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Sunday, October 17, 2021

Grice ed Adorno

 Lo "stoicismo" di Marco Aurelio. La consapevolezza profonda e meditata che la realtà è quella che è, che tutto avviene come deve avvenire, che l'uomo, momento di questa realtà, è tale entro l'arco della sua vita, per cui, umanamente, prima di nascere e dopo la morte, è il nulla, portava un cinico come Demonatte a sostenere che l'unica via di salvezza è per l'uomo, abbandonati ogni timore e speranza, riso!- 147 www.scribd.com/Baruhk   vere se stesso esclusivamente sul piano umano, realizzando una misura, che non è data, ma che è frutto, volta a volta, del nostro stesso medi- tare. La stessa consapevolezza portava, nella stessa epoca, un uomo come Marco Aurelio (121-180),27 imperatore romano (dal161), cinicamente, ad 27 Nato a Roma, sul Celio, il 26 aprile 121 d. C., da M. Annio Vero, originario della Spagna, appartenente a una nobile famiglia, che aveva ricoperto alti uffici, e da Domizia Lucilla, gli furono imposti i nomi dei due nonni, M. Annio Catilio Severo. A ~i anni Adriano lo designò a far parte dell'ordine equestre, a otto del collegio dei salt. Rimasto a nove anni orfano del padre, adottato dal nonno paterno, che si occupò, insieme al bisnonno materno, della sua educazione e che gli dette il nome di M. Annio Vero, fu avviato agli studi di filosofia da Diogneto. Esaltatosi per la filosofia, come costume di ·vita, si sottopose a privazioni, vivendo in forma austera e rigidissima. Adriano, che aveva per il giovinetto una viva simpatia e che molto apprezzava le sue doti, giuocando sul suo nome (M. Annio Vero), lo chiamava "verissimo." Nel 136 si fidanzò con la figlia di L. Ceonio Commodo, designato dall'imperatore Adriano a suo successore. Alla mprte di Ceonio (138), Adriano adottò Antonino, zio di Marco Annio Vero, a patto che Antonino adottasse a sua volta il figlio e il nipote di Ceonio. Morto Adriano nel luglio del 138, Antonino Pio non solo adottò il figlio e il nipote di Ceonio, ma anche Marco, che assunse il nome di Marco Elio Aurelio Vero; cosi venne presto indicato dall'impera- tore come suo successore. Marco ebbe il titolo di Cesare, fu nominato questore nel 138-139, console nel 140. Nel 145 sposò Faustina, figlia di Antonino Pio. Marco Aurelio si preparò allora con coscienza e serietà di studioso al suo "mestiere" di imperatore. Con il celebre Frontone studiò retorica latina, con Erode Attico retorica greca. Se da Diogneto, com'egli stesso dice (Ricordi, 1, 6), fin da giovane aveva sentito avversione a perseguire cose stupide e vuote, una gran diffidenza per le chiacchiere di fattucchieri e di maghi, per incantamenti e scongiuri, e aveva .preso familiarità con la filosofia, l'amore per le parole libere e franche; in questo periodo, frequentando lo stoico Apollonio, aveva appreso la capacità di non affidarsi al caso,. il suo sguardo rivolto soltanto e incessan- temente a vie razionali, la capacità di non impazientirsi dovendo dare direttive a qual- cuno (Ric., I, 8). E se da Frontone aveva appreso di quanta invidia, di quanta malizia, di quanta ipocrisia sia formata la tirannide, e che i patrizi sono persone degne di poca considerazione (Ric., I, Il), dallo stoico Giunio Rustico (figlio o nipote di Giunio Rustico Aruleno, due volte console, collega nel 119 di Adriano nel suo terzo consolato, una volta praef~ctus urbis) aveva appreso a non sentire piu inclinazione dannosa per le ambizioni dei solisti, l'avversione a comporre trattati su problemi astratti, a declamare pretenziosi discorsi per esortare alla filosofia (chiare frecciate contro Frontone), l'avversione alla retorica, alla poesia, al parlare forbito, l'abitudine a leggere con molta attenzione, a non accontentarsi di capire press'a poco, l'essersi incontrato con i ricordi di Epitteto, che gli furono donati da Giunio (Ric., l, 7). In questo stesso periodo Marco Aurelio frequentò il platonico Alessandro, il peripatetico Claudio Severo (console nel 146), il giurista L. Volu- sio Meciano, gli stoici Claudio Massimo (console, legato, procuratore imperiale) e Cinna Catulo, il platonico Sesto di Cheronea, nipote di Plutarco (cfr. Ric., I, pauim). - Morto Antonino, Marco, il 7 marzo 161, sali al trono col nome di Marco Aurelio Antonino. Egli si associò al trono il fratello adottivo, che prese il nome di Lucio Annio Vero. Dopo gli anni pacifici di Antonino, gli anni in cui governò Marco Aurelio furono estre- mamente gravi per l'unità dell'Impero. t storia nota. Marco Aurelio dovette combattere in Oriente contro i Parti, mentre, sotto la spinta dei Goti, popolazioni sarmatiche e ger· maniche sfondarono le difese romane e penetrarono in Rezia, nel Norico, in Pannonia, in Mesia. I Quadi e i Marcomanni, varcate le Alpi, assediarono Aquileia e sconfissero l'esercito romano. Marco Aurelio e Lucio Vero mossero contro i barbari. Lucio mori nel 169; nel 175 Marco riusd a respingere gl'invasori oltre la sinistra del Da.nubio. Marco Aurelio fu quindi costretto a ristabilire ordine in Oriente, mentre di nuovo Marcomanni e Quadi insorgevano. Accorso contro di loro, Marco Aurelio mori, presso Vindobona (Vienna) nel 180. A lui successe il figlio Commodo. Di Marco Aurelio davvero si può 148 www.scribd.com/Baruhk   accantonare qualsiasi dottrina sulla struttura e il senso della realtà, tutta, in sé, né buona né cattiva, fluida e mutevole, senza significato. Le cose sono avvolte in un certo cotale velo, da sembrare a filosofi non pochi e non certo volgari del tutto incomprensibili. E persino gli stoici le ritengono ben difficilmente comprensibili. Ogni ipotesi del resto è passibile di modificazione. Dove, infatti, è colui che non debba mutare qualche conclusione? Passa in rivista dunque cose ed oggetti: ben piccola la loro durata; ben piccolo il loro valore... Passa quindi in rivista le abitudini dei cuoi contemporanei: modi di vivere che a fatica si riuscirebbe a tollerare pure in chi è piu gentile e educato, per non dire che anche costoro riescono appena a sopportare se stessi. In tenebra si grande, in tanto sozza condizione, in si grande flusso di cose e di tempi, del moto e delle cose trascinate al moto, quale realtà può venir pregiata o può in qualche modo incontrare il nostro entusiasmo? Non lo so immaginare (Ricordi, V, 10). Tutto è opinione: chiaro è a qu~sto proposito il detto del cinico M6nimo... (Il, 15). Il tempo dell'umana vita è un punto; la sua materiale sostanza un perenne fluire; la sensazione tenebra; la compagine di tutto l'organismo, immanca- bile corruzione; il principio vitale, l'aggirarsi di una trottola; la fortuna non si può indagare; la gloria, cieca. In breve, le funzioni dell'organismo sono un fiume; quelle dell'anima, sogno e vanità; ed è guerra la vita, viaggio di un pellegrino; oblio la voce dei posteri. E, adesso, a che cosa ti puoi affidare? (Il, 17). Tutto dura un giorno, e chi ricorda e chi è ricordato (IV, 35; cfr. anche IV, 33). Tutto avviene per alterna mutazione... Ogni cosa è in un certo qual modo seme di un'altra che da quella dovrà prove- nire... (IV, 36). La totalità dei tempi è quasi un fiume, formato dagli eventi; corrente che a forza travolge. Non vedi? Le singole cose, appena venute, già sono trasportate via; un'altra cosa viene trasportata. E anche questa sarà portata via (IV, 43; anche VI, 15). Volgi lo sguardo sulle umane vicende, conscio della loro precarietà, del loro scarso valore: ieri, tanta boria; domani, mummia o cenere... (IV, 48; anche V, 33). Quanto poi alle cose della vita, quelle che appaiono tanto degne d'onore, sono vacuità, mar- ciume, piccolezze, cagnolini che si mordono l'un l'altro; ragazzini che rissano e che si divertono a rissare, poi ridono e subito finiscono col pian- gere... (V, 33). Nulla di nuovo: ogni cosa, sempre quella; e insieme ogni cosa rapidamente trapassa (VII, 1). Per altro verso, invece, quella stessa consapevolezza porta Marco Aurelio a rendersi sempre piu conto che un qualche significato da dare dire che governò filosofando, e filosofò go\'ernando, cercando di attuare quello ch'era stato l'ideale politico di molti pensatori stoici. Oltre ad alcune lettere in latino, a Frontone e ad Erode Attico, di Marco Aurelio restano frammenti di suoi discorsi, e 12 libri di sue riflessioni, in greco: T« c!<; éotuT6 (Tà ~is h~aut6n}, A se st~sso, andati sotto vari titoli: Colloqui con s~ st~sso, IUcordi, P~nsi"i, Note p"sonali. Furono scritti tra il 166 circa c il 180. 149 www.scribd.com/Baruhk   alla vita non proviene dal di fuori, né dalla contemplazione di un ordine dato e che solo sia da conoscere, ma da un continuo approfon- dimento di se stessi, da un continuo scavare·dentro ("Scava nella tua interiorità; dentro di te sta la fonte del bene": lv8ov axoc1t"t'e:' !v8ov ~ 7t'l)~ -rou à.yot-3-ou: VII, 59), mediante cui sapere, volta a volta, come comportarsi, e rivelante nell'uomo una capacità di misura che dimostra la sua libertà, anche in un mondo che è quello che è, in cui illusione e fanatismo è credere di poterlo modificare. E adesso, a che cosa ti puoi affidare? A una sola, a un'unica cosa: la filosofia. E questa ti permetterà di conservare l'interiore dèmone senza violenza e danno: signore dei piaceri; capace di agire senza intraprendere nulla a caso; immune da menzogna e da simulazione; libero dal bisogno che altri faccia o no qualche cosa. Ancora, questo dèmone dovrà accettare gli eventi e tutto quello che gli càpita, convinto che tutto viene di là, da un luogo misterioso da cui egli pure un giorno è venuto... (II, 17). Il nostro reggere con intellettuale luce d'azione... è l'esperienza del divino e dell'umano (III, 1). [Indagando se stessi, scavando nella nostra interiorità, scopriamo noi stessi quale attività egemonica] e l'egemonico è ciò che eccita se stesso e si rivolge e si rende quale vuole... (V, 8), [per cui] unicamente buone o cattive sono le cose che dipendo_no da noi... (VI, 41). In tale senso vicinissimo a Epitteto, da Marco Aurelio a lungo medi- tato e piu volte citato (cfr. l, 7, 8; IV, 41; VII, 19, 2; XI, 34, 36), Marco Aurelio poteva trasformare il primo atteggiamento di abbandono, di disprezzo e di nausea per le cose, vane tutte, in un atteggiamento oppo- sto - che non modifica nulla se non se stessi - , in un amore per tutte le cose ("l'unica cosa che rimane a chi è buono, come propria caratte- ristica, è l'amore, l'atteggiamento di un'anima serena e tranquilla che accolga gli eventi a lei destinati"; III, 16), in un rispetto per ogni· uomo, che in quanto tale ha la capacità di trasfigurarsi da cosa accanto a cosa, da mezzo in fine, di assumere entro i termini dei rapporti umani, di volta in volta, il proprio posto, costruendo se stesso ("ogni uomo è mio affine, non certo per identità di sangue o di seme, ma in quanto partecipe di una mente e d'una funzione che è divina..., la funzione, !"egemonico,' cui spetta il sovrano dominio": Il, l, 2; "ama, dunque, ma davvero, gli uomini cui la sorte ti ha posto accanto" : VI, 39). E se ciò, ripetiamo, non modifica la realtà, modifica il nostro modo di atteggiarsi verso gli altri, in una continua consapevolezza del nostro dovere (formale), che, in conclusione, può, di volta in volta, modificare lo stesso umano rapporto, ogni volta nuovo. Vane e senza significato le cose, vani e senza significato gli uomini (se presi a sé, finché restano· 150 www.scribd.com/Baruhk   presi dalle cose, dispersi e molteplici, le stesse cose e gli uomini - iden- tici, finché esteriorità - assumono un senso quando, attraverso se stessi, scoprendo sé come razionalità, cioè come capacità ordinatrice (egemo- nico) e come misura, si comprende delle cose e degli uomini la vanità e l'insignificanza, per cui tutto, insignificante in quan•o esteriorità, assume un suo posto, un suo senso, in quanto interiorità, entro i termini della nostra opinione. In nessun luogo piu che nell'anima, con maggior tranquillità, con piu facilità, un uomo può ritirarsi... [e troverà pace]. E con questa pace voglio intendere disposizione di ordine perfetto (IV, 3). Di tutte le cose devi scor- gere la volgarità e quella loro magnificenza, per cui appaiono tanto impor- tanti, la devi togliere via... (VI, 13). Bisogna sapetsi valere di chi è signore della propria anima [l'egemonico o il divino che è in noi], per opera del quale l'uomo non può essere toccato dal piacere, non può essere vulnerato da nessun dolore, né colpito da nessuna violenza ... ; pronto ad accogliere amoroso, con l'anima tutta quanta, quello che accade e quello che gli viene assegnato, tutto... Quest'uomo sa che in suo potere è soltanto la propria interiorità e pensa senza interruzione alle cose proprie, quelle che l'uni- versale connessione degli eventi gli arreca... In realtà il destino a ciascuno attribuito viene portato a uguale mèta dal destino universale, e parimenti a uguale destino procede. Tiene ancora presente nel ricordo che quanto pos- siede razionalità gode di natura profondamente affine; che è proprio del- l'uomo prendersi cura di ogni uomo... (III, 4). Togli il giudizio della tua mente e sarà tolto il "sono stato offeso"; togli il "sono stato offeso" e sarà tolta l'offesa (IV, 7). Se provi dolore per qualche offesa che è fuori di te, non questo fatto singolo precisamente ti turba, bensf il giudizio che tu vieni facendo su quello (VIII, 47). O meglio, in sé non esistono né un'interiorità né un'esteriorità, ma interiorità ed esteriorità sono due modi diversi di atteggiarsi di fronte alla stessa realtà : irrazionalmente (e allora siamo presi dalle cose, deter- minati, passivi, dispersi); razionalmente (e allora tutto dipende da noi, nella consapevolezza che ragionevolmente il tutto si organizza razional- mente; ha una sua ragion d'essere). E a ciò si giunge non dal di fuori, non accettando supinamente, scolasticamente, una o altra dottrina, ma indagando, scavando se stessi, pensando - e tale è stato l'insegnamento piu alto di un Seneca e di un Epitteto - , non attraverso una sapienza già data, o librescamente assunta (dice Marco Aurelio a se stesso: "lascia andare i libri, non è piu tempo di simile cura": II, 2; " scaccia quella sete di libri, se non vuoi giungere a morte mormorando, ma vera- mente sereno e grato agli dèi dal profondo del cuore": II, 3; "Da Rustico ho imparato l'avversion~ a comporre trattati su problemi astratti, 151 www.scribd.com/Baruhk   a declamare pretenziosi discorsi per esortare alla filosofia, a farmi vedere uomo intellettuale e studioso, benefico solo per colpire le menti altrui; l'avversione alla retorica, alla poesia, al parlare forbito": I, 7); ma attra- verso una sapienza frutto di quello stesso meditare ("da Apollonia ho imparato il tono libero del mio carattere... quel mio sguardo rivolto soltanto e incessantemente a vie razionali" : l, 8), che scopre all'uomo come l'uomo è pensiero, razionalità che è tale in quanto esercizio, che costruisce sé mediante lo stesso pensare. Di qui, anche la forma letteraria dell'opera di Marco Aurelio, che non è affatto un trattato, né una doxografia, né un'esposizione logico- dottrinaria, né un insegnamento ("se da: Rustico ho imparato l'avver- sione a comporre trattati su problemi astratti..., se da Sesto ho impa- rato ad esser ricco di dottrina senza farne continua mostra": I, 7, 9), ma la presentazione - unica forma d'insegnamento - del proprio ripensamento, del proprio meditare, del continuo discorso a se stesso (èis heautòn). Marco Aurelio, cosi, nei termini del dovere formale del- l'uomo (ciascuno, meditando su se stesso, assume il posto che gli com- pete nell'ordine sociale, costituendo quell'ordine), cerca di determinare il proprio posto che natura e sorte gli hanno dato, rendendosi conto del proprio dovere di imperator~ e della funzione che nell'ordine sociale gli compete, per il bene della comunità: e ciò è dovere di ogni uomo, per quella comune ragione che ci fa tutti fratelli ("a Severo, mio fratello, debbo anche l'aver potuto conoscere per mezzo suo Tdsea, Elvidio, Catone, Diane, Bruto, e l'aver potuto far sorgere in me il desiderio di un governo, in cui la legge abbia vigore per tutti; informato, questo governo, a uguaglianza e a libertà di parola, un regno capace di rispet- tare per suprema ragione la libertà dei sudditi" : I, 14}, giorno per giorno. E.un diario è, appunto, il libro di Marco Aurelio, non a caso intitolato -ra e:tç lotu-r6v (tà èis heaut&n), cioè a se stesso, in genere tradotto con Colloqui con se stesso, o con Ricordi e Pensieri, o Note personali. L'opera, che si divide in 121ibri, non fu scritta tutta insieme, né secon4o l'ordine dei libri quali noi leggiamo (sembra che il I sia stato composto per ultimo, mentre i libri II, III e XII siano stati scritti per primi: certo, l'insieme, tra il 169 e il 180; Marco Aurelio era stato nominato imperatore nel 161, mori nel 180, e gli anni tra il 169 e il 180 furono i piu gravi del suo regno, in guerre continue, in cui egli dovette assu- mc;rsi le piu alte responsabilità per sé e per l'impero, di cui si sentiva il servitore). Il filo conduttore dei Ricordi di Marco Aurelio sta proprio in questo suo sforzo continuo di chiarire sé a se stesso, attraverso cui cogliere, di volta in volta, ciò che a se stesso compete, imparare a essere uomo, a compiere il proprio ufficio consapevolmente ("non agire mai 152 www.scribd.com/Baruhk   contro il tuo volere; e nemmeno senza proporti quale mèta un comune bene, senza opportuna ponderazione; né, d'altra parte, dubitoso e in- certo... Quel Dio che dimora dentro, in te, sia il tutore di un uomo virile, venerabile per gli anni, conscio di una sua naturale politicità, romano, imperatore, già pronto per il suo posto...": III, 5). D'altra parte, se, stoicamente (epitettianamente}, saper pensare è realizzazione piena della verace natura dell'uomo (per cui primo dovere dell'uomo è imparare a pensare} e saper pensare è costituire in armonia e ordinatamente le proprie impressioni, per cui quello stesso mondo che appare nell'immediatezza sensibile e dispersa disordinato, indivi- dualmente insignificante e senza senso (o, per altro verso, prendendoci unilateralmente, ci determina dispersivamente, per cui patiamo la realtà quale appare, molteplice e senza senso, dandole un significato, un valore che non ha), si risolve, invece, in quanto razionalmente ordinato e non piu visto individualmente, unilateralmente, come unità, ove tutto ·ha un suo giusto posto, che, dunque, dipende da noi, dal nostro modo d'essere ragionevoli o meno. Ogni natura basta a se stessa, quando procede sulla retta via. E una natura razionale procede sulla retta via quando non dà il suo assenso a immaginazioni menzognere e oscure; quando dirige i propri impulsi alle sole opere che hanno quale mèta il bene comune; quando ricerca o evita quelle cose sole che sono in nostro potere; quando ama tutto quello che le viene assegnato dalla comune natura. Ogni singola natura è parte di quella comune a quella guisa che natura di foglia partecipa alla natura della pianta; con la sola differenza che in questo caso natura di foglia è parte di una natura insensibile, irrazionale, e che può subire coercizione; invece natura d'uomo è parte di una natura che non ammette coercizione, intelli- gente e giusta, dato che distribuisce ai singoli, con uguale criterio e secondo il merito, parte di tempi, di sostanza, di causa, di attività, di vicende. E devi compiere la tua osservazione non isolando per ogni fatto un singolo parti- colare, rispetto ad un altro particolare uguale, ma considerando nel loro complesso particolari di un singolo fatto e in relazione a quelli d'un altro, pur nel loro complesso (VII, 7). Non solo, ma poiché l'uomo, attraverso il suo stesso pensare, scopre sé come attività unificatrice, come ragione che è tale non in sé, ma in quanto organizzazione di sé, come attività egemonica di un se stesso, molteplicità e passioni - non a caso Marco Aurelio riprende il vecchio termine stoico "egemonico" per intendere la razionalità - realizza- zione del proprio soffio vitale (pnéuma) in un ordine e in una misura delle passioni, in cui, appunto, consiste la razionalità, nulla vieta di fare l'ipotesi che la stessa essenza del tutto, la sua natura, il divino, 153 www.scribd.com/Baruhk   sia questa stessa forza vitale che si realizza ordinando il tutto in unità, socievolmente ("la Mente dell'universo ha carattere socievole": 6 -rou 15ì-.ou vou~ xotvwvtx6~: V, 30), e di cui, dunque, il nostro "ege- monico" è un momento, un aspetto, mediante cui non solo si è capaci di porre ordine in sé scoprendo attraverso sé l'ordine e, perciò, la provvidenza del tutto ("o una cosa o l'altra: confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità, ordine, provvidenza": VI, 10), ma anche, accettando consapevolmente il proprio posto - e ciò spetta a ciascuno - di rispettare gli altri, riconoscendo negli altri se stesso, la propria razio- nalità, in un amore di sé che è amore degli altri (socialità), in un amore del tutto che è amore di Dio. L'umanità steS&a, dunque, in quanto razionalità, esiste in quanto ordine e unità consapevole, in cui ciascuno ha il suo posto e in cui ciascuno è uguale all'altro in quanto capacità razionale, in quanto in tutti, come razionalità, è una scintilla dell'unica razionalità divina che ci fa tutti parenti. Quell'uomo è mio affine, non certo per identità di sangue o di seme, bens{ in quanto partecipe di una mente e di una funzione che è divina (Il, 1). In un organismo unificato le membra del corpo hanno una determinata funzione; ebbene, la stessa funzione, pur separati l'uno dall'altro, hanno i viventi razionali, congegnati in vista di un'unica profonda collaborazione. Anzi, nconcetto di questo fatto ti sarà piu chiaro qualora tu ripetessi piu volte a te stesso: "Io sono membro di una schiera, schiera ordinata di creature razionali." Al contrario, se tu dici che ne sci soltanto una parte, non ancora con tutto il tuo cuore ami gli uomini; non ancora il far bene a qualcuno ti dà gioia completa. Parimenti, compi questo beneficio soltanto come cosa dovuta, non sci ancora convinto di far bene a te stesso (VII, 13). Ci sono due verità alle quali potrai volgere intento sguardo. La prima è questa: le cose non arrivano a toccare l'anima;. bensf rimangono fuori come sono; il turbamento proviene solo dall'interiore valutazione. La seconda: tutte queste cose che vedi, quanto rapidamente si mutano e piu non sono!... Se la facoltà intellettiva è comune per tutti; se la ragione, in quanto siamo razionali, è pure comune; se cosf è, la ragione, in quanto imperativa delle cose che si debbono fare o meno, è anch'essa comune; quindi anche la legge è comune; quindi siamo anche·cittadini, partecipi di wi'organizzazione statale, quasi una Città, uno Stato, insomma. In realtà nessuno potrà dire che tutto il genere umano partecipi a qualche altra città in tal modo comune a tutti. E di qui, da questa città universale, vengono a noi intelligenza, razio- nalità, legalità... (IV, 3, 4). Solo va sottolineato che ciò Marco Aurelio non pone come dogma, ma vi giunge attraverso la stessa riflessione morale, che, scoprendo l'es- senza dell'uomo, la sua natura come attività razionale, può far porre 154 www.scribd.com/Baruhk   come ipotesi che, appunto, lo stesso principio e fine del tutto è la razio- nalità, intesa come ordine e socialità. L'opzione di Marco Aurelio per la tesi di fondo dello stoicismo riflette chiaramente il significato della morale di Marco Aurelio intesa come conflitto, se vogliamo, tra il momento cinico e il momento stoico che si scioglie dalla sua rigidità antologica per divenire postulato e dovere morale, cui si giunge mediante la stessa riflessione sul nostro essere uomini, che costituisce e costruisce la nostra persona. E l'uomo resta, sempre, dilacerato tra una realtà che è quella che è, indifferente, insignificante, inutile, tra cui vi sono gli uomini, che sono quello che sono, ove tutto è monotono, noioso, ove si nasce e si muore, ove tutto non merita nulla; e una realtà che rivis- suta razionalmente appare ordinata e costituita secondo una piu profonda ragion d'essere, per cui quellà stessa realtà, quegli stessi uomini, pur rimanendo quali sono, un nulla, foglie che vanno, foglie che vengono ("fragili foglie anche i bimbi tuoi, fragili foglie anche questa gente che ulula..., fragili foglie per non differente condizione anche le stirpi desti- nate a ricever la fama dei giorni venturi...; ma poi vento le getta per terra e, successivamente, la selva altre, invece di quelle, ne genera; e fugacità di un istante a tutti è comune; ma intanto tutte queste cose tu vai perseguendo oppure fuggendo, proprio convinto che .la durata ne sia eterna; ancora un poco e chiuderai gli occhi, e per colui che ti accompagnerà al rogo, altri farà il lamento funebre": X, 34), li com- prendiamo come a noi vincolati, li vogUamo per quel che sono, li accet- tiamo volontariamente sapendo ciascuno giuocare la propria parte (Marco Aurelio la sua parte di Imperatore), in un rispetto delle varie parti, che è rispetto della comune ragione, che ci fa tutti fratelli. L'uomo, dunque, che è uomo in quanto ragione, cioè in quanto capacità di portare ordine e misura in sé,·di volta in volta obbietti- vando il valore delle cose, sapendo ciò che valgono - né molto né poco - non facendosi prendere dalle cose stesse, è ·tale in quanto è già in se stesso armonia di una molteplicità, è società, ove non una parte vale piu dell'altra, .ma sono tutte uguali nell'unica ragione ("egemonico") che le articola. Sotto questo aspetto anche gli altri (tali finché si resta sul piano del sensibile, dell'immediatezza, della passione, del dare piu valore ad una piuttosto che ad altra cosa) sono noi stessi, per cui in essi vogliamo noi; cioè, appunto, la comune razionalità che ci fa sociali, membri di un'unica città ("d'altra parte, tu sei uomo pro- teso a compiere, comunque sia, il bene dell'umana comunità" : XI, 13; "o uomo, fosti cittadino di questa grande città; qual differenza per te, se per tre o cinque anni?": XII, 36; "siamo nel mondo per reci- proco aiuto, come piedi, come mani, come palpebre, come i denti di 155 www.scribd.com/Baruhk   sopra e di sotto in fila; in conseguenza è contro natura ogni azione di reciproco contrasto": Il, 1). L'amore per gli altri- amore per noi- non è, dunque, un amore in funzione di un aldilà, di un premio, di un Dio che cosi vuole, di averne indietro riconoscenza o che sia (cfr. VII, 73), ma è un amore che si risolve tutto entro i termini dello stesso orizzont~ umano, in un desiderio e in una volontà di costruire un mondo umano quale dovreb- b'essere per natura, cioè razionalmente ("sempre si ricordino le ragioni con le quali fu dimostrato che l'universo è come una città": IV, 3). Nulla individualmente eterno, ché tutto, l'uomo compreso, sia come corpo, sia come forza vitale (nei suoi tre aspetti: facoltà egemonica e coscienza di sé, il dèmone proprio, soffio vitale e anima: cfr. Il, 2), si trasforma, riemerge, ritorna al tutto, unico.eterno; in tale consapevo- lezza- lunga o breve che sia la vita: un nulla; sempre uguali le cose: vanità - dobbiamo essere noi stessi, simili "ad un promontorio contro il quale incessantemente si infrangono le onde e quello sta saldo, e si abbonacci intorno a lui la gonfia protervia del flutto" (IV, 49), sempre, nell'istante, nel presente ("solo l'istante presente è quello di cui l'uomo dovrà sentire privazione; effettivamente questo solo egli ha, e ciò che non/si ha non si può perdere" : Il, 14). Iri. effetto il passato non è piu e il futuro non c'è, e la vita autentica è fuori del tempo, nell'a~timo in cui siamo noi stessi. Se ogni cosa assume un senso nella nostra con- sapevolezza, nella retta ragione, non c'è un prima e un poi, ma, ap- punto, ogni volta, l'attimo, e la virtuosità è tale in ogni istante, né v'è passaggio da una minore ad una superiore virtu e viceversa. Noi siamo, dunque, impegnati tutti in ogni istante, siamo in ogni attimo chiamati a decidere di quello che siamo, e, appunto, in ciò si abolisce il timore e la speranza che sono sempre immagini, rappresentazioni passionali. In ogni momento, essendo noi figli del nostro meditare, che ci costruisce e ci genera quali siamo, risolviamo nel presente il nostro passato. Vi- viamo, perciò, insieme, nel tempo (i momenti del processo in cui si scandisce il ritmo della realtà) e nell'eterno (il presente) in cui la realtà tutta si risolve nella consapevolezza che ne abbiamo (tale l'in'terpre- tazione del motivo stoico dell'" eterno ritorno," che da temporale diviene atto della consapevolezza morale). Né buona né cattiva la realtà, essa è sempre quella che è, onde rimaniamo imperturbati, o, pur soffren- done o gioendone, sappiamo in che consistono tali sofferenze e gioie, per cui non siamo piu presi da esse, non le patiamo piu. E perciò, morti anche in questa vita, vivi solo in quanto razionalità, che ci perde o nel tutto o negli altri, piu non temiamo la morte, ché in ogni momento monamo. 156 www.scribd.com/Baruhk   Anche nell'ipotesi che tu debba vivere anni tremila e altrettanti anni diecimila, in ogni modo ricòrdati d'una cosa: ne~suno perde una vita diversa da quella che in quell'istante egli ha; né altra vita vive se non quella che in quell'istante egli perde. A egual punto, dunque, perviene una vita lun- ghissima e una vita del tutto breve. Vedi che il presente è per tutti uguale, ciò che via via si· allontana non è piu nostro, e il tempo che via via tra- scorre è istante brevissimo. Infatti, non si può perdere il tempo trascorso e nemmeno il tempo futuro; come sarebbe possibile che ci venisse tolto ciò che non si ha? Insomma di questi due fatti bisogna tener vivo il ricordo: il primo, che tutto perennemente è sempre d'un solo aspetto e che si aggira quasi in un cerchio e che non fa differenza in nulla se si dovranno vedere le medesime cose per cento, per duecento anni oppure per un tempo che sia senza limiti. Secondo fatto: chi muore carico di anni e chi muore subito perde una stessa cosa. Vedi bene che solo l'istante presente è quello di cui l'uomo dovrà sentir privazione; effettivamente, questo solo egli ha e ciò che non si ha non si può perdere (Il, 14). Se un uomo considera unico bene l'istante; se giudica'egual cosa aver compiuto azioni conformi a retta ragione in grande numero o in numero piu esiguo; se non fa differenza alcuna, questo uomo, del poter contemplare il mondo per un tempo piu lungo o piu breve; a costui certo la morte non costituisce motivo di paura (XII, 35). O uomo, fatti cittadino di questa grande città: qual differenza per te, se per tre o cinque anni?... È la medesima cosa che se il·capocomico che l'aveva chiamato, congedasse poi l'attore dal teatro. "Ma non sono arri- vato a rappr~sentare tutti i cinque atti: soltanto tre." Hai ragione; ma nella vita anche tre anni soltanto costituiscono l'intero dramma (XII, 36). Cia-· scuno vive questo istante ch'è presente: tutto il resto è vita trascorsa o incerta (III, 10). Cerca di mettere a profitto l'attimo presente con giusta ragione e con giustizia (IV, 26) (cfr. anche IV, 48]. Sono formato di fra- gile corpo e di anima. Per quanto riguarda il corpo, tutto riesce indifferente; del resto, neppure gli è concesso di far differenza alcuna. Alla mente, invece, sono indifferenti quelle cose che non siano sue operazioni. Quante cose invece dipendono dalla sua attività dipendono tutte dal suo poterei anzi, fra queste, a dir la verità, la mente si preoccupa solo di quante si riferi- scono al presente; le future e le trascorse sono operazioni sue già compiute e ormai indifferénti (VI, 32). Sotto questo aspetto Marco Aurelio è assai vtcmo non solo a certi motivi cinici, ma anche, indipendentemente dai presupposti fisici del- l'epicureismo, a certe conclusioni dell'etica epicurea. Ma forse il turbamento tuo proviene dal considerare la sorte a te asse- gnata nell'universale destino? In tal caso devi ricordare il dilemma famoso: o provvidenza oppure atomi... (IV, 3). O una cosa o l'altra: confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità, ordine, provvidenza. Se ha valore la prima opinione, perché tanto desiderio di indugiare in una mescolanza 157 www.scribd.com/Baruhk   dovuta al caso?... Oh! verrà certo anche per me il momento della disso- luzione, qualunque cosa io cerchi di fare. Se invece ha valore la seconda ipotesi, adoro, me ne sto tranquillo, nutro fiducia in colui che governa (VI, 10). Morte: o si tratta di dispersione, se vi sono gli atomi; o annienta- mento; o anche cambio di dimora, se ci attende un'altra unione (Sul piano umano uguali sono le conclusioni]. O necessità di prefissato destino, o posto dal quale non si può sfuggire; oppure provvidenza che può essere placata; oppure, infine, confusione senza guida alcuna, un regno del caso. Se si tratta di una necessità dalla quale non si può sfuggire, perché tanto ti occupi? Se invece c'è una provvidenza che può essere placata, rendi in tale caso te stesso degno dell'aiuto che dalla divinità può provenire. Da ultimo, se regna confusione senza nessuno che governi, stai contento perché in tem- pesta cosi grande per conto tuo hai in te stesso mente capace di guidare e condurre (XII, 14)... E che cosa c'è di diverso, allora, in certo senso, se ci fossero veramente gli atomi e le singole parti della materia? Insomma, se vi è un Dio, tutto procede bene; se un caso, ebbene non procedere tu pure a caso (IX, 28). Sembra chiaro, cosi, in che senso Marco Aurelio, tra epicureismo nei suoi fondamenti fisici -, e stoicismo - nel suo motivo della divinità intesa come razionalità, che nel suo costituirsi pone tutto come è bene che sia, in un ordine sociale - abbia optato per lo stoicismo, in cui la realtà, tutte le cose, nella loro necessità, nel loro inesorabile esserci, portano a postulare un principio razionale e provvidenziale e perciò stesso un fine, che diviene, umanamente, un dover essere, che, per altro verso, s'incentra, come vedevamo, nella nostra stessa interio- rità, nello stesso amore per noi e per gli altri, che è, appunto, amore per la razionalità comune, per il bene, per Dio, principio e fine. Tale la religiosità di Marco Aurelio: certo lontanissima dalla fede, dalla speranza, dall'amore dei Cristiani, e dal loro concetto di uomo, che, attraverso il Cristo si salverà e risorgerà personalmente, in eterno, in quanto uomo; tutto questo per Marco Aurelio è irrazionalità, antro- pomorfismo, orgoglio, disumanità, immoralità, prepotenza, asocialità, rottura contro lo Stato costituito a somiglianza della politèia cosmica. Entro i termini dello "stoicismo" si delinea bene, ora, il significato dato all'Impero da Marco Aurelio, e la funzione che nell'Impero deve assumere il sùo capo, che, in un'accettazione consapevole del suo posto, datogli dalla stessa ragion d'essere del tutto, deve tradurre in termini legali quella che è la stessa socialità dell'universo, la sua giustizia, in un'armonia che sia rispetto della funzione e del posto di ciascun citta- dino. Sotto questo aspetto si compie con M::rco Aurelio quella linea politica che, in una giustificazione dell'Impero di Roma, aveva preso le sue mosse, come abbiamo veduto, con Diane Crisostomo, e che si 158 www.scribd.com/Baruhk   venne realizzando da Vespasiano a Marco Aurelio (cfr. sopra), in una ripresa, appunto, assai duttile di certi motivi stoici - la legge univer- sale, l'imperatore incarnazione della ragione sociale del tutto, il re filàntropo, ciascuno al suo posto, ciascuno in funzione dell'unico Stato - , usando anche certi aspetti delle Leggi di Platone e il motivo della giusta misura (i doveri medt), di Aristotele, dove, infine, non poche volte si sente la presenza dell'ideale "res-publica" di Cicerone. Particolarmente indicativi sono, su questa linea, i nomi fatti da Marco Aurelio, cioè Trasea, Elvidio, Catone, Bruto, dai quali egli avrebbe tratto ispirazione per il proprio concetto di Stato e di governo, dove l'imperatore non è un desposta, ma un pater e un correttore: "attraverso essi ho potuto far sorgere in me il desiderio di un governo in cui la legge abbia vigore per tutti; informato, questo governo, a uguaglianlZa e a libertà di parola, un regno capace di rispettare per suprema ragione la libertà dei sud- diti" (1, 14). "Relitto di città, chi stacca l'anima propria dall'anima comune degli esseri razionali, anima che è una sola" (IV, 29). Di qui, entro i termini della propria posizione di imperatore, la filantropia di Marco Aurelio, la sua clemenza, la sua misura nel governo, il suo tratto e il suo sentirsi "pater" dell'umana famiglia, in una, in fondo, vis- suta e sofferta pietà per gli uomini tutti e per se stesso: "causa ultima dell'universo è un torrente che tutto spazza via. Di che poco conto sono queste creature sociali e politiche, questi minuscoli e piagnucolosi esseri umani, che immaginano di praticare una vita di filosofi" (IX, 29).La preparazione culturale. Diogene Laerzio. Entro questa atmo- sfera, se Marco Aurelio poteva, sul piano di una possibilità etica, optare per un certo "stoicismo," che nelle sue serissime conclusioni aveva la possibilità, sul filo dell'orizzonte umano, di incontrarsi con l'epicurei- smo, la consapevolezza di Marco Aurelio, .del resto, come abbiamo veduto, estremamente diffusa, dell'impossibilità teoretica di oltrepassare la stessa ragione, conduceva, sul piano di un'indagine piu strettamente scientifica, nell'àmbito delle scuole, a discutere quali fossero le ipotesi, non contraddittorie, cioè non piu possibili d'essere dialetticamente con- futate, che permettessero una deduzione, una spiegazione del reale. Abbiamo già visto quali: dal "pitagorismo," inteso come logica mate- matica mediante cui si poteva rendere pensabile la realtà, e con cui si poteva, assUmendo l'aspetto piu formale dell'analitJca aristotelica e certi motivi della logica proposizionale e del sillogismo ipotetico del primo stoicismo, trovare una ragione della costruzione platonica del Timeo; a un tipo di platonismo stoicheggiante e vitalistico a cui si avvicinano certi testi del corpo ermetico, in una conclusiva visione di sfondo entro 159 www.scribd.com/Baruhk   cui fossero riprese e giustificate le varie esperienze ed ipotesi storica- mente delineatesi. Nei termini di tale piu vasta silloge, in un tentativo di deduzione logica, che non oltrepassasse, contraddittoriamente, i limiti della razionalità, ed entro cui, appunto, si potesse rendere conto anche delle varie esperienze religiose, si venne a muovere, nel corso del m se- colo d. C., il pensiero di Plotino. Peraltro si capisce cos!, sempre entro l'àmbito delle scuole e della piu generale preparazione culturale dei cit- tadini dell'Impero, da un lato il fiorire di sillogi, di epitomi, isagogi, di raccolte di questioni su singoli problemi (dossografie) su cui discutere, dall'altro lato di opere ove vengono messi in discussione gli argomenti piu svariati, anche senza ordine, in una delineazione chiara di quelli che furono i vivi e molteplici interessi di una certa epoca. E qui, per ciò che riguarda l'aspetto piu largo e divulgativo, rispon- dente alle esigenze diffuse di un pubblico piu vasto, particolarmente pensiamo all'opera del latino Aulo Gellio (nato sotto Adriano, morto sotto Marco Aurelio, discepolo di Calvisio Tauro e di Peregrino, amico di Attico, di Frontone, di Favorino, viss.uto tra Roma ed Atene), le Notti attiche, e a quella dell'egiziano Ateneo (originario di Naucrati, vissuto tra la seconda metà del n secolo e la prima del m), l sofisti a convito (Deipnosofistt), che, preziosissime come fonti (evidentemente se assunte criticamente), vanno soprattutto considerate in quanto indici precisi di una molteplicità di interessi, di tutta un'atmosfera culturale~ Per il primo aspetto, invece, sembra di particolare inter~sse ricor- dare i Placita di Aezio, vissuto tra la fine del I secolo d. C. e la prima metà del II. Il Diels (Doxographi, Prol., pp. 99-102), nella sua rico- struzione dei Dossografi greci, ha mostrato che Aezio è autore di una dossografia intitolata l:uvatyCùy1} 'CblV &.pcaxoV'f:CùV (Raccolta dei pa- reri, o Placita), perduta, di cui ritroviamo traccia nei P/acita philoso- phorum (del 177 circa), attribuiti a Plutarco, in Teodoreto - Iv-v se- colo -, in Nemesio - Iv-v secolo - e nelle Ecloghe di Stobeo (v secolo d. C.). I Placita di Aezio deriverebbero a loro volta dai Vetusta Placita, un'epitome in 6 libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, composta entro l'àmbito della scuola di Posidonio, nella prima metà del I secolo a. C., alla quale non poco avrebbe attinto Cicerone. Ma accanto al filone dossografico, facente capo ad Aezio e allo pseudo- Plutarco, non va scordato un secondo filone che risalendo a un'altra epitome in 2 libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, composta nell'àmbito della prima scuola teofrastea, si arricchi poi di nuovi testi e frammenti, particolarmente stoici (da tale epitome attinsero, per le loro discussioni e ricostruzioni, Sozione, Cicerone, Ario Didimo, l'au- tore della Stromateon Ecloga, andata sotto il nome di Plutarco, Ippo- 160 www.scribd.com/Baruhk   lito, Diogene Laerzio). Ora, a parte l'interesse che hanno questi fram- menti dossografici come fonti e testimonianze di opere antiche andate perdute, ciò che qui va sottolineato è da un lato la loro funzione di materiale per le discussioni,. dall'altro lato la loro impostazione dovuta a Teofrasto, che venne determinando non solo una certa delineazione di problemi, ma anche, di volta in volta, a seconda di interessi diversi, la struttura stessa della discussione in senso dialettico, cioè secondo il metodo aristotelico di presentare le varie soluzioni di certi problemi, si che fosse possibile il confronto dialettico, e, attraverso questo, il rintraccio di quelle ipotesi non piu dialettizzabili (in questo senso è chiaro perché Aezio sia stato detto "peripatetico"); ciò poteva por- tare, in un àmbito metodologico, o ad accettare una o altra ipotesi, cavata dalla discussione di testi platonici, aristotelici, stoici, senza con questo negare in pieno l'una o l'altra ipotesi; dell'una o dell'altra con- .cezione, se negate dialetticamente, si potranno sempre dialetticamente recuperare altri. aspetti, e cosi via. Di qui, anche, entro i termini di una discussione scientifica delle condizioni del sapere, accanto alle "introduzioni" per una lettura delle opere di Platone o di Aristotele, ai commenti di certe opere di Platone o di Aristotele, scaturisce l'interesse per le sillogi di certi filoni di problemi e di soluzioni comuni di certi problemi, per le quali ci si venne servendo delle prime distinzioni in scuole della storia del pensiero, ove soprattutto si tenne presente il criterio delle "successioni" (8tat8oxatt: diadochàt), sempre ordinate dialetticamente. Tale filone ebbe il suo primo rappresentante in Sozione, vissuto nel II secolo a. C., autore appunto di un'opera intitolata Successioni, e proseguitosi tra il II e il I secolo a. C. con Eraclide Lembo, Sosicrate, Nicia di Nicea. Per altro verso, invece, in particolare tenendo conto, via via, del- l'ideale di vita, che trova il suo fondamento in una o altra conce- zione, e dell'importanza che per avviare alla virtu assume in campo stoico l'esempio, si comprende come si sia venuto formando l'interesse per la ricostruzione della vita dei filosofi, che risalendo alle Vite di Ermippo e di Antigono di Caristo del m secolo. a. C., e alle Vite di Satiro, di Neante di Cizicci e di Diocle di Magnesia, tra il 11 e il I secolo a. C., ha dato luogo, tra il I e il 11 secolo d. C., ad un largo fiorire di Vite degli uomini illustri. Entro questa prospettiva, tali raccolte, manuali, sillogi, successioni, antologie, assumono un non indifferente valore storico, non solo come fonti per la conoscenza di opere perdute - sotto questo aspetto, evi- dentemente, da prendere tenendo conto del tempo in cui sono state composte, e della loro strutturazione prospettica -, ma sopratt\Jtto 161 www.scribd.com/Baruhk   come indicazioni del materiale posto in discussione, e, quindi, degli interessi culturali di certe epoche, e, perciò, sembra, non si può dire che siano dei mèri centoni, o ope~a di eclettici privi di un pensiero originale. Non questa, certo, fu la loro funzione. È in questa delineazione che va considerata, proprio sulla prima metà del m secolo l'opera di Diogene Laerzio,28 Le vit~ d~i filosofi, che, nel tentativo di presentare, sempre documentatamente, gli aspetti molteplici con cui si è venuto formando il pensiero greco, si è valso, ad un tempo, delle succe-ssioni, delle vite, delle dossografie e delle cronografie, in una fusione di vari filoni storiografici, e in una rico- struzione del pensiero greco su grandi direttrici dialettiche. "Le Vit~ di Diogene Laerzio," è stato detto, "sono una esposizione della filo- sofia greca quasi divulgativa, anche superficiale, se si vuole, ma senza il difetto di sintetizzare in facili schemi l'enorme materiale, un'amo- 2 8 D i o g e n e L a c r z i o v i s s e , proba~mente, n e l l a p r i m a m e t à d e l 1 1 1 s e c o l o : n e l IV secolo, Sopatro di Apamea, discepolo di Giamblico riportava nelle sue 'Ex).oyetl 3Leicpopo1 (Eglogh~ divn-s~) testi di Diogene; Diogene, per altro, in IX, 116, cita Sesto Empirico e Saturnino discepolo di Sesto, sottolineando che Sesto era stato discepolo di Erodoto, a sua volta discepolo di Menodoto; poiché Galeno, che non cita Sesto, cita Erodoto, e sappiamo che Galeno visse fin circa il 200, si è sostenuto che, dunque, Sesto avrebbe scritto tra il 200 e il 220, e che Diogene avrebbe, perciò, dovuto scrivere la sua opera tra il 220 e il 250 circa. Non sappiamo dove nacque e molto si è discusso anche sull'appellativo Lan-aio. Secondo il Wilamowitz (Epin. Gd MIIIUs., "Philol. Unters.," 111, 1880) AOtépTIO~ è un signum dedotto dall'omerico 81oycvèç AetcpTLet3'1) (dioghenès Laerti4de) (cfr. 'E. Schwartz, Rea/ Enr., V, l, col. 738; anche M. Gigante, in trad. it. delle Vite dei filosofi, Bari, 1962, p. XXVIII). Da Diogene stesso sappiamo (1, 63; VII, 31; VIII, 75; IX, 43; I, 120; IV, 65; VI, 79; VII, 164) ch'egli scrisse un libro di epigrammi intitolato Pijmmetros (Libro di m~tri di ogni tipo), intorno a tutti gli illustri estinti (1, 63), che usò poi, per quel che riguarda i filosofi, nella stesura della sua opera maggiore pervenutaci. L'opera maggiore di Dio- gene nei codici piu ant!<h; è andata sotto il titolo ~I.Àoa6cpC1111 ~LCIIII xetl 3oy!JoliTCilll auvetyCilylj~... (Vite di ll•'JJ?fi e raccolta di opinioni!. Le Vite, dedicate a un'ammiratrice di Platone (DI, 47), si dividono in dieci libri e si aprono con un Proemio di notevole importanza poiché vi si determina il criterio dell'opera. Nel primo libro si espongono vita e pensiero di: Talete, Solone, Chitone, Pittaco, Biante, Cleobulo, Periandro, Anacarsi lo Scita, Mùone, Epimenide, Ferecide. Nel s~condo libro ai tratta di: Anassima.ndro, Anassimene, Anassagora, Archelao, Socrate, Senofonte, Eschine, Aristippo, Pedone, Euclide, Stilpone, Critone, Simone, Glaucone, Simmia, Cebete, Menedemo. Il terso libro è dedi- cato a Platone: biografia, opere, dottrina, dossografia. Il qu~o libro tratta di: Speu- sippo, Senocrate, Polemone, Cratete platonico, Crantore, Arcesilao, Bione, Lacide, Car- neade, Clitomaco. n quinto libro è dedicato ad Aristotele e alla sua scuola: Aristotele, Teofrasto, Stratone, Licone, Demetrio, Eraclide. Nel libro sesto si tratta di: Antistene, Diogene di Sinope, Monimo, Onesicrito, Cratete, Metrocle, Ipparchia, Menippo, Menedemo. n libro settimo è dedicato allo stoicismo: Zenone, la logica stoica, l'etica stoica, la fisica stoica, Aristone, Erillo, Dionisio, Cleante, Sfero, Crisippo. Il libro ottavo tratta di: Pita- gora, Empedocle, Epicarmo, Archita, Alcmeone, lppaso, Filolao, Eudosso. Nel libro nono si espongono le vite e le opinioni di: Eraclito, Senofane, Parmenide, Melisso, Zenone di Elea, Leucippo, Democrito, Protagora, Diogene di Apollonia, Anassarco, Pirrone, Timone. Il libro decimo è dedicato ad Epicuro. 162 www.scribd.com/Baruhk   rosa raccolta delle varie notizie sparse in innumerevoli libri, non sem- pre facilmente accessibili. In esse la filosofia non è unicamente l'atti- vità speculativa, è un concetto piu ampio, che investe ogni minimo particolare della vita dell'uomo: una vita che nel filosofo è l'espres- sione sensibile della ricerca interiore. E questo punto di vista caratte- rizza già l'atteggiamento eccezionale di un pubblico, frutto di lunga tradizione, verso i propri filosofi...: è una rappresentazione ideale di una mitica società di saggi e di grandi a colloquio" (Pasquinelli, Intro- duzione a I Presocratici, l, Torino, 1958, p. XXXI). Non possiamo dire a quale delle filosofie esposte particolarmente aderisse Diogene Laerzio (forse, si è detto, all'epicureismo, dato che un libro intero delle Vite, l'ultimo, il X, è dedicato ad Epicuro, di cui riporta le tre celebri lettere e le massime, e a cui Diogene si avvicina con grande simpatia; forse allo scetticismo, le cui tesi, particolarmente l'aspetto dialettico critico, sono esposte con aderenza e precisione; forse al platonismo, si è aggiunto, essendo l'opera dedicata ad un'am- miratrice di Platone: cfr. III, 47). In realtà, ciò che qui preme sotto- lineare, come indice di tutto un atteggiamento culturale, scientifica- mente valido, e rispecchiante un ampio pubblico, è" da un lato la pre- sentazione oggettiva di piu correnti .di ·pensiero e, dall'altro lato, proprio per quella stessa oggettività e chiarimento dell'ideale impegno alla ricerca di ciascun filosofo, 'l'offerta di una discussione dialettica, basata sull'analisi delle possibilità logiche dell'assunzione dell'una o dell'altra ipotesi (di qui, come chiaramente appare, l'insistenza di Diogene Laerzio sull'aspetto dialettico della corrente scettica, con par- ticolar riguardo ad Enesidemo), senza privilegiarne una o altra. d) Le scienze e la logica: lo "scetticismo" di Sesto Empirico. Tolo- meo e Galeno. Abbiamo già detto che nel corso del n secolo, entro i termini della ricerca metodologica sopra discussa e che ha le sue piu lon- tane origini nel tipo di ricerca proprio della scuola di Aristotele, si assu- mono a contenuto di indagine i diversi piani di fenomeni: dai fenomeni naturali e dalla possibilità di una loro calcolabilità ai fenomeni apparte- nenti alla natura umana. E poiché sia per l'una ricerca che per l'altra, sul piano della discussione delle varie ipotesi avanzate, nella deter- minazione dei pro e dei contra si trattava di precisare le condizioni che permettono una discriminazione e perciò la possibilità o meno di un giudizio, l'indagine stessa diviene, innanzi tutto, studio del giu- dizio, cioè logica. Non a caso, abbiamo visto, anche in certe sillogi che sono andate sotto il nome di "platoniche," in altre che sono state dette "pitagoriche," in altre "stoiche" e anche nei commentatori di 163 www.scribd.com/Baruhk   Platone e dei libri logici di Aristotele, l'aspetto prevalente è l'indagine logica, lo studio delle condizioni che permettono uno o altro discorso. Qui, sembra, s'inserisce - e assume il suo piu alto significato sto- rico - l'appello di Sesto Empirico,29 vissuto tra la fine del II e il principio del m secolo, il suo continuo richiamo entro i termini della ricerca (scepsi) a tener sempre presente, metodologicamente, il peri- colo, nei limiti del giudizio, di extrapolare da quei limiti stessi, di oltrepassare quei divieti. Sotto questo aspetto l'opera di Sesto (sia le /potiposi pi"oniane in- tre libri, sia il proseguimento e l'approfondi- mento delle Ipotiposi, l'Adversus Dogmaticos, in 5 libri, e l'Adversus Mathematicos, in sei libri, titolo abbastanza recente, con cui si è soliti indicare il complesso degli 11 libri) ha un altissimo valore metodo- logico, è l'ultima voce di serietà scientifica, l'ultima "logica" dell'anti- chità. L'opera di Sesto non va considerata solo come una sistemazione 29 Scarsissimc le notizie intorno a ·Sesto, detto Empirico perché sembra sia stato medico (Esculapio dette inizio alla nostra anc: Adv. Math., I, 260) appartenente all'indi- rizzo "empirico," o meglio al nuovo indirizzo metodico-empirico (cfr. Pyrrh. hypot., I, 236; Adv. Math., VIII, 191), scaturito dalla polemica di Mcnodoto. Non sappiamo con esat- tezza quando visse: citato da Diogene Laerzio, che scrisse nella prima metà del 111 secolo, insieme al discepolo di Sesto, Saturnino (cfr. Diogene Lacrzio, IX, 87, 115), di Sesto non fa alcuna menzione Galeno, vissuto tra il 130 c il 200 d. C., che, invece, accenna a Erodoto, discepolo di Menodoto, maestro di Sesto. Poiché, per altro verso, sappiamo che Ippolito, nella sua opera contro gli eretici, composta tra il 220 e il 230, avrebbe usato argomentazioni di Sesto, si è potuto, verisimilmente, sostenere che Sesto sarebbe vissuto tra la fine dd n secolo e il principio del 111 e che avrebbe composto le sue opere tra il 200 e il 220 circa. Non sappiamo dove sia nato. Sesto è nome latino: "nostri," tuttavia, egli dice leggi e costumi greci. Senza dubbio fu ad Atene, ad Alessandria e a Roma (dr. Adv. Math., l, 246; Hypot., Il, 98; III, 221; Adv. Math., 15 e 95; Hyp., I, 149, 152, 156; III, 211; cfr. anche Dal Pra, cit., pp. 375 sgg.). Probabilmente l'opera di Sesto è pcevenuta intera, tranne due scritti intitolati Memorie mediche e Memorie empiriche (forse uno scritto unico), citato dallo stesso Sesto (Adv. Math., l, 61; VII, 202). Di uno scritto, Sull'anima, cui Sesto fa menzione (Aiv. Math., VI, 55), si è pensato (Robin, cit., p. 198) che sia in realtà un rinvio alle pani delle opere pcevenute in cui Sesto tratta dell'anima, si come è il caso di altri accenni a trattazioni che si ritrovano, poi, nd complesso dd corpus dell'opera· di Sesto. Due sono le opere pervenuteci di Sesto: Schizzi pirroniani (o lpotiposi pirroniane) in tre libri (I libro: significato c limiti dello "scetticismo," inteso come metodo; esposizione dei tropi dello scetticismo; Il libro: significato c limiti della logica dogmatica; III libro: critica della fisica c della morale dei dogmatici); un'opera in due parti, intitolate la prima Contro i dogmatici, in cinque libri, la seconda Contro i matematici, in sei libri (si è soliti indicare le due parti con l'unico titolo, desunto dalla seconda parte, Contro i matematici). I primi due libri Contro i dogmatici sono dedicati ad una precisa critica della logica, mediante cui Sesto può, nei libri terzo c quano, mettere in discussione la fisica dogmatica, e, nel quinto, le posizioni morali. l sei libri Contro i matematici, cioè contro coloro che dànno un valore assoluto al sapere (màthema) sono dedicati ai grammatici, ai rctori, agli aritmeti.:i, ai geometri, agJi astronomi, ai musici. Discepolo di Sesto fu, secondo Diogene Lacrzio (IX, 116), un ceno Saturnino, che Diogene indica come 6 xu&rjviiç (kythenas), che non sappiamo cosa significhi (il Bro- chard, Les sceptiques grecs, Parigi, 1887, p. 327, n. l, correggendo 6 xu&ljviit; in 6 xot6'-f)(liit;, l(ath'hemàs, legge il "nostro contemporaneo"). 164 www.scribd.com/Baruhk   organica da un lato della topica e dei tropi, delle argomentazioni, susse- guitesi nel tempo da parte dei cosiddetti scettici, che· dimostri, in parti- colare per certi accademici, l'illegittimità logica del passaggio da una posizione arcesilao-carneadiana a una tesi stoico-platonica, dall'altro lato delle tesi dogmatiche, sia in fisica sia in etica, sia nelle singole scienze, professoralmente insegnate, mediante cui, all'interno di ciascuna, e dia- letticamente nei confronti dell'una con l'altra, dimostrare la contraddit- torietà di ogni ipotesi se assunta come assoluta. Ma è proprio in questa dialetticità che consiste il nocciolo dell'appello di Sesto: egli non nega l'una o l'altra ipotesi, in quanto tale e in quanto logicamente possibile, bensl nega la legittimità di assumere come esclusiva, come vera, l'una o l'altra ipotesi, anche se assunta, sia pur per la dichiarata incompren- sibilità della realtà in sé, come probabile, optando, attraverso la discus- sione dei pro e dei contra, per quella ipotesi che può esser piu utile per una certa condotta di-vita, la cui validità è perciò stesso presunta, niente affatto scientificamente fondata, e, dunque, disonestamente imposta. Di qui appunto, nei confronti del " sapere " in generale, il riferirsi da parte di Sesto, che fu, come egli stesso dichiara, medico, al metodo della ricerca medica, quale si era delineato nelu secolo, particolarmente attra- verso Menodoto (cfr. sopra), nella nuova accezione che aveva preso l'in- dirizzo empirico (cfr. sopra) (questa sembra la ragione per cui Sesto fu detto empirico), per·cui la ricerca scientifica, non presupponendo di giungete alla verità - onde non, si può dire che la verità è afferrabile né che non è afferrabile - rimane, di volta in volta entro i termini delle possibili esperienze, determinazione di un'ipotesi che spiega un certo complesso di fenomeni, ma che può di volta in volta cangiare, a seconda dei "segni rammemorativi," lasciando sempre aperta la ricerca (scepst). Chi intraprende una qualsiasi ricerca, conviene che metta capo o alla scoperta di ciò che cercava, o alla negazione di esservi riuscito e alla confes- sione che la cosa è incomprensibile, o alla persistenza nella ricerca stessa. Cosi, anche, di coloro che le loro ricerche volsero alla filosofia, alcuni avreb- bero affermato di aver trovata la verità, altri avrebbero dichiarato trattarsi di cosa incomprensibile, altri persisterebbero tuttora a cercare. Ritengono di averla trovata coloro che, con denominazione particolare, sono chiamati "dogmatici" ("coloro che assentono a qualcuna ddle cose che sono oscure e formano oggetto di ricerca da parte delle scienze": I, 13), come gli aristo- telici, gli epicurei, gli stoici e altri. Ne dichiarano l'incomprensibilità i ·seguaci di Clitomaco c di Carneade e altri act:ademici. Continuano a cercare gli Scet- tici (Py"h. hyp., l, 1). Lo scetticismo esplica il suo valore (diciamo "valore" senza annettere a questa parola nessun sottile significato, nel senso suo semplice in rapporto al verbo "valere") nel contrapporre i fenomeni e le 165 www.scribd.com/Baruhk   percezioni intellettive in qualsiasi maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposte, arriviamo anzi tutto alla sospensione del giudizio... (l, 8). Di qui, dunque, la preliminare e fondamentale discussione sul "giu- dizio " e sul "criterio." Mediante una ripresa sistematica dei tropi, da Enesidemo ad Agrippa, si pone in forse la validità di ogni giudizio che si fondi sulla "analisi" (implicante che i termini del giudizio siano "inerenti" l'uno all'altro, donde i termini, anche se parole significanti, debbono pur sempre indicare una presunta realtà per sé}, si come per altro verso di ogni giudizio che pur implicando che i suoi termini sono rappresentazioni, dovute alle impressioni sensibili, e che il discorso è perciò non tra termini, ma tra proposizioni, arresti infine la propria ricerca, passando dal possibile discorso, fondato sui segni rammemora- tivi, alle cause prime per via analogica. Se di qui risulta chiara la critica di Sesto alla "causa," alla "deduzione" e alla "induzione," al "procedi- mento sillogistico" e alla "analogia," ai "segni indicativi," altrettanto evidente è in che senso Sesto, senza extrapolare dalle possibilità umane, accantonato sia il tipo di logica aristotelica sia quello di tipo cleanteo- stoico sia, infine, sul piano scientifico, l'illecita assunzione di una ipotesi perché piu probabile e utile alla vita, sostenga, riallacciandosi in ciò alla logica del primo stoicismo - si veda sopra, I vol., Zenone -, la positività di una logica fondata sui "segni rammemorativi." Sesto, cosi, ne deriva da un lato la necessità di sospendere il giudizio sulla realtà in sé (da qui il rovinare di tutte quelle scienze che fondano la loro costru- zione su di un "sapere," màthemti, che scambi l'ipotesi temporale, dovuta cioè a un complesso di segni rammemorativi con la verità, e di tutte quelle "morali" che trovino il loro fondamento su quei principi, quali ch'essi siano, dogmaticamente sostenuti}; dall'altro lato entro i termini di come si formano i giudizi, entro i termini di un discorso temporale, fondato sulle implicazioni rammemorative delle impressioni, la possibilità di un discorso orizzontalmente verace e capace di cangiare a seconda delle impressioni stesse e delle esperienze, per cui appunto, la ricerca resta sempre aperta: una la formazione e la validità del discorso, molte, nel costituirsi "storico" (empirico) del discorso, le possibili verità, tra cui anche quelle, probabili, se cosi ridimensionate, dei dogmatici. L'appello di Sesto Empirico e la sua indagine portavano, sul piano della ricerca scientifica, razionale; a prospettare una metodologia gene- rale, formalmente valida per ogni tipo di ricerca, in campi ben deter- minati di fenomeni. Il discorso di Sesto e il suo prmpettare limiti e validità dei giudizi derivava dal lungo dibattito sul significato della 166 www.scribd.com/Baruhk   ricerca medica, quale si era delineato, nelle conclusioni cui si era giunti, particolarmente nel caso dell'ultima scuola empirica derivata da Meno- doto (cfr. sopra). Nell'ambito dell'indagine medica, di contro ai dot- trinari (fossero "pneumatici" o "metodici" analogisti), dopo la pole- mica violenta di Menodoto, ch'era giunto a negare sul piano della pura empiria qualsiasi possibilità di "giudizio," si venne sostenendo con Teoda di Laodicea, riconosciuta la validità sul piano polemico del- l'appello all'empirismo di Menodoto, che l'esperienza non si riduce a una mèra raccolta di dati, ma è un metodo che non implica affatto l'oltrepassamento dell'esperienza stessa, né un passaggio, per analogia, dal noto all'ignoto, ma un passaggio, nel ricordo, dal simile al simile, ché i fatti stessi non sono noti in sé, presi ciàscuno per sé, ma si fan noti mediante il ricordo di altri fatti-impressioni, in un discorso coe- rente per sé, ma che non presume affatto alla verità. Se da uii lato lavoro serio e proficuo è non uscir fuori dall'esperienza, non ricorrere all'analogia, dall'altro lato esperienza significa non raccÒlta di dati accanto a dati, non enumerazione all'infinito, ma confronto di dati, osservazione del loro ripetersi, secondo una certa costanza, oppure no, si che alla base di dati-rappresentativi, segni "rammemorativi" e non "indicativi" di strutture in sé o di cause prime (accanto all'autopsia, diretta e personale raccolta di dati, e all'historfe, raccolta di dati osser- vati nel tempo da altri, si pone in tal modo la cosiddetta mfmesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di dissimiglianze e simiglianze, determinare ima certa sintomatclogia, in una descrizione (schizzo, ipo- tipost) di un complesso di fenomeni, che non presume affatto di essere una definizione valida per sempre. Entro questo complesso di indagini e di ricerche, nella sistemazione in un sol corpo coerente (tale da spiegare certi complessi di fenomeni, senza far violenza ai dati sperimentali) del sapere matematico, geogra- fico, astronomico e astrologico per un lato, e del sapere medico e opera- tivo della medicina per un altro lato, si collocano le opere di Claudio Tolomeo (fiorito tra il120 e il151) e di Galeno (130-200). Esse, appunto, attraverso l'autopsia e l'historie, attraverso le dossografie, non presen- tano solo, l'uno nel campo dell'astronomia, dell'ottica, della matematica, l'altro in quello della medicina e delle ipotesi filosofiche atte a spiegare situazioni e condizioni del corpo e dell'animo umano, un insieme di scoperte o di dati raccolti nel processo del tempo. Esse, anche, in una rielaborazione di quei dati, di quelle scoperte, in un accantonamento di quelle ipotesi che cadevano in contraddizione con i dati dell'espe- rienza usando i materiali offerti, nell'uno o nell'altro campo, dalle varie istorie, dai risultati conseguiti da questo o quello scienziato o filosofo, 167 www.scribd.com/Baruhk   presentano un quadro coerente e complesso, basato su ipotesi proba- bili, veraci in quanto capaci di spiegare. entro i termini di quelle esp(- rienze e di quelle situazioni tecniche, un insieme di fenomeni, e capaci di rendere possibili calcoli e misure. "L'astronomo," scrive Tolomeo, "deve sforzarsi per quanto è possi- bile di far concordare le ipotesi piu semplici con i movimenti celesti; ma se ciò non riesce, deve assumere quelle ipotesi che possono conve- nire" (Almagesto). Tolomeo 80 è, in realtà, l'ultimo epigono della grande tradizione della scuola scientifica (astronomica) di Alessandria. Non a caso- entro l'àmbito ora veduto- Tolomeo, che visse ed operò ad Ales- sandria, si riallacciò ad lpparco di Nicea (cfr. sopra), non solo racco- gliendone le osservazioni e le scoperte, i calcoli e le misurazioni, ser- vendosi anche delle esperienze e delle scoperte posteriori ad Ipparco, rimaste tuttavia puntuali e disarticolate da un unico "sapere," ma appli- cando di lpparco il metodo indipendentemente da superiori ragioni, sulla linea del "peripato " di Alessandria. Tolomeo, cosi, opera sp due piani. l) Riprende tutto il materiale osservativo offerto dagli astronomi precedenti, ne rivede critiqunente la rielaborazione, ne controlla i risul- tati, fa osservazioni proprie!, si rende conto dei movimenti e dei rapporti tia i mondi in rappresent<(zioni geometriche; di qui l'approfondimento della teoria geometrica degli epicicli e degli eccentrici, in particolar modo per ciò che riguard:). la luna e la dislocazione dei piccoli pianeti, e l'approfondimento in (jttica, cui Tolomeo ha dedicato un'opera a parte, della teoria della rifrazione, sottolineando l'esistenza della rifra- zione atmosferica dal cui studio geometrico si possono calcolare gli errori cui la rifrazione atmosferica può condurre nelle oservazioni dei movi- menti stellari. T ali rappresentazioni geometriche permettono poi calcoli numerici mediante cui (postulata per quei calcoli stessi là terra al centro dell'universo in un punto sferico di riferimento) misurare le distanze e i movimenti concordanti con le osservazioni che cosi vengono spiegate (di qui l'approfondimento della geometria sferica delineata di contro 80 Scarsissime sono le notizie sulla vita di Claudio Tolomeo. Sappiamo ch'egli lavorò, in Alessandria, in cui fece le proprie osservazioni sui cieli, dal 127 circa al 151. Accanto alla sua opera piu celebre la Mcx&tJ!U'-nxiJ ~r.ç -rijç mpovo~!czç (SinlllSsi mtlle- mlllica dell'astronomia), detta anche la grande (~1}, megille), per distinguerla da una rielaborazione minore, e poi, per ammirazione, la grandissima (I'CYI.a-nj, meglliste), donde, infine, da una trascrizione araba (La grandissima, .Al maghesm}, il titolo di .Alrruwesto, vanno ric:ordate le seguenti opere j,ervenuteci: Ipotesi sui pianeti, Fasi delle nelle fisse, La pida geografica (in otto libri: alcune parti si dubita siano di Tolomeo; in altre parti sembra che Tolomeo abbia ricaleato l'opera del suo predecessore Marino di Tiro), l'Ottica, l'.Acustica, il Tetrabiblion (o Opus quadrip•titum, eanone, com'è stato detto, dell'astrologia elleriistiea), Del criterio ! dell'egemonico. 168 www.scribd.com/Baruhk   ad Euclide dal matematico Menelao di Alessandria, autore di un'opera perduta sul Calcolo delle corde e di un trattato in tre libri, conserva- toci dalla tradizione araba, gli Sferici, in cui è fondata la trigonometria: cfr. Almagesto, l, 9 e 11). 2) Tolomeo sistema il tutto, sintatticamente in un solo ordine, s1 che senza violentare i dati osservati - molteplici e separatamence presi in opposizione tra di loro - , quei dati vengono spiegati l'uno in rela- zione all'altro, offrendo un tutto organicamente articolato e possibile d'essere tradotto, appunto, in termini geometrici e risolto in formule di calcolo. Quello ch'era stato il lavoro di Euclide per il sapere geometrico, è ora il lavoro di Tolomeo per l'astronomia. Di qui, anche, il titolo dell'opera sua (M«&1J!J.«:nx~ a\lv-rcx~~c;: Mathematikè s<Yntaxis), ch'ebbe maggior successo e che, com'è noto, ha determinato per secoli tutto il sapere relativo alla costruzione dell'universo, una volta assunto, non criticamente, come sistema definitivo e non come ipotesi (la Sintassi matematica, detta anche la grande - f.LEYrXÀl): megàle -, per distin- guerla da una rielaborazione minore, e, poi, per ammirazione, la gran- dissima - f.LEYLOTrJ meghiste -, è rimasta nota col nome di Alma- gesto, trascrizione araba dell'articolo - in arabo al - e magesto - trascrizione araba dal greco meghiste). Di qui, non contraddittoriamente, anzi come l'ipotesi che meglio poteva permettere la spiegazione dei movimenti e delle leggi regolanti l'universo, la ripresa e piu compiuta dimostrazione della validità della ipotesi geocentrica, che, entro lé possibili conoscenze di allora, meglio della ipotesi eliocentrica, sostenuta da Aristarco, permetteva non tanto la "salvazione" dei fenomeni in senso platonico, quanto la misurazione e la spiegazione dell'ordinamento e delle leggi regolanti il movimento del tutto, facente perno sulla terra, al centro, e scandentesi in una serie di movimenti entro la sfera contenente tutto l'universo (la prima sfera motrice). Sempre entro l'àmbito dell'astronomia - e per gli stessi inte- ressi- va veduto il tentativo di Tolomeo di rendere misurabile e perciò calcolabile il complesso delle influenz.e stell;ari nelle cose e, particolar- mente, sugli uomini, cerc;mdo di rendere conto sul piano geometrico - con il metodo lineare e non trigonometrico còme nell'Almagesto - delle incidenze e rifrazioni, dell'insieme delle credenze astrologiche. Se Vettio Valente sosteneva che l'astrologia è la regina delle scienze, Tolomeo, nel Tetrabiblion (Opus quadripartitum, in 4 libri), fece il tentativo di renderne ragione. Egli, peraltro, se da un lato si riallacciava, su di un piano sperimentale, ai suoi studi di ottica (cfr. Ottica), dal- l'altro lato, facendo tesoro degli studi di acustica (gli Armonici di Tolo- meo, in tre libri, sono una approfondita e sistematica esposizione delle 169 www.scribd.com/Baruhk   diverse teorie musicali), che culminano con interessanti· considerazioni sull'influenza della musica sull'animo e sul rapporto dei suoni con l'ar- monia delle sfere (riprendendo teorie pitagoriche, platoniche e aristo- teliche), poteva, su di un piano ipotetico, approfondire i motivi delle influenze stellari e la tesi delle "simpatie," mediante certi risultati del- l'Ottù:a e della Armonia. Galeno,81 nato a Pergamo nel 129 circa, fu uno dei medici piu colti 31 Nato a Pergamo nel 129-130, Galeno ricevefte fin da ragazzo una buona edu- cazione particolarmente nelle matematiche e nelle varie concezioni filosofiche. Poi, per volontà del padre, che aveva avuto in sogno il consiglio, da parte di Asclepio, dio della medicina, di avviare il figlio agli studi medici, molto coltivati in Pergamo, dove sorgeva un celebre "ospedale" (tempio di Asclepio), Galeno, a diciassette anni, entrò a far parte dei "figli di Asclepio." Galeno, che abbondantemente parla di se stesso nelle sue opere, dice che fu avviato alla medicina da un "anatomista," da un "ippocratico" e da un "empirista." Dopo la morte del padre, visitò le maggiori scuole mediche del tempo: Smirne, Corinto ed Alessandria: si specializza in anatomia, ma, ad un tempo, cerca di rendersi conto del significato scientifico della medicina; ciò lo porta non solo ad ascoltare i "metodisti," ma a preoccuparsi sempre di piu delle ipotesi filosofiche, per cui frequenta anche le grandi scuole di filosofia (non è senza interesse ricordare che a Smirne ascolta Albino: cfr. sopra). Verso il 158, tornato a Pergamo, viene nominato medico della scuola dei gladiatori, specializzandosi in chirurgia e in dietetica. Tra il 161 e il 166 è a Roma, clinico di fama, maestro e conferenziere ascoltato. Nel 166 torna, improvvisamente, in Oriente: si è detto a causa di un'epidemia scoppiata a Roma (in realtà .sappiamo che in. Oriente l'epidemia fu ancora piu grave); si è detto perch~ profondamente odiato e ostacolato da certi circoli romani. Fu in Cipro, in Palestina, in Siria, sempre attento osservatore, sempre alla ricerca di rimedi terapeutici. Tornato a Pergamo, vi riprende la sua funzione di medico dei gladiatori, finch~ viene chiamato da Marco Aurelio ad Aquileia, dove l'imperatore stava per muoversi contro i Sarmatici e i Germanici. Dopo la morte di Lucio Vero (169), Galeno, insieme a Marco Aurelio, tornò a Roma. Fu medico personale di Marco Aurelio e di suo figlio Commodo. A Roma rimase piu di vent'anni. Nel 192, in un incendio, andarono persi molti suoi trattati. Sembra che dopo, lasciata Roma, sia tornato a Pergamo, dove mori nel 200 circa, a settanta anni. Il pre- nome Claudio, non documentato prima del Rinascimento, è forse dovuto a un'errata decifrazione del C/. Galenus dei codici latini: C/. stava, probabilmente, per C/4rissimus. Della vastissima opera di Galeno sono giunti oltre una cinquantina di. scritti. Met- tiamo tra parentesi quadre quelli della cui autenticità si dubita: Sull'ordine dei proprllibri * ~ -rwv !a(c.)v ~1{3ÀL<o>Y); Dei propri libr. (De:pl -rwv !8(6lv ~L~À(c.)v); , (Depl L ' o t t i m o medico è anche filosofo ( 0 - r L 6 clptcrt"O<; lct-rpòç xcxl cpLÀ6aocpot,;); Le sette: a coloro che vi si iniziano (De:p( Gt~Y -roit; claatyo!dvott;); La migliore dottrina {De:pl Tijt,; ~(cn"l)t,; 3t3czaxrùJatt;); Avviamento alle arti (Dp~Òt,; iKl -Mt,;~);lcostumidell'animoseponoitHnperamentidelcorpo(0-rt-rat!t;-roii a&lj.Lat-rot,; xpciaccnv atl Tijt; M iit; 3uv~!J.CLt; brovrcxL) ; DÙiposi e cura delle pas- sioni e dei vizi di ciascuno (ficp{ -rwv 13L6lv hccicrt"q> ncx6wv Xatl ci(JGtp'n'I!Ui-r6lY Tijt; 3tcxyY&lac6lt;}; Medicina empirica ( D c p l Tij<; lcx-rptxij<; l:rmtpLcxt,;); lpotiposi empirica ('Tmmm<o>att,; l:~mtptx-1)) ; Le parti della medicina (De:p -rwv Tijt; lat-rpr.xijt; ~wv) ; Introduzione dialettica o lnstitutio logica {Elacxy6lyij 3LCXÀI:X-nxf)); Sulla dimostrazione (De:pl ~no3c~); Intorno ai sofismi linguistici {De:pl -rwv natpti -ri)v Ài~LY croq~ta!Ui­ -r<o>v); Le qualita incorporee (•Qn atl noL~ cia&lj.LGt'ratL); Commenti sulla natura dell'uomo, a Ippocrate (Dcpl cpUac6lt; Mp&lnou); Commenti alla dinll, a lpprocrate (Dcpl 3tatLn')c; 61;t<o>v); Sulla dieta di lppocrate nelle malattie acute (Dcpl Tijt; 'I=xpci-rout; 3tat(n'jt; l:nl -rwv 61;é<o>v YOa'IJ!Ui'r6lY); Commento al Prorretico di Ippo- crate (Elt,; 'rÒ npopp'l)-rtxòv 'I=xpci-rout;); Del coma in lppocrate (Dcpl -roii TtGtp' 170 www.scribd.com/Baruhk   dell'antichità. Il suo nome viene sempre avv1cmato a quello di Ippo- crate (i due punti estremi dell'arco della medicina antica) e a quello di Tolomeo (i due grandi sistematori della propria scienza, che per secoli ne diverranno gli "autori"). Dal suo lavoro, sul piano piu stret- tamente sperimentale, derivarono a Galeno scoperte di somma impor- tanza (in anatomia: descrizione delle ossa, dei muscoli, dei nervi, distin- zione dei nervi in nervi motòrii e nervi sensòrii, particolar riguardo della cassa cranica; in fisiologia: descrizione del funzionamento del sistema circolatorio, ove si sostiene, di contro ad Erasistrato, che il sangue circola sia nelle arterie che nelle vene, funzione del midollo spinale con relative ripercussioni sui nervi cranici e cervicali, mediante cui si spiegano le localizzazioni delle paralisi; in patologia: ogni disor- dine funzionale deriva da una lesione organica; in psichiatria: studio accurato delle passioni dell'animo). Dalle sue riflessioni, invece, sul piano piu vagamente teorico, non poche volte gli derivarono cantonate pericolose per piu approfondite ricerche (particolarmente in fisiologia, dove, per spiegare certe funzioni, Galeno è ricorso alla teoria finali- stica e a quella delle cause di origine aristotelica, alla teoria del soffio vitale dei "pneumatici," e a quella stoica che ogni nostro organo è per provvidenza dell'unica ragion d'essere del tutto, Dio, sistemato là dove è bene che sia; la teoria dei quattro umori, secondo· cui, preva- lendo l'uno o l'altro si ha uno o altro dei temperamenti: sanguigno, flemmatico, collerico, malinconico). Ora, per capire, entro l'arco della 'l1rnoxpci-;cL x&!(J4'n11;); Sulle prognosi di lppocrate (Eli; -ronpO)'VCa)O'TI.XW 'I=xpci- -rouç); Sulle articolazioni (IIcpl ap&pc.>v}; L'officina del medico (Ktlt-r' !ot-rpciov) [Le settimane: Ilcpl i()3o!Lii8c.>v]; Sull'uso delle parti del corpo umlltJo (IIcpl XPC!«ç 'riiiv lv liY&p&lnou a&I(J4TL IJ.Op!c.>v}; Indagini anatomiche (IIcpl -rC..V ciwl-ro~J.~.Xél)v ·iyxcLpijacc.>v); Placita di lppocrate e di Platone (IIcpl -rél)v XCI&' '17rn0xpci'n)V XDil Dl.ciTc.>VGt 3oyiJ.ci-r6>11}; Gli elementi secondo lppocrate (IIcpl -rél)v XCI&' 'l=xpci'n)v a-roLxc!c.>v); Sui temperamenti (IIcpl xpciO'C6>v); Sulle facol~ naturali (IIcpl q~UO'U(él)v 3u~v}; L'uso dd respiro (ttcpl xpc!otç ciwlnvoijç}; Se per natura v'è sangue nelle arterie (El XGtri. q10cn11 lv &p'n)p!«Lt; citi(J4 ncpLixCTl&L}; [Se l'animille sia qual è nel- l'utero: El ~él)ov -ro xa:ri. yataTp6t;]; Igiene ('Tywvci); L'ottima costituflione del corpo (IIcpl clp!O'T"I)t; XGtTatO'XICUi'jt; ToU a&!IJ.GtTOt;) ; Sulla buona costitut:ione (IIcpl. cù~(ocç} ; Sugli abiti morali (IIcpll&uç); Se llll'igiene serve di piu la medicina o la ginnastial (IIpbrcpov !ot-rpurijç f) yu1J.IIGtO'Turijt; lo-n -ro òyl.cLv6v); Sull'eserciflio della piccol11 palÌa (Ocpl -rou 3L« Tijç O'IJ.(xpatt; a~atLp~ 'Y'IJ.Vata!ou) ; Sinopsi sui polsi (~6volj/Lt; m:pl O'qiUY~"} ; Sugli alimenti liquidi (IIcpl Àe7mlll06cnjç} ; Sulle facol~ degli alimenti (IIcpl -rpoq~él)v 3uvci1J.Cc.>t;}; Sui· temperamenti e le facol~ dei medicamenti semplici (IIcpl xpciacc.>t; xa:l 8uvci~J.Cc.>t; -rél)v cin).él)v qlatpjl.cixc.>v}; Sulla compotiflione dei far- maci (IIcpl auY&ém:c.>ç qlatp~v) ; La teriaca (IIcpl Tijç &JjpL«Xijc; l ; Sui rimedi da pre- 'flarare (IIcpl clv-;c!'{3atllo~v} ; Sulla conct#enaflione delle cause (IIcpl -rél)v auvcx-nxél)v etl-r!c.>v) ; Sulla diffit:oltlJ della respirat:ione (IIcpl 8uanvo~l ; I tumori contro natura (IIcpl -rél)v natp« qiUcnV ISyxc.>v} La cura per flebotomia (IIcpl q~>4o-roiJ.!«ç .&cpat- ncu-nx6vl; L'arte medica (TtrnJ !ot-rpudjl; [Uso dei farmaci e dei clisteri: forse di Severo, vissuto nel v-VJ secolo); [Come ti possono riconoscere i simulatori di malattie]. 171 www.scribd.com/Baruhk   vastissima opera di Galeno, le oscillazioni e le contraddizioni derivate dall'innesto dei due piani, da un lato va tenuta presente la sua forma- zione e l'epoca in cui scrisse questo o quel trattato (piu teorici quelli scritti in gioventu, piu sperimentali quelli scritti in vecchiaia), dall'altro lato, soprattutto, la grossa discussione sorta in medicina, nel corso del II secolo, tra "dogmatici," "metodici" ed "empiristi" puri. Di Galeno, attraverso Galeno stesso, sappiamo molto. Uomo senza dubbio di eccezione, di temperamento inquieto, estremamente ambi- zioso (in un certo momento della sua vita, clinico di moda che affa- scina non solo per la sua bravura tecnica, per le sue diagnosi e per il suo specifico sapere medico, ma anche per le sue teorie), Galeno fu educato da un padre intellettuale, l'architetto Nicone, che lo avviò fin da ragazzo ai piu rigorosi studi della matematica e del sapere in gene- rale (filosofia), ai quali, sempre per volontà del padre, si aggiunsero fin da quando aveva diciassette anni gli studi di medicina. Allievo, in Pergamo, dov'era una celebre scuola medica, di un anatomico, di un ippocratico e di un empirista, Galeno, morto il padre, visitò, nel giro di nove anni i piu famosi centri di medicina - Smirne, Corinto, Ales- sandria-, frequentando, ad un tempo, anche le maggiori scuole filoso- fiche. Nel 158, a Pergamo, diviene medico dei gladiatori, specializzan- dosi in chirurgia. Nel 162 è a Roma, dove acquista grande fama. Nel 166, forse a causa di un'epidemia, lascia Roma. Viaggia in Oriente; è a Cipro, in Palestina, in Siria; ovunque prosegue le sue osservazioni, raccoglie cartelle cliniche, cerca di rendersi conto delle varie concezioni che possano servire a comprendere il funzionamento del corpo umano. Poco dopo essere tornato a Pergamo, dove riprende il suo pòsto di chi- rurgo presso la scuola dei gladiatori, viene. richiamato in Italia, ad Aquileia, dall'imperatore Marco Aurelio, di cui divenne medico di fiducia. Morto Marco Aurelio, lo fu di Commodo. Rimase a Roma, medico celebre, dedito alla pratica medica e alla redazione definitiva delle sue opere, fin verso il 199. Tornato a Pergamo vi mori nel 200 circa. E qui vanno sottolineate due cose: Galeno cominciò a scrivere fin da quando aveva diciotto anni e non fu solo formato nell'arte medica e nelle varie teorie mediche in discussione; egli, fin da giova- nissimo, venne anche formato dagli studi matematici e dagli studi rela- tivi al "sapere" in generale, dibattutissimi nelle scuole filosofiche. E cosi va ricordato che prima del 165 sembra ch'egli avesse già composto le sue maggiori opere teoriche, insieme a quelle di anatomia e di fisio- logia, mentre i grandi trattati di terapia e di patologia, le opere piu strettamente tecniche e frutto della sua lunga opera di sperimentatore, sarebbero state composte durante i suoi soggiorni romani. Non è questo 172 www.scribd.com/Baruhk   che un accenno, ma ciò va tenuto presente da chi voglia ricostruire la personalità e la concezione medica di Galeno, senza ricorrere alla facile etichetta del "Galeno eclettico." In realtà, l'opera di Galeno è estrema- mente problematica, e sorge da un continuo dibattito tra la tesi estrema dell'empirismo di un Menodoto, che, sia pure per polemica, giungeva, dimostrando il pericolo che nella ricerca medica è rappresentato da qualsivoglia teoria in astratto, a negare la possibilità di fondare una scienza medica, e l'esigenza - propria, del resto, alla discussione delle scuole filosofiche - di cogliere, attraverso l'esperienza stessa (che altri- menti rimarrebbe come non fatta, se si limitasse ad una pura enume- razione), le condizioni che permettono di dare un senso, cioè di domi- nare e ordinare i dati dell'esperienza. Gli stessi "segni rammemora- tivi" - fondamentali in medicina - hanno un'utilità, solo quando ci si renda conto di come, costituendosi insieme, l'uno implichi necessa- riamente l'altro; la stessa esperienza perciò funziona solo quando si giunga da un lato a determinare come è che si pensa, come cioè si costituiscono i giudizi (logica: cfr. Institutio logica), e dall'altro lato, quando, in quanto si giudica, implicando ciò la definizione e, perciò, il genere prossimo e la differenza specifica, si determinano le cause di un certo gruppo di fenomeni. Per gli dèi, per quanto riguarda i miei maestri, anch'io sarei caduto nell'aporia dei Pirroniani, se non avessi posseduto gli elementi della geome- tria aritmetica e logistica (ÀoyLG't'LX~), in cui fin dall'inizio avevo fatto pro- gressi, istruito per molto tempo da mio padre, il quale aveva ereditato la teoria dal nonno e dal bisnonno. Vedendo; dunque, che non solo mi appa- rivano chiaramente vere le questioni relative alle previsioni delle eclissi [...lacuna], ritenni fosse meglio valersi del tipo delle dimostrazioni geome- triche; e infatti riscontravo che gli stessi dialettici piu esperti e i filosofi, pur essendo discordi non solo tra di loro, ma anche con se stessi, tutti, nello stesso modo, esaltano comunque le dimostrazioni geometriche (Galeno, De propriis libris, XI). Tale fu lo sforzo continuo di Galeno, nel suo tentativo di delineare, proprio perché sia possibile la diagnostica, e .perciò stesso non solo la terapia, ma un'azione preventiva, un complesso di principi teorici, di quadri clinici, di cause entro cui ordinare un certo insieme di fenomeni o provederne altri, insieme al rintraccio di quelle che sono le condizioni formali che permettono una deduzione. Se da un lato, cosi, Galeno riprendeva certi aspetti della logica for- male di Aristotele (in particolare la costruzione dei sillogismi, quale appare negli Analitici Primi: cfr. lnstitutio logica; secondo Averroè a Galeno risalirebbe la quarta figura del sillogismo), si capisce come, 173 www.scribd.com/Baruhk   dall'altro lato, Galeno per spiegare, particolarmente in fisiologia, le funzioni dell'organismo, volte al mantenimepto ed equilibrio del tutto in una specie di finalità naturale, assumesse, ·sia pure per ipotesi, il finalismo biologico di origine aristotelica; e che, per spiegare il fatto vita- lità, ricorresse all'ipotesi stoica (propria della corrente stoico-vitalistica, risalente forse a Posidonio, che non poche volte Galeno cita) delle forze, degli "spiriti" vitali, per cui il "pneuma" si realizza come "spi- rito cerebrale" (pneuma psichico), · come "spirito vitale," o animale, vero e proprio, che dà vita e che dalla sua fonte, che è il cuore; muove il sangue nelle arterie, e come "spirito naturale," che dalla sua fonte, che è il fegato, mette in movimento il sangue nelle vene. Di qui, nell'àmbito di questa concezione dell'uomo che in piccolo (micro) ripete il grande (macro) cosmo, la teoria - di chiara origine ippocra- tica - dei temperamenti (i quattro elementi, fuoco, aria, acqua, terra, le cui potenze o qualità sono il caldo, il freddo, l'umido e il secco, si ritrovano nell'organismo umano come sangue, forza vitale vera e propria, come flegma, bile gialla e bile nera; dal sangue, che ha in sé in circolo i quattro umori; si determina o l'equilibrio degli umori o il prevalere dell'uno o dell'altro, donde i temperamenti: sanguigno, flemmatico, collerico e malinconico). Non è qui il caso di soffermarci sulla patologia e sulla terapeutica di Galeno. Basti· ricordare che esse si fondano sulla sua biologia: si sostiene che la salute consiste in un'ar- monica ed equilibrata resultante delle forze operanti nell'organismo, e la malattia in una rottura dell'equilibrio, in un eccesso o difetto delle forze vitali, e che compito del medico è, attraverso una conoscenza pre- cisa dell'anatomia e della fisiologia, ed un'analisi minuta e ampia dei sintomi, operare sulla natura, si che la natura ritrovi il suo equilibrio.A seconda dei testi di Plotiilo sui quali si verrà puntando - chi direttamente lo ascoltò profondamente fu colpito dalla sua forza intel- lettiva e dalla dirittura ascetica della sua vita: cfr. la Vita scritta da Porfirio - si potranno reinterpretare in termini simbolico-allegorici certe precedenti effettive credenze nei misteri, nella funzione della magia e nelle pratiche teurgiche, sostenendone l'assurdità, se prese in forma non allegorica, assumendo dai vecchi riti, culti, misteri, l'orfico .in particolare, tutto ciò che poteva servire a indicare plotinianamente il ritorno dell'anima a se stessa e al divino, in termini etico-religiosi (ciò specialmente si vede in Porfirio, quando si tengano presenti le due fasi del pensiero porfiriano: prima e dopo l'incontro con Plotino); oppure si potrà, mettendo in evidenza certe espressioni religi<>so-miste- riche e l'indiscorribilità del contatto con runo, o del farsi uno nel- l'anima di ciò che vien compreso, entro i termini della concezione del- l'universo di Plotino, riprendere il motivo secondo cui tutte le cose sono anime, dèi, aventi perciò una loro potenza e il motivo della libe- razione dell'anima, che rifacendo propria tutta la realtà, si salva dive- nendo simile al dio e con ciò stesso divenendo assoluta potenza e libertà. Entro questo quadro, cosi, si giustificavano non solo certi misteri, ma anche certe pratiche teurgiche (ciò si vede bene in Giamblico, disce- polo di Porfirio, e piu tardi in Proclo, i quali cercheranno di mostrare quali siano le tecniche mediante cui, comprese certe potenze, certe anime, si afferra l'anima, che può essere anche uno o altro elemento, uno o altro simbolo, e si mette nelle cose, per poi dominare altre cose, altri dèi: di qui, attraverso la magia imitativa, si cercava di determinare le possibilità di una magia operativa). 234 www.scribd.com/Baruhk   Lo stesso Porfì.rio/ nato forse a Batanea, in Siria, nel 233-34, detto anche di Tiro, avendovi vissuto per un certo periodo, narrando il suo primo incontro con Plotino, avvenuto in Roma, nel 263 circa, scrive: "Nelle adunanze, Plotino sembrava uno che conversasse e nessuno vi l Nacque forse a Batanea, in Siria, nel 233-234 (fu detto anche di Tiro, avendovi vissuto j)<'r un certo periodo). "Io, Porfirio, avevo inoltre anche il nome Basilio, essendo chiamato nell'idioma patrio, Maleo - tale pure era il nome di mio padre. Ora Maleo significa re: cioè Basileus [Basilio], se si vuoi renderlo in lingua greca" (Vita Plot., 17). A Cesarea di Palestina conobbe Origene ed entrò in dimestichezza con lui. Ebbe qui i primi contatti con la scuola cristiana. Ad Atene ascoltò Longino Cassio, che, insieme a Plotino, era stato, in Alessandria, discepolo di Ammonio Sacca. Longino Cassio, di cui Plotino diceva: "filologo si, ma filosofo no, affatto!" (Porfirio, Vita Plot., 14), iniziò Porfirio alla filosofia platonica e, particolarmente, alla retorica, in cui Longino fu celebre (di Longino si hanno frammenti di un Trattato di retorica; perduti sono andati i libri Sul Fine e Sui principi; si è oggi convinti che il trattato Sul sublime non sia di Longino}. A trenta anni circa Porfirio andò a Roma, dove, conosciuto Plotino, ne divenne, insieme ad Amelio, uno dei piu fedeli discepoli e collaboratori. "Nel decimo anno del regno di Gallieno [263], io, Porfirio, giunsi dalla Grecia in compagnia di Antonio Rodio. E appresi che Amelio, pur frequentando la scuola di Plotino da diciotto anni, non aveva osato ancora scrivere altro che gli Sco/ii, i quali peraltro non avevano ancora raggiunto il centinaio. Platino, nel decimo anno del regno di Gallieno, aveva, all'incirca, cinquantanove anni, ed io, Porfirio, allorché m'incontrai la prima volta con lui, avevo trent'anni" (Vita Plot., 4). Alla scuola di Plotino, Porfirio abbandonò molte delle sue vecchie opinioni, o meglio le riordinò entro i termini della concezione plotinica. Collaboratore e amico di Plotino, visse intensamente la vita della scuola j)<'r cinque anni, finché ammalatosi di esaurimento nervoso, su consiglio dello stesso Plotino, si recò in Sicilia (nel 268 circa) per rimettersi in salute. In Sicilia (al Lilibeo) soggiornò due anni. Nel 271 - Platino era morto nel 2 7 0 · - tornò a Roma, dove riprese la sua attività di maestro proseguendo l'insegnamento di Plotino e dedicandosi all'edizione degli scritti di Plotino, che pubblicò tra il 300 e il 304. Porfirio mori a Roma nel 305. Porfirio scrisse molto. Per una ricostruzione del P<'nsiero di Porfirio, vanno tenuti presenti i j)<'riodi in cui si suddivide la sua produzione: l. Prima dell'incontro con Plotino; 2. Durante il soggiorno romano alla Scuola di Plotino; 3. Durante il soggiorno in Sicilia e il secondo a Roma dopo la morte di Plotino. Appartengono al primo j)<'riodo: La filosofia desunta dagli oracoli (frammenti); Questioni americhe (framm.); Storia della filosofia in 4 libri, di cui resta solo il l, La t•ita di Pitagora (il II era dedicato a Empedocle, il III a Socrate, il IV a Platone: ne restano una ventina di frammenti); Introduzione all'astrologia di Tolomeo; Commento agli Armonici di Tolomeo (framm.); Sulle immagini (framm.). Appartengono al secondo j)<'riodo, frutto dell'attività scolastica, Commenti a opere di Platone (al Crati/o, al Sofista, al Parmenide, al Timeo, al Filebo, al Convito, al Fedone, alla Repubblica); una Discussione con Amdio; una discussione sullo scritto di Eubulo, scolai-ca dell'Accademia di Atene, Ricerche platoniche (di questi scritti abbiamo solo notizia); un Commento a L'affermazione e negazione di Teofrasto (J><'rduto); Commenti alle Categorie di Aristotele (framm.), al De interpretatione di Aristotele (framm.), alla Fisica di Aristotele, al XII libro della Metafisica di Aristotele, all'Etica di Aristotele e ad alcuni passi del De anima di Aristotele (di questi commenti son rimasti pochi fram- menti e notizie); lntroduzion~ o lsagoge alle Categorie; lsagoge ai Sillogismi categorici. Appartengono al terzo j)<'riodo: Contro i Cristiani in 15 libri (framm.); Lettera al sacer- dote Anebo (framm.); Cronografia (framm.); Sul ritorno dell'anima (framm.); Sull'asti- nenza (framm.); Sul dio sole (framm.); Commenti agli Oracoli Caldaici (citati nel Ritorno dell'anima); Lettera a Marcel/a (framm.; Porfirio sposò in vecchiaia la vedova Maccella j)<'r aiutarla ad allevare i figli); L'antro delle Ninfe (framm.); Sul "conosci te stesso" (notizie); Gli slanci dell'anima verso l'intelligibile o Sentenze; Vita di Plotino, premessa all'edizione delle Enneadi, e Commentari ad alcuni trattati delle Enneadi. 2,35 www.scribd.com/Baruhk   vedeva affiorare, a tutta prima, la forza della costn,1zione logica rac- chiusa nel suo ragionamento. Io stesso, Porfirio, ebbì quindi a subire una s,imile impressione, quando lo udii la prima volta. Mi spinsi perciò a presentargli un saggio critico, in cui tentavo di dimostrare, contro la sua tesi, che gli intelligibili hanno esistenza fuori dell'Intelletto. Egli se lo fece leggere da Amelio e, a lettura finita, con un sorriso: 'è fac- cenda tua,' disse, 'o Amelio sciogliere i dubbi, nei quali, per mancata conòscenza della nostra dottrina, Porfirio è caduto.' Amelio scrisse un libro, tutt'altro che breve, Contro le aporie di Porfirio. lo scrissi di bel nuovo in risposta al suo scritto. Amelio vi replicò ancora. Alla terza volta, sia pure con un po' di fatica, io, Porfirio, compresi il loro pen- siero e mi convertii. Stesi una Palinodia che lessi in seno alla riunione. D'allora in poi, anche in rapporto ai libri di Plotino, fui considerato l'uomo di fiducia. E fui io a destare nel maestro stesso l'ambizione di articolare e di sviluppare, per iscritto, i suoi pensieri" (Vita Plot., XVIII, 90-93). Prima di conoscere Plotino, Porfirio, che a Cesarea aveva conosciuto Origene, che ad Atene aveva ascoltato il retore e platonico Longino Cassio, e ch'era stato ad Alessandria, aveva fortemente subito l'influenza delle dottrine religioso-misteriche, diffusissime, che senza dubbio erano state presenti anche a Plotino, ma che Porfirio non aveva criticamente discusso, né risolto in una costruzione logica. È certo che Porfirio fu da giovane attratto dalle suggestioni dei maghi e dei teurghi, dando un particolare significato a ciò che si poteva desumere dalle sedute in cui si evocavano gli spiriti, in una interpretazione simbolica di ciò che.quegli spiriti evocati dicevano (oracolt). Di qui l'opera di Porfirio, dal significativo titolo Sulla filosofia tratta dagli oracoli (ne:pt njç ~x Àoy(Cùv qnì..oao'P(otç), pubblicata prima che Porfirio en- trasse in contatto con Plotino, e dai cui frammenti si ricava, appunto, che Porfirio si serviva di oracoli dovuti, com'è stato detto, a "medium" durante sedute spiritiche, e che l'opera era una specie di trattato di teurgia, da cui si potevano ricavare tecniche e pratiche rituali mediante le quali ricondurre l'anima alla propria divinità. In questo stesso pe· riodo preromano, Porfirio scrisse un'opera in quattro libri dedicata alla ricostruzione piu che del pensiero, del modo di vita di filosofi, o, meglio, di vite ispirate, demoniache, indicazioni mediante cui salvare l'anima, e in cui egli, riallacciandosi a una certa tradizione platonica (partiro larmente a Moderato di Gades), vedeva il piu profondo significate della filosofia: non a caso, cosi, i quattro libri erano dedicati il prime a Pitagora, il secondo a Empedocle, il terzo a Socrate, il quarto a Pla· tone. Di essi è giunto solo il primo, la Vita di Pitagora; degli altri non sono rimasti che una ventina di frammenti. Già indicativa di un certe modo di intendere il filosofare è l'architettura dell'opera; la Vita d1 236 www.scribd.com/Baruhk   Pitagora, poi, dà il metro esatto dei termini entro cui Porfirio, nel rico- struire il significato del pitagorismo, vedeva la funzione ascetica della filosofia nell'evocazione del proprio dèmone, e nella traduzione in ter- mini simbolico-numerici di tutta la realtà, che Pitagora avrebbe desunto dagli Egizi, dai Caldei, dai Fenici e dai Magi (cfr_ Vita Pit., 6; interessante è ricordare che Porfirio ricostruisce la vita di Pitagora met- tendo insieme i testi piu diversi, tratti da Cleante, Apollonio, Davide di Samo, Lico, Eudosso, Dionisofane, Dicearco, Nicomaco, Antonio Diogene, Moderato). E cosi è altrettanto indicativo che Porfirio abbia scritto, sempre in questo primo periodo, un'Introduzione all'astrolo- gia di Tolomec. (EtaatywyYj etc; -r~v <Ì.7ton:ÀEafJ.Ot'rtx~v -rou IhwÀEfJ.Ot(ou) e un trattato Sulle immagini. Senza dubbio l'incontro con Plotino pro- vocò in Porfirio una crisi, ma piu teoretica che morale. Egli, evidente- mente, rivide le. proprie credenze al lume del rigoroso metodo ploti- niano, scoprendo il significato delle proprie esigenze etico-religiose, e dando ad esse, entro i termini della concezione di Plotino, una sistema- zione logico-ontologica, mediante cui segnare le tappe di un itinerario dell'anima a Dio, entro cui potevano rientrare anche i vecchi misteri, le vecchie credenze, i vecchi miti, intesi però simbolicamente, assunti per ciò ch'essi potevano servire a convertire l'anima a se stessa, a libe- rarla dalla dispersione sensibile: insignificanti, anzi assurdi, se presi unilateralmente per sé. I frutti di tale "conversione" al plotinismo, come dice lo stesso Porfirio, e del suo atteggiamento nuovo nei con- fronti della elevazione morale e religiosa si vedono bene nelle opere che Porfirio cominciò a comporre dal 269 in poi, dal tempo del suo soggiorno in Sicilia, dopo che vissuto in Roma per sei anni, fianco a fianco con Plotino, in un intenso lavoro di scuola, tra lezioni, discus~ sioni, seminari, rielaborazione e trascrizione degli scritti e delle lezioni del maestro, colpito da una grave forma di esaurimento, che lo con- dusse sulla soglia del suicidio (cfr. Vita Plot., 11), si allontanò dalla scuola, su consiglio dello stesso Plotino (cfr. ib.), per prendersi in Sici- lia un periodo di riposo. 'Porfirio soggiornò in Sicilia due anni circa (dal 268-69 al 271); tornò a Roma dopo la morte di Plotino (270), e a Roma, divenuto il continuatore ideale dell'insegnamento di Plotino, intensamente lavorò alla divulgazione e alla sistemazione del pensiero del maestro, fino alla mortè, avvenuta nel 305. Se il nuovo atteggiamento nei confronti della magia e della teurgia popolari si vede bene nella Lettera ad Anebo, sacerdote egizio, in cui criticamente si mette in discussione, appunto, la funzione della teurgia, dimostrando la confusione e l'irrazionalità di molti e torbidi riti, mi- steri, pratiche, la contraddizione di distinguere le divinità in buone e malefiche, prestando alla divinità passioni, esigenze, volontà umane 237 www.scribd.com/Baruhk   ("autentiche invenzioni di uomini e finzioni della natura umana": Lett. a Anebo, 49); nella Lettera a Marcel/a, sÙa moglie, si vede bene il significato dato da Porfirio all'elevazione morale-religiosa, dovuta ad una purificazione dell'anima, in un ritorno dell'anima a se stessa, in un dominio di se stessi, che è il dominio che l'anima, in quanto con- sapevole, ha di tutte le cose, ché tutto dipende da noi stessi, e perciò dall'anima e quindi dall'Intelletto e da Dio. Sotto questo aspetto Por- lirio reinterpretava, in termini plotiniani, il motivo stoico (Cornuto, Epitteto), secondo cui libera è ranima che dipende da se stessa, onde la virtu consiste nell'adeguarsi alla legge di natura ("l'intelletto segua Dio, e ne contempli in sé l'immagine; l'anima segua l'intelletto; alla anima serva {>er quanto è possibile il corpo, fatto puro a lei pura": A Marcel/a, 13; "Facciamo conto solo delle cose che dipendono da noi": ib., 5; "l'intelletto è maestro, salvatore, nutrimento, custode e guida: esso intende la verità nel silenzio e discoprendo la legge divina con la contemplazione di se stesso riconosce nel suo intimo la legge impressa sin dall'eternità nell'anima; devi considerare anzitutto la legge naturale, da questa devi risalire alla legge divina, che è fondamento di quella naturale; ancorata a queste leggi, non temerai nessuna legge scritta": ib., 26-27). La concezione di Plotino giustificava, cosi, in termini logico-intel- lettuali, l'esigenza etico-religiosa di Porfirio, che particolarmente fu col- pito dalle discussioni di Plotino sull'anima, intesa come consapevolezza di sé, come capacità di cJndurre a sé se stessa spersa fuori di sé, fino a giungere a vivere, indiandosi, la vita del tutto. Non a caso Porfirio punta sempre sull'anima, sulla "conversione" dell'anima, sull'anima entro cui è la verità, che ci trascende dal di dentro, qualora si sappia ascoltare l'anima stessa, il nostro piu vero ed intimo "maestro" ("tu hai in te un maestro": A Marcel/a, 9). "Raccoglierai e unificherai le tue intime facoltà, se cercherai di articolarle quando sono ottenebrate: anche il divino Platone partendo di là ha richiamato dalle cose sen- sibili alle intelligibili" (A Mareella, 10). D i qui, sembra, lo stesso modo con cui Porfirio, raccogliendo e pubblicando i vari scritti di Plotino, pur conoscendone l'ordine cronologico (cfr. Vita Plot., 4-6), ha ordinato, nel costituire il "libro" del neoplatonismo, i trattati plo- tiniani, cominciando appunto dall'individuo e dal sensibile. L'ordina- mento delle Enneadi rispecchia senza dubbio l'interpretazione di Porfirio, il quale, per altro, vede, con Plotino, nell'anima il punto in cui si incentra l'universo tutto; se l'Anima da un lato è unità trascendente se stessa nell'unità vivente dell'Intelletto-intelligibili (l'au- tovivente, l'IXÒ't'o~<;iov del Timeo), che trova il suo fondamento nel- l'Uno, dall'altro lato, l'Anima, in quanto affermazione di sé, riproduce 238 www.scribd.com/Baruhk   la molteplicità dell'Intelletto, dando luogo alle cose (l'anima demiurgo), e prende coscienza di sé in quanto, limitazione di se stessa (anime singole ed empiriche), per cui l'anima dapprima dispersa, rotta nelle cose, passiva, facendosi cosciente di ciò, oltrepassa il limite, ricondu- cendo a sé le cose stesse. Di qui proviene la distinzione porfiriana delle funzioni dell'anima singola: l'anima è puramente spermatica finché, inconscia, è essa stessa le cose; eidolica, immagine, allorché si rappre- senta i corpi come altro da sé, e come limiti; logica, quando coglie se stessa come discorso unificante, articolando il molteplice; noetica, quando dalla dispersione sensibile, dalla coscienza del limite, dall'unità del molteplice fuori di sé, intuitivamente coglie il tutto Uno in sé, solle- vandosi all'intelletto; anoetica, quando perde se stessa facendosi una nell'Uno. Le anime particolari, dunque, sono nell'Anima del mondo, e da essa emergono senza che essa sia divisa, si come tutte le cose, cieli, stelle e cosi via fino alla terra, sono nell'Anima del mondo e da essa emergono, in limiti sempre maggiori, sempre piu corposi, onde appunto sono i corpi ad essere nelle anime; tutto perciò può essere interpretato in un rapporto di "simpatia," di reciproche influenze, di imitazioni, in una gradualità di anime che vanno dalle superiori anime celesti (gli astri) alle inferiori anime singole, ciascuna delle quali è, dunque, legata alla sua stella, mediante una serie di anime intermediarie (dèmoni). La realtà tutta è, perciò, sotto questo aspetto buona, divina; e il male non ha alcuna realtà, alcun principio, se non nell'anima stessa, nella sua capacità di rimanere nel limite, o di guardare in sé. Appunto in questo primo guardare in sé dell'anima, nel momento dell'imma- gine, in cui la realtà appare come altra dall'anima, avente un suo limite e una sua figura, una sua corporeità, essa si rappresenta le anime stesse come figure, come corpi, provenienti dall'Anima dell'Universo, condotte da un soffio vitale eterno (il pneuma, veicolo o ochema del- l'anima) passato attraverso le sfere dei pianeti, di cui assume l'aspetto, determinando quindi il nostro carattere, e quello dei dèmoni. Partico- larmente interessante sembra questo aspetto della dottrina di Porfirio, esposta nel De regressu animae (fr. 3 Bidez), da cui chiaramente appare che l'universo costituito di anime, di astri, di dèmoni, J;).on è tanto una realtà data, ma la visione del primo momento del ritorno del pensiero a se stesso, appunto il momento dovuto all'anima nella sua attività eide- tico-immaginativa. Proprio entro questo momento funzionano epos- sono essere ripresi, per chi non sia filosofo, per chi non sappia elevarsi al momento logico e noetico, i riti, le pratiche magiche e teurgiche, in quanto servono a purificare l'animà, a dare a tutti la coscienza che ciascuno è divino, che tutto è divino, che infiniti, nell'Unità del divino, sono gli dèi. E ~ i riti, i culti, le credenze, non hanno piu significato 239 www.scribd.com/Baruhk   per chi sia filosofo - una élite, - essi hanno una funzione terapeutica e ordinatrice per la massa. È sull'anima "pneumatica," e mediante essa sull'immaginazione - scrive il Bidez - che le cerimonie liturgiche agiscono. "Esse presentavano all'anima pneumatica simboli di natura tale da suggerire una reminiscenza e un vago scorcio della verità. I riti placano i cattivi dèmoni che assediano il 'veicolo.' Con visioni mera- vigliose, fanno vivere lo 'spirito' nella società degli angeli e degli dèi. Rendono capaci di ricevere la loro visita - cfr. De regressu animae, 2, 6. - Senza dubbio in virtu della legge di assimilazione, a forza di contemplare questi esseri puri, l'uomo si libera dalle influenze per- niciose e si sbarazza di ogni effluvio malsano. La purificazione progre- disce via via che l'animo fa sf che in sé si produca l'effetto della pro- pria devozione, e la pratica della continenza, che a rigore potrebbe bastare - cfr. De regr. an., 7; anche De abstinentia - renderà la sua liberazione ancora piu sicura. Il successo definitivo non è tuttavia sicuro. Benché sia essenzialmente diversa dalla magia volgare, la teurgia è sempre aleatoria, fallace, e pericolosa" (Bidez, Vie de Porphyre, Gand- Lipsia, 1913, pp. 91-2). Se è vero - sottolinea Porfirio - che le pra- tiche teurgiche sono capaci di purificare la "anima pneumatica," esse tuttavia non possono operare il completo ritorno dell'anima a Dio, e possono essere pericolosissime in mano a ciarlatani (cfr. De regressu anim·ae). "Perciò l'uomo saggio e prudente si asterrà dal servirsi di sif- fatti sacrifici, mediante cui attirerà a sé cosi fatti dèmoni malvagi; si studierà invece con ogni mezzo di purificare l'anima, poiché quelli all'anima pura non si attaccano per la dissimiglianza da loro" (De absti- nentia, Il, 38). E dirà Sant'Agostino, commentando il De regressu animae; "Porfirio promette quasi una purificazione dell'anima, per mezzo della teurgia, ma con esitazione e con discussione in certo modo pudibonda. D'altra parte nega che tale arte offra a chi che sia la con- versione a Dio, sicché lo vedi... fluttuare fra alterne opinioni" (De civi- · tate Dei, X, 9, 415). E qui non va scordato che Porfirio si era in gioventu formato in Siria, a Cesarea, ad Atene, ad Alessandria. Fu quella un'epoca in cui diffusissime erano le religioni misteriche, e, entro queste, le pratiche rituali magiche e teurgiche, particolarmente provenienti dall'ambiente siriaco, ma che si venivano incontrando e fondendo con le religioni della tradizione occidentale, in una trasformazione vicendevole, in una spiegazione dell'universo e del destino umano in termini diversi dai soliti, rispondente, per altro, alla nota, profonda crisi, traversata dal- l'Impero dal tempo di Commodo (180-192), successore di Marco Aurelio. E qui va ricordata l'importanza data da Settimio Severo (193-211) a Serapide egizia, ma ancor piu va ricordata la diffusione che in tutto 240 www.scribd.com/Baruhk   l'Impero, per un certo periodo dominato da imperatori di provenienza siriaca, per via materna, ebbe il culto del siriaco dio Sole (pensiamo a Caracalla, 211-217, e in particolar modo a Eliogabalo, 218-222, che vittorioso su Macrino, 217-218, per aiuto della madre Mesa, siriaca, sacerdotessa del Sole, come lo era stata Giulia Domna, moglie di Set- timio, impose in Roma il culto solare, con tutti i riti, i culti, le mera- viglie ad esso connesse). Sono, questi, dati che vanno tenuti presenti per rendersi conto da un lato della complessità di questo periodo e della difficoltà eh'esso presenta per intenderne le molte sfumature, richiami, allusioni, dall'altro lato per comprendere, tra il terzo e il quinto secolo, lo strutturarsi e il cristallizzarsi di piu correnti in scontri e incontri, determinanti alla fine una comune atmosfera culturale, ove già chiare sono le linee della cultura propria del Medioevo. Il notevole tentativo di Porfirio fu, dunque, entro la concezione di Plotino, di coordinare e dare un senso alle pratiche teurgiche e magiche, di rendere conto della funzione dei riti, dei culti, delle stesse credenze religiose, valide da un lato come avviamento per gli uomini comuni, dall'altro lato come avviamento alla filosofia. Entro questi termini, sem- bra, vanno considerate le ultime opere di Porfirio: il Commento agli Oracoli caldaici (gli Oracoli sono da lui piu volte citati e usati nel De regressu animae), uno scritto su Il Dio Sole (di cui si leggono vasti brani nel primo libro dei Saturnali di Macrobio), in cui, appunto, il siriaco Sole viene ad essere posto come il simbolo dell'unità vivente, sulla linea della tradizione del sole platonico e stoico, emergente dal- l'Uno, dall'Uno Dio Bene; e quella specie di breviario che è Gli slanci dell'anima verso l'intelligibile ('AcpopfLOCL 7tpÒc; -rli: V01)'t"OC) (una summa di regole plotiniane per ritornare dal sensibile all'Anima, all'Intelletto, a Dio, dapprima mediante una condotta di vita ascetica, poi mediante una sempre piu approfondita meditazione dell'anima su se stessa). Gli Slanci dell'anima furono scritti per gli addottrinati, per chi, attraverso la scuola, riceve la capacità di inserirsi nella catena degli eletti ispirati, per chi, purificatosi, ha la capacità di "conoscere se stesso" (non a caso Porfirio scrisse anche un'opera sul Conosci te stesso), di passare in un convertimento dell'anima a se tessa ad essere filosofo. E qui ha un particolare interesse la classificazione porfiriana delle virtu (il capitolo 32 degli Slanci, attraverso Macrobio, che ne dette un sunto nel Somnium Scipionis, ebbe non poca influenza sulla classificazione delle virtu, nel Medioevo): virtu civili ("fondate sulla moderazione delle paso;ioni esse consistono nel seguire ed obbedire alla ragione nei doveri attinenti alle azioni; sono dette l · Oli, perché riguardano la sicurezza del prossimo nella società; la saggezza si riferisce alla parte razionale, la fortezza all'irascibile, la temperanza consiste nell'accordo e nell'armonia della 241 www.scribd.com/Baruhk   parte concupiscibile con la ragione, la giustizia nel dovere di ciascuna parte nel comandare e nell'ubbidire"); virtu catartiche ("proprie del- l'uomo contemplativo..., sono le virtu dell'anima che si eleva, purifi- candosi, all'essere realissimo, e a cui si giunge mediante le civili; la prudenza, perciò, nelle virtu catartiche, consiste nel non opinare con- forme al corpo, ma nell'agire puro, cioè nel pensare con purezza; la temperanza consiste nel non aderire alle passioni; la fortezza nel non temere il distacco dal corpo, quasi sia un cadere nel vuoto e nel nulla; la giustizia si ha quando la ragione e l'intelligenza comandano senza trovare resistenza"); virtu intellettuali (''sono le virtu proprie del- l'anima intellettualmente attiva; in questo caso, la sapienza e la pru- denza consistono nella contemplazione di ciò che la mente possiede; la giustizia è il compimento della propria funzione, in quanto segue l'intelletto e opera conforme ad esso, la temperanza è una conversione interiore, verso l'intelligenza; la fortezza è impassibilità che si adegua a ciò che contempla e che ha natura impassibile"); virtu esemplari o paradigmatiche ("sono le virtu che esistono nella mente e sono supe- riori alle virtu dell'anima, delle quali sono gli esemplari, cosi come di questi le virtu dell'anima sono somiglianze...: qui la scienza è pru- denza, la sapienza è intelletto che conosce, la temperanza è conver- sione verso la propria interiorità, la giustizia è compimento del pro- prio dovere e la fortezza consiste nell'identità con se stesso, nel rima- nere sempre in interiore purezza mediante le proprie forze"). Scopo delle virtu civili è di imporre una misura alle passioni per agire conforme alle leggi di natura; delle catartiche è di svincolarsi completamente dalle passioni; delle altre è di agire secondo l'intelletto senza avere neppure il pensiero di separarsi dalle passioni; delle ultime infine non è piu quello di rivolgere il proprio atto verso l'intelletto, ma di toccare la mèta cun la propria essenza. Perciò chi agisce conforme alle virtu civili è uomo onesto; chi conforme alle virtu catartiche è uomo demonico o dèmone buono; chi conforme alle sole intellettuali è dio; chi conforme alle paradigmatiche è dio padre. Per questo dobbiamo occuparèi soprattutto delle catartiche cer- cando di possederle in questa vita e salire poi, attraverso queste, alle piu pregevoli... Anzitutto, base e fondamento della purificazione è conoscere se stessi... (Slanci, 32). Duplice è la morte: l'una, la piu nota, si ha quando l'anima si scioglie da~AArpo: non sempre l'una segue l'altra...; e l'anima si lega al corpo quando si volge alle passioni che derivano da esso; da esso si libera allorché non è piu toccata da quelle (Slanci, 9 e 7). Probabilmente composti al tempo in cui Porfirio frequentò Plotino in Roma, certamente frutto dell'attività scolastica, entro l'àmbito della discussione e del metodo plotiniani, sono i commenti di Porfirio ad 242 www.scribd.com/Baruhk   .alcuni testi di opere di Platone (Crati/o, Sofista, Parmenide, Timeo, Filebo, Convito, Pedone, Repubblica), ad uno scritto di Eubulo (Ricer- èhe platoniche), ad uno scritto di Teofrasto (Sulla affermazione e la negazione) d ad alcuni libri di Aristotele (Categorie, ivi compresa l'Introduzione o lsagoge alle Categorie; De interpretatione, ivi com- presa l'Isagoge ai Sillogismi categorici; Fisica; libro XII della Meta- fisica; Etica; alcuni passi dell'Anima relativi all'entelechia). Se non poco indicativi sono i dialoghi platonici presi in discussione, altrettanto indicativa della funzione assunta dalla filosofia di Aristotele nell'àm- bito del platonismo di Plotino e di Porfirio, è la scelta dei libri di Aristotele. La Fisica e il XII libro della Metafisica (il libro su Dio: cfr. sopra, I vol.) potevano benissimo servire da introduzione a inten- dere lo strutturarsi della realtà dall'Uno platonico, l'Etica da introdu- zione a intendere le virtu civili, catartiche e intellettive, mentre le Categorie e il De interpretatione, se assunti nel loro aspetto formale- grammaticale - e qui Porfirio, riprendendo le fila della lunga discus- sione e del conflitto sulle categorie aristoteliche nel campo del plato- nismo nel n secolo, polemizza con Plotino che, interpretando le cate- gorie contenutisticamente, le negava, sostenendo di contro la validità dei cinque generi del Sofista platonico- servivano come introduzione al "saper pensare," come condizioni che permettono il ragionamento entro l'àmbito dell'Intelletto-intelligibile, donde poi, platonicamente, dedurre le strutture logiche che rendono pensabile la realtà (non a caso Porfirio, riprendendo l'uso logit:o, non ontologico, dei predicabili o categorumeni di Aristotele - genere, specie, differenza, proprio, acci- dente, - interpretati come possibili predicati della sostanza, insiste sul valore verbale - vox - di queste cinque voci, pénte phonai, soste- nendo che esse riguardano il discorso, non le cose, ché il genere, la specie e cosi via sono appunto categorumeni e non cose: cfr. lsagoge, I). Di qui il celebre passo dell'lsagoge (Prefazione), in cui si dice: "lo non dirò circa i generi e le specie se esistano in sé, ovvero se siano semplici pensieri; se siano corporei o incorporei, se separati dai sensibili o posti in essi." I generi e le specie servono come condizioni verbali che per- meaono il discorso ed entro esso la deduzione, l'analisi, per cui, pren- dendo come punto di partenza l'essere (nulla è definibile senza· il verbo essere, e perciò a fondamento di ogni definizione si pone il genere sommo, generalissimo che è la "sostanza"), si può da esso dico- tomicamente discendere (fu su questo testo porfiriano, in lsagoge, 4, 20, che venne ordinato lo schema di definizione per dicotomie suc- cessive, andato sotto il nome di albero di Porfirio. Sostanza: corporea- incorporea; sostanza corporea: corpo animato-corpo inanimato; corpo animato: sensibile-insensibile; corP,O animato sensibile; ragionevole-irra- 243 www.scribd.com/Baruhk   gionevole; animale ragionevole : mortale-immortale; ,animale ragione- vole mortale: Tizio, Caio, Sempronio e cosi via). ' Lo sforzo di Porfirio, il suo intento, e la sua risposta, attraverso Plotino, alla piu viva problematica del stili tempo - Porfirio fu sensi- bilissimo alle piu varie influenze e correnti, cercando sempre di render- sene conto - fu quello di dare un ordinamento ad ogni aspetto del sap~re: da quello pratico-civile, risolventesi nelle religioni, nei culti, nei riti, nelle pratiche magico-teurgiche (se bene intese), nelle leggi scritte, a quello logico-filosofico (certi aspetti dell'aristotelismo) e morale (Platone, certo stoicismo), facendo centro sul motivo piu schiettamente plotiniano dell'anima-consapevolezza, e sul ritorno dell'anima all'Uno, da cui tutto ha luogo, prospettando una filosofia universale, in una universale pacificazione. Si capisce cosi da un lato la sua simpatia umana per la figura del Cristo (almeno prima del suo incontro con Plotino, al tempo in cui conobbe e frequentò Origene a Cesarea: cfr. Bidez, cit., p. 13), dall'altro lato la sua polemica contro i Cristiani (Contro i Cristiani, in 15 libri, composta, sembra, dopo il 270, al tempo dell'imperatore Aureliano), sia teoretica (sul piano di Celso, ove particolarmente si discute l'assurdo di un Dio persona e volontà, creatore, che può fare tutto quello che vuole, l'assurdo dell'uomo per sé centro e valore nella sua individualità, l'assurdo della resurrezione .dei corpi), sia filologica (sostiene l'inautenticità dei libri di Daniele, le contraddizioni storiche tra i Vangelt), sia morale (contro l'intol- leranza, l'unilateralità del Cristianesimo e il suo fanatismo, contro la sua negazione della cultura e della filosofia: il Cristianesimo, come le altre religioni, gli altri riti, le altre pratiche magiche e teurgiche, fun- zionerebbe per la massa, per i poveri di spirito, come momento del- l'ascesa dell'anima alla filosofia e all'Uno), sia politica (il Cristianesimo spezza l'unità culturale e religiosa, la possibilità di raccogliere, in vista dell'Uno tutto, le varie religioni e culture'di provenienze diverse, orientali e occidentali, che potrebbero costituire l'unità pacifica del- l'Impero, in funzione di quella filosofia universale di cui si parlava). Nell'intricata storia della cultura e della formazione di idee e di ideologie di questo tempo non si può non tenere nel debito conto l'altrettanto intricata e complessa storia politica dell'Impero nel I I I se- colo. Il tentativo di Porfirio, sulla fine del III secolo di articolare in unità, in funzione di un'unica filosofia, religioni, culti, concezioni diverse, in nome di un'unità trascendente all'interno, che fosse ad un tempo di base all'unità religiosa e all'unità politica, è un tentativo non poco indicativo. In realtà egli rispondeva a quella stessa esigenza di salvazione dell'Impero che muove un imperatore, come Aureliano, a 244 www.scribd.com/Baruhk   proclamarsi dio assoluto, riprendendo i motivi dell'elioteismo. La crisi dell'Impero non fu soltanto militare-politica ed economica, ma anche, ad un tempo, e per le stesse ragioni, ideologico-culturale. Dopo Marco Aurelio, particolarmente (sia sotto la dinastia dei Severi: Settimio Severo, Caracalla, Macrino, Eliogabalo, Severo Alessandro, ucciso nel 235 vittima di una congiura militare capeggiata da Massimino che divenne imperatore per due anni; sia nel periodo della cosiddetta anarchia militare: Gordiano, Filippo l'Arabo, Decio, Valeriano, Gal- lieno, ucciso nel 268; sia sotto i cosiddetti imperatori illirici, tesi alla restaurazione dell'unità dell'Impero: Claudio Il, Aureliano, Claudio :racito, Aurelio Caro, Carino e Numeziano; sia durante il periodo che va da Diocleziano a Costantino), si vede bene che il conflitto non fu ta.nto tra Roma e i barbari· (che premevano sia al nord sia in oriente) quanto di Roma con se stessa, sia a causa della trasformazione della città-Stato di. Roma in un complesso di popoli diversi, sia a causa di un non ancora precisatosi concetto di Stato (donde il persistente conflitto tra imperatore e senato), sia a causa della stessa civilizza- zione e romanizzazione dei barbari. Il conflitto fu in effetto un con- flitto tra il vecchio mondo, la vecchia concezione e una realtà di fatto, nuova, dovuta a quello stesso mondo che aveva costituito l'Impero, e che nell'incontro di civiltà diverse, di religioni e culture diverse, ten- deva ora (la provincializzazione dell'Impero - ricordiamo la Consti- tutio Antoniniana, 212-213, di Caracalla -, con la conseguente esau· torazione dell'Italia e del Senato, è un indice) a trasformarsi, sia pure a prezzo di un imbarbarimento, com'è stato detto, accogliendo in sé, appunto, e in sé risolvendo gli aspetti piu vari, in una "nuova Roma." Di qui il conflitto tra momenti in cui si è voluto restaurare la "roma- nità" (sempre allorché vi sia stato un accordo tra imperatore, anche se l'imperatore non era italico, e Senato, o l'imperatore sia stato senato- dale o dell'aristocrazia romana)t e momenti in cui (allorché gli impe- ratori, soprattutto gli imperatori scaturiti dall'esercito, o "barbari," abbiano teso ad eliminare il Senato dal giuoco politico-militare) si è voluto determinare la possibilità di un impero universale. Per tale impero universale, dal punto di vista legale, valeva pur sempre la concezione stoico-ciceroniana del diritto natura~e (cfr. sopra), come si vede nei grandi giutisperi~i del III secolo, entrati in conflitto con il potere assoluto e personale del sovrano: il siriano Papiniano, Ulpiano di Tiro, Giulio Paolo, Erennio Modestino. E di tale Impero, l'impe- ratore doveva essere l'espressione che ne garantisse l'unità, accogliendo in sé tutti i possibili aspetti e le possibili esigenze. Si capisce, in tal senso, che se piu dure furono le persecuzioni contro i Cristiani (Decio: 251-252; Valeriano: 253-260), allorché ebbe il sopravvento la politica 245 www.scribd.com/Baruhk   di alleanza tréll imperatore e Senato, merio dure, talvolta inesistenti furono le persecuzioni contro i Cristiani, allorché prevalse la politica, per cosi dire, interbarbarica (si pensi, ad esempio, alla politica di un Filippo l'Arabo e di un Gallieno), almeno fin quando si credette di poter riassorbire il Cristianesimo entro i termini della funzione data alle altre religioni (teosofiche, magico-teurgiche, solari); altrimenti i Cristiani furono perseguitati, non tanto per le loro dottrine, per la loro fede, una tra le tante, fosse essa la tesi neoplatonica, o gnostica, o manichea, o quelle soteriologiche teurgiche e magiche, solari, prove- nienti dalla Siria, quanto perché la loro concezione, il loro concetto del rapporto tra gli uomini e dell'autorità dell'unica Chiesa (Stato nello Stato), la loro pervicacia mettevano in pericolo l'unità dello Stato stesso (si ricordino le persecuzioni avvenute sotto Aureliano, 270-275, e l'ultima sotto Diocleziano, 285-305). D'altra parte, soprattutto nelle province orientali e quando lo stesso imperatore persegui la politica della "nuova Roma," il contrasto tra Cristianesimo e cultura classica si svolse soprattutto sul piano teoretico, sul piano delle scuole, in una opposizione tra "filosofie." In tali periodi, anzi, dalla fine del n secolo al Concilio di Nicea (325), notiamo in seno alle stesse scuole cristiane conflitti teoretici, discussioni sul rapporto Dio-mondo, sull'unità-trinità di Dio (il problema trinitario), sulla vera natura del Cristo (il pro- blema cristologico) in un incontro e in una discussione con le tesi platonico-neoplatoniche e stoiche e, spesso, in una rottura interna tra comunità e comunità cristiane e in passaggi di pensatori dal Cristiane· simo alle soluzioni razionalistico-platoniche o irrazionalistico-teurgiche neoplatoniche, e di platonici alla soluzione volontaristico-personalistica del Cristianesimo. Un Origene, ad esempio, vissuto a cavallo tra il n e il m secolo, discepolo, in Alessandria, di Clemente, suo prosecu- tore nella scuola catechetica di Alessandria, maestro poi in Cesarea, poteva benissimo ascoltare, ad un tempo, le lezioni di Ammonio Sacca, discutere il platonismo, interpretare quel platonismo al lume della tesi cristiana; mentre un Longino, filologo, rètore, platonico, poteva da Atene recarsi, insieme al vescovo Paolo di Samosata, presso la corte della regina Zenobia di Palmira, vedova di Odenato, che, al tempo dell'imperatore Gallieno, aveva costituito un principato al confine orien- tale con Roma, ch'ella cercava di organizzare entro i termini di una cultura che rispondesse alle piu vive esigenze (e non solo il vescovo Paolo, ma anche Longino caddero vittime della restaurazione romana in Palmira, riconquistata. da Aureliano). E non a caso Porfirio, ricor- dando il suo giovanile incontro con Origene, poteva sostenere che, se diversi erano i punti di partenza, le soluzioni relative alle condizioni che permettono di pensare la realtà, e, perciò anche, le conclusioni, in 246 www.scribd.com/Baruhk   realtà tutti, nelle scuole di Siria e d'Egitto - fossero essi cnst1ani, o platonici, o gnostici - erano mossi dalle stesse esigenze, discutevano e leggevano gli stessi testi: "Origene viveva leggendo Platone; le opere di Numenio, Cronio, Apollofane, Longino, Moderato, Nicomaco, e quelle dei pitagorici illustri gli erano familiari; egli si serviva anche dei libri dello stoico Cheremone [attraverso cui lo stesso Porfirio aveva appreso i misteri egizianiJe di Cornuto; attraverso essi egli si iniziò a questa interpretazione allegorica dei misteri dei Greci, di cui applicò il metodo alle Scritture degli Ebrei" (in Eusebio, Hist. ecci., VI, 19, 7). Di qui, anche, in seno alle comunità delle varie province, un rompersi dell'unità delle varie chiese, il contrasto con la Chiesa ufficiale, gli scismi, che mettevano in pericolo l'universalismo, il cattolicesimo della Chiesa, la sua pretesa d'essere l'unica religione, l'unica via alla salvezza dell'uomo - donde da parte della Chiesa, di nuovo, il contrasto con lo Stato, il tentativo della riorganizzazione gerarchica della Chiesa (ad esempio Cipriano2), e dell'assorbimento da parte del Cristianesimo della cultura classica, da risolvere appunto entro i termini della nuova "concezione." Di fatto, intanto, particolarmente nel III secolo, la fede cristiana si estendeva sia tra i semplici, sia tra ì signori e gl'intellet- tuali, e all'esigenza universalistica e pacificatrice, in mezzo a lotre, ron- trasti, al rovesciamento dei vecchi valori, poteva sembrare che rispon- 2 Cecilia Cipriano, •oprannominato Tascio, nacque a Cartagine, nel 210 circa. Dopo aver seguito un accurato e completo corso di retorica, insegnò retorica e fu valente e celebre avvocato. Per influenza del venerabile prete Ceciliano, nel 245 si converti al Cristianesimo. Ancora noefita, nel 249. alla morte del vescovo Donato, fu eletto vescovo di Cartagine. Nel 25u, al principio della persecuzione di Decio, Cipriano abbandonò Cartagine, rifugiandosi nei pressi della città. Rientrato in Cartagine nel 251, il vescovo dovette affrontare la questione dei lapsi, che, con molto equilibrio e tatto, riusd a risol- vere; nel 255 un lungo dibattito sulla questione del valore del battesimo dato dagli eretici, divise Cipriano dal Papa Stefano. Nel 257, a causa della persecuzione di Valeriano, Cipriano venne esiliato a Curubis. Richiamato nel 258, Cipriano si presentò alle autorità e avendo dichiarato d'essere cristiano e di rifiatarsi di sacrificare, venne condannato a - morte per decapitazione. "Lapsi" furono detti quei Cristiani che per sfuggire alla perse- cuzione, dinanzi alle autorità che chiedevano loro se fossero cristiani rinnegavano la loro fede, facendosi rilasciare un libretto di attestazione, onde furono detti anche Jibeilatici. Pas- sata la persecuzione, molti lapsisti chiesero di essere riammessi nella wmunità. Ne sorse una grave controversia. Novato e Felicissimo, aderenti allo scisma di Novaziano, propu- gnavano, di contro agli intransigenti, una assoluta tolleranza. Cipriano, in nome dell'unità della Chiesa, lottò per una moderata intransigenza. Intransigente, invecl!, egli fu nella questione se fosse valido o no il battesimo impartito dagli eretici. Cipriano lo ritenne invalido e la sua tesi fu approvata da tre sinodi tenuti a Cartagine nel 255 e nel 256. . La maggiore opera di Cipriano, composta nel 251, contro Felicissimo e il partito dei lapsisti è il De Catholicae ecclesiae unitate. Di Cipriano si conservano inoltre: Ad Donatum (opuscolo sul valore della fede cristiana); De habittl virginum; Testimoniorum lrbri tres ad Quirinum; De lapsis; De zelo et livore; De mortalitate; Ad Demetrianum; .4d Fortu- natum de exhortatione martyrii; De opere et elemosynis_; De dominica oratione; De bono patientiae. Importante per la storia religiosa è l'Epistolario di Cipriano (sessantacinque let- tere scritte da Cipriano e sedici lettere dirette a lui). 247 www.scribd.com/Baruhk   desse il Cristianesimo nel suo aspetto piu semplice e fideistico, nella sua capacità di non servire solo a una élite culturale e di filosofi, molto meglio che non l'universalismo filosofico, stoico o neoplatonico che fosse, o certe religioni di mistero, teosofie, e via di seguito. Di tale situazione storica, di fatto, ben si rese conto Costantino, che, com'è noto, credette di poter risolvere quell'unità universale dell'Impero di cui parlavamo, non piu mediante la tesi stoica (Marco Aurelio), o neoplatonica (Porfirio), o elioteistica (Aureliano), ma attraverso la con- cezione cristiana, facendo divenire cristiano l'Impero, ch'era in effetto la fine dell'Impero romano e la concreta premessa dei futuri conflitti politico-giuridici tra Stato e Chiesa. La Chiesa, per la sua stessa strut- tura, non poteva non divenire Stato (e Costantino credette di poterne essere lui l'imperatore, il sacerdote). Non potevano essere questi che accenni, ma necessari per rendersi conto dell'esigenza di considerare il formarsi della cultura sia della cosiddetta pagana, sia della cristiana, non per filoni separati, sempli- cisticamente opposti e indipendenti, ma in un ben piu complesso qua- dro, anche se assai fluido e difficile. È noto che Plotino, con l'aiuto dell'imperatore Gallieno e di sua moglie Salonina - essi, dice Porfirio, lo veneravano ed erano a lui molto affezionati - avrebbe voluto restaurare una città della Cam- pania, andata in rovina, in cui, datole il nome di Platonopoli, avrebbe voluto ritirarsi con i suoi compagni e discepoli, osservando le leggi platoniche (cfr. Porfirio, Vita Plotini, XII). "Questo progetto," seguita Porfirio, "sarebbe anche facilmente riuscito al filosofo, se taluni corti- giani, per invidia, avversione o altro indegno motivo, non vi avessero frapposto ostacolo." Si è molto discusso su questo breve testo porfi- riano; si è parlato di un preciso ideale politico di Plotino, e di una sua influenza diretta sulla politica di Gallieno. In realtà nulla docu- menta ciò, neppure il testo di Porfirio, il quale, in fondo, parla di affetto, di stima da parte di Gallieno e di Salonina per Plotino, si come per Plotino avevano stima e ne riconoscevano l'alto valore intel- lettuale e l'integerrima vita molti altri membri dell'aristocrazia e del Senato romani; non solo, ma Porfirio dice che in Platonopoli si sarebbe vissuto secondo le leggi platoniche, cioè, nel linguaggio porfiriano, seguendo una "vita platonica," una vita filosofica. "La città di filosofi, nel senso platonico," scrive il Pugliese-Carratelli, "che Plotino ha ideato, è concepita non come pratica attuazione di uno schema poli~ tico..., ma come una synoikesis di quelli che, veramente filosofi, si sono fatti cittadini della rt6Àtç ~v Myotç xe:t(.LtvYj. Il progetto plotinico acqui- sta cosf un altro significato e può trovare una piu soddisfacente solu- zione il discusso problema dell'atteggiamento di Plotino verso la poli- 248 www.scribd.com/Baruhk   ca. In dissenso dal Rudberg (Neuplatonismus und Politik, "Symbolae \rctoe," l, 1922, pp. 7 sgg.), l'Alfoldi (Vorherrschaft der Pannonier, in Funfundzwanzig fahre rom.-german. Kommission, Berlino, 1930, pp. 23 sgg.) ha recisamente affermato che nelle Enneadi ricorrono pro- posizioni circa la vita politica che sono in insanabile contrasto tra loro. Queste pretese contraddizioni si dissolvono, invece, quando si avverta, come si deve, che lo spirito di Plotino è orientato in senso perfetta- mente platonico e distingue quindi nettamente quanto attiene al sof6s e quanto agli altri uomini, lontani e non profondamente animati da quella 'v~::ra filosofia' che sola, come insegna Platone, conduce alla 6e:wp(oc (teoria)" (Pugliese-Carratelli, La crisi dell'Impero nell'età di Galliena, "Parola del Passato," 1947, p. 67). Egli [lo a1tou8oc"Loç] sa bene che duplice è la vita di quaggiu: l'una per i saggi, l'altra per il volgo; protesa, nei saggi, ad altezze di vette supreme, mentre negli uomini abituali è suscettibile, ancora, alla sua volta, di distin- zione: l'una fi?.emore della virtu, partecipa a un qualche bene; ma la turba degli sciocchi esiste solo, per cosi -dire, come -artigiana manuale di ciò che serve al bisogno dei superiori (È7tte:txéa-re:pm) (Enn. II, 9, 9, 77). Platonopoli, in realtà, resta un ideale, un rifugio, una città di saggi in conversazione, volti, per dirla con Porfirio, alle virtu intellettuali attraverso quelle "catartiche." Per le virtu civili e politiche resta que- st'altro mondo, il mondo, appunto, dello Stato, dell'Impero, che potrà salvarsi solo se sarà capace di divenire base, fondamento a quella supe- riore unità, alla città dei filosofi. Sotto quest'aspetto sembra esatta, rela- tivamente a Plotino e a Porfirio, l'affermazione di un tardo platonico, Olimpiodoro, indicante le due vie as~unte dal platonismo: "Alcuni hanno innanzi tutto onorato h filosofia, come Porfirio e Plotino...; altri, invece, l'arte ieratica [teurgia], come Giamblico, Siriano, Proclo e tutti gli ieratici" (Olimpiodoro, In Phaed., 123, 3 Norvin). Se Porfirio, nel suo plotinismo, si è particolarmente preoccupato dell'aspetto etico e purificatorio, con accenti, anche se in chiave plo- tiniana, schiettamente stoici, l'altro noto discepolo di Plotino, Amelio Gentiliano,3 sembra maggiormente volto ad approfondire l'aspetto teo- 3 Amelio, o Amerio Gentiliano ("il suo nome era propriamente Gentiliano, ma egli preferiva chiamarsi Amerio con la r sostenendo che gli conveniva trarre il nome da amèria [indivisibilità], anziché da amèlia [negligenza)": Porfirio, Vita Plot., 7), originario dell'Etruria, discepolo prima di un certo Lisimaco stoico, conosciuto poi Plotino, nel 246 circa, rimase con lui in stretti rapporti di discepolo e di collaboratore nella scuola, fino al 270 (poco prima della morte di Platino), quando si recò ad Apamea, in Siria, dove, probabilmente rimase a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. "Amelio si 249 www.scribd.com/Baruhk   retico del maestro. Amelio, ongmario dell'Etruria, dopo essere stato discepolo di un certo Lisimaco (uno stoico), conosciuto Plotino, nel 246, rimase con lui in stretti rapporti di discepolo e di collaboratore nella scuola, fino al 270, quando si recò ad Apamea, in Siria, dove, probabil- mente, rimase a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. Forse ad uso della scuola, egli, giorno per giorno, prese appunti delle lezioni di Plotino, commentandole e chiarendone il significato: raccolse cosi un complesso di sco/ii, divisi in cento libri (purtroppo perduti: sarebbero stati preziosissimi, insieme alla perduta edizione degli scritti di Plotino curata da Eustochio, per confrontarli con l'edizione degli scritti di Plotino a cura di Porfirio: avremmo meglio compreso il rapporto Uno-molti in Plotino). In un'opera dedicata a Porfirio, Amelio difese Plotino accusato di avere plagiato Numenio, chiarendo le differenze che, relativamente ai tre dèi, correvano tra i due, mentre, in due riprese, cercò di mostrare a Porfirio che secondo Plotino le Idee non esistono al di fuori dell'Intelletto. Certo, l'attenzione di Amelio, sotto l'influenza di Numenio, di cui egli ricopiò e ordinò i vari scritti, che conosceva a memoria, si volse, come chiaramente appare anche da Porfirio (Vita Plot., 3, 17, 18), a interpretare e a chiarire il rapporto Intelletto-intelligi- bili, il problema dell'Essere come unità vivente nella dialettica Intelletto- Idee. Egli cosi, secondo Proclo (In Tim., 93d), avrebbe, entro l'àmbito della seconda ipostasi (Intelletto), distinto, sotto l'influenza di Nume- nio, tre ipostasi: l'Essere che è (-tòv èlv-tot, tòn 6nta), che per essere dà essere a sé fuori di sé, le idee (-tòv ~xov-tot, tòn èchonta), che assumono essere, in quanto, contemplando l'essere, la propria fonte, si ricongiun- gono ad esso (-tòv.opwv-tot, tòn horònta), costituendo cosi il primo esserci dell'Uno, ipostasi del tutto, in una dialettica triadica. Di qui, rifacendosi a Numenio, Amelio chiariva il significato dato all'uno che è in quanto è due, o meglio che non è né uno né due, ma è tre, cir- colarmente, in una triadicità, che, poi, internamente all'uno, si molti- avvicinò a Platino durante il terzo anno della sua dimora romana, allorché Filippo era al suo terzo anno di regno, e vi si trattenne fino al primo anno del regno di Claudio: e furono cosl, in tutto, ventiquattro anni. Al suo primo giungere, serbava ancora l'atteg- giame&to mentale di Lisimaco; però superava tutti i suoi contemporanei per la laboriosità di cui dette prova, sia esponendo per iscritto quasi tutte le dottrine di Numenio, sia sunteggiandole, sia mandandone quasi a memoria la maggior parte. Compose, inoltre, gli Sco/ii dalle lezioni, e li coordinò in·cento libri circa, dedicati poi al suo figlio adot· tivo Ostiliano Esichio di Apamea" (Porfirio, Vita Plot., 3). Oltre i Gemo libri di Sco/ii alle lezioni di Platino (perduti), Amelio curò l'edizione degli Scritti di Numenio, scrisse un'opera Sulla differenza delle dottrine di Plotino eldi Numenio (per difendere Platino dall'accusa di avere plagiato Numenio: cfr. Porfirio, Vita Plot., 17: l'opera è perduta), un libro Contro le aporie di Porfirio (cfr. Vita Plot., 18), e quaranta libri Contro il libro di Zostriano. Perdute tutte le opere di Amelio, di lui non abbiamo che qualche frammento e testimonianza (cfr. Eusebio, Praep. ev., XI, 19; Proclo, In Timaeum, 205c, 93d, 226b, 249a; Stobeo, I, 49, 32 sgg.). 250 www.scribd.com/Baruhk   plica all'infinito, per ogni aspetto della realtà. Di triade in triade, per- ciò, in una deduzione numerica, si venivano ricostruendo tutte le strut- .ture della realtà in una moltiplicazione di ipostasi, intermediarie tra l'Uno e l'estremo limite della materia, simbolicamente dette divinità, e a cui, via via, si potevan6 in una interpretazione allegorica far corri- spondere le deità del pàntheon greco-romano e asiatico. Phanès, Oura- nòs e Cr6nos, riferiti all'Orfismo, vengono, ad esempio, interpretati come l'Uno, l'Intellett-O e l'Anima plotiniani, scoprendo cosi una teo- logia orfica, un senso riposto negli orfici, nei pitagorici, in Platone. E cosi, posta l'Anima del mondo come divinità, altrettanti dèi sono le anime che pullulano al di dentro dell'Anima universale, corrispondenti e tispecchianti·quegli dèi che sono nell'Intelletto, nel Cielo (gli astri). E se il tutto è, perciò, un essere vivente, articolantesi simpateticamente, e il tutto si ricostituisce di triade in triade, numericamente, tutto è retto dai numeri, si come ogni cosa è una divinità, anche i corpi, cri- stallizzazioni delle anime, momenti dell'Anima universale, momento dell'lntelletto, o L6gos, dio nell'unico Dio. Certamente l'autore di tutte le cose che esistono è stato il L6gos, che è eterno, come avrebbe detto Eraclito, il L6gos, che secondo il barbaro [Gio- vanni Evangelista] occupa presso Dio il posto e la dignità di principio, Dio esso stesso, per il quale tutte le cose sono state fatte e nel quale è stato creato ogni essere vivente :e la Vita stessa. Esso può anche unirsi a un corpo, rivestirsi di carne, prendere le sembianze umane, senza svelare tuttavia la grandezza della sua natura. E quando questa unione è disciolta, esso riac- quista tutti i caratteri della dignità e ridiventa Dio com'era prima di unirsi al corpo, alla carne, alla natura umana (Amelio, in Eusebio, Praep. evang., Xl, 19). Amelio, dal 270, si stabili ad Apamea, la patria di Numenio, in un ambiente, forse, piu consono alla ricostruzione e interpretazione ch'egli aveva dato di Plotino. Quando Amelio giunse ad Apamea, Giamblico,4 siriaco, nato a Calcide, aveva diciannove anni circa. Non sappiamo se, in Apamea, 4 Nato nel 251 circa, a Calcide, in Celesiria, Giamblico fu, dopo il 270, a Roma, alla Scuola di Porfirio (a Giamblico Porfirio dedicò il suo Intorno al "conosci te stesso," e per lui compose il !Utorno dell'anima). Giamblico, forse, conobbe, ad Apamea, Amelio, di cui, certo, subii l'influenza. Tornato in Siria, Giamblico, per lunghi anni, fino alla morte, avvenuta nel 325-326, insegnò ad Apamea, dove ebbe molti discepoli e seguaci. Seguitarono l'insegnamento di Giamblico, in Siria: Sopatro di Apamea di cui sappiamo che, divulgatore di Giamblico, scrisse un'opera Sulla provvidenza e m coloro che hanno fortuna o sfortuna oltre il merito, e che fu fatto condannare a morte da Costantino (nel 336 circa) e Dexippo (di lui resta un prezioso Commento alle Categorie di Aristotele): 251 www.scribd.com/Baruhk   Giamblico abbia incontrato Amelio, al quale, per altro, piu che a Porfirio (di cui sappiamo che Giamblico fu per ·.un qualche tempo discepolo in Roma - a Giamblico Porfirio dedicò il suo Intorno al "conosci te steuo," e per Giamblico compose il De regreuu animae) sembra che Giamblico si avvicini, particolarmente per la sua molti- plicazione degli intermediari tra l'Uno, l'Anima e la materia. Sap- piamo che Giamblico, tornato in Siria, per lunghi anni, fino alla morte (325-26) insegnò ad Apamea, ove ebbe non pochi seguaci, si che si è poi parlato di una scuola neoplatonica siriaca, di cui Giam- blico sarebbe stato il fondatore. Per Giamblico, come per Amelio, la realtà tutta, interiormente all'Uno, si costituisce, dall'Vno, di triade in triade: unità, dualità e un terzo termine medio che dialettizza l'uno e l'altro in una dinamica unità. Come da un punto centrale,- veniamo cosi ad avere una serie infinita di circoli concentrici, tutti nell'unico circolo che li raccoglie in una sola unità, in un solo centro, l'Uno, per ciò stesso ineffabile, che è e vive nel suo scandirsi nelle triadi. L'Uno, dunque, assoluto, oltre l'essere, oltre il bene, oltre tutto, si costituisce ed è in quanto Intelletto, termine medio tra l'Uno e la pluralità, emergente dall'In- telletto stesso, a sua volta uno in quanto unità delle idee in atto, mol- teplicità di idee (potenze, intelligenze), che in realtà, comprese, sono a Pergamo: Edcsio, discepolo di Giamblico, seguito poi da Eusebio di Mindo (alcune sue sentenze sono conservate da Stobco), Massimo di Efeso (morto nel 372: autore, secondo Simplicio, In Catcg., I, 15, di un Commefllo alle Categorie di Aristotele, amico di Giuliano Imperatore), Crisanzio, Prisco (poco piu che nomi), Eunapio (la maggior fonte per l'a biografia dci ncoplatonici: di lui si conserva la preziosa Vita dci sofisti, in cui tratta della vita di 23 pensatori, c una Cronaca che va dal 270 ai primi anni del V secolo). Scolarca della scuola neoplatonica di Cappadocia fu Eustazio, discepolo di Giamblico. Altro noto discepolo di Giamblico, che, in Roma, aveva ascoltato anche Porfirio c che ebbe, poi, notevole influenza sulla formazione delle scuole ncoplatoniche di Alessandria e di Atene nel V-VI secolo, fu Teodoro di Asine, detto, da Proclo (In Tim., 341d), il "grande." Teodoro, su testimoniaaza di Proclo (In Tim., e in Rcmp.) e di Olimpiodoro (In Phaed.), avrebbe commentato testi platonici (Timco, Repub- blica, Pedone), e aristotelici (gli Analitict). Di Giamblico si sono conservate le seguenti opere: Vita pitagorica (è il I libro di un'opera intitolata Sillogc delle dottrine pitagorichc); Protrcttko alla filosofia (è il II libro della Sillogc: nel capitolo 20 del Protrcttico Giamblico riporta un lungo passo di un autore ignoto, forse un sofista scettico del v-IV sec. a.C.; il passo è andato sotto il nome L'anonimo di Giamblico); La comune scienza matematica (attribuito a Giam- blico, avrebbe costituito il III libro della Sillogc); Introduzione all'aritmetica di Nicomaco (attribuito a Giamblioo, avrebbe costituito il IV libro della Sillogc); Thcologumcna arith- mctièac (attribuito a Giamblico, avrebbe costituito il VII libro della Sillogc) (perduti sono i libri V, VI, VIII-X della Sillogc); Dc mystcriis Acgyptiorum (si discute se sia di Giam- blico o opera della sua scuola). Giamblico avrebbe inoltre scritto (di queste opere sono giunti solo frammenti e notizie): Commento agli Oracoli Caldaici (framm.); Dc diis (fonte dell'Inno al Sole di Giuliano e degli Dèi di Sallustio: cfr. Macrobio, Saturn., I, 17-23); Dc anima (framm. in Stobeo); Dc imaginibus (Fozio, Bibl., 215); Dc dcsccnsu animac (framm.); Commento aii'Aicibiadc I di Platone. 252 www.scribd.com/Baruhk   molteplici nell'unità dell'Uno intelletto (l'Intelletto è perciò: Padre, Potenza, Intelletto). I tre fondamenti (ipostast) dell'intelligibile sono, dunque, lo stesso Intelletto nella sua unità (mondo delle idee: x6a!J.OI; V01J-r6~;, k6smos noetòs), le intelligenze o potenze (x6a!J.OI; V01Jp6ç, k6smos noeròs), idee rappresentazioni dell'intelletto, e l'Intelletto in quanto intellezione dell'unità-molteplicità dell'Intelletto. Il terzo ter- mine delhi triade intelligibile, l'Intelletto, in quanto consapevolezza della Unità vivente intelletto-intelligenze, racchiude in sé la vitalità intellettuale, l'Anima del tutto, a sua volta una-molte-una. Veniamo cosi ad avere un mondo intelligibile (x6a!J.OI; V01J-r6~;) ed entro questo, da esso distinto, un mondo intellettuale (x6a!J.OI; V01Jp6ç), che ritrova la sua unità vivente nell'Anima dell'universo, che nella sua unità-molte- plicità-unità si distingue in infinite anime (dèi), costituenti i modelli, le forze, le leggi del cosmo sensibile, uno e molteplice, fino alla natura una e molteplice. Giamblico determina cosi, entro l'Unità tutta, due mondi: il mondo. ideale, posto come condizione, in sé tutto in atto nel suo scandirsi, e relativamente ai limiti, alle definizioni, posto come termine ultimo; e il mondo della natura, procedente dall'altro e a sua somiglianza. Tra l'uno e l'altro mondo - in effetto un sol mondo - si pongono, termini medi, la triade dell'Intelletto e da essa una seconda triade, dal cui terzo termine emerge il mondo degli dèi intelligenze, da cui si costituisce una terza triade, da cui di seguito, scaturiscono, sempre dal terzo termine (unità-sintesi) di ciascuna, tre nuove triadi e da ultimo un'ebdomade (sette termini che raccolgono in sé gli dèi modelli dei sette pianeti) e cosi via; invisibili gli dèi del mondo ideale, essi divengono visibili nel mondo del sensibile e della natura, rispec- chiandosi, in immagine, negli astri luminosi, e di qui negli altri inter- mediari (angeli o messaggeri, dèmoni, eroi), fino alle anime degli uomini. Potremmo seguitare e vedere come Giamblico moltiplichi, sul piano del mondo visibile, gli dèi celesti (ad esempio i dodici dèi zodia- cali, che, costituitisi triadicamente, dànno luogo a •trentasei dèi, a loro volta moltiplicati per dieci, realizzantisi in trecentosessanta dèi), gli dèi interni al eielo, gli dèi delle nazioni e ·delle città, fino a divinità sempre piu limitate, affermazioni di' sé, che rompono l'unità sinfonica e concatenata (fatale) del tutto (sono questi i dèmoni malvagi, i cattivi geni, le anime disperse, decadute, che piu non somigliano al divino astro da cui pur discendono). Porfirianamente nella complessa costruzione di Giamblico venivano a trovar posto tutte le divinità di tutte le religioni, in un incontro che si risolve in una sola teologia, ed ove in realtà, gli dèi e i loro nomi hanno un valore simbolico, evocante i momenti, le leggi, gli ordini, le potenze in cui si scandisce il tutto. Plotinianamente perciò, il male 253 www.scribd.com/Baruhk   (donde i dèmoni malvagi) è mancanza d'essere, definizione e limita- zione dell'aniii1a, che, con questo, per cosi di-re, si sgancia dall'ordine, rompendo la catena, per cui quell'anima è come presa dal dèmone malvagio, c sempre piu si allontana dal proprio buon dèmone, dalla propria stella, non somigliando piu alla propria potenza. In altre parole, nella visione di un tutto, di un universo vivente, ove ogni termine richiama l'altro, l'uno risponde all'altro, l'uno scaturisce dal- l'altro e concresce sull'altro, in infiniti aspetti esistenti tutti nell'Unità compiuta dell'Uno, l'esistenza del male, il dèmone è, appunto, il rima- nere nel limite, il non morire a questa vita per rivivere nella piu vera vita che è la vita del tutto, perdendosi in essa. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso, entro i termini dell'ordine tutto, della eterna armonia, Giamblico, rifacendosi a Nicomaco e a una certa tra- dizione pitagorica, possa sostenere che tutto ha il suo numero, che ciò senza di cui le cose non sono (ossia le leggi) sono numeri (e perciò le essenze, incorporee invisibili indivisibili incorruttibili, sono numeri). Di qui, in una interpretazione del Timeo platonico e delle pagine della Fisica aristotelica ove si discute dei luoghi e del tempo, si delinea la dottrina giamblichea del luogo divino (l'Uno che in sé raccoglie il tutto) e dei luoghi intesi come i limiti interni all'Uno, ove nell'ordine del tutto ciascuna cosa deve collocarsi, si che ciascuna cosa va al posto che le compete, attua la propria unità nell'Unità del tutto aspazide. E cosi, atemporale l'Universo tutto, atemporale l'Uno, il tempo con- siste nello scandirsi nell'Uno di tutti i suoi momenti, onde il tempo è, appunto, la misura del tutto (Anima del mondo), per cui, se ogni cosa, presa a sé, distinta, è nel tempo, ha il suo tempo, si come ha il suo luogo e il suo. numero, tutte le cose, colte nell'unità del tutto (il tempo dell'Universo, che sta al luogo divino) sono la temporalità, specchio e misura dell'atemporale Uno. E allora, come in un infinito unico specchio, ciascun punto dello specchio rispecchia da punti prospettici diversi se stesso, e ciascun punto prospettico, preso a sé, deforma la visione complessiva di tutto lo specchio, cosi le singole anime, le singole cose, se prese a sé, sono come visioni deformi di se stesse, specchianti il proprio specchio, nel- l'unità dello specchio. In un tutto articolato, e rispecchiante se stesso all'infinito, ogni aspetto richiama, seduce l'altro, anche se ogni aspetto non è l'altro, anche se i punti prospettici piu lontani rispecchiano depo- tenziatamente, in quanto v'è come una dispersione delle potenze, per cosi dire, invece, contratte al centro. Simbolicamente, dunque, tutto è costituito,. nell'Uno infinito, di dèi, che sono i momenti, le leggi, i numeri, le potenze del ritmo mediante cui necessariamente l'Uno esiste, mediante cui l'Uno in sé discorre, rispecchiandosi in ciascun numero, 254 www.scribd.com/Baruhk   in ciascun dio, dagli dèi intelligenze agli dèi astri, alle anime specchi di quegli astri e cosi via, in un depotenziamento che è tale prospetti- camente, ma che nell'Uno-tutto è concentrazione di assoluta potenza. Filosoficamente, allora, si può, traducendo il tutto in termini matema- tici e geometrici, ricostruire da un lato mediante linee e figure, dal- l'altro lato mediante proporzioni i necessari rapporti, la fatale catena che il tutto lega necessariamente. Sotto questo aspetto, magia e astro- logia, se condotte su di un piano matematico-geometrico, sia pure nella difficoltà dei calcoli e nei possibili errori, sono scienze esatte. Solo che al calcolo, alla ricostruzione delle proporzioni, sfuggirà sempre da un lato l'unità vivente, la sintesi costituente l'unità dialettica di ogni triade, dall'altro lato sfuggirà la molteplicità della vita, la dispersione delle potenze nel fluire della materia, il segno divino, sia pur depotenziato, che si specchia in questa o quella cosa dispersa. Se, relativamente all'Uno, i limiti, le determinazioni sono via ·via, entro l'Uno, un allontaiJ-amento e una separazione delle potenze, in un conseguente rispecchiarsi e riflettere sempre piu opaco, sino alla fluidità della materia, il ritorno all'Uno delle anime sarà possibile ricomponendo quella dispersione, rifacendola una nell'Anima. Da un lato, dunque, il ritorno all'unità lo si può avere in una ricomposizione della molteplicità nell'unità, rintracciando l'unità-molteplicità per via geometrico-numerica, in una sistemazione che, tuttavia, pur cogliendo le proporzioni e i legami che articolano il tutto nell'Uno, rimane sem- pre un sistema, diciamo cosi, esterno, disegnato; dall'altro lato, invece, il ritorno all'unità, cogliendone la vita, cioè l'unità vivente non piu solo esteriormente ma interiormente, si ottiene per altra via, che non è quella logico-matematica, che, se coglie il sistema esteriormente, non ne afferra la vita né salva l'anima una nell'unità divina. Per questa seconda via, cui pur si giunge attraverso la prima, l'anima rifà proprie le potenze disperse e rintraccia i segni opachi, operando sulle cose, riconducendole a sé, e con ciò riconducendo sé sotto il segno di una potenza superiore; immedesimandosi in essa, l'anima torna all'Uno e in esso e con esso diviene libera per la stessa necessità dell'Uno onni- potente. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Giamblico ponga la ricerca su due piani integrantisi: il piano della ricerca geometrico- aritmetica che coglie la struttura estrinseca e intellettuale della realtà, e che ha una sua funzione protrettica e necessaria per avviare ad oltre- passare il sistema, a rifare propria la vita e il senso della realtà; in ogni cosa rintracciando il suo segno, in una concentrazione di potenze evocanti, per imitazione, la relativa superiore potenza. Ed è questo il piano della magia e della teurgia, della "filosofia," intesa appunto 255 www.scribd.com/Baruhk   come scienza che coglie il mistero della vita, e come dominio, nella comprensione del tutto vivente, di tutte le cose. In tale senso Giam~ blico rovescia il rapporto magia-teurgia-riti'e filosofia di Porfirio; il rapporto viene ad essere l'opposto: l'aritmetica, la geometria, la filo- sofia come rintraccio del discorso della realtà (logica) sono il presup- posto della piu vera "filosofia" che è la teurgia e la magia astrologica. "Non è il pensiero," si legge nel De mysteriis, andato sotto il nome di Abbamone, ma attribuito da Proclo e da Damascio a Giamblico, "non è il pensiero che congiunge i teurgi agli dèi; perché allora che cosa impedirebbe ai filosofi contemplativi il godimento dell'unione teurgica con gli dèi? Le cose non stanno cosf: l'unione teurgica si raggiunge soltanto grazie all'efficacia degli atti ineffabili, compiuti nel modo adatto, atti che superano ogni comprensiQne e grazie alla potenza dei simboli indicibili, compresi unicamente dagli dèi... Senza nessuno sforzo intellettuale, da parte nostra, i simboli (auv&/j!J.OtT«, synthèmata), per virtu loro compiono l'opera che è loro propria" (De myst., 96, 13 Parthey). Che, d'altra parte, la teurgia di Giamblico non consista nella volgare credenza nelle oscure capacità del mago di costringere gli dèi e le forze occulte al proprio volere, ma rientri nell'àmbito della magia plotiniana, per cui è l'anima che ritornando in se stessa domina sé fuori di sé, in sé e nelle cose concentrando le potenze disperse, per cui rintraccia la superiore potenza; rifacendosi ad essa simile, onde piuttosto - attraverso le tecniche teurgiche - l'anima viene chiamata dal proprio dio, ciò è chiaro nel seguente testo del De mysteriis. A Por- firio, il quale aveva sostenuto che le XÀ~ae:tç (klèseis, invocazioni) dei teurgi, le preghiere con cui si attira su di sé la luce divina (De myst., 40, 17) sono atti di costrizione che implicano che gli dèi 'siano passibili (t!L7tat&dç, empathèis) come i dèmoni, Giamblico risponde che non è vero. Gli dèi non si lasciano affatto violentare, ma è l'anima che puri- ficandosi, che rientrando in sé domina sé malvagia, dispersa, il dèmone, e che facendosi simile al proprio dio è, in effetto, da lui chiamata: Che ciò di cui ora parliamo sia salutare all'anima, lo dimostrano i fatti stessi, con evidenza. L'anima, infatti, quando contempla i felici spettacoli, acquisisce una nuova vita e opera in virtu di un'arcana forza, si che nep- pure piu sembra, giustamente, un uomo. Spesso anche, avendo respinto la propria vita, l'anima ha ricevuto in cambio la infinitamente beatifica forza degli dèi. Se, dunque, l'ascesa ottenuta con le nostre preghiere procura ai sacerdoti la purifìcazione dalle passioni, la liberazione da questo mondo. l'unione alla fonte divina, come dire che tutto questo implica una passività degli dèi? Non è vero che queste specie di invocazioni attraggano con la forza gli dèi impassibili e puri nel passivo e impuro mondo; al contrario, tale ascesa fa di noi, che a causa della generazione siamo nati passivi, esseri 256 www.scribd.com/Baruhk   puri ed immobili (De myst., I, :12, 41, lO sgg.: cfr. in Festugière, La Révc· lation, cit., III, pp. 173-4). Aveva detto Plotino: Io credo che gli antichi saggi [ot 7tilÀocL (J6(jlOL: gli esperti dell'arte sacra], che, nel desiderio di avere tra loro presenti gli dèi, drizzarono templi e statue, mirando alla natura dell'universo, intuirono nel loro spirito che l'Anima si lascia facilmente attrarre dappertutto, ma che sarebbe stata la piu facile di tutte le cose trattenerla addirittura, qualora l'uomo avesse costruito qualcosa di affine e impressionabile, atto ad accogliere una qualche parte di anima. Ma impressionabile è, appunto, l'imitazione - comunque riuscita - la quale, proprio come uno specchio, sa rapire almeno un po' di figura (Enn. IV, 3, 11). Dirà Proclo: Gli antichi saggi, riferendo una cosa di quaggiu a un essere celeste, un'altra a un altro, portavano le potenze divine fino alla nostra dimora mor- tale, attirandole mediante la somiglianza, perché la somiglianza è abbastanza potente da collegare gli esseri gli uni agli altri... I maestri dell'arte ieratica [teurgi] hanno scoperto, in base a quello che avevano sott'occhio, il modo di onorare le potenze superiori, mescolando taluni elementi, e altri togliendone in misura appropriata. Se mescolano è P<:rché hanno osservato che ognuno degli elementi separati possiede qualche proprietà del dio, ma non basta per evocarlo; cosi, mescolando un gran numero di elementi diversi, uniscono le forze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono un corpo unico simile all'unità precedente la dispersione dei termini. Cosi fabbricano spesso, con tali mescolanze, delle immagini e degli aromi, impastando in un medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo artificialmente tutto quello che la divinità comprende in sé per essenza, riunendo la molteplicità delle potenze che, separate, perdono ognuna la propria efficacia, e che, invece, riunite, si combinano per riprodurre le forma del modello (in Bidez, Catalogues des manuscrits a/chimiques grecs, VI, Bruxelles, 1928, p. 139: cfr. Festugière, lA Rével., cit., I, Parigi, 1944, pp. 134 sgg.; anche Garin, Le elez. e il probl. dell'astr., cit., pp. 19 sgg.). Tra Plotino e Proclo v'era stata l'opera e l'insegnamento di Giam- blico, la sua interpretazione degli Oracoli caldaici (commento agli Oracolt) e il significato da lui dato alle tecniche e alle pratiche teur- giche, alla filosofia'Come mistero (De mysteriis), con cui si compie, in senso plotiniano e porfiriano, quella "conversione" dell'anima su se stessa (si confronti anche di Giamblico il trattato sulle varie conce- zioni intorno all'anima: De anima) con cui avviene, oltre la ragione, I"unione mistica, e a cui per altro si giunge attraverso una prima siste- 257 www.scribd.com/Baruhk   mazione dei rapporti mediante i quali il tutto si articola in unità, e che consiste in una traduzione del tutto in termini geometrici e nume- rici, in un cogliere la numerabilità dei numeri delle cose. Giamblico proclamò se stesso pitagorico e teurgo· ·sostenendo che, appunto, la divina dottrina di Pitagora serve da introduzione alla filosofia, che la filosofia deve usare lo stesso metodo della matematica, attraverso i cui simboli si arriverà a cogliere, oltre la ragione, il mistero della vita (cfr. in tal senso il De vita pythagorica, il Protrepticus ad Philosophiam, e le tre opere matematiche attribuite a Giamblico: De cotnmuni mathe- matica scientia, In Nicomachi arithmeticam introductionem, Theolo- gumena arithmeticae). Plotino, Porfirio, Amelio (non si scordi ch'era etrusco e che in Etruria sviluppatissime erano le tecniche vaticinatorie) hanno costituito tre linee (Plotino, Porfirio, Amelio-Giamblico) interpretative del tutto, che, ora intrecciandosi ora separandosi, a seconda che si sia puntato di piu o di meno sul momento mistico-irrazionalistico e operativo (Amelio-Giamblico), o sul momento dell'anima come "coscienza" (Porfirio), hanno dato luogo a problematiche e a soluzioni diverse sia sul piano teoretico (visivo-contemplativo, relativamente al rapporto Uno-Intelletto), sia in funzione di questa o di quella "visione," sul piano dell'interpretazione .di certi testi di Platone, considerato in fun- zione di questa o di quella interpretazione del platonismo. Troppo scarsi sono i frammenti che possediamo delle opere degli immediati discepoli di Giamblico e dei seguaci di questi ultimi per potere determinare correnti precise, precise delineazioni di quelli che furono i "neoplatonismi" tra Giamblico ("neoplatonismo" siriaco, proseguitosi, "dopo Giamblico, con Sopatro di· Apamea e Dexippo; di Pergamo di cui fu caposcuola Edesio, discepolo di Giamblico; di Cap- padocia, con Eustazio), e il neoplatonismo rinnovatosi nella scuola di Atene con Plutarco di Atene {Iv-v sec.) e, attraverso Siriano e Dom- nino, culminato con Proclo (v sec.), e rinnovatosi nella scuola di Ales- sandria con Ierocle di Alessandria, discepolo di Plutarco. Certo, Eunapio (Iv-v sec.), autore di una serie di Vite di 23 sofisti e filosofi (Vita sophistarum), la maggior fonte per le biografie dei neoplatonici, pur propendendo per l'aspetto magico-teurgico di origine giamblichea, sot- tolinea che già tra i primi discepoli di Giamblico e di Edesio, alcuni ne avrebbero criticato il preponderante motivo della teurgia, divenuto in alcuni vera e propria ciarlataneria, trucco, teatralità. Eunapio, for- matosi nell'ambiente neoplatonico dei discepoli di ·Edesio, che, seguace di Giamblico, apri una scuola a Pergamo, dice appunto che secondo Eusebio di Mindo - vissuto nel IV secolo e del quale sappiamo che fu 258 www.scribd.com/Baruhk   discepolo di Edesio in Pergamo - la magia praticata da certi suoi condiscepoli è, in realtà, cosa da "squilibrati, che pervertitamente stu- diano certi poteri, che derivàno dalla materian e che in particolare bisogna tenersi alla larga - e cosi consiglia il futuro imperatore Giu- .liano - da quel "teatrale taumaturgo,n che è il teurgo Massimo di Efeso (cfr. Eunapio, Vit. soph., 474 sgg. Boissonade). Massimo, vissuto nel rv secolo, fu discepolo di Edesio, a Pergamo, insieme a Eusebio di Mindo, a Crisanzio - celebre P<:r la sua vita ascetico-mistica, - a Prisco, poco piu di un nome (per tutti cfr. Eunapio, Vit. soph.). Giu- liano non ascoltò Eusebio di Mindo e si rivolse, invece, proprio a Massimo di Efeso (cfr. Giuliano, Epist., 26), chiedendo a un tempo a Prisco di procurargli un Commento agli Oracoli caldaici di Giam- blico: "Sono avido di Giamblico," scrive Giuliano, "per la filosofia e del mio omonimo [cioè Giuliano, autore degli Oracoli caldaici] per la teosofia : gli altri, in confronto, non li considero affatto n (Epist., 12 Bidez). Sappiamo, per altro, che, quando Giuliano divenne Imperatore (361-363), e, com'è noto, tentò, di contro al prevalere della Chiesa cri- stiana, ufficialmente riconosciuta, di opporre alla religione cristiana una ideologia universalistica imperiale che salvasse l'Impero dall'essere assorbito dalla Chiesa, Giuliano nominò Crisanzio supremo sacerdote della Libia e fece di Massimo il proprio consigliere teurgico. Alla morte di Giuliano, Massimo fu perseguitato dalla reazione cristiana, tanto che si riusd a farlo condannare a morte sotto l'imputazione di avere cospirato nei confronti degli Imperatori (371). Se Crisanzio, Prisco e particolarmente Massimo hanno portato, come sembra, ad estreme conseguenze la funzione della teurgia e della demo- nologia, approfondendo, come risulta anche da Proclo, lo studio delle tecniche e delle pratiche teurgiche, i modi con cui evocare le divinità, e con cui operare sulla natura, i modi con cui richiamare nelle cose e negli uomini le potenze divine, suscitando nell'uomo l'esperienza di convertire sé nell'unità vivente del tutto, di sdoppiarsi e ricomporsi negli "spiriti,n nulla di preciso possiamo dire del loro maestro Edesio di Cappadocia, di cui sappiamo solo che fu discepolo di Giamblico ad Apamea e che poi insegnò a Pergamo (di qui la cosiddetta scuola neo- platonica di Pergamo). Demonologo e teurgo fu un altro discepolo di Giamblico, Eustazio di Cappadocia, che, dopo avere ascoltato ad Apa- mea Giamblico, tornò ìn Cappadocia ove apri una scuola (egli fu invi- tato da Giuliano imperatore alla propria corte: Epist., 76). Continua- tore diretto di Giamblico fu Sopatro di Apamea. Di lui poco o nulla sappiamo, se non che fu divulgatore di Giamblico, che scrisse un'opera Sulla provvidenza e su coloro che hanno fortuna o sfortuna oltre il merito, e che dapprima in rapporti con l'imperatore Costantino fu poi 259 www.scribd.com/Baruhk   fatto condannare a morte da Costantino, in Costantinopoli (Sopatro dovette quindi morire prima del 337). Tra i primi discepoli di Giam- blico fu Teodoro di Asine, che, in Roma, aveva ascoltato anche Por- lirio. Del "grande Teodoro" (Proclo, In Tim., 341 d) Proclo riferisce che fu soprattutto un interprete e un commentatore di testi platonici (Timeo, Repubblica, Pedone: cfr. Proclo In Tim., In Remp.; Olim- piodoro in Phaedon; secondo Ammonio di Ermia, Teodoro avrebbe commentato anche gli Analitici di Aristotele: Ol4npiodoro, Sugli Ana- litict), considerati al lume della ricostruzione triadica di Amelio e di Giamblico, nel tentativo di offrire, per via allegorica, un tutto com- piuto ove trovassero posto le piu diverse esperienze religiose, nei ter- mini già illustrati da Porfirio. Per la discussione,. interna alle scuole sul numero dei demiurghi, da Amelio a Porfirio a Giamblico e a Teodoro, discussione che indica l'approfondimento dialettico della que- stione relativa al porsi dell'Uno e delle ipostasi, e che ebbe una forte influenza sull'analoga questione discussa in seno al Cristianesimo sul- l'unità-e trinità di Dio e sul rapporto tra Dio e le tre persone (non a caso dette, ad esempio, da Basilio il Grande ipostast), si confronti Proclo In Timaeum, 333-334. Particolarmente interessante, invece, per la storia delle interpretazioni delle Categorie aristoteliche il Com- mento alle Categorie di Dexippo, vissuto nel IV secolo, discepolo di Giamblico, in cui Dexippo, spiega dialogicamente a un certo Selemco il significato delle categorie, sostenendo, di contro a Platino e seguendo Porfirio, che le categorie hanno un valore formale e servono per intro- dursi a cogliere la dialetticità dell'Essere in senso plotiniano.Arnobio e LAttanzio. Costantino. Seguito o combattuto, inter- pretato sotto un certo angolo visuale (la questione del rapporto tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) o sotto altro aspetto (particolar- mente quello della grazia e della redenzione), condannato per certe sue dottrine, considerate poi "eretiche" (l'apocatastasi, la subordina- zione del Figlio al Padre, l'Evangelo Eterno, o la esasperata interpreta- zione allegorica delle Sacre Scritture), o seguita la sua autorità in una interpretazione del Cristianesimo itt chiave neoplatonica, certo è che l'opera di Origene ha costituito uno dei perni su cui verranno ruo- tando le ulteriori elaborazioni, discussioni, sistemazioni della conce- zione cristiana. Senza dubbio, per altro, Origene, sia per la sua grande cultura nel campo classico come nel campo dell'esegesi biblica, ~ia per la sua capacità di avvertire i problemi, ha messo in chiaro quelli che erano i dubbi, le aporie, le difficoltà del Cristianesimo nel suo piu maturo incontro con le piu mature concezioni greche, mostrando ad un tempo i punti in cui l'accordo poteva precisarsi e i punti in cui il Cristianesimo si presentava come un'esperienza e una concezione irri- ducibili al metro della concezione classica. Sotto questo aspetto l'op..:ra di Origene, morto a Tiro nel 255, in seguito alle torture sofferte durante la persecuzione di Decio, serve anche a comprendere la pro- blematica, le aporie, le discussioni sul significato del Cristianesimo, che rintracciamo in opere, maturatesi al di fuori della diretta influenza di lui, ma non certo del neoplatonismo diffusosi nel mondo latino, non solo per la permanenza di Plotino in Roma, ma anche attraverso i diretti discepoli latini di Plotino. E qui pensiamo agli scritti degli afri- cani Arnobio e Lucio Cecilio Firmiano, soprannominato Lattanzio. Sotto questo aspetto, la curiosa opera di Arnobio/1 nato nel 255-260, il Nato a Sicca, nella Numidia (Africa proconsolare) tra il 255 e il 260, Arnobio fu maestro di retorica a Sicca per lunghi anni. Oratore famoso per la sua avversione al Cristianesimo, non poco stupl gli ambienti cristiani d'Africa la sua improvvisa con- 272 www.scribd.com/Baruhk   a Sicca, nell'Africa romana, I'Adversus Nationes (in sette libri, "lucu- lentissimi libri adversus pristinam religionem," composti dopo il 297), ha un notevole significato storico, pur nella sua tortuosità, nel suo faticoso andamento, nella sua mancanza di idee chiare sul piano dot- trinale-teologico, ebraico e cristiano. Arnobio, di famiglia non cristiana, rètore di fama e professore di retorica a Sicca, noto, in campo cri- stiano, per la sua ·dichiarata avversione nei confronti del Cristiane- simo, sembra, secondo il racconto di San Gerolamo (De viris ili., 79), che sia improvvisamente passato alla nuova religione. La conversione - si dice - fu dovuta a un/ sogno che lo illuminò sul significato della nuova concezione. Anche se il sogno è un aneddoto ed è simbolico, rivela che la tesi esplicata da Arnobio nella sua opera, cosi violenta, sino a divenire ingiusta, contro la filosofia e le religioni "antiche," su cui, d'altra parte, Arnobio dimostra di essere preparatissimo, ignorando, in- vece, le Sacre Scritture, è che la "conversione" non è frutto di insegna- mento, non è dimostrazione di una certa verità che convinca di errore, ma è dovuta ad un atto gratuito, miracoloso, extraumano. Arnobio scrisse I'Adversus Nationes per convincere il vescovo di Sicca che, diffidando della sincerità della sua conversione, era in dubbio se accoglierlo o no nella Chiesa. Ciò, evidentemente, indusse Arnobio a respingere con vio- lenza, in blocco, tutta la cultura classica, le antiche concezioni, senza uscire fuori da quella cultura e da quelle concezioni, usando anzi - egli rètore e dotto delle varie ipotesi e tesi della filosofia classica e delle varie forme religiose, ignorante della tradizione ebraico-cristiana - quelle stesse tesi e ipotesi in senso fiegativo per mostrarne la contradditto- rietà, l'insufficienza a dare un senso alla vita, l'illusione che all'uomo sia concessa una funzione nell'ordinamento del tutto. E qui s'innesta il significato piu profondo dell'opera di Arnobio: il suo pessimismo sull'uomo, "questa cosa infelice e misera, che si duole di essere, che detesta e piange la sua condizione e non intende di essere stato creato per altro, se non per diffondere il male e perpetuare la sua miseria" (Il, 46). Se anche l'uomo non ci fosse, il mondo resterebbe ugual- mente quello che è: Gli uomini in che cosa giovano al mondo e perché mai sono indispen- sabili?... Aggiungono qualche parte alla formazione della pienezza di questa mole e, se non fossero stati aggiunti, l'universo sarebbe forse zoppicante e versione (avvenuta nel 295-296 circa, a causa eli un sogno). Il vescovo di Sicca, per pru- denza, temendo una finzione, resistendo alle preghiere del convertito, non volle sulle prime ammetterlo tra i catecumeni. Arnobio, allora, a prova della sua sincerità, scrisse i sette libri dell'Adversus Nationes, compiuti nei primi anni del JV secolo, che prende le moS>e dalla critica a un recente libro del neoplatonico Cornelio Labeone, sostenitore dell'antica religione. Secondo San Gerolamo, Arnobio sarebbe morto nel 327. 273 www.scribd.com/Baruhk   imperfetto? E che, .forse se non ci fossero gli uomini il mondo verrebbe meno ai suoi doveri e le stelle non compirc;bbero il loro corso, non vi sareb- bero piu estati e inverni, cesserebbero i soffi dei venti, né dalle nubi conden- sate e sovrastanti cadrebbero le pioggie per portare refrigerio alle aridità? (Il, 37). Ontologicamente inutile, l'uomo è anzi una scheggia nella econo· mia dell'Universo, un essere orgoglioso, malefico e maligno, dedito solo a violenze e a delitti (Il, 38). Se tale è l'uomo, non solo è empio rite- nere che l'uomo sia stato creato da Dio, quel Dio che tutti ammet- tono essere il fondamento dell'ordine e della perfezione del tutto (l'uomo piuttosto dovremmo dire ch'è statQ creato da divinità infe- riori, impotenti), e illusione è credere con Platone che l'anima umana sia dello stesso genere della divinità, onde neppure si può dire che immortale per natura sia l'anima, per cui non è dato certo all'uomo ricostruire, attraverso se stesso, riconoscendo sé divino ("reminiscen- za"), le strutture su cui si scandisce il ritmo della realtà. Se davvero l'uomo fosse di natura divina, se l'essenza dell'uomo fosse un aspetto dell'essenza divina, l'uomo si annullereboe nell'umanità e l'umanità in Dio, l'uomo sarebbe, ma non esisterebbe. In realtà, certe filosofie greche (Platone, Aristotele, gli Stoici) risolvendo. tutto in Diq negano l'esi- stenza dell'uomo. Di fatto l'uomo esiste.e la sua esistenza implica ch'egli è limite, male, e che il suo esistere si risolve tutto, come vuole Epicuro, entro l'arco dello stesso esistere umano, e perciò, sotto questo aspetto, la vita umana non ha alcun senso, nessun fine, non serve a nulla, ogni costruzione filosofica dell'uomo si risolve in una ipotesi puramente umana. Limite e determinazione, corporeità, l'uomo non può essere che coscienza del limite; egli è perciò sensazione ed ogni sua cono- scenza non può non basarsi perciò che sulle sensazioni (II, 20), per cui all'uomo non è dato oltrepassare le proprie costruzioni, rimanendo sempre come distaccato dal tutto, costituendo un mondo a parte, un mondo di limiti, di chiusure, di affermazioni, un mondo senza spe- ranza. Inesistente l'uomo nelle concezioni platonico-neoplatoniche; senza senso, mortale, annullato nel suo stesso apparire, l'uomo nelle conce- zioni epicuree; illusioni e costruzioni umane gli dèi, le credenze delle religioni; ben disperate, tristi, si rivelano, attraverso le stesse filosofie e religioni, la situazione e la condizione umane. Volete deporre la vostra connaturata superbia, voi che presumete di avere quale padre Dio e che sostenete di dividere con esso l'immortalità? Volete indagare che cosa mai siete voi, da chi siete nati, cosa fate nel mondo, perché mai siete venuti alla vita?... Non siamo simili agli altri animali? Siamo anche noi formati di ossa e di nervi, respiriamo con le narici l'aria, siamo distinti 274 www.scribd.com/Baruhk   in sessi, come gli animali veniamo fuori dall'alveo materno. Ci sosteniamo con cibi, ed emettiamo il superfluo dalle parti inferiori, andiamo incontro a malattie e a morte! (II, 16). Se gli uomini avessero conosciuto intimamente se stessi, mai avrebbero presunto di possedere una natura immortale e divina,... mai, sollevati dalla superbia e dall'arroganza, si sarebbero creduti primarie divinità uguali a Dio, solo perché hanno escogitato la grammatica, la musica, l'oratoria e le formule geornetriche (II, 19); noi che nasciamo dai genitali femminili, che emettiamo senza posa inutili vagiti, che succhiamo poppando mammelle, che ci copriamo e c'insoz.z:iamo delle proprie sporcizie... (II, 39). L'insistenza di Arnobio sull'uomo nullità, bruttura, limite, è dovuta al senso tragico della vita, proprio del pensiero greco, del cosiddetto pessimismo greco, per il quale, almeno in certe posizioni di fondo, c'è Dio, c'è l'ordine, il tutto è razionalmente costituito, ma in realtà non c'è l'uomo. E quell'uomo dipinto in si fosche, deprimenti tinte da Arnobio, entro i termini della sua formazione non cristiana, è la con- clusione tragica del pensiero greco sull'uomo, di quell'aporia sull'uomo, che se è tutto è nulla e se esiste è ugualmente nulla, limite, male, non essere. Proprio tale rivelazione, tale consapevolezza .della sciagurata posizione dell'uomo, dà a un uomo di cultura greca come Arnobio il significato nuovo dato all'uomo dal Cristianesimo, in cui, se mai, non c'è Dio - Dio si pone come fede e speranza, e la sua presenza è rive- lazione, da parte sua, della sua mancanza -, ma c'è l'uomo, nella sua situazione tragica, ma anche, ad un tempo, nella sua possibilità, attra- verso il Cristo, d'essere uomo reale e concreto, persona. È appunto tale rivelazione di quello che l'uomo è per natura, sganciato dal tutto nel suo esistere - non a caso le cupe e orripilanti parole sull'uomo che nasce nel sangue e negli escrementi, che è bruttura e malattia, ritorne- :anno sempre qualora si punti sull'uomo sganciato dalla grazia e dalla ·ivelazione, dimentico di Cristo: e qui pensiamo, ad esempio, al De :ontemptu mundi di Innocenzo III, di cui alcune pagine sembrano ·icalcate da Arnobio - è tale consapevolezza che dà· un senso alla fede :ristiana. Ecco perché dicevamo che per comprendere Arnobio (e non 1olo Arnobio, ma la piu profonda ragione del passaggio di molti al :ristianesimo, in cui si salva l'uomo; "la novità ch'esso portava con ;é era la liberazione della personalità," è stato detto, "incatenata :lalla religione e dalla morale dello Stato, che in sé riassorbiva e per- :leva l'uomo": cfr. Kovaliov, Storia di Roma, Il, trad. it., Roma, L9SS, p. 236) bisognava tener presente la rielaborazione origeniana sulla paradossale situazione umana. L'uomo non è natura: l'esistenza umana, ~on cui l'uomo assume una sua natura è frutto di un atto di volontà, ~ determinazione dovuta a un atto di libertà, che chiude l'uomo a qual- >iasi altra possibilità, rendendolo quello che è: male e limite, insignifi- 275 www.scribd.com/Baruhk   cante, inutile, scheggia e rottura del perfetto ordine del tutto in Dio; egli uomo male e limite, e non l'Universo, natura una in Dio, in sé buona. Rompere contro il male, dunque, è rompere contro la propria natura. Solo che tale consapevolezza, essendo essa stessa contro natura, non è piu umana, è dovuta a un atto innaturale e perciò extraumano, divino, a un atto della volontà divina che vuole salvare l'uqmo. Tale la forza del messaggio cristiano, tale la rivelazione del Cristo, venuto a salvare l'uomo, o meglio a restituire l'uomo a se stesso. Entro questi termini sembra chiaro in che consista il senso da un lato del pessi- mismo di Arnobio, l'accusa di Arnobio nei confronti di tutta la con- cezione greco-romana, dall'altro lato, indipendentemente da ogni impal- catura teologico-cristiana, della sua conversione al Cristianesimo, .che offriva la salvazione dell'uomo non come concetto, ma nel suo esserci reale, nella sua responsabilità morale. Non a caso cosi, riprendendo un motivo proprio della polemica cristiana (cfr. San Giustino), Arnobio sostiene che l'anima non è né immortale (come vorrebbe Platone: cfr. Il, 14), né mortale (come vorrebbe Epicuro: cfr. Il, 30), ché nel- l'uno e nell'altro modo negheremmo l'uomo. La mortalità e l'immor- talità sono dovute a Dio, a seconda se l'uomo, una volta riscattato dal Cristo, abbia saputo o no essere responsabile di se stesso. Opposta alla posizione di Arnobio sembra la posizione di Lucio Cecilio Firmiano,7 detto Lattanzio, africano della Numidia, ch'ebbe, a Sicca, Arnobio, maestro di retorica, soprattutto per la sua esaltazione dell'uomo, centro dell'universo, microcosmo, che non poco risente degli scritti ermetici, particolarmente dell'Asclepio, citato e discusso da Lat- tanzio sotto il titolo L6gos telèios (Sermo perfectus). In Arnobio ciò che piu colpisce è la negazione della concezione classica, che nelle sue conclusioni porta l'uomo alla disperazione, donde il passaggio alla tesi del Cristianesimo sull'uomo nulla, male, limite, in quanto esistenza che 7 Lucio Cecilia Firmiano, detto Lattanzio, nacque in Numidia, . presso Sirta, o Mascula, nel 260 circa. Compiuti gli studi retorici a Sicca sotto Arnobio, divenuto oratore di grido, insegnò prima retorica in Africa, poi, chiamatovi da Diocleziano, a Nicomedia (dal 300 circa). Convertitosi al Cristianesimo nel 302, quando nel 303 ebbe inizio la persecuzione contro i Cristiani, Lattanzio abbandonò la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita privata e dal 305 (in tale anno appare ancora a Nicomedia) sparendo dalla circolazione. Nel 303-304 Lattanzio scrisse il De opificio Dn (opera assai prudente), tra il 305 e il 311 compose i sette libri delle lnstieutiones dit~intU, dedicate, quando furono compiute, all'Imperatore Costantino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne precettore dopo il 313, in Gallia, a Treviri, dove soggiornò certo fino al 320 (ogni traccia di lui si perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione, composti, sembra, tra il 311 e il 317, sono il De ira Dei, il De mortibus persecutorum e una Epitome delle Istituzioni. A Lattanzio è, infine, attribuito (si dubita che sia di lui) un breve poema Sulla Fenice (De fltle Phoenice). 276 www.scribd.com/Baruhk   è peccato; tutto, centro morale, responsabilità, possibilità di volersi mor- tale o immortale in quanto redenzione. In Lattanzio, nel suo tentativo di offrire, da quel buon professore di retorica ch'era stato, il manuale della concezione cristiana nel suo insieme - non a caso·l'opera sua maggiore va sotto il titolo di lnstitutiones divinae, - ciò che piu col- pisce è la sistemazione in unità dei piu vari motivi, 3:nche opposti e in contrasto, che separati, in fermento, s'erano venuti maturando tra platonici e cristiani nel corso del II e del m secolo, e dove il signifi- cato e la funzione dell'uomo vengono veduti in rapporto all'economia dell'universo e di Dio, interpretando la soluzione neoplatonica, in chiave cristiana. Le ragioni della conversione di Lattanzio sono molto piu semplici e piane che non quelle drammatiche di Arnobio. Le ragioni delle filosofie - in realtà del neoplatonismo e di Platone, quest'ultimo filtrato attraverso Cicerone - trovano il loro fondamento e criterio nelle ragioni della fede cristiana. Le religioni del passato non hanno alcun fondamento logico; la sapienza, basandosi su se stessa, non può non sfociare se non in una posizione di problematicità, nel "proba- bile" ciceroniano. Il conflitto tra i due termini si risolve nell'accetta- zione di una tesi in cui le "ragioni" dei filosofi trovano il loro fon- damento nella ragione rivelata da Dio, in cui, per altro, consiste la vera religione. "A nessuna religione si giunge senza sapienza, solo che nessuna sapienza è tale se non si fonda sulla religione" (lnst. div., I, 1). "La religione consiste perciò nella sapienza e la sapienza nella reli- gione" (IV, 3). La religione, in quanto sentimento di dipendenza da un essere supe- riore, cui ci sentiamo legati, implica, come appare dalla religione cri- stiana, come, per bocca dei suoi profeti, e degli oracoli sibillini, ha rivelato lo stesso Dio, un Signore unico da cui tutto dipende, che a tutto provvede (basta alzare gli occhi al cielo, dice Lattanzio, I, 2, secondo il vecchio luogo comune, per rendersi conto che tutto è prov- videnzialmente ordinato). E uno solo ha da essere tale Dio e Signore, mette in evidenza Lattanzio, sottolineando che perciò false religioni sono quelle politeistiche (cfr. I: De falsa religione), ché altrimenti, ammettendo piu Signori o dèi dovrerpmo ammettere che tale Dio non è autentico Signore, non ha la potenza di reggere tutto; non solo, ma piu dèi verrebbero in contrasto tra di loro, mentre già la funzione che in ciascuno di noi ha l'anima di reggere in unità la molteplicità delle nostre membra e i vari aspetti delle nostre funzioni, dimostra che Dio, ciò da cui tutto dipende e che il tutto guida, non può non essere che uno (I, 3). Se tale è la religione, la sapienza che ritenga fondarsi sulle proprie forze, rinnegando giustamente le insipienti fantasie delle religioni, 277 www.scribd.com/Baruhk   rimarrà oscillante, porrà ipotesi, tutte possibili, in quanto, appunto, resta sganciata dal suo stesso fondamento, che è la fede, la rivelazione di Dio (cfr. II, De falsa sapientia, e III, De origine erroris). E allora, se unica è la fonte della religione e della sapienza, cioè l'unico Signore c padrone (religione, per cui dobbiamo dirci servt), da cui tutto di- pende, che, rivelatosi, rende conto delle sue stesse ragioni (sapienza, per cui dobbiamo dirci figli, simili alla ragione di Dio, che è il suo stesso figlio e l6gos), si capisce come Lattanzio sostenga che la sapienza ha da fondarsi sulla religione e la religione ha da essere illuminata dalla sapienza, e che, perciò, religione e sapienza, separatesi nel tempo, con la caduta, debbono ricongiungersi, e tale è il messaggio del Cri- stianesimo, la verità cristiana, per cui il Cristianesimo è una religione filosofica: o una "pia filosofia" (cfr. IV, De vera sapientia). Da tutto questo chiaramente appare che sapienza e religione debbono essere congiunte tra di loro. La sapienza riguarda i figli, ed esige l'amore; la religione i servi, ed esige il timore. Come quelli, infatti, debbono amare ed onorare il padre; cosi questi debbono curare e temere il padre. Dio, quindi, che è uno, poiché ha in sé l'una e l'altra persona, quella del padre e quella del figlio, lo dobbiamo amare poiché siamo figli e temere poiché siamo servi. La religione, dunque, non può essere separata dalla sapienza, né la sapienza può essere distinta dalla religione, perché unica cosa è Dio, il quale dev'essere compreso, il che appartiene alla sapienza, ed onorato, il che appartiene alla religione. La sapienza_vien prima, la religione segue: in primo luogo si deve conoscere Dio, in secondo luogo onorario. E cosi una sola pPtenza è in due nomi, sebbene sembrino diverse. L'una, infatti, è posta nel senso, l'altra nell'azione; in realtà sono simili a due fiumi, scaturienti da una sola fonte. Fonte della sapienza e della religione è Dio, al quale questi due fiumi, se si sono divaricati, è necessario ritornino; coloro che ignorano Dio, non possono essere né sapienti né religiosi. E cosi avviene che i filosofi e coloro che venerano gli dèi sono simili o ai figli dissidenti, o ai servi ·fug- gitivi, poiché né quelli cercano il padre, né questi il padrone... (IV, 4). La tesi apologetica di Lattanzio è molto precisa. Egli da buon retore ciceroniano sa a chi si rivolge, conosce le esigenze di un certo pubblico, particolarmente angosciato dal problema del destino del- l'uomo, deluso dalle risposte della filosofia, e che, invece, poteva tro- vare risposta nella tesi cristiana: l'essenziale, esclama non a caso Lat- tanzio, non sta tanto nelle dimostrazioni dialettiche, ma nel sapere in che modo ci convenga vivere, nel saper dare una risposta alla do- manda: perché nasciamo, perché viviamo? (cfr. III, 7, 1-2; III, 12, 1). Le ragioni della ragione trovano il loro fondamento nella fede. La scienza in quanto conoscenza dell'essere, mediante cui dare un senso alla nostra vita, non sarebbe tale, "scienza," se non trovasse un suo 278 www.scribd.com/Baruhk   criterio. L'uomo, per sua natura, in quanto esistente, è limite, è anima e corpo, chiusura. All'uomo in quanto tale, non resta, sf come è dimo- strato da Platone e da Cicerone (il Platone di Lattanzio è il Platone filtrato attraverso Cicerone), se non un'aspirazione all'essere, l'esigenza di porre l'Essere come uno; all'uomo in quanto tale non è dato oltre- passare se stesso. E allora, la coscienza che l'uomo ha di sé come con- flitto e limite, la sua stessa esigenza di oltrepassare il limite, che già lo pone oltre il limite, non può essere dovuta all'uomo naturale, ma ad un intervento di Dio. Tale la risposta ebraica (Filone l'Ebreo e la sua interpretazione di certi testi biblici, ove ancora una volta va tenuto pre- sente il ribaltamento del concetto di "sapienza" secondo il testo del- l'Ecclesiastico) e quella cristiana (il rivelarsi ultimo di Dio all'uomo mediante il Cristo, il L6gos di Dio, fattosi uomo, mediante cui l'uomo da anima-corpo, limite, può tornare, se vuole, a farsi simile alla ragione di Dio, ridando un senso al proprio esserci, al proprio conflitto, senza di cui non ci sarebbe ~irtt!). Gran miracolo è l'uomo, dice Lattanzio, riprendendo dall'Asclepio, citando piu volte i libri ermetici ed Ermete Trismegisto, ch'egli pone afianco dei profeti e degli Oracoli Sibillini; grande è l'uomo, perché l'uomo è specchio dell'universo, a sua volta immagine di Dio, unità vivente, in cui tutto si raccoglie in unità, perché l'uomo è simile a Dio, o meglio al figlio di Dio, al L6gos, termine medio tra l'Uno Dio ineffabile e le infinite possibilità di Dio, mediante cui assume realtà, ha un fondamento la molteplicità, una nel-· l'unità vivente di Dio. Solo che tale coscienza, per cui nell'uomo s'in- centra l'universo, tornando con ciò l'uomo simile a Dio, onde l'uomo - termine medio tra la spiritualità, tra il figlio di Dio e l'anima, limite, e il corpo, limite piu opaco - può scegliere tra l'essere simile a Dio, riconoscendo a propria guida il Cristo, o divenire ancora piu limite, sempre meno amico del re dell'Universo, tra voler essere immortale o mortale; tale coscienza, tale possibilità di rompere contro la natura, tale conflitto tra bene e male, in cui consiste la virtuosità - non vi sarebbe virtu se non vi fosse il vizio, dice Lattanzio - non sarebbe possibile senza la rivelazione di Dio, esplicitatasi mediante il L6gos di Dio, fattosi uomo (Cristo), con il quale l'uomo può reintegrare se stesso. Il sentimento di dipendenza da un solo e unico Signore e padrone (religione), rivelato da Dio, mediante i suoi profeti, e poi da Cristo, riconduce l'uomo a ritrovare nella sapienza di Dio (in senso ebraico- filoniano) il fondamento della sapienza umana, ridando all'uomo da un lato la capacità di essere virtuoso (cioè di proporsi come conflitto tra sé natura, unità di anima e corpo, limite, e sé simile al L6gos e a Dio, rompendola contro la natura, per cui l'essere immortale o mor- 279 www.scribd.com/Baruhk   tale diviene una scelta), dall'altro lato di ricomprendere in sé l'universo tutto, scoprendo in sé Dio, termine ultimo; fine del proprio destino, in una celebrazione dello stesso Dio. "Il mondo è stato fatto perché noi nascessimo; noi nasciamo per riconoscere l'autore del mondo e noi stessi, Dio; lo conosciamo per rendergli un culto; gli rendiamo un culto per ricevere l'immortalità, in ricompensa dei nostri sforzi; ecco perché in ricompensa ricevia~o l'immortalità, s( che, divenuti simili agli angeli, perpetuamente si serva il padre nostro Signore, e si costi- tuisca l'eterno regno di Dio. Tale il significato piu profondo del tutto, tale l'arcano di Dio, tale il mistero del mondo" (VII, 6). Proposta come unica soluzione alla condiziçme tragica dell'uomo concreto - disperso e abbandonato a se stesso, quale risultava, dalle concezioni greco-romane - la fede nella tesi ebraico-cristiana (del- l'uomo che si salva mediante la rivelazione di Dio, e che, per mezzo della venuta del Cristo, può ritornare, lavato dal peccato, con le sue forze, a celebrare quel Dio per il quale è stato fatto e dal quale è decaduto), Lattanzio poteva sfruttare, sul piano teoretico-teologico, i motivi del rapporto Uno-molti, Intelletto-intelligibili (L6gos), propri del neoplatonismo, particolarmente di certi testi ermetici e, per altro verso, di Filone l'Ebreo, filtrati attraverso certe interpretazioni del- l'apologetica greca. Molto abilmente c~s( Lattanzio tende a convincere, a persuadere, che l'unica verità è quella del Cristianesimo e che solo attraverso di essa si dà un senso e un perché alla vita degli uomini; senza per altro rinnegare i motivi teologico-filosofici della cultura greco- romana, che, preparatoria della rivelazione ultima, deve essere riassor- bita nel Cristianesimo, in quanto, appunto, illuminata e resa vera dalla rivelazione di Dio. Anzi, i testi ermetici, i testi neoplatonici servono ora a illuminare, a render conto della fede cristiana, rappresentano il momento filosofico della religione. Il "semidivino" ·Ermete Trismegi- sto, esclama Lattanzio, "non so in che modo ha quasi investigato la verità tutta" (IV, 9). Ermete chiarisce certi aspetti della teologia cri- stiana, il significato del Dio uno e ineffabile, anonimo, solitario, (ausa sui (che "ex se et per se ipse est": cfr. Epitome, 4), che tutto trae da sé, anche la materia, mediante il proprio L6gos, su cui si fonda la creazione di Dio, anche quella dell'uomo, fatto. a sua immagine e somiglianza, costituito di anima e corpo, e che liberandosi da se stesso, limite e deficenza, può, attraverso il L6gos, incentrare in sé l'Universo, ritornando a Dio (cfr. lnst. div., I, 6; IV, 6; Il, 8, IO; VI, 25; VII, 13, 18; per le citazioni dal corpo ermetico e dagli Oracoli Sibillini, cfr. l'edizione del Brandt, Ilb, p. 254 e pp. 258 sgg.). E cos(, ad esempio, nella spiegazione del rapporto Dio Padre e Dio Figlio, forte si sente, anche nelle immagini, l'influenza del "neoplatonismo." Uno Dio, il 280 www.scribd.com/Baruhk   L6gos non è un due rispetto al Padre, non divide l'unità sua, ché l'unità divina è vita nel suo L6gos, per cui il L6gos, conoscenza del- l'unità vivente di Dio, è la stessa sostanza di Dio, che per sovrabbon- danza emana da sé il Figlio, unico con l'unica fonte, simile a raggio che proviene dal sole, e che,' pur distinguendosi dal sole, è della stessa essenza di esso, si come la luminosità del sole è tale in quanto una con la luce che emana dal sole. Ci può, forse, chiedere qualcuno perché noi che diciamo di venerare un solo Dio, sosteniamo tuttavia due dèi, Dio padre e Dio figlio... Quando diciamo Dio padre e Dio figlio, non diciamo che siano diversi, né li distin- guiamo l'uno dall'altro. Il padre non può esser distinto dal figlio, né il figlio dal padre; né il padre può esser detto tale senza il figlio, né il figlio può essere generato senza il padre. Il padre, dunque, fa tale il figlio, e il figlio il padre. Una in ambedue la mente, uno lo spirito, una è la sostanza. Ma quegli è come una fonte esuberante, questo si come un fiume defluente dalla fonte. Dio è come il sole, il figlio è simile a un raggio scaturito dal sole; e poiché è fedele e caro al sommo padre non se ne separa, si come il rivo dalla fonte, il raggio dal sole (anche l'acqua della fonte, infatti, è nel rivo, e la luce del sole è nel raggio)... (IV, 29). In realtà, l'elaborazione teologica di Lattanzio riconduce il Cristia- nesimo al "platonismo," sia pur in una forma accessibile ai piu, ove, in conclusione, l'interpretazione del Cristo, sul piano di quel "plato- nismo," viene a togliere ogni significato alla "grazia" e alla "reden- zione," ed in cui il Cristo è, perciò, presentato piuttosto come guida e maestro che non come redentore, sanando nell'uomo piuttosto la sua capacità conoscitiva, mediante cui, ricongiungendo sapienza e religione, sarà di nuovo possibile all'uomo essere virtuoso. "Noi," afferma Lat- tanzio, aprendo le sue Istituzioni divine, "che abbiamo ricevuto il sacro mistero della vera religione, poiché la verità ci è stata rivelata da Dio, per cui lo seguiamo come dottore della saggezza e come guida verso il vero, invitiamo tutti a questo celeste convivio, senza distinzione né di età né di sesso, ché nessun altro alimento è piu dolce all'anima della conoscenza della verità" (1, l). Non poco indicativo è, cosi, da parte del rètor.e Lattanzio l'avere preso a modello del suo persuasivo discorso sulla "vera religione," tale in quanto è "vera sapienza," ornate copioseque, Cicerone. Lat- tanzio punta continuamente sull'aspetto morale del Cristianesimo, piu che su quello teologico, sulla posizione dell'uomo centro della stessa vicenda del tutto, per cui l'uomo è restituito a se stesso, è responsabile del suo destino, nella fede insegnata dal Cristo in un ordine e in una giustizia, che costituiranno nell'unità morale dei Cristiani il regno di 281 www.scribd.com/Baruhk   Dio, in un diritto naturale che si trasfigura in "diritto divino," in un'obbligatorietà al Signore supremo che diviene perciò volontaria; ciò indica con chiarezza da un lato che Lattanzio si era reso conto della piu profonda esigenza degli uomini del suo tempo, nella crisi dell'Impero, dall'altro lato che il fondamento stesso dell'Impero, la sua forza, il suo universalismo, erano oramai depositati nella concezione cristiana. Sotto questo aspetto sembra esatta la definizione data dagli umanisti di Lattanzio: "Cicerone cristiano." Come Cicerone aveva dato una filosofia ai Romani dell'ultima Repubblica, discutendo le varie ipotesi, i pro e i contra, s1 da persuadere (donde l'importanza data alle tecniche retoriche) a quell'ipotesi che secondo Cicerone sarebbe ser- vita a dare un fondamento alla res-publica, in .un rapporto umano fon- dato su di un diritto unico e universale, sp,ecchio della legge su cui si ordina il tutto, cosi ora Lattanzio, proprio rifacendosi a Cicerone (qui non tantum perfectus orator, sed etiam philosophus fuit: l, 15) ritiene di dover porre le proprie tecniche oratorie al servizio della concezione cristiana, in un copioso e ornato discorso, cbe razionalmente convinca di quella verità rivelata dallo stesso Dio, che sola dà all'uomo, a tutti gli uomini la possibilità di salvarsi. Si 'può costituire cosi, già in terra, una città cristiana, di cui il regno di Dio, che pur tuttavia non· sarà mai di questa terra, è posto come termine ultimo, ed ove Dio, Signore supremo, a sua volta vien posto come lo stesso criterio di Obbligato- rietà, il sùpremo re, che premia e che punisce. Non a caso cosi, sotto l'aspetto teologico, Lattanzio nel delineare l'unità di Dio, Padre e Signore, si rifà alle tesi ".neoplatoniche," mediante cui piu facile era convincere alla tesi cristiana dell'uomo creato da D1o a sua sorp.iglianza (già in una sua operetta, il De opificio Dei, scritta nei primi tempi della sua conversione, durante i primi anni della persecuzione di Diocleziano, Lattanzio aveva sostenuto, di contro ad Epicuro, ch'egli conosceva attraverso Lucrezio, riprendendo argomenti di Cicerone, che la considerazione sia della costituzione ·fisica, anatomica e fisiologica, sia dell'anima dell'uomo, ove tutto è 'miracolosamente volto all'unità, in cui ogni parte è in funzione del tutto, rivela la presenza di un crea- tore uno, sommamente saggio e provvidente). Mediante ciò era piu facile convincere alla tesi cristiana dell'uomo simile a Dio, che, deca- duto, ritrovando in sé il L6gos di Dio, attraverso il L6gos fattosi uomo può, se vuole, ritornare ad essere simile a Dio. Lattanzio, invece, sotto l'aspetto piu strettamente morale, di contro alla tesi sia neoplatonica sia epicurea della divinità indifferente, impassibile, nella sua perfe- zione e necessità, si rifà alla concezione ebraico-cristiana del Dio per- sona e signore, volontà, di un Dio cui tutto è possibile, anche l'ira 282 www.scribd.com/Baruhk   (si confronti in tal senso il De ira Dei, composto dopo il 313), il quale solo "scire potest et revelare secreta" (De ira Dei, l). E qui vanno ora ricordate alcune date fondamentali, relative alla vita e all'opera di Lattanzio. Lattanzio, nato nel 260 circa, rètore di fama, allorché Diocleziano apri a Nicomedia una scuola, fu chiamato dall'imperatore a insegnarvi retorica, verso il 300. Convertitosi verso il 302 al Cristianesimo, quando nel 303 ebbe inizio la persecuzione dei Cristiani, Lattanzio abbandonò 'la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita privata e, dal 305 circa (anno in cui ancora appare a Nicomedia), sparendo dalla circolazione. Nel 303-304 Lattanzio scrisse il De opificio Dei, tra il 305 e il 311 compose i sette libri delle lnstitutiones divinae, non a caso dedicate, quando furono compiute, all'imperatore Costan- tino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne precettore dopo il 313, in Gallia, a Treviri, dove soggiornò certo fino al 320 (ogni traccia di lui si perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione, composti, sembra, tra il 311 e il 317, sono il De ira Dei, il De mortibus perse- cutorum, e una Epitome delle lnstitutiones. Le ragioni della conver- sione di Lattanzio furono le ragioni della sua opera di rètore tesa a persuadere, senza rotture violente, senza scandali, al significato del Cristianesimo, per altro già estremamente diffuso, e che, impostato da un lato come inveramento e soluzione delle filosofie piu ampliamente accettate e costituenti un generico fondamento culturale e dall'altro lato come l'unica religione filosofica che potesse ridare un senso all'uomo, facendolo a un tempo responsapile della umana città in funzione della città divina, si mostrava essere l'unica soluzione anche per l'unità e l'universalità dell'Impero. Sotto questo aspetto assume un particolare interesse il V libro delle Institutiones dedicato alla "vera giustizia." Molto sottilmente Lattanzio, rifacendosi in gran parte ai concetti di giustizia, "summa virtus," e di diritto naturale delineati da Cicerone e rielaborati da grandi giuristi romani - è noto che la maggioranza dei frammenti con cui si ricostruisce la Repubblica di Cicerone si ricava dalle lnstitutiones di Lattanzio, - riprospetta di contro alla tirannide, all'indiscriminato potere personale - e chiara è la lotta contro Dio- cleziano, - una concezione della giuStizia e del diritto assai simile a quella su cui ci si era fondati con Cicerone e poi con certi stoici del 1 e del 11 secolo (non a caso con Cicerone Lattanzio riprende la pole- mica contro Carneade e contro Epicuro: V, 14; III, 17). La giustizia si fonda sulla legge del tutto, legg~ tuttavia non naturale, ma voluta dallo stesso Dio, onde tanto piu obbligatorio diviene l'ordine dello Stato terreno, attraverso cui, se in esso ciascuno - in ciò uguale all'altro - fa ciò che gli compete e si pone al suo giusto posto in nome di Dio, si salva, costituendo il futuro regno di Dio. Solo che il regno di Dio, 283 www.scribd.com/Baruhk   dopo la caduta, con cui ha avuto principio l'affermazione di sé, la pro- prietà, il prevalere dell'uno sull'altro, l'ingiustizia, nella separazione della sapienza dalla religione, non sarà mai di questa terra. In questa terra rimarrà sempre aperta la lotta, il conflitto tra male e bene, tra ingiu- stizia e giustizia, senza di cui non vi sarebbe la virtu ("virtutem aut cerni ~on posse, nisi habeat vitia contraria; aut non esse perfectam, nisi exerceatur adversis; hanc enim Deus bonorum ac malorum voluit esse distantiam, ut qualitatem boni ex malo sciamus, item mali ex bono: nec alterius ratio intelligi, sublato altero, potest; Deus ergo non exclusit malum, ut ratio virtutis constare posset" : V, 7). Entro i suoi limiti, dunque, ciascuno può volere o non volere, dopo la rivelazione di Dio, esser virtuoso e perciò giusto, facendosi responsabile del pro- prio destino, liberandosi da se stesso in Dio, che premia o punisce chi abbia voluto o non voluto riconoscere Dio. Di qui, ancora una volta, il significato dato da Lattanzio alla santa ira di Dio; non a caso Lattanzio, finita la persecuzione da parte di Diocleziano, riconosciuto da Costan- tino il Cristianesimo (313), scrive pagine di fuoco sulla tragica fine che hanno subito tutti i persecutori dei Cristiani (Nerone, Domiziano, Decio, Valeriano, Aureliano, Diocleziano, Massimiano Ercole, Valeria figlia di Diocleziano e moglie di Galeiio): "sic omnes impii vero et i~sto iudicio Dei eadem quae fecerant receperunt." Con queste parole si chiude (L, 7) il De mortibus persecutorum. In tale senso perciò, la tesi cristiana, se da un lato implica il sen- tirsi servi di Dio, dall'altro lato implica, attraverso la rivelazione, che la libertà dell'uomo consiste in questo stesso voler essere servi di Dio, che liberando l'uomo da se stesso, caduto da Dio, lo rende capace d'es- sere virtuoso e giusto. Solo, dunque, istituendo uno Stato cristiano, volto, mediante coloro che abbiano ricevuto da Dio la grazia di com- prenderlo e perciò di essere giusti, a realizzare·la giustizia del regno di Dio, o meglio a far sf che, in una ben ordinata gerarchia, in cui ciascuno sia al suo giusto posto, si rispecchi l'ideale unità di un mondo di spiriti contemplanti il Dio, nel quale e per il quale siamo tutti uguali, e dal quale derivano le due virtu fondamentali della unica virtu, che è la giustizia, la pietà ("altro non è che la conoscenza di Dio, come verosimilmente la definf Trismegisto [Pimandro, 9]": V, 15) e l'uguaglianza (il sentirsi uguali agli altri in Dio: "nessuno presso di lui è schiavo, nessuno padrone: se egli è a tutti ugualmente padre, a uguale diritto siamo tutti ugualmente figli; nessuno è povero davanti a Dio, se non chi manca della giustizia; nessuno è ricco, se non chi è pieno di virtu" : V, 15), solo cosf lo Stato civile potrà salvarsi e non incorrerà nell'ira di Dio. Si vede bene in tal modo come Lattanzio potesse riprendere, in chiave cristiana, trasformando cioè il diritto naturale in 284 www.scribd.com/Baruhk   diritto divino, relativamente alla giustizia terrena, i temi fondamentali di Cicerone e di certi stoici. " L a giustizia civile, obbedienza formale alle leggi stabilite nel tempo dalle città terrene," è stato detto, discutendo della giustizia presso gli stoici, "ha valore nella misura in cui fa proprio il contenuto di fraterna uguaglianza e di comunione umana che è proprio della giustizia naturale. Il Cristianesimo, se accentuò il tema della fraternità (il prossimo che deve essere amato come noi stessi), non spostò i ter- mini del problema, ed anzi, approfondendo il distacco tra le due città come conseguenza della colpa, rovesciò di continuo in radicale diver- genza quella che lo stoicismo e il diritto romano avevano concepito come convergenza. Lattanzio, nel quinto libro delle Divinae lnstitu- tiones, dedicato appunto alla giustizia, la presenterà come summa virtus anche presso i pagani, e andrà dipingendo la città giusta di Saturno come regno di perfetta uguaglianza... Nella dttà giusta le terre e le messi non erano cintate... e tutto era in comune. Quando la cupidigia e l'avidità divisero gli uomini, la giustizia fuggi dalla terra, e scom- parve l'umana comunione (V, 5) ... Le leggi divennero inique; la giustizia fu termine equivoco che indicò disuguaglianza e oppres- sione... Dio, è vero, ebbe alla fine pietà dei suoi figli, e rinviò la giu- stizia in terra, ma la concesse graziosamente soltanto a pochi: 'rediit... sed paucis assignata iustitia est' (V, 7). La frattura tra le due città si presenta come insanabile; lo squilibrio è radicale. S. Agostino, che pur accoglie certi aspetti della tematka ciceroniana..., si àncora all'idea di un vincolo statutario che fonda la civitas corrotta sul comune godi- mento di un bene... La giustizia è l'ordine, nel suo aspetto meramente formale, che si realizza anche in una societas sostanzialmente ingiusta, solo che sia mantenuta una certa reciproca coordinazione. La fraternità umana è rimandata di là, o è in qualche modo raffigurata in gruppi ristretti di santi uomini; la città giusta è fuori del mondo, ove poi la divina giustizia è grazia... Cosi mentre la convergenza fra la giustizia nel suo aspetto formale e la giustizia nel suo valore sostanziale avevano caratterizzato lo sforzo proprio dei giuristi e dei grandi oratori romani, la divergenza fra mondo del peccato e Gerusalemme celeste riportò all'idea di.una giustizia terrena come mantenimento di un ordine impo- sto da un'autorità, di un'? Stato gerarchicamente scandito" (Garin, Giustizia, "Revue internationale de philosophie," 1957, pp. 282-4). Duplice è l'interesse dell'opera di Lattanzio: se da un lato egli ha chiarito, mediante un vero e proprio breviario delle istituzioni cri- stiane - in cui si riprendono e si dimostrano inverati dalla rivela- zione molt.i dei motivi teologico-filosofici piu diffusi. che vanno dun- 285 www.scribd.com/Baruhk   que accolti come preparazione alla buona novella - le esigenze e la problematica di certe classi di uomini, facendole emergere alla co- scienza, dando loro un fondamento ideologico; dall'altro lato, l'opera di Lattanzio indica assai bene le ragioni che spinsero Costantino ad accettare il Cristianesimo - e le ragioni dell'accostamento di Lattanzio a Costantino -, rendendosi conto che, oramai, solo in esso avrebbe trovato la base sociale ch'era venuta meno a Diocleziano, peréhé fosse possibile - proseguendo la politica di Aureliano e di Diocleziano - salvare l'unità politico-economica dell'Impero, trasformandolo sempre di piu in monarchia. In tale senso è molto indicativa la tesi sulla giu- stizia e sulla ricchezza e povertà sostenuta da Lattanzio. Tutti uguali in Dio, né ricchi né poveri nel regno di Dio: in questa terra conflitto tra vizi e virtu, tra ricchi e poveri, ma possibilità di una società giusta, qualora tutti, in nome di Dio, rimanendo ricchi e poveri, si sentano ciascuno al suo posto, uniti in una fratellanza che -è pietà, in una giu- stizia che è carità, in una società che ha da essere specchio dell'unità di Dio, della monarchia divina, del giusto scandirsi delle classi, ove il sacerdote, il vescovo, è, per gi'azia di Dio, il giusto, il rappresentante del monarca divino, di Cristo re. "Se anche è diversa la condizione dei corpi, gli schiavi non sono schiavi per noi; quanto allo spirito noi li teniamo in conto di fratelli, e sul piano religioso li chiamiamo com- pagni di servitu. Le ricchezze non sono motivo di distinzione per noi, se ·non in quanto possono renderei illustri di buone opere... E coloro che sono poveri, sono almeno ricchi di questo, che non sentono alcun bisogno e non hanno desideri. Pur essendo pertanto tutti uguali in umiltà, i ricchi e i poveri, i liberi e i servi, tuttavia presso Dio siamo distinti secondo la nostra virtu" (V, 16). Impossibile e ingiusto - so- stiene altrove Lattanzio - è dire con Platone che non si deve possedere nulla in privato e in proprio - famiglia, donne, ricchezze, - ché nelle disuguaglianze, nel come ciascuno sa usare il proprio si rivela la capa- cità o meno d'esser virtuosi, il riconoscimento d'essere tutti uguali nel regno di Dio, di lui tutti servi e figli, uguali per la virtu (cfr. III, 21-22). Lattanzio con questa sua tesi rispecchiava esattamente la situazione propria di molti cristiani e la struttura economico-schiavistica dell'Im- pero, la situazione della Chiesa ufficiale al principio del IV secolo. "Verso il IV secolo," è stato detto in efficace sintesi, "la Chiesa cri- stiana si era trasformata in una organizzazione molto forte, in una specie di Stato nello Stato, che abbracciava quasi tutto l'Impero. Essa possedeva enormi ricchezze, contava nelle sue file un gran numero di alti f~nzionari, di militari, grandi proprietari terrieri, e la schiacciante massa di popolazione artigiano-commerciale delle città. Possedeva un potente apparato direttivo che non aveva nulla da invidiare alla buro- 286 www.scribd.com/Baruhk   crazia imperiale. In'queste condizioni riconoscere la Chiesa significava per lo Stato trovare una nuova base sociale. E ciò era particolarmente importante per il dominatus che tendeva a creare un potere solido... Costantino poté piu saggiamente ed obbiettivamente, che non Diocle- ziano, avvicinarsi al Cristianesimo" (Kovaliov, cit., Il, p. 235). Entro questi termini assumono un particolare significato le parole di Costantino (306-337), riportate da Eusebio di Cesarea (Vita Con- stantini, 4, 24), ai vescovi con lui riuniti a mensa: "Certo, voi potreste essere vescovi interiormente alla Chiesa (È1tlaxo1toL -rwv etaCù n j ç bocÀYjalcxç), io sarei invece vescovo, costituito da Dio, esteriormente (-rwv ÈxT6ç). " Si è molto discusso sul peso preciso da dare a queste parole (cfr. S. Calderone, Costantino e il Cattolicesimo, Firenze, 1962). Certo sembrerebbe in esse implicito, da un lato il riconoscimento della Chiesa costituitasi gerarchicamente, fondamento del regno di Dio, di cui, appunto, i vescovj sono i depositari, coloro che reggono lo Stato dal di dentro (la Chiesa, anima dello Stato?); dall'altro lato, accettato che lo Stato non può non essere che cristiano cioè che lo Stato è la Chiesa, che l'imperatore, per grazia divina ("costituito da Dio"), è il reggitore del corpo della Chiesa, cioè dello Stato, nella sua realizza- zione fisica, storica; l'imperatore dunque vescovo dal di fuori (del corpo dello Stato?). Senza dubbio, comunque, le ragioni che nel I I I secolo avevano spinto alcuni imperatori ad abbracciare, di con- tro alla "romanità" dell'Impero, l'"interbarbarismo" dell'Impero stesso; trovandone il fondamento ideologico nell'elioteismo, nella monarchia solare, determinano ora Costantino, che non a caso aveva avuto forti simpatie per l'elioteismo, a volgersi al Cristianesimo, che, sia per la sua base economico-sociale, sia per la sua ideologia - entro cui, assunta simbolicamente poteva essere riassorbita la tesi elioteistica - sembrava dare allo Stato l'unità e la forza perdute, qualora di quello Stato dive- nisse episcopo l'imperatore. I simboli della luce propri del Cristia- nesimo, dell'Ebraismo, e di certe immagini neoplatoniche ed ermetiche (il Padre Sole e il Figlio raggio del Sole, uno nella luminosità di Dio) e delle tenebre (dai figli della luce e delle tenebre, a Lucifero che diviene, con la caduta, il dèmone, il principe delle tenebre, alla materia e al corpo, ombre e tenebre), potevano benissimo coincidere con la concezione elioteistica, con il motivo della monarchia solare, reinter- pretata e inverata al lume della verità cristiana e in essa assorbita. Documenti di ciò sono, oltre alcune testimonianze di Lattanzio e, particolarmente di Eusebio, l'amico cristiano di Costantino, che non poco si adoperò a propagandare e a rendere efficace l'operazione di riassorbimento nel Cristianesimo della cultura ellenistica, anche i mo- numenti, le monete del tempo di Costantino, in cui l'imperatore cri- 287 www.scribd.com/Baruhk   stiano viene presentato come il Sole di Dio, in raffigurazioni ove appare nella veste dell'Elios persiano (e non si scordi che le insegne di Costantino avevano un sole irradiante, che piu tardi, in una visione, divenne facilmente la Croce irradiante luce: per i rapporti tra Costan- tino e la ideologia elioteistica, cfr. anche F. Altheim, Il dio invitto. Cristianesimo e culti solari, trad. it., Milano, 1960). b) La corrente origeniana ad Alessandria e a Cesarea Le "eresie." ~'arianesimo, la Chiesa di Roma e il Concilio di Nicea. Se lo studio delle "eresie" e degli "scismi," di come essi si sono formati, rende conto di come, per altro verso, si è venuta for- mando l'altra scelta che, divenuta poi ufficiale, ha costituito la "verità" cristiana, la "retta opinione" (ortodossia) sulla verità rivelata, tale stu- dio rende anche conto che gran parte delle eresie (pur. discutendo di questioni teologiche, pur nascendo dalla problematica sulla vera inter- pretazione del messaggio del Cristo, della sua natura, del suo rapporto con il Padre) sono nate sul terreno etico-politico ed economico. Qu3;nto piu la Chiesa di Roma si arricchiva, si ordinava gerarchicamente e burocraticamente, veniva a compromessi con lo Stato, anche durante le persecuzioni - non si scordino le grosse polemiche sui lapsi e l'atti- vità di San Cipriano, - quanto piu ci si avvicinava al possibile con- nubio tra Stato e Chiesa - sia che la Chiesa fosse assorbita dallo Stato sia che lo Stato fosse assorbito dalla Chiesa, - nella costituzione di un Impero cristiano, tanto piu negli strati meno abbienti, piu poveri, che avevano trovato nel Cristianesimo l'appello all'uomo libero, la salva- zione della propria individualità, il diretto rapporto da uomo a uomo con Dio, sembrò che la Chiesa avesse tradito l'antico messaggio del Cristo. "Verso il quarto secolo, nel seno della Chiesa, esisteva 'un forte fermento. L'affermarsi degli elementi abbienti, il consolidamento del- l'apparato ecclesiastico, l'aristocratizzazione di tutta l'ideologia del Cri- stianesimo erano inevitabilmente destinati a determinare una vivace opposizione da parte degli strati non privilegiati. Per quanto si ten- tasse di soffocare il primitivo spirito plebeo del Cristianesimo, l'abisso tra quanto veniva predicato dal pulpito e la realtà e':'a troppo grande: da una parte vi erano infatti il clero e i fratelli dell'aristocrazia, sazi e contenti, dall'altra gli stessi 'fratelli di Cristo' della plebe cittadina e 295 www.scribd.com/Baruhk   rurale, poveri e semiaffamati... La grande crisi rivoluzionaria del m se- colo non potrà non rispecchiarsi anche nel Cristianesimo. Il riacutiz- zarsi dei contrasti sociali, manifestatosi nell'Impero a cominciare dalla fine del 11 secolo, si rivelò anche nel Cristianesimo, dove il processo fu accelerato appunto dalla aristocratizzazione della Chiesa, che ne aveva determinato i contrasti interni. In tale situazione nacquero le cosiddette 'eresie,' correnti contrarie ai circoli dirigenti della Chiesa e ai punti di vista dominanti. Esse rispecchiavano anzitutto l'ideologia dei cristiani piu poveri: schiavi, coloni, plebe cittadina e, in parte, anche il pensiero degli strati medi della città. In alcuni casi le eresie erano dovute alla lotta per il potere fra i vari gruppi della gerarchia ecclesiastica" (Kovaliov, cit., pp. 336-7). Abbiamo già veduto come fin dalla prima meditazione sull'espe- rienza cristiana si determinassero interpretazioni molteplici e diverse, a seconda anche delle tradizioni e degli ambienti culturali, da quelli giudaico-palestinesi a quelli giudaico-akssandrini, da quelli classici nell'area orientale a quelli classici nell'area occidentale: da principio "eresie" tutte, poi "eresie" quelle che ad una delle interpretazioni con- solidatasi e divenuta tradizionale, della comunità piu forte (che fondò poi il suo diritto sul motivo della "cattedra di Pietro"), sembrarono non aderenti alla propria interpretazione, ritenuta quella "retta" (orto- dossa), e tali da mettere in pericolo la propria forza e la propria catto- licità. Naturalmente finché non fu possibile determinare ufficialmente la "regula fidei" (fu Tertulliano a definire l'eresia "scelta, dal greco or:tp&:a~<; = hairesis, arbitraria, in quanto non tien conto della regula {idei, cioè della regola determinata dalla Chiesa" : in De praescriptione haereticorum, 6) e finché quella stessa "regula fidei" non si determinò sto- ricamente attraverso un lungo dibattito, un lungo conflitto tra l'una e l'altra interpretazione (sull'unità e trinità di Dio, sulla posizione. e l'essenza del Figlio nei riguardi del Padre, sulla funzione del Cristo, sulla sua realtà di Dio-Uomo, e sull'autorità dei vescovi, sul loro essere apostoli degli apostoli e cosi via) erano impossibili condanne ufficiali (se non sul piano, chiarendo ciascuno a sé il significato del Cristia- nesimo e la funzione della Chiesa, dell'apologetica: e qui ricordiamo particolarmente S. Giustino, S. Ireneo, S. Ippolito, Tertulliano e la loro polemica nei confronti dello gnosticismo, e, per altro verso, Marcione e il marcionismo da un lato e, dall'altro lato, nella discussione sulla unità e il monismo di Dio il monarchismo, il modalismo, il docetismo,. il sahellismo). Ciò fu possibile quando la Chiesa di Roma, riconosciuta ufficialmente dal potere politico come la depositaria della autentica "regula fidei," poi:é ufficialmente far dichiarare la propria "regula" e il proprio "credo" (Concilio di Nicea, del 325). (E qui va tenuto pre- 296 www.scribd.com/Baruhk   sente che di "eresia" in senso stretto si parla non quando sia una per- sonale deviazione dall'insegnamento della Chiesa ufficiale, ma quando tale deviazione diviene sciente contrapposizione di un, diciamo cosi, pensiero o insegnamento che si deve contrapporre a quello della Chiesa). Naturalmente, sotto il profilo della rivolta etico-politica con- tro una Chiesa che per i suoi compromessi, per la sua, anche se lenta, trasformazione in Stato gerarchizzato, sembrò tradire il significato popolare dell'insegnamento etico del Cristo, vediamo sorgere certe ere- sie abbastanza tardi, alla fine del n secolo, per divenire sempre piu forti e polemiche durante il m secolo e il principio del IV. E qui pen- siamo, innanzi tutto, al montanismo. Il montanisrno, cosiddetto da Montano che ne fu il capo, ebbe principio verso il 170, e, di contro all'infiacchimento della Chiesa, di contro alle proprietà della Chiesa, di contro al perdono per le colpe compiute dopo il battesimo, di contro alla autorità dei vescovi, di contro alla "universalità" della Chiesa, pro- clamò l'individualità della esperienza cristiana e della fede, in un rigi- dismo morale-religioso, in personali esperienze ascetico-mistiche, in un rifiuto delle ricchezze terrene nell'attesa della vicinissima restaurazione - per il vicinissimo ritorno del Cristo - del regno di Dio. Se tale infiacchimento della Chiesa, l'evidente opportunismo di molti conver- titi al Cristianesimo, furono le ragioni dell'adesione di Tertulliano al montanismo, si capisce come, nel 111 secolo, al tempo delle persecu- zioni di Decio, di contro al diffuso lapsismo, si siano ingrossate le file del montanismo. E qui pensiamo, in secondo luogo, al donatismo. Nel III e IV secolo nuova forza e significato politico assunse il montanismo, particolarmente in Africa settentrionale, dove andò sotto il nome di donatismo dal nome del vescovo Donato, che si fece capo degli intran- sigenti, finché di contro alla Chiesa ortodossa si costitul la Chiesa di Donato (non a caso alla Chiesa di Donato aderirono nel IV secolo i movimenti rivoluzionari degli schiavi e dei coloni d'Africa che vede- vano nel donatismo il fondamento ideologico della loro lotta contro la proprietà, contro i ricchi, contro l'economia schiavistica: fu questo il mo- vimento degli " agonisti," i combattenti per la vera fede : cosi essi pro- clamarono se medesimi, mentre "circumcellioni," vagabondi, furono detti dalla parte avversa). Minore importanza ha il novazianismo (dal nome di Novaziano fiorito tra il 250 e il 258). Novaziano ruppe con la Chiesa di Roma per ragioni personali, per la delusione di non essere stato eletto vescovo di Roma (il novazianismo, del resto, in certe conseguenze, è assai vicino al rigidismo morale del donatismo). Un particolare significato assume, invece, l'arianesimo, sia perché fu la prima eresia condannata con l'appoggio del potere politico (Concilio di Nicea, 325), in una 297 www.scribd.com/Baruhk   precisazione da parte della Chiesa ufficiale della propria "regula fidei," che assume cosi un valore giuridico, sia ....- proprio in conseguenza di ciò - per la storia della formazione della "verità" ufficiale cristiana, sia per le ulteriori precisazioni filosofico-teologiche, sia per le ripercus- sioni politiche che ebbe. Nato, sembra, in Libia, verso il 265, Ario,8 dopo avere studiato ad Antiochia sotto il platonico Luciano di Antiochia, ebbe nel 313 la dire- zione di una Chiesa di Alessandria, e fu qui che nel 318 circa espresse la sua interpretazione sulla natura del Verbo. Con molta probabilità Ario fu direttamente ispirato dagli insegnamenti che sulla vecchia que- stione della natura una di Dio e del suo rapporto con il Verbo e la realtà, aveva ricevuto ad Antiochia da Luciano, fondatore della scuola esegetica di Antiochia, martire nel 311, e dall'influsso che in Antiochia avevano ancora al tempo in cui vi fu Ario le idee di Paolo di Samo- sata, vescovo di Antiochia (260-268), condannato per eresia tre volte ed infine costretto a dimettersi, convinto di errore dal prete Malchione. Ario, con molta intelligenza e acutezza, lucidamente ripropone e definisce la grossa questione, sul tappeto dal tempo di Filone l'Ebreo, dei "monarchisti, " " unitaristi," " docetisti," " sabelliani," di T ertul- liano, e, per altro verso, di Plotino.e dei neoplatonici, di Origene. Posta l'unità e perfezione.assoluta di Dio e posto che, secondo il solito rove- sciamento ebraico-cristiano del concetto di "sapienza," la sapienza è di Dio ed è prima dei secoli e va avanti a tutte le cose (cfr. Ecclesiastico, l, 1-4), e che tale sapienza è il Verbo (L6gos) di Dio, l'interpretazione del celebre testo dei Proverbi (VIII, 22), in cui la sapienza, cioè il 8 Nato, forse in Libia, nel 256 circa, Ario, dopo avere studiato ad Antiochia, sotto Luciano, nel 313 ebbe l'incarico di dirigere la Chiesa di Bocali ad Alessandria. Nel 318 divulgò le proprie tesi sul rapporto Padre-Figlio. Condannato da un Concilio di Alessandria, promosso dal vescovo di Alessandria Alessandro, teoreticamente sostenuto dal suo diacono Atanasio, nel 320 o 321, Aiio fu costretto ad abbandonare il paese. Fu dapprima in Palestina, poi a Nicomedia presso il vescovo Eusebio, suo vecchio amico. Condannato nel Concilio di Nicea (325), fu dall'Imperatore esiliato nell'Illirico. Nel 336, Costantino, volendo riporre equilibrio tra le due fedi, in nome dell'unità dell'Impero, richiamò Ario, che a Costantinopoli improvvisamente mor( nel 336. Perduta è l'opera piu importante di Ario, la Tàlia (E>ciÀe:lcc:banchetto), ch'egli compose a Nicomedia tra il 321 e il 325. Se ne conservano solo alcune ·citazioni nel Contra arianos di Atanasio (1, 5, 6, 9; cfr. anche De synodis, 15). Sono pervenute, invece, due lettere di Ario: una ad Eusebio di Nicodemia, del 321 circa (in Epifania, Haer., 79, 6), l'altra ad Alessandro di Alessandria, scritta non molto prima del Concilio di Nicea (cfr. Atanasio, De syn.odis, 16; Epifania, Haer., 69, 7, 8). Socrate (storico della Chiesa; nato a Costantinopoli nel 408 circa, autore di una Historia ecclesiastica, in sette libri, che prosegue quella di Eusebio dal 323 al 439) e Sozomeno (altro storico della Chiesa, originario di Gaza, a~vocato in Costantinopoli, autore di una Historia ecclesiastica, in nove'libri, dal 323 al 433, compiuta nel 444, e che in piu parti ricopia quella di Socrate) riportano la professione di fede inviata da Ariq a Costantino nel 330-331 (cfr. Socrate, Hist ecci., I, 26; Sozomeno, Hist ecci., 2, 27). 298 www.scribd.com/Baruhk   L6gos dice Dominus creavit me, porta dietro a sé la negazione della tesi che Dio sia ad un tempo uno e trino e che il suo Verbo, in quanto creato da Dio, sia della stessa sostanza di Dio e sia un secondo Dio. La tesi che Dio sia ad un tempo trino in eterno implica la nega- zione di Dio uno e solo, e l'affermazione non cristiana di piu dèi. Posto che una è la sostanza di Dio e perciò ch'egli è indivisibile e ingene- rato, infinito e assoluto, e dunque indiscorribile (&ppl)-roç =àrretos), proprio il suo essere ingenerato (&.ykvvl)-roç = aghènnetos) e senza prin- cipio (&vocpxoç = ànarchos) implica che non si può ammettere ch'egli comunichi ad altri la propria essenza: Dio cosf si limiterebbe e si risol- verebbe negli stessi aspetti da lui provenienti. In altri termini, ammet- tere che Dio per essere, per comprendere se stesso, si distingua in due, sign.ificherebbe dire che Dio è non piu persona, essere nella sua asso- lutezza solo, ma unità dialettica. Ciò, in realtà, vorrebbe dire negare il Dio persona e volontà, il Dio creatore. Posto, per altro, in senso ebraico- cristiano, che Dio non è un concetto, non è unità dialettica di pensante- pensato (L6gos), ma volontà, se ne deve dedurre che la creazione non è da intendere nel senso che Dio - avente in sé tutto in potenza - tragga all'esistere da se stesso, mediante il proprio esserci come pen- sante-pensato (L6gos), tutta la realtà, ma che egli, volontà onnipo- tente, di là da ogni ragione dà realtà a un mondo davvero ex nihilo, che, in quanto da lui voluto, una volta che c'è, è altro da lui, non ha la sua stessa essenza. E allora, proprio per non confondere il L6gos di Dio, la sua parola e ragione, con il N ùs plotiniano, che si perde nel- l'Uno, sf come l'Uno si perde nel Nùs, conseguentemente alla tesi del Dio trascendente, indiscorribile, persona e creatore, si deve dire, se- guendo alla lettera i Proverbi (ricordiamo che la scuola esegetica di Antiochia, in cui si formò Ario, si tenne sempre, di contro alla scuola esegetica di Alessandria, all'interpretazione letterale-storica dei sacri testi), che anche il L6gos, in quanto sua creatura ("creatura perfetta di Dio": in Atanasio, De synodis, 16, 2) è realtà altra da quella di Dio, è esistente, è, anch'egli, generato dal nulla (è!; oùx l>v't'CùV yéyov<. = ex ouk ònton ghègone: in Atanasio, Oratio l, Contra Arianos, 5). Il Verbo dunque, non può avere lo stesso genere del Padre, è dissimile dal Padre (è &ll6't'ptoç -allòtrios e &.v6(l.otoç-anòmoios) ed è solo di nome che viene detto Dio. Uno solo Dio, il Verbo non è un "secondo Dio" che per analogia, e pur essendo per decisione di Dio lo strumento con cui Dio crea il mondo, non si può dire ch'egli abbia la stessa sostanza dì Dio, che sia a Dio consustanziale, mentre, in quanto è dopo Dio (che ri- mane, perché crea.tore, uno e solo nella sua perfezione, trascendente e immobile e perfetto, e dunque irrelativo, indiscorribile, ignoto), il L6gos è limite, mutevole, (-rpen-r6ç-trept6s), sf come tutte le creature, 299 www.scribd.com/Baruhk   "buono finché vuole restare tale, ché, se lo volesse, potrebbe, come noi, mutarsi" (in Atanasio, Oratio l, 5). E come Dio ha voluto creare il L6gos ex nihilo e attraverso lui ha voluto che il mondo assumesse realtà, cosi poi, essendo il L6gos rimasto buono, e avendolo adottato come figlio (adozionismo), ha voluto dargli la funzione di redentore. Altro da Dio il L6gos, non a lui consustanziale, poiché tutto ciò che ha avuto realtà è provenuto per un atto di libera volontà da Dio, attra- verso il L6gos, anche lo Spirito Santo, il soffio vivificante di Dio pro- viene dal L6gos ed è perciò altro dal L6gos e da Dio. Senza dubbio la tesi di Ario precisa in una certa direzione la vec- chia questione del rapporto tra Dio e il suo Verbo. Egli, avvicinan- dosi ai monarchisti, nega, nelle conclusioni, la divinità del Figlio e con ciò stesso quella del Cristo, scostandosi cosi dalla interpretazione delineatasi nella Chiesa, e da quella della scuola di Alessandria che non poco si era servita della tesi neoplatonica sul rapporto Uno-Nùs-Anima. Certo, la immediata presa di posizione contro Ario da parte del ve- scovo di Alessandria, Alessandro, che fece espellere Ario dalla Chiesa di Alessandria nel 320 (Ario si recò allora in Palestina, poi a Nico- media presso Eusebio vescovo di quella città), dette luogo all'esigenza di definire e precisare la tesi opposta, che con il Concilio di Nicea (325), ove fu sostenuta da Alessandro, con l'aiuto del suo diacono Ata- nasio, divenne la tesi ufficiale e giuridica della Chiesa. Elaborata e pre- cisata da Atanasio,9 nato sembra ad Alessandria nel 295 circa, già dia- 9 Atanasio, nato ad Alessandria nel 295 circa, da genitori non cristiani, si converti presto. Nel 318-320 era già diacono di Alessandro vescovd di Alessandria_ Fin dal prin- cipio Atanasio coadiuvò nella polemica contro Ario il suo vescovo, e oon lui assistette al Concilio di Nicea (325). Morto Alessandro (328), Atanasio fu nominato vescovo di Alessandria. Tutta la sua vita fu consacrata alla lotta contro l'arianesimo. Quando Co- stantino cercò di riconciliarsi con Ario (335-336), l'Imperatore lo mandò in esilio a Treviri; morto Costantino, Atanasio nel 337 tornò ad Al~ssandria. Poco dopo, nel 340, dovette di nuovo esulare per volontà dell'imperatore Costanzo, istigato da Gregorio di Cappadocia. Tornò ad Alessandria alla morte di Gregorio nel 346. La politica filoariana di Costanzo lo costrinse a fuggire ancora una volta da Alessandria nel 356. Solo alla morte di Costanzo e all'avvento di Giuliano (362), che rimise nelle loro sedi tutti coloro ch'erano stati esiliati, per questioni religiose, Atanasio poté tornare ad Alessandria. Ma la foga di Atanasio preoccupò anche Giuliano, che lo fece allontanare ancora una volta. Morto Giuliano (363), avuto il sopravvento il Cristianesimo di Roma, Atanasio poté rientrare nella sua Sede, tranne la breve parentesi del 364-366, in cui, per ordine di Valente, ariano, Atanasio si allontanò per la quinta volta da Alessandria: dal 366 al 373, anno della sua morte, Atanasio visse tranquillamente ad Alessandria. Tra le prime opere di Atanasio si ricor<)ano Il discorso contro i Grui e il Discorso dell'incarnazione (bJa:v6p(l)7rljGE(I)~ = enantrop~seos) del Verbo, composti tra il 318 e il 320. L'opera piu importante contro gli ariani è costituita dai Discorsi contro gli Ariani (sono quattro discorsi, di cui i primi tre autentici). Si dubita che siano di Atanasio (si è pensato di qualche suo seguace) il Dell'incarnazione e contro gli Ariani, e il trattatello Sul testo: tutte le cose mi furono rivelate. Ispirati da Atanasio e, certo, della sua scuola sono gli scritti De Trinitate et Spiritu Sancto; Ddl'incarnazione contro Apollinare; L'in- 300 www.scribd.com/Baruhk   cono di Alessandria nel 318, successo ad Alessandro, in qualità di ve- scovo di Alessandria nel 328, la tesi dell'unità e trinità di Dio, della consustanzialità del Padre e del Figlio, riconosciuta ortodossa nel sim- bolo niceno, venne mantenuta e difesa ad oltranza da Atanasio, nei successivi grossi conflitti avvenuti dopo Nicea, a favore della tesi ata- nasiana o di quella ariana, quest'ultima seguita particolarmente da tutti gli elementi scontenti dell'ordinamento della Chiesa, e non solo Cri- stiani, ma anche pagani. Molti pagani anzi si convertirono al cristia- nesimo ariano vedendo in esso quella salvazione dell'uomo promessa da un Cristo non divino, ma uomo tra uomini, che nella aristocratiz- zazione, burocratizzazione, stabilizza.zione della Chiesa, veniva ad essere negata. Entro questi termini si vede bene come una discus- sione esegetica e teologico-filosofica implicasse, a sua volta, una grossa problematica politica. Non a casolo stesso Costantino, che, nèlla pole- mica tra la Chiesa e Ario, vedeva la possibilità di un indebolimento dell'autorità della Chiesa, per cui a Nicea appoggiò la tesi ufficiale, piU tardi, allorché si rese conto del mordente che in taluni ambienti ebbe l'arianesimo, manifestò, forse a ciò spinto anche da Eusebio di Cesarea, che sosteneva, sulla scia di Origene, che il L6gos è subordi- nato al Padre, una viva simpatia per gli ariani, tanto che, per evitare agitazioni, fece esiliare Atanasio a Treviri (335-336). Morto Costantino (337), le alterne e tragiche vicende successorie, portarono a seconda di chi ebbe di volta in volta il potere e a seconda della zona in cui piu forte era l'appoggio che poteva venire dalla cor- rente ortodosso-romana o dalla corrente ariana, a dare ora il soprav- vento ai sostenitori della tesi nicena ora ai sostenitori dell'arianesimo. Costanzo, uno dei tre figli di Costantino, impegnato in Mesopotamia nella lotta contro i Persiani, appena conosciuta la morte del padre accorse a Costantinopoli, dove fece uccidere i fratelli di Costantino e sette suoi nipoti, e assunse il potere in tutto l'Oriente; in Occidente dopo una guerra tra i due figli di Costantino, Costante e Costantino Il, morto Costantino II, ebl:ie, nel 340, il sopravvento Costante. Avuto il sopravvento in Occidente, Costante, legato ai circoli della Chiesa orto- dossa e favorevole perciò alle decisioni del Concilio di Nicea, mise al bando l'arianesimo. Atanasio, cosi, che all'indomani della morte di carna11ione di Dio; Uno è Cristo; Il discorso maggiore sulla f"de. Certamente di Atanasio invece sono le seguenti opere storico-polemiche: Apologia contro gli Ariani (del 348); Apologia all'lmp.,ratorc Costanzo (del 357); Apolugia dt:lla fuga; Della dottrina di Dionigi; Sui dur.,ti d"l sinodo niceno; Dci sinodi di Rimini e di Se/cucia (del 359) (una delle opc:re piu importanti di Atanasio, in cui fa la storia di questi due Concili). lncom· pleta è giunta la Storia degli Ariani, non piu che citata (Gerolamo, Dc vir. ili., 17) uno scritto Contro Valente e Ursacio. Opere di morale e d i edifu:azione sono: Vita di Sant'Antonio, Della Verginità (se ne dubita l'autenticità). Molte le lettere di Atanasio. 301 www.scribd.com/Baruhk   Costantino era tornato ad Alessandria, ma che, su decreto di Costan- zo, imperatore in Oriente, ove l'arianesimo si era non poco diffuso, era stato costretto nel 340 a ritornare in esilio, poté, col favore del- l'imperatore di Occidente, Costante, ritornare in Alessandria nel 346. Morto Costante nel 350, vittima in Gallia di un complotto organiz- zato dal generale Magnenzio, le Gallie proclamarono imperatore Ma- gnenzio. Di contro, gli veniva opposto a Roma Augusto Nepoziano, nipote di Costantino l. Magnenzio accorse a Roma e Augusto Nepo- ziano venne ucciso. Le truppe dell'Illiria eleggevano intanto impera- tore il generale Vetranione, favorevole agli ariani (Ario, dopo il Con- cilio di Nicea era andato in esilio in Illiria). Dall'Oriente intervenne Costanzo, che, alleatosi con Vetranione, il quale rinunciò al potere (351), sconfitto Magnenzio, rimase unico imperatore. Costanzo evi- dentemente ritenne piu opportuno appoggiarsi alle forze cristiane ariane, particolarmente diffuse in Oriente e nell'Illiria, tanto che in un con- cilio della Chiesa tenuto a Milano fece condannare Atanasio che fu di nuovo cacciato da Alessandria (356). Solo alla morte di Costanzo, avve- nuta nel 362, Atanasio poté tornare ad Alessandria. Costretto di nuovo ad abbandonare Alessandria sulla fine del 362 per ordine del nuovo ed unico imperatore Giuliano, in funzione della sua battaglia contro la Chiesa cristiana e contro, particolarmente·, l'assorbimento dello Stato nella Chiesa, Atanasio tornò ad Alessandria alla morte di Giuliano (363) e vi rimase fino al 365, quando venne anc9ra una volta esiliato dall'imperatore Valente, che, tuttavi·a, ben presto - resosi conto che oramai in Occidente la Chiesa piu forte era quella di Roma - lo reintegrò vescovo di Alessandria, ove rimase fino alla morte, avvenuta nel 373. Ario era morto nel 336, improvvisamente a Costantinopoli, mentre, su pressione di Costantino, stava per riconciliarsi solennemente con la Chiesa. Dopo il Concilio di Nicea ricordiamo che Aria era stato esi- liato nell'Illiria. Dopo Ario, oltre Asteria di Cappadocia, vecchio disce- polo di Luciano di Antiochia, che a favore della tesi di Ario aveva rac- colto una serie di testi (auv-rrxy!_J.oc-rtov-syntagmation) che dovevano ser- vire a provare che il Verbo è creato (cfr. Atanasio, Or. I, 30-34; Or. Il, 37; Or. III, 2, 60; De decretis, V, 28-31; De synodis, 18, 20), il vero e proprio capo politico della corrente ariana, come dice il Tixeront (Patrologia, cit., p. 147), fu Eusebio vescovo di Nicomedia (presso cui Ario si era rifugiato durante il suo primo esilio avanti Nicea), vis- suto fino al 342. L'arianesimo assunse poi piu facce, in una sempre piu sottile discussione sull'autentico significato da dare ai termini sostanza e simiglianza relativi a Dio e al Verbo, senza dubbio,. talvolta, in un'esigenza di riconciliazione con la tesi nicena. 302 www.scribd.com/Baruhk   Entro i termini della discussione ariana si distinsero cosi tre cor- renti. La prima è quella degli ariani intransigenti, secondo cui il L6gos non è dissimile (ocv6tJ.OLO~-anòm.oios) dal Padre. Capo di tale corrente - detta degli anomci - , ricollegandosi a Paolo di Samosata, fu Potino, vescovo di Sirmio in Pannonia e quindi Ezio, originario di Antiochia, particolarmente preparato in dialettica aristotelica, che aveva studiato ad Alessandria. Ezio, elevato al diaconato nel 350, sostenne la tesi di Ario, usando la dialettica aristotelica, in una serrata dimostra- zione della contraddittorietà di porre due divinità, per cui il Verbo non può logicamente dirsi della stessa sostanza del Padre. Il Figlio perciò non si può porre che come una creatura inferiore, anche se la piu perfetta, e diversa dal Padre, ché, ragionevolmente, ciò che è gene- rato non può essere Dio (cfr.' Di Dio ingcncrato c del generato: qua- rantasette brevi ragionamenti in forma sillogistica, conservati da Epi- fanio in Hacrcs., 76, 11). Discepolo di Ezio fu Eunomio, originario della Cappadocia, diacono di Antiochia, infine vescovo di Cizico nel 361. Dal pÒCo che è rimasto di lui, morto sotto Teodosio, si deduce ch'egli fu, come Ezio, un forte sostenitore dell'anomcismo, si corne lo furono Eudossio,' vescovo prima di Antiochia e poi di Costantinopoli (360- 369) e Giorgio vescovo di Laodicea (331-335). La seconda corrente è quella dei cosiddetti scmiariani, i quali p4r respingendo. la consustanzialità, cioè che il Figlio abbia la stessa so- stanza (otJ.oouaLo~-homousios) del Padre, sostengono che tra la sostanza del Padre e quella del Figlio vi è una certa somiglianza OtJ.OLOUaLoç - homoiusios). Capo dei semiariani fu Basilio vescovo di Ancira, morto nel 356 (scrisse due lunghe memorie teologiche, conservate da Epi- fanio, Hacrcs., 70, 3, 2-11 e 12-22), seguito poi da Eustazio, vescovo di Sebaste dal 357, il quale fu particolarmente un asceta, fondatore del monachesimo nell'Asia Minore e maestro di Basilio il grande. Poco o nulla sappiamo di Euzoio, vescovo di Cesarea nel 376, anche egli, sembra, seguace della corrente semiariana. Tesi molto piu equivoca, passibile di essere accettata dall'una e dal- l'altra parte, fu quella, secondo cui, senza approfondire la questione della sostanza, si diceva vagamente che il Verbo è simile (l5tJ.oLOIO- hòmoios) al Padre. Tale tesi, detta degli omèi,, fu sostenuta dal suc- cessore di Eusebio di Cesarea, Acacie (340-346), legato all'origenismo e elle prosegui ad arricchire la biblioteca di Cesarea, e dai vescovi Teodoro di Eraclea (325-355) ed Eusebio di Emesa (341-359), quest'ul- timo, secondo San Gerolamo (Vir. ili., 91), raffinato rètore ed esegeta seguace della scuola di Antiochia (cfr. sopra). Per altro verso la lunga discussione da parte ariana della tesi nicena dette luogo, a· sua volta, da parte dei difensori della consustanzialità c 303 www.scribd.com/Baruhk   della divinità del L6gos ad un approfondimento della tesi nicena, che se da un lato portò a migliori ed acute precisazioni, e, in funzione di quelle, a nuove interpretazioni della tesi plotiniana e origeniana, anche sul piano filologico (non a caso Gregorio di Nissa distinse il signifi- cato di sostanza da quello di persona), dall'altro lato dette luogo a una serie di grossi problemi intorno alla natura del Cristo, Dio e, ad un tempo, uomo. Per il primo aspetto, piu che al pedissequo seguace della tesi nicena, Didimo Cieco (vissuto dal 313 al 398), assai vicino, per altro, ad Origene, salito in fama di dotto maestro (per cui ad Ales- sandria andarono ad ascoltarlo Sant'Antonio, Palladio, Evagrio Pon- tico, San Gerolamo, Rufino), pensiamo qui ai celebri "luminari" di Cappadocia, San Basilio, San Gregorio di Nazianzo, San Gregorio di Nissa, i tre "padri" della Chiesa di Oriente; e per il secondo aspetto, ad Apollinare il giovane, nato nel 310 circa, amico di Atanasio, soste- nitore dell'unità e trinità di Dio, secondo il simbolo niceno, che per primo apri la discussione sulla natura divina o umana del Cristo, e la cui tesi venne condannata nel Concilio del 381, negando egli che il Cristo in quanto Verbo fattosi corpo potesse avere anima umana, ché l'anima è, origenianamente, il limite, il raffreddamento dello spirito, dovuto al peccato, alla ribellione a Dio e al L6gos che resta sempre peccato. Tutte queste discussioni, relative da un lato, ripetiamo, al come intendere il concetto di sostanza e di persona, dall'altro lato, posto che il Verbo è Dio, al significato da dare, allora, alla natura umana del Cristo, meglio si comprendono tenendo presente, ora, la formulazione dello stesso simbolo niceno, che, come ha sostenuto il Gilson (cit., pp. 59-60), delimita "il quadro all'interno del quale il pensiero cri- stiano dovrà oramai mantenersi" - avendo, aggiungiamo, avuto poi la Chiesa di Roma il sopravvento. Crediamo in un solo Dio, padre onnipotente, fattore delle cose tutte, delle visibili e delle invisibili. E crediamo in un sol nostro Signore Gesu Cristo, figlio di Dio, nato unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre (èx -t~ç oòa(ocç -tou 'ltot-tp6ç ), Dio da Dio (0r:òv èx 0r:ou ), luce da luce, Dio vero da vero Dio, generato non fatto (yevv'rj6~not où 'ltOL'rj6énot), della stessa sostanza (OfLOUaLov - homusion) del Padre (consustanziale al Padre), mediante cui tutte le cose sono nate, quelle che sono in cielo come quelle che sono in terra; il quale, per noi e per la nostra salvezza, è disceso, si è incarnato, ha sofferto, è resuscitato il terzo giorno, è risalito nei cieli, e verrà a giudicare i vivi e i morti. E crediamo nello Spirito Santo. Quanto a coloro [ariani] che dicono: tempo vi fu in cui egli non era, o che non era prima d'esser statà generato, o è nato dal nulla, o è di un'altra ipostasi o di un'altra sostanza, o che il Figlio di Dio è creato (x-tLa't6v ), o mutevole, 304 www.scribd.com/Baruhk   o sottomesso al cangiamento, tutti costoro la Chiesa cattolica e apostolica di Dio li anatemizza. d) Dalla religione di Stato di Giuliano imperatore al Cristiane- simo religione di Stato. Il "neoplatonismo" di Giuliano e la funzione del mito. Sa/lustio. L'Impero d'Occidente tra il IV e il V secolo. Alla morte di Costanzo, avvenuta nell'ottobre del 361, in Asia Minore, unico imperatore fu riconosciuto il cugino di Costanzo, Flavio Claudio Giuliano/0 nato nel 331, figlio di Giulio Costanzo, fratello di Costan- tino l. Il padre e i fratelli di Giuliano, tranne Gallo, erano tutti caduti vittime delle stragi familiari perpetrate da Costanzo. Anche Gallo, scampato alle prime stragi, insieme a Giuliano, verrà condannato a morte da Costanzo al tempo in cui l'imperatore, per venire a com- battere Magnenzio (cfr. sopra), aveva nominato Gallo, Cesare per l'Oriente. Gallo, sospettato da Costanzo d~ volersi impadronire del trono in Oriente, fu fatto uccidere nel 354. Costanzo, allora, tornato in Oriente, fu costretto a nominare Cesare Giuliano, mandandolo nelle Gallie (355) ad ostacolare le pressioni dei Franchi e degli Alemanni. Alla morte del padre e degli altri fratelli (337), Giuliano aveva sei anni. Insieme al fratello Gallo fu dal sospettoso Costanzo tenuto semi- prigioniero ed affidato ad Eusebio vescovo di Nicomedia che lo allevò nella piu ferrea disciplina cristiano-ariana e nell'odio contro le religioni e le culture non cristiane. Morto Eusebio (342), i due fratelli vennero relegati in una villa della Cappadocia, ove ebbero per maestri ferventi cristiano-ariani, ligi agli ordini impartiti da Costanzo, che non voleva che i due giovani conoscessero e leggessero i grandi autori dell'anti- chità. Uno dei maestri di corte, tuttavia, un certo Mardonio, in segreto fece leggere a Giuliano alcune opere di poeti e di filosofi greci. :t: facile rendersi conto di come tutto un mondo nuovo (e proibito) si aprisse in tal modo a Giuliano, oppresso dall'insegnamento cristiano voluto dall'alto e proveniente da uomini ch'erano suoi nemici. Nel 10 Sulla vita di Giuliano (Flavio Claudio), nato a Costantinopoli nel 311, morto, in battaglia, il 26 luglio del 363, per ciò che qui interessa, confronta sopra, il testo. Di Giuliano si sono conservate le seguenti opere: Orazioni, I-VIII: particolarmente importanti sono l'Orazione IV al rt: Elios, l'Orazione V alla Dt:a maàrt:, l'Orazione VI Contro i cinici ignoranti, in cui si difendono gli antichi cinici, l'Orazione VII Contro il cinico Eraclio, l'Orazione VIII Consolatoria pt:r la partt:nza di Sallustio, l'Orazione II Sul sovrano idt:alt: (furono scritte in epoche diverse: le Orazioni I e III, panegirici di Costanzo Il e di Eusebia, nelle Gallie, tra il 355 e il 356; l'Orazione II, nell'inverno 358-359; l'Orazione VIII nel 361; le Orazioni V! e VII nel 362; le Orazioni IV' e V sulla fine del 362); Lettt:rt:: agli Att:nit:si (in numero di 4, scritte nell'autunno del 361) e al filosofo Tt:mistio (del 362); l Cuari; Misopogon; numerose lt:ggi. Tra i molti fram- menti di opere perdute particolarmente interessanti quelli dello scritto Contro i Cristiani e di una lettera ad un sacerdote. Sono andati perduti un libro Sulla battaglia di Strasburgo e le Lt:ttt:rt: ai Corinti, ai Laet:dt:moni, al St:nato di Roma. 305 www.scribd.com/Baruhk   Cristianesimo, da allora, Giuliano vide da un lato una religione fana- tica, torbida, chiusa in discussioni teologiche assurde, oppressive, dal- l'altro lato lo strumento di un potere politico che nella sua intolleranza - di questi anni, tra l'altro, è l'opera di Firmico Materno, in cui si chiede all'imperatore Costanzo la distruzione e la persecuzione dei pagani - avrebbe annullato la possibilità di una religione universale, ove trovassero il loro posto le varie religioni e culti, espressioni tutte di un unico e naturale sentimento religioso. Nominato Gallo Cesare, Giuliano era stato chiamato da Costanzo a Costantinopoli perché vi compisse gli studi superiori, ma sotto la guida del rètore cristiano Ecebolio, noto come il "dispregiatore degli dèi." A Nicomedia, dove, poco tempo dopo, Costanzo volle che Giuliano tornasse, Giuliano, in segreto - ufficialmente si finse fervido cristiano, entrando perfino nel clero di Nicomedia - prese contatto con il celebre rètore Libanio (di Antiochia, vissuto dal 314 al 393 circa), del quale leggeva le lezioni, passategli da un uomo ch'egli aveva prezzolato a tale scopo. Attra- verso Libanio - il quale dirà poi che Giuliano aveva compreso meglio di coloro che lo avevano ascoltato il significato del suo insegnamento, del platonismo, della religiosità greca - e attraverso l'insegnamento dd neoplatonico Massimo di Efeso (cfr. sopra), che, in segreto, andò a trovare ad Efeso, Giuliano si approfondi nella lettura dei poeti, dei filosofi, nella scienza magica e teurgica· (per i rapporti tra Giuliano e i filosofi della scuola neoplatonica di Pergamo e di Siria, cfr. sopra), nei segreti degli Oracoli Caldaici (cfr. sopra). Morto Gallo, nominato_Cesare e inviato nelìe Gallie, Giuliano sgo- mento dapprima di dovere affrontare la vita pratica, militare, politica ("non è affar mio," esclamò, "hanno messo la sella su di una vacca"), si dimostrò abile condottiero (nel 35.7 sconfisse ad Argentorati gli Ale- manni), e diplomatico (riusd ad accordarsi con i Franchi), mentre si adoperava a sanare contrasti politici e ideologici, sostenendo il valore di un'unica intesa nella coscienza di un'unica cultura e tradizione, messa in discussione dall'unilateralità e dall'esclusivismo dei Cristiani. Costan- zo nel 359, preoccupato per l'attacco ai territori romani da parte di Sapore II di Persia ch'era riuscito a passare in forze il Tigri, chiese a Giuliano aiuti. Giuliano, intanto, aveva promesso ai barbari incamerati nel suo esercito che non avrebbe mosso dalla Gallia i Galli. Costanzo premette. In Gallia scoppiò una rivolta contro Costanzo e Giuliano fu acclamato Augusto. Giuliano chiese a Costanzo di riconoscerlo Augusto. Costanzo tacque. Giuliano si mosse verso l'Illiria. Costanzo decise allora di andargli incontro, ma durante il viaggio, nell'ottobre del 361 morL Giuliano fu riconosciuto allora unico Imperatore. È sembrato opportuno, sia pur brevemente, discorrere della vita e 306 www.scribd.com/Baruhk   della prima formazione di Giuliano perché ciò spiega, in parte almeno, l'atteggiamento non cristiano del cristiano Giuliano, e le sue piu pro- fonde ragioni. Non sembra cosi errato dire che la religiosità di Giu- liano, la sua esigenza di una pacificazione cattolica, l'esigenza di certo cristianesimo stesso, nel quale non a caso Giuliano fu allevato, sta nella conversione di Giuliano, nella cosiddetta apostasia di lui, nel suo negare il Cristianesimo come unica e vera religione. In Plotino, invece, mediato attraverso Giamblico, Giuliano vedeva la possibilità di un'au- tentica religione universale razionalmente fondata, capace di accogliere in sé i miti e le religioni della tradizione greco-romana, anche il Cri- stianesimo, in quello ch'era l'aspetto piu plotinico (non ariano) del Cristianesimo, pur sapendo che tali religioni sono in realtà miti, ma simbolicamente validi ad avviare alla comprensione degli dèi e delle divinità, momenti, estrinsecazioni dell'unica legge divina (di qui, an- cora una volta, entro l'àmbito del neoplatonismo, il significato dato da Giuliano all'elioteismo e all'antico culto della Dea madre: cfr. in par- ticolare le Orazioni IV, al re Elios e V alla Dea Madre degli Dèi; sul significato dei miti cfr. in particolare l'Orazione VII, contro Eraclio). Entro questa visione di un tutto ordinato, si scandiscono dall'Uno tutti gli aspetti della realtà. Oltre tutto l'Uno, ragion d'essr:re del tutto, esso è il sovraintelligibile, l'Idea degli esseri, il Bene: "questo invero, sia che dobbiamo designarlo come ciò che sta oltre l'Intelletto, oppure come l'Idea dell'Essere, intenderrdo cosi tutto il mondo intelligibile, o chiamiamolo anche l'Uno, per il motivo che l'Uno sembra in qual- che modo anteriore a tutte le cose, oppure per usare il termine solito di Platone, il Bene, appunto questa causa uniforme di tutte le cose è fonte per tutti gli esseri di bellezza, di perfezione, di unità e di po- tenza irresistibile" (Al re Elios, 132d). La prima distinzione dell'Uno è l'Intelletto, nei suoi due momenti dialettici, in senso giamblicheo, di mondo intelligibile - mondo delle idee - e di mondo intellettuale - le attività pensanti, - donde gli dèi intelligibili, di cui primo, figlio del Bene, secondo il mito platonico, è il Sole, e da questi gli dèi intel- lettuali, al di sotto dei quali si scandiscono il mondo sensibile, le divi- nità visibili, gli astri, il tutto tenuto in unità, simbolicamente dal Sole, riflesso dalla luminosità dell'Uno, che dà essere, vita e intelligi- bilità a tutto, onde il dio Sole è termine medio· tra il mondo intelli- gibile e il mondo sensibile, mediante cui la luminosità dell'Uno si viene, per cosi dire, materiando nella luce di cui tutto è costituito. La luce alla sua volta è una forma di questa per cosf dire materia, che .è sostrato e segue l'estensione dei corpi luminosi. E della luce stessa che è incorporea i raggi sarebbero in certo qual modo il vertice e come il fiore. 307 www.scribd.com/Baruhk   E appunto secondo l'opinione dei Fenici che sono sapienti e informati nelle cose divine:, lo splendore luminoso ovunque diffuso è la incontaminata estrin- secazione attiva del puro Intelletto... Il mondo intelligibile forma assolutamente un'unità, preesiste dall'eterno a ogni cosa e tutto abbraccia insieme nella sua unità. E non è forse anche l'intero universo un solo organismo vivente, tutto ripieno d'anima e di spirito, un tutto perfetto costituito di parti per- fette? [cfr. Tim~o, 33a]. Vi è dunque una duplice perfezione unificatrice, cioè quella unità che comprende nell'uno tutto ciò che esiste nel mondo intelligibile e quella che intorno al mondo visibile si concentra in una sola e medesima perfetta natura. Nel mezzo sta la perfezione unificatrice di Elios Re, la quale risiede tra gli dèi dotati di intelletto. E successivamente nel mondo degli dèi intelligibili vi è una specie di forza avvincente che tutte le cose coordina verso l'unità. La sostanza del quinto elemento che si muove nella propria orbita tiene riunite tutte le parti e le stringe tra loro... Queste due sostanze che cooperano alla connessione, delle quali l'una appare nel mondo intelligibile, l'altra nel sensibile, Elios Re le congiunge in una sola... (A Elios, 134a-139b-c). Entro questa visione di un tutto ordinato, dall'Uno ai molti, limiti e ombre nell'unità luminosa del tutto, ove, indipendentemente da qual- sivoglia intervento miracoloso, l'anima, per limitata che sia, per presa che sia dalle cose, per dimentica che sia della sua origine, ha pur sempre in sé una scintilla divina, è un seme dell'unico Dio, di tutti padre ("certo io invidio pure la sorte fortunata di ~olui che poté avere dalla divinità un corpo costituito da un seme divino e profetico,... ma so anche che di tutti gli uomini Elios è il padre comune": A Elios, 131b-c), ricordandosi del quale può, con le sue forze, purificarsi, tor- nare da dove è venuta. Di qui l'appello di Giuliano a una serietà di vita, da un lato intesa come mestiere e dovere, in. una ideale vita stoico- cinica (non a caso Giuliano ne I C~sari si sofferma con simpatia sulla vita e sull'opera di Marco Aurelio, ch'egli prende a modello del suo mestiere di imperatore, mentre si compiace di ·ricordare i cinici del tempo antico: cfr. Oraz. VII Contro il cinico Eraclio e Oraz. VI Contro i cinici ignoranti, in difesa dell'antico cinismo), dall'altro lato come purificazione, mediante cui liberarsi dai limiti terreni, riscoprire l'anima, riconducendola, anche attraverso pratiche magico-teurgiche (cfr. sopra il significato piu profondo é nient'affatto torbido della magia e della teurgia), alla patria celeste donde è venuta. Il che non signifi- cava per Giuliano negare il Cristianesimo, particolarmente il çristia- nesimo non ariano, in quanto religione, ma si in quanto unica e vera religione, non mitica come le altre, nella sua pretesa d'essere l'unica verità rivelata da Dio (si vedano i frammenti dello scritto Contro i Cristiani, ove riprendendo gli argomenti di Celso e di Porfirio con ·308 www.scribd.com/Baruhk   molta acutezza Giuliano, confrontando il Vecchio e il Nuovo Testa- mento con la teologia greca, cerca di mostrare da un lato le contrad- dizioni del Vecchio e del Nuovo Testamento, e il loro significato se assunti anch'essi come miti popolari, dall'altro lato data la loro parzia- lità, la loro intolleranza esclusivistica, l'impossibilità che sul Cristiane- simo si fondi una religione universale, tale da pacificare e moraliz- zare, in unità, gli aspetti molteplici in cui si presenta la vita religiosa nei suoi culti diversi). Di qui sul piano politico di una organizzazione religiosa, di contro all'intolleranza cristiana, la tolleranza di Giuliano, anche nei confronti della religione cristiana; Giuliano, sotto questo aspetto, non condannò né perseguitò i Cristiani, mantenendo validità legale all'Editto di Milano (313). Volle solo, proprio in nome di quel- l'Editto, che anche i Cristiani rientrassero nell'ordine, si adeguassero ad essere considerati come facenti parte di una certa religione, posta, al pari delle altre, entro i termini dell'unica organizzazione politica delle varie religioni, nell'istituzione - a imitazione dell'organizzazione ecclesiastica cristiana - di un vero clero professionale e di una gerar- chia religiosa, ignota ptima di allora alle religioni greco-romane. Si capisce cosi come una delle prime misure prese da Giuliano sia stata quella di far tornare nelle loro sedi tutti coloro che per motivi reli- giosi erano stati esiliati da Costanzo (tra questi vi fu, in principio, anche Atanasio) e che fossero restituiti ai legittimi proprietari i beni confiscati per motivi religiosi (di ciò godettero particolarmente i templi pagani ai quali erano stati tolti tesori, terre, edifici, passati a comunità cristiane). Giuliano, infine, decretò la chiusura delle scuole rette da grammatici, rètori, filosofi cristiani (Editto del 362), sostenendo che il loro unilaterale insegnamento, il loro escludere poeti e filosofi antichi era un danno per l'insegnamento stesso, per la libera ricerca. Naturalmente tutto ciò apparve da parte cristiana una persecu- zione, mentre molti che in precedenza erano stati danneggiati dai cri- stiani, sentendosi appoggiati dall'Imperatore, si dettero a vendette che portarono anche all'uccisione di non pochi cristiani (ad Alessandria la folla uccise il vescovo Giorgio). In realtà, l'intento di Giuliano non fu un mero ritorno al pas- sato, come troppo superficialmente è stato detto, giudicando solo dal punto di vista della reazione cristiana, non fu un'accademica restaura- zione di culti e religioni morti da tempo. Esso fu piuttosto - anche se in termini eccessivamente scolastici,...... dettato dall'esigenza profonda, com- prensiva di una situazione storico-culturale ben precisa, di una pacifica- zione di ideologie, fomite di lotte e di conflitti, in una comune religione di Stato, entro cui potessero convivere in armonia culti e riti diversi, ri- spondenti tutti ad un'unica naturale religione, che Giuliano, sulla scia dei 309 www.scribd.com/Baruhk   suoi amici neoplatonici di Pergamo e di Siria, vedeva realizzabile entro i termini della filosofia plotinico-giamblichea, corposamente e mitica- mente traducibile nei termini della religione solare. Non solo, ma un'at- tenta lettura delle opere di Giuliano, se da un lato rivela il suo intento politico, di instaurare una religione di Stato, in nome della tolleranza, riportando con ciò anche il Cristianesimo entro i termini legali (tale il significato del mantenimento dell'Editto di Milano), dall'altro lato rivela come Giuliano si sia mos-so entro l'àmbito di quella koinè cultu- rale di cui parlavamo e per cui non poche volte è difficile - e non solo per Giuliano - distinguere tra testi che poi nelle loro conclu- sioni sono nettamente cristiani, da testi che nelle loro conclusioni sono irriducibili alla visione ed alla concezione cristiana. E ciò particolar- mente vale sia quando si tratta di immagini (in special modo quelle tratte dalla luce), sia quando si tratta della superessenzialità dell'Uno Dio. E cosi, che gli dèi di Giuliano, sulla linea stoica e neoplatonica, siano intesi come simboli e che i culti e le descrizioni delle religioni siano intesi come miti, senza di cui in realtà le religioni stesse non sarebbero, e che dèi e miti vadano interpretati allegoricamente, risulta non solo dallo stesso Giuliano, ma, piu chiaramente· ancora, da una breve opera, Sugli dèi e sul mondo, di un intimo amico di Giuliano, Sallustio,11 che con molta finezza discute il significato del mito, entro l'àmbito di una precisa concezione neoplatonica e solare. Gli dèi (en- cosmici e ipercosmicz) sono considerati come emanazioni e "forze" visibili che derivano dall'invisibile Unico Dio, causa delle cause, super- essenziale, potenza assoluta, entro cui si scandisce in eterno il ritmo di tutta la realtà (coeterno a Dio e in Dio è decisamente detto il mondo), unico mondo, molteplice e uno nell'Uno, e dove il "male," 11 Si è per secoli molto discusso sull'autore del breve trattato D~gli dèi ~ del mondo. Si è sostenuto che fosse opera di un cinico sofista del v-vi secolo (Sallustio di Emesa); il Naudé pensò si trattasse di un tardo autore stoico; il Wilamowitz di un Sallustio grammatico, autore di argomenti sulle tragedie di Sofocle; infine, da Orelli a Mullach, a Cumont, a Tillemont, si è sostenuto trattarsi di un Sallustio, alto funzionario dell'Im- pero e amico intimo di Giuliano Imperatore. Poiché intorno a Giuliano ruotarono due Sallusti, Flavio Sallustio e Secondo Sallustio, il primo prefetto delle Gallie, il secondo pre- fetto d'Oriente, si è trattato di accertare a quale dei due debba darsi la paternità Degli d~ e del mondo. Se il Cumont propendeva per il primo, spiegando l'epiteto di filosofo riportato da tutta la tradizione manoscritta del trattatello con una cattiva lettura dell'ab- breviazione ~À = ~Àa:~(ou per ~~Àocr6cpou; dopo che la pubblicazione della raccolta delle Iscrizioni deii'Hermann Dessau (lnscriptiones latinae selectae, !, Berlino, 1894, p. 276) ha permesso una ricostruzione esatta della carriera e delle mansioni presso Giuliano dell'uno e dell'altro Sallustio, ci si è convinti che il Sallustio autore del trattato Degli dèi e del mondo, è Secondo Sallustio ch'ebbe molti piu contatti con Giuliano, il cui scritto è senza dubbio ispirato alle opere filosofiche di Giuliano, tanto che si è fatto l'ipotesi che il Degli dèi e del mondo sia stato composto nel 362 (si confronti in particolare G. Rochefort, ln- troduction à Saloustios: Des di~u:r et du m'ar:de, texte établi et traduit par G. R., "Les Belles Lettres," Parigi, 1960). \ 310 www.scribd.com/Baruhk   si come la materia, non ha alcuna realtà positiva, ma è dovuto all'in- comprensione umana, all'ignoranza, all'unilaterale visione del tutto esteriorizzata ("non esiste alcun male positivo, si come non v'è alcuna oscurità positiva, ma solo mancanza di luce": Sallustio, XII, l) (Per l'importanza storica e per il significato anche politico, in funzione della politica di Giuliano, di questo libro di Sallustio, che il Murray ha definito una "sorta di credo ragionato, per fissare in modo convin- cente le linee generali della... religione ellenica," rimandiamo allo stesso Murray, Five Stages of Greek Religion, New York, 1955, e a G. Roche- fort, lntroduction à Saloustios, Des dieux et du monde, texte établi et traduit par G.R., Parigi, 1960.) Il tentativo di Giuliano non rimase un mero episodio, anche se alla sua morte, avvenuta in battaglia, nel 363, nella guerra contro i Persiani, con la nomina a imperatore, nel 364, di Gioviano, cristiano, crollò subito l'edificio da lui creato di un sacerdozio professionale del- l'unica religione di Stato. Sia pure in termini rovesciati, cioè nel soprav- vento della religione cristiana, si giunse, necessariamente, alla procla- mazione dell'unica religione dell'Impero (sotto Teodosio l, trent'anni circa dopo la morte di Giuliano). In realtà, la stessa concezione reli- giosa di Giuliano, la sua comprensione della necessità politica di una religione universale, che egli vedeva compromessa dall'intolleranza del Cristianesimo, erano piu vicine di quel che possa apparire a prima vist~ alle esigenze ed alla situazione politico-sociale cui, almeno in Occidente, rispondeva la forza interna - morale, organizzativa, economica - del Cristianesimo. E cosi fu. La nota decadenza politico-militare implicò una sempre piu drammatica tragedia economica. Basti ricordare che proprio in questo tempo si venne formando un sistema di rapporti fondato sull'economia chiusa e sul servaggio. Gli stipendi, i tributi e cosi via cominciarono ad essere pagati in natura (moneta l'ebbero solo funzionari e militari d'alto grado). In un sempre maggiore aggravio fiscale per venire incontro alle spese militari, per evitare che le popo- lazioni non pagassero le imposte, si venne via via costringendo cia- scuno a non trasferirsi piu dalle terre sulle quali lavorava. Il commer- cio si venne estinguendo, o riducendo in prevalenza al solo mercato urbano. Naturalmente le poche forze economic~e rimaste si vennero raccogliendo nelle mani dei grossi proprietari terrieri, che vennero costi- tuendo come tanti piccoli stati nello Stato che di fronte a loro ·non aveva piu potere. In tale tipo di economia, già feudale, il potere dello Stato venne sempre piu spezzandosi nelle mani di ciascun singolo proprietario. Fuggire via dall'Impero, presso i barbari, o, se possibile, raccogliersi sotto la protezione dei proprietari, sembrò il mezzo mi- gliore per evitare lo Stato, che, in effetto, non esisteva piu. 311 www.scribd.com/Baruhk   E intanto - scrive Salviano nel v secolo - i poveri, le vedove e gli orfani, spogliati e oppressi erano giunti a un punto di disperazione tale che molti, pur appartenendo a famiglie note e avendo ricevuto una buona educazione, erano costretti a cercare rifugio presso i nemici del popolo romano per non rimanere vittime di· ingiuste persecuzioni. Essi si recavano presso i barbari in cerca dell'umanità romana, poiché non potevano sopportare presso i Romani l'inumanità barbara. Sebbene essi fossero estranei, per costumi, per lingua, ai barbari presso i quali fuggivano, sebbene fossero colpiti dal loro basso livello di vita, nonostante tutto risultava loro piu facile abituarsi ai costumi barbari che sopportare la ingiusta crudeltà dei Romani. Essi si mette- vano al servizio dei Goti o dei Bagaudi [coloro che in Gallia, particolarmente contadini e schiavi, avevano costituito un forte e autonomo movimento anti- romano: in celtico bagaudi significa "combattenti," "lottatori"], e non se ne pentivano, preferendo vivere liberamente con il nome di schiavi, piuttosto che essere schiavi mantenendo soltanto il nome di liberi (De gubernatione Dei, V). Chi non poteva andar via prefer1 rifugiarsi presso i grandi proprie- tari terrieri. Tale decadenza e tale crisi portarono dietro a sé la sempre piu sentita esigenza di un potere gerarchicamente costituito. La Chiesa, almeno in Occidente, sia per la sua organizzazione e gerarchizzazione, sia per essere divenuta tra i proprietari uno dei piu grandi, sembrò offrire l'unica possibilità di salvazione, da un lato accogliendo nel suo seno (clero), dall'altro lato proteggendo il popolo cristiano (laici), sosti- tuendosi cosi al potere centrale, oramai in realtà inesistente. Non a caso, alla fine, Teodosio I (378-395) proclamò nel 380, con un editto, che l'unica religione dell'Impero doveva essere "quella che il divino apostolo Pietro aveva trasmesso ai Romani," decretando perciò illegali tutte le altre religioni, che vennero perseguitate e i cui beni vennero confiscati, mentre i templi venivano distrutti. Dopo Teodosio, con il definitivo rompersi dell'Impero in due, con l'effettivo esaurirsi del po- tere politico in Occidente e con il lento prevalere dei barbari, con la caduta di Roma (410), tanto piu evidente sembra la linea attraverso cui. l'Impero di Roma si trasformò nell'Impero cristiano-barbarico, fino ad una sua qual sistemazione con Teodorico. Dopo la morte di Giuliano, intanto, ripreso il sopravvento il Cri- stianesimo, in seno alla Chiesa piu violenti si fecero i contrasti tra ariani e ortodossi, in un conflitto che mise a repentaglio l'unità della Chiesa. Non a caso, proprio per il pericolo che l'unità della Chiesa si rompesse, determinando piu religioni, piu fedi, esaurendo cosf le sue forze politiche, Ottato di Milevi, cattolico africano, sia pure in forma paradossale, combattendo contro la tesi donatista, sostenuta da Parme- niano, vescovo donatista di Cartagine, in un suo libro contro i catto- 312 www.scribd.com/Baruhk   !ici, secondo cui la religione cristiana nulla deve concedere allo Stato, rimanendo esperienza di pochi eletti, profondamente personale e indi- viduale, poteva esclamare che, invece, la Chiesa doveva divenire lo Stato, anche a costo di subordinarsi allo Stato (De schismate Dona- tistarum, III, 3: il De schismate fu composto nel 365 circa). Ancora una volta, conflitti teologici rispecchiano piu profondi e aspri conflitti politici. Entro questi termini, nella polemica tra atanasiani e ariani, assunse un suo particolare significato il rifarsi o meno alla concezione neoplatonica-plotinica, mediante cui si venne delineando una piu pre- cisa koinè culturale. Di qui l'interesse di vedere ora, sia pur nelle sue linee essenziali, l'ultima formazione di tale koinè culturale, le sue com- ponenti, il conflitto tra ortodossi e ariani, la diffusione di un certo "neoplatonismo" in Occidente, il costituirsi del neoplatonismo di Ales- sandria e di Atene, insieme alla funzione data ai repertori e alle sil- logi, e particolarmente a certi ben precisi testi di Aristotele e della logica del primo stoicismo. Caio Mario Vittorino. Firmico Materno. Teone di Alessandria. \.ltrettanto fondamentali, relativamente all'area di lingua latina, furono, ntro i termini della preparazione culturale e per la circolazione di :lee e di testi in Occidente, gli scritti di Mario Vittorino. E qui va :nuto presente che Mario Vittorino 8 - nato in Africa, nel 300 circa, 8 Caio Mario Vittorino, nato nell'Africa proconsolare verso il 300, mori a Roma lal 362 circa si perdono le sue tracce). Maestro di grammatica e di retorica prima in Erica, a Roma poi, dove godette di notevole fama (gli fu eretta una statua nel foro 1iano: cfr. Agostino, Confessioni), nel 355 si conveni al Cristianesimo (sulla sua cun- rsione cfr. la celebre pagina delle Confessioni di Agostino: VIII, 4). Nel 362, per il creto di Giuliano, che proibiva ai Cristiani d"insegnare retorica, fu costretto a chiudere sua scuola. Di lui restano: Ars grammatica; Commento al "De inventiont:" di Cicerone; De 335 www.scribd.com/Baruhk   e formatosi in quelle celebri scuole di retorica - fu innanzi tutto mae- stro di retorica, prima in Africa, poi, al tempo di Costanzo (337-361) in Roma, dove ebbe numerosi discepoli di alto lignaggio, dove sali in grande fama; tanto che, in suo onore, fu eretta una statua nel foro traiano (cfr. S. Agostino, Confessioni, VIII, 2, 3). In parte all'epoca del- l'insegnamento in Africa e in parte all'epoca del primo insegnamento a Roma, risalgono le opere di Vittorino a carattere grammaticale, re- torico, logico-retorico. Tali opere, anzi, vanno vedute entro l'àmbito dell'insegnamento della retorica e in funzione di quello, ed è entro i termini dell'insegnamento delle scuole grammatico-retorico-logiche latine, entro il loro aspetto scolastico formale che assumono un loro particolare significato. Se cosi. da un lato Mario Vittorino, inteso a formare uomini di cultura, compose un'Ars grammatica e com- mentò il De inventione e i To[iici di Cicerone, dall'altro lato tradusse il De interpretatione e le Categorie di Aristotele, di cui fece anche un commento, componendo inoltre due scritti di logica, il De definitio- nibus e il De syllogismis hypotheticis, mentre traduceva I'Isagoge di Porfirio. Tutti questi scritti e le traduzioni delle opere piu gramma- tico-formali della logica aristotelica, rivelano· molto chiaramente che lo studio e l'insegnamento di Vittorino sono volti a determinare i quadri dei possibili discorsi, le condizioni su cui fondare, mediante le defini- zioni, sulle quali si basa l'accordo, uri tipo di discorso, coerente in sé, e perciò verace, mediante cui convincere. Di qui l'importanza data da Vittorino da un lato al metodo retorico-filosofico di Cicerone e, dal- l'altro lato, al sillogismo ipotetico di origine teofrasteo-stoica, e, perciò, in quanto studio delle forme grammatico-linguistiche che permettono i giudizi, alle Categorie e al De interpretatione di Aristotele, che non a caso Vittorino considera secondo l'aspetto formale a cui aveva dato l'av- vio I'Isagoge di Porfirio, interpretata in chiave ciceroniana. Sotto que- sto aspetto, le tecniche dei discorsi, le loro strutture, intrinsecamente . necessarie, costituentesi, attraverso le definizioni, in quadri (t6poz), e in sillogismi, sono neutre, indipendenti da quelle che possono essere le strutture della realtà. Negli anni del suo insegnamento, in Africa, e nei primi a Roma, sembra che Vittorino apertamente ·si opponesse al gratuito passaggio definitionibus; la cosiddetta Enneade di Vittorino, composta di nove opere teologiche: tre trattati contro gli ariani (Contro Ario, del 358; Della generazione del Verbo divino, del 358; De homoousio recipiendo, del 360); tre inni sulla Trinità (del 360); tre com- menti alle Epistole di Paolo ai Galati, agli Efesini e ai Filippesi (dopo il 360). Perdute sono andate le seguenti opere: il Commento ai Topici di Cicerone, la tra- duzione delle Categorie c del De interpretatione di Aristotele, la versione dell'/sagoge di Porfirio (ricostruibile attraverso la discussione che ne fece Boezio), la versione di parte almeno delle Enneadi di Platino, il De syllogismis hypotheticis. 336 www.scribd.com/Baruhk   del Cristianesimo dal piano logico al piano della fondazione del discorso su di un atto volontario e irrazionale. Solo che la lettura dei testi biblici; fatta da Vittorino, testimonia Sant'Agostino (Confessioni, VIII, 2 sgg.), per dimostrare la contraddittorietà della tesi ebraico-<:ristiana e per altro verso l'incontro, in Roma, con i libri dei neoplatonici (sembra che Vittorino abbia tradotto alcuni testi di Platone e, forse, le Enneadi di Platino, su cui si sarebbe poi formato Sant'Agostino), lo avrebbero condotto a questa triplice considerazione: l. La retorica, valida appunto finché è neutra, se tale resta risolvendo tutta la realtà in parole, si taglia dietro ogni possibilità di comprensione del vero, di contatto con il senso della realtà; 2. Nell'insegnamento neoplatonico si trova che la condi- zione stessa del discorso si coglie in una conversione dell'anima su se stessa rivelante alla fine che quella condizione è la fondazione stessa del tutto che trascende dal di dentro; 3. Si riconosce alla fine, che la possibilità della "conversione," dell'anima che ritrova se stessa, la capa- cità del riscatto dal limite, è dovuta alla rivelazione, all'intervento del Cristo. Vittorino si fece cristiano, pubblicamente smentendo il se stesso dei primi anni, in Roma, nel 357 circa (cfr. S. Agostino, cit.). Dopo di allora, obbligato, poi, a chiudere la sua scuola dalla legge di Giuliano, nel 362, si appartò dalla vita pubblica, dedicandosi esclusivamente da un lato a commentare le Lettere di Paolo ai Galati, agli Efesini e ai Filip- pesi, dall'altro lato a giustificare, usando le tesi neoplatoniche sull'Uno, il dogma della Trinità e della consustanzialità, di contro alla tesi, logi- camente sostenuta, dell'ariano Candido. Di qui le ultime opere di Vit- torino: Della generazione del Verba divino (358), in risposta alla Gene- razione divina di Candido (lucida operetta in cui, sulla scia di Euno- mio, si sostiene, ammesso Dio assoluto e perfetto, ingenerato e immo- bile, che impossibile, logicamente contraddittorio è ammettere che il Verba di lui sia ad un tempo generato e ingenerato, e quindi ad un tempo sia e non sia della stessa sostanza del Padre, sia e non sia essere); quattro libri Contro Aria (358); un breve trattatello De homoousio re- cipiendo (360). La risposta a Candido di Mario Vittorino, si fonda, rifacendosi al concetto di Uno di Platino, su di un paralogismo e con- seguentemente, posta una certa definizione (non sostanziale, ma ver- bale), su di un sillogismo ipotetico: se Dio è l'Essere, la ragion d'essere del tutto, Dio è di là dallo stesso essere, indefinibile in sé, in quanto ha in sé tutte le possibili definizioni, e, perciò tutte le possibili esistenze, anche l'esistenza di se stesso. Prima di ogni essere, prima di ogni esi- stenza, unità in cui tutto è indistÌnto, uno nell'uno ("hoc enim unum ante on," "supra omnem existentiam, supra omnem vitam, supra omncrn conoscentiam, super omne on et pantòn 6nt6n ònta"), di Dio neppure si può dire che sia ingenerato, o meglio ch'egli abbia una certa 337 www.scribd.com/Baruhk   sostanza, un certo intelletto, neppure che è essere, anzi, rispettiva- mente agli esseri, si può dire, forse, meglio ch'egli è non essere (Gene- razione del Verbo divino, 12), cioè il suo essere sta nella sua potenza di trarre fuori da sé l'essere di riconoscersi nell'essere, tutto potenzial- mente in lui. La potenza di Dio è, allora, la sua essenza, la sua crea- zione, onde l'essere che scaturisce dalla potenza di Dio, che è oltre l'essere, non-essere, si genera dal non essere, da Dio, è creazione ex nihilo. Il Verbo di Dio, dunque, il suo stesso riconoscersi, è ad un tempo generato da Dio, figlio di Dio, ed è Dio esso stesso, in quanto esserci di Dio ("Deus enim prima causa est, non solum aliorwn omnia causa, sed sui ipsius est causa. Deus ergo a semetipso et Deus est" : 18). Come poi il Figlio sia nel Padre e il Padre nel Figlio, e l'uno e l'altro non siano l'uno accanto all'altro, ma uno ("neque solum simul ambo, sed unwn solum et simplex") non è - dice Vittorino - necessario ricer- care. "Sed hoc non oportet qu:rrere, sufficit enim credere" (cfr. Gilson, op. cit., pp. 124-25). Sembra ora chiaro in che senso l'aspetto formale della retorica e della logica, la dialettic~ usata in senso ciceroniano e stoico, la contrapposizione accademica delle ipotesi, utile per tutti, sul piano della formazione culturale dei futuri dirigenti, potesse ad un tempo servire a convincere della validità dell'ipotesi cristiana, oltrepas- sando in una convinzione del fondamento non razionale della ragione, la neutralità sofistica della retorica, senza, con questo, togliere nulla allo studio di come funzionano i discorsi umani, di quali sono le defi- nizioni e cosi via (e per ciò potevano servire certi scritti di Aristo- tele, si come certi altri degli stoici). Tutto questo dovrà tener presente lo studioso di Sant'Agostino, il cui itinerario si avvicina non poco a quello di Vittorino, dal quale Sant'Agostino stesso confessa di aver molto ripreso, e per mezzo del quale conobbe gli scritti di Plotino, ma anche chi vada studiando da un lato la formazione del curricolo degli studi al principio del Medioevo (e qui pensiamo in particolare a Boe- zio), dall'altro lato la teologia negativa nei suoi rapporti col neoplato- nismo, in special modo entro i termini di Plotino e di Proclo, usati in funzione cristiana, e la questione relativa del dio essere oltre l'es- sere, non essere che da sé crea se stesso e il tutto (interpretazione neoplatonica della "creatio ex nihilo" : e qui pensiamo agli scritti dello pseudo Dionigi, a Massimo il Confessore, per giungere fino a Giovanni Scoto Eriugena). Ad ogni modo, Mario Vittorino ebbe nel mondo di lingua latina una notevole influenza relativamente alla formazione di quella koinè culturale di cui parlavamo, nel delineare, insieme a Macrobio e a Cal- cidio, un complesso di discussioni indirizzate su certi testi di Aristo- tele, su di un certo modo di interpretare Cicerone (già Lattanzio) e 338 www.scribd.com/Baruhk   Virgilio (cfr. particolarmente i Saturnali di Macrobio), sulla possibi- lità di riprendere Aristotele (relativamente ai problemi del mondo sen- sibile e dell'anima. nei suoi aspetti vegetativo e sensitivo), interpre- tandolo, poi, come inverantesi mediante il nooplatonismo. Di qui, ancora una volta, sul piano dell'insegnamento scolastico e della prepa- razione culturale, la funzione data ai repertori, alle sillogi, a certe siste- mazioni scientifiche del sapere antico. A tal proposito, per ciò che riguarda la diffusione di certi problemi nel mondo di lingua latina e la lettura determinante di certi testi è )pportuno ricordare la traduzione in latino della Parafrasi degli Ana- 'itici di Aristotele di Temistio, dovuta al neoplatonico Nettio Agorio ~retestato, alto funzionario (fu senatore, questore, pretore, governa- ore della Tuscia e dell'Umbria, consolare della Lusitania, proconsole :lell'Ocaia, prefetto pretorio dell'Italia e dell'Illirico, designato console per il 385, ma morto nel 384), amico dell'Imperatore Giuliano, non troppo tenero verso l'irrazionalismo del Cristianesimo. E accanto al nome di Pretestato va ricordato il nome di Firmico Materno. L'im- portanza di Giulio Firmico Materno 9 piu che nell'opera da lui scritta dopo la sua conversione al Cristianesimo, il De errore profanarum religionum (una violenta diatriba contro il politeismo, con cui iden- tifica tutte le posizioni non cristiane e per cui chiede agli imperatori Costanzo e Costante di perseguitare e distruggere chi non è cristiano), sta nell'opera pubblicata tra il 334 e il 337 dedicata a Lalliano Ma-· vorzio, governatore della Campaflia prima, proconsole d'Africa poi, che gli aveva chiesto un manuale di astrologia. L'opera di Firmico, in otto libri, intitolata Mathesis, è il trattato piu ampio di astrologia traman- dato dall'antichità, in una sistemazione del sapere astrologico in ter- mini neoplatonici. Vi si difende, contro le critiche di Carneade e degli scettici, la possibilità dell'astrologia come scienza: se è vero che, data la limitatezza dell'uomo, legato al corpo e alle illusioni sensibili, diffi- cili sono i calcoli e le predizioni, è altrettanto vero che, l'uomo, libe- randosi dalla sua sensibilità, in una conversione dell'anima su di sé, può ritrovando l'anima simile alla ragion d'essere del tutto, ripercor- rere le trame su cui tutto si scandisce, e può, perciò, ricostruendo l'or- dine e la necessità in cui tutto, dai cieli, alle stelle, alla terra, alle cose 9 Giulio Firmico Materno, di origine siciliana, avvocato, vir consularis, senatore, tra il 334 e il 337, per mantenere la promessa che aveva fatto a Lalliano Mavorzio, che lo aveva accolto con favore e amicizia al tempo del suo governatorato in Campania, pubblicò un'opera in otto libri, sull'astrologia, intitolata Mathcsis, dedicata, appunto, a Lalliano, allora prooonsole d'Africa (nel primo libro si difende l'astrologia dalle critiche dei neo-accademici e di Carneade; i libri II-VIII sono dedicati alla vera e propria astro- logia). Convertitosi al Cristianesimo nel 345 circa, tra il 346 e il 350 scrisse il De errore profanarum rdigionum. 339 www.scribd.com/Baruhk   si è costituito, determinare i rapporti e le influenze stellari, in cal- coli e previsioni, matematicamente esatti, mediante' cui, nell'ascesa del- l'anima fino alla divinità, ci si può liberare dai vincoli fatali, dalle in- fluenze stellari che provocano le nostre passioni e i nostri impulsi mal- vagi (libro 1). Infine, sempre sul piano della preparazione culturale e della diffusione delle idee, merita il conto ricordare, entro la linea della grande tradizione matematico-astronomica di Alessandria, il Commento alla Sintassi di Tolomeo e l'edizione delle Opere di Euclide a cura di Teone di Alessandria, vissuto ad Alessandria tra il 335 e il 400, padre dell'altrettanto celebre Ipazia, una delle maggiori rappresentanti del neoplatonismo logico di Alessandria, maestra di Sinesio, morta vit- tima della reazione cristiana, nel 415, su istigazione del vescovo Cirillo.

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