servaverunt
illi, proposuisse tunc intelligendum est, et nunc eam manifestasse. Quod autem
dissimilitudo illa, quam antiqui posuerunt inter necessarias et impossibiles,
sit falso posita, ex infra dicendis patebit. Ostendetur enim quod contradictorias
de possibili contradictoriae de necessario sequuntur conversim; et quod in hoc
non differunt ab his quae sunt de impossibili, sed differunt in hoc quod modo
diximus, quod possibilium et impossibilium se consequentium dictum est
similiter, possibilium autem et necessariorum, se invicem consequentium dictum
est contrarium, ut infra clara luce videbitur. Hence it appears that our
exposition is more in conformity with Aristotle. For he introduced this text to
manifest these words: It is evident that the case here is not the same, etc. By
taking this meaning, then, these words are made clear through the cause.
Moreover, it is evident that here the cause is given of a true dissimilitude
between necessaries and impossibles in following the possibles, and not of a
dissimilitude falsely held by the ancients, for from a true cause only the
truth is concluded. Therefore in reproving the ancients it must be understood
that a true dissimilitude between the necessary and impossible in following the
possible, which they did not beed, has been proposed, and now has been made
manifest. It will be clear from what will be said later that the dissimilitude
posited by the ancients between the necessary and impossible is falsely
posited, for it will be shown that contradictories of the necessary follow
contradictories of the possible inversely, and that in this they do not differ
from enunciations predicating impossibility. They do differ, however, in the
way we have indicated, i.e., the dictum of the possibles and of the impossibles
following on them is similar, but the dictum of the possibles and of the
necessaries following on them is contrary, as will be seen clearly later.
Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 11 Quarto cum dicit: aut certe impossibile est etc.,
manifestat aliud quod proposuerat, scilicet, quod contradictoriae de necessario
male situatae sint secundum consequentiam ab antiquis, qui contradictiones
necessarii ita ordinaverunt. In primo ordine posuerunt contradictoriam
negationem, necesse esse, idest, non necesse esse; et in secundo
contradictoriam negationem, necesse non esse, idest, non necesse non esse. Et
probat hunc consequentiae modum esse malum in primo ordine. Cognita enim
malitia primi, facile est secundi ordinis agnoscere defectum. Probat autem hoc
tali ratione ducente ad impossibile. Ad necessarium esse sequitur possibile
esse: aliter sequeretur non possibile esse, quod manifeste implicat; ad
possibile esse sequitur non impossibile esse, ut patet; ad non impossibile
esse, secundum antiquos, sequitur in primo ordine non necessarium esse; ergo de
primo ad ultimum, ad necessarium esse sequitur non necessarium esse: quod est
inconveniens, quia est manifesta implicatio contradictionis. Relinquitur ergo
quod male dictum sit, quod non necessarium esse consequatur in primo ordine.
Ait ergo et certe impossibile est poni sic secundum consequentiam, ut antiqui
posuerunt, necessarii contradictiones, idest illas duas enunciationes de
necessario, quae sunt negationes contradictoriae aliarum duarum de necessario.
Nam ad id quod est, necessarium esse, sequitur, possibile est esse: nam si non,
idest quoniam si hanc negaveris consequentiam, negatio possibilis sequitur
illam, scilicet, necesse esse. Necesse est enim de necessario aut dicere, idest
affirmare possibile, aut negare possibile: de quolibet enim est affirmatio vel
negatio vera. Quare si dicas quod, ad necesse esse, non sequitur, possibile
esse, sed, non possibile est esse; cum haec aequivaleat illi quae dicit,
impossibile est esse, relinquitur quod ad, necesse esse, sequitur, impossibile
esse, et idem erit, necesse esse et impossibile esse: quod est inconveniens.
Bona ergo erat prima illatio, scilicet, necesse est esse, ergo possibile est
esse. Tunc ultra. Illud quod est, possibile esse, sequitur, non impossibile
esse, ut patet in primo ordine. Ad hoc vero, scilicet, non impossibile esse,
secundum antiquos eodem primo ordine, sequitur, non necesse est esse (quare
contingit de primo ad ultimum); ad id quod est, necessarium esse, sequitur, non
necessarium esse: quod est inconveniens, immo impossibile. Fourthly, when he
says, Or is it impossible to arrange the contradictions of enunciations
predicating necessity in this way? he manifests another point he had proposed,
namely, that contradictories of enunciations predicating necessity were badly
placed according to consequence by the ancients when they ordered them thus:
the contradictory negation to "necessary to be,” i.e., "not necessary
to be,” in the first order, and the contradictory negation to "necessary
not to be,” i.e., "not necessary not to be,” in the second. Aristotle only
proves that this mode of consequence is incorrect in the first order, for when
this is known the mistake in the second order is readily seen. He does this by
an argument leading to an impossibility. "Possible to be” follows upon
"necessary to be”; otherwise "not possible to be” would follow, which
it manifestly implies. "Not impossible to be” follows upon "possible
to be” as is evident, and, according to the ancients, in the first order,
"not necessary to be” follows upon "not impossible to be.” Therefore,
from first to last, "not necessary to be” follows upon "necessary to
be,” which is inadmissible because there is an obvious implication of
contradiction. Therefore, it is erroneous to say that "not necessary to
be” follows in the first order. He says, then, that in fact it is impossible to
posit contradictions of the necessary according to consequence as the ancients
posited them, i.e., in the first order the contradictory negation of
"necessary to be,” i.e., "not necessary to be” and in the second the
contradictory negation of "necessary not to be,” i.e., "not necessary
not to be.” For "possible to be” follows upon "necessary to be”; if
not, i.e., if you deny this consequence, the negation of the possible follows
upon "necessary to be,” since the possible must either be asserted of the
necessary or denied, the reason being that of anything there is a true
affirmation or a true negation. Therefore, if you say that "possible to
be” does not follow upon "necessary to be,” but "not possible to be”
does follow, then, since the latter is equivalent to the former, i.e.,
"not possible to be” to "impossible to be,” "impossible to be”
follows upon "necessary to be” and the same thing will be "necessary
to be” and "impossible to be,” which cannot be admitted. Consequently, the
first inference was good, i.e., "It is necessary to be, therefore it is
possible to be.” But again, "possible to be” follows upon "not
impossible to be,” as is evident in the first order, and according to the
ancients, "not necessary to be” follows upon "not impossible to be”
in the same first order. Therefore, from first to last we arrive at this:
"not necessary to be” follows upon "necessary to be,” which is
unlikely, not to say impossible. 12 Dubitatur hic: quia in I priorum dicitur
quod ad possibile sequitur non necessarium, hic autem dicitur oppositum. Ad hoc
est dicendum quod possibile sumitur dupliciter. Uno modo in communi, et sic est
quoddam superius ad necessarium et contingens ad utrunque, sicut animal ad
hominem et bovem; et sic ad possibile non sequitur non necessarium, sicut ad
animal non sequitur non homo. Alio modo sumitur possibile pro una parte
possibilis in communi, idest pro possibili seu contingenti, scilicet ad
utrunque, scilicet quod potest esse et non esse; et sic ad possibile sequitur
non necessarium. Quod enim potest esse et non esse, non necessarium est esse,
et similiter non necessarium est non esse. Loquimur ergo hic de possibili in
communi, ibi vero in speciali. There is a doubt about this, for in I Priorum
[13: 32a 28 and 32b 15], it is said that the not necessary follows upon the
possible, while here the opposite is said. The possible, however, is taken in
two ways: commonly, and thus it is superior to the necessary and the contingent
to either of two alternatives, as is the case with animal in relation to man
and cow; taken in this way, the not necessary does not follow upon the
possible, just as not-man does not follow upon animal. In another way the
possible is taken for one part of the possible commonly, i.e., for the possible
or contingent to either of two alternatives, namely, for what can be and not
be. The not necessary follows upon the possible taken in this way, for what can
be and not be is not necessary to be, and likewise is not necessary not to be.
In the Prior Analytics, then, Aristotle is speaking of the possible in
particular; here of the possible commonly. 13 Deinde cum dicit: at vero neque
necessarium etc., determinat veritatem intentam. Et circa hoc tria facit:
primo, determinat quae enunciatio de necessario sequatur ad possibile; secundo,
ordinat consequentias omnium modalium; ibi: sequuntur enim et cetera. Quoad
primum, sicut duabus viis reprehendit antiquos, ita ex illis duobus motivis
intentum probat. Et intendit quod, ad possibile esse, sequitur, non necesse non
esse. Primum motivum est per locum a divisione. Ad, possibile esse, non
sequitur (ut probatum est), non necesse esse, at vero neque, necesse esse,
neque, necesse non esse. Reliquum est ergo ut sequatur ad eam, non necesse non
esse: non enim dantur plures enunciationes de necessario. Huius communis
divisionis primo proponit reliqua duo membra excludenda, dicens: at vero neque
necessarium esse, neque necessarium non esse, sequitur ad possibile non esse;
secundo probat hoc sic. Nullum formale consequens minuit suum antecedens: tunc
enim oppositum consequentis staret cum antecedente; sed utrumque horum,
scilicet, necesse esse, et, necesse non esse, minuit possibile esse; ergo, et
cetera. Unde, tacita maiore, ponit minoris probationem dicens: illi enim,
scilicet, possibile esse, utraque, scilicet, esse et non esse, contingit
accidere; horum autem, scilicet, necesse esse et necesse non esse, utrumlibet
verum fuerit, non erunt illa duo, scilicet, esse et non esse, vera simul in
potentia. Et primum horum explanans ait: cum dico, possibile esse, simul est
possibile esse et non esse. Quoad secundum vero subdit. Si vero dicas, necesse
esse vel necesse non esse, non remanet utrumque, scilicet, esse et non esse,
possibile: si enim necesse est esse, possibilitas ad non esse excluditur; et si
necesse est non esse, possibilitas ad esse removetur. Utrumque ergo istorum
minuit illud antecedens, possibile esse, quoniam ad esse et non esse se
extendit, et cetera. Tertio subdit conclusionem: relinquitur ergo quod, non
necessarium non esse, comes est ei quae dicit, possibile esse; et consequenter
haec ponenda erit in primo ordine. When he says, But in fact neither
"necessary to be” nor "necessary not to be” follow upon
"possible to be,” etc., he determines the truth. First he determines which
enunciation of the necessary follows upon the possible; secondly, he orders the
consequents of all of the modals, where he says, Thus, these contradictions
also follow in the way indicated, etc. Aristotle has reproved the ancients in
two ways; on the basis of these two he now proves which enunciation of the
necessary follows upon the possible. What he intends to show is that "not
necessary not to be” follows upon "possible to be.” The first argument is
taken from a locus of division. "Not necessary to be” does not follow upon
possible to be” (as has been proved), but neither does "necessary to be”
nor "necessary not to be.” Therefore, "not necessary not to be” follows
upon "possible to be,” since there are no more enunciations of the
necessary. He first proposes the remaining two members that are to be excluded
from this common division: But in fact neither "necessary to be” nor
"necessary not to be” follow upon "possible to be.” Then he proves
this: no formal consequent diminishes its antecedent, for if it did, the
opposite of the consequent would stand with the antecedent; but both of these,
namely, "necessary to be” and "necessary not to be,” diminish
possible to be”; therefore, etc. The major is therefore implied and he gives
the proof of the minor when he says that "possible to be” admits of two
possibilities, namely, "to be” and "not to be”; but of these, namely,
"necessary to be” and "necessary not to be” (whichever should be true),
these two, "to be” and "not to be,” will not be true at the same time
in potency. He explains the first point thus: when I say "possible to be”
it is at once possible to be and not to be. With respect to the second, he
adds: if you should say, "necessary to be” or "necessary not to be,”
both do not remain, i.e., possible to be and not to be do not remain, for if a
thing is necessary to be, possibility not to be is excluded, and if it is
necessary not to be, possibility to be is removed. Both of these, then,
diminish the antecedent, possible to be, for it is extended to "to be” and
"not to be,” etc. Thirdly, he concludes: it remains, therefore, that
"not necessary not to be” accompanies "possible to be,” and
consequently will have to be placed in the first order. Cajetanus lib. 2 l. 10
n. 14 Occurrit in hac parte dubium circa hoc quod dicit quod, ad possibile non
sequitur necessarium, cum superius dixerit quod ad ipsum non sequitur non
necessarium. Cum enim necessarium et non necessarium sint contradictoria
opposita, et de quolibet sit affirmatio vel negatio vera, non videtur posse
evadi quin ad possibile sequatur necessarium, vel, non necessarium. Et cum non
sequatur necessarium, sequetur non necessarium, ut dicebant antiqui. Augetur et
dubitatio ex eo quod Aristoteles nunc usus est tali argumentationis modo,
volens probare quod ad necessarium sequatur possibile. Dixit enim: nam si non
negatio possibilis consequatur. Necesse est enim aut dicere aut negare. A
difficulty arises at this point with respect to his saying that the necessary
does not follow upon the possible, since he has also said that the not
necessary does not follow upon it. For the necessary and the not necessary are
opposed contradictorily, and since of anything there is a true affirmation or
negation, it seems impossible to avoid the conclusion that either the necessary
or the not necessary follows upon the possible; and since the necessary does
not follow, the not necessary must follow, as the ancients said. Furthermore,
the difficulty is augmented by the fact that Aristotle just used such a mode of
argumentation when, to prove that the possible follows upon the necessary, he
said, for if not, the negation will follow; for it is necessary either to
affirm or deny. 15. Pro solutione huius, oportet reminisci habitudinis quae est
inter possibile et necessarium, quod scilicet possibile est superius ad
necessarium, et attendere quod superius potestate continet suum inferius et
eius oppositum, ita quod neutrum eorum actualiter sibi vindicat, sed utrunque
potest sibi contingere; sicut animali potest accidere homo et non homo: et
consequenter inspicere debes quod, eadem est proportio superioris ad habendum
affirmationem et negationem unius inferioris, quae est alicuius subiecti ad
affirmativam et negativam futuri contingentis. Utrobique enim neutrum habetur,
et salvatur potentia ad utrumlibet. Unde, sicut in futuris contingentibus nec
affirmatio nec negatio est determinate vera, sed sub disiunctione altera est
necessario vera, ut in fine primi conclusum est; ita nec affirmatio nec negatio
inferioris sequitur determinate affirmationem vel negationem superioris, sed
sub disiunctione altera sequitur necessario. Unde non valet, est animal, ergo
est homo, neque, ergo non est homo, sed, ergo est homo vel non est homo. Quia
ergo possibile superius est ad necessarium, ideo optime determinavit
Aristoteles neutram contradictionis partem de necessario determinate sequi ad
possibile. Non tamen dixit quod sub disiunctione neutra sequatur; hoc enim est
contra illud primum principium: de quolibet est affirmatio vera vel falsa. Ad
id autem quod additur, ex eadem trahitur radice responsio. Quia enim
necessarium inferius est ad possibile, et inferius non in potentia sed in actu
includit suum superius, necesse est ad inferius determinate sequi suum
superius: aliter determinate sequetur eius contradictorium. Unde per dissimilem
habitudinem, quae est inter necessarium et possibile et non possibile, ex una
parte, et inter possibile et necessarium et non necessarium, ex altera parte,
ibi optimus fuit processus ad alteram contradictionis partem determinate, et
hic optimus ad neutram determinate. In order to resolve this, we must recall
the relationship between the possible and the necessary, namely, that the
possible is superior to the necessary. Now the superior potentially contains
its own inferior and the opposite of it in such a way that neither of them is
actually appropriated by the superior, but each is possible to it; as in the
case of man and not-man in relation to animal. We must also consider that the
proportion of the superior as related to the affirmation and negation of one
inferior is the same (which is the proportion of some subject to the
affirmative and negative of a future contingent), for it is had by neither of the
two, and the potency to either is kept. Accordingly, as in future contingents
neither the affirmation nor the negation is determinately true, but under
disjunction one is necessarily true (as was concluded at the end of the first
book), so neither the affirmation nor negation of the inferior follows upon the
affirmation or negation of the superior determinately, but under disjunction
one follows necessarily. This, for instance, is not valid: "It is animal,
therefore it is man,” nor is "therefore it is not man” valid, but,
"therefore it is man or it is not man.” Since, then, the possible is
superior to the necessary, Aristotle has correctly determined that neither part
of the contradiction of the necessary determinately follows upon the possible.
However, he has not said that under disjunction neither follows; for this would
be opposed to the first principle, that of anything there is a true or false
affirmation. The response to what was added, beginning with "Furthermore,
the difficulty is augmented,” etc., is based upon the same point. Since the
necessary is inferior to the possible, and the inferior does not include its
superior in potency but in act, the superior must follow determinately upon the
inferior; otherwise the contradiction of it would follow determinately. Hence,
because of the dissimilar relationship between the necessary and the possible
and not possible on the one hand, and between the possible and the necessary
and not necessary on the other, the movement of the earlier argument to one part
of the contradiction determinately was quite right, and the movement here to
neither determinately was quite right. 16. Oritur quoque alia dubitatiuncula.
Videtur enim quod Aristoteles difformiter accipiat ly possibile in praecedenti
textu et in isto. Ibi enim accipit ipsum in communi, ut sequitur ad
necessarium; hic videtur accipere ipsum specialiter pro possibili ad
utrumlibet, quia dicit quod possibile est simul potens esse et non esse. Et ad
hoc dicendum est quod uniformiter usus est possibili. Nec eius verba obstant:
quoniam et de possibili in communi verum est dicere quod potest sibi utrunque
accidere, scilicet, esse et non esse: tum quia quidquid verificatur de suo
inferiori, verificatur etiam de suo superiori, licet non eodem modo; tum quia
possibile in communi neutram contradictionis partem sibi determinat, et
consequenter utranque sibi advenire compatitur, licet non asserat potentiam ad
utranque partem, quemadmodum possibile ad utrunque. There is another slight
difficulty, for it seems that Aristotle takes the possible in a different way
in the preceding text and in this. There he takes it commonly as it follows
upon the necessary; here he seems to take it specifically for the possible that
is indifferent to alternatives, since he says that the possible is at once
possible to be and not to be. But in fact Aristotle has used the possible
uniformly. Nor are his words at variance, for it is also true to say of the
possible as common that it admits of both possibilities, i.e., of "to be”
and "not to be”; first, because whatever is verified of its inferior is
verified also of its superior, although not in the same mode; secondly, because
the possible as common determines neither part of the contradiction to itself
and consequently admits of either happening, although it does not affirm a
potency to each part, as does the possible to either of two alternatives. 17. Secundum
motivum ad idem, correspondens tacitae obiectioni antiquorum quam supra
exclusit, addit cum subdit: hoc enim verum est et cetera. Ubi notandum quod
Aristoteles sub illa maiore adducta pro antiquis (scilicet, convertibiliter se
consequentium contradictoria se mutuo consequuntur), subsumit minorem: sed
horum convertibiliter se sequentium in tertio ordine (scilicet, non possibile
esse et necesse non esse), contradictoria sunt, possibile esse et non necesse
non esse (quoniam modi negatione eis opponuntur); ergo istae duae (scilicet,
possibile esse et non necesse non esse) se consequuntur et in primo locandae
sunt ordine. Unde motivum tangens ait: hoc enim, quod dictum est, verum est,
idest verum esse ostenditur, et de necesse non esse, idest, et ex illius,
scilicet, non necesse non esse, opposita, quae est, necesse non esse. Vel, hoc
enim, scilicet, non necesse non esse, verum est, scilicet, contradictorium
illius de necesse non esse. Et minorem subdens ait: haec enim, scilicet, non
necesse non esse, fit contradictio eius, quae convertibiliter sequitur, non
possibile esse. Et explanans hoc in terminis subdit. Illud enim, non possibile
esse, quod est caput tertii ordinis, sequitur hoc de impossibili, scilicet,
impossibile esse, et haec de necessario, scilicet, necesse non esse, cuius
negatio seu contradictoria est, non necesse non esse. Et quia, caeteris
paribus, modus negatur, et illa, possibile esse, est (subauditur)
contradictoria illius, scilicet, non possibile; igitur ista duo mutuo se
consequuntur, scilicet, possibile esse, et, non necesse non esse, tamquam
contradictoria duorum se mutuo consequentium. The second grounds for proving
the same thing corresponds to the tacit objection of the ancients he excluded
above: For this, he says, is true also with respect to "necessary to be,”
etc. It should be noted here that Aristotle subsumes under the major cited as a
proof for the position of the ancients (namely, contradictories of consequences
convertibly following each other mutually follow upon each other) this minor:
but the contradictories of those following upon each other convertibly in the
third order (i.e., of "not possible to be” and "necessary not to be”)
are "possible to be” and "not necessary not to be” (for they are
opposed to them by negation of mode); therefore, these two (i.e.,
"possible to be” and "not necessary not to be”) follow upon each
other and are to be placed in the first order. Hence, with respect to the basis
of the above argument, he says, For this, i.e., what has been said, is true,
i.e., is shown to be true, also with respect to "necessary not to be,”
i.e., of the opposite of "not necessary not to be,” i.e., "necessary
not to be.” Or, For this, namely, not necessary not to be,” is true, namely, is
the true contradictory of necessary not to be.” He gives the minor when he
says, For "not necessary not to be” is the contradictory of what follows
upon "not possible to be.” Then he states this explicitly: for "not
possible to be,” which is the source of the third order is followed by this
impossible, namely, "impossible to be,” and by this one of the necessary,
namely, "necessary not to be,” of which the negation or contradictory is
"not necessary not to be.” And since, other things being equal, the mode
is negated, and, "possible to be” is (it is understood) the contradictory
of "not possible to be,” therefore, these two mutually follow upon each
other, namely, "possible to be” and "not necessary not to be,” as
contradictories of the two mutually following upon each other. Cajetanus lib. 2
l. 10 n. 18 Deinde cum dicit: sequuntur enim etc., ordinat omnes consequentias
modalium secundum opinionem propriam; et ait quod, hae contradictiones,
scilicet, de necessario, sequuntur illas de possibili, secundum modum
praedictum et approbatum illarum de impossibili. Sicut enim contradictorias de
possibili contradictoriae de impossibili sequuntur, licet conversim; ita
contradictorias de possibili contradictoriae de necessario sequuntur conversim:
licet in hoc, ut dictum est, dissimilitudo sit quod, contradictoriarum de
possibili et impossibili similiter est dictum, contradictoriarum autem de
possibili et necessario contrarium est dictum, ut in sequenti videtur figura:
consequentiae enunciationum modalium secundum quatuor ordines ab Aristotele
positae et ordinatae. (Figura). Ubi vides quod nulla est inter Aristotelem et
antiquos differentia, nisi in duobus primis ordinibus quoad illas de necessario.
Praepostero namque situ usi sunt antiqui, eam de necessario, quae locanda erat
in primo ordine, in secundo ponentes, et eam quae in secundo ponenda erat, in
primo locantes. Et aspice quoque quod convertibiliter se consequentium semper
contradictoria se consequi ordinavit. Singulis enim tertii ordinis singulae
primi ordinis contradictoriae sunt; et similiter singulae quarti ordinis
singulis, quae in secundo sunt, contradictoriae sunt. Quod antiqui non
observarunt. When he says, Thus, these contradictions also follow in the way
indicated, etc., he orders all of the consequents of modals according to his
own opinion. He says, then, that these contradictions, namely, of the
necessary, follow those of the possible, according to the foresaid and approved
mode of those of the impossible. For just as contradictories of the impossible
follow upon contradictories of the possible, although inversely, so
contradictories of the necessary follow contradictories of the possible
inversely. In the latter, however, as has been said, there is a dissimilarity
in that the dictum of the contradictories of the possible and impossible is
similar, but the dictum of the contradictories of the possible and necessary is
contrary. This can be seen in the following table. CONSEQUENTS OF MODAL
ENUNCIATIONS POSITED AND ORDERED BY ARISTOTLE ACCORDING TO FOUR ORDERS FIRST
ORDER It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be It
is not necessary to be SECOND ORDER It is possible not to be It is contingent
not to be It is not impossible not to be It is not necessary not to be It is
not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be It is
necessary not to be FOURTH ORDER It is not possible not to be It is not
contingent not to be It is impossible not to be It is necessary to be Here you
see that there is no difference between Aristotle and the ancients except in
the first two orders with respect to those of the necessary. The ancients
inverted the position of these, placing the necessary that should have been
placed in the first order in the second order, and the one that should have
been in the second in the first. Notice, too, that he has ordered them in such
a way that the contradictories of those following upon each other convertibly,
always follow each other, for each one in the first order is the contradictory
of each one in the third order, and similarly, each of the fourth order the
contradictory of each in the second. This the ancients did not observe. XI. 1. Postquam
Aristoteles declaravit modalium consequentias, hic movet quandam dubitationem
circa unum eorum quae determinata sunt, scilicet quod possibile sequitur ad
necesse. Et duo facit: quia primo dubitationem absolvit; secundo, ex
determinata quaestione alium ordinem earumdem consequentiarum modalibus
statuit; ibi: et est fortasse et cetera. Circa primum duo facit: primo, movet
quaestionem; secundo, determinat eam; ibi: manifestum est et cetera. Movet ergo
quaestionem: primo dicens: dubitabit autem aliquis si ad id quod est necesse
esse sequatur possibile esse; et secundo, arguit ad partem affirmativam
subdens: nam si non sequatur, contradictoria eius sequetur, scilicet non
possibile esse, ut supra deductum est: quia de quolibet est affirmatio vel
negatio vera. Et si quis dicat hanc, scilicet, non possibile esse, non esse
contradictoriam illius, scilicet, possibile esse, et propterea subterfugiendum
velit argumentum, et dicere quod neutra harum sequitur ad necesse esse; talis
licet falsum dicat, tamen concedatur sibi, quoniam necesse erit ipsum dicere
illius contradictoriam fore, possibile non esse. Oportet namque aut non
possibile esse aut possibile non esse, esse contradictoriam, possibile esse; et
tunc in eumdem redibit errorem, quoniam utraeque, scilicet, non possibile esse
et possibile non esse, falsae sunt de eo quod est, necesse esse. Et
consequenter ad ipsum neutra sequi potest. Nulla enim enunciatio sequitur ad
illam, cuius veritatem destruit. Relinquitur ergo quod, ad necesse esse
sequitur possibile esse. Now that he has explained the consequents of modals,
Aristotle raises a question about one of the points that has already been
determined, namely, that the possible follows upon the necessary. He first
raises the question and then settles it where he says, It is evident by now
that not every possibility of being or walking is one that admits of opposites,
etc. Secondly, he establishes another order of the same consequents from the
determination of the present question, where he says Indeed the necessary and
not necessary may well be the principle of all that is or is not, etc. First,
then, he raises the question: But it may be questioned whether "Possible
to be follows upon "necessary to be.” Secondly, he argues to the
affirmative part: Yet if not, the contradictory, "not possible to be,” would
have to follow, as was deduced earlier, for either the affirmation or the
negation is true of anything. And if someone should say "not possible to
be” is not the contradictory of "possible to be,” because he wants to
avoid the conclusion by saying that neither of these follows upon
"necessary to be,” this may be conceded, although what he says is false.
But then he will have to say that the contradictory of "possible to be” is
"possible not to be,” for the contradictory of "possible to be” has
to be either "not possible to be” or "possible not to be.” But if he
says this, he will fall into another error, for it is false to say it is not
possible to be of that which is necessary to be, and it is false to say it is
possible not to be. Consequently, neither follows upon it, for no enunciation
follows upon an enunciation whose truth it destroys. Therefore, "possible
to be” follows upon "necessary to be.” 2. Tertio, arguit ad partem
negativam cum subdit: at vero rursus etc., et intendit talem rationem. Si ad
necesse esse sequitur possibile esse, cum ad possibile sequatur possibile non
esse (per conversionem in oppositam qualitatem, ut dicitur in I priorum, quia
idem est possibile esse et non esse), sequetur de primo ad ultimum quod necesse
est possibile non esse: quod est falsum manifeste. Unde oppositionis hypothesim
subdit: at vero rursus videtur idem possibile esse et non esse, ut domus, et
possibile incidi et non incidi, ut vestis. Quare de primo ad ultimum necesse
esse, erit contingens non esse. Hoc autem est falsum. Ergo hypothesis illa,
scilicet, quod possibile sequatur ad necesse, est falsa. Thirdly, he argues to
the negative part where he says, On the other hand, it seems possible for the
same thing to be cut and not to be cut, etc. His argument is as follows: If
"possible to be” follows upon "necessary to be,” then, since
"possible not to be” follows upon the possible (through conversion to the
opposite quality, as is said in I Priorum [13: 32a 31], for the same thing is
possible to be and not to be), from first to last it will follow that the
necessary is possible not to be, which is clearly false. In this argument,
Aristotle supplies a hypothesis opposed to the position that possible to be
follows upon necessary to be: On the other hand, it seems possible for the same
thing to be cut and not to be cut, for instance a garment, and to be and not to
be, for instance a house. Therefore, from first to last, necessary to be will
be possible not to be. But this is false. Therefore, the hypothesis that the possible
follows upon the necessary is false. 3. Deinde cum dicit: manifestum est
autemetc., respondet dubitationi. Et primo, declarat veritatem simpliciter;
secundo, applicat ad propositum; ibi: hoc igitur possibile et cetera. Proponit
ergo primo ipsam veritatem declarandam, dicens: manifestum est autem, ex
dicendis, quod non omne possibile esse vel ambulare, idest operari: idest, non
omne possibile secundum actum primum vel secundum ad opposita valet, idest ad
opposita viam habet, sed est invenire aliqua possibilia, in quibus non sit
verum dicere quod possunt in opposita. Deinde, quia possibile a potentia
nascitur, manifestat qualiter se habeat potentia ipsa ad opposita: ex hoc enim
clarum erit quomodo possibile se habeat ad opposita. Et circa hoc duo facit: primo
manifestat hoc in potentiis eiusdem rationis; secundo, in his quae aequivoce
dicuntur potentiae; ibi: quaedam vero potentiae et cetera. Circa primum tria
facit: quia primo manifestat qualiter potentia irrationalis se habeat ad
opposita; et ait quod potentia irrationalis non potest in opposita. When he
says, It is evident by now that not every possibility of being or walking,
etc., he answers the question he proposed. First, he manifests the truth
simply, then applies it to the question where he says, So it is not true to say
the latter possible of what is necessary simply, etc. First, then, he proposes
the truth he is going to explain: It is evident by now that not every
possibility of being or walking, i.e., of operating; that is, not everything
possible according to first or second act admits of opposites, i.e., has access
to opposites; there are some possibles of which it is not true to say that they
are capable of opposites. Then, since the possible arises from potency, he
manifests how potency is related to opposites; for it will be clear from this
bow the possible is related to opposites. First he manifests this in potencies
having the same notion; secondly, in those that are called potencies
equivocally where he says, But some are called potentialities equivocally, etc.
With respect to the way in which potencies of the same specific notion are
related to opposites, he does three things. First of all he manifests how an
irrational potency is related to opposites; an irrational potency, he says, is
not a potency that is capable of opposites. Cajetanus lib. 2 l. 11 n. 4Ubi
notandum est quod, sicut dicitur IX Metaphys., potentia activa, cum nihil aliud
sit quam principium quo in aliud agimus, dividitur in potentiam rationalem et
irrationalem. Potentia rationalis est, quae cum ratione et electione operatur;
sicut ars medicinae, qua medicus cognoscens quid sanando expediat infirmo, et
volens applicat remedia. Potentia autem irrationalis vocatur illa, quae non ex
ratione et libertate operatur, sed ex naturali sua dispositione; sicut calor
ignis potentia irrationalis est, quia calefacit, non ut cognoscit et vult, sed
ut natura sua exigit. Assignatur autem ibidem duplex differentia proposito
deserviens inter istas potentias. Prima est quod activa potentia irrationalis
non potest duo opposita, sed est determinata ad unum oppositorum, sive sumatur
oppositum contradictorie sive contrarie. Verbi gratia: calor non potest
calefacere et non calefacere, quae sunt contradictorie opposita, neque potest
calefacere et frigefacere, quae sunt contraria, sed ad calefactionem
determinatus est. Et hoc intellige per se, quia per accidens calor frigefacere
potest, vel resolvendo materiam caloris, humidum scilicet, vel per
antiperistasin contrarii. Et similiter potest non calefacere per accidens,
scilicet si calefactibile deest. Potentia autem rationalis potest in opposita
et contradictorie et contrarie. Arte siquidem medicinae potest medicus adhibere
remedia et non adhibere, quae sunt contradictoria; et adhibere remedia sana et
nociva, quae sunt contraria. Secunda differentia est quod potentia activa
irrationalis, praesente passo, necessario operatur, deductis impedimentis:
calor enim calefactibile sibi praesens calefacit necessario, si nihil impediat;
potentia autem rationalis, passo praesente, non necessario operatur: praesente
siquidem infirmo, non cogitur medicus remedia adhibere. It must be noted in
this connection that active potency, since it is the principle by which we act
on something else, is divided into rational and irrational potency, as is said
in IX Metaphysicae [2: 1046a 36]. Rational potency operates in connection with
reason and choice; for example, the art of medicine by which the physician,
knowing and willing what is expedient in healing an illness, applies a remedy.
Irrational potency operates according to its own natural disposition, not
according to reason and liberty; for example, the heat of fire is an irrational
potency, because it heats, not as it knows and wills, but as its nature
requires. In the Metaphysics, a twofold difference between these potencies is
assigned which is relevant here. The first is that an irrational active potency
is not capable of two opposites, but is determined to one opposite, whether
"opposite” is taken contradictorily or contrarily; e.g., heat cannot heat
and not heat, which are opposed contradictorily; nor can it heat and cool,
which are contraries, but is deter mined to heating. Understand this per se,
for heat can cool accidentally, either by destroying the matter of heat, namely,
the humid, or through alternation of the contrary. It also has the potentiality
not to heat accidentally, if that which can be heated is lacking. A rational
potency, on the other hand, is capable of opposites, both contradictorily and
contrarily; for by the art of medicine the physician can employ a remedy and
not employ it, which are contradictories, and employ healing and harmful
remedies, which are contraries. The second difference is that an irrational
active potency necessarily operates when a subject is present and impediments
are with drawn; for heat necessarily heats when a subject that can be heated is
present, and nothing impedes it. A rational potency, however, does not
necessarily operate when a subject is present; e.g., when a sick man is present
the physician is not forced to employ a remedy. 5. Dimittantur autem
metaphysico harum differentiarum rationes et ad textum redeamus. Ubi narrans
quomodo se habeat potentia irrationalis ad oppositum, ait: et primum quidem,
scilicet, non est verum dicere quod sit potentia ad opposita in his quae
possunt non secundum rationem, idest, in his quorum posse est per potentias
irrationales; ut ignis calefactivus est, idest, potens calefacere, et habet
vim, idest, potentiam istam irrationalem. Ignis siquidem non potest
frigefacere; neque in eius potestate est calefacere et non calefacere. Quod
autem dixit primum ordinem, nota, ad secundum genus possibilis infra dicendum,
in quo etiam non invenitur potentia ad opposita. The reasons for these
differences are given in the Metaphysics, but let us return to the text.
Explaining bow an irrational potency is related to opposites, he says, First of
all, this is not true, i.e., it is not true to say that there is a potency to
opposites in those which are not according to reason, i.e., whose power is
through irrational potencies; as fire which is calefactive, i.e., capable of
heating, has this power, i.e., this irrational potentiality, since it is not
able to cool, nor is it in its power 4 to heat and not to heat. Note that he
speaks here of a first kind. This is in relation to a second genus of the
possible which he will speak of later, in which there is not a potency to
opposites either. 6. Secundo, manifestat quomodo potentia rationalis se habeat
ad opposita, intendens quod potentia rationalis potest in opposita. Unde
subdit: ergo potestates secundum rationem, idest rationales, ipsae eaedem sunt
contrariorum, non solum duorum, sed etiam plurimorum, ut arte medicinae medicus
plurima iuga contrariorum adhibere potest, et a multarum operationum
contradictionibus abstinere potest. Praeposuit autem ly ergo, ut hoc consequi
ex dictis insinuaret: cum enim oppositorum oppositae sint proprietates, et
potentia irrationalis ex eo quod irrationalis ad opposita non se extendat;
oportet potentiam rationalem ad opposita viam habere, eo quod rationalis sit. Secondly,
he shows how a rational potency is related to opposites, i.e., it is capable of
opposites: Therefore potentialities that are in conjunction with reason, i.e.,
rational potencies, are capable of contraries, not only of two, but even of
many; for example, a physician by the art of medicine can employ many pairs of
contraries and he can abstain from doing or not doing many things. He begins
with "therefore” so as to imply that this follows from what has been
said.”’ The argument would be: properties of opposites are opposites; an
irrational potency, because it is irrational, does not extend itself to
opposites; therefore a rational potency, because it is rational, has access to
opposites. Cajetanus lib. 2 l. 11 n. 7Tertio, explanat id quod dixit de
potentiis irrationalibus, propter causam infra assignandam ab ipso; et intendit
quod illud quod dixit de potentia irrationali, scilicet quod non potest in
opposita, non est verum universaliter, sed particulariter. Ubi nota quod
potentia irrationalis dividitur in potentiam activam, quae est principium
faciendi, et potentiam passivam, quae est principium patiendi: verbi gratia,
potentia ad calorem dividitur in posse calefacere, et in posse calefieri. In
potentiis activis irrationalibus verum est quod non possunt in opposita, ut
declaratum est; in potentiis autem passivis non est verum. Illud enim quod
potest calefieri, potest etiam frigefieri, quia eadem est materia, seu potentia
passiva contrariorum, ut dicitur in II de caelo et mundo, et potest non
calefieri, quia idem est subiectum privationis et formae, ut dicitur in I
Physic. Et propter hoc ergo explanando, ait: irrationales vero potentiae non
omnes a posse in opposita excludi intelligendae sunt, sed illae quae sunt
quemadmodum potentia ignis calefactiva (ignem enim non posse non calefacere
manifestum est), et universaliter, quaecunque alia sunt talis potentiae, quod
semper agunt, idest quod quantum est ex se non possunt non agere, sed ad semper
agendum ex sua forma necessitantur. Huiusmodi autem sunt, ut declaravimus,
omnes potentiae activae irrationales. Alia vero sunt talis conditionis quod
etiam secundum irrationales potentias, scilicet passivas, simul possunt in
quaedam opposita, ut aer potest calefieri et frigefieri. Quod vero ait, simul,
cadit supra ly possunt, et non supra ly opposita; et est sensus, quod simul
aliquid habet potentiam passivam ad utrunque oppositorum, et non quod habeat
potentiam passivam ad utrunque oppositorum simul habendum. Opposita namque
impossibile est haberi simul. Unde et dici solet et bene, quod in huiusmodi est
simultas potentiae, non potentia simultatis. Irrationalis igitur potentia non
secundum totum suum ambitum a posse in opposita excluditur, sed secundum partem
eius, secundum potentias scilicet activas. Thirdly, he explains what he has
said about irrational potencies. He will assign the reason for doing this
later. He makes the point that what he has said about irrational potentiality,
i.e., that it is not capable of opposites, is not true universally, but
particularly. It should be noted here that irrational potency is divided into
active potency, which is the principle of acting, and passive potency, which is
the principle of being acted upon; e.g., potency to heat is divided into
potentiality to heat and potentiality to be heated. Now it is true that active
irrational potencies are not capable of opposites, as was explained. This is
not true, however, of passive potencies, for what can be heated can also be
cooled, because the mat ter is the same, i.e., the passive potency of
contraries, as is said in II De caelo et mundo [7: 286a 23]. It can also not be
heated, since the subject of privation and of form is the same, as is said in I
Physic [7: 189b 32]. Therefore, in explaining about irrational potencies, he
says, But not all irrational potentialities should be understood to be excluded
from the capacity of opposites. Those like the potentiality of fire to heat are
to be excluded (for it is evident that fire cannot not heat) I and universally,
whatever others are potencies of such a kind that they always act, i.e., the
ones that of themselves cannot not act, but are necessitated by their form
always to act. All active irrational potencies are of this kind, as we have
explained. There are others, however, of such a condition that even though they
are irrational potencies (i.e., passive) are simultaneously capable of certain
opposites; for example, air can be heated and cooled. "Simultaneously”
modifies "are capable” and not "opposites.” What he means is that the
thing simultaneously has a passive potency to each opposite, and not that it
has a passive potency to have both opposites simultaneously, for it is
impossible to have opposites at one and the same time. Hence it is customary
and correct to say that in these there is simultaneity of potency, not potency
of simultaneity. Therefore, irrational potency is excluded from the capacity of
opposites, not completely, but according to its part, namely, according to
active potencies. 8. Quia autem videbatur superflue addidisse differentias
inter activas et passivas irrationales, quia sat erat proposito ostendisse quod
non omnis potentia oppositorum est; ideo subdit quod hoc idcirco dictum est, ut
notum fiat quoniam nedum non omnis potestas oppositorum est, loquendo de
potentia communissime, sed neque quaecunque potentiae dicuntur secundum eamdem
speciem ad opposita possunt. Potentiae siquidem irrationales omnes sub una
specie irrationalis potentiae concluduntur, et tamen non omnes in opposita
possunt, sed passive tantum. Non supervacanea ergo fuit differentia inter
passivas et activas irrationales, sed necessaria ad declarandum quod non omnes
potentiae eiusdem speciei possunt in opposita. Potest et ly hoc demonstrare
utranque differentiam, scilicet, inter rationales et irrationales, et inter
irrationales activas et passivas inter se; et tunc est sensus, quod hoc ideo
fecimus, ut ostenderemus quod non omnis potestas, quae scilicet secundum eamdem
rationem potentiae physicae dicitur, quia scilicet potest in aliquid ut
rationalis et irrationalis, neque etiam omnis potestas, quae sub eadem specie
continetur, ut irrationalis activa et passiva sub specie irrationalis, ad
opposita potest. Because it might seem superfluous to have added the
differences between active and passive irrational potencies, since enough had
already been said to show that not every potency is of opposites, Aristotle
gives the reason for this. It was not only to make it known that not every
potency is of opposites, speaking of potency most commonly, but also that not
all that are called potencies according to the same species are capable of
opposites. For all irrational potencies are included under one species of
irrational potency, and yet not all are capable of opposites, but only the
passive potencies. It was not superfluous, therefore, to point out the
difference between passive and active irrational potencies, since this was
necessary in order to show that not all potencies of the same species are capable
of opposites. " This” in the phrase "this has been said” could
designate each difference, the one between rational and irrational potencies,
and the one between active and passive irrational potencies. The meaning is,
then, that we have said this to show that not every potentiality which is said
according to the same notion of physical power—namely, because it can be in
something as rational and irrational—not even every potentiality which is
contained under the same species, as active and passive under the species
irrational, is capable of opposites. XII. 1. Intendit declarare quomodo illae
quae aequivocae dicuntur potentiae, se habeant ad opposita. Et circa hoc duo
facit: primo, declarat naturam talis potentiae; secundo, ponit differentiam et convenientiam
inter ipsas et supradictas, ibi: et haec quidem et cetera. Ad evidentiam primi
advertendum est quod V et IX Metaphys., Aristoteles dividit potentiam in
potentias, quae eadem ratione potentiae dicuntur, et in potentias, quae non ea
ratione qua praedictae potentiae nomen habent, sed alia. Et has appellat
aequivoce potentias. Sub primo membro comprehenduntur omnes potentiae activae,
et passivae, et rationales, et irrationales. Quaecunque enim posse dicuntur per
potentiam activam vel passivam quam habeant, eadem ratione potentiae sunt, quia
scilicet est in eis vis principiata alicuius activae vel passivae. Sub secundo
autem membro comprehenduntur potentiae mathematicales et logicales. Mathematica
potentia est, qua lineam posse dicimus in quadratum, et eo quod in semetipsam
ducta quadratum constituit. Logica potentia est, qua duo termini coniungi
absque contradictione in enunciatione possunt. Sub logica quoque potentia
continetur quae ea ratione potentia dicitur, quia est. Hae vero merito
aequivoce a primis potentiae dicuntur, eo quod istae nullam virtutem activam
vel passivam praedicant; et quod possibile istis modis dicitur, non ea ratione
possibile appellatur quia aliquis habeat virtutem ad hoc agendum vel patiendum,
sicut in primis. Unde cum potentiae habentes se ad opposita sint activae vel
passivae, istae quae aequivocae potestates dicuntur ad opposita non se habent.
De his ergo loquens ait: quaedam vero potestates aequivocae sunt, et ideo ad
opposita non se habent. Aristotle now proposes to show in what way potencies
that are called equivocal are related to opposites. He first explains the
nature of this kind of potency, and then gives the difference and agreement all
between these and the foresaid, where he says, This latter potentiality is only
in that which is movable, but the former is also in the immovable, etc. In V
and IX Metaphysicae [V, 12: 1019a 15; 12, 1: 1046a 4], Aristotle divides
potency into those that are called potencies for the same reason, and those
that have the name potency for another reason than the aforesaid potencies. The
latter are named "potencies” equivocally. Under the first member are
included all active and passive, rational and irrational potencies, for
whatever are said to be possible through the active or passive potency they
have, are potencies for the same reason, i.e., because there is in them the
originative force of something active or passive. Mathematical and logical
potencies are included under the second member of this division. That by which
a line can lead to a square we call a mathematical potency, for a line
constitutes a square when protracted back to itself. That by which two terms
can be joined in an enunciation without contradiction is a logical potency.
Logical potency also comprises that which is called "potency” because it
is. The latter [mathematical and logical potencies] are named from the former
equivocally because they predicate no active or passive capacity; and what is
said to be possible in these ways is not termed possible in virtue of having
the capacity to do or undergo as in the first case. Hence, since the potencies
related to opposites are active or passive, the ones that are called
potentialities equivocally are not related to opposites. These, then, are the
potencies he speaks of when he says But some are called potentialities
equivocally, and therefore they are not related to opposites. Cajetanus lib. 2
l. 12 n. 2Deinde declarans qualis sit ista potestas aequivoce dicta, subdit
divisionem usitatam possibilis per quam hoc scitur, dicens: possibile enim non
uno modo dicitur, sed duobus. Et uno quidem modo dicitur possibile eo quod
verum est ut in actu, idest ut actualiter est; ut, possibile est ambulare,
quando ambulat iam: et omnino, idest universaliter possibile est esse, quoniam
est actu iam quod possibile dicitur. Secundo modo autem possibile dicitur
aliquid non ea ratione quia est actualiter, sed quia forsitan aget, idest quia
potest agere; ut possibile est ambulare, quoniam ambulabit. Ubi advertendum est
quod ex divisione bimembri possibilis divisionem supra positam potentiae
declaravit a posteriori. Possibile enim a potentia dicitur: sub primo siquidem
membro possibilis innuit potentias aequivoce; sub secundo autem potentias
univoce, activas scilicet et passivas. Intendebat ergo quod quia possibile
dupliciter dicitur, quod etiam potestas duplex est. Declaravit autem potestates
aequivocas ex uno earum membro tantum, scilicet ex his quae dicuntur possibilia
quia sunt, quia hoc sat erat suo proposito. To clarify the kind of potency that
is called equivocal, he gives the usual division of the possible through which
this is known. "Possible,” he says, is not said in one way, but in two.
Something is said to be possible because it is true as in act, i.e., inasmuch
as it actually is; for example, it is possible to walk when one is already
walking, and in gene eral, i.e., universally, that is said to be possible which
is possible to be because it is already in act. Something is said to be
possible in the second way, not because it actually is, but because it is about
to act, i.e., because it can act; for instance, it is possible for someone to
walk because be is about to walk. Notice here that by this two-membered
division of the possible he makes the division of potency posited above evident
a posteriori, for the possible is named from potency. Under the first member of
the possible he signifies potencies equivocally; under the second, potencies
univocally, i.e., active and passive potencies. He means to show, then, that
since possible is said in two ways, potentiality is also twofold. He explains
equivocal potentialities in terms of only one member, namely, those that are
called possible because they are, since this was sufficient for his purpose.
Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 3Deinde cum dicit: et haec quidem etc., assignat
differentiam inter utranque potentiam, et ait quod potentia haec ultimo dicta
physica, est in solis illis rebus, quae sunt mobiles; illa autem est et in
rebus mobilibus et immobilibus. Possibile siquidem a potentia dictum eo quod
possit agere, non tamen agit, inveniri non potest absque mutabilitate eius,
quod sic posse dicitur. Si enim nunc potest agere et non agit, si agere debet,
oportet quod mutetur de otio ad operationem. Id autem quod possibile dicitur eo
quod est, nullam mutabilitatem exigit in eo quod sic possibile dicitur. Esse
namque in actu, quod talem possibilitatem fundat, invenitur et in rebus
necessariis, et in immutabilibus, et in rebus mobilibus. Possibile ergo hoc,
quod logicum vocatur, communius est illo quod physicum appellari solet. When he
says, This latter potentiality is only in that which is movable, but the former
is also in the immovable, etc., he specifies the difference between each
potency. This last potency, he says, [possible because it can be] which is
called physical potency, is only in things that are movable; but the former is
in movable and immovable things. The possible that is named from the potency
which can act, but is not yet acting, cannot be found without the mutability of
that which is said to be possible in this way. For if that which can act now
and is not acting, should act, it is necessary that it be changed from rest to
operation. On the other hand, that which is called possible because it is,
requires no mutability in that which is said to be possible in this way, for to
be in act, which is the basis of such a possibility, is found in necessary
things, in immutable things, and in mobile things. Therefore, the possible
which is called logical, is more common than the one we customarily call
physical. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 4Deinde subdit convenientiam inter utrunque
possibile, dicens quod in utrisque potestatibus et possibilibus verum est non
impossibile esse, scilicet, ipsum ambulare, quod iam actu ambulat seu agit, et
quod iam ambulabile est; idest, in hoc conveniunt quod, sive dicatur possibile
ex eo quod actu est, sive ex eo quod potest esse, de utroque verificatur non
impossibile; et consequenter necessario verificatur possibile, quoniam ad non
impossibile sequitur possibile. Hoc est secundum genus possibilis, respectu
cuius Aristoteles supra dixit: et primum quidem etc., in quo non invenitur via
ad utrunque oppositorum, hoc, inquam, est possibile quod iam actu est. Quod
enim tali ratione possibile dicitur, iam determinatum est ex eo quod actu esse
suppositum est. Non ergo possibile omne ad utrunque possibile est, sive
loquamur de possibili physice, sive logice.Then he shows that there is a
correspondence between these possibles when he adds that not impossible to be
is true of both of these potentialities and possibles, e.g., to walk is not
impossible for that which is already walking in act, i.e., acting, and it is
not impossible for that which could now walk; that is, they agree in that not
impossible is verified of both—of either what is said to be possible from the
fact that it is in act or of what is said to be possible from the fact that it
could be. Consequently, the necessary is verified as possible, for possible
follows upon not impossible. The possible that is already in act is the second
genus of the possible in which access is not found to both opposites, of which
Aristotle spoke when he said, First of all this is not true of the
potentialities which are not according to reason, etc. For that which is said
to be possible because it is already in act is already determined, since it is
supposed as being in act. Therefore, not every possible is the possible of
alternatives, whether we speak of the physical possible or the logical.
Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 5Deinde cum dicit: sic igitur possibile etc.,
applicat determinatam veritatem ad propositum. Et primo, concludendo ex dictis,
declarat habitudinem utriusque possibilis ad necessarium, dicens quod hoc ergo
possibile, scilicet physicum quod est in solis mobilibus, non est verum dicere
et praedicare de necessario simpliciter: quia quod simpliciter necessarium est,
non potest aliter esse. Possibile autem physicum potest sic et aliter esse, ut
dictum est. Addit autem ly simpliciter, quoniam necessarium est multiplex.
Quoddam enim est ad bene esse, quoddam ex suppositione: de quibus non est
nostrum tractare, sed solummodo id insinuare. Quod ut praeservaret se ab illis
modis necessarii qui non perfecte et omnino habent necessarii rationem,
apposuit ly simpliciter. De tali enim necessario possibile physicum non
verificatur. Alterum autem possibile logicum, quod in rebus immobilibus
invenitur, verum est de illo enunciare, quoniam nihil necessitatis adimit. Et
per hoc solvitur ratio inducta ad partem negativam quaestionis. Peccabat siquidem
in hoc, quod ex necessario inferebat possibile ad utrunque quod convertitur in
oppositam qualitatem. When he says, So it is not true to say the latter
possible of what is necessary simply, etc., he applies the truth he has
determined to what has been proposed. First, by way of a conclusion from what
has been said, he shows the relationship of each possible to the necessary. So,
he says, it is not true to say and predicate this possible, namely physical,
which is only in mobile things, of the necessary simply, because what is
necessary simply cannot be otherwise. The physical possible, however, can be
thus and otherwise, as has been said. He adds "simply” because the
necessary is manifold. There is the necessary for well-being and there is also
the necessary from supposition, but it is not our business to treat these, only
to indicate them. In order, then, to avoid the modes of the necessary that do
not have the notion of the necessary perfectly and in every way, he adds
"simply.” Now the physical possible is not verified of this kind of
necessary [i.e., of the necessary simply], but it is true to enunciate the
logical possible, the one found in immovable things, of the necessary, since it
takes away nothing of the necessity. The argument introduced for the negative
part of this question”’ is destroyed by this. The error in that argument was
the inference—by way of conversion into the opposite quality—of the possible to
both alternatives from the necessary. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 6Deinde
respondet quaestioni formaliter intendens quod affirmativa pars quaestionis
tenenda sit, quod scilicet ad necessarium sequitur possibile; et assignat
causam. Quia ad partem subiectivam sequitur constructive suum totum universale;
sed necessarium est pars subiectiva possibilis: quia possibile dividitur in
logicum et physicum, et sub logico comprehenditur necessarium; ergo ad
necessarium sequitur possibile. Unde dicit: quare, quoniam partem, scilicet
subiectivam, suum totum universale sequitur, illud quod ex necessitate est, idest
necessarium, tamquam partem subiectivam, consequitur posse esse, idest
possibile, tamquam totum universale. Sed non omnino, idest sed non ita quod
omnis species possibilis sequatur; sicut ad hominem sequitur animal, sed non
omnino, idest non secundum omnes suas partes subiectivas sequitur ad hominem:
non enim valet: est homo, ergo est animal irrationale. Et per hoc confirmata
ratione adducta ad partem affirmativam, expressius solvit rationem adductam ad
partem negativam, quae peccabat secundum fallaciam consequentis, inferens ex
necessario possibile, descendendo ad unam possibilis speciem, ut de se patet. Then
he replies to the question formally. He states that the affirmative part of the
question must be held, namely, that the possible follows upon the necessary.
Next, he assigns the cause. The whole universal follows constructively upon its
subjective part; but the necessary is a subjective part of the possible,
because the possible is divided into logical and physical and under the logical
is comprehended the necessary; therefore, the possible follows upon the
necessary. Hence he says, Therefore, since the universal follows upon the part,
i.e., since the whole universal follows upon its subjective part, to be
possible to be, i.e., possible, as the whole universal, follows upon that which
necessarily is, i.e., necessary, as a subjective part. He adds: though not
every kind of possible does, i.e., not every species of the possible follows;
just as animal follows upon man, but not in every way, i.e., it does not follow
upon man according to all its subjective parts, for it is not valid to say,
"He is a man, therefore he is an irrational animal.” By this proof of the
validity of the affirmative part, Aristotle has explicitly destroyed the
reasoning adduced for the negative part, which, as is evident, erred according
to the fallacy of the consequent in inferring the possible from the necessary
by descending to one species of the possible. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 7Deinde
cum dicit: et est fortasse quidem etc., ordinat easdem modalium consequentias
alio situ, praeponendo necessarium omnibus aliis modis. Et circa hoc duo facit:
primo, proponit quod intendit; secundo, assignat causam dicti ordinis; ibi:
manifestum est autem et cetera. Dicit ergo: et est fortasse principium omnium
enunciationum modalium vel esse vel non esse, idest, affirmativarum vel
negativarum, necessarium et non necessarium. Et oportet considerare alia,
scilicet, possibile contingere et impossibile esse, sicut horum, scilicet,
necessarii et non necessarii, consequentia, hoc modo: consequentiae
enunciationum modalium secundum quatuor ordines alio convenienti situ ab
Aristotele positae et ordinatae: (Figura). Vides autem hic nihil immutatum,
nisi quod necessariae quae ultimum locum tenebant, primum sortitae sunt. Quod
vero dixit fortasse, non dubitantis, sed absque determinata ratione rem
proponentis est. When he says, Indeed the necessary and not necessary may well
be the principle of all that is or is not, etc., he disposes the same
consequences of modals in another arrangement, placing the necessary before all
the other modes. First he proposes the order of modals and then assigns the
cause of the order where he says, It is evident, then, from what has been said
that that which necessarily is, actually is, etc. Indeed, he says, the
necessary and not necessary may well be the principle of the "to be” or
"not to be” of all modal enunciations, i.e., the necessary and not
necessary is the principle of affirmatives or negatives. And the others, i.e., the
possible, contingent, and impossible to be must be considered as consequent to
these, i.e., to the necessary and not necessary. THE CONSEQUENTS OF MODAL
ENUNCIATIONS ACCORDING TO THE FOUR ORDERS, POSITED AND DISPOSED BY ARISTOTLE IN
ANOTHER APPROPRIATE ARRANGEMENT FIRST ORDER It is necessary to be It is not
possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be
SECOND ORDER It is necessary not to be It is not possible to be It is not
contingent to be It is impossible to be It is not necessary to be It is
possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be
FOURTH ORDER It is not necessary not to be It is possible to be It is
contingent to be It is not impossible to be Nothing is changed here except the
enunciations predicating necessity. They have been allotted the first place,
whereas in the former table they were placed last. When he says "may well
be,” it is not because he is in any doubt, but because he is proposing this
here without a determinate proof. 8. Deinde cum dicit: manifestum est
autemetc., intendit assignare causam dicti ordinis. Et primo, assignat causam,
quare praeposuerit necessarium possibili tali ratione. Sempiternum est prius
temporali; sed necessarium dicit sempiternitatem (quia dicit esse in actu,
excludendo omnem mutabilitatem, et consequenter temporalitatem, quae sine motu
non est imaginabilis), possibile autem dicit temporalitatem (quia non excludit
quin possit esse et non esse); ergo necesse merito prius ponitur quam
possibile. Unde dicit, proponendo minorem: manifestum est autem ex his quae
dicta sunt etc., tractando de necessario: quoniam id quod ex necessitate est,
secundum actum est totaliter, scilicet quia omnem excludit mutabilitatem et
potentiam ad oppositum: si enim mutari posset in oppositum aliquo modo, iam non
esset necessarium. Deinde subdit maiorem per modum antecedentis conditionalis:
quare si priora sunt sempiterna temporalibus et cetera. Ultimo ponit
conclusionem: et quae actu sunt omnino, scilicet necessaria, priora sunt
potestate, idest possibilibus, quae omnino actu esse non possunt, licet
compatiantur. When he says, It is evident, then, from what has been said that
that which necessarily is, actually is, etc., he gives the cause of this order.
First he gives the reason for placing the necessary before the possible: the
sempiternal is prior to the temporal; but "necessary” signifies
sempiternal (because it signifies "to be in act,” excluding all mutability
and consequently temporality, which is not imaginable without movement) and the
possible signifies temporality (since it does not exclude the possibility of
being and not being); therefore, the necessary is rightly placed before the
possible. He proposes the minor of this argument when he says, It is evident,
then, from what has been said in treating the necessary, that that which
necessarily is, is totally in act, since it excludes all mutability and potency
to the opposite—for if it could be changed into the opposite in any way, then
it would not be necessary. Next he gives the major, which is in the mode of an
antecedent conditional: and if eternal things are prior to temporal, etc.
Finally, he posits the conclusion: those that are wholly in act in every way,
namely necessary, are prior to the potential, i.e., to possibles, which do not
have being in act wholly although they are compatible with it. Cajetanus lib. 2
l. 12 n. 9Deinde cum dicit: et hae quidem etc., assignat causam totius ordinis
a se inter modales statuti, tali ratione. Universi triplex est gradus. Quaedam
sunt actu sine potestate, idest sine admixta potentia, ut primae substantiae,
non illae quas in praesenti diximus primas, eo quod principaliter et maxime
substent, sed illae quae sunt primae, quia omnium rerum sunt causae,
intelligentiae scilicet. Alia sunt actu cum possibilitate, ut omnia mobilia,
quae secundum id quod habent de actu sunt priora natura seipsis secundum id
quod habent de potentia, licet e contra sit, aspiciendo ordinem temporis. Sunt
enim secundum id quod habent de potentia priora tempore seipsis secundum id
quod habent de actu. Verbi gratia, Socrates prius secundum tempus poterat esse
philosophus, deinde fuit actualiter philosophus. Potentia ergo praecedit actum
secundum ordinem temporis in Socrate, ordine autem naturae, perfectionis et dignitatis
e converso contingit. Prior enim secundum dignitatem, idest dignior et
perfectior habebatur Socrates cum philosophus actualiter erat, quam cum
philosophus esse poterat. Praeposterus est igitur ordo potentiae et actus in
unomet, utroque ordine, scilicet, naturae et temporis attento. Alia vero
nunquam sunt actu sed potestate tantum, ut motus, tempus, infinita divisio
magnitudinis, et infinita augmentatio numeri. Haec enim, ut IX Metaphys.
dicitur, nunquam exeunt in actum, quoniam eorum rationi repugnat. Nunquam enim
aliquid horum ita est quin aliquid eius expectetur, et consequenter nunquam
esse potest nisi in potentia. Sed de his alio tractandum est loco. Then he
says, Some things are actualities without potentiality, namely, the primary
substances, etc. Here he assigns the cause of the whole order established among
modals. The grades of the universe are threefold. Some things are in act
without potentiality, i.e., not combined with potency. These are the primary
substances—not those we have called "first” in the present work because
they principally and especially sustain—but those that are first because they
are the causes of all things, namely, the Intelligences. In others, act is
accompanied with possibility, as is the case with all mobile things, which,
according to what they have of act, are prior in nature to themselves according
to what they have of potency, although the contrary is the case in regard to
the order of time. According to what they have of potency they are prior in
time to themselves according to what they have of act. For example, according
to time, Socrates first was able to be a philosopher, then he actually was a
philosopher. In Socrates therefore, potency precedes act according to the order
of time. The converse is the case, however, in the order of nature, perfection,
and dignity, for when he actually was a philosopher, Socrates was regarded as
prior according to dignity, i.e., more worthy and more perfect than when he was
potentially a philosopher. Hence, when we consider each order, i.e., nature and
time, in one and the same thing, the order of potency and act is reversed.
Others never are in act but are only in potency, e.g., motion, time, the
infinite division of magnitude, and the infinite augmentation of number. These,
as is said in IX Metaphysicae [6: 1048b 9-17], never terminate in act, for it
is repugnant to their nature. None of them is ever such that something of it is
not expected, and consequently they can only be in potency. These, however,
must be treated in another place. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 10 Nunc haec ideo
dicta sint ut, inspecto ordine universi, appareat quod illum imitati sumus in
nostro ordine. Posuimus siquidem primo necessarium, quod sonat actu esse sine
potestate seu mutabilitate, imitando primum gradum universi. Locavimus secundo
loco possibile et contingens, quorum utrunque sonat actum cum possibilitate, et
sic servatur conformitas ad secundum gradum universi. Praeposuimus autem
possibile et non contingens, quia possibile respicit actum, contingens autem
secundum vim nominis respicit defectum causae, qui ad potentiam pertinet:
defectus enim potentiam sequitur; et ex hoc conforme est secundae parti
universi, in qua actus est prior potentia secundum naturam, licet non secundum
tempus. Ultimum autem locum impossibili reservavimus, eo quod sonat nunquam
fore, sicut et ultima universi pars dicta est illa, quae nunquam actu est.
Pulcherrimus igitur ordo statutus est, quando divinus est observatus. This has
been said so that once the order of the universe has been seen it should appear
that we were imitating it in our present ordering. The necessary, which
signifies "to be in act” without potentiality or mutability, has been
placed first, in imitation of the first grade of the universe. We have put the
possible and contingent, both of which signify act with possibility, in second
place in conformity with the second grade of the universe. The possible has
been Placed before the contingent because the possible relates to act whereas
the contingent, as the force of the name suggests, relates to the defect of a
cause-which pertains to potency, for defect follows upon potency. The order of
these is similar to the order in the second part of the universe, where act is
prior to potency according to nature, though not according to time. We have
reserved the last place for the impossible because it signifies what never will
be, just as the last part of the universe is said to be that which is never in
act. Thus, a beautifully proportioned order is established when the divine is
observed. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 11 Quia autem suppositae modalium
consequentiae nil aliud sunt quam aequipollentiae earum, quae ob varium
negationis situm, qualitatem, vel quantitatem, vel utranque mutantis, fiunt;
ideo ad completam notitiam consequentium se modalium, de earum qualitate et
quantitate pauca admodum necessaria dicenda sunt. Quoniam igitur natura totius
ex partium naturis consurgit, sciendum est quod subiectum enunciationis modalis
et dicit esse vel non esse, et est dictum unicum, et continet in se subiectum
dicti; praedicatum autem modalis enunciationis, modus scilicet, et totale
praedicatum est (quia explicite vel implicite verbum continet, quod est semper
nota eorum quae de altero praedicantur: propter quod Aristoteles dixit quod
modus est ipsa appositio), et continet in se vim distributivam secundum partes
temporis. Necessarium enim et impossibile distribuunt in omne tempus vel
simpliciter vel tale; possibile autem et contingens pro aliquo tempore in
communi. Since the consequents of modals, i.e., those placed under each other,
are their equivalents in meaning, and these are produced by the varying
position of the negation changing the quality or quantity or both, a few things
must be said about their quality and quantity to complete our knowledge of
them. The nature of the whole arises from the parts, and therefore we should
note the following things about the parts of the modal enunciation. The subject
of the modal enunciation asserts to be or not to be, and is a singular dictum,
and contains in itself the subject of the dictum. The predicate of a modal
enunciation, namely, the mode, is the total predicate (since it explicitly or
implicitly contains the verb, which is always a sign of something predicated of
another, for which reason Aristotle says that the mode is a determining
addition) and contains in itself distributive force according to the parts of
time. The necessary and impossible distribute in all time either simply or in a
limited way; the possible and contingent distribute according to some time
commonly. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 12 Nascitur autem ex his quinque
conditionibus duplex in qualibet modali qualitas, et triplex quantitas. Ex eo
enim quod tam subiectum quam praedicatum modalis verbum in se habet, duplex
qualitas fit, quarum altera vocatur qualitas dicti, altera qualitas modi. Unde
et supra dictum est aliquam esse affirmativam de modo et non de dicto, et e
converso. Ex eo vero quod subiectum modalis continet in se subiectum dicti, una
quantitas consurgit, quae vocatur quantitas subiecti dicti: et haec
distinguitur in universalem, particularem et singularem, sicut et quantitas
illarum de inesse. Possumus enim dicere, Socratem, quemdam hominem, vel omnem
hominem, vel nullum hominem, possibile est currere. Ex eo autem quod subiectum
unius modalis dictum unum est, consurgit alia quantitas, vocata quantitas
dicti; et haec unica est singularitas: secundum omne enim dictum cuiusque
modalis singulare est istius universalis, scilicet dictum. Quod ex eo liquet
quod cum dicimus, hominem esse album est possibile, exponitur sic, hoc dictum,
hominem esse album, est possibile. Hoc dictum autem singulare est, sicut et,
hic homo. Propterea et dicitur quod omnis modalis est singularis quoad dictum,
licet quoad subiectum dicti sit universalis vel particularis. Ex eo autem quod
praedicatum modalis, modus scilicet, vim distributivam habet, alia quantitas
consurgit vocata quantitas modi seu modalis; et haec distinguitur in universalem
et particularem. As a consequence of these five conditions there is a twofold
quality and a threefold quantity in any modal. The twofold quality results from
the fact that both the subject and the predicate of a modal have a verb in
them. One of these is called the quality of the dictum, the other the quality
of the mode. This is why it was said above that there is an enunciation which
is affirmative of mode and not of dictum, and conversely. Of the threefold
quantity of a modal enunciation, one arises from the fact that the subject of
the modal contains in it the subject of the dictum. This is called the quantity
of the subject of the dictum, and is distinguished into universal, particular,
and singular, as in the case of the quantity of an absolute enunciation. For we
can say: "That ‘Socrates,’ ‘some man,’ ‘every man,”’ or "‘no man,’
run is possible’ " The second quantity is that of the dictum, which arises
from the fact that the subject of one modal is one dictum. This is a unique
singularity, for every dictum of a modal is the singular of that universal, i.e.,dictum.
"That man be white is possible” means "This dictum, ‘that man be
white,’ is possible.” "This dictum” is singular in quantity, just as
"this man” is. Hence, every modal is singular with respect to dictum,
although with respect to the subject of the dictum it is universal or
particular. The third quantity is that of the mode, or modal quantity, which
arises from the fact that the predicate of the modal, i.e., the mode, has
distributive force. This is distinguished into universal and particular. Cajetanus
lib. 2 l. 12 n. 13 Ubi diligenter duo attendenda sunt. Primum est quod hoc est
singulare in modalibus, quod praedicatum simpliciter quantificat propositionem
modalem, sicut et simpliciter qualificat. Sicut enim illa est simpliciter
affirmativa, in qua modus affirmatur, et illa negativa, in qua modus negatur;
ita illa est simpliciter universalis cuius modus est universalis, et illa
particularis cuius modus est particularis. Et hoc quia modalis modi naturam
sequitur. Secundum attendendum (quod est causa istius primi) est, quod
praedicatum modalis, scilicet modus, non habet solam habitudinem praedicati
respectu sui subiecti, scilicet esse et non esse, sed habitudinem
syncategorematis distributivi, sed non secundum quantitatem partium
subiectivarum ipsius subiecti, sed secundum quantitatem partium temporis
eiusdem. Et merito. Sicut enim quia subiecti enunciationis de inesse propria
quantitas est penes divisionem vel indivisionem ipsius subiecti (quia est nomen
quod significat per modum substantiae, cuius quantitas est per divisionem
continui: ideo signum quantificans in illis distribuit secundum partes
subiectivas), ita quia subiecti enunciationis modalis propria quantitas est
tempus (quia est verbum quod significat per modum motus, cuius propria quantitas
est tempus), ideo modus quantificans distribuit ipsum suum subiectum, scilicet,
esse vel non esse, secundum partes temporis. Unde subtiliter inspicienti
apparebit quod quantitas ista modalis proprii subiecti modalis enunciationis
quantitas est, scilicet, ipsius esse vel non esse. Ita quod illa modalis est
simpliciter universalis, cuius proprium subiectum distribuitur pro omni
tempore: vel simpliciter, ut, hominem esse animal est necessarium vel
impossibile; vel accepto, ut, hominem currere hodie, vel, dum currit, est
necessarium vel impossibile. Illa vero est particularis, in qua non pro omni,
sed aliquo tempore distributio fit in communi tantum; ut, hominem esse animal,
est possibile vel contingens. Est ergo et ista modalis quantitas subiecti sui
passio (sicut et universaliter quantitas se tenet ex parte materiae), sed
derivatur a modo, non in quantum praedicatum est (quod, ut sic, tenetur
formaliter), sed in quantum syncategorematis officio fungitur, quod habet ex eo
quod proprie modus est. Now, there are two things about modal enunciations that
must be carefully noted. The first—which is peculiar to modals—is that the
predicate quantifies the modal proposition simply, as it also qualifies it
simply. For just as the modal enunciation in which the mode is affirmed is
affirmative simply, and negative when the mode is negated, so the modal
enunciation in which the mode is universal is universal simply and particular
in which the mode is particular. The reason for this is that the modal follows
the nature of the mode. The second thing to be noted (which is the cause of the
first) is that the predicate of a modal, i.e., the mode, not only has the
relationship of a predicate to its subject (i.e., to "to be” and "not
to be”), but also has the relationship to the subject, of a distributive
syncategorematic term, which has the effect of distributing the subject, not
according to the quantity of its subjective parts, but according to the
quantity of the parts of its time. And rightly so, for just as the proper
quantity of the subject of an absolute enunciation varies according to the
division or lack of division of its subject (since the subject is a name which
signifies in the mode of substance, whose quantity is from the division of the
continuous, and therefore the quantifying sign distributes according to the
subjective parts), so, because the proper quantity of the subject of a modal
enunciation is time (since the subject is a verb, which signifies in the mode
of movement, whose proper quantity is time), the quantifying mode distributes
the subject, i.e., "to be” or "not to be” according to the parts of
time. Hence, we arrive at the subtle point that the quantity of the modal is
the quantity of the proper subject of the modal enunciation, namely, of "to
be” or "not to be.” Therefore, a modal enunciation is universal simply
when the proper subject is distributed throughout all time, either simply, as
in "That man is an animal is necessary or impossible,” or taken in a
limited way, as in "That man is running today,” or "while he is
running, is necessary or impossible.” A modal enunciation is particular in
which "to be” or "not to be” is distributed, not throughout all time,
but commonly throughout some time, as in "That man is an animal is
possible or contingent.” This modal quantity is therefore also a property of
its subject (in that, universally, quantity comes from the matter) but is
derived from the mode, not insofar as it is a predicate (because, as such, it
is understood formally), but insofar as it performs a syncategorematic
function, which it has in virtue of the fact that it is properly a mode.
Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 14 Sunt igitur modalium (de propria earum quantitate
loquendo) aliae universales affirmativae, ut illae de necessario, quia
distribuunt ad semper esse; aliae universales negativae, ut illae de
impossibili, quia distribuunt ad nunquam esse; aliae particulares affirmativae,
ut illae de possibili et contingenti, quia distribuunt utrunque ad aliquando
esse; aliae particulares negativae, ut illae de non necesse et non impossibili,
quia distribuunt ad aliquando non esse: sicut in illis de inesse, omnis,
nullus, quidam, non omnis, non nullus, similem faciunt diversitatem. Et quia,
ut dictum est, haec quantitas modalium est inquantum modales sunt, et de his,
inquantum huiusmodi, praesens tractatus fit ab Aristotele; idcirco
aequipollentiae, seu consequentiae earum, ordinatae sunt negationis vario situ,
quemadmodum aequipollentiae illarum de inesse: ut scilicet, negatio praeposita
modo faciat aequipollere suae contradictoriae; negatio autem modo postposita,
posita autem dicti verbo, suae aequipollere contrariae facit; praeposita vero
et postposita suae subalternae, ut videre potes in consequentiarum figura
ultimo ab Aristotele formata. In qua, tali praeformata oppositionum figura,
clare videbis omnes se mutuo consequentes, secundum alteram trium regularum
aequipollere, et consequenter, totum primum ordinem secundo contrarium, tertio
contradictorium, quarto vero subalternum. (Figura). Therefore, with respect to
their proper quantity, some modals are universal affirmatives, i.e., those of
the necessary because they distribute "to be” to all time. Others are
universal negatives, i.e., those of the impossible because they distribute
"to be” to no time. Still others are particular affirmatives, i.e., those
signifying the possible and contingent, for both of these distribute "to
be” to some time. Finally, there are particular negatives, i.e., those of the
not necessary and not impossible, for they distribute "not to be” to some
time. This is similar to the diversity in absolute enunciations from the use of
"every,” "no” "some,” not all,” and "not none.” Now, since
this quantity belongs to modals insofar as they are modals, as has been said,
and since Aristotle is now considering them in this particular respect, the
modal enunciations that are equivalent, i.e., their consequents, are ordered by
the different location of the negation, as is the case with absolute
enunciations that are equivalent. A negative placed before the mode makes an
enunciation equivalent to its contradictory; placed after the mode, i.e., with
the verb of the dictum, makes it equivalent to its contrary; placed before and
after the mode makes it equivalent to its subaltern, as you can see in the last
table of consequents given by Aristotle. In that table of oppositions, you see
all the mutual consequents, according to one of the three rules for making
enunciations equivalent. Consequently, the whole first order of equivalent
enunciations is contrary to the second, contradictory to the third, and the
fourth is subalternated to it. Necessary to be - contraries - Impossible to be
subalterns subalterns Possible to be - subcontraries - Contingent not to be
TABLE OF OPPOSITION OF EQUIPOLLENT MODALS This table is not Cajetan’s but is a
full arrangement of the orders of modal enunciations asdeveloped in this
lesson. Close I Universal Affirmatives It is necessary to be It is not possible
not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be contraries
II Universal Negatives It is necessary not to be It is not possible to be It is
not contingent to be It is impossible to be subalterns subalterns IV Particular
Affirmatives It is not necessary not to be It is possible to be It is
contingent to be It is not impossible to be subcontraries III Particular
Negatives It is not necessary to be It is possible not to be It is contingent
not to be It is not impossible not to be. XIII. 1 Postquam determinatum est de
enunciatione secundum quod diversificatur tam ex additione facta ad terminos,
quam ad compositionem eius, hic secundum divisionem a s. Thoma in principio
huius secundi factam, intendit Aristoteles tractare quandam quaestionem circa
oppositiones enunciationum provenientes ex eo quod additur aliquid simplici
enunciationi. Et circa hoc quatuor facit: primo, movet quaestionem secundo,
declarat quod haec quaestio dependet ab una alia quaestione praetractanda; ibi:
nam si ea, quae sunt in voce etc.; tertio, determinat illam aliam quaestionem;
ibi: nam arbitrari etc.; quarto, redit ad respondendum quaestioni primo motae;
ibi: quare si in opinione et cetera. Quaestio quam movere intendit est: utrum
affirmativae enunciationi contraria sit negatio eiusdem praedicati, an
affirmatio de praedicato contrario seu privativo? Unde dicit: utrum contraria
est affirmatio negationi contradictoriae, scilicet, et universaliter oratio
affirmativa orationi negativae; ut, affirmativa oratio quae dicit, omnis homo
est iustus, illi contraria sit orationi negativae, nullus homo est iustus, aut
illi, omnis homo est iniustus, quae est affirmativa de praedicato privativo? Et
similiter ista affirmatio, Callias est iustus, est ne contraria illi
contradictoriae negationi, Callias non est iustus, aut illi, Callias est
iniustus, quae est affirmativa de praedicato privativo? Now that he has treated
the enunciation as it is diversified by an addition made to the terms and by an
addition made to its composition (which is the division of the text made by St.
Thomas at the beginning of the second book), Aristotle takes up another
question about oppositions of enunciations. This question concerns the
oppositions that result from something added to the simple enunciation. First
he asks the question; secondly, he shows that this question depends upon another,
which must be treated first, where he says, For if those things that are in
vocal sound are determined by those in the intellect, etc.; third, he settles
the latter question where he says, It is false, course, to suppose that
opinions are to be defined as contrary because they are about contraries, etc.;
finally, he replies to the first question where he says, If, therefore, this is
the case with respect to opinion, and affirmations and negations in vocal sound
are signs of those in the soul, etc. The first question he raises is this: is
the contrary of an affirmative enunciation the negation of the same predicate
or the affirmation of a contrary or privative predicate? Hence he says, There
is a question as to whether the contrary of an affirmation is the contradictory
negation, and universally, whether affirmative speech is contrary to negative
speech. For instance, is affirmative speech which says "Every man is
just,” contrary to negative speech which says "No man is just,” or to the
affirmative of the privative predicate, "Every man is unjust”? And
similarly, is the affirmation "Callias is just” contrary to the
contradictory negation, "Callias is not just” or is it contrary to
"Callias is unjust,” the affirmative of the privative predicate? Cajetanus
lib. 2 l. 13 n. 2Ad evidentiam tituli huius quaestionis, quia hactenus
indiscusse ab aliis est relictus, considerare oportet quod cum in enunciatione
sint duo, scilicet ipsa enunciatio seu significatio et modus enunciandi seu
significandi, duplex inter enunciationes fieri potest oppositio, una ratione
ipsius enunciationis, altera ratione modi enunciandi. Si modos enunciandi
attendimus, duas species oppositionis in latitudine enunciationum inveniemus,
contrarietatem scilicet et contradictionem. Divisae enim superius sunt
enunciationes oppositae in contrarias et contradictorias. Contradictio inter
enunciationes ratione modi enunciandi est quando idem praedicatur de eodem
subiecto contradictorio modo enunciandi; ut sicut unum contradictorium nil
ponit, sed alterum tantum destruit, ita una enunciatio nil asserit, sed id
tantum quod altera enunciabat destruit. Huiusmodi autem sunt omnes quae
contradictoriae vocantur, scilicet, omnis homo est iustus, non omnis homo est
iustus, Socrates est iustus, Socrates non est iustus, ut de se patet. Et ex hoc
provenit quod non possunt simul verae aut falsae esse, sicut nec duo
contradictoria. Contrarietas vero inter enunciationes ratione modi enunciandi
est quando idem praedicatur de eodem subiecto contrario modo enunciandi; ut sicut
unum contrariorum ponit materiam sibi et reliquo communem in extrema distantia
sub illo genere, ut patet de albo et nigro, ita una enunciatio ponit subiectum
commune sibi et suae oppositae in extrema distantia sub illo praedicato.
Huiusmodi quoque sunt omnes illae quae contrariae in figura appellantur,
scilicet, omnis homo est iustus, omnis homo non est iustus. Hae enim faciunt
subiectum, scilicet hominem, maxime distare sub iustitia, dum illa enunciat
iustitiam inesse homini, non quocunque modo, sed universaliter; ista autem
enunciat iustitiam abesse homini, non qualitercunque, sed universaliter. Maior
enim distantia esse non potest quam ea, quae est inter totam universitatem
habere aliquid et nullum de universitate habere illud. Et ex hoc provenit quod
non possunt esse simul verae, sicut nec contraria possunt eidem simul inesse;
et quod possunt esse simul falsae, sicut et contraria simul non inesse eidem
possunt. Si vero ipsam enunciationem sive eius significationem attendamus
secundum unam tantum oppositionis speciem, in tota latitudine enunciationum
reperiemus contrarietatem, scilicet secundum veritatem et falsitatem: quia
duarum enunciationum significationes entia positiva sunt, ac per hoc neque
contradictorie neque privative opponi possunt, quia utriusque oppositionis
alterum extremum est formaliter non ens. Et cum nec relative opponantur, ut
clarum est, restat ut nonnisi contrarie opponi possunt. Since this question has
not been discussed by others, we must begin by noting that there are two things
in an enunciation, namely, the enunciation itself, i.e., the signification, and
the mode of enunciating or signifying. Hence, a twofold opposition can be made
between enunciations, one by reason of the enunciation itself, the other by
reason of the mode of enunciating. If we consider the modes of enunciating, we
find two species of opposition among enunciations, namely, contrariety and
contradiction. This point was made earlier when opposed enunciations were
divided into contraries and contradictories. There is contradiction by reason
of mode of enunciating when the same thing is predicated of the same subject in
a contradictory mode; so that just as one of a pair of contradictories posits
nothing but only destroys the other, so one enunciation 4 asserts nothing, but
only destroys what the other was enunciating. All enunciations that are called
contradictories are of this kind; e.g., "Every man is just,” "Not
every man is just”; "Socrates is just,” "Socrates is not just.” It
follows from this that they cannot be at once true or false, just as two
contradictories cannot be at once. There is contrariety between enunciations by
reason of mode of enunciating when the same thing is predicated of the same
subject in a contrary mode of enunciating; so that just as one of a pair of
contraries posits matter common to itself and to the other which is at the
extreme distance under that genus—as is evident for instance in white and
black—so one enunciation posits a subject common to itself and its opposite at
the extreme distance under that predicate. All the enunciations in the diagram
that are called contrary are of this kind, for example, "Every man is
just,” "No man is just.” These make the subject "man” distant to the
greatest degree possible under justice, one enunciating justice to be in man,
not in any way, but universally, the other enunciating justice to be absent
from man, not in any way, but universally. For no distance can be greater than
the distance between the total number of things having something and none of
the total number of things having that thing. It follows that contrary
enunciations cannot be at once true, just as contraries cannot be in the same
thing at once. They can, however, be false at the same time, just as it is
possible that contraries not be in the same thing at the same time. If we
consider the enunciation itself (viz., its signification) according to only one
species of opposition, we will find in the whole range of enunciations an
opposition of contrariety, i.e., an opposition according to truth and falsity.
The reason for this is that the significations of two enunciations are
positive, and accordingly cannot be opposed either contradictorily or
privatively because the other extreme of both of these oppositions is formally
non-being. And since significations are not opposed relatively, as is evident,
the only way they can be opposed is contrarily. Cajetanus lib. 2 l. 13 n.
3Consistit autem ista contrarietas in hoc quod duarum enunciationum altera
alteram non compatitur vel in veritate vel in falsitate, praesuppositis semper
conditionibus contrariorum, scilicet quod fiant circa idem et in eodem tempore.
Patere quoque potest talem oppositionem esse contrarietatem ex natura
conceptionum animae componentis et dividentis, quarum singulae sunt enunciationes.
Conceptiones siquidem animae adaequatae nullo alio modo opponuntur
conceptionibus inadaequatis nisi contrarie, et ipsae conceptiones inadaequatae,
si se mutuo expellunt, contrariae quoque dicuntur. Unde verum et falsum,
contrarie opponi probatur a s. Thoma in I parte, qu. 17. Sicut ergo hic, ita et
in enunciationibus ipsae significationes adaequatae contrarie opponuntur
inadaequatis, idest verae falsis; et ipsae inadaequatae, idest falsae,
contrarie quoque opponuntur inter se, si contingat quod se non compatiantur,
salvis semper contrariorum conditionibus. Est igitur in enunciationibus duplex
contrarietas, una ratione modi, altera ratione significationis, et unica
contradictio, scilicet ratione modi. Et, ut confusio vitetur, prima contrarietas
vocetur contrarietas modalis, secunda contrarietas formalis. Contradictio autem
non ad confusionis vitationem quia unica est, sed ad proprietatis expressionem
contradictio modalis vocari potest. Invenitur autem contrarietas formalis
enunciationum inter omnes contradictorias, quia contradictoriarum altera
alteram semper excludit; et inter omnes contrarias modaliter quoad veritatem,
quia non possunt esse simul verae, licet non inveniatur inter omnes quoad
falsitatem, quia possunt esse simul falsae. The contrariety spoken of here
consists in this: of two enunciations one is not compatible with the other
either in truth or falsity—presupposing always the conditions for contraries,
that they are about the same thing and at once. It can be shown that such
opposition is contrariety from the nature of the conceptions of the soul when
composing and dividing, each of which is an enunciation. Adequate conceptions
of the soul are opposed to inadequate conceptions only contrarily, and
inadequate conceptions, if each cancels the other, are also called contraries.
It is from this that St. Thomas proves, in [Summa theologiae] part I, question
17, that the true and false are contrarily opposed. Therefore, as in the
conceptions of the soul, so in enunciations, adequate significations are
contrarily opposed to inadequate, i.e., true to false; and the inadequate,
i.e., the false, are also contrarily opposed among themselves if it happens
that they are not compatible, supposing always the conditions for contraries.
There is, therefore, in enunciations a twofold contrariety, one by reason of
mode, the other by reason of signification, and only one contradiction, that by
reason of mode. To avoid confusion, let us call the first contrariety modal and
the second formal. We may call contradiction modal—not to avoid confusion since
it is unique—but for propriety of expression. Formal contrariety is found
between all contradictory enunciations, since one contradictory always excludes
the other. It is also found between all modally contrary enunciations in regard
to truth, since they cannot be at once true. However it is not found between
the latter in regard to falsity, since they can be at once false. Cajetanus
lib. 2 l. 13 n. 4Quia igitur Aristoteles in hac quaestione loquitur de contrarietate
enunciationum quae se extendit ad contrarias modaliter, et contradictorias, ut
patet in principio et in fine quaestionis (in principio quidem, quia proponit
utrasque contradictorias dicens: affirmatio negationi etc.; et contrarias
modaliter dicens: et oratio orationi etc., unde et exempla utrarunque statim
subdit, ut patet in littera. In fine vero, quia ibi expresse quam conclusit
esse contrariam affirmativae universali verae dividit, in contrariam modaliter
universalem negativam, scilicet, et contradictoriam: quae divisio falsitate non
careret, nisi conclusisset contrariam formaliter, ut de se patet), quia,
inquam, sic accipit contrarietatem, ideo de contrarietate formali enunciationum
quaestio intelligenda est. Et est quaestio valde subtilis, necessaria et adhuc
nullo modo superius tacta. Est igitur titulus quaestionis; utrum affirmativae
verae contraria formaliter sit negativa falsa eiusdem praedicati, aut
affirmativa falsa de praedicato, vel contrario? Et sic patet quis sit sensus
tituli, et quare non movet quaestionem de quacunque alia oppositione
enunciationum (quia scilicet nulla alia in eis formaliter invenitur), et quod
accipit contrarietatem proprie et strictissime, licet talis contrarietas
inveniatur inter contradictorias modaliter et contrarias modaliter. Dictum vero
fuit a s. Thoma provenire hanc dubitationem ex eo quod additur aliquid simplici
enunciationi, quia si tantum simplices, idest, de secundo adiacente
enunciationes attendantur, non habet haec quaestio radicem. Quia autem simplici
enunciationi, idest subiecto et verbo substantivo, additur aliquid, scilicet
praedicatum, nascitur dubitatio circa oppositionem, an illud additum in
contrariis debeat esse illudmet praedicatum, negatione apposita verbo, an
debeat esse praedicatum contrarium seu privativum, absque negatione praeposita
verbo. Aristotle in this question is speaking of the contrariety of
enunciations that extends to contraries modally and to contradictories. This is
evident from what he says in the beginning and at the end of the question. In
the beginning, he proposes both contradictories when he says, an affirmation...
to a negation, etc.; and contraries modally, when he says, and in the case of
speech whether the one saying... is opposed to the one saying... etc. It is
evident, too, from the examples immediately added. At the end, he explicitly
divides what he has concluded to be contrary to a true universal affirmative,
into the modally contrary universal negative and the contradictory. It is clear
at once that this division would be false unless it comprised the contrary
formally. Since he takes contrariety in this way the question must be
understood with respect to formal contrariety of enunciations. This is a very
subtle question and one that has to be treated and has not been thus far. The
question, therefore, is this: whether the formal contrary of the true
affirmative is the false negative of the same predicate or the false
affirmative of the privative predicate, i.e., of the contrary. The meaning of
the question is now clear, and it is evident why he does not ask about any
other oppositions of enunciations-no other opposition is found in them
formally. It is also evident that he is taking contrariety properly and
strictly, notwithstanding the fact that such contrariety is found among
contradictories modally and contraries modally. St. Thomas has already pointed
out that this question arises from the fact that something is added to the
simple enunciation, for as it far as simple enunciations are concerned, i.e.,
those with only a second determinant, there is no occasion for the question.
When, however, something is added, namely a predicate, to the simple
enunciation, i.e., to the subject and the substantive verb, the question arises
as to whether what ought to be added in contrary enunciations is the selfsame
predicate with a negation added to the verb or a contrary, i.e., privative,
predicate without a negation added to the verb. 5. Deinde cum dicit: nam siea
etc., declarat unde sumenda sit decisio huius quaestionis. Et duo facit: quia
primo declarat quod haec quaestio dependet ex una alia quaestione, ex illa
scilicet: utrum opinio, idest conceptio animae, in secunda operatione
intellectus, vera, contraria sit opinioni falsae negativae eiusdem praedicati,
an falsae affirmativae contrarii sive privativi. Et assignat causam, quare illa
quaestio dependet ex ista, quia scilicet enunciationes vocales sequuntur
mentales, ut effectus adaequati causas proprias, et ut significata signa
adaequata, et consequenter similis est in hoc utraque natura. Unde inchoans ab
hac causa ait: nam si ea quae sunt in voce sequuntur ea, quae sunt in anima, ut
dictum est in principio I libri, et illic, idest in anima, opinio contrarii
praedicati circa idem subiectum est contraria illi alteri, quae affirmat reliquum
contrarium de eodem (cuiusmodi sunt istae mentales enunciationes, omnis homo
est iustus, omnis homo est iniustus); si ita inquam est, etiam et in his
affirmationibus quae sunt in voce, idest vocaliter sumptis, necesse est
similiter se habere, ut scilicet sint contrariae duae affirmativae de eodem
subiecto et praedicatis contrariis. Quod si neque illic, idest in anima,
opinatio contrarii praedicati, contrarietatem inter mentales enunciationes
constituit, nec affirmatio vocalis affirmationi vocali contraria erit de
contrario praedicato, sed magis affirmationi contraria erit negatio eiusdem
praedicati. When Aristotle says, For if those things that are in vocal sound
are determined by those in the intellect, etc.; he shows where we have to begin
in order to settle this question. First he shows that the question depends on
another question, namely, whether a true opinion (i.e., a conception of the
soul in the second operation of the intellect) is contrary to a false negative
opinion of the same predicate, or to a false affirmative of the contrary, i.e.,
privative, predicate. Then he gives the reason why the former question depends
on this. Vocal enunciations follow upon mental as adequate effects upon proper
causes and as the signified upon adequate signs. So, in this the nature of each
is similar. He begins, then, with the reason for this dependence: For if those
things that are in vocal sound are determined by those in the intellect (as was
said in the beginning of the first book) and if in the soul, those opinions are
contrary which affirm contrary predicates about the same subject, (for example,
the mental enunciations, "Every man is just, "Every man is unjust”),
then in affirmations that are in vocal sound, the case must be the same. The
contraries will be two affirmatives about the same subject with contrary
predicates. But if in the soul this is not the case, i.e., that opinions with
contrary predicates constitute contrariety in mental enunciations, then the
contrary of a vocal affirmation will not be a vocal affirmation with a contrary
predicate. Rather, the contrary of an affirmation will be the negation of the
same predicate. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 6Dependet ergo mota quaestio ex ista
alia sicut effectus ex causa. Propterea et concludendo addit secundum, quod
scilicet de hac quaestione prius tractandum est, ut ex causa cognita effectus
innotescat dicens: quare considerandum est, opinio vera cui opinioni falsae
contraria est: utrum negationi falsae an certe ei affirmationi falsae, quae
contrarium esse opinatur. Et ut exemplariter proponatur, dico hoc modo: sunt
tres opiniones de bono, puta vita: quaedam enim est ipsius boni opinio vera,
quoniam bonum est, puta, quod vita sit bona; alia vero falsa negativa,
scilicet, quoniam bonum non est, puta, quod vita non sit bona; alia item falsa
affirmativa contrarii, scilicet, quoniam malum est, puta, quod vita sit mala.
Quaeritur ergo quae harum falsarum contraria est verae? The first question,
then, depends on this question as an effect upon its cause. For this reason,
and by way of a conclusion to what he has just been saying, he adds the second
question, which must be treated first so that once the cause is known the
effect will be known: We must therefore consider to which false opinion the
true opinion is contrary, whether it is to the false negation or to the false
affirmation that it is to be judged contrary. Then in order to propose the
question by examples he says: what I mean is this; there are three opinions of
a good, for instance, of life. One is a true opinion, that it is good, for
instance, that life is good. The other is a false negative, that it is not
good, for instance, that life is not good. Still another, likewise false, is
the affirmative of the contrary, that it is evil, for instance, that life is
evil. The question is, then, which of these false opinions is contrary to the
true one. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 7Quod autem subdidit: et si est una,
secundum quam contraria est, tripliciter legi potest. Primo, dubitative, ut sit
pars quaestionis; et tunc est sensus: quaeritur quae harum falsarum contraria
est verae: et simul quaeritur, si est tantum una harum falsarum secundum quam
fiat contraria ipsi verae: quia cum unum uni sit contrarium, ut dicitur in X
metaphysicae, quaerendo quae harum sit contraria, quaeremus etiam an una earum
sit contraria. Alio modo, potest legi adversative, ut sit sensus: quaeritur
quae harum sit contraria; quamquam sciamus quod non utraque sed una earum est
secundum quam fit contrarietas. Tertio modo, potest legi dividendo hanc
particulam, et si est una, ab illa sequenti, secundum quam contraria est; et
tunc prima pars expressive, secunda vero dubitative legitur; et est sensus:
quaeritur quae harum falsarum contraria est verae, non solum si istae duae
falsae inter se differunt in consequendo, sed etiam si utraque est una, idest
alteri indivisibiliter unita, quaeritur secundum quam fit contrarietas. Et hoc
modo exponit Boethius, dicens quod Aristoteles apposuit haec verba propter
contraria immediata, in quibus non differt contrarium a privativo. Inter
contraria enim mediata et immediata haec est differentia, quod in immediatis a
privativo contrarium non infertur. Non enim valet, corpus colorabile est non
album, ergo est nigrum: potest enim esse rubrum. In immediatis autem valet;
verbi gratia: animal est non sanum, ergo infirmum; numerus est non par, ergo
impar. Voluit ergo Aristoteles exprimere quod nunc, cum quaerimus quae harum
falsarum, scilicet negativae et affirmativae contrarii, sit contraria
affirmativae verae, quaerimus universaliter sive illae duae falsae
indivisibiliter se sequantur, sive non. 7.
Then he adds, the question, and if there is one, is either one the contrary.
This passage can be read in three ways. It can be read inquiringly so that it
is a part of the question, and then the meaning is: which of these false
opinions is contrary to the true opinion, and, is there one of these by which
the contrary to the true one is effected? For since one is contrary to one
other, as is said in X Metaphysicae [1: 1055a 19], in asking which of these is
the contrary we are also asking whether one of them is the contrary. This can
also be read adversatively, and then the meaning is: which of these is the
contrary, given that we know it is not both but one by which the contrariety is
effected? This can be read in a third way by dividing the first clause,
"and if it is one” from the second clause, "is either one the
contrary.” The first part is then read assertively, the second inquiringly, and
the meaning is: which of these two false opinions is contrary to the true
opinion if the two false opinions differ as to consequence, and also if both
are one, i.e., united to each other indivisibly? Boethius explains this passage
in the last way. He says that Aristotle adds these words because of immediate
contraries in which the contrary does not differ from the privative. For the
difference between mediate and immediate contraries is that in the former the
contrary is not inferred from the privative. For example, this is not valid: "A
colored body is not white, therefore it is black”—for it could be red. In
immediate contraries, on the other hand, it is valid to infer the contrary from
the privative; e.g., "An animal is not healthy, therefore it is number is
not even, therefore it is odd.” Therefore, Aristotle intends to show here that
when we ask which of these false opinions, i.e., negative and affirmative
contraries, is contrary to the true affirmative, we are asking universally
whether these two false opinions follow each other indivisibly or not. 8. Deinde
cum dicit: nam arbitrari, prosequitur hanc secundam quaestionem. Et circa hoc
quatuor facit. Primo, declarat quod contrarietas opinionum non attenditur penes
contrarietatem materiae, circa quam versantur, sed potius penes oppositionem
veri vel falsi; secundo, declarat quod non penes quaecunque opposita secundum
veritatem et falsitatem est contrarietas opinionum; ibi: si ergo boni etc.;
tertio, determinat quod contrarietas opinionum attenditur penes per se primo
opposita secundum veritatem et falsitatem tribus rationibus; ibi: sed in quibus
primo fallacia etc.; quarto declarat hanc determinationem inveniri in omnibus
veram; ibi: manifestum est igitur et cetera. Dicit ergo proponens intentam
conclusionem, quod falsum est arbitrari opiniones definiri seu determinari
debere contrarias ex eo quod contrariorum obiectorum sunt. Et adducit ad hoc
duplicem rationem. Prima est: opiniones contrariae non sunt eadem opinio; sed
contrariorum eadem est fortasse opinio; ergo opiniones non sunt contrariae ex
hoc quod contrariorum sunt. Secunda est: opiniones contrariae non sunt simul
verae; sed opiniones contrariorum, sive plures, sive una, sunt simul verae
quandoque; ergo opiniones non sunt contrariae ex hoc quod contrariorum sunt.
Harum rationum, suppositis maioribus, ponit utriusque minoris declarationem
simul, dicens: boni enim, quoniam bonum est, et mali, quoniam malum est, eadem
fortasse opinio est, quoad primam. Et subdit esse vera, sive plures sive una
sit, quoad secundam. Utitur autem dubitativo adverbio et disiunctione, quia non
est determinandi locus an contrariorum eadem sit opinio, et quia aliquo modo
est eadem et aliquo modo non. Si enim loquamur de habituali opinione, sic eadem
est; si autem de actuali, sic non eadem est. Alia siquidem mentalis compositio
actualiter fit, concipiendo bonum esse bonum, et alia concipiendo malum esse
malum, licet eodem habitu utrunque cognoscamus, illud per se primo, et hoc
secundario, ut dicitur IX metaphysicae. Deinde subdit quod ista quae ad
declarationem minorum sumpta sunt, scilicet bonum et malum, contraria sunt
etiam contrarietate sumpta stricte in moralibus, ac per hoc congrua usi sumus
declaratione. Ultimo inducit conclusionem. Sed non in eo quod contrariorum
opiniones sunt, contrariae sunt, sed magis in eo quod contrariae, idest, sed
potius censendae sunt opiniones contrariae ex eo quod contrariae adverbialiter,
scilicet contrario modo, idest vere et false enunciant. Et sic patet primum. When
he says, It is false, of course, to suppose that opinions are to be defined as
contrary because they are about contraries, etc., he proceeds with the second
question. First he shows that contrariety of opinions is not determined by the
contrariety of the matter involved, but rather by the opposition of true and
false; secondly, he shows that there is not contrariety of opinions in just any
opposites according to truth and falsity, where he says, Now if there is the
opinion of that which is good, that it is good, and the opinion that it is not
good, etc.; third, he determines that contrariety of opinions is concerned with
the per se first opposites; according to truth and falsity, for three reasons,
where he says, Rather, those opinions in which there is fallacy must be posited
as contrary to true opinions, etc.; finally, he shows that this determination
is true of all, where he says, It is evident that it will make no difference if
we posit the affirmation universally, for the universal negation will be the
contrary, etc. Aristotle says, then, proposing the conclusion he intends to
prove, that it is false to suppose that opinions are to be defined or
determined as contrary because they are about contrary objects. He gives two
arguments for this. Contrary opinions are not the same opinion; but opinions
about contraries are probably the same opinion; therefore, opinions are not
contrary from the fact that they are about contraries. And, contrary opinions
are not simultaneously true; but opinions about contraries, whether many or
one, are sometimes true simultaneously; therefore, opinions are not contraries
because they are about contraries. Having supposed the majors of these
arguments, he posits a manifestation of each minor at the same time. In
relation to the first argument, he says, for the opinion of that which is good,
that it is good, and of that which is evil, that it is evil are probably the
same. In relation to the second argument he adds: and, whether many or one, are
true. He uses "probably,” an adverb expressing doubt and disjunction,
because this is not the place to determine whether the opinion of contraries is
the same opinion, and, because in some way the opinion is the same and in some
way not. In the case of habitual opinion, the opinion of contraries is the
same, but in the case of an actual opinion it is not. One mental composition is
actually made in conceiving that a good is good and another in conceiving that
an evil is evil, although we know both by the same habit, the former per se and
first, the latter secondarily, as is said in IX Metaphysicae [4: 1051a 4]. Then
he adds that good and evil—which are used for the manifestation of the
minor—are contraries even when the contrariety is taken strictly in moral
matters; and so in using this our exposition is apposite. Finally, he draws the
conclusion: however, opinions are not contraries because they are about
contraries, but rather because they are contraries, i.e., opinions are to be
considered as contrary from the fact that they enunciate contrarily,
adverbially, i.e., in a contrary mode, i.e., they enunciate truly and falsely.
Thus the first argument is clear. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 9Si ergo boni et
cetera. Quia dixerat quod contrarietas opinionum accipitur secundum
oppositionem veritatis et falsitatis earum, declarat modo quod non quaecunque
secundum veritatem et falsitatem oppositae opiniones sunt contrariae, tali
ratione. De bono, puta, de iustitia, quatuor possunt opiniones haberi, scilicet
quod iustitia est bona, et quod non est bona, et quod est fugibilis, et quod
est non appetibilis. Quarum prima est vera, reliquae sunt falsae. Inter quas
haec est diversitas quod, prima negat idem praedicatum quod vera affirmabat;
secunda affirmat aliquid aliud quod bono non inest; tertia negat id quod bono
inest, non tamen illud quod vera affirmabat. Tunc sic. Si omnes opiniones
secundum veritatem et falsitatem sunt contrariae, tunc uni, scilicet verae
opinioni non solum multa sunt contraria, sed etiam infinita: quod est
impossibile, quia unum uni est contrarium. Tenet consequentia, quia possunt
infinitae imaginari opiniones falsae de una re similes ultimis falsis
opinionibus adductis, affirmantes, scilicet ea quae non insunt illi, et
negantes ea quae illi quocunque modo coniuncta sunt: utraque namque
indeterminata esse et absque numero constat. Possumus enim opinari quod
iustitia est quantitas, quod est relatio, quod est hoc et illud; et similiter
opinari quod iustitia non sit qualitas, non sit appetibilis, non sit habitus.
Unde ex supradictis in propositione quaestionis, inferens pluralitatem falsarum
contra unam veram, ait: si ergo est opinatio vera boni, puta iustitiae, quoniam
est bonum; et si est etiam falsa opinatio negans idem, scilicet, quoniam non
est quid bonum; est vero et tertia opinatio falsa quoque, affirmans aliquid
aliud inesse illi, quod non inest nec inesse potest, puta, quod iustitia sit
fugibilis, quod sit illicita; et hinc intelligitur quarta falsa quoque, quae
scilicet negat aliquid aliud ab eo quod vera opinio affirmat inesse iustitiae,
quod tamen inest, ut puta quod non sit qualitas, quod non sit virtus; si ita
inquam est, nulla aliarum falsarum ponenda est contraria opinioni verae. Et
exponens quid demonstret per ly aliarum, subdit: neque quaecunque opinio
opinatur esse quod non est, ut tertii ordinis opiniones faciunt: neque
quaecunque opinio opinatur non esse quod est, ut quarti ordinis opiniones
significant. Et causam subdit: infinitae enim utraeque sunt, et quae esse
opinantur quod non est, et quae non esse quod est, ut supra declaratum fuit.
Non ergo quaecunque opiniones oppositae secundum veritatem et falsitatem
contrariae sunt. Et sic patet secundum.When he says, Now, if there is the
opinion of that which is good, that it is good, and the opinion that it is not
good, etc., he takes up the second point. Since he has just said that contrariety
of opinions is taken according to their opposition of truth and falsity, he
goes on to show that not just any opposites according to truth and falsity are
contraries. This is his argument. Four opinions can be held about a good, for
instance justice: that justice is good, that it is not good, that it is
avoidable, that it is not desirable. Of these, the first is true, the rest
false. The three false ones are diverse. The first denies the same predicate
the true one affirmed; the second affirms something which does not belong to
the good; the third denies what belongs to the good, but something other than
the true one affirmed. Now if all opinions opposed as to truth and falsity are
contraries, then not only are there many contraries to one true opinion, but an
infinite number. But this is impossible, for one is contrary to one other. The
consequence holds because infinite false opinions about one thing, similar to
those cited, can be imagined; such opinions would affirm of it what does not
belong to it and deny what is joined to it in some way. Both kinds are
indeterminate and without number. We can think, for instance, that justice is a
quantity, that it is a relation, that it is this and that; and likewise we can
think that it is not a quality, is not desirable, is not a habit. Hence, from
what was said above in proposing the question, Aristotle infers a plurality of
false opinions opposed to one true opinion: Now if there is the opinion of that
which is good, for instance justice, that it is good, and there is a false
opinion denying the same thing, namely, that it is not good, and besides these
a third opinion, false also, affirming that some other thing belongs to justice
that does not belong and cannot belong to it (for instance, that justice is
avoidable, that it is illicit) and a fourth opinion, also false, that denies
something other than the true opinion affirms, something, however, which does
belong to justice (for instance, that it is not a quality, that it is not a
virtue), none of these other false enunciations are to be posited as the
contrary of the true opinion. To explain what he is designating by "of
these others,” he adds, neither those purporting that what is not, is, as
opinions of the third order do, nor those purporting that what is, is not, as
opinions of the fourth order signify. Then he adds the reason these cannot be
posited as the contrary of the true opinion: for both the opinions that that is
which is not, and that which is not, is, are infinite, as was shown above.
Therefore, not just any opinions opposed according to truth and falsity are
contraries. Thus the second argument is clear. XIV. Cajetanus lib. 2 l. 14 n.
1Quia subtili indagatione ostendit quod nec materiae contrarietas, nec veri
falsique qualiscunque oppositio contrarietatem opinionum constituit, sed quod
aliqua veri falsique oppositio id facit, ideo nunc determinare intendit qualis
sit illa veri falsique oppositio, quae opinionum contrarietatem constituit. Ex
hoc enim directe quaestioni satisfit. Et intendit quod sola oppositio opinionum
secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem etc. constituit
contrarietatem earum. Unde intendit probare istam conclusionem per quam ad
quaesitum respondet: opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem
eiusdem de eodem sunt contrariae; et consequenter illae, quae sunt oppositae
secundum affirmationem contrariorum praedicatorum de eodem, non sunt
contrariae, quia sic affirmativa vera haberet duas contrarias, quod est
impossibile. Unum enim uni est contrarium.Aristotle has just completed a subtle
investigation in which he has shown that contrariety of matter does not
constitute contrariety of opinion, nor does just any kind of opposition of true
and false, but some opposition of true and false does. Now he intends to determine
what kind of opposition of true and false it is that constitutes contrariety of
opinions, for this will answer the question directly. He maintains that only
opposition of opinions according to affirmation and negation of the same thing
of the same thing, etc., constitutes their contrariety. Accordingly, as the
response to the question, he intends to prove the following conclusion:
opinions opposed according to affirmation and negation of the same thing of the
same thing are contraries; and consequently, opinions opposed according to
affirmation of contrary predicates of the same subject are not contraries, for
if these were contraries, the true affirmative would have two contraries, which
is impossible, since one is contrary to one other. Cajetanus lib. 2 l. 14 n.
2Probat autem istam conclusionem tribus rationibus. Prima est: opiniones in
quibus primo est fallacia sunt contrariae; opiniones oppositae secundum
affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt in quibus primo est fallacia;
ergo opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem
sunt contrariae. Sensus maioris est: opiniones quae primo ordine naturae sunt
termini fallaciae, idest deceptionis seu erroris, sunt contrariae: sunt enim,
cum quis fallitur seu errat, duo termini, scilicet a quo declinat, et ad quem
labitur. Huius rationis in littera primo ponitur maior, cum dicitur: sed in
quibus primo fallacia est; adversative enim continuans sermonem supradictis,
insinuavit non tot enumeratas opiniones esse contrarias, sed eas in quibus
primo fallacia est modo exposito. Deinde subdit probationem minoris talem:
eadem proportionaliter sunt, ex quibus sunt generationes et ex quibus sunt
fallaciae; sed generationes sunt ex oppositis secundum affirmationem et
negationem; ergo et fallaciae sunt ex oppositis secundum affirmationem et
negationem. Quod erat assumptum in minore. Unde ponens maiorem huius
prosyllogismi, ait: haec autem, scilicet fallacia, est ex his, scilicet
terminis, proportionaliter tamen, ex quibus sunt et generationes. Et subsumit
minorem: ex oppositis vero, scilicet secundum affirmationem et negationem, et
generationes fiunt. Et demum concludit: quare etiam fallacia, scilicet, est ex
oppositis secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem. Aristotle uses
three arguments to prove this conclusion. The first one is as follows: Those
opinions in which there is fallacy first are contraries. Opinions opposed
according to affirmation and negation of the same predicate of the same subject
are those in which there is fallacy first. Therefore, these are contraries. The
sense of the major is this: Opinions which first in the order of nature are the
limits of fallacy, i.e., of deception or error, are contraries; for when
someone is deceived or errs, there are two limits, the one from which he turns
away and the one toward which he turns. In the text the major of the argument
is posited first: Rather, those opinions in which there is fallacy must be
posited as contrary to true opinions. By uniting this part of the text adversatively
with what was said previously, Aristotle implies that not just any of the
number of opinions enumerated are contraries, but those in which there is
fallacy first in the manner we have explained. Then he gives this proof of the
minor: those things from which generations are and from which fallacies are,
are the same proportionally; generations are from opposites according to
affirmation and negation; therefore fallacies, too, are from opposites
according to affirmation and negation (which was assumed in the minor). Hence
he posits the major of this prosyllogism: Now the things from which fallacies
arise, namely, limits, are the things from which generations
arise—proportionally however. Under it he posits the minor: but generations are
from opposites, i.e., according to affirmation and negation. Finally, he
concludes, therefore also fallacies, i.e., they are from opposites according to
affirmation and negation of the same thing of the same thing. Cajetanus lib. 2
l. 14 n. 3Ad evidentiam huius probationis scito quod idem faciunt in processu
intellectus cognitio et fallacia seu error, quod in processu naturae generatio
et corruptio. Sicut namque perfectiones naturales generationibus acquiruntur,
corruptionibus desinunt; ita cognitione perfectiones intellectuales
acquiruntur, erroribus autem seu deceptionibus amittuntur. Et ideo, sicut tam
generatio quam corruptio est inter affirmationem et negationem, ut proprios
terminos, ut dicit V Physic.; ita tam cognoscere aliquid, quam falli circa
illud, est inter affirmationem et negationem, ut proprios terminos: ita quod id
ad quod primo attingit cognoscens aliquid in secunda operatione intellectus est
veritatis affirmatio, et quod per se primo abiicitur est illius negatio. Et
similiter quod per se primo perdit qui fallitur est veritatis affirmatio, et
quod primo incurrit est veritatis negatio. Recte ergo dixit quod iidem sunt
termini inter quos primo est generatio, et illi inter quos est primo fallacia,
quia utrobique termini sunt affirmatio et negatio. This proof will be more
evident from the following: Knowledge and fallacy, or error, bring about the
same thing in the intellect’s progression as generation and corruption do in
nature’s progression. For just as natural perfections are acquired by
generations and perish by corruptions, so intellectual perfections are acquired
by knowledge and lost by errors or deceptions. Accordingly, just as generation
and corruption are between affirmation and negation as proper terms, as is said
in V Physicae [1:224b 35] so both to know something and to be deceived about it
is between affirmation and negation as proper terms. Consequently, what one who
knows attains first in the second operation of the intellect is affirmation of
the truth, and what he rejects per se and first is the negation of it. In like
manner, what he who is deceived loses per se and first is affirmation of the
truth, and acquires first is negation of the truth. Therefore Aristotle is
correct in maintaining that the terms between which there is generation first
and between which there is fallacy first are the same, because with respect to
both, the terms are affirmation and negation. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 4Deinde
cum dicit: si ergo quod bonum est etc., intendit probare maiorem principalis
rationis. Et quia iam declaravit quod ea, in quibus primo est fallacia, sunt
affirmatio et negatio, ideo utitur, loco maioris probandae, scilicet, opiniones
in quibus primo est fallacia, sunt contrariae, sua conclusione, scilicet,
opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt
contrariae. Aequivalere enim iam declaratum est. Fecit autem hoc consuetae
brevitati studens, quoniam sic procedendo, et probat maiorem, et respondet
directe quaestioni, et applicat ad propositum simul. Probat ergo loco maioris
conclusionem principaliter intentam quaestionis, hanc, scilicet: opiniones
oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt contrariae; et non
illae, quae sunt oppositae secundum contrariorum affirmationem de eodem. Et
intendit talem rationem. Opinio vera et eius magis falsa sunt contrariae
opiniones; oppositae secundum affirmationem et negationem sunt vera et eius
magis falsa; ergo opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem sunt
contrariae. Maior probatur ex eo quod, quae plurimum distant circa idem sunt
contraria; vera autem et eius magis falsa plurimum distant circa idem, ut
patet. Minor vero probatur ex eo quod opposita secundum negationem eiusdem de
eodem est per se falsa respectu suae affirmationis verae. Opinio autem per se falsa
magis falsa est quacunque alia. Unumquodque enim quod est per se tale, magis
tale est quolibet quod est per aliud tale. When he says, Now, if that which is
good is both good and not evil, the former per se, the latter accidentally,
etc., he intends to prove the major of the principal argument. He has already
shown that the opinions in which there is fallacy first are affirmation and
negation, and therefore in place of the major to be proved (i.e., opinions in
which it there is fallacy first are contraries) he uses his conclusion—which
has already been shown to be equivalent—that opinions opposed according to
affirmation and negation of the same thing are contraries. Thus with his
customary brevity he at once proves the major, responds directly to the question,
and applies it to what he has proposed. In place of the major, then, he proves
the conclusion principally intended, i.e., that opinions opposed according to
affirmation and negation of the same thing are contraries, and not those
opposed according to affirmation of contraries about the same thing. His
argument is as follows: A true opinion and the opinion that is more false in
respect to it are contrary opinions, but opinions opposed according to
affirmation and negation are the true opinion and the opinion that is more
false in respect to it; therefore, opinions opposed according to affirmation
and negation are contraries. The major is proved thus: those things that are
most distant in respect to the same thing are contraries; but the true and the
more false are most distant in respect to the same thing, as is clear. The
proof of the minor is that the opposite according to negation of the same thing
of the same thing is per se false in relation to the true affirmation of it.
But a per se false opinion is more false than any other, since each thing that
is per se such is more such than anything that is such by reason of something
else. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 5Unde ad suprapositas opiniones in propositione
quaestionis rediens, ut ex illis exemplariter clarius intentum ostendat, a
probatione minoris inchoat tali modo. Sint quatuor opiniones, duae verae,
scilicet, bonum est bonum, bonum non est malum, et duae falsae, scilicet, bonum
non est bonum, et, bonum est malum. Clarum est autem quod prima vera est
ratione sui, secunda autem est vera secundum accidens, idest, ratione alterius,
quia scilicet non esse malum est coniunctum ipsi bono: ideo enim ista est vera,
bonum non est malum, quia bonum est bonum, et non e contra; ergo prima quae est
secundum se vera, est magis vera quam secunda: quia in unoquoque genere quae
secundum se est vera est magis vera. Illae autem duae falsae eodem modo
censendae sunt, quod scilicet magis falsa est, quae secundum se est falsa. Unde
quia prima earum, scilicet, bonum non est bonum, quae est negativa, est per se
et non ratione alterius falsa, relata ad illam affirmativam, bonum est bonum;
et secunda, scilicet, bonum est malum, quae est affirmativa contrarii, ad
eamdem relata est falsa per accidens, idest ratione alterius (ista enim,
scilicet, bonum est malum, non immediate falsificatur ab illa vera, scilicet
bonum est bonum, sed mediante illa alia falsa, scilicet, bonum non est bonum);
idcirco magis falsa respectu affirmationis verae est negatio eiusdem quam
affirmatio contrarii. Quod erat assumptum in minore. Accordingly, returning to
the opinions already given in proposing the question so as to show his
intention more clearly by example, he begins with the proof of the minor. There
are four opinions, of which two are true, "A good is good,” "A good
is not evil”; two are false, "A good is not good” and "A good is
evil.” It is evident that the first is true by reason of itself, the second
accidentally, i.e., by reason of another, for not to be evil is added to that
which is good. Hence, "A good is not evil” is true because a good is good,
and not contrarily. Therefore, the first of these opinions, which is per se
true, is more true than the second, for in each genus that which per se is true
is more true. The two false opinions are to be judged in the same way. The more
false is the one that is per se false. The first of them, the negative, "A
good is not good,” in relation to the affirmative, "A good is good,” is
per se false, not false by reason of another. The second, the affirmative of
the contrary, "A good is evil,” in relation to the same opinion, is false
accidentally, i.e., by reason of another (for "A good is evil” is not
immediately falsified by the true opinion, "A good is good,” but mediately
through the other false opinion "A good is not good”). Therefore, the
negation of the same thing is more false in respect to a trite affirmation than
the affirmation of a contrary. This was assumed in the minor. Cajetanus lib. 2
l. 14 n. 6Unde rediens ad supra positas (ut dictum est) opiniones, infert
primas duas veras opiniones dicens: si ergo quod bonum est et bonum est et non
est malum, et hoc quidem, scilicet quod dicit prima opinio, est verum secundum
se, idest ratione sui; illud vero, scilicet quod dicit secunda opinio, est verum
secundum accidens, quia accidit, idest, coniunctum est ei, scilicet bono, malum
non esse. In unoquoque autem ordine magis vera est illa quae secundum se est
vera. Etiam igitur falsa magis est quae secundum se falsa est: siquidem et vera
huius est naturae, ut declaratum est, quod scilicet magis vera est, quae
secundum se est vera. Ergo illarum duarum opinionum falsarum in quaestione
propositarum, scilicet, bonum non est bonum, et, bonum est malum, ea quae est
dicens, quoniam non est bonum quod bonum est, idest negativa; scilicet, bonum
non est bonum, est consistens falsa secundum se, idest, ratione sui continet in
seipsa falsitatem; illa vero reliqua falsa opinio, quae est dicens, quoniam
malum est, idest, affirmativa contraria, scilicet, bonum est malum, eius, quae
est, idest, illius affirmationis dicentis, bonum est bonum, secundum accidens,
idest, ratione alterius falsa est. Deinde subdit ipsam minorem: quare erit
magis falsa de bono, opinio negationis, quam contrarii. Deinde ponit maiorem
dicens quod, semper magis falsus circa singula est ille qui habet contrariam
opinionem, ac si dixisset, verae opinioni magis falsa est contraria. Quod
assumptum erat in maiore. Et eius probationem subdit, quia contrarium est de
numero eorum quae circa idem plurimum differunt. Nihil enim plus differt a vera
opinione quam magis falsa circa illam. As was pointed out above, Aristotle
returns to the opinions already posited, and infers the first two true
opinions: Now if that which is good is both good and not evil, and if what the
first opinion says is true per se, i.e., by reason of itself, and what the
second opinion says is trite accidentally (since it is accidental to it, i.e.,
added to it, that is, to the good, not to be evil) and if in each order that
which is per se true is more true, then that which is per se false is more
false, since, as has been shown, the true also is of this nature, namely, that
the more true is that which per se is true. Therefore, of the two false
opinions proposed in the question, namely, "A good is not good,” and
"A good is evil,” the one saying that what is good is not good, namely,
the negative, is an opinion positing what is per se false, i.e., by reason of
itself it contains falsity in it. The other false opinion, the one saying it is
evil, namely, the affirmative contrary in respect to it, i.e., in respect to
the affirmation saying that a good is good, is false accidentally, i.e., by
reason of another. Then he gives the minor: Therefore, the opinion of the
negation of the good will be more false than the opinion affirming a contrary.
Next, he posits the major, the one who holds the contrary judgment about each
thing is most mistaken, i.e., in relation to the true judgment the contrary is
more false. This was assumed in the major. He gives as the proof of this, for
contraries are those that differ most with respect to the same thing, for
nothing differs more from a true opinion than the more false opinion in respect
to it. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 7Ultimo directe applicat ad quaestionem dicens:
quod si (pro, quia) harum falsarum, scilicet, negationis eiusdem et
affirmationis contrarii, altera est contraria verae affirmationi, opinio vero
contradictionis, idest, negationis eiusdem de eodem, magis est contraria
secundum falsitatem, idest, magis est falsa, manifestum est quoniam haec,
scilicet opinio falsa negationis, erit contraria affirmationi verae, et e
contra. Illa vero opinio quae est dicens, quoniam malum est quod bonum est,
idest, affirmatio contrarii, non contraria sed implicita est, idest, sed
implicans in se verae contrariam, scilicet, bonum non est bonum. Etenim necesse
est ipsum opinantem affirmationem contrarii opinari, quoniam idem de quo
affirmat contrarium non est bonum. Oportet siquidem si quis opinatur quod vita
est mala, quod opinetur quod vita non sit bona. Hoc enim necessario sequitur ad
illud, et non e converso; et ideo affirmatio contrarii implicita dicitur.
Negatio autem eiusdem de eodem implicita non est. Et sic finitur prima ratio. Finally,
he directly approaches the question. If (for "since”), then, of two
opinions (namely, false opinions—the negation of the same thing and the
affirmation of a contrary), one is the contrary of the true affirmation, and,
the contradictory opinion, i.e., the negation of the same thing of the same
thing, is more contrary according to falsity, i.e., is more false, it is
evident that the false opinion of negation will be contrary to the true
affirmation, and conversely. The opinion saying that what is good is evil,
i.e., the affirmation of a contrary, is not the contrary but implies it, i.e.,
it implies in itself the opinion contrary to the true opinion, i.e., "A
good is not good.” The reason for this is that the one conceiving the
affirmation of a contrary must conceive that the same thing of which he affirms
the contrary, is not good. If, for example, someone conceives that life is
evil, he must conceive that life is not good, for the former necessarily
follows upon the latter and not conversely. Hence, affirmation of a contrary is
said to be implicative, but negation of the same thing of the same thing is not
implicative. This concludes the first argument. Cajetanus lib. 2 l. 14 n.
8Notandum est hic primo quod ista regula generalis tradita hic ab Aristotele de
contrarietate opinionum, quod scilicet contrariae opiniones sunt quae
opponuntur secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem, et in se et
in assumptis ad eius probationem propositionibus scrupulosa est. Unde multa hic
insurgunt dubia. Primum est quia cum oppositio secundum affirmationem et
negationem non constituat contrarietatem sed contradictionem apud omnes
philosophos, quomodo Aristoteles opiniones oppositas secundum affirmationem et
negationem ex hoc contrarias ponat. Augetur et dubitatio quia dixit quod ea in
quibus primo est fallacia sunt contraria, et tamen subdit quod sunt oppositae
sicut termini generationis, quos constat contradictorie opponi. Nec dubitatione
caret quomodo sit verum id quod supra diximus ex intentione s. Thomae, quod
nullae duae opiniones opponantur contradictorie, cum hic expresse dicitur
aliquas opponi secundum affirmationem et negationem. Dubium secundo insurgit
circa id quod assumpsit, quod contraria cuiusque verae est per se falsa. Hoc
enim non videtur verum. Nam contraria istius verae, Socrates est albus, est
ista, Socrates non est albus, secundum determinata; et tamen non est per se
falsa. Sicut namque sua opposita affirmatio est per accidens vera, ita ista est
per accidens falsa. Accidit enim isti enunciationi falsitas. Potest enim mutari
in veram, quia est in materia contingenti. Dubium est tertio circa id quod
dixit: magis vero contradictionis est contraria. Ex hoc enim videtur velle quod
utraque, scilicet, opinio negationis et contrarii, sit contraria verae
affirmationi; et consequenter vel uni duo ponit contraria, vel non loquitur de
contrarietate proprie sumpta: cuius oppositum supra ostendimus. The general
rule about the contrariety of opinions that Aristotle has given here (namely,
that contrary opinions are those opposed according to affirmation and negation
of the same thing of the same thing) is accurate both in itself and in the
propositions assumed for its proof. Many questions may arise, however, as a
consequence of this doctrine and its proof. First of all, all philosophers hold
that opposition according to affirmation and negation constitutes
contradiction, not contrariety. How, then, can Aristotle maintain that opinions
opposed in this way are contraries? The difficulty is augmented by the fact
that he has said that those opinions in which there is fallacy first are
contraries, yet he adds that they are opposed as the terms of generation are,
which he establishes to be opposed contradictorily. In addition, there is a
difficulty as to the way in which the assertion of St. Thomas, which we used
above, is true, namely, that no two opinions are opposed contradictorily, since
here it is explicitly said that some are opposed according to affirmation and
negation. The second uestion involves his assumption that the contrary of each
true opinion is per se false. This does not seem to be true, for according to
what was determined previously, the contrary of the true opinion "Socrates
is white” is "Socrates is not white.” But this is not per se false, for
the opposed affirmation is true accidentally, and hence its negation is false
accidentally. Falsity is accidental to such an enunciation because, being in
contingent matter, it can be changed into a true one. A third difficulty arises
from the fact that Aristotle says the contradictory opinion is nwre contrary.
He seems to be proposing, according to this, that both the opinion of the
negation and of a contrary are contrary to a true affirmation. Consequently, he
is either positing two opinions contrary to one or he is not taking contrariety
strictly, although we showed above that he was taking contrariety properly and
strictly. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 9Ad evidentiam omnium, quae primo loco
adducuntur, sciendum quod opiniones seu conceptiones intellectuales, in secunda
operatione de quibus loquimur, possunt tripliciter accipi: uno modo, secundum
id quod sunt absolute; alio modo, secundum ea quae repraesentant absolute;
tertio, secundum ea quae repraesentant, ut sunt in ipsis opinionibus. Primo
membro omisso, quia non est praesentis speculationis, scito quod si accipiantur
secundo modo secundum repraesentata, sic invenitur inter eas et
contradictionis, et privationis, et contrarietatis oppositio. Ista siquidem
mentalis enunciatio, Socrates est videns, secundum id quod repraesentat
opponitur illi, Socrates non est videns, contradictorie; privative autem illi,
Socrates est caecus; contrarie autem illi, Socrates est luscus; si accipiantur
secundum repraesentata. Ut enim dicitur in postpraedicamentis, non solum
caecitas est privatio visus, sed etiam caecum esse est privatio huius quod est
esse videntem, et sic de aliis. Si vero accipiantur opiniones tertio modo,
scilicet, prout repraesentata per eas sunt in ipsis, sic nulla oppositio inter
eas invenitur nisi contrarietas: quoniam sive opposita contradictorie sive
privative sive contrarie repraesententur, ut sunt in opinionibus, illius tantum
oppositionis capaces sunt, quae inter duo entia realia inveniri potest.
Opiniones namque realia entia sunt. Regulare enim est quod quidquid convenit
alicui secundum esse quod habet in alio, secundum modum et naturam illius in
quo est sibi convenit, et non secundum quod exigeret natura propria. Inter
entia autem realia contrarietas sola formaliter reperitur. Taceo nunc de
oppositione relativa. Opiniones ergo hoc modo sumptae, si oppositae sunt,
contrarietatem sapiunt, sed non omnes proprie contrariae sunt, sed illae quae
plurimum differunt circa idem veritate et falsitate. Has autem probavit
Aristoteles esse opiniones affirmationis et negationis eiusdem de eodem. Istae
igitur verae contrariae sunt. Reliquae vero per reductionem ad has contrariae
dicuntur. In order to answer all of the difficulties in regard to the first
argument it must be noted that opinions, or intellectual conceptions in the
second operation, can be taken in three ways: (1) according to what they are
absolutely; (2) according to the things they represent absolutely, (3)
according to the things they represent, as they are in opinions. We will omit
the first since it does not belong to the present consideration. If they are
taken in the second way, i.e., according to the things represented, there can
be opposition of contradiction, of privation, and of contrariety among them.
The mental enunciation "Socrates sees,” according to what it represents,
is opposed contradictorily to. Socrates does not see”; privatively to
"Socrates is blind”; contrarily to "Socrates is purblind.” Aristotle
points out the reason for this in the Postpredicamenta [Categ. 10: 12a 35]: not
only is blindness privation of sight but to be blind is also a privation of to
be seeing, and so of others. Opinions taken in the third way, i.e., as the
things represented through opinions are in the opinions, have no opposition
except contrariety; for opposites as they are in opinions, whether represented
contradictorily or privatively or contrarily, only admit of the opposition that
can be found between two real beings, for opinions are real beings. The rule is
that whatever belongs to something according to the being which it has in
another, belongs to it according to the mode and nature of that in which it is,
and not according to what its own nature would require. Now, between real
beings only contrariety is found formally. (I am omitting here the
consideration of relative opposition.) Therefore, opinions taken in this mode,
if they are opposed, represent contrariety, although not all are contraries
properly. Only those differing most in respect to truth and falsity about the
same thing are contraries properly. Now Aristotle proved that these are - judgments
affirming and denying the same thing of the same thing. Therefore, these are
the true contraries. The rest are called contraries by reduction to these.
Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 10 Ex his patet quid ad obiecta dicendum sit. Fatemur
enim quod affirmatio et negatio in seipsis contradictionem constituunt; in
opinionibus vero existentes contrarietatem inter illas causant propter extremam
distantiam, quam ponunt inter entia realia, opinionem scilicet veram et
opinionem falsam circa idem. Stantque ista duo simul quod ea, in quibus primo
est fallacia, sint opposita ut termini generationis, et tamen sint contraria
utendo supradicta distinctione: sunt enim opposita contradictorie ut termini
generationis secundum repraesentata; sunt autem contraria, secundum quod habent
in seipsis illa contradictoria. Unde plurimum differunt. Liquet quoque ex hoc
quod nulla est dissentio inter dicta Aristotelis et s. Thomae, quia opiniones
aliquas opponi secundum affirmationem et negationem verum esse confitemur, si
ad repraesentata nos convertimus, ut hic dicitur. From this the answer to the
objections is clear. We grant that affirmation and negation in themselves
constitute contradiction. In actual judgments,”’ affirmation and negation cause
contrariety between opinions because of the extreme distance they posit between
real beings, namely, true opinion and false opinion in respect to the same
thing. And these two stand at the same time: those in which there is fallacy
first are opposed as the terms of generation are and yet they are contraries by
the use of the foresaid distinction—for they are opposed contradictorily as
terms of generation according to the things represented, but they are
contraries insofar as they have in themselves those contradictories and hence
differ most. It is also evident that there is no disagreement between Aristotle
and St. Thomas, for we have shown that it is true that some opinions are
opposed according to affirmation and negation if we consider the things
represented, as is said here. 11. Tu autem qui perspicacioris ac provectioris
ingenii es compos, hinc habeto quod inter ipsas opiniones oppositas quidam
tantum motus est, eo quod de affirmato in affirmatum mutatio fit: inter ipsas
vero secundum repraesentata, similitudo quaedam generationis et corruptionis
invenitur, dum inter affirmationem et negationem mutatio clauditur. Unde et
fallacia sive error quandoque et motus et mutationis rationem habet diversa
respiciendo, quando scilicet ex vera in per se falsam, vel e converso, quis
mutat opinionem; quandoque autem solam mutationem imitatur, quando scilicet
absque praeopinata veritate ipsam falsam offendit quis opinionem; quandoque
vero motus undique rationem possidet, quando scilicet ex vera affirmatione in
falsam circa idem contrarii affirmationem transit. Quia tamen prima ut quis
fallatur radix est oppositio affirmationis et negationis, merito ea in quibus
primo est fallacia, sicut generationis terminos opponi dixit. It will be noted,
however, by those of you who are more penetrating and advanced in your
thinking, that between opposite opinions there is something of true motion when
a change is made from the affirmed to the affirmed; but according to the order
of representation there is a certain similitude to generation and corruption so
long as the change is bounded by affirmation and negation. Consequently,
fallacy or error may be regarded in different ways. Sometimes it has the aspect
of both movement and change. This is the case when someone changes his opinion
from a true one to one that is per se false, or conversely. Sometimes change
alone is imitated. This happens when someone arrives at a false opinion apart
from a former true opinion. Sometimes, however, there is movement in every
respect. This is the case when reason passes from the true affirmation to the
false affirmation of a contrary about the same thing. However, since the first
root of being in error is the opposition of affirmation and negation, Aristotle
is correct in saying that those in which there is fallacy first are opposed as
are the terms of generation. 12. Ad dubium secundo loco adductum dico quod
peccatur ibi secundum aequivocationem illius termini per se falsa, seu per se
vera. Opinio enim et similiter enunciatio potest dici dupliciter per se vera
seu falsa. Uno modo, in seipsa, sicut sunt omnes verae secundum illos modos
perseitatis qui enumerantur I posteriorum, et similiter falsae secundum
illosmet modos, ut, homo non est animal. Et hoc modo non accipitur in hac
regula de contrarietate opinionum et enunciationum opinio per se vera aut
falsa, ut efficaciter obiectio adducta concludit. Si enim ad contrarietatem
opinionum hoc exigeretur non possent esse opiniones contrariae in materia
contingenti: quod est falsissimum. Alio modo potest dici opinio sive enunciatio
per se vera aut falsa respectu suae oppositae. Per se vera quidem respectu suae
falsae, et per se falsa respectu suae verae. Et tunc nihil aliud est dicere,
est per se vera respectu illius, nisi quod ratione sui et non alterius
verificatur ex falsitate illius. Et similiter cum dicitur, est per se falsa
respectu illius, intenditur quod ratione sui et non alterius falsificatur ex
illius veritate. Verbi gratia; istius verae, Socrates currit, non est per se
falsa, Socrates sedet, quia falsitas eius non immediate sequitur ex illa, sed
mediante ista alia falsa, Socrates non currit, quae est per se illius falsa,
quia ratione sui et non per aliquod medium ex illius veritate falsificatur, ut
patet. Et similiter istius falsae, Socrates est quadrupes, non est per se vera
ista, Socrates est bipes, quia non per seipsam veritas istius illam falsificat,
sed mediante ista, Socrates non est quadrupes, quae est per se vera respectu
illius: propter seipsam enim falsitate istius verificatur, ut de se patet. Et
hoc secundo modo utimur istis terminis tradentes regulam de contrarietate
opinionum et enunciationum. Invenitur siquidem sic universaliter vera in omni
materia regula dicens quod, vera et eius per se falsa, et falsa et eius per se
vera, sunt contrariae. Unde patet responsio ad obiectionem, quia procedit
accipiendo ly per se vera, et per se falsa primo modo. With respect to the
second question, I say that there is an equivocation of the term "per se
false” and "per se true” in the objection. Opinion, as well as
enunciation, can be called per se true or false in two ways. It can be called
per se true in itself. This is the case in respect to all opinions and
enunciations that are in accordance with the modes of perseity enumerated in I
Posteriorum [4: 73a; 34–73b 15]. Similarly, they can be said to be per se false
according to the same modes. An example of this would be "Man is not an
animal.” Per se true or false is not taken in this mode in the rule about
contrariety of opinions and enunciations, as the objection concludes. For if
this were needed for contrariety of opinions there could not be contrary
opinions in contingent matter, which is false. Secondly, an opinion or
enunciation can be said to be per se true or false in respect to its opposite:
per se true with respect to its opposite false opinion, and per se false with
respect to its opposite true opinion. Accordingly, to say that an opinion is
per se true in respect to its opposite is to say that on its own account and
not on account of another it is verified by the falsity of its opposite.
Similarly, to say that an opinion is per se false in respect to its opposite
means that on its own account and not on account of another it is falsified by
the truth of the opposite. For example, the opinion that is per se false in
respect to the true opinion "Socrates is running "is not,
"Socrates is sitting,” since the falsity of the latter does not
immediately follow from the former, but mediately from the false opinion,
"Socrates is not running.” It is the latter opinion that is per se false
in relation to "Socrates is running,” since it is falsified on its own
account by the truth of the opinion "Socrates is running,” and not through
an intermediary. Similarly, the per se true opinion in respect to the false
opinion "Socrates is four-footed” is not, "Socrates is two-footed,”
for the truth of the latter does not by itself make the former false; rather,
it is through "Socrates is not four-footed” as a medium, which is per se
true in respect to "Socrates is four-footed”; for "Socrates is not
four-footed” is verified on its own account by the falsity of "Socrates is
four-footed,” as is evident. We are using "per se true” and "per se
false” in this second mode in propounding the rule concerning contrariety of
opinions and enunciations. Thus the rule that the true opinion and the per se
false opinion in relation to it and the false opinion and the per se true in
relation to it are contraries, is universally true in all matter. Consequently,
the response to the objection is clear, for it results from taking "per se
true” and "per se false” in the first mode. 13. Ad ultimum dubium dicitur
quod, quia inter opiniones ad se invicem pertinentes nulla alia est oppositio
nisi contrarietas, coactus fuit Aristoteles (volens terminis specialibus uti)
dicere quod una est magis contraria quam altera, insinuans quidem quod utraque
contrarietatis oppositionem habet respectu illius verae. Determinat tamen
immediate quod tantum una earum, scilicet negationis opinio, contraria est
affirmationi verae. Subdit enim: manifestum est quoniam haec contraria erit.
Duo ergo dixit, et quod utraque, tam scilicet negatio eiusdem quam affirmatio
contrarii, contrariatur affirmationi verae, et quod una tantum earum, negatio
scilicet, est contraria. Et utrunque est verum. Illud quidem, quia, ut dictum
est, ambae contrarietates oppositione contra affirmationem moliuntur; sed
difformiter, quia opinio negationis primo et per se contrariatur, affirmationis
vero contrarii opinio secundario et per accidens, idest per aliud, ratione
scilicet negativae opinionis, ut declaratum est: sicut etiam in naturalibus
albo contrariantur et nigrum et rubrum, sed illud primo, hoc reductive, ut
reducitur scilicet ad nigrum illud inducendo, ut dicitur V Physic. Secundum
autem dictum simpliciter verum est, quoniam simpliciter contraria non sunt nisi
extrema unius latitudinis, quae maxime distant; extrema autem unius distantiae
non sunt nisi duo. Et ideo cum inter pertinentes ad se invicem opiniones unum
extremum teneat affirmatio vera, reliquum uni tantum falsae dandum est, illi
scilicet quae maxime a vera distat. Hanc autem negativam opinionem esse
probatum est. Haec igitur una tantum contraria est illi, simpliciter loquendo.
Caeterae enim oppositae ratione istius contrariantur, ut de mediis dictum est.
Non ergo uni plura contraria posuit, nec de contrarietate large loquutus est,
ut obiiciendo dicebatur. The answer to the third difficulty is the following.
Since there is no other opposition but contrariety between opinions pertaining
to each other, Aristotle (since he chose to use limited terms) has been forced
to say that one is more contrary than another, which implies that both have
opposition of contrariety in respect to a true opinion. However, he determines
immediately that only one of them, the negative opinion, is contrary to a true
affirmation, when he adds, it is evident that it must be the contrary. What he
says, then, is that each, i.e., both negation of the same thing and affirmation
of a contrary, is contrary to a true affirmation, and that only one of them, i.e.,
the negation, is contrary. Both of these statements are true, for both
contrarieties are caused by an opposition contrary to the affirmation, as was
said, but not uniformly. The opinion of negation is contrary first and per se,
the opinion of affirmation of a contrary, secondarily and accidentally, i.e.,
through another, namely, by reason of the negative opinion, as has already been
shown. There is a parallel to this in natural things: both black and red are
contrary to white, the former first, the latter reductively, i.e., inasmuch as
red is reduced to black in a motion from white to red, as is said in V
Physicorum [5: 229b 15]. However, the second statement, i.e., that only one of
them, the negation, is contrary, is true simply, for the most distant extremes
of one extent are contraries absolutely. Nov,, there are only two extremes of
one distance and since between opinions pertaining to each other true
affirmation is at one extreme, the remaining extreme must be granted to only
one false opinion, i.e., to the one that is most distant from the true opinion.
This has been proved to be the negative opinion. Only this one, then, is
contrary to that absolutely speaking. Other opposites are contrary by reason of
this one, as was said of those in between. Therefore, Aristotle has not posited
many opinions contrary to one, nor used contrariety in a broad sense, both of
which were maintained by the objector. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 14 Deinde cum
dicit: amplius si etiam etc., probat idem, scilicet quod affirmationi contraria
est negatio eiusdem, et non affirmatio contrarii secunda ratione, dicens: si in
aliis materiis oportet opiniones se habere similiter, idest, eodem modo, ita
quod contrariae in aliis materiis sunt affirmatio et negatio eiusdem; et hoc,
scilicet quod diximus de boni et mali opinionibus, videtur esse bene dictum,
quod scilicet contraria affirmationi boni non est affirmatio mali, sed negatio
boni. Et probat hanc consequentiam subdens: aut enim ubique, idest, in omni
materia, ea quae est contradictionis altera pars censenda est contraria suae
affirmationi, aut nusquam, idest, aut in nulla materia. Si enim est una ars
generalis accipiendi contrariam opinionem, oportet quod ubique et in omni
materia uno et eodem modo accipiatur contraria opinio. Et consequenter, si in
aliqua materia negatio eiusdem de eodem affirmationi est contraria, in omni
materia negatio eiusdem de eodem contraria erit affirmationi. Deinde intendens
concludere a positione antecedentis, affirmat antecedens ex sua causa, dicens quod
illae materiae quibus non inest contrarium, ut substantia et quantitas, quibus,
ut in praedicamentis dicitur, nihil est contrarium. De his quidem est per se
falsa ea, quae est opinioni verae opposita contradictorie, ut qui putat
hominem, puta Socratem non esse hominem, per se falsus est respectu putantis,
Socratem esse hominem. Deinde affirmando ipsum antecedens formaliter, directe
concludit intentum a positione antecedentis ad positionem consequentis dicens:
si ergo hae, scilicet, affirmatio et negatio in materia carente contrario, sunt
contrariae, et omnes aliae contradictiones contrariae censendae sunt. When
Aristotle says, Further, if this necessarily holds in a similar way in till
other cases it would seen that what we have said is correct, etc., he gives the
second argument to prove that the negation of the same thing is contrary to the
affirmation, and not the affirmation of a contrary. If opinions are necessarily
related in a similar way, i.e., in the same way, in other matter, that is, in
such a way that affirmation and negation of the same thing are contraries in
other matter, it would seem that what we have said about the opinions of that
which is good and that which is evil is correct, i.e., that the contrary of the
affirmation of that which is good is not the affirmation of evil but the
negation of good. He proves this consequence when he adds: for the opposition
of contradiction either holds everywhere or nowhere, i.e., in every matter one
part of a contradiction must be judged contrary to its affirmation—or never,
i.e., in no matter. For if there is a general art which deals with contrary
opinions, contrary Opinions must be taken everywhere and in every matter in one
and the same mode. Consequently, if in any matter, negation of the same thing of
the same thin- is the contrary of the affirmation, then in all matter negation
of the same thing of the same thing will be the contrary of the affirmation.
Since he intends in his proof to conclude from the position of the antecedent,
Aristotle affirms the antecedent through its cause: in matter in which there is
not a contrary, such as substance and quantity, which have no contraries, as is
said in the Predicamcnta [Categ. 5: 3b 24; 6: 5b 10], the one contradictorily
opposed to the true opinion is per se false. For example, he who thinks that
man, for instance Socrates, is not man, is per se mistaken with regard to one
who thinks that Socrates is man. Then he affirms the antecedent formally and
concludes directly from the position of the antecedent to the position of the
consequent. If then these, namely, affirmation and negation in matter which
lacks a contrary, are contraries, all other contradictions must be judged to be
contraries. 15. Deinde cum dicit: amplius similiter etc., probat idem tertia
ratione, quae talis est: sic se habent istae duae opiniones de bono, scilicet,
bonum est bonum, et, bonum non est bonum, sicut se habent istae duae de non
bono, scilicet, non bonum non est bonum, et, non bonum est bonum. Utrobique
enim salvatur oppositio contradictionis. Et primae utriusque combinationis sunt
verae, secundae autem falsae. Unde proponens hanc maiorem quoad primas veras
utriusque combinationis ait: similiter se habet opinio boni, quoniam bonum est,
et non boni quoniam non est bonum. Et subdit quoad secundas utriusque falsas:
et super has opinio boni quoniam non est bonum, et non boni quoniam est bonum.
Haec est maior. Sed illi verae opinioni de non bono, scilicet, non bonum non
est bonum, contraria non est, non bonum est malum, nec bonum non est malum,
quae sunt de praedicato contrario, sed illa, non bonum est bonum, quae est eius
contradictoria; ergo et illi verae opinioni de bono, scilicet, bonum est bonum,
contraria erit sua contradictoria, scilicet, bonum non est bonum, et non
affirmatio contrarii, scilicet, bonum est malum. Unde subdit minorem
supradictam dicens: illi ergo verae opinioni non boni, quae est dicens quoniam
scilicet non bonum non est bonum, quae est contraria. Non enim est sibi
contraria ea opinio, quae dicit affirmativae praedicatum contrarium, scilicet,
quod non bonum est malum: quia istae duae aliquando erunt simul verae. Nunquam
autem vera opinio verae contraria est. Quod autem istae duae aliquando simul
sint verae, patet ex hoc quod quoddam non bonum malum est: iniustitia enim quoddam
non bonum est, et malum. Quare contingeret contrarias esse simul veras: quod
est impossibile. At vero nec supradictae verae opinioni contraria est illa
opinio, quae est dicens praedicatum contrarium negativae, scilicet, non bonum
non est malum, eadem ratione, quia simul et hae erunt verae. Chimaera enim est
quoddam non bonum, de qua verum est simul dicere quod non est bona, et quod non
est mala. Relinquitur ergo tertia pars minoris quod ei opinioni verae quae, est
dicens quoniam non bonum non est bonum, contraria est ea opinio non boni, quae
est dicens quod est bonum, quae est contradictoria illius. Deinde subdit
conclusionem intentam: quare et ei opinioni boni, quae dicit bonum est bonum,
contraria est ea boni opinio, quae dicit quod bonum non est bonum, idest, sua
contradictoria. Contradictiones ergo contrariae in omni materia censendae sunt.
Then he says, Again, the opinions of that which is good, that it is good and of
that which is not good, that it is not good, are parallel. This begins the
third argument to prove the same thing. The two opinions of that which is good,
that it is good, and that it is not good, are related in the same way as the
two opinions of that which is not good, that it is not good and that it is
good; i.e., the opposition of contradiction is kept in both. The first opinion
of each combination is true, the second false. Hence with respect to the first
true opinions of each combination he proposes this major: Again, the opinions
of that which is good, that it is good, and of that which is not good, that it
is not good, are parallel. With respect to the second false judgment of each
combination he adds: so also are the opinions of that which is good, that it is
not good, and of that which is not good, that it is good. This is the major.
But the contrary of the true opinion of that which is not good, namely, the
true opinion "That which is not good is not good,” is not, "That
which is not good is evil,” nor "That which is not good is not evil,”
which have a contrary predicate, but the opinion that that which is not good is
good, which is its contradictory. Therefore, the contrary of the true opinion
of that which is good, namely, the true opinion "That which is good is
good,” will also be its contradictory, "That which is good is not good,”
and not the affirmation of the contrary "That which is good is evil.”
Hence he adds the minor which we have already stated: What, then, would be the
contrary of the true opinion asserting that that which is not good is not good?
The contrary of it is not the opinion which asserts the contrary predicate
affirmatively, "That which is not good is evil,” because these two are
sometimes at once true. But a true opinion is never contrary to a true opinion.
That these two are sometimes at once true is evident from the fact that some
things that are not good are evil. Take injustice; it is something not good,
and it is evil. Therefore, contraries would be true at one and the same time,
which is impossible. But neither is the contrary of the above true opinion the
one asserting the contrary predicate negatively, "That which is not good
is not evil,” and for the same reason. These will also be true at the same
time. For example, a chimera is something not good, and it is true to say of it
simultaneously that it is not good and that it is not evil. There remains the
third part of the minor: the contrary of the true opinion that that which is
not good is not good is the opinion that it is good, which is the contradictory
of it. Then he concludes as he intended: the opinion that a good is not good is
contrary to the opinion that a good is good, i.e., its contradictory.
Therefore, it must be judged that contradictions are contraries in every matter.
16. Deinde cum dicit: manifestum est igitur etc., declarat determinatam
veritatem extendi ad cuiusque quantitatis opiniones. Et quia de indefinitis, et
particularibus, et singularibus iam dictum est, eo quod idem evidenter apparet
de eis in hac re iudicium (indefinitae enim et particulares nisi pro eisdem
supponant sicut singulares, per modum affirmationis et negationis non
opponuntur, quia simul verae sunt); ideo ad eas, quae universalis quantitatis
sunt se transfert, dicens, manifestum esse quod nihil interest quoad propositam
quaestionem, si universaliter ponamus affirmationes. Huic enim, scilicet,
universali affirmationi, contraria est universalis negatio, et non universalis
affirmatio de contrario; ut opinioni quae opinatur, quoniam omne bonum est
bonum, contraria est, nihil horum, quae bona sunt, idest, nullum bonum est
bonum. Et declarat hoc ex quid nominis universalis affirmativae, dicens: nam
eius quae est boni, quoniam bonum est, si universaliter sit bonum: idest,
istius opinionis universalis, omne bonum est bonum, eadem est, idest,
aequivalens, illa quae opinatur, quidquid est bonum est bonum; et consequenter
sua negatio contraria est illa quam dixi, nihil horum quae bona sunt bonum est,
idest, nullum bonum est bonum. Similiter autem se habet in non bono: quia
affirmationi universali de non bono reddenda est negatio universalis eiusdem,
sicut de bono dictum est. He then says, It is evident that it will make no
difference if we posit the affirmation universally, etc. Here he shows that the
truth he has determined is extended to opinions of every quantity. The case has
already been stated in respect to indefinites, particulars, and singulars. On
this point their status is alike, for indefinites and particulars, unless they
stand for the same thing, as is the case in singulars, are not opposed by way
of affirmation and negation, since they are at once true. Therefore he turns
his attention to those of universal quantity. It is evident, he says, that it
will make no difference with respect to the proposed question if we posit the
affirmations universally, for the contrary of the universal affirmative is the
universal negative, and not the universal affirmation of a contrary. For
example, the contrary of the opinion that everything that is good is good is
the opinion that nothing that is good (i.e., no good) is good. He manifests
this by the nominal definition of universal affirmative: for the opinion that
that which is good is good, if the good is universal, i.e., the universal
opinion "Every good is good,” is the same, i.e., is equivalent to the
opinion that whatever is good is good. Consequently, its negation is the
contrary I have stated, "Nothing which is good is good,” i.e., "No
good is good.” The case is similar with respect to the not good. The universal
negation of the not good is opposed to the universal affirmation of the not
good, as we have stated with respect to the good. 17. Deinde cum dicit: quare
si in opinione sic se habet etc., revertitur ad respondendum quaestioni primo
motae, terminata iam secunda, ex qua illa dependet. Et circa hoc duo facit:
quia primo respondet quaestioni; secundo, declarat quoddam dictum in
praecedenti solutione; ibi: manifestum est autem quoniam et cetera. Circa
primum duo facit. Primo, directe respondet quaestioni, dicens: quare si in
opinione sic se habet contrarietas, ut dictum est; et affirmationes et
negationes quae sunt in voce, notae sunt eorum, idest, affirmationum et
negationum quae sunt in anima; manifestum est quoniam affirmationi, idest,
enunciationi affirmativae, contraria erit negatio circa idem, idest, enunciatio
negativa eiusdem de eodem, et non enunciatio affirmativa contrarii. Et sic
patet responsio ad primam quaestionem, qua quaerebatur, an enunciationi
affirmativae contraria sit sua negativa, an affirmativa contraria. Responsum
est enim quod negativa est contraria. Secundo, dividit negationem contrariam
affirmationi, idest, negationem universalem et contradictoriam, dicens:
universalis, scilicet, negatio, affirmationi contraria est et cetera. Ut
exemplariter dicatur, ei enunciationi universali affirmativae quae est, omne
bonum est bonum, vel, omnis homo est bonus, contraria est universalis negativa,
ea scilicet, nullum bonum est bonum, vel, nullus homo est bonus: singula
singulis referendo. Contradictoria autem negatio, contraria illi universali
affirmationi est, aut, non omnis homo est bonus, aut, non omne bonum est bonum,
singulis singula similiter referendo. Et sic posuit utrunque divisionis
membrum, et declaravit. Then he says, If, therefore, this is the case with
respect to opinion, and. affirmations and negations in vocal sound are signs of
those in the soul, etc. With this he returns to the question first advanced, to
reply to it, for he has now completed the second on which the first depends. He
first replies to the question, then manifests a point in the solution of a
preceding difficulty where he says, It is evident, too, that true cannot be
contrary to true, either in opinion or in contradiction, etc. First, then, he
replies directly to the question: If, therefore, contrariety is such in the
case of opinions, and affirmations and negations in vocal sound are signs of
affirmations and negations in the soul, it is evident that the contrary of the
affirmation, i.e., of the affirmative, enunciation, is the negation of the same
subject. In other words, the negative enunciation of the same predicate of the
same subject will be the contrary, and not the affirmative enunciation of a
contrary. Thus the response to the first question—whether the contrary of the
affirmative enunciation is its negative or the contrary affirmative—is clear.
The answer is that the negative is the contrary. Next, he divides negation as
it is contrary to affirmation, i.e., into the universal negation, and the
contradictory: The universal, i.e., negation, is contrary to the affirmation,
etc. In order to state this division by way of example he relates one
enunciation to one enunciation: the contrary of the universal affirmative
enunciation "Every good is’ good” or "Every man is good,” is the
universal negative "No good is good” or "No man is good.” Again,
relating one to one, he says that the contradictory negation contrary to the
universal affirmation is "Not every man is good” or "Not everything
good is good.” Thus he posits both members of the division and makes the
division evident. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 18 Sed est hic dubitatio non
dissimulanda. Si enim affirmationi universali contraria est duplex negatio,
universalis scilicet et contradictoria, vel uni duo sunt contraria, vel
contrarietate large utitur Aristoteles: cuius oppositum supra declaravimus.
Augetur et dubitatio: quia in praecedenti textu dixit Aristoteles quod, nihil
interest si universalem negationem faciamus ita contrariam universali
affirmationi, sicut singularem singulari. Et ita declinari non potest quin
affirmationi universali duae sint negationes contrariae, eo modo quo hic
loquitur de contrarietate Aristoteles. A difficulty arises at this point which
we cannot disregard. If the contrary of the universal affirmative is a twofold
negation, namely, the universal and the contradictory, either there are two
contraries to one affirmation or Aristotle is using contrariety in a broad
sense, although we showed that this was not the case apropos of an earlier
passage of the text. The difficulty is augmented by the fact that Aristotle said
in the passage immediately preceding that it makes no difference if we take the
universal negation as contrary to the universal affirmation, i.e., as one of
its negations. Hence, the conclusion cannot be avoided that in the mode in
which Aristotle speaks of contrariety here, there are two contrary negations to
the universal affirmative. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 19 Ad huius evidentiam
notandum est quod, aliud est loqui de contrarietate quae est inter negationem
alicuius universalis affirmativae in ordine ad affirmationem contrarii de
eodem, et aliud est loqui de illamet universali negativa in ordine ad
negationem eiusdem affirmativae contradictoriam. Verbi gratia: sint quatuor
enunciationes, quarum nunc meminimus, scilicet, universalis affirmativa, contradictoria,
universalis negativa, et universalis affirmatio contrarii, sic dispositae in
eadem linea recta: omnis homo est iustus, non omnis homo est iustus, omnis homo
non est iustus, omnis homo est iniustus: et intuere quod licet primae omnes
reliquae aliquo modo contrarientur, magna tamen differentia est inter primae et
cuiusque earum contrarietatem. Ultima enim, scilicet affirmatio contrarii,
primae contrariatur ratione universalis negationis, quae ante ipsam sita est:
quia non per se sed ratione illius falsa est, ut probavit Aristoteles, quia
implicita est. Tertia autem, idest universalis negatio, non per se sed ratione
secundae, scilicet negationis contradictoriae, contrariatur primae eadem
ratione, quia, scilicet, non est per se falsa illius affirmationis veritate,
sed implicita: continet enim negationem contradictoriam, scilicet, non omnis
homo est iustus, mediante qua falsificatur ab affirmationis veritate, quia
simpliciter et prior est falsitas negationis contradictoriae falsitate
negationis universalis: totum namque compositius et posterius est partibus. Est
ergo inter has tres falsas ordo, ita quod affirmationi verae contradictoria
negatio simpliciter sola est contraria, quia est simpliciter respectu illius
per se falsa; affirmativa autem contrarii est per accidens contraria, quia est
per accidens falsa; universalis vero negatio, tamquam medium sapiens utriusque
extremi naturam, relata ad contrarii affirmationem est per se contraria et per
se falsa, relata autem ad negationem contradictoriam est per accidens falsa et
contraria. Sicut rubrum ad nigrum est album, et ad album est nigrum, ut dicitur
in V physicorum. Aliud igitur est loqui de negatione universali in ordine ad
affirmationem contrarii, et aliud in ordine ad negationem contradictoriam. Si
enim primo modo loquamur, sic negatio universalis per se contraria et per se
falsa est; si autem secundo modo, non est per se falsa, nec contraria
affirmationi. To clear up this difficulty we must note that it is one thing to
speak of the contrariety there is between the negation of some universal
affirmative in relation to the affirmation of a contrary, and another to speak
of that same universal negative in relation to the negation contradictory to
the same affirmative. For example, the four enunciations of which we are now
speaking are the universal affirmative, the contradictory, the universal
negative, and the universal affirmation of a contrary: "Every man is
just,” "Not every man is just,” "No man is just,” "Every man is
unjust.” Notice that although all the rest are contrary to the first in some
way, there is a great difference between the contrariety of each to the first.
The last one, the affirmation of a contrary, is contrary to the first by reason
of the preceding universal negation, for it is false, not per se but by reason
of that negation, i.e., it is implicative, as Aristotle has already proved. The
third, the universal negation, is not per se contrary to the first either. It
is contrary by reason of the second, the contradictory negation, and for the
same reason, i.e., it is not per se false in respect to the truth of the
affirmation but is implicative, for it contains the contradictory negation
"Not every man is just,” by means of which it is made false in respect to
the truth of the affirmation. The reason for this is that the falsity of the
contradictory negation is prior absolutely to the falsity of the universal
negation, for the whole is more composite and posterior as compared to its
parts. There is, therefore, an order among these three false enunciations. Only
the contradictory negation is simply contrary to the true affirmation, for it
is per se false simply in respect to the affirmation; the affirmative of the
contrary is per accidens contrary, since it is per accidens false; the universal
negation, which is a medium partaking of the nature of each extreme, is per se
contrary and per se false as related to the affirmation of a contrary, but is
per accidens false and per accidens contrary as related to the contradictory
negation; just as red in a motion from red to black takes the place of white,
and in a motion from red to white takes the place of black, as is said in V
Physicorum [5: 229b 15]. Therefore, it is one thing to speak of the universal
negation in relation to affirmation of a contrary and another to speak of it in
relation to the contradictory negation. If we are speaking of it in the first
way, the universal negation is per se contrary and per se false; if in the
second, it is not per se false or contrary to the affirmation. 20. Quia ergo
agitur ab Aristotele nunc quaestio, inter affirmationem contrarii et negationem
quae earum contraria sit affirmationi verae, et non agitur quaestio ipsarum
negationum inter se, quae, scilicet, earum contraria sit illi affirmationi, ut
patet in toto processu quaestionis; ideo Aristoteles indistincte dixit quod
utraque negatio est contraria affirmationi verae, et non affirmatio contrarii.
Intendens per hoc declarare diversitatem quae est inter affirmationem contrarii
et negationem in hoc quod verae affirmationi contrariantur, et non intendens
dicere quod utraque negatio est simpliciter contraria. Hoc enim in dubitatione
non est quaesitum, sed illud tantum. Et similiter dixit quod nihil interest si
quis ponat negationem universalem: nihil enim interest quoad hoc, quod
affirmatio contrarii ostendatur non contraria affirmationi verae, quod
inquirimus. Plurimum autem interesset, si negationes ipsas inter se discutere
vellemus quae earum esset affirmationi contraria. Sic ergo patet quod
subtilissime Aristoteles locutus de vera contrarietate enunciationum, unam uni
contrariam posuit in omni materia et quantitate, dum simpliciter contrarias
contradictiones asseruit. Since Aristotle is now treating the question as to
which is the contrary of a true affirmation, affirmation of a contrary or the
negation, and not the question as to which of the negations is contrary to a
true affirmation—as is clear in the whole progression of the question—bis
answer is that both negations are contrary to the true affirmation without
distinction, and that affirmation of a contrary is not. His intention is to
manifest the diversity between the negation, and the affirmation of a contrary,
inasmuch as they are contrary to a true affirmation. He does not intend to say
that both negations are contrary simply, for this is not the difficulty in
question here, but the former is. With respect to his saying that it makes no
difference if we posit the universal negation, the same point applies, for in
regard to showing that affirmation of a contrary is not contrary to a true
affirmation, which is the question at issue here, it makes no difference which
negation is posited. It would make a great deal of difference, however, if we
wished to discuss which negation was contrary to a true affirmation. It is
evident, then, that Aristotle’s discussion of the true contrariety of
enunciations is very subtle, for he has posited one to one contraries in every
matter and quantity, and affirmed that contradictions are contraries simply.
21. Deinde cum dicit: manifestum est autem etc., resumit quoddam dictum ut
probet illud, dicens manifestum est autem ex dicendis quod non contingit veram
verae contrariam esse, nec in opinione mentali, nec in contradictione, idest,
vocali enunciatione. Et causam subdit: quia contraria sunt quae circa idem
opposita sunt; et consequenter enunciationes et opiniones verae circa diversa
contrariae esse non possunt. Circa idem autem contingit simul omnes veras
enunciationes et opiniones verificari, sicut et significata vel repraesentata
earum simul illi insunt: aliter verae tunc non sunt. Et consequenter omnes
verae enunciationes et opiniones circa idem contrariae non sunt, quia contraria
non contingit eidem simul inesse. Nullum ergo verum sive sit circa idem, sive
sit circa aliud, est alteri vero contrarium. Et sic finitur expositio huius
libri perihermenias. When he says, It is evident, too, that true cannot be
contrary to true, either in opinion or in contradiction, etc., he returns to a
statement he has already made in order to prove it. It is evident, too, from
what has been said, that true cannot be contrary to true, either in opinion or
in contradiction, i.e., in vocal enunciation. He gives as the cause of this
that contraries are opposites about the same thing; consequently, true
enunciations and opinions about diverse things cannot be contraries. However,
it is possible for all true enunciations and opinions about the same thing to
be verified at the same time, inasmuch as the things signified or represented
by them belong to the same thing at the same time; otherwise they are not true.
Consequently, not all true enunciations and opinions about the same thing are
contraries, for it is not possible for contraries to be in the same thing at
the same time. Therefore, no true opinion or enunciation, whether it is about
the same thing or is about another is contrary to another. –
[
XI. 6. The third part is the second difference, i.e., by convention, namely,
according to human institution deriving from the will of man. This differentiates
names from vocal sounds signifying naturally, such as the groans of the sick
and the vocal sounds of brute animals] [?][11 Then Aristotle says, ‘by convention’
is added because nothing is *by nature* a name, etc. Here Aristotle explains
the third part of the definition. The reason it is said that the name signifies
by convention [ad placitum ex institutione], he says, is that no name exists
naturally. For it is a name because it signifies; it does not signify naturally
however, but by institution [ex institutione]. This Aristotle adds when he
says, but it is a name when it is *made* a sign, i.e., when it is imposed to
signify. For that which signifies naturally is not made a sign, but is a sign
naturally. he explains this when he says: for unlettered sounds, such as those
of the brutes designate, etc., i.e., since they cannot be signified by letters.
He says sounds rather than vocal sounds because some animals—those without
lungs—do not have vocal sounds. Such animals signify proper passions by some
kind of non-vocal sound which signifies naturally. But none of these sounds of
the brutes is a name. We are given to understand from this that a name does not
signify naturally.]
Aquino.
Keywords: Peri hermeneias, de interpretation, Austin/Grice, “De interpretation”
nota, notare, notante, notato, denotato – denotare -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Aquino: grammatici speculative, per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Refs.: Grice,
“Intentionality in Aquino,” Speranza, “Grice and Aquino on the taxonomy of
intentions.”
Arangio: Grice: “We
have Flores, we have Ruiz, we have Enriques – reminds me of Alan Montefiore! I
like Vladimiro Arangio – my favourite is by far his philosoophising on
Socrates’s ‘Sofista’ – he distinguishes between what he calls ‘Socratic
dialogue’ (mine) and ‘dialogo sofistico’!” -- Vladimiro Arangio-Ruiz (Napoli) filosofo,
grecista e accademico italiano. Fu il primo preside del Liceo scientifico
Alessandro Tassoni di Modena, istituito nel 1923, a seguito della riforma
Gentile. Nacque a Napoli nel 1887 da
Gaetano, professore di diritto costituzionale, e da Clementina Cavicchia.
Frequentò a Firenze il corso di lettere nell'Istituto di studi superiori dal
1905 al 1910 e si laureò con una tesi su Il coro nella tragedia greca in
letteratura greca con Girolamo Vitelli, filologo, grecista, papirologo e
senatore del Regno d'Italia. Vladimiro
appartenne a una illustre famiglia di giuristi: il fratello Vincenzo
Arangio-Ruiz fu uno dei maggiori studiosi di diritto romano, ordinario
all'Napoli e alla Sapienza di Roma. Contravvenendo alla tradizione di famiglia,
Vladimiro preferì dedicarsi agli studi filosofici e fu professore alla Scuola
normale superiore di Pisa e alla facoltà di Magistero di Firenze. Insegnò nei ginnasi di Stato e fu ufficiale
d'artiglieria nella Prima guerra mondiale dove venne ferito. Nel 1921 si laureò
per la seconda volta, in filosofia con Piero Martinetti, discutendo la tesi
Conoscenza e moralità pubblicata nel 1922.
In gioventù aveva sentito fortemente l'influenza del giovane poeta e
filosofo Carlo Michelstaedter, esponente importante della filosofia europea del
primo Novecento, del quale pubblicherà gli scritti. Si propose una funzione critica
ricostruttiva dell'idealismo
storicistico e dell'attualismo di Giovanni Gentile da cui trasse ispirazione
per sviluppare il suo "moralismo assoluto". Contrariamente alla
dottrina gentiliana che dichiarava l'attualismo coincidente con la "vita
dello Stato", Arangio Ruiz credeva che invece fosse identificabile con il
comportamento morale individuale poiché la politica non è che un aspetto
particolare della legge morale per sua natura universale . Fra le sue opere si ricordano. “Prose morali”;
“Umanità dell'arte.” Il Liceo
"Tassoni" tra storia e innovazione.
Fonte: Dizionario di filosofia, riferimenti in . Fabrizio Meroi, «Carlo Michelstaedter» in Il
contributo italiano alla storia del PensieroFilosofia, Roma Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, . Ricostruzione filosofica, in
Arch. di filosofia, X[1940]20 Carlo
Michelstaedter Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una
pagina dedicata a Vladimiro Arangio-Ruiz
Vladimiro Arangio-Ruiz, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Vladimiro
Arangio-Ruiz, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Vladimiro
Arangio-Ruiz, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
2009. Filosofia Filosofo del XX secoloGrecisti italianiAccademici italiani Professore.
Vladimiro Arangio-Ruiz. Arangio. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Arrangio” – The Swimming-Pool Library.
Arcais (Cervignano del Freiuli). Filosofo. Grice: “As Mikos says
about the English, ‘de’ adds prestige as in ‘de Grys’ – same with Italians and
‘d’Arcais,’ after four pescherie owned by one ancestor. – d’Arcais has been
described as a ‘quaresmalitsa,’ who had the unfortune of being tutored by an
atheist! Asa good stoicp philosopher, he
endured it!’ Direttore della rivista MicroMega. È stato collaboratore de la
Repubblica, il Fatto Quotidiano, El País, Frankfurter Allgemeine Zeitung e
Gazeta Wyborcza. Ha sempre unito
l’attività di studioso, il lavoro editoriale e l’impegno civile. Educazione
intensamente cattolica. Abbandona la fede nella primavera del 1961. Maturità
scientifica. Maturità classica. Si iscrive al partito comunista (e federazione
giovanile) entrando all’università. Nel 1964 è segretario del Circolo universitario
comunista e nell’estate frequenta la scuola centrale di partito “Marabini” a
Bologna. Si laurea con una tesi su “Marx interprete di Adamo Smith” e ne sarà a
lungo uno degli assistenti. Espulso dal Pci, è uno degli animatori del
movimento studentesco del Sessantotto. Pubblica la rivista “Soviet”. Nel 1976/7
la rivista “Il Leviatano”. -- è l’organizzatore del convegno internazionale di
tre giorni che apre la “Biennale del dissenso” della presidenza Ripa di
Meana. Viene chiamato a fondare e dirigere
il “Centro culturale Mondoperaio” dal segretario del Psi Bettino Craxi (alleato
delle sinistre di Giolitti e Lombardi). Prima iniziativa, il convegno
internazionale “Marxismo, leninismo, socialismo”, relatori Cornelius
Castoriadis, Gilles Martinet e Rudi Dutschke. Rompe con Craxi nel gennaio del
1980 quando questi cambia politica, spezza l’alleanza con Giolitti e Lombardi,
torna al governo con la Dc. Nel 1986
fonda insieme a Giorgio Ruffolo la rivista “MicroMega” (Ruffolo ne uscirà nel
1992, per contrasti su “Mani pulite”). Fonda la “sinistra dei club” per
partecipare alla fondazione del Pds, che dovrebbe aprirsi alla società civile
sulle ceneri dell’ex Pci. Lo abbandona un anno dopo, viste le promesse non
mantenute. Nell’inverno 2000 è protagonista di una controversia pubblica col
cardinal Ratzinger al Teatro Quirino di Roma. Nel 2002 organizza insieme a
Nanni Moretti, Olivia Sleiter e Pancho Pardi la grande manifestazione dei
“girotondi” del 14 settembre a piazza san Giovanni a Roma. Paolo Flores d'Arcais
è "radicalmente ateo". Inizia
presto ad occuparsi di politica nell'organizzazione giovanile del Partito
Comunista Italiano, ma presto viene espulso dalla FGCI per la sua prolungata e
grave attività frazionistica, cioè per la sua doppia militanza nella FGCI e
nella Quarta Internazionale trotskista. Allievo e amico di Lucio Colletti, dopo
esser stato uno dei protagonisti del "Sessantotto" romano, approda a
posizioni di riformismo radicale e verso la fine degli anni settanta ha una
breve ma vivida intesa con Bettino Craxi e Claudio Martelli, dai quali,
tuttavia, si distacca ben presto. Nel
1991 aderisce al Partito Democratico della Sinistra di Achille Occhetto
entrando nella Direzione del movimento, da cui però fuoriesce due anni dopo
poiché favorevole alla guerra del Golfo a differenza della linea maggioritaria
del partito. Tra i promotori della breve stagione dei girotondi, tenta di
proporre una lista di suoi candidati alle primarie dell'Ulivo per le elezioni
politiche del 2006 ma come lui stesso deve ammettere "realizza un
fallimento pieno e perfetto" raccogliendo appena 130 adesioni alla sua
idea. Il 25 marzo 2008 annuncia su MicroMega che nelle elezioni politiche del
2008 avrebbe votato per il Partito Democratico in funzione anti-berlusconiana.
Il 29 gennaio 2009 decide di ritentare in politica prospettando il
"Partito dei Senza Partito" insieme ad Antonio Di Pietro ed Andrea
Camilleri per partecipare alle elezioni europee del 2009 ma, il 12 marzo dello
stesso anno, viene annunciato il mancato accordo fra i tre. Per le elezioni
politiche del ha dichiarato di votare la
lista Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia. Successivamente non nasconde le
sue simpatie per il Movimento 5 Stelle per il quale dichiara di votare.
Tuttavia in seguito all'alleanza tra il Movimento 5 Stelle e la Lega si dice
deluso dal Movimento, accusando in particolare Luigi Di Maio di avere tradito
le promesse agli elettori. Altre opere:
“Il maggio rosso di Parigi. Cronologia e documenti delle lotte studentesche e
operaie in Francia, a cura di, Padova, Marsilio); “Il piccolo sinistrese
illustrato, con Giampiero Mughini, Milano, SugarCo); “Il dubbio e la certezza.
Nei dintorni del marxismo e oltre (Milano, SugarCo); “L'esistenzialismo
libertario di Hannah Arendt, in Hannah Arendt, Politica e menzogna, Milano,
SugarCo); “Oltre il PCI. Per un partito libertario e riformista, Genova, Marietti);
“Esistenza e libertà. A partire da Hannah Arendt, Genova, Marietti); “L'albero
e la foresta. Il partito democratico della sinistra nel sistema politico
italiano, con Umberto Curi, Milano, FrancoAngeli); “La rimozione permanente. Il
futuro della sinistra e la critica del comunismo. Scritti; Genova, Marietti,
1991. 88-211-6898-0. Etica senza fede,
Torino, Einaudi); “Il disincanto tradito, Torino, Bollati Boringhieri); “Hannah
Arendt. Esistenza e libertà, Roma, Donzelli); “Gobetti, liberale del futuro, in
Piero Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia,
Torino, Einaudi); “Il populismo italiano da Craxi a Berlusconi. Dieci anni di
regime nelle analisi di MicroMega, Roma, Donzelli); “L'individuo libertario.
Percorsi di filosofia morale e politica nell'orizzonte del finite” (Torino,
Einaudi); “ Il sovrano e il dissidente, ovvero La democrazia presa sul serio.
Saggio di filosofia politica per cittadini esigenti, Milano, Garzanti); “Dio
esiste? Un confronto su verità, fede, ateismo, moderato da Gad Lerner, con
Joseph Ratzinger, Roma, Somedia Gruppo editoriale L'Espresso); “Il ventennio
populista. Da Craxi a Berlusconi (passando per D'Alema?), Roma, Fazi); “Hannah
Arendt. Esistenza e libertà, autenticità e politica, Roma, Fazi); “Atei o
credenti? Filosofia, politica, etica, scienza”; “Roma, Fazi, Dio? Ateismo della ragione e ragioni della
fede, con Angelo Scola, Venezia, Marsilio); “Itinerario di un eretico” (Lugano,
ADV); “A chi appartiene la tua vita? Una riflessione filosofica su etica,
testamento biologico, eutanasia e diritti civili nell'epoca oscurantista di Ratzinger
e Berlusconi, Milano); “Ponte alle Grazie, 2009. 978-88-6220-068-4. Albert Camus filosofo del
futuro, Torino, Codice); “La sfida oscurantista di Joseph Ratzinger, Milano,
Ponte alle Grazie); “Gesù. L'invenzione del Dio cristiano, Torino, Add); “Macerie.
Ascesa e declino di un regime, Roma, Aliberti); “Perché oggi, in Ernesto Rossi,
Contro l'industria dei partiti, Milano, Chiarelettere); Democrazia! Libertà
privata e libertà in rivolta, Torino, Add); “Il caso o la speranza? Un
dibattito senza diplomazia” (Milano, Garzanti); “La Guerra del Sacro.
Terrorismo, laicità e democrazia radicale, Milano, Raffaello Cortina Editore);
“Questione di vita e di morte, Einaudi, Vele. Note cfr., uno per tutti, il suo volume (a quattro
mani con il cardinale Angelo Scola) "Dio? Ateismo della ragione e ragioni
della fede"Marsilio editore, 2008
Dal sito di MicroMega Articolo de
El País, tradotto in italiano Archiviato il 30 giugno in .
Elezioni Per chi votano Travaglio, Guzzanti, Scanzi, ecc. Tra
Rivoluzione Civile e il Movimento 5 Stelle
La Repubblica del 19 novembre
Flores d'Arcais: “Il Movimento 5 Stelle non esiste più”, su
micromega-online. 24 aprile . MicroMega
(periodico). reccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Opere di Paolo Flores
d'Arcais, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.
Registrazioni di Paolo Flores d'Arcais, su RadioRadicale, Radio
Radicale. Sito ufficiale di MicroMega.
Undici riflessioni sui movimenti articolo pubblicato sul numero 2 del 2002 di
MicroMega. Intervista a D'Arcais sul ventennale della rivista. Il blog di Paolo
Flores d'Arcais, su ilfattoquotidiano. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi
italiani del XXI secoloGiornalisti italiani del XX secoloGiornalisti italiani Professore1944Nati
l'11 luglio Cervignano del FriuliDirettori di periodici italianiFilosofi atei.
Arcais. Paolo Flores d’Arcais. Keywords: giudeo, portughese, Flores – arcais,
d’arcais, piamontese. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Arcais” – The Swimming-Pool Library.
Archibugi (Roma).
Filosofo. Grice: “I would hardly call Archibugi a philosopher, but he did
compile a thing ‘filosofi per la pace’ none of them Italian! So much for ‘pax
romana’!” – Grice: “Strawson does call Archibugi a ‘filosofo,’ though!” -- DanieleArchibugi (Roma), filosofo. Nell'ambito
della teoria politica, ha sviluppato, insieme a David Held, l'idea di una
democrazia cosmopolita. Ha anche lavorato su diversi aspetti della
globalizzazione, ed in particolare sulla globalizzazione dell'innovazione e del
cambiamento tecnologico. Dopo una non assidua frequentazione del Liceo
Sperimentale della Bufalotta, si è laureato con lode alla Facoltà di Economia e
Commercio dell'Roma La Sapienza con Federico Caffè. Ha conseguito il dottorato
di ricerca presso lo Science Policy Research Unit dell'Università del Sussex,
dove ha lavorato con Christopher Freeman e Keith Pavitt. Ha insegnato alle
Università del Sussex, Madrid, Napoli, Roma La Sapienza e Roma Luiss,
Cambridge, London School of Economics and Political Science e Harvard. Ha anche
tenuto corsi presso università asiatiche quali la Ritsumeikan University di
Kyoto e la SWEFE University di Chengdu. Nel 2006 è stato nominato
Professore Onorario presso l'Università del Sussex e nel Membro d'Onore del Réseaux de Recherche sur
l'Innovation. Dirigente presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche a
Roma, è Professore di Innovation, Governance and Public Policy presso l'Londra,
Birkbeck College. Dal 1997 al 2002 è stato Commissario dell'Autorità sui
servizi pubblici locali di Roma, eletto a larga maggioranza dal Consiglio
Comunale. La democrazia cosmopolita Il progetto della democrazia
cosmopolita o cosmopolitica si interroga sulla possibilità di applicare alcune
norme e valori della democrazia anche nelle relazioni internazionali. La necessità
deriva dal fatto che la globalizzazione economica e sociale ha reso gli stati
sempre più vulnerabili e che decisioni importanti per loro sono prese al di
fuori dal processo democratico. La soluzione proposta dalla democrazia
cosmopolita è sviluppare istituzioni sovra-statali che siano capaci di
affrontare democraticamente problemi comuni quali l'ambiente, la sicurezza, le
migrazioni, il commercio estero e i flussi finanziari. La democrazia
cosmopolita guarda con fiducia alle organizzazioni internazionali, e desidera
rafforzare al loro interno il controllo dei cittadini, cui va dato un peso
politico parallelo e autonomo rispetto a quello che già hanno i loro governi. A
livello politico, Archibugi ha sostenuto la limitazione del potere di veto nel
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la formazione di un'Assemblea
Parlamentare Mondiale. Ha invece ritenuto insoddisfacenti e anti-democratici i
vertici inter-governativi quali il G7, G8 and G20. Ha anche preso posizione
contro l'idea di una Lega delle democrazie sostenendo che una riforma
democratica delle Nazioni Unite riuscirebbe assai meglio a soddisfare le
medesime istanze. Giustizia globale Fautore della responsabilità
individuale dei governanti nel caso di crimini internazionali, Archibugi ha
anche attivamente sostenuto, sin dalla caduta del muro di Berlino, la creazione
di una Corte penale internazionale, collaborando sia con i giuristi della
Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite sia con il governo
italiano. Nel corso degli anni, la sua posizione è diventata sempre più
scettica per l'incapacità dei tribunali internazionali di incriminare i più
forti. Ha, quindi, preso posizione a favore di altri strumenti quasi-giudiziari
come le Commissioni per la verità e la riconciliazione e i Tribunali
d'opinione. Globalizzazione della tecnologia Archibugi ha proposto una
tassonomia della globalizzazione della tecnologia che distingue fra tre
meccanismi di trasmissione della conoscenza: sfruttamento internazionale delle
innovazioni, generazione globale delle innovazioni e collaborazioni globali
nella scienza e nella tecnologia.. Come Presidente di un Gruppo di
Esperti dello Spazio di Ricerca Europeo della Commissione europea dedicato alla
collaborazione internazionale nella scienza e nella tecnologia, Archibugi ha
indicato che il declino demografico dell'Europa, combinato con la scarsa
vocazione delle nuove generazioni per le scienze, genererà una drastica carenza
di lavoratori qualificati in meno di una generazione. Questo metterà in
pericolo il livello di benessere della popolazione europea in aree cruciali
come la ricerca medica, le tecnologie dell'informazione e le industrie ad alta
tecnologia. Ha così sostenuto di rivedere radicalmente la politica
dell'immigrazione europea in maniera di accogliere e formare in un decennio
almeno due milioni di studenti dai paesi emergenti e in via di sviluppo,
qualificandoli in discipline quali le scienze e l'ingegneria. Economia
della ricostruzione dopo le crisi economiche Da studioso dei cicli economici,
Archibugi ha combinato la prospettiva keynesiana derivata dai suoi mentori
Federico Caffè, Hyman Minsky e Nicholas Kaldor con quella schumpeteriana
derivata da Christopher Freeman e dallo Science Policy Research Unit
dell'Università del Sussex. Combinando le due prospettive, Archibugi ha
sostenuto che per uscire da una crisi, un paese deve investire nei settori
emergenti e che, in assenza di spirito imprenditoriale del settore privato, il
settore pubblico deve avere la capacità manageriale di sfruttare le opportunità
scientifiche e tecnologiche, anche a salvaguardia dei beni pubblici.
Relazioni familiari Figlio dell'urbanista Franco Archibugi e della poetessa
Muzi Epifani, ha numerosi fratelli e sorelle, tra cui la regista Francesca
Archibugi e il politologo Mathias Koenig-Archibugi, con il quale frequentemente
collabora nei suoi studi. I fratelli maggiori del nonno di suo nonno furono
Francesco e Alessandro Archibugi, volontari del Battaglione universitario della
Sapienza e la difesa della Repubblica Romana (1849). Note D.
Archibugi è stato uno degli ultimi e più vicini allievi di Federico Caffè.
Partecipò attivamente alle sue ricerche dopo la misteriosa scomparsa. Cfr. D.
Archibugi, I ragazzi che cercarono il Prof. Caffè, La Repubblica, 8 aprile . Si
veda anche Fabrizio Peronaci, La scomparsa di Federico Caffè. «Un genio anche
nell’addio. Come lui solo Majorana», intervista a Daniele Archibugi, Corriere,
10 novembre . Membres d'honneur du
Réseaux de Recherche sur l'Innovation
Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Ricerca sulla
Popolazione e le Politiche Sociali
Birkbeck College, Department of Management Tom Cassauwers, Interview with Daniele
Archibugi, E-INTERNATIONAL RELATIONS, 14 settembre . Campaign for the Establishment of a United Nations
Parliamentary Assembly Copia archiviata, su en.unpacampaign.org. 10 ottobre
2009 22 agosto 2009). D. Archibugi, The
G20 is a luxury we can't afford, The Guardian, Saturday 28 March 2008. D. Archibugi, A League of Democracies or a
Democratic United Nations Archiviato il 24 luglio in ., Harvard International Review, Ottobre
2008. Intervista su Delitto e castigo
nella società globale. Crimini e processi internazionali, Letture.org. . Daniele Archibugi e Alice Pease, Delitto e
castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali, Castelvecchi,
Roma, . Daniele Archibugi, La giustizia
penale internazionale tra passato e futuro, Questione Giustizia, 27 gennaio
. Daniele Archibugi and Jonathan Michie,
The Globalization of Technology: A New Taxonomy, "Cambridge Journal of
Economics", 19, no. 1, 1995, 121-140,
Daniele Archibugi (Chair) Opening to the World. Opening to the World:
International Cooperation in Science and Technology Archiviato il 25
luglio in ., European Research Area,
2008, D. Archibugi e A. Filippetti,
Innovation and Economic Crisis. Innovation and Economic Crisis. Lessons and
Prospects from the Economic Downturn, Routledge, London, . D. Archibugi, A. Filippetti & M. Frenz,
Investment in innovation for European recovery: a public policy priority,
Science & Public Policy, November .
Daniele Archibugi, «Generare imprese europee per la ricostruzione: la
lezione Airbus», Il Sole 24 Ore, 5 Maggio .
Floriana Bulfon, «Nuovi imprenditori e lavoratori soddisfatti: solo così
dopo il virus l'Italia sarà migliore. Intervista a Daniele Archibugi»,
L'Espresso, 14 Aprile . Daniele
Archibugi, Mathias Koenig-Archibugi, Raffaele Marchetti, Global Democracy.
Normative and Empirical Perspectives, Cambridge University Press, Cambridge, . Nell'ambito
degli studi sull'organizzazione internazionale, ha pubblicato: “Filosofi per la
pace” (Editori Riuniti); “Cosmopolis. È possibile una democrazia sovra-nazionale?”
(Manifestolibri); “Il futuro delle Nazioni Unite” (Edizioni Lavoro); “Diritti
umani e democrazia cosmopolitica” (Feltrinelli); “Cittadini del mondo. Verso
una democrazia cosmopolitica” (Il Saggiatore); “Delitto e castigo nella società
globale. Crimini e processi internazionali, (Castelvecchi); “Cambiamento
tecnologico e sviluppo industriale, (Franco Angeli); “Economia globale e
innovazione” (Donzelli). “Il triangolo dei servizi pubblici, (Marsilio). “Relazione
sulla ricerca e l'innovazione in Italia. Analisi e dati di politica della
scienza e della tecnologia, seconda edizione (CNR Edizioni, ). 978-88-8080-356-0 (IT, EN) Sito ufficiale, su
danielearchibugi.org. Opere di Daniele
Archibugi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.
Registrazioni di Daniele Archibugi, su RadioRadicale, Radio
Radicale. Sito CNR-IRPPS, Commessa
Globalizzazione. Determinanti e impatto economico, tecnologico e politico.
University of London, Birkbeck College, Home Page Daniele Archibugi. University
of London, Birkbeck College, Intervista su "The Global Commonwealth of
Citizens" Intervista della LA7 a Daniele Archibugi Sull'innovazione
tecnologica, (video). Intervista alla trasmissione Mapperò, SAT2000, sulla
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, (video), Parte prima; Parte
seconda; Parte terza. Dibattito presso la London School of Economics "È
possibile una democrazia globale?" (video in
inglese)://globaldemo.org/film/1255[collegamento interrotto] Intervista a LA7
su "Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica",.
Intervista a TG3 Linea Notte su "Cittadini del mondo. Verso una democrazia
cosmopolitica" 25 febbraio 2009. Intervista a TG2 Punto IT su
"Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica", 15 giugno
2009. Discorso su Secrets, Lies and Power, Berlino, European Alternatives, 18
giugno . Intervista sul volume The Handbook of Global Science, Technology and
Innovation, Londra, Birkbeck College, 3 agosto . Lo Stato dell`ArteQuale futuro
per l’Europa?, Trasmissione Rai5, conduce Maurizio Ferraris, con Daniele
Archibugi e Alessandro Politi, 14 luglio . Quante storie Rai3I grandi crimini
contro l'umanità, intervista di Corrado Augias a Daniele Archibugi, 9 novembre
. Crime and Global Justice , Book Launch alla London School of Economics and
Political Science, 28 Febbraio , podcast con Gerry Simpson, Christine Chinkin,
Richard Falk e Mary Kaldor. Daniele Archibugi, Do we Need a Global Criminal
Justice?, Conferenza alla City University of New York, 9 Aprile . Daniele
Archibugi, "Cosmopolitan democracy as a method of addressing
controversies", IAJLJ CONFERENCE "CONTROVERSIAL MULTICULTURALISM",
Roma, Novembre, . Daniele Archibugi, "What is the difference between
invention and innovation?", Birkbeck College University of London, 28
Ottobre . Presentazione della Relazione sulla ricerca e l'innovazione in
Italia, Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, 15 ottobre Filosofi della politica, Filosofi italiani
del XXI secolo. Daniele Archibugi. Keywords, due citadini del mondo. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Archibugi” – The Swimming-Pool Library.
Arcidiacono (Acireale). Filosofo. Grice: “I like Arcidiacono, and
Floridi should pay more attention to him; after all he what Austin called an
‘Oxonian myopist’! I love him!” “It took
me a while to digest Aricidiacono’s non-intentional use of ‘inform,’ but I
suppose he rather follows Shannon than Plato!” “Arcidiacono pays due attention
to Aristotle’s ‘finalismo,’ and as an Italian, he gives proper due to Plionio –
‘il vecchio,’ as Arcidiacono comically calls him – Strawson: “As if Pliny the
Younger were not now part of ‘storia vecchia’!” – Grice: “In any case, give me
Salvatore anyday – his brother, Giuseppe, cannot qualify as a philosopher!” – Grice:
“And another good thing, too, Arcidiacono, the ‘filosofo’ brough Fantappie as a
hashtag in ‘filosofia’!” Grice: “As Arcidiacono notes, Fantappie, not being a
filosofo, committed the usual mispellinggs – ‘syntropia,’ rightly corrected to
‘sintropia’ by the philosophy-educated philosopher Salvatore Arcidiacono!” Nato
e, per una sorprendente coincidenza, morto lo stesso anno del fratello gemello
Giuseppe, divise con quest'ultimo anche gli impegni di ricerca. Laureatosi a
Catania. Insegna a Catania. Perfeziona la Teoria unitaria del mondo fisico e
biologico, collegandola ai più moderni sviluppi della biologia teorica e
molecolare. Da supporto teorico speculativo nel campo della chimica e della
fisica teorica. Elabora una formulazione mediate della teoria sintropica nonché
della Teoria degli universi. Saggio “Visione unitaria dell'Universo”. “Spazio,
tempo, universe”. Altre opere: Visione
unitaria dell'Universo” (UCIIM, Roma); “Spazio, tempo, universe” (Edizioni del
fuoco, Roma); “Materia e Vita” (Massimo, Milano); “Ordine e Sintropia la vita e
il suo mistero” (ed. Studium Christi, Roma); “L'evoluzione sintropica” (Accademia
degli zelanti e dei dafnici, Acireale); “Creazione, evoluzione, principio
antropico” (ed. Il fuoco-Studium Christi); “Entropia, sintropia, informazione.
Una nuova teoria unitaria della fisica, chimica e biologia” (ed. Di Renzo,
Roma); “L'evoluzione dopo Darwin. La teoria sintropica dell'evoluzione, ed. Di
Renzo, Roma); “Problemi e dibattiti di biologia teorica, ed. Di Renzo, Roma
1993. 88-86044-16-X. Note Ignazio Licata, Teoria degli Universi e
Sintropia Archiviato il 17 settembre in
. vedi pag 103 di L'accoglienza delle
idee di Pierre Teilhard de Chardin nella cultura italiana degli anni
1955-1965 Scapini, 2005. Demetrio Sodi Pallares, Terapia metabolica
delle cardiopatie. Nuovo approccio terapeutico PICCIN, Padova 1989XVI. 88-299-0616-6
Vannini, 2005. L'accoglienza
delle idee di Pierre Teilhard de Chardin nella cultura italiana degli anni
1955-1965, pag 103 Salvatore
Arcidiacono, Nuevas ideas para la evolución biològica, articolo su Folia
humanistica, Barcellona, novembre 1982, n. 238.
Revue internationale Pierre Teilhard de Chardin, Edizioni 85-98,
Ministère de l'éducation nationale et de la culture Belgique, Editore Société
Pierre Teilhard de Chardin, 1981.
Antonella Vannini, From mechanical to life causation,, Syntropy 2005, n.
1, pag. 80-105. 1825-7968 (WC ACNP)
Felicita Scapini, La logica dell'evoluzione dei viventiSpunti di riflessione,
in Atti del XII Convegno del Gruppo italiano di biologia evoluzionistica
Firenze, 18-21 febbraio 2004, Firenze, University press, 2006, 88-8453-369-4. Luigi Fantappié Giuseppe Arcidiacono
Sintropia Biografia sul sito del suo
editore, su direnzo 9 luglio ). V D M Filosofia della scienza 266416940 Filosofi. Salvatore Arcidiacono. Keywords:
sintropia, antropia, entropia. arcidiacono — l’implicatura del principio
antropico — biologia filosofica — filosofia della vita — fissisismo —
naturalismo — finalismo — vivere — vivente — ominazione — animazione —
definizione del vivente como movente autonomo — il fine —Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arcidiacono” – The
Swimming-Pool Library.
Arco (Teano). Filosofo. Grice: “I should like Arco; but he is a
priest and I’m C. of E.; on top, I love to say that philosophy ought to be FUN,
provided it’s MY FUN – not Arco’s – so I find Arco’s ‘dictionary of
philosophical ‘umorismo,’ or filosofia ‘umoristica’ frivolous, and unworthy of
Roman gravitas!” Nato nella frazione Fontanelle entra fra i Salesiani di Don
Bosco e fu ordinato sacerdote a Roma. Consegue a Napoli la laurea in filosofia.
Per la sua preparazione filosofica, nonché per la profondità della sua
filosofiai, è considerato tra i maggiori filosofi italiani. Per lungo tempo è
stato professore di filosofia presso gli Istituti Salesiani di Don Bosco. Ricoverato all'ospedale “San Leonardo” di
Castellammare di Stabia, per un blocco renale, e ritornato a Pacognano di Vico
Equense dopo aver superato la crisi, è morto novantaquattrenne. Uomo di anima
sensibile e di infinita fede ha trascorso molto della sua vita scrivendo,
interessandosi di agiografia. È stato protagonista televisivo sulla prima rete
nazionale con il programma: Tempo dello Spirito. Intensa e vasta la sua opera letteraria. Altre opere: “Bartolo Longo e la sua intimità
con Dio”; “Don Bosco si diverte”; Sorgenti di gioia; Gesù sotterra un chicco di
grano; Giorgio La Pira e il risorto; “Fiori di sapienza. Dizionarietto di
saggezza”; “La Donna del Sanctus; Papa Giovanni beato. La parola agli atti
processuali; Quando la teologia prende fuoco. Giuseppe Quadrio sacerdote
salesiano; Don Bosco nella luce del Risorto; Don Bosco sorridente entra in casa
vostra”; “Così Don Bosco amò i giovani”; “Il Padre Nostro”; “Ma c'è poi questo
Dio; Nota bene; Sorgenti di Gioia; L'Ave Maria inno dell'amore filiale; Il
Beato Filippo Rinaldi copia vivente di Don Bosco; “La sorgente eterna dell'amore”;
“Noi esistiamo perché Dio Padre ci ama; Stile di Serenità; La Gioia a Portata
di Mano; Ridi e sorridi da saggio; Il Beato Bartolo Longo; Dolcezza e speranza
nostra; Dio ci ama con cuore d'uomo; Il Padre nostro; La Leva del Mondo: la
preghiera; Sant'Eustachio; Il Cristo in cui Spero; Giorgio La Pira Profeta e
testimone del Risorto; Serva di Dio Elisabetta Jacobucci Francesca Alcantarina;
Beata Maria della Passione; Il Servo di Dio B. Longo; Papa Giovanni Beato; Così
ridono i saggi; Fiori di sapienza; Il segreto di papa Giovanni; S.Alfonso amico
del popolo; La Donna del Sanctus; Il Sacro nome ti chiama per nome; La Leva del
Mondo: la preghiera; Il monumento alla Pace Universale del beato Bartolo Longo;
Il Salesiano è fatto così; Messaggio di Teilhard De Chardin. Intuizioni e idee
madri (Elledici Torino); Un esploratore della felicità: biografia del Servo di
Dio Giacomo Gaglione, Apostolato della Sofferenza. Citazionio su Adolfo
L'Arco La comunità di Pacognano ricorda
don Adolfo L'Arco di Raffaele Meazza, Il Giornale di Napoli, sito "Positano
news", Identities-85063233 Biografie
Biografie: di Biografie Categorie: Religiosi
italianiTeologi italianiFilosofi italiani Professore Teano Vico Equense. Adolfo
L’Arco. Arco. Keywords: hagiography; if he has religious faith, he is not a
philosopher. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arco” – The Swimming-Pool Library
Archita (Taranto). Filosofo. Grice: “I was insulted, if not offended by
the Cambridge Dictionary of Philosophy having ‘Anchita’ as Greek! The manw as
born in Taranto, Italy, and died in Taranto, Italy! – He was a Tarantoian!” –
“My favourite of his philosophical tracts is “Della colomba,” – Strawson
pointed out to me that since this is a mechanical (mechanical-mechanical)
pigeon, I should have used ‘scare-quote’ gesture!” -- Ricerca Archita filosofo,
matematico e politico greco antico Lingua Segui Modifica (LA) «Magnum in
primis et praeclarum virum» «Uomo fra i primi grande e illustre»
(Cicerone, De senectute, XII, 41). Appartenente alla "seconda
generazione" della scuola pitagorica, ne incarnò i massimi principi
secondo l'insegnamento dei suoi maestri Filolao(470 a.C.-390 a.C./380 a.C.) ed
Eurito (V secolo a.C.). Archita BiografiaModifica Figlio di Mesarco (o di
Estieo o di Mnesagora, a seconda delle fonti), nacque a Taranto, città della
quale fu "stratego massimo" nella prima metà del IV secolo a.C.
proprio nel periodo in cui la città raggiungeva l'apice del suo sviluppo
economico, politico e culturale. Archita condusse una vita austera,
improntata a uno stretto autocontrollo nel rispetto delle rigide regole della
setta pitagorica, ma non priva di umana socievolezza: racconta Eliano che
spesso quello s'intratteneva a scherzare con i figli dei suoi schiavi e con
questi stessi non disdegnava di sedere assieme a banchetto. Abile uomo
politico, si tramanda che fosse stato nominato per sette volte stratego
(στρατηγός, strategòs) della città-stato di Taranto riuscendo ad essere un
condottiero sempre vittorioso nelle sue battaglie. Probabilmente fu anche
stratego "autocrate" (αὐτοκράτωρ, autocrator) della Lega italiota,
ricostituitasi dopo la morte di Dionisio I di Siracusa, e che ebbe come sede
Eraclea sotto l'effettivo controllo di Taranto. Non si sa se, nonostante il
divieto della costituzione cittadina, fosse stato nominato consecutivamente; i
suoi mandati vengono datati tra il II e il III viaggio di Platone, quindi
potrebbero essere stati ricoperti anche uno di seguito all'altro. Attua una
politica di sviluppo che porta Taranto a diventare la metropoli più ricca e importante
della Magna Grecia. Con l'edificazione di monumenti, templi e edifici diede
nuovo lustro alla città. Potenziò il commercio stringendo relazioni con altri
centri, come l'Istria, la Grecia, l'Africa. Durante il suo governo, si dedica
allo sviluppo dell'economia favorendo l'agricoltura e insegnando egli stesso ai
contadini i precetti per migliorare i raccolti. Spesso ricordava loro che
Apollo non concesse altro a Falanto che fertili campi e amava ripetere. Se vi
si domanda come Taranto sia diventata grande, come si conservi tale, come si
aumenti la sua ricchezza, voi potete con serena fronte e con gioia nel cuore
rispondere: con la buona agricoltura, con la migliore agricoltura, con l'ottima
agricoltura. Nel campo legislativo promulgò diverse leggi per favorire una più
equa distribuzione delle ricchezze, basandola sui principi dell'armonia
matematica. Uomo di multiforme ingegno, si interessa di scienza, musica ed
astronomia e studiò matematica con Eudosso di Cnido. La vastità di queste
competenze in Archita si spiega con il fatto che la scuola pitagorica concepiva
la matematica, o meglio l'aritmogeometria, fondamento della realtà naturale e
l'universo come un cosmo, ordinato cioè secondo principi mistico-matematici dai
quali si generava un'armonia musicale poiché la musica stessa si basava su
precisi rapporti matematici. «Credettero che i principi delle matematiche
fossero i principi di tutti gli esseri. Ora, i principi delle matematiche sono
i numeri. Pensarono quindi che gli elementi dei numeri fossero elementi di
tutte le cose, e che tutto quanto il cielo fosse armonia e numero.»
(Aristotele, Metafisica, libro alfa, 985b23-986a3) Non a caso Archita è stato
il primo a proporre il raggruppamento delle discipline canoniche (l'aritmetica,
la geometria, l'astronomia e la musicanel quadrivium, l'ordinamento che Boezio
riprese in epoca medievale). Infine, la partecipazione alla scuola pitagorica,
configurata come una setta mistica, era riservata a spiriti eletti e implicava
che gli iniziati che la frequentassero avessero disponibilità di tempo e denaro
per trascurare ogni attività remunerativa e che potessero dedicarsi interamente
a complessi studi: da qui il carattere aristocratico del potere politico che i
pitagorici esercitarono nella Magna Grecia fino a quando non furono sostituiti
dai regimi democratici. Archita conobbe Platone quando il filosofo ateniese
soggiornò a Taranto nel suo primo viaggio verso Siracusa, dove ebbe un
confronto piuttosto acceso con il tiranno Dionigi Isulla realizzazione di una
possibile riforma filosofica del suo governo. L'amicizia con Archita fu
preziosa per Platone quando compiendo questi il suo terzo e ultimo viaggio in
Sicilia nel tentativo di realizzare la sua riforma, il nuovo tiranno Dionigi il
Giovane lo cacciò dall'Acropoli facendolo vivere nella casa di Archedemo,
vicino ai mercenari che mal lo sopportavano. Fu grazie ad Archita, il quale
inviò il tarantino pitagorico Lamisco a Siracusa per convincere l'amico Dionigi
il giovane a liberare Platone, che il filosofo poté tornare ad Atene. Lo
stesso Platone raccontò così quegli avvenimenti: "Sembra che Archita
si sia recato presso Dionisio; perché io, prima di ripartire avevo unito
Archita e i Tarantini in rapporti di ospitalità e di amicizia con Dionisio."
(Platone, Lettera VII, 338c.) "E così con un terzo invito Dionisio mi
mandò una trireme per agevolarmi il viaggio, e insieme mandò un amico di
Archita, Archedemo, che egli riteneva fosse il più apprezzato da me tra quei di
Sicilia, e altri Siciliani a me noti." (Platone, Lettera VII, 339a.)
«Altre lettere poi mi giungevano da parte di Archita e dei Tarantini, che
facevano grandi elogi dello zelo filosofico di Dionisio, e anche avvertivano
che, se non fossi andato subito, avrei causato la completa rottura di
quell'amicizia che io avevo creato tra loro e Dionisio, e che era di grande
importanza politica." (Platone, Lettera VII, 339d.) "vennero in molti
da me, fra cui alcuni servi di origine ateniese, e quindi miei concittadini;
essi mi riferivano che calunnie circolavano su di me fra i peltasti, e che
alcuni minacciavano, se riuscivano a cogliermi, di sopprimermi. Escogito allora
qualche mezzo di salvezza: mando ad avvertire Archita e gli altri amici di
Taranto in che condizione mi trovo. E quelli, colto un pretesto per un'ambasceria,
mandano uno dei loro, Lamisco, con una nave e trenta rematori. Costui, appena
giunto, intercede per me presso Dionisio, dicendogli che io volevo partire e
nient'altro che partire; Dionisio accondiscese e mi lasciò andare, dandomi i
mezzi per il viaggio" (Platone, Lettera VII, 350) Archita morì a seguito
di un naufragio probabilmente nel corso di operazioni di guerra nelle acque di
fronte alla città di Matinum (attuale Mattinata sul Gargano) e lì fu sepolto,
come riferisce il poeta Orazio: Te maris et terrae numeroque carentis harenae
mensorem cohibent, Archyta, pulveris exigui prope litus parva Matinum munera.
Te misuratore del mare e della terra e delle immensurabili arene, coprono, o
Archita, pochi pugni di polvere presso il lido Matino. (Orazio, Odi, I 28).
Nonostante Archita sia vissuto dopo Socrate, viene considerato un continuatore
dei filosofi presocratici, perché appartenne alla Scuola pitagorica e si
mantenne aderente al pensiero di Pitagora, tant'è che basò le proprie idee
filosofiche, politiche e morali sulla matematica. Al riguardo, infatti, così
recitano due suoi frammenti. Quando un ragionamento matematico è stato trovato,
controlla le fazioni politiche e aumenta concordia, quando c'è manca
l'ingiustizia, e regna l'uguaglianza. Con ragionamento matematico noi lasciamo
da parte le differenze l'un con l'altro nei nostri comportamenti. Attraverso
essa i poveri prendono dai potenti, ed i ricchi danno ai bisognosi, entrambi
hanno fiducia nella matematica per ottenere un'azione uguale." (Giamblico,
de comm. Math. sc. 11,44, 10. Traduzione di Antonio Maddalena). Per essere bene
informato sulle cose che non si conoscono, o si devono imparare da altri o
bisogna scoprirle da sé. Ora imparando si deduce da qualcun altro e ciò è
straniero, mentre scoprendo da sé è proprio. Scoprire senza cercare è difficile
e raro, ma con la ricerca è maneggevole e facile, sebbene chi non sa cercare
non può trovare.» (In Corrado Dollo, Istituto e museo di storia della
scienza Archimede, L.S. Olschki). Ad Archita sono tradizionalmente attribuiti
molti testi spuri, mentre sono sopravvissuti soltanto alcuni frammenti
originali, conservati nelle opere di Ateneoe Cicerone e provenienti dai suoi
discorsi morali, che delineano un filosofo più originale nel suo pensiero etico
rispetto alla dottrina pitagorica e piuttosto influenzato da quella platonica.
Archita viene considerato l'inventore della Meccanica razionale e il fondatore
della Meccanica. Si dice che abbia inventato due straordinarie apparecchiature
meccaniche. Un'apparecchiatura era un uccello meccanico, la famosa
«colomba di Archita», l'altra sua invenzione era un sonaglio per bambini. Il
primo è descritto dallo scrittore e critico latino Aulo Gellio, e ne tentò la
ricostruzione uno studioso tedesco, Wilhelm Schmidt. Pare si trattasse d'una
colomba di legno, vuota all'interno, riempita d'aria compressa e fornita d'una
valvola che permetteva apertura e chiusura, regolabile per mezzo di
contrappesi. Messa su un albero, la colomba volava di ramo in ramo perché,
apertasi la valvola, la fuoruscita dell'aria ne provocava l'ascensione; ma
giunta ad un altro ramo, la valvola o si chiudeva da sé, o veniva chiusa da chi
faceva agire i contrappesi; e così di seguito, sino alla fuoruscita totale
dell'aria compressa. Il secondo giocattolo, la raganella, ebbe fortuna: è
ancora in uso e spesso si vede nelle fiere popolari di giocattoli. Nella forma
originaria era costituita da una piccola ruota dentata fissata ad un
bastoncino. Sulla ruota, da dente a dente, saltava una molla cui era congiunto
un pezzo di legno. Aristotele consigliava questo giocattolo ai genitori perché,
divertendo e captando l'attenzione dei bambini, li distoglieva dal prendere e
rompere oggetti domestici. Si dice anche che Archita abbia inventato la
carrucola e la vite, anticipando Archimede, ma non si hanno conferme storiche a
tale riguardo. Il più importante risultato ottenuto da Archita è una soluzione
tridimensionale del problema della duplicazione del cubo. Precedentemente,
Ippocrate di Chio aveva ricondotto questo problema ad un problema di
proporzionalità: se a è il lato del cubo che si vuole duplicare, allora il
problema consiste nel trovare due valori x e y medi proporzionali tra a e 2a,
ovvero tali che {\displaystyle a:x=x:y=y:2a} Trovati questi due valori, x
rappresenta il lato del cubo con volume doppio. La costruzione geometrica
utilizzata da Archita per risolvere questo problema è uno dei primi esempi
dell'introduzione del movimento in geometria: in esso si considera una curva,
conosciuta come curva di Archita, generata dall'intersezione della superficie
di un cilindro e di un semicerchio in rotazione rispetto a uno dei suoi
estremi. Archita si dedicò anche alla teoria delle medie, e diede il nome
odierno alla media armonica (prima conosciuta come media sub-contraria).
Inoltre, dimostrò che tra due numeri interi che sono nel rapporto
{\displaystyle {\frac {n}{n+1}}} non è possibile trovare nessun altro intero
che sia una media geometrica. Il risultato ha applicazione alla teoria delle
scale musicali (vedi sotto). FisicaModifica Apuleio riporta un argomento
di fisica trattato da Archita: la natura della riflessione della luce sopra uno
specchio. Platone pensa che dai nostri occhi partano dei raggi luminosi che
vanno a mescolarsi con quelli che colpiscono lo specchio. Archita concorda col
fatto che i raggi partano dai nostri occhi, ma senza combinarsi con alcuna
cosa. Più felici furono le sue deduzioni sul rumore. Egli capì che
provenivano dalle vibrazioni prodotte dall'urto dei corpi nell'aria. Da tale
scoperta, formulò l'ipotesi che anche i corpi celesti, dotati di continuo
movimento, dovessero produrre rumore. Questo rumore però, non sarebbe udibile
dai sensi umani, essendo non intervallato, ovvero continuo nel tempo.
Molto interessanti sono gli studi di carattere sperimentale che condussero a
conoscere le cause che diversificano i suoni acuti dai gravi, diversità che
sono in funzione della rapidità della vibrazione. Tanto più rapida è la
vibrazione, tanto più acuto è il suono che ne proviene, e viceversa.
Esperimenti furono eseguiti con flauti, zufoli, tamburelli, e si constatò come
anche la voce umana seguisse questo principio. Nell'ambito della teoria
musicale sviluppata dalla scuola pitagorica (ed esposta per la prima volta da
Filolao), tre contributi sono sicuramente dovuti ad Archita. Il primo è
la teoria secondo cui l'altezza dei suoni è determinata dalla loro velocità di
propagazione. Secondo Archita, una bacchetta che oscilla più velocemente (oggi
diremmo con frequenza più alta) produrrebbe un suono che si propaga con
maggiore velocità nell'aria, e che di conseguenza è percepito come "più
alto", rispetto a una bacchetta che oscillasse più lentamente. Questa
teoria, per quanto non corretta dal punto di vista fisico e percettivo,
rappresenta il primo tentativo di attribuire parametri quantitativi alla
propagazione del suono, e fu ripresa da molti autori successivi (inclusi
Platone e Aristotele). Il secondo contributo è di natura specificamente
matematica. Archita conosceva la relazione fra intervalli musicali e frazioni
che conduce alla costruzione della scala pitagorica. Uno dei problemi teorici
connessi a quella costruzione era il perché gli intervalli dovessero essere
progressivamente suddivisi secondo quelle particolari proporzioni, anziché
suddividere semplicemente ogni intervallo in due sottointervalli uguali. Per
comprendere la natura del problema si deve ricordare che per definizione gli
intervalli musicali si compongono moltiplicandofra loro i rapporti
corrispondenti (ad esempio, l'ottava 2:1 si può ottenere componendo una quinta
3:2 con una quarta 4:3, infatti 3:2 x 4:3 = 2:1). Quindi per suddividere un
intervallo a:b in due parti uguali si deve trovare il medio proporzionale fra a
e b, ossia il numero x tale che a:x = x:b (ciò equivale a cercare la radice
quadrata del rapporto a:b). Archità osservò che l'intervallo di doppia ottava
(4:1) si può suddividere in due sottointervalli uguali (rappresentati dal
rapporto 2:1), ma dimostrò matematicamente che nessun rapporto del tipo
superparticulare {\displaystyle {\frac {n+1}{n}}} - genere a cui appartengono
tutti gli intervalli fondamentali della scala pitagorica (2:1, 3:2, 4:3, 9:8) -
ammette un medio proporzionale fra i numeri interi: quindi nessuno di quegli
intervalli può essere suddiviso in due parti uguali (se si mantiene l'ipotesi
che ogni intervallo musicale corrisponda a un rapporto fra numeri
interi)[36]. Infine, Archita descrisse la costruzione delle scale
musicali nei tre generi diatonico, cromatico ed enarmonico. Diversamente dalla
scala pitagorica, il tetracordo diatonico proposto da Archita è formato dai
rapporti 9:8, 8:7 e 28:27 (quello pitagorico contiene invece due intervalli di
tono uguali, 9:8, e un semitono di 256:243). Nel tetracordo cromatico di
Archita figurano gli intervalli 5:4, 36:35 e 28:27, e in quello enarmonico gli
intervalli 32:27, 243:224 e 28:27. Questi valori sono riportati da Claudio
Tolomeo, che (a distanza di oltre 500 anni) afferma che Archita si basò sulla
necessità teorica di descrivere tutti gli intervalli consonanti con rapporti
superparticulari (e tuttavia nel tetracordo enarmonico figurano rapporti che
non appartengono a quel genere). Gli studiosi moderni hanno invece ipotizzato
che Archita avesse voluto descrivere matematicamente le scale musicali
effettivamente in uso nella pratica a lui contemporanea, sulla base
dell'osservazione diretta delle tecniche di accordatura usate dai musicisti.
Archita si propose di superare il problema dei commi musicali. Affermò che
l'ottava poteva essere divisa in 12 semitoni uguali ed indicò un divisore che
ne consentisse la partizione, cioè un numero prossimo ad un terzo di л. In
effetti il divisore dell'ottava della scala temperata, la radice dodicesima di
2 =1,0594630943592…. è prossima a л/3=1,0471975 postulato sia da Archita che da
Aristosseno. La divisione dell'ottava a cui Archita pervenne è la seguente:
л/3, Л 4/11, Л 3/8, Л 2/5, Л 3/7, Л 5/11, Л 9/19, л/2 , Л 7/13, Л 4/7,Л 3/5 Л
7/11, nell'ordine: seconda minore, seconda maggiore, terza minore, terza
maggiore, quarta giusta, quarta eccedente, quinta giusta, sesta minore, sesta
maggiore, settima minore, settima maggiore, ottava. Il divisore proposto da
Archita porta a differenze con la scala temperata dell'ordine delle decine di
centesimi di semitono. AstronomiaModifica È trattata da Archita in un
passo di Eudemo da Rodinel suo commento alla Fisica di Aristotele, nel quale si
discute il problema della dimensione dell'universo. Per Archita l'universo è
infinito, poiché, egli dice : «Se mi t rovassi all'ultimo cielo,
cioè a quello delle stelle fisse, potrei stendere la mano o la bacchetta al di
là di quello, o no? Ch'io non possa, è assurdo; ma se la stendo, allora
esisterà un di fuori, sia corpo sia spazio (non fa differenza, come vedremo).
Sempre dunque si procederà allo stesso modo verso il termine di volta in volta
raggiunto, ripetendo la stessa domanda; e se sempre vi sarà altro a cui possa
tendersi la bacchetta, è chiaro che anche sarà interminato.In Enciclopedia
Garzanti di Filosofia Archita sarebbe vissuto tra il 430 ca. e il 360 ca. a.C.
Altre fonti collocano la nascita tra il 430 e il 400 e la morte non prima del
360. (Museo Nazionale e archeologico di Taranto Christoph Riedweg,
Pitagora: vita, dottrina e influenza, Vita e Pensiero, 2007 p.29
Francesco Paolo De Ceglia, Università di Bari. Seminario di storia della
scienza, Scienziati di Puglia: secoli V a.C.-XXI, Parte 3, Adda, 2007
p.17 Cicerone, De senectute, 39 Eliano, Varia istoria XII, 15 (T.C.
A 21 (47) 8) Ateneo, XII 519 B (T.C. A 21 (47) 8) Dizionario di
filosofia, Treccani alla voce corrispondente Luigi Pareti, Storia della
regione Lucano-Bruzzia nell'Antichità, Volume 1, Ed. di Storia e Letteratura,
Ettore M. De Juliis, Magna Grecia: l'Italia meridionale dalle origini
leggendarie alla conquista romana, Edipuglia srl, 1996 p.251
L'associazione di Architetti Italiani in Spagna, Arquites è stata denominata in
questo modo in onore di Archita Ettore M. De Juliis, Magna Grecia:
l'Italia meridionale dalle origini leggendarie alla conquista romana, Edipuglia
srl, Ai tarantini, citato in La Voce del Popolo, n. 11,
Dizionario della civiltà greca, Gremese Editore, Ubaldo Nicola, Atlante
illustrato di Filosofia, Giunti Editore, La parola κόσμος (kòsmos) nella lingua
greca nasce in ambito militare per designare l'esercito schierato ordinatamente
per la battaglia (in Sesto Empirico, Adv. Math. IX 26) Christiane L.
Joost-Gaugier, Pitagora e il suo influsso sul pensiero e sull'arte, Edizioni
Arkeios, 2008 p.140 André Pichot, La nascita della scienza: Mesopotamia, Egitto,
Grecia antica, Edizioni Dedalo,Cfr. anche Ruggiero Bonghi, Delle relazioni
della filosophia colla società: prolusione, F. Vallardi, Secondo una tradizione
apocrifa Archita trasse dalla filosofia platonica la convinzione della
immortalità dell'anima. Al contrario Cicerone ritiene che Platone si recò in
Sicilia per conoscere le dottrine pitagoriche che apprese da Archita e che
condivise divenendo lui stesso pitagorico.(Cfr. Cicerone, De Repubblica I 16,
De finibus bonorum et malorum, V 87, Tuscolanae disputationes, I 39) D.
Laerzio, Vite, III, 19, 20. Platone, Lettera VII Vita di
Platone. G. Urso, «La morte di Archita e l'alleanza fra Taranto e
Archidamo di Sparta», Aevum, 71 Mario Taddei, I robot di Leonardo da Vinci: la
meccanica e i nuovi automi nei codici svelati, ed. Leonardo3, 2007 p.434
A. Gellio, Notti Attiche, lib. X, c. 12 Wilhelm Schmidt: Aus der antiken
Mechanik. In: Neue Jahrbücher für das Klassische Altertum 13, M.Taddei, Op.
cit. p.16 Aristotele, Pol. VIII 6) Rinaldo Pitoni, Storia della
fisica, Società tipografico-editrice nazionale, 1913 p.24 K von Fritz,
Biografia nel Dictionary of Scientific Biography (New York). J. J.
O'Connor, E. F. Robertson, Archytas of Tarentum, The MacTutor History of
Mathematics archive. Boyer, Carl B., Storia della Matematica,83-84
Apuleio, Apologia, 15 Platone, Timeo, 64 A Giambico, in Nicom., 9,
1. a b C. Huffman, "Archytas", The Stanford Encyclopedia of
Philosophy (Fall 2011 Edition), Edward N. Zalta[1]. C. Huffman,
"Archytas", The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2011
Edition), Edward N. Zalta[2]; A. Barbera, Archytas of Tarentum, New Grove
Encyclopedia of Music and Musicians. Francesco Paolo De Ceglia,
Università di Bari. Seminario di storia della scienza,Scienziati di Puglia:
secoli V a.C.-XXI, Parte 3, Adda, 2007 p.18 BibliografiaModifica Carl A.
Huffman, Archytas of Tarentum. Pythagorean, Philosopher and Mathematician King,
Cambridge University Press, (l'edizione più completa dei frammenti) M.
Timpanaro Cardini, I Pitagorici, testimonianze e frammenti, voll. I, II, 111,
La Nuova Italia, Firenze Platone, Lettere, a cura di Margherita Isnardi
Parente, trad. di Maria Grazia Ciani, Fondazione Lorenzo Valla, A. Mondadori,
Milano J. Stobaei, Anthologium, rec. Curtius Wachsmuth et Otto Hense.
Anthologii libri duo posteriores, vol. 11, Weidmann, Berlin, 1958² J. Navarro,
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tempi, Taranto, Cressati A. Delatte, Essai sur la politique
pythagoricienne, Liège - Paris A. Olivieri, Su Archita tarantino, memoria letta
all'Accademia Pontaniana il 14 giugno 1914 A. Frajese, Attraverso la storia
della Matematica, Veschi, RomaStante, I problemi di terzo grado e Archita da
Taranto, Tesi di Laurea in Matematica, a.a. Università di Lecce A.Tagliente, La
colomba di Archita, Scorpione Editrice, Taranto A.Tagliente, Il mistero del
trattato perduto, Scorpione Editrice, Taranto J.Dumont, Les Présocratiques H.
Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker A. D. Abbaiatore, Scritture Musicali
greche, Vol. II: Teoria armonica ed Acustica, Cambridge F. Blass, De Archytae
Tarentini fragmentis mathematicis, Parigi 1884 Taranto nella civiltà della
Magna Grecia, in Atti dei convegni di studio sulla Magna Grecia, X, Napoli
Taranto e il Mediterraneo, in Atti dei convegni di studio sulla Magna Grecia,
XLI, ISAMG Taranto, 2002 Filosofia e scienze, in Atti dei convegni di studio
sulla Magna Grecia, V, Napoli 1966 Eredità della Magna Grecia, Atti dei
convegni di studio sulla Magna Grecia, XXXV, ISAMG Taranto, 1996 Alessandro il
Molosso e i "condottieri" in Magna Grecia, Atti dei convegni di
studio sulla Magna Grecia, XLIII, ISAMG Taranto, Cesare Teofilato,
"Interpretazione di Archita" dalla rassegna "Vecchio e
Nuovo" di Lecce - fascicolo di gennaio 1931 - Vol. II A. Mele, Archita, i
suoi tempi e il suo pensiero, in Taranto tra Classicità e Umanesimo (introduzione
di Cosimo D. Fonseca), Scorpione Editrice Taranto Voci correlateModifica
Personalità legate a Taranto Raganella (strumento musicale) Eudosso di Cnido.
Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Archita,
in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Archita, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Archita, su MacTutor,
University of St Andrews, Scotland. Carl Huffman, Archytas, in Edward N. Zalta
(a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of
Language and Information, Università di Stanford. Biografie Portale
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CORRELATE Musica nell'antica Grecia Tetracordo Lamisco filosofo greco antico
archytas: Italian ‘Archita’ -- Grecian, pre-Griceian, Pythagorean philosopher
from Tarentum in southern Italy. He was elected general seven times and sent a
ship to rescue Plato from Dionysius II of Syracuse. He is famous for solutions
to specific mathematical problems, such as the doubling of the cube, but little
is known about his general philosophical principles. His proof that the numbers
in a superparticular ratio have no mean proportional has relevance to music
theory, as does his work with the arithmetic, geometric, and harmonic means. He
gave mathematical accounts of the diatonic, enharmonic, and chromatic scales
and developed a theory of acoustics. Fragments 1 and 2 and perhaps 3 are
authentic, but most material preserved in his name is spurious. a buon
diritto chiamare l'inventore de'moderni palloni arrostatici. Però un secolo
prima al padre Lana G , C. Scaligero,a proposito della colomba volante
d'Archita, della quale parla Orazione l l e sue odi, indica il modo di
costruirla. Nulla di più facile, egli dice: basta comporre la sostanza con
midolla di giunco, e diligentemente coprirla colla pelle adoperata dai
battiloro. Mediante un facile meccanismo sipuò dar movimento alle ali.19
Scaligero scordò di avvertire che bisognava riscaldare l'aria interna con un
lumicino quando rolevasi farla volare. Cosi 500 anni prima dell'era nostra,
Archita aveva trovato il modo di far salire nell'ariaun pallone in forma di
colomba, dacchè tutto fa credere che imezzi impiegati da questo filosofo
fossero gl'identici che quelli impie gatioggigiorno per levarei palloni. Quanto
al ritorno della colomba, obbediente alla voce d'Archita, questa evidentemente
è una favola. Sempre, aun fatto sorprendente, l'immaginazione aggiunge
circostanze impossibili;ma ciò che io credo innegabile è che l'areostalo era
conosciuto a tempi detti favolosi, e che, amio parere, sono reminiscenzedi una
civiltà perduta, che i poetichiamarono regno degli dei. Quegli ignivomi draghi.
SULLA COLOMBA Entre a pišivago, e più superbo volo Pel Regno aereo l'ali fu e
spandea , E di spirto novello acquisto fea La Colomba d'Archita inversoilPolo ,
Volgendo a caso i suoi begli occhi al suolo Del terzo Ciel la vezzofetta Dea,
La vide , e per rapirla già scendea Da quel de' Dei Seggio beato, e solo. Allor
gridd, e quafi fu per dire: Oh così foffepur lamia. Colomba! Fattafi Citerea
con gran desire , Di legno fols'avvide: efferl'augello. ARCHITA. Juan. Juven.
3. Cap. 2. Ital. Sacr. in Tarentin. Mitrop.t om. 9. Lamb. in Schol. Horat. Lib.
i. Od. 28. 144) regnasse più di u n ' Ann o . I nuove grazie adorna il
fuo bel volto D LLi:etasengiva in maestà reale Astrea, mirando venerato, e
colto Fa più volte Prefetto della sua Patria, ancorchè le Leggi comandassero,
che nessuno in tempo di sua vita Quel delle Leggi fue pregio immortale. Quando
Prudenza, il dolce fuon disciolto, figlia d' eccelsa mente, e trionfale, Non
titurbar, le diffe, fe sia tolto Il primier di regnare ordine uguale . Tempo
verrà,che in arme,e intoga imperi più d'un'anno al suo ftuoi, mai sempre
intento Archita a nuove glorie, e a bei pensieri. E a Leila Diva: in cento
modi, e certo Muta pur Leggi, e Faftimiei primieri, Purchè Archita mio regni,
io mi contento. Diogen. Laert. in Vit. Archyt. In Joan. Buno. not. ad Philip.
Cluver. Lib. 3. Cap. 29. ARCHITA FILOSOFO PITTAGORICO, E MATEMATICO E
PERITISSIMO. Odar chi mai tanto ti può, che basti, Alma immortal degnillima d'
Impero? Chi dir di tue virtudi il volo altero, Per cui fovra ogni Saggio alto
poggiasti? Del Ciel le stelle, e i moti lor sì vasti, Tu delle cose le cagioni,
e'l vero, E quanto il Mare, e l'Universo intero Circonda, e abbraccia, chiaro a
noi mostrasti, Tu , ch'eccedi de'Savj i bei consigli Già di ogni uman pensier
reso inaggiore, 'Quanto il Sol delle stelle avanza irai, Tu, che Te stesso, e
null? altro somigli, coll'auree del tuo fuon note canore tu sol di tue virtù
cantar potrai. Diogen. Laert. in vit. Archyt. Foreft. Tom.1. Lib. 8. Cap. 3.
64. Joan. Juven. Tarentin. Lib. 3. Cap. 2. Lambin in Scbol. Horat. Lib. 1. Od.
28. Nicol. Parth. Giannet. in Geograph. Lib. 4. Cap. 7. SEN. TARENTINO,
Scrivendo contro il Piacere. O So, chemente all'Von dona, e Tume aquella;
SENTIMENTI D'ARCHITA chi dietro alsuo piacer brutale corre, e del sensorio fà
l'alma ancella, bruto diventa agli altri bruti eguale, tutto perdendo il bel,
che aveva in ella. Senza lume si vago, e rilucente Joan. Juven. Tarentin.
Lib.3. Cap. 2. Mente, ch'èper fuo pregio trionfale della divinità parte più
bella. Che quando avvien, che sopra l'alma impero abbia il piacere, allor cieca
è lamente 'E cieca la ragion , cieco è 'l pensiero. Oprano i Bruti, e senza il
suo primiero Lume fia, chel'uom bruto anchedivente. E pur ESER,
Diogen. Lacrt. in vit. Archyt. Foreft. Tom.1. Lib. 8. Cap. 4. Joan.
Juven. Tarentin. Lib. 3. Cap.2. Mille a mille empj nemici, incampo
scendete pure, e con terribil grido, no uche con quel dell'armi orrido lampo
Fate tremar dell'onde Jonie illido. ESERCITO TARENTINO NON MAI VINTO, ESSENDO
CAPITANO Là nel Galelo col suo nobil Campo Itene or lieti delle forze usate,
Faran del vostro fuol le schiere armate, Finchè Archita fia duce, alta
vendetta. ARCHITA v'aspetta il bravo duce. E già lo strido de' corni i' fento,
en el cercarlo scampo già cader vi vegg'io pel colpo infido. Ed alla patria,
che il trionfo aspetta, le tolte spoglie in vostro onormostrate. Se per ostil
cadeste atra disdetta, LA, ARCHITA D'ESSER CAPITANO, PER SOTTRARSI
ALL'INVIDIA, L'ESERCITO DETARENTINI E' FATTO PRIGIONE DA NEMICI. Arme il
fulgore insiem spaventa, e sfida co’luoi deftrieri i cavalier; già scende
sangue da larga vena in terra infida. Mira Tarento mio, quei, che fen muore,
hàgli spinti l'invidia a tante pene. LASCIANDO DO Di guerra sonar le trombe
orrende? di come il rio Marte all'alte strida Di quel Drappello, e questo i
cuori accende, Perchè col ferro fuo l'un l' altro ancidas arme, arme fre me
ognun: già di tremende e quei, che'l braccio (tende alle catene son dolci
figli, oimè, del tuo dolore! Freme contro d'Archita ilrio livore, E
lull'alme innocenti il mal senviene. Diogen: Laert, in vit. Archyt. Joon.
Juven. Tarentin. Lib. 3. Cap. 20. 0! 1 AR.: ad altri venduto , ed alla fine è
riscattato Offri; buon Savio, foffri. Ecco Fortuna S Di mortal sfavillando atro
disdegno sue forze impiega, e l'arme sue raduna, Per far del tuo valor
{terminio indegno. Già l'empia, oime! con faccia torva, e bruna Scocca saette
últrici, e ben al sogno Colpito hà omai; ve come in preda d'una Ti dà vile
ciurmaglia in fragil legno. TARENTINO ARCHIT. A peregrinando per imparare, è
preso dà'Corsari, serve $$$$$) $8888 Ma chefie; se delcuorle forti tempre
Alexand.ab Alexand, lib. 6. Cap. 5. Joan. Juven. Tarentin. Lib. 3. Cap. 2. Di.
Pur non è fazia no ,schiavo al servaggio Ti mena ancor, perchè nel
duoldistempre Ilmagnanimo tuo nobil coraggio. Rassoda più ne'colpi suoil'Vom
faggio, E di sua libertà gode mai sempre! PLATONE DOPO AVER CAMMINATO L'EGITIO,
VIENE IN ITALIA PER IMPARAR SOTTO LA DISCIPLINA Edesti pur , come il gran Nilo
altero, D a perenne sboccando occulta fonte Ogni arginedisprezzi, edogniponte,
E i campi ad ipopdar si apra il sentiero. E d ivi asperto di sudor la fronte
Delle scienze falisti all' arduo monte , E ti fur quelle il folo premio intero
. Ed or, per fullescienze alzare un volo Sotto 1:aurea d'Archita arte gentile,
Cerchi il Galeso , e l Tarentino luolo ? DunqueinEgittoEroenonv hàfimile,
Cic.de finib.bonor. molor.Lib.s. Foreft:Tom . I..Lib. 8. Joan.Juven.
Tarentin.Lib.3.Cap.2. DOPS V D'ARCHITA TARENTINO . Si , vedesti 1 Egizio , e 'l
Greco Impero , ARCHI. Nèingegno inGrecia,alsoloArchita,alsolo Suo noro
ingegno,anche oltreBattro,eTile . A ARCHI. ( 51 )
Pri,Fortuna,perun solmomento Gli occhi, cui buja notte orrida cuopre , E
mira,leiltuo folleafproardimento Contro Savio maggior sua forza adopre. Questi
è il gran Plato , e quegli fon q u e cento Folle ! Rę Plato al tuo servil
flagello ARCHITA TARENTINO RISCATTA PLATONE PRESO D A CORSARI. Empj ladron ,
per le cui mani, ed opre Schiavo il facefti; or com 'ei fparge al vento
Gl’infranti lacci, e in libertà li fcuopre ? C o m e il trionfo , che del suo
fervaggio Ornar credefti, e de' suoi guai far bello , Qual peve dilegudfli al
caldo raggio ? Menalti , a un cenno fol d' Archita il saggio Cara tornò la
libertàdi quello. Joan.Juven.T'arentin.Lib.3. Cap.2. e Se avvien ,
che della gloria i m i diftempre L a bella gloria è tua, fe Plato apprese Che
del tuo Figlio al nome accrebbe ilvanto , Cic.de finib.bon.domal.Lib.5.* Lib
1.Fiscula Joan.Juven. Tarcntin. Lib. 3. Cap. 2. ARCHI. ( 52 ARCHITA
MAESTRO DI PLATONE. C Figlio di puro core, e viva Immago , Che '
veroiocanto,efoldiluimi appago, Diceva un giorno Atene in dolci tempre, Dal tuo
gran Figlio Archita il pregio fanto , E B alme di virtude auree contefe . Ella
è mia pure , e téco i fafti io canto : Poich ?Ei tal lume in tutto il m o n d o
accese , Nel gaudio , el corc infuperbito , e pago Pel mio Plato or fen vada,un
don si vago A te ,Tarento mio,debbo maifempre. " ARCHITA CAMPA
PLATONE DALLA MORTE INTENTATAGLI DA DIONISIO TIRANNO. AR, 53 D u e Polato
ilscan Plato,ahimè,quelfaggio, t Veloce ( ahi laffo !) a tramontar quel raggio
Det rio fallir le pene : omai trionfi Si bella dote, e vinca ancor Sapienza. Si
diffe Archita ; e i fieri petti , e tronfi. Placando al gran poter d'aurea
Eloquenza, Morrà , perchè un Tiranno indegno d'ostro Sogna fofpetti, e teme
indarno oltraggio ? Correrà , che dà lume al secol nostro ? Ed io,perchèpiù
viva,ancor non mostro, No n m ostro, a n c o r dell'anima il coraggio? No , che
non porterà l'alma Innocenza < Plato all'ombra viveade'suoi trionfi. Cic.
Lib. 5. Tuscul. Diogen. Laeft. 38 Vit.Archyt., o Platon. Juan. Juven. Tarentin.
Lib. 3. Cap.2 . Ital. Sacr. in Torentin. Metrop. tom. 9. Plutar. in Platon .
Sabell. Ennead.4.Lib.3. D2 ARCHITA TARENTINO A PLATONE . Se amica
pioggia a temprar mai l'ardore Scende dal Ciel ,non giace no più china La
fronte lor, ma col nacio colore S'innalza si, che al Ciel più si avvicina ;
Lasso ! calo io restai, allor che infermo Starteneudjfrapene,o mio buon Plato
Senza ajuto languendo , e senza schermo . Ma orchedicuavitaalprimostato Fatto
hai ritorno, io mi rinfranco , e fermo Pertemi rendo, cfon, qualpria,beato. Q
Diogen. Laert.in vit.Archyt. Joan.Juven. Tarentin. Lib.3. Cap. 2. Val Yenza
umor giglio languisce,o fiore, E scolorito à terra ilcapo inchina, Questo
ilvermiglio onor,quello ilcandore Perdendo a poco a poco in sua ruina : PLA . Q
A te del loro autor duce sì pio In mezzo del cammino elle si stanno , pss .) M
a giugnere alla meta orgogliosette Ben le vedrai , fe nuovo spirto avranno ,
PLATONE MANDA ISUOI COMMENTARY AD ARCHITA TARENT INV. Veste assai più , che
dell'ingegno mio , Opre de'tuoi fudori,onde a be'studj Delle più gloriofe alte
virtudi La mia mente infiammaiti,el buon deslo, Opre dunque son elle ora
imperfette. Raroè peròl'onor,seateverranno; Più raro , le giammai fien da te
lette. Diogen Lacrt. in vit. Archyt. Joan. Jurien. Tarentin . Lib .3. Cap. 2.
Platon.in Epift.12. 0 Vengono,Archita.O :tu leleggi,e inudi Sensi del tuo faver
poi mi dischiudi Con quellalibertà,concuileinvio, PLA, Gloria dai tuoisi
provvidifudori, Soffri in regnar , grida la Patria ,e uffici Mostra di quel,che
sei,Signor de cuori, E tumalgradoimperi?etilamente Non fei;la Patria hà in te
parte del tutto. Non oscuro è il linguaggio; odi mia mente: O rendi alla tua
Patriailben,ch'èsuo, O delsuobenfà,ch'ellan'abbiailfrutto. Cic
definib.bonor.comalor.Lib.2. Lib. lade Offic. Joan. Juven. Tarentin. Lib.i. in
Prefate do Lib.z. Cap.2. Platon. in Epif. gi PL ATO NE TÀRENTINO . V
Nmalele folo ( 36 i ADARCHITA O n , a se folo no , nasce agli Amici , Nafce
alla Patria l'Uom , nasce aMaggiori, E dal bel nascer suo giorni felici Speran
questi, e sperar voglion tesori. O r foffri, o Figlio , o tu , che tanta elici D
e' gran pubblici affari? ah che fol tua AD 1 0 ) 1 SULLA 3 AD
ARCHITA TARENTINO, Del buon governo,eloro fren spogliace; O
naufragar,dall'empie arti indiscrete Di piggior Duce a morte ria guidate: El
soffrirandelcuorletempre?ahfiamma D'amor mostrate,evoilaPatriabella
Reggete:omai con quell'ardor ,che infiammar Così lungi da leistrage rubella Sen
fuggirà,qualCervioa icolpi,o Damma, O , che viver a voinon maipotrete; Se non
vivrete ad altri se se pensate Goder mai signoria , nè servirete Alle pubbliche
cose ,alle private , O vacillar ben presto le vedrete E poi fia vostra gloria
il ben di quella . In argument. 9. ad Epift. 9. Platon, D'ARCHITA A d d e
Archita , e vidjo senza conforto E scorse fino all' ultimo confine La
Terra,eilCielcoll'artifuedivine, Archita il grande , il nostro Padre è morto !
Del mar le Dive usciro al pio lamento. SULLA MORTE. Pianger lo stuol da rio
dolore assorto . Oimè ,dicean,chi dall'Occafo all'Orto, CAdele Dell'alte sue
virtudi,e pellegrine, Pallido il viso , e lacerato il crine, E in lor leggendo
i gran pubblici danni Pianfero', e poi partiro , e di Tarento
GiunteallaReggia:orvestiinegri panni Da e r ,bella Città : per tuo tormento
Aichita è morto ahi sulbel fior degli anni ! Horat. Lib. 1. od. 28. Joan.
Juven. Tarentin Lib 3. Cap.2. INVE E Diede il Popot Matin l'ultime
prove Se'l crudo suo destino unqua vi spiacque Le
bell*ossadiLui,chetantopiacque A b b i a n lieve la terra ; e poi partite .
Horat. Lib. 1. od. 28. Joan.Juven.Tarentin.Lib.3.Cap.za SUL (59 ) INVITO
A RIMIRARE IL TUMULO D'ARCHITA PRESSO AL LIDO MATINO, Ccop Urna funefta.Alme
ben nate, Cui di pietà l'amabil forza muove , D e h fermatevi alquanto , e
rimirate , Pria di ftendere il passo agile altrove . Qui le fante d Archita
ossa onorate Giaccion fepolte , e qui fpargendo nuove: Piogge d'amaro pianto ,
di pietate Del passato dolore in segno ah dite : . th Allor , che in mar
precipitò , smarrite Sue forze,einfrantoilleguoinmezzo all'acques
Di Natura le fonti più segrete ; Chi dall'onda fatal raplo diLete L e
naufraghe virtudi , e l ebbe accanto ; Chi le vie seppe drittamonte torte , i
PercuilaLuna appar',elSols’asconde, ( 60 ) Aili ah yoi le face offa , e'l
cener fanto Di quell Almagentilahicitogliete, C h e fù si chiara al M o n d o ,
e vi godete Della vera fapienza il facro immanto . Chi a noi mostrò con tanto
studio , e tanto Horat.Lib. i.od.28. . Joan. Juven.Tarentin. lib. 3: Cap. 2.
SUL SEPOLCRO EUDOS D.ARCHITA TARENTINO . Chi 'n Terra,e 'n Ciel la ferma,
emobilsorte; chi com e il foco, el Aere, el suolo , e l'onde s'abbraccin,
seppe, orquìsengiace. Oń Morte, O h duri fastí, ohcieche ombre profonde? S
quanto mai dibelloinCielfiadditag; Ne panni no,ma nella mente fiede.
Diogen.Laert.in vit.Eudox. Foreft. Tom .1. Lib. 8.Cap .4
Joan.Juven,Tarentin.Lib.3. Cap 2. ! Q. EUDOSSO DA GNIDO FAMOSISSIMO MATEMATICO
DISCEPOLO ARCHITA NON FU'RICEVUTO DA PLATONE ALLA D Mira come in udir fuo ftile
adorno La tuafuperbia,e'lfolleardireondanni. No , non doveviil gran Figliuol
d'Archita SUA SCUOLA ,PER ESSER POVERO, Vefti, o Platon , che tu schernisti un
giorno Perchè di povertà fentia gli affanni Questi è colui (fe pur nol fai)che
intorno Del fuo grave faver difpiega i vanni , Gnido vi fpenda il più bel
fiordegli anni; E come giusta ad immortal tuo fcorno Si vilmente scacciar dalla
tua fede Qualor baffamenava umile vita. Poichè virtude , onde 1 U o m farli
erede. Archita. Keywords: la colomba d’Archita, Platone, magna Grecia,
piccione viaggiatore, il vuolo della colomba -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Archita” –
The Swimming-Pool Library.
Ardigò (Casteldidone).
Filosofo. Grice: “I love Ardigo – but I have a few qualms – his “Opere
filosofiche’ is improperly indexed! The man wrote zillions! My attention was
first caught by minor editorial note:
“’La morale dei positivisti’ was reprinted a few years later after its first
edition as divided into two parts, “la morale’ proper and ‘Sociologia’ – Since
I have used philosophical biology and philosophical psychology, Ardigo is
indeed into ‘philosophical sociology’ – As he notes, ‘sociology’ is today’s
philosophese for Aristotelian politics – politica – re publica romana – And
being a positivist, Ardigo provides some good background – which will later be
‘refuted’ by the neo-idealists that opposed this sort of philosophy – to the
idea of two organisms (two pirots) interacting --. While I speak of
conversational egoism as balanced by conversational tu-ism; Ardigo, less of an
altruist, and who laughs at the ‘ridiculous’ sensist conception of ‘simpatia’ –
speaks of two principles: the principle of egoism, or prepotence, found amoung
brutal animals – and the principle of what he calls ANTI-EGOSIM, found in the
civil Italian gentleman – the word ‘civile’ is crucial, as in Castiglione,
‘discorso,’ or ‘conversazione’ civile. If Wilson found it offensive when Chomsky
spoke of two ideal communicadtors, this is no problem for the positivist – As
Ardigo notes, an Italian will not behave conversationally in the same way when
conversing with some he regards as below his station -- that’s why he (and later I adopted the
same guideline) uses ‘Romolo’ and ‘Remo’ (rather than Jack and Jill, since
there is a gender issue here) as communicators.
As he puts it, ‘the fact that Romolo eventually kills his ‘fratello’ is hardly
relevant from a positivist point of view – surely we don’t require ANTI-EGOSIM
to hold indefeafeasibly, I would disagree with Ardigo’s dismissal of Remo’s
murder – ‘l’assassinio di Remo’ – I discussed this with Hardie – in English,
and, after a ten-minute pause, all I got from him was, ‘what do you mean by
‘of’?’” -- Essential Italian philosopher. Grice: “It’s amazing Ardigo found
psychology a science, and a positive one, too!” – Altre opere: “La psicologia come scienza positive”; “Scritti
vari”; “Venti canti di H. Heine tradotti 100 percent.svg di Heinrich
Heine (1922), traduzione dal tedesco (1908) Testi su Roberto Ardigò. Per le
onoranze a Roberto Ardigò 100 percent.svg di Mario Rapisardi (1915)
Note Gemeinsame
Normdatei data.bnf.fr Comité des travaux historiques et
scientifiques Brockhaus Enzyklopädie Dizionario Biografico degli
Italiani Categorie: Casteldidone Mantova
1828 1920 28 gennaio 15 settembreAutoriAutori del XIX secoloAutori del XX
secoloAutori italiani del XIX secoloAutori italiani del XX
secoloReligiosiFilosofiPedagogistiReligiosi del XIX secoloReligiosi del XX
secoloFilosofi del XIX secoloFilosofi del XX secoloPedagogisti del XIX
secoloPedagogisti del XX secoloAutori italianiReligiosi italianiFilosofi
italianiPedagogisti italianiAutori citati in opere pubblicateAutori presenti
sul Dizionario Biografico degli Italiani Refs.: Grice, “Ardigò
and a positivisitic morality,” Luigi
Speranza, "Grice ed Ardigò," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. ARE. Ricerca Roberto Ardigò psicologo, filosofo e pedagogista italiano
(1828-1920) Lingua Segui Modifica «L'inconoscibile di oggi è il conosciuto di
domani.» (Roberto Ardigò[1]) Roberto Felice Ardigò (Casteldidone, 28
gennaio1828 – Mantova, 15 settembre 1920) è stato uno psicologo, filosofo e
pedagogista italiano. Roberto Felice Ardigò Biografia Modifica
Roberto Felice[2] Ardigò nacque a Casteldidone, in provincia di Cremona, il 28
gennaio 1828, da Ferdinando Ardigò e Angela Tabaglio. A causa delle difficoltà
economiche della famiglia, un tempo agiata, si dovette spostare a Mantova, dove
il padre trovò lavoro presso i cognati. La madre era profondamente religiosa,
mentre il padre sostanzialmente indifferente in materia. Egli ne avrà sempre profondo
rispetto e un forte legame, come anche con la sorella.[3] Studi teologici
Modifica Studiò a Mantova, per poi iscriversi nel 1845 al liceo del Seminario
vescovile. Nel 1848 ottiene un posto gratuito nel seminario di Milano, ma in
seguito ai moti risorgimentali é costretto a rientrare a Mantova. Il suo
successivo tentativo di arruolarsi nell'esercito di Guglielmo Pepe è frustrato
da una febbre malarica che lo colpisce alla vigilia della battaglia di Goito.
Proseguì poi gli studi teologici. Dopo la morte dei genitori, fu accolto a casa
sua da Mons. Luigi Martini, rettore del Seminario mantovano. In quegli anni il
Seminario era investito dalla congiura patriottica che porterà al supplizio dei
Martiri di Belfiore, dei quali ben tre erano sacerdoti, tra cui il leader della
congiura Don Enrico Tazzoli, insegnante presso lo stesso Seminario.
Ardigò fu infine ordinato sacerdote il 22 giugno 1851.[3]
L'insegnamento positivista, la sospensione e la scomunica Modifica Nel 1870
pubblicò La psicologia come scienza positiva e nel 1876 tentò di istituire
presso il Liceo di Mantova, dove insegnava[4], un Gabinetto per le ricerche
psicologiche.[3] Nel metodo di insegnamento, poi, privilegiava il personale e
diretto coinvolgimento degli allievi, sollecitandoli al libero dialogo, con una
attenta analisi di brani critici e dei filosofi, cosa non troppo gradita alle
gerarchie ecclesiastiche e al Ministero dell'Istruzione. Già preda di una
crisi religiosa molto forte, che lo portò infine a divenire ateo[5], tutta questa
polemica lo condusse appunto a smettere l'abito ecclesiastico nel 1871, a 41
anni, dopo aver aderito ormai completamente alle posizioni positiviste ed
evoluzioniste, che andavano nettamente in contrasto ai dettami della Chiesa
cattolica del tempo, e aver attaccato apertamente il dogma dell'infallibilità
papale.[3] Alla fine, Ardigò venne anche scomunicato, ultimo atto della
polemica contro la Chiesa di cui aveva fatto parte.[6][7] Professore
universitario Modifica Casteldidone, lapide sulla casa natale In totale
insegnò storia della filosofia all'Università di Padova per 28 anni dal 1881.
Considerato tra i padri della psicologia scientifica italiana[8] per aver
promosso una concezione scientifica della psicologia, concepì una complessa
teoria della percezione e del pensiero che non ebbe completa dimostrazione
sperimentale. Nel 1882 Ardigò svolse uno dei suoi maggiori esperimenti in campo
psicologico sperimentale, sulle condizioni dell'adattamento visivo su prismi
ottici.[3] Diverse furono le materie che insegnò nei lunghi anni d'insegnamento
universitario fino alla data del 1º giugno 1909 quando fu collocato a riposo.
Fu, altresì, preside della facoltà di filosofia e lettere dal 1899 al
1902.[3] Il 31 maggio 1908 divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino.[9]
Il 16 ottobre 1913 fu nominato senatore del Regnoma fu impossibilitato a
raggiungere Roma per il giuramento.[3] Durante la sua vita elogiò
Giuseppe Mazzini[10] e Giuseppe Garibaldi[11], criticò la massoneria[12] (in
quanto la riteneva non necessaria in uno stato ormai libero) ed espresse idee
fortemente repubblicane.[13] Ultimi anni e suicidio Modifica Negli ultimi
anni di vita, isolato dall'ambiente intellettuale, ma non dai suoi discepoli
più stretti, soffrì di gravi problemi fisici e depressivi (acuiti dalla morte
della sorella Olimpia, che viveva a casa sua, nel 1907), che lo condussero a un
primo tentativo di suicidio a Padova nel 1918 (dopo aver appreso della disfatta
di Caporetto e della morte di molti giovani italiani), fallito perché la ferita
non era grave[3], ma che si sarebbe ripetuto il 27 agosto 1920[14], questa
volta riuscendo nel suo intento: Ardigò morì infatti suicida all'età di 92 anni
nella sua ultima sistemazione a Mantova a casa Nievo, abitazione che era stata
di Ippolito Nievo. Si autoinflisse una ferita colpendosi con un rasoio (o una
roncola) arrugginito alla gola.[15] Le testimonianze dell'epoca riferiscono che
venne trovato seduto alla scrivania, con la barba bianca del tutto sporca di
sangue (barba che gli fu tagliata dai soccorritori ed è tuttora conservata come
cimelio nella sala blindata della Biblioteca di Mantova[15]); soccorso dai
medici, perse comunque conoscenza dopo aver ribadito le sue intenzioni, e morì
due settimane dopo, il 15 settembre.[3][15] Ricezione dell'opera di
Ardigò Modifica Il tragico atto finale della sua vita venne usato dai suoi
detrattori - clericali o neoidealisti - per screditare il positivismo in
declino o visto come un gesto di demenza senile, e non come un atto di un uomo
ormai stanco a livello psicofisico, che aveva dato tutto e vissuto la sua lunga
vita secondo coscienza, quale in effetti era. D'altra parte, seppur il sistema
di Ardigò non era anti-idealistico, furono gli idealisti ad attaccarlo
filosoficamente, seguiti dai marxisti di inizio secolo, come Antonio Gramsci,
talvolta paragonandolo agli esiti più deleteri del positivismo, come
l'antropologia criminale di Cesare Lombroso (risultata poi non scientifica),
determinando l'oblio parziale delle sue opere, tra i maggiori libri filosofici
tra il periodo illuminista (con l'esclusione delle opere filosofiche di Giacomo
Leopardi) e il neoidealismo di Croce e Gentile. Con lo sviluppo del positivismo
logico e la riscoperta del positivismo, si è avuta una lenta rivalutazione di
Ardigò, il maggiore esponente italiano del movimento, assieme a Maria
Montessori e, come lei, tra i fondatori della pedagogia e della psicologia
moderna[3][16][17], oltre che uno dei maggiori pensatori laici della cultura
italiana tra XIX e XX secolo.[18] Commemorazioni Modifica Sulla sua casa
venne apposta una lapide, quando ancora egli era in vita: «(Mantova) (in
una pergamena). Indagatore sapiente dei fenomeni del pensiero e del sentimento.
Assertore impavido della naturale formazione e dell'unità molteplice della vita.
La Società magistrale Mantovana, col plauso degl'insegnanti elementari
d'Italia, della Società filosofica dei professori di Morale e di Pedagogia,
festeggiando l'ottantesimo compleanno del Maestro sublime, augura con fervidi
voti che la nuova generazione cresca degna di lui nel culto della scienza,
nell'apostolato della verità.» (Epigrafe di Mario Rapisardi) La città di
Monza gli ha dedicato una scuola media inferiore e una strada. Anche Milano gli
ha dedicato una strada in zona Forlanini, così come Roma che gli ha dedicato
una piazza tra il quartiere dell'EUR e la Via Laurentina. I libri della
sua biblioteca personale sono conservati presso la Biblioteca universitaria di
Padova.[3] PensieroModifica Mantova, lapide commemorativa Il suo
pensiero mosse dalla conoscenza dei classici teologici e filosofici, come
Agostino d'Ippona e Tommaso d'Aquino (poi abbandonati), all'adesione al
razionalismo e al positivismo di Auguste Comte ed Herbert Spencer (con cui ebbe
una corrispondenza epistolare, ma di cui non condivide né il darwinismo
sociale, né il ruolo marginale da questi attribuito alla filosofia), passando
attraverso il naturalismo del Rinascimento, come quello panteistico di Giordano
Bruno.[19] D'altra parte, del sapere magico-ermetico della filosofia
cinquecentesca della natura, da Bruno stesso a Bernardino Telesio, non vi è
alcun residuo nella filosofia positiva di Ardigò, che prova disinteresse e
disprezzo per la rinascita romantico-idealista della filosofia, a cui, dopo la
"conversione laica", contrappone la vera filosofia
scientifica.[19] Caratteri della «filosofia positiva» di Ardigò Modifica
L'originalità della sua filosofia si distanzia tanto dall'enciclopedismo
naturalistico quanto dal tradizionale spirito di sistema, aprioristico,
deduttivistico, dogmatico.[19] La filosofia trova la sua specificità nel
fondamento del fatto (fisico o psichico) e nell'argomentazione induttiva,
contro le deduzioni a priori, metafisiche, che non hanno fondamento
nell'esperienza come la deduzione logico-matematica.[20] Auguste
Comte Una filosofia, che accetti metodo scientifico e voglia dirsi scientifica,
rifiuta quindi le tesi metafisiche, le entità trascendenti inverificabili,
accetta le ipotesi da verificare. Contro l'astratto razionalismo metafisico
della filosofia, è andato emergendo, secondo Ardigò, dapprima il naturalismo
rinascimentale, che ha trovato seguito nell'empirismo, nell'illuminismo e nel
sensismo, fino al darwinismo e al positivismo.[20] Una filosofia positiva
non può nutrire certezze definitive (se vuol essere portatrice di tesi
riformulabili come le teorie scientifiche) e non può essere un sistema unitario
e dogmatico.[20] Ardigò propone una filosofia che, perduto l'ambito delle
scienze naturali positive, si specifica in autonomia come scienza dei fatti
psichici (psicologia) e dei fatti sociali (sociologia).[20] Psicologia,
pedagogia e sociologia positive Modifica I suoi contributi nell'ambito delle
scienze sono importanti per l'impostazione generale. Interessanti sono le sue
idee sull'evoluzione intesa come passaggio dall'indistinto al distinto, ma
anche condizionata dal caso e caratterizzata dal ritmo. Non tutto dunque è
lineare e meccanico. Ardigò fu uno dei primi psicologi moderni, anche se non
nel senso di terapeuta, ruolo che sarà ricoperto dagli psicoanalisti e dagli
psichiatri, ma nel senso di formatore pedagogico e professionale, oltre che di
teorico e studioso della psiche, come Henri Bergson.[21] Ardigò
insistette sulla necessità di una psicologia ed una pedagogia scientifiche, soffermandosi
sul ruolo delle abitudini. L'educazione infatti sul piano naturale può essere
ricondotta all'acquisizione di comportamenti sedimentati e certi; questo
significa il passaggio da una pedagogia metafisica ed astratta ad una pedagogia
intesa come scienza dell'educazione.[21] L'Io, l'Indistinto e la nascita
della coscienza Modifica
Seguendo comunque l'assioma comtiano che "non ci può essere scienza se non
di fatti" (anche se Comte riconduce la psicologia alla filosofia e alla
medicina, oltre che alla sociologia), egli conia inoltre il termine di
"confluenza mentale".[22] Teorie pedagogiche Modifica Ardigò
dice: «la pedagogia è la scienza dell'educazione, per questo l'uomo
può acquisire le abitudini di persona civile, di buon cittadino.» Per
Ardigò dunque non tutte le abitudini sono educative. Dal punto di vista
didattico privilegiò l'intuizione, il metodo oggettivo, la lezione delle cose,
il passaggio dal noto all'ignoto, insegnando poche cose alla volta, ritornando
più volte sulle cose spiegate e facendo continue applicazioni di teorie e casi
nuovi. Egli rivalutò la funzione del gioco, il quale permette al bambino
l'occasione di vedere e toccare gli oggetti, riconoscerne le proprietà e le
somiglianze, favorendo lo sviluppo fisico, il quale va d'accordo con quello
mentale. Proprio in riferimento al gioco, Ardigò criticò le idee di
Fröbel.[23] Il problema di Ardigò fu quello di coniugare la formazione di
giuste abitudini con la libertà e l'autonomia propugnata dai Giardini
d'infanzia di Fröbel.[23] Charles Darwin Natura ed evoluzionismo Modifica
Il sistema ardigoiano si configura come un “naturalismo” evoluzionistico (da
lui chiamato però realismo positivo) che cresce sulla consapevolezza delle
scienze e della tecnica, e si regge sotto una solida epistemologia, mentre si
rivolge anche alla morale, sottraendola al riduzionismo naturalistico e
meccanicistico, riservando alla psicologia la funzione di sovrintendere al
tutto.[24] Se tutto ciò che esiste è un fatto naturale, dal cosmo al cervello
umano, dai vegetali ai minerali, non esiste e non può esistere un Ente
trascendente metafisico e non è pensabile alcun progetto finalistico che
permetta una comprensione teleologica della Natura; ad essa ci si può
avvicinare solo con spirito scientifico.[24]L'ignoto di Ardigò non trascende
l'esperienza, non ne è causa prima e soprannaturale, per cui il suo
immanentismo non finisce mai nello spiritualismo a-scientifico e
irrazionalistico (accusa spesso rivolta da Benedetto Croce ai positivisti).[24]
Un motivo di originalità è offerto dal tentativo di attenuare il determinismo e
meccanicismo evoluzionistico e positivistico tramite la dottrina della
casualità. La realtà è per lui continuo passaggio dall'Indistinto al distinto,
e i distinti sono la coscienza umana e il mondo esterno, frutto entrambi dalle
sensazioni e da quell'Indistinto dalla quale procedono per «autosintesi ed
eterosintesi».[24] Riflessione morale Modifica Egli punta a far rinascere
un'etica laica, naturalistica, non prescrittiva, che pone l'uomo davanti alle
scelte, dandogli strumenti conoscitivi per una scelta razionale.[25] Rimane
estraneo però alla questione sociale e alle istanze socialiste (nonostante la
collaborazione con Turati), e, ancor prima, anarchiche, ampiamente diffuse in
Italia, come isolato è anche rispetto alla politica.[26] Le idealità
sociali o massime morali si distinguono in[27]: naturali, perché frutto
solamente dell'evoluzione della specie e della psiche individuale sociali vere
e proprie, cioè etico-giuridiche perché determinate dalla convivenza; esse
devono la propria oggettività alla loro «genesi (...) individuata nello
sviluppo “materiale” dell'uomo (biologico, fisico, ecc.) e (...) si esprimono
storicamente in istituzioni (come la famiglia, lo Stato) le quali disciplinano
e orientano le azioni umane».[27] Va detto che la riflessione ‘di periodo’
ardigoiana sulla moralità e sulle idealità sociali “nell’idea della giustizia”
mostra l’intento di fondare in Italia la sociologia come scienza sulla cauta
possibilità di concepire nella società la morale senza la religione (Roberto
Ardigò, La morale dei positivisti, Milano, Natale Battezzati, 1879, XXI, p. 290
e sg.). Il progetto di Roberto Ardigò si concretizza maggiormente nelle pretese
di fondare un sapere laico in grado di confrontarsi con le sfere dell’etica e
della filosofia speculativa, senza che quest’ultima possa vantare ex ante una
alleanza “forte” di filosofia e religione e senza avere avuto un confronto con
i temi messi in campo dalla scienza e dai suoi più immediati avanzamenti, così
e come mostrano proprio i primi passi dell’idea di formare un sapere
sociologico autonomizzato dalle sfere dell’eticità (Guglielmo Rinzivillo,
Ardigò e la prima sociologia in Italia, su “Scienzasocietà” n.50, A. IX
maggio-agosto 1991, pp. 25 –31). In questo senso l’impresa di Ardigò di
confrontarsi direttamente con il sapere speculativo risulta essere l’unica nel
suo genere al cospetto del positivismo di fine secolo XIX ( Guglielmo
Rinzivillo, La scienza e l’oggetto. Autocritica del sapere strategico, Milano,
Franco Angeli, 2010, ristampa 2012, II, ISBN 9788856824872 ). Ma il tentativo
di formare una scuola si infrange nella ripresa sia europea dello spiritualismo
che più nostrana dell’idealismo e nella contestazione delle dottrine
filosofiche di seguaci come Giovanni Marchesini e Giuseppe Tarozzi
(Mariantonella Portale, Giovanni Marchesini e la “Rivista di Filosofia e
Scienze Affini”. La crisi del positivismo italiano, Milano, Franco Angeli,
2010, ISBN 8856825643)
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